Notizie 1-15 marzo 2015
Netanyahu rischia il posto ma tira aria di grande coalizione
Likud in crisi di consensi: il laburista Herzog, alleato con la Livni, è in testa ai sondaggi con promesse di aiuti alla classe media. Rischia di vincere ma di non avere la maggioranza.
di Carlo Panella
Per comprendere quello che si gioca nelle elezioni di martedì in Israele è indispensabile, ovviamente, abbandonare il punto di vista europeo, che ha ha cuore - e malamente, in modo partigiano - solo la questione palestinese e il confronto sul nucleare iraniano, e provare a ragionare come gli israeliani. Se lo si fa, si scopre che le elezioni israeliane si giocano, come è ovvio, essenzialmente sui temi economici e questa è la ragione delle difficoltà del premier uscente Bibi Netanyahu, al governo dal 2009, e dei sonda positivi dello sfidante laburista Itsaac Herzog.
L'economia israeliana, in realtà non va affatto male e la crisi non morde come in Europa, tanto che la crescita del Pil ha registrato un robusto più 7,4% nel quarto trimestre 2014. Ma gli stipendi non sono aumentati di pari passo e il 41% degli israeliani ha il conto corrente in rosso, a causa dell'alto costo della vita (il paniere dei prodotti base è superiore del 12% alla media dei paesi Ocse). Il costo della vita e soprattutto degli alloggi ha innescato nel 2011 un forte movimento di protesta sociale che continua tutt'oggi. I prezzi del mercato immobiliare tra il 2008 e il 2013 sono aumentati del 55% e nell'ultimo anno di un altro 5%. Questo significa che in media un israeliano deve destinare 148 stipendi mensili per acquistare un appartamento, contro la media di 76 in Francia e 66 negli Stati Uniti. Questo quadro è chiaro a Herzog - alleato nell'Unione sionista con Tsipi Livni - che ha puntato proprio su questi argomenti, promettendo di spendere 1,73 miliardi di dollari in due anni per ridurre la povertà, per l'impiego, la sanità, le case e altri programmi sociali. Herzog ha promesso di aiutare in particolare le categorie «sandwich» - classe media, mezza età - che fanno i conti più degli altri con il carovita e che a causa delle politiche governative si ritrovano ad accollarsi economicamente figli e genitori. Nei confronti della questione palestinese, che comunque interessa molto, anche se in seconda battuta, gli elettori israeliani, Herzog ha attuato una strategia a doppia faccia. Da una parte ha marcato le caratteristiche sioniste e patriottiche dei laburisti, che hanno portato il paese all'indipendenza e l'hanno retto sino al 1976, ma che negli ultimi anni erano state «sbiadite». Dall'altra parte, Herzog ha incontrato il leader palestinese Abu Mazen, ha criticato la politica di espansione degli insediamenti in Cisgiordania attuata da Netanyahu e ha lasciato intendere di avere consistenti carte in mano per arrivare a una soluzione di pace con i palestinesi sulla base del criterio dei due Stati. I sondaggi premiano queste scelte - e puniscono Netanyahu - e prevedono che nelle elezioni del 17 marzo l'Unione Sionista ottenga 25-26 seggi, contro i 21-22 del partito Likud del premier uscente. Buon risultato, che però non assicura affatto a Herzog e Livni la formazione di un governo, per la quale sono indispensabili quantomeno 61 seggi sui 120 della Knesseth (il parlamento di Gerusalemme), neanche con la certa alleanza col partito Yesh Atid (C'è un futuro) guidato da Yair Lapid. Tenuto conto che 13 seggi andranno probabilmente agli arabi israeliani, uniti in una sola lista, ma sempre e per sempre intenzionati a stare all'opposizione, Herzog rischia dunque di conquistare solo il diritto di ottenere per primo l'incarico di formare un governo. Ma non è detto che riesca poi a costruire un'alleanza con i tanti partiti minori (in larga parte di matrice religiosa, come il Shas) e a conquistare una maggioranza solida. E quindi prevedibile, ma non certo, che Herzog, se i sondaggi saranno confermati dal voto, tenterà la strada di un governo «di unità nazionale» con lo stesso Netanyahu, mantenendone la guida. Strada che sicuramente Netanyahu cercherà però di ostacolare. Ma lo potrà fare solo se i suoi due alleati attuali di governo, l'oltranzista Liberman e il leader dei coloni
Anche Panella, purtroppo, usa questo fuorviante termine
Bennett, dati oggi in calo, riusciranno a invertire i sondaggi e a conquistare i voti sufficienti per perpetuare la maggioranza uscente. Insomma, strada in salita per tutti.
(Libero, 15 marzo 2015)
Demenza digitale - L'ironia della rete affonda Hamas
"#AskHamas Perché i Sionisti me lo fanno vedere blu e nero se il vestito è bianco e oro?". "#AskHamas Chi è il vostro stylist, John Galliano?". "#AskHamas Che succede se starnutisce?", chiede infine qualcuno allegando una foto di un uomo dal viso completamente coperto. Questi sono solo alcuni dei tweet pubblicati in queste ore con l'hashtag #AskHamas, creato dal movimento che controlla Gaza come campagna social per riabilitarne l'immagine. Lanciata venerdì, l'iniziativa si è rivelata fin dalle prime ore un fallimento a causa sia delle parodie sia delle accuse che ha generato, legate al suo tentativo di mascherare la sua natura di organizzazione terroristica.
A rispondere alle domande degli utenti di Twitter, in inglese, sono alcuni leader di Hamas attraverso l'account appositamente creato @AskHamas, mentre l'account ufficiale @HamasInfoEn ritweetta. Tra questi anche Ismail Haniyeh, ex primo ministro dell'Autorità Nazionale Palestinese, la cui figlia è stata in cura nei mesi scorsi in un ospedale israeliano.
La campagna, in corso per cinque giorni, ha lo scopo di ripulire l'immagine del gruppo terroristico soprattutto agli occhi dell'opinione pubblica europea e di "chiarire le vere posizioni di Hamas", come affermato dal coordinatore dei media Taher al-Nounou. #AskHamas è stata infatti programmata per coincidere con un atteso appello dell'Unione Europea contro la rimozione del gruppo dalla lista delle organizzazioni terroristiche dell'UE, ha spiegato Hamas.
La campagna avrebbe dovuto essere lanciata soltanto venerdì pomeriggio, ma in realtà già nella mattinata era diventata virale. Non erano tuttavia quelle effettivamente ricevute le domande che i leader del movimento si aspettavano. I tweet, che venerdì erano già più di ventimila e continuano ad arrivare in queste ore a centinaia di migliaia, sono infatti prevalentemente parodistici, sarcastici e ironici. "AskHamas un consiglio su che iphone acquistare?". "#AskHamas Tony è morto nell'ultima scena di The Sopranos", e come questi tantissimi sono stati modi usati per prendersi gioco dell'organizzazione. Qualcuno ha addirittura riso degli errori grammaticali di alcuni manifestanti, che hanno confuso il termine "Jews" (ebrei) con "juice" (succo), domandando: "#AskHamas Quale succo odiate di più?".
Non sono però state tralasciate le questioni più serie e polemiche. Il giornalista del Tablet Magazine Yair Rosenberg ad esempio ha chiesto "#Ask Hamas Quando si terranno le prossime elezioni a Gaza?". Marco Sermoneta, ebreo romano diplomatico dell'ambasciata israeliana in Colombia, ha invece tweettato: "#AskHamas Perché avete ammazzato il mio amico e collega David Ladowski insieme a altri otto israeliani innocenti e civili statunitensi alla Henrew University il 31 Luglio del 2002?". Molte altre sono le domande di questo genere, che ricordano la responsabilità di Hamas nella morte delle tante vittime di tutti gli attentati terroristici degli ultimi anni, ma anche del cinico sfruttamento della popolazione palestinese come scudi umani. "#AskHamas In che scuola dell'Onu a Gaza dovrei mandare mia figlia, se non volessi che inciampi sulle armi immagazzinate?". "#AskHamas Come vi sentite riguardo a che uno dei vostri leader si nasconde in un lussuoso hotel di Doha mentre c'è ancora la guerra a Gaza?", chiede la giornalista del Jerusalem Post Lahav Harkov. Hamas dal canto suo risponde alle comprensibili denunce dei suoi misfatti, adducendo giustificazioni fantasiose, negando le proprie responsabilità e usando, come suo solito, la retorica della violenza: "Non abbiamo sangue ebraico sulle nostre mani, ma piuttosto il sangue di coloro che desiderano uccidere la nostra gente: i Sionisti", il macabro tweet di @AskHamas, che invoca presunti complotti sionisti per le proprie nefandezze.
Nonostante l'inatteso quanto negativo esito delle prime ore della campagna, ieri sera il profilo ufficiale di Hamas ringraziava lo stesso per l'attenzione mediatica che questo ha generato: "Grazie mille a tutti, anche quelli che volevano distrarci (hanno aiutato!)". Mentre Rosenberg ironizzava: "#AskHamas Questo hashtag e questa campagna sembrano proprio essere stati una brutta idea. Siamo sicuri che la persona che l'ha ideata non sia in realtà una spia del Mossad? Solo per dire". f.m.
(Notiziario Ucei, 15 marzo 2015)
Addio a Lia Van Leer, in lutto le cineteche di Israele
Le Cineteche di Gerusalemme, Tel Aviv e Haifa sono a lutto per la morte della loro fondatrice Lia Van Leer, che si è spenta venerdì all'età di 90 anni. "La Van Leer ha cambiato il volto della cultura israeliana in generale e del cinema israeliano in modo particolare" ha commentato la ministra per la Cultura Limor Livnat. Nel 2004 la Van Leer aveva ricevuto il 'Premio Israel', massimo riconoscimento del suo Paese.
Sospinta da un grande amore per il cinema e sostenuta da un marito di grandi possibilità economiche, a partire dagli anni Sessanta Lia Van Leer aveva iniziato a far conoscere agli israeliani i classici del cinema: prima in forma privata, poi mediante cineteche. Situata a ridosso delle Mura della Città Vecchia, a strapiombo sulla vallata Ben-Hinom (ossia la biblica "Gehenna"), la "Cinemateca" di Gerusalemme divenne sotto la sua direzione un punto di riferimento obbligato nelle lotte cittadine fra gli israeliani laici e quelli religiosi. In particolare a partire dal 1987, quando malgrado le pressioni contrarie iniziò proiezioni durante il 'riposo sabbaticò. "Lia Van Leer - scrive di lei il critico cinematografico di Haaretz, Uri Klein - era divenuta il simbolo della normalità israeliana".
(Brindisi Seventh, 15 marzo 2015)
Ebrei per capire l'Islam
Un saggio di Martin Iacobs interpella, attraverso gli scritti, i viaggiatori ebrei che prima del '500 andarono in Oriente.
di Alessandro Scafi
Medio Oriente, fine Quattrocento. Un distinto commerciante ebreo che viene dall'Italia assiste all'esecuzione di un capo beduino condannato per furto e spellato vivo. «Hanno iniziato a strappargli la pelle partendo dalle caviglie». Da buon Occidentale Meshullam da Volterra è scioccato dalla crudeltà dei despoti levantini. Uomo d'affari toscano, nota poi usanze che gli sembrano animalesche. I popoli in quei Paesi sono abbastanza puliti, perché si lavano, ma non hanno letti, sedie o tavoli; come i cammelli vanno in giro scalzi, dormono vestiti, mangiano rannicchiati per terra su una stuoia di cuoio rossastro, senza tovaglia, stoviglie o saliera, e prendendo con le mani tutti dallo stesso piatto, insieme ai servi.
Questo resoconto fa parte del corpus di documenti studiati e commentati da Martin Jacobs nel suo Reorienting the East: Jewish Travelers to the Medieval Muslim World (Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2014). Si tratta di una trentina di narrazioni di viaggio, lettere, prose e poesie scritte da ebrei che all'incirca tra il 1150 e il 1520, per commercio o pellegrinaggio, lasciarono l'Europa per visitare il tratto di terra che si estende tra l'Egitto e la Persia. A distanza di secoli Jacobs li ha interpellati, attraverso i loro scritti, per capire quale fosse la loro percezione dell'Islam. Non dobbiamo aspettarci, avverte l'autore, che i viaggiatori ebrei provenienti dall'Europa fossero costituzionalmente aperti ad altre culture soltanto perché in Europa rappresentavano «l'Altro» rispetto alla maggioranza cristiana. Meshullam da Volterra, convinto della superiorità culturale degli italiani rispetto ai sudditi mamelucchi, adottava gli stereo tipi cristiani sugli orientali.
Ovviamente altri viaggiatori ebrei non stereotipavano allo stesso modo l'Islam, anzi lo descrivevano come una raffinatissima civiltà, fiorita sulle radici ellenistico-romane, dove monarchi illuminati rispettavano l'autonomia dei sudditi ebrei. Ai loro occhi Alessandria e Damasco erano una meraviglia. Bagdad incarnava tutto quello che mancava in Europa in termini di tolleranza e pluralismo religioso. L'itinerario che il rabbino della Navarra Beniamino di Tudela compose nella seconda metà del dodicesimo secolo offre un ritratto radioso dei rapporti tra ebrei e musulmani nell'Iraq degli Abbasidi. Altri scrittori immaginavano che le leggendarie tribù perdute di Israele risiedessero in qualche contrada remota del mondo islamico, proiettando in quelle aree la loro utopia ebraica.
Jacobs considera con attenzione i differenti contesti sociali e culturali degli autori che studia e il lettore può così discernere quella molteplicità di sfumature e differenze che impedisce un'immagine superficiale e monolitica dell'incontro tra ebrei e Islam alla vigilia dell'età moderna. I viaggiatori ebrei erano di diversa estrazione e temperamento e non parlavano con una sola voce. Leggiamo, per esempio, che alcuni di loro elogiavano il velo come un segno di virtù e modestia femminile, mentre altri lo criticavano come un ingannevole travestimento. Scopriamo anche che il celebre rabbino Obadiah di Bertinoro simpatizzava con i cristiani di Alessandria, costretti a casa durante ogni festività musulmana e rinchiusi la notte nei fondaci, con i cancelli sprangati dall'esterno dall'alba al tramonto proprio come succedeva agli ebrei italiani.
Jacobs nota anche che i viaggiatori ebrei in Medio Oriente non esploravano un ambiente totalmente straniero ma attraversavano i luoghi di una diaspora ebraica allo stesso tempo estranea e familiare. Alcuni scrittori descrivevano gli ebrei residenti nel mondo islamico come esemplari figli di Abramo; per esempio alla fine del dodicesimo secolo il rabbino Petahyah da Ratisbona ammirava la fede e l'erudizione della comunità ebraica in Iraq per criticare il lassismo degli aschenaziti; altri sottolineavano invece la loro differenza rispetto ai lontani parenti levantini.
L'ipotesi principale di Jacobs è che i viaggiatori ebrei, che non erano né veramente occidentali né autenticamente orientali ma tutte e due le cose insieme, sovvertissero la percezione europea del Levante, riorientando l'Oriente e decentrando l'Europa. Dov'era per loro il sé e l'altro, il centro e la periferia, il domicilio e l'esilio? Per il rabbino sefardita (filosofo, teologo, medico e poeta del dodicesimo secolo) Yehuda Ha - Levi il pellegrinaggio a Sion era la metafora di una ricerca mistica. Ma la Terra Promessa dei padri a quei tempi era abitata da pochi ebrei e governata da crociati cristiani (e successivamente da Ayubbidi, Mamelucchi e Otto mani musulmani). Nonostante questo, i viaggiatori ebrei visitavano i luoghi santi della loro fede in Palestina e Iraq, spesso trovandosi accanto pellegrini musulmani.
Il libro di Jacobs offre un contributo fondamentale alla nostra conoscenza del corpus ebraico di letteratura di viaggio nel Medioevo, anzitutto con una solida introduzione critica a testi che finora sono stati poco considerati e poco (o male) tradotti. In modo convincente Jacobs critica anche l'estensione del modello interpretativo di Edward Said (riferito all'imperialismo ottocentesco) ai viaggiatori occidentali di tutti i tempi, come se tutti fossero stati sempre portati a lanciare uno sguardo «orientalista» ed egemonico sul resto del mondo. Nei resoconti di viaggio pre-moderni si può percepire una dose di fascinazione per l"'altro" e l"'esotico", ma è sbagliato considerarli solo una prefigurazione dell'orientalismo più tardo. Il contributo più importante di questo libro è in definitiva il modo in cui viene smentita ogni idea della civiltà e identità ebraica, cristiana o islamica come un qualcosa di immutabile e monolitico.
(Il Sole 24 Ore, 15 marzo 2015)
Elezioni Israele 2015, dieci elettori ci raccontano le loro speranze e aspettative per il futuro
Il 17 marzo gli israeliani andranno alle urne per una tornata elettorale che potrebbe consegnare nelle mani del paese un nuovo parlamento, un nuovo governo e un nuovo premier. I più recenti exit poll prevedono un testa a testa fra il Likud, partito dell'attuale primo ministro Benjamin Netanyahu, e l'Unione Sionista di Isaac Herzog.
In vista del voto cruciale della settimana prossima l'autrice e fotografa israelo-olandese Judith Hertog è andata a parlare con gli israeliani delle loro vite e delle aspirazioni che hanno per il proprio paese. Il suo progetto, "Views From A Real Place" (www.judithhertog.com/about-the-project), raccoglie una serie di riflessioni degli abitanti sulle proprie famiglie, sul loro passato e sulle speranze per il futuro che nell'insieme offre uno spaccato sulle diverse opinioni nel paese.
La Hertog ha concepito il suo progetto l'anno scorso, durante a guerra fra Israele e i miliziani della Striscia di Gaza, nel pieno della retorica estremista che si respirava all'epoca. "Il progetto è la risposta che ho voluto dare alla polarizzazione e all'estremizzazione di quelle opinioni", scrive l'autrice. "Volevo fornire un punto di vista più sfumato sulla società israeliana, offrendo uno spaccato della vita e delle idee delle persone vere che vivono qui, con tutte le loro complicazioni e tutte le loro contraddizioni"....
(L'Huffington Post, 15 marzo 2015)
Lusso e jihad. La dolce vita del capo della ong dei diritti umani
Villa nel Surrey, scuola elitaria, matrimonio imperiale. Qureshi, il cuore tenero a favore della lapidazione.
di Giulio Meotti
ROMA - Vecchia storia quella dei ricchi che flirtano con l'estremismo politico pretendendo di fare del bene. Come dimenticare la cena a casa del grande Leonard Bernstein a Park Avenue, dove i capi delle Pantere nere spiegarono come volevano rovesciare il governo degli Stati Uniti a Paul McCartney e Norman Mailer, Jason Epstein e Robert Silvers, lo psichiatra dei bambini Robert Coles e Mary McCarthy? Oppure che Ulrike Meinhof era la figlia di un direttore di museo e che viveva in una villa, e come lei gli altri terroristi, tutti ragazzi della Germania rispettabile, figli di quella classe di funzionari dello stato, magistrati, poliziotti, attori, professori, avvocati, industriali che essi volevano rovesciare. E ad aiutarli, a dare loro rifugio e denaro, non furono politicanti o agitatori, ma intellettuali, professori universitari, scultori, sacerdoti, teologi, attori, giornalisti.
Adesso c'è la vicenda di Asim Qureshi. E' il capo della ong dei diritti umani Cage, che dopo la rivelazione dell'identità di "Jihadi John" non soltanto lo ha definito "beautiful, gentle young man", ma ha anche accusato la società inglese di essere colpevole per la radicalizzazione della sua gioventù: "Abbiamo ora la certezza che ci sono gruppi di giovani britannici la cui vita non solo è stata rovinata dai servizi segreti, ma che si sono dati alla violenza a causa delle politiche anti terrorismo adottate dalla Gran Bretagna", ha detto Qureshi. Poi, in un video ripreso di fronte all'ambasciata americana a Londra, si vede Qureshi inveire contro l'occidente e a favore del jihad. Il capo della ong invita a "sostenere il jihad dei nostri fratelli e sorelle in Iraq, Afghanistan, Palestina e Cecenia". E ancora: "Quando vediamo Hezbollah sconfiggere le armate di Israele, sappiamo dov'è la soluzione e la vittoria. Allahu Akbar!".
Adesso il Daily Mail ha scoperto che Qureshi è anche uno dei capi più ricchi dell'umanitarismo anglosassone. Una vita da favola. Altro che i diseredati, coloro, per dirla con Karl Marx, che avrebbero da perdere soltanto le loro catene. Come Umar Farouk Abdulmutallab, il figlio di un banchiere prima che l'attentatore del volo di Natale Amsterdam-Detroit, che viveva in un palazzo di Mansfield Street con il portone liberty (costo due milioni di euro). O come Aqsa Mahmood, una delle ragazze inglesi di maggior profilo dello Stato islamico, che prima di partire per la Siria viveva a Pollokshields, uno dei quartieri più ricchi di Glasgow, in una grande villa indipendente, dove i prezzi delle case superano regolarmente il mezzo milione di sterline. Come Omar Khan Sharif, che si è fatto esplodere in un bar di Tel Aviv, era il figlio di un ricco uomo d'affari, Sardar Sharif, che aveva mandato il figlio in una delle più elitarie scuole del Regno Unito, la Foremarke Hall di Repton, che ha avuto per alunni gente come Roald Dahl, Christopher Isherwood e l'ex arcivescovo di Canterbury, Lord Ramsey. E' la conferma di uno studio della London Queen Mary University, secondo cui in Inghilterra "le persone che provengono dalle famiglie abbienti sono anche le più disposte a simpatizzare con la violenza politica".
Asim Qureshi vive in una villa nella campagna del Surrey del valore di settecentomila sterline, comprensiva di campo da tennis e pista ciclabile, non lontano da quella di John Lennon e Yoko Ono. La moglie di Qureshi, Samira, viene dalla dinasty musulmana degli Ahmed, che ha costruito un impero nel sud della Scozia. Il cognato di Qureshi, Zahier, è entrato nella lista dei cento giovani inglesi più ricchi stilata dal Sunday Times, a fianco del principe William. Qureshi è andato poi alla Whitgift School nel sud di Londra, pagando una rata annuale di diciottomila sterline. Gli studenti arrivano spesso con macchine Bentley, con le Rolls-Royce e le Aston Martin.
E' lo stesso Qureshi che ha ammesso di aver avuto un ruolo da mentore per Michael Adebolajo, il terrorista islamico che ha ucciso con un machete il soldato Lee Rigby.
Dopo le rivelazioni sull'islamismo violento di Qureshi, molte fondazioni umanitarie, come Joseph Rowntree Charitable Trust e Roddick Foundation, hanno annunciato che avrebbero tagliato le loro donazioni alla ong Cage. Non potevano fare altrimenti dopo aver visto Qureshi sulla Bbc, rifiutarsi ripetutamente di condannare la lapidazione delle donne. Il presentatore dello show, Andrew Neil, ha chiesto a Qureshi di condannare una serie di pareri basati sulla sharia: "Non sono un teologo", ha detto Qureshi, aggiungendo: "Non ho assolutamente idea di cosa si sta parlando". E ancora: "Il jihad fa parte della religione islamica". E' lo stesso Qureshi che, sorridendo, accoglieva alle serate di fundraising le star della literary London e dello showbiz, come Vanessa Redgrave, Victoria Brittain, Peter Oborne e Sadiq Khan.
Qualcosa di simile alla "crudele allegria" immortalata da Tom Wolfe nel salotto di casa Bernstein vibra nella storia di questi paladini dei diritti umani ricchi sfondati e del loro Londonistan in guerra con gli "infedeli". Lusso e jihad.
(Il Foglio, 15 marzo 2015)
Il cantante Assaf Avidan: "Non mi sento israeliano, sto meglio in Italia.
Stanco di essere oggetto di polemiche a sfondo politico in Israele, il cantante rock Assaf Avidan ha confermato che per lui adesso è meglio ''vivere un po' in Italia''. Lo scrive nella propria pagina Facebook dopo che ieri è stato duramente attaccato dalla destra per aver dichiarato di non sentirsi israeliano e di aver deciso di trasferirsi all'estero perche' non vuole più avere paura, ''l'unica cosa che ci accomuna in quanto israeliani''. Un noto attivista di Destra, Yoav Eliasi (noto come 'L'Ombra') lo ha sollecitato a munirsi di una guardia del corpo quando avesse occasione di tornare in Israele.
''Invece di rappresentare Israele con onore all'estero - lo ha rimproverato - danneggia il nostro Paese, accresce l'odio nei nostri confronti e l'antisionismo. Svende il suo stesso Stato per aumentare le vendite di biglietti''. Le parole di Avidan sono stato commentate con delusione anche dalla cantante pacifista Noa (Achinoam Nini) secondo cui però all'origine dello sconforto del collega ''c'e' la politica intrapresa dal governo di Benyamin Netanyahu''.
Avidan replica a tutti su Facebook precisando di essersi ''rotto le scatole'' per le citazioni a suo avviso parziali e tendenziose delle sue parole. Torna poi ad attaccare ''il nazionalismo da quattro soldi'' che testimonia, a suo parere, l'insicurezza collettiva'' degli israeliani e conferma l'intenzione di cercare tranquillità in Italia.
(ANSA, 15 marzo 2015)
Un altro artista israeliano contro Israele: tra romanzieri e cantanti il numero aumenta.
«Amos, Amos, perché mi deridi?» (8)
15 marzo 2015
Caro Amos,
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Era l'ora terza quando lo crocifissero.
E l'iscrizione indicante il motivo della condanna diceva: Il re dei Giudei.
dal Vangelo di Marco
Per nove ore il crocifisso era andato avanti a gridare e singhiozzare. Fintanto che era durata l'agonia aveva pianto e urlato e gridato di dolore, invocato ripetutamente sua madre, chiamato e gridato con voce flebile e penetrante, una voce che pareva il pianto di un bambino ferito a morte e abbandonato solo in un campo a patire la sete e dissanguarsi sotto il sole cocente. Era un grido tremendo, un grido che andava su e giù e raggelava il sangue, mamma, mamma, e poi venne uno strillo straziante e di nuovo mamma. E di nuovo un pianto che si levò alto seguito da un flebile, lungo gemito, sempre più flebile, sfinente.
da "Giuda", di Amos Oz
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nella mia precedente lettera eravamo rimasti al momento in cui qualcuno mi dona un Nuovo Testamento, parte dell'intera Bibbia, dicendomi che soltanto a partire da lì si può trovare la verità. Avevo ricevuto il libro non da un'organizzazione religiosa a scopo di proselitismo, ma come invito ad esaminare personalmente un testo che - mi si diceva - è ispirato da Dio, ma non è patrimonio esclusivo di nessuna chiesa. Su questa base, che mi lasciava in ogni caso libertà di giudizio, promisi di leggere il libro ricevuto.
- UN LIBRO PER ME DIFFICILE DA CAPIRE
Cominciai dunque a leggere, con impegno e attenzione, come del resto ero abituato a fare anche con altri testi, ma l'educazione cattolica ricevuta non mi aiutava affatto a capire quello che leggevo. Tutto per me era nuovo, o se l'avevo già sentito prima, adesso lo vedevo presentato in modo diverso, in qualche caso addirittura opposto. Quasi ad ogni pagina mi veniva spontaneo di porre domande su domande, a cui naturalmente quasi mai trovavo risposte. Ponevo interrogativi che mi sembravano logici, intelligenti, come tutti quelli che si compiacciono di aver trovato nel testo una contraddizione; e pensano che ad altri sia sfuggita. Un po' come hai fatto tu nelle tue conferenze, quando hai detto che, dopo aver letto e riletto i Vangeli, ne hai trovato un punto debole: i trenta denari offerti a Giuda. Hai detto che ti sembrano pochi, e che non è possibile, e che ci dev'essere un'altra spiegazione. E l'hai proposta tu, una spiegazione, e ti consiglierei di andarla a leggere e rileggere, come hai fatto con i Vangeli, e di chiederti se è mai possibile che qualcuno possa prenderla sul serio.
Ponevo dunque domande su domande e non trovavo risposte soddisfacenti. Ne parlavo con il missionario quando ci incontravamo, e lui mi dava delle spiegazioni, che però non mi convincevano. Infatti non hanno lasciato tracce nella mia memoria. Ricordo soltanto una volta, quando con grande fatica cercò di spiegarmi che cos'è secondo la Bibbia la giustificazione per grazia mediante la fede. A me venne quasi il mal di testa nello sforzo di capire quello che diceva. Alla fine mi sembrava d'aver capito, senza tuttavia esserne convinto, e glielo dissi. Poi aggiunsi: "Ma come fa una persona semplice a capire una dottrina così complicata? Io ho fatto molta fatica a seguire la sua spiegazione, eppure sono uno che ha studiato". "Forse è proprio per questo che fai tanta fatica - mi rispose il missionario - un altro ne avrebbe fatta molto meno".
Nonostante questa indisponente risposta, continuai a leggere, perché i Vangeli, anche quando sembrano strani e forse anche oscuri a chi li legge la prima volta, hanno una singolarità che attrae e non permette di distaccarsene con facilità.
- IL TIMORE CHE POSSA ESSERE VERO
Un fatto strano che quasi sempre accade a chi legge i Vangeli è questo: ti avvicini al testo con la ferma intenzione di esaminare con severità le sue parole e improvvisamente ti accorgi con imbarazzo che sei tu ad essere esaminato. Leggi: "Chiunque s'innalzerà sarà abbassato", e immediatamente pensi: non è il caso mio, io non m'innalzo. Poi magari ti viene qualche dubbio, ma passi oltre. Leggi: "Ravvedetevi, poiché il Regno dei cieli è vicino", e ti chiedi: ma che cos'è questo regno dei cieli? Io non lo so. So però che cosa significa la parola "ravvedetevi". Questo allora vuol dire che se un giorno arriverò a capire che cos'è il regno dei cieli, saprò anche che cosa devo fare: ravvedermi. E' a questo punto che qualcuno comincia a temere che quello che legge sia proprio vero. E magari abbandona la lettura, adducendo qualche seria ragione intellettuale.
Io invece continuai a leggere, ma con la ferma intenzione di non modificare l'atteggiamento che avevo deciso di tenere con ogni organizzazione religiosa che mi proponesse la sua verità. Se mi dicevano che soltanto nei Vangeli si può trovare il vero Gesù, allora le parole di Gesù che stavo leggendo dovevano riuscire a convincermi. Supposto che un Dio esista, non avrebbe potuto rimproverarmi per non aver accolto parole che non riuscivo a capire. La mia linea di difesa davanti a un eventuale tribunale divino sarebbe stata questa: non ho rifiutato la tua parola, perché per rifiutare una parola bisogna capirla, e io non l'ho capita. Il parlare di Gesù mi è parso strano, lacunoso, incomprensibile. E naturalmente attribuivo la responsabilità di tutto questo a chi parla, non a chi ascolta.
La Bibbia però è un libro difficile da controllare: quando ti sembra di averlo debitamente inquadrato, ti scappa fuori da qualche parte che non t'aspetti e non riesci più a rimetterlo in carreggiata. Se una cosa così capita anche a chi legge la Bibbia da oltre cinquant'anni, figuriamoci se poteva non capitare a me dopo qualche settimana. Continuando dunque nella lettura, scoprii con sorpresa che il Dio della Bibbia non parla soltanto per farsi capire, ma in qualche caso anche quando sa fin dall'inizio che non sarà capito, e addirittura con l'intenzione esplicita di non farsi capire. Certe parole di Gesù mi arrivarono addosso come macigni:
"Allora i discepoli si avvicinarono e gli dissero: «Perché parli loro in parabole?» Egli rispose loro: «Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli; ma a loro non è dato. Perché a chiunque ha sarà dato, e sarà nell'abbondanza; ma a chiunque non ha sarà tolto anche quello che ha. Per questo parlo loro in parabole, perché, vedendo, non vedono; e udendo, non odono né comprendono. E si adempie in loro la profezia d'Isaia che dice: "Udrete con i vostri orecchi e non comprenderete; guarderete con i vostri occhi e non vedrete." (Matteo 13:10-14).
- IL PROBLEMA CON DIO CAMBIA FORMA
Se le cose stanno così - cominciai a pensare - il mio non capire non potrà essere un argomento a mia discolpa; al contrario, mi potrebbe essere chiesto: "Perché non hai capito? Perché non sei stato reputato degno di ricevere la possibilità di capire?" Questo mi fece perdere un po' della mia baldanzosa sicurezza. Se davvero esiste un'autorità di questo tipo - pensavo -, le mie obiezioni logiche non hanno alcun peso.
A questo punto il problema con Dio per me si poneva in modo diverso da prima, e poteva essere formulato così: supposto che il Dio della Bibbia esista, non sono io che decido se le sue parole mi risultano convincenti, ma è Dio che decide se io sono degno di comprendere e accogliere le sue parole. Stando così le cose, le obiezioni che sapevo fare al testo non riuscivano più a rendermi compiaciuto della mia finezza logica: in me prevaleva piuttosto il timore di essere tagliato fuori dalla possibilità di capire. Credo proprio che sia stata questa la prima rivelazione che ho ricevuto dal Signore, senza che ovviamente me ne rendessi conto.
Continuai a leggere, e con maggiore impegno, perché la parola di Gesù in qualche modo mi attirava e volevo capire se era vera. In poche parole: ero alla ricerca della verità. Nient'altro che la piena certezza della verità avrebbe potuto soddisfarmi. Se questo non fosse stato possibile, sarei rimasto nella mia posizione di agnosticismo. Però, dopo tutto quello che avevo letto e capito, anche questa posizione non era più tanto comoda. E' una caratteristica dei Vangeli: dopo averli letti con attenzione e serietà o si sta meglio o si sta peggio.
Non ricordo di preciso come mi sentivo in quel tempo, ma sicuramente certe parole di Gesù avevano lasciato il segno:
"Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, che sono mansueto e umile di cuore; e voi troverete riposo alle anime vostre; poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero" (Matteo 11:28-30).
Tuttavia, per quanto attraente potesse apparire l'invito a credere, le mie domande rimanevano senza risposta e quindi, per quella veracità interna che ritenevo e ritengo ancora essenziale per poter accogliere la verità, non ero disposto a chiudere gli occhi, a mentire a me stesso, ad agire "come se" la cosa fosse vera anche senza esserne del tutto convinto perché in questo modo "si vive meglio".
La mia rigorosa impostazione logica non mi venne minimamente in aiuto, almeno in un primo momento. Di nessuna cosa in questo mondo si può essere certi al cento per cento, ma al fine di muoversi, di prendere una decisione, il grado di certezza deve essere tanto maggiore quanto è più grande la gravità della scelta da fare. Posso uscire di casa senza ombrello anche se, secondo le previsioni, la probabilità della pioggia è data al cinquanta per cento; ma se devo mangiare un cibo che secondo qualcuno potrebbe essere avvelenato, prima di farlo non mi accontenterei neanche del novanta per cento di certezza. Considerando allora l'«oggetto Dio» - pensavo - esso è di una gravità infinita; ne discende che per arrivare a dire "credo in Dio" è assolutamente necessario avere una fede al cento per cento. Se alla mia fede concedo anche soltanto uno 0,01 per cento di possibilità negativa, cioè che non sia vero quello che credo, allora in realtà io non credo affatto.
So bene che non tutti, o forse ben pochi, arrivano alla fede con problemi di questo tipo, ma per me è stato così.
- IL PALLEGGIO DELLE RESPONSABILITÀ
La situazione dunque si presentava abbastanza disperata, perché, essendo per natura piuttosto critico e assolutamente non incline alla ricerca di drogati mondi immaginari, la probabilità che davo alla possibilità per me di arrivare a una fede in Dio al cento per cento era pari allo zero per cento.
A questo punto però il Signore, nella sua paziente e intelligente misericordia, mi venne in soccorso proprio attraverso quell'impostazione logica che mi aveva dato fin dalla nascita.
Ero partito col dire che non credo in Dio perché sinceramente non sono convinto della sua esistenza, e quindi non posso essere di questo incolpato. Ma leggendo i Vangeli avevo capito che il Dio di cui lì si parla non è obbligato a farsi trovare da chiunque gli ponga domande a modo suo ed esiga da lui risposte precise a quello che chiede. Dio c'è, ma può decidere di non farsi trovare; Dio parla, ma può decidere di non farsi capire. Dipende da come Dio valuta l'interlocutore che gli sta davanti. Che in questo caso ero io. Ero messo alle strette. Per usare termini del linguaggio politico, dovevo prendere atto che nel gioco delle responsabilità fra Dio e me, la palla mi era rimasta fra le mani. Dovevo ributtarla dall'altra parte. Per via logica capii che avevo una sola possibilità.
In un momento che non avevo preparato, in un luogo che non era casa mia, in mezzo a persone che non conoscevo e non mi conoscevano, improvvisamente mi decisi a fare, con una certa fatica, una cosa che non avevo mai fatto in vita mia: rivolgere la parola a qualcuno che non sapevo nemmeno se c'è. Non ricordo se con le labbra o soltanto nella mente, rivolsi "al dio sconosciuto" (Atti:17:23) questa brevissima preghiera: "O Dio, se esisti, rivelati a me". La palla adesso era tornata nelle sue mani. Se nulla fosse accaduto, per me la colpa era sua. La colpa di non esistere, o di non volersi far trovare.
Per un po' di tempo, in realtà, non accadde nulla; e poiché non gli avevo posto scadenze temporali, continuai tranquillamente a leggere i Vangeli e a vivere come prima.
Alla fine però qualcosa di nuovo effettivamente accadde.
Piacendo a Dio, ne riparleremo la prossima volta.
Shalom,
Marcello
(Notizie su Israele, 15 marzo 2015)
Hamas prepara febbrilmente la prossima guerra di Gaza
Fra tre giorni in Israele la parola tornerà agli elettori. La Knesset è stata sciolta prima della sua scadenza naturale, e la coalizione di governo, guidata da Bibi Netanyahu, rischia di non essere rinnovata per un ulteriore mandato. Allo schieramento guidato dal Likud, artefice di un boom economico, si riconosce di aver garantito una maggiore sicurezza rispetto ai governi di sinistra, ma si rimproverà una disattenzione nel promuovere la redistribuzione delle risorse generate dalla tumultuosa espansione economica degli ultimi anni....
(Il Borghesino, 14 marzo 2015)
L'incoscienza d'Israele
Il gossip della campagna elettorale più banale di sempre nasconde l'angoscia di non poter "tenere", come prima della guerra del Kippur.
di Giulio Meotti
ROMA - Israele è un fazzoletto di terra poco più grande della Lombardia, ma è l'unico stato del mondo la cui esistenza è messa apertamente in discussione. Il sud è sotto assedio fra il regime di Hamas e i tagliateste del Sinai. Il nord rigonfia di paura, in attesa che Hezbollah e l'Iran scarichino migliaia di missili sulla fertile Galilea. A destra c'è la Giordania, unico e precario cuscinetto prima dello Stato islamico. Nel mezzo ci sono i palestinesi, sempre più impazienti di accoltellare sionisti. A sinistra c'è l'unico confine tranquillo: il mar Mediterraneo. E' lì che si vorrebbero far rotolare tutti gli ebrei. Eppure, Israele, alla vigilia delle elezioni di martedì prossimo, appare come beato. Il paese si sente sicuramente forte dell'esercito più potente che ci sia "fra Marrakesh e il Bangladesh", come ha detto Amos Yadlin, il generale candidato a diventare ministro della Difesa se la sinistra vincerà alle elezioni. Ma è anche il paradosso di uno dei paesi più minacciati e felici del mondo. Un sondaggio del Pew Center ha appena rivelato che il 59 per cento degli israeliani è soddisfatto del proprio paese, contro, ad esempio, il 33 per cento degli americani (per non parlare dei depressi europei). E se si confrontano il tasso di fertilità e quello di suicidi di Israele con quello di tutti gli altri paesi industrializzati, lo stato ebraico sta al primo posto della classifica dei paesi amanti della vita. Nella campagna elettorale fra il Likud di Benjamin Netanyahu e il "Zionist Camp" di Isaac Herzog non si è parlato delle centrifughe all'uranio degli ayatollah, della Terza Intifada, del boicottaggio e dell'antisemitismo in Europa, dei rapporti con l'America, di califfato, di risoluzioni Onu, di nuovi muri da
Non ha influito sugli elettori il discorso che Netanyahu ha appena tenuto al Congresso degli Stati Uniti. Non hanno peso specifico sugli elettori le uscite contro Bibi degli ex capi del Mossad, degli ex generali, di chi ha avuto in mano la sicurezza del paese.
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costruire, di nuove armi da sviluppare. Non ha influito sugli elettori il discorso che il premier Netanyahu ha appena tenuto al Congresso degli Stati Uniti. E pensare che tutti temevano la faziosità elettorale del suo intervento. Non hanno peso specifico sugli elettori le uscite contro Bibi degli ex capi del Mossad, degli ex generali, di chi ha avuto in mano la sicurezza del paese. All'israeliano medio il politico piace un po' (non troppo) corrotto. E non gli piacciono le slealtà, seppur condite da expertise, di burocrati in pensione e mai eletti. Del tutto ininfluente il tema dell'economia, visto che Israele ha registrato una crescita del 2,6 per cento nel 2014 e per il 2015 ci si aspetta un balzo persino maggiore. Netanyahu ha reso il paese più ricco, più dinamico, più aperto agli investimenti. Tutti i salari crescono, compresi quelli degli insegnanti pubblici. Nessun israeliano pensa che il paese abbia bisogno di una diversa politica economica. Nessuno parla di trattative con i palestinesi, visto che ogni partito ha la propria piattaforma che oscilla fra il fallimentare e l'irrealistico: il Labour di Herzog è per i due stati e per dividere Gerusalemme; il Likud dà voce al più totale e maggioritario scetticismo sulla reale volontà dei palestinesi; la destra di Focolare Ebraico è per l'annessione; Yesh Atid di Lapid vuole un "divorzio" dai palestinesi, ma anche tenere unita Gerusalemme; Kulanu di Moshe Kahlon evita di nominare il problema; Yisrael Beitenu di Lieberman è per lo scambio territoriale; la sinistra di Meretz per le linee del 1967. Un caos programmatico che nasconde il sospetto assoluto nei confronti del mondo arabo-islamico, anche a sinistra. No. A dominare la campagna elettorale, a parte gli esercizi vocali di Herzog per migliorare la propria voce nasale, è stata la storia delle bottigliette. E' successo che la first lady, Sarah Netanyahu, aveva l'abitudine di raccogliere le bottiglie vuote dalla residenza del premier. Ordinava poi all'autista di consegnarle a un supermercato e reclamare l'indennizzo dei vuoti, tenendo per sé il ricavo. Appropriazione indebita di fondi pubblici? Poi c'è stato lo scandalo del tappeto. Si è appreso che quando il presidente Obama ha fatto visita a Netanyahu, nel salotto del premier campeggiava un tappeto sfilacciato. Così un agente dei servizi segreti ci ha dovuto mettere un piede, per evitare imbarazzi. Se non bastasse, la campagna elettorale si è concentrata sul lato spilorcio di Bibi che chiedeva ai dipendenti di compiere acquisti mai rimborsati. Sotto accusa, quarantadue shekel per una bottiglietta di collirio per gli occhi. Diceva Golda Meir a Oriana Fallaci, nel 1972: "Quindici anni fa in Israele non c'erano quasi furti, né assassinii, né prostituzione. Ora invece abbiamo tutto, tutto...". E prima dei tappeti e dei vuoti di bottiglia il paese è stato ipnotizzato dal costo dei gelati al pistacchio di Netanyahu e dei letti speciali che il premier ha chiesto di installare durante il volo di rientro da Washington. E' questo Israele, un misto di incoscienza e di fortezza da Deserto dei Tartari. La banalità quotidiana di Israele, che si riverbera nella sua campagna elettorale, nasconde qualcosa che la rende del tutto irriferibile
La normalità israeliana è in sostanza anormale, è radicata su qualcosa di oscuramente traumatico. Il vero volto della sicurezza e dell'invulnerabilità israeliane, che hanno come specchio la frivolezza in politica, sono insicurezza e vulnerabilità.
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a quella di qualsiasi altro paese civile occidentale. La normalità israeliana è in sostanza anormale, è radicata su qualcosa di oscuramente traumatico. Il vero volto della sicurezza e dell'invulnerabilità israeliane, che hanno come specchio la frivolezza in politica, sono insicurezza e vulnerabilità. Si parla del tappeto di Bibi per non pensare della nuova Masada. Gli israeliani, disillusi del passato e increduli dell'avvenire, sono coscienti della propria forza, oggi come ieri, ma appaiono induriti, inacerbati, sentono fisicamente che non possono abbandonare la guardia nemmeno un giorno, hanno la sensazione d'essere sempre più isolati in un mondo indifferente e che la stessa America è sempre più lontana. Tutto il gossip, questa spensieratezza, è il discrimine che separa Israele dal mondo arabo-islamico. La società palestinese non va al cinema, è concentrata sullo scontro, nelle strade e nell'agone diplomatico. La società israeliana è diversa, vuole vivere. E' come Momik, il personaggio di "Vedi alla voce: amore" di David Grossman, l'adulto dall'aspetto fisico di uno scolaretto. Qualcuno paragona l'incoscienza israeliana al periodo intercorso fra il 1967 e il 1973. Dopo la vittoria di giugno, il paese si divertiva, adorava il nuovo vitello d'oro, il consumismo che dilagava dai fortini della linea Bar-Lev sul canale di Suez ai night club di Tel Aviv. Nessuno prese sul serio i movimenti di truppe sul canale e sul Golan (oggi sono le centrifughe dell'Iran). C'era boriosa sufficienza in tutto il paese. Poi arrivò il 6 ottobre 1973, lo sfondamento delle linee, l'angoscia di non poter "tenere", di essere ricacciati in mare. Dopo la vittoria per disperazione, la gente apparve più matura, come dopo una malattia. Da allora, la possibilità di sparire, di fare le valigie, domina la coscienza di ogni israeliano. Meglio fare i conti in tasca a Bibi e dare una sbirciatina al suo salotto di casa. Si vive meglio. Come se si fosse in un paese normale. Come se non ci fosse soltanto la mobilitazione perenne. Come se, oltre alla maschera antigas, ci fosse anche il collirio di Bibi.
(Il Foglio, 14 marzo 2015)
I cristiani israeliani voteranno per il Likud di Netanyahu
Sentono che il partito conservatore li garantisce di più
di Roberto Copello
Da decenni, quando si parla di questione palestinese e conflitto arabo-israeliano, i cristiani d'Occidente non hanno dubbi su da che parte schierarsi: basti vedere quanti volontari di ong di ispirazione cristiana (mica tutti cattopacifisti) partono per migliorare le condizioni di vita degli arabi a Gaza e in Cisgiordania. Sarebbe dunque logico attendersi che, alle elezioni anticipate di lunedì 17 in Israele, i cristiani locali si schierassero in massa con il fronte «progressista»: il centrosinistra dell'Unione Sionista che vede alleati il laburista Yitzhak Herzog e la popolarissima Tzipi Livni.
E invece, sorpresa. I cristiani israeliani, cattolici o ortodossi, maroniti o melchiti, protestanti o armeni che siano, preferiscono il Likud, ovvero il partito della destra intransigente, del premier uscente Benjamin «Bibi» Netanyahu: quello che ha scatenato la guerra dell'estate scorsa a Gaza, che sponsorizza l'espansione dei coloni ebrei nei Territori palestinesi.
Si badi bene: qui si parla dei circa 160 mila cristiani con passaporto israeliano. Che sono all'80% etnicamente arabi (il resto è di origine soprattutto russa), vivono soprattutto nel nord del paese in Galilea, e se la passano assai meglio dei cugini che stanno al di là della Barriera di separazione (il muro che, però in gran parte è di filo spinato, che divide Israele dalla Palestina). Pare strano però che tifino per chi, dell'ipotesi di due stati, non vuol sentire parlare. Eppure è così, come conferma uno che nei grovigli del Medio Oriente si districa benissimo: padre Giambattista Pizzaballa, 49 anni, lo schietto francescano bergamasco che da 10 anni è il Custode di Terra Santa, ovvero il responsabile dei luoghi santi di proprietà della Chiesa cattolica, fra cui siti archeologici e 74 santuari (un privilegio e una responsabilità che risalgono alla famosa visita di san Francesco al sultano).
«In effetti, la maggior parte dei cristiani in Israele è iscritta al Likud. Dunque è chiaro che sceglierà Netanyahu. Il motivo è semplice: quando la destra in Israele dice sì è sì, se dice no è no. In genere invece la sinistra, quando dice sì, non si sa bene se è proprio sì. Diciamo che la destra è più pratica, la sinistra più idealistica. Detto questo, i cristiani in Israele sono il 2% della popolazione, e quindi politicamente abbastanza irrilevanti. Non saranno certo loro l'ago della bilancia».
Eppure ci sono settori arabi della Chiesa ortodossa molto schierati: in dicembre a Nazareth in mille hanno acclamato Netanyahu, manifestando il desiderio di fare il servizio militare (in Israele arabi e cristiani sono esentati, ndr). Forse si sentono più tutelati dal Likud, specie davanti alla minaccia che l'integralismo islamico pone ai cristiani?
«Siamo a un punto di svolta nella presenza della Chiesa in Medio Oriente. In Siria e Iraq la cosa è evidente. Ma anche in Terra santa, dove non c'è una guerra in corso, c'è una situazione che da anni logora la presenza cristiana. Il conflitto ebraico-palestinese che influisce sulle prospettive economiche, l'isolamento, la mancanza di prospettive, la difficoltà per i giovani soprattutto nei Territori occupati... E poi i cristiani hanno un problema di identità: non sono un terzo popolo, sono arabi palestinesi, però si sentono sempre un po' esclusi sia dagli arabi musulmani sia dagli ebrei».
La vicenda Charlie Hebdo ha complicato tutto... «Il problema delle vignette qui è stato più limitato che in altri luoghi, ha riguardato solo zone classiche della protesta come le palestinesi Nablus, Hebron, Ramallah, certe zone di Betlemme, un po' di più Gaza. Ma non si teme un'espansione dell'Isis perché la dirigenza palestinese, Hamas come Fatah, teme il contagio e cerca di frenarlo. C'è solo qualche cellula, che si ispira all'Isis senza essere direttamente legata al Califfato. È vero, si è visto sventolare qualche bandiera nera dell'Isis, ma credo fosse fatta in casa. Purtroppo l'idea del Califfato esercita un'attrazione incredibile, non solo tra i musulmani più poveri e disgraziati. I nostri cristiani spesso tornano sconvolti dal pranzo con un vecchio amico musulmano che gli ha detto: non condivido che uccidano i cristiani, però questi estremisti sono davvero in gamba».
(Italia Oggi, 14 marzo 2015)
Il Corano spiegato da Magdi Allam per capire la violenza dell'islam
Il terrorismo dei tagliagole si combatte anche conoscendo la loro cultura di morte. Da oggi in edicola con il Giornale il Corano spiegato da Magdi Allam.
di Magdi Cristiano Allam
Leggiamo il Corano per riscattare la battaglia di verità e di libertà incarnata da Benedetto XVI con la storica Lectio Magistralis di Ratisbona il 12 settembre 2006, costretto a capitolare dalla sconvolgente alleanza del «terrorismo dei taglialingue» islamici e della «dittatura del relativismo» che sta spogliando l'Occidente delle fondamenta identitarie, valoriali e culturali dell'unica civiltà che mette al centro la sacralità della vita, la dignità della persona e la libertà di scelta.
Di fatto il declino del pontificato del più straordinario testimone contemporaneo del sodalizio armonioso tra fede e ragione, iniziò immediatamente dopo aver denunciato la violenza intrinseca nell'islam, rievocando le parole dell'imperatore e santo bizantino Manuele II Paleologo (Costantinopoli, 1350 - Costantinopoli, 1425): «Mostrami ciò che Maometto ha portato di nuovo e vi troverai solo delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva a diffondere la fede per mezzo della spada». (Dialoghi con un Persiano, VII dialogo)
Il 30 novembre 2006, all'interno della Moschea Blu di Istanbul, davanti al mihrab, la nicchia di marmo che indica la direzione della Mecca, dopo avere ascoltato dei versetti del Corano intonati in arabo dal Gran
Benedetto XVI sconfessò se stesso raccogliendosi in preghiera, chinando il capo in direzione del principale luogo di culto dell'islam, ingraziando il Gran Mufti «per questo momento di preghiera».
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Mufti Mustafà Cagrici, Benedetto XVI sconfessò se stesso raccogliendosi in preghiera, chinando il capo in direzione del principale luogo di culto dell'islam, ringraziando il Gran Mufti «per questo momento di preghiera», mentre il suo portavoce padre Federico Lombardi precisò che «il Papa ha sostato in meditazione e certamente ha rivolto a Dio il suo pensiero». Quel gesto, a cui Benedetto XVI fu indotto dal pressante condizionamento dell'apparato che governa lo Stato della Chiesa timoroso e preoccupato di arginare l'odio e la violenza che il discorso di Ratisbona avevano generato, di fatto fu una resa a quella «dittatura del relativismo» che il Papa aveva denunciato come il «male assoluto» da combattere, mettendo sullo stesso piano cristianesimo e islam, Dio e Allah, i Vangeli e il Corano.
Leggiamo il Corano per riabilitare la straordinaria protagonista di verità e libertà Oriana Fallaci, che denunciò con chiarezza e coraggio il Corano come la radice del male: «L'islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. È incompatibile col concetto di civiltà». Per uno di quei casi che attestano che nulla è casuale, la morte di Oriana sopraggiunse il 15 settembre 2006, tre giorni dopo il discorso di Ratisbona, proprio quando Benedetto XVI si ritrovò isolato, assediato e aggredito da ogni lato, fuori e dentro la Chiesa. Tra il Papa di «Fede e ragione» e l'Oriana di «La forza della ragione» si era creata un'intesa umana e morale culminata nel loro incontro il 27 agosto del 2005 in udienza privata a Castel Gandolfo. Non fu allestita nessuna camera ardente e il funerale di Oriana fu celebrato in forma strettamente privata. Certamente per sua volontà. Ma anche per l'ostracismo che l'aveva colpita nel mondo trasversale e maggioritario del «politicamente corretto», fatto di condanna se non di scherno per la sua indomabile denuncia non solo del terrorismo islamico ma soprattutto della pavidità dell'Occidente, non solo dell'islamizzazione dell'Eurabia ma soprattutto del Corano.
Leggiamo il Corano per sconfiggere il terrorismo dei taglialingue islamici che stanno perseguitando tutti i testimoni di verità e libertà, riuscendo persino a coinvolgere e a convincere l'Ordine nazionale dei giornalisti in Italia ad accreditare lo psico-reato di islamofobia, che si traduce nel divieto categorico di criticare l'islam, Allah, Maometto e il Corano. Dobbiamo all'integrità intellettuale e al coraggio umano di Alessandro Sallusti se è stata sconfitta questa strategia finalizzata a imporci l'autocensura, a vietarci di essere pienamente noi stessi persino dentro casa nostra, di fatto rassegnandoci alla dittatura islamica morendo dentro, spogliati dei valori che sostanziano l'essenza della nostra civiltà. Il volume pubblicato dal Giornale , «Non perdiamo la testa», ha voluto significare sia il non farci decapitare dai terroristi tagliagole islamici, sia soprattutto il nostro dovere di non rinunciare all'uso della ragione per non vederci sottratto il diritto a entrare nel merito dei contenuti dell'islam e del Corano.
«Il Corano spiegato da Magdi Cristiano Allam», in edicola da oggi in allegato con Il Giornale , s'ispira all'esortazione evangelica «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Giovanni 8, 32). Si tratta in assoluto della sfida culturale più importante, perché solo se avremo l'acume intellettuale, la rettitudine morale e la determinazione civile di guardare in faccia alla realtà del Corano, noi potremo salvaguardare la nostra civiltà.
(il Giornale, 14 marzo 2015)
Marc Chagall: l'amore per Bella e la Shoah nelle tele in arrivo da Israele
di Maurizio Molinari.
«Ich bin Jude», sono ebreo. È la scritta che campeggia sul corpo di un ebreo crocifisso in una stradina di Vitebsk nel quadro che Marc Chagall dipinge nel 1944 per descrivere la Shoah. È una delle 140 opere del pittore ebreo russo in esposizione a Roma, al Chiosco del Bramante, grazie ad una collaborazione fra il Museo d'Israele e Gerusalemme ed Arthemisia. «Il quadro sulla Shoah è un'opera rara, direi unica di Chagall - spiega Ronit Sorek, curatrice del Dipartimento Stampe e Disegni del Museo d'Israele - perché quando la realizza la guerra ancora non è finita ma lui ne descrive già la distruzione avvenuta, esprime come la percepisce a massacro ancora in corso». Il titolo Il Crocifisso evoca l'accusa di deicidio per secoli lanciata contro gli ebrei per attestare come abbia portato ai crimini commessi dei nazisti nei confronti degli stessi ebrei. Nel quadro che raffigura più ebrei crocifissi nelle strade innevate dello shtetl travolto dalla violenza nazista c'è un unico uomo vivo che siede sul tetto, guardando gli ebrei morti, inclusa una madre abbracciata al figlio, in terra, assassinati. Quando Chagall lo dipinge era in America, si sentiva isolato, impotente e si ritrova nell'uomo che guarda dal tetto, unico testimone di un villaggio sterminato. Forse è questo il momento in cui matura la scelta di «non tornare più a Vitebsk » aggiunge Ronit Sorek, ricordando come «nell'unica volta che fece ritorno in Bielorussia non volle mettere piede nel suo villaggio natale perché per lui testimoniava la vita ebraica e non voleva vedere come era stato ridotto, trasformato, dalla guerra, forse per non perdere il contatto con la memoria di quella vita ebraica, a cui era legato anche il rapporto con Bella» la moglie incontrata proprio a Vitebsk che sarebbe diventata la sua musa.
L'amore per Bella ruota attorno a Promenade, il disegno che porterà al dipinto realizzato su olio e tela fra il 1917 ed 1918. «Bella vola tranquillamente nell'aria» dice Sivan Eran- Lavian, capo delle Esibizioni itineranti del Museo d'Israele, secondo la quale il disegno raffigura un'idea «modesta» dell'amore perché «è realizzato senza tecniche sofisticate e si limita a descrivere l'amore grande che li univa».
È la prima volta che il Museo di Israele porta a Roma le opere di Chagall - la mostra è intitolata Amore e Vita - e l'evento coincide con il 50o anno di vita dello stesso museo. È una coincidenza che fa entrare l'Italia nelle celebrazioni del cinquantenario, che vedono esposizioni inaugurate da Shanghai a Parigi, da New York a Taipei. «Pochi sanno che Chagall fu uno dei fondatori del Museo di Israele - spiega Tania Coen- Uzzielli, titolare delle Mostre in arrivo aRoma per l'inaugurazione - perché quandoTeddy Kollek si lanciò nell'impresa si rivolse agli artisti più vicini al giovane Stato. Andò a trovare Chagall a Parigi e ottenne grande attenzione: la vediamo riflessa nella corrispondenza che seguì, In particolare nella lettera del 27 aprile 1965 quando Chagall esprime il sostegno alla nuova istituzione, che nasce l'11 maggio seguente. Le augura la vita "nei tempi a venire", e la definisce con il nome di Museo Nazionale che poi avrebbe adottato».
Il rapporto fra Chagall e il Museo è continuato poi con Ida, la figlia avuta da Bella, che negli Anni 90 donò gran parte delle opere esposte a Roma «rappresentando l'amore che Chagall aveva per Bella ma anche che esprimeva, sebbene in maniera diversa, per tutti gli esseri umani» come afferma James Snyder, direttore del Museo d'Israele, nel testo che apre il catalogo.
Roma, Chiostro del Bramante
Via Arco della Pace 5
Fino al 26 luglio
(La Stampa, 14 marzo 2015)
Chiedetelo ad Hamas
Ieri Hamas ha dato il via a una campagna su Twitter denominata #AskHamas che nelle intenzioni del gruppo terrorista che tiene in ostaggio la Striscia di Gaza dovrebbe convincere gli europei che Hamas non è un gruppo terrorista ma che trattasi di "movimento di liberazione nazionalista".
La campagna, che durerà cinque giorni, è partita in concomitanza con la discussione dell'appello fatto dalla Unione Europea contro la rimozione di Hamas dalla lista dei gruppi terroristici stabilito per un cavillo legale dalla Corte di Giustizia Europea....
(Right Reporters, 14 marzo 2015)
Israele tra nuovo e vecchio sionismo
di Maurizio Molinari
La sfida elettorale del 17 marzo in Israele non è solo fra opposte coalizioni che ambiscono a governare il Paese ma fra diverse visioni del sionismo. Co me ci dice l'ex presidente Shimon Peres, in una conversazione informale nella sua Fondazione a Jaffa, "cento anni fa i pionieri sionisti scelsero di cambiare il mondo degli ebrei e ci sono riusciti". Fra le ideologie del Novecento infatti il sionismo può vantare il primato di aver raggiunto l'obiettivo della formazione dello Stato e di aver mutato anche la natura del popolo ebraico: dalla disper sione alla guida di una potenza regionale, economica e militare, "che nessuno di noi aveva immaginato" come ammette Peres. "Se c'è qualcosa che dobbia mo rimproverarci è di non aver osato abbastanza con i nostri sogni" aggiunge l'anziano leader laburista. Alla vigilia del 67o anno di nascita, lo Stato Ebraico vede però quest'identità sionista al centro di un'accesa contesa politica che si sovrappone alla competizione elettorale per la XX Knesset. Da un lato c'è il centrosinistra, guidato da Yizhak Herzog e Tzipi Livni, e dall'altro il centrode stra, i cui leader di spicco sono Benjamin Netanyahu e Naftali Bennett, porta tori di un messaggio divergente su come il sionismo deve rinnovarsi per af frontare il XXI secolo.
Netanyahu-Bennett, identità ebraica e Terra d'Israele
Per Netanyahu e Bennett l'obiettivo primario è garantire l'identità ebraica dello Stato d'Israele nel prossimo futuro e conservare il controllo della maggior par te delle aree della Cisgiordania dove si trovano gli insediamenti ebraici. Neta nyahu ha fatto della battaglia politica sulla legge per sancire l'"ebraicità" dello Stato di Israele il terreno di scontro con il centrosinistra che ha portato alla ca duta del governo di coalizione uscente. L'idea di approvare una legge in cui si stabilisce che Israele "appartiene al popolo ebraico" può apparire dall'esterno qualcosa di ovvio, scontato, ma per Netanyahu non lo è in ragione del timore che il negoziato con i palestinesi di Abu Mazen possa portare a soluzioni terri toriali, anche lontane nel tempo, che vedrebbero gli arabi in maggioranza nel territorio dal Giordano al Mediterraneo. Netanyahu, e con lui il partito Likud, chiede ad Abu Mazen il riconoscimento di Israele come "Stato ebraico" per scongiurare la possibilità che gli arabi-palestinesi possano conquistarlo dall'in terno, grazie ad una formula binazionale, puntando sulla carta demografica. La determinazione con cui Abu Mazen ha finora rifiutato di accettare la defini zione di "Stato ebraico" per Israele - sostenuta tanto da Stati Uniti che Unione Europea - aumenta i timori del centrodestra. A cui si aggiunge il ruolo di Bennett, leader di "Bayit Ha-Yehudì" il partito della "Casa Ebraica" a destra del Li kud, portavoce delle istanze di gran parte dei 250 mila israeliani che vivono e risiedono negli insediamenti di Giudea e Samaria ovvero nella West Bank condivisa con oltre 1,2 milioni di palestinesi. Se la popolazione degli insedia menti ebraici sostiene più Bennett di Netanyahu è perché si sente da lui mag giormente rassicurata sulla futura permanenza di queste aree sotto sovranità israeliana. Bennett ha infatti esposto un proprio piano che prevede l'annessio ne a Israele di tutte le aree della West Bank ad eccezione delle maggiori città palestinesi che avrebbero uno status di indipendenza de facto, con piena li bertà di circolazione dei loro abitanti non solo nella West Bank ma anche den tro Israele dei confini pre-giugno 1967. Il piano di Bennett ha un valore non solo territoriale ma politico-ideologico perché gli insediamenti della West Bank sono divenuti il serbatoio di gran parte degli ufficiali delle truppe speciali, an dando a ricoprire il ruolo di serbatoio dell'entusiasmo sionista avuto dai kibbut zim di impronta socialista fino agli anni Settanta. Il motivo è lo spostamento dei confini esterni di Israele: se allora erano i kibbutzim a trovarsi più esposti al confronto con gli arabi, ora lo sono gli insediamenti.
Herzog-Livni, il sionismo come coesione democratica
La scelta di Herzog e Livni di definire la propria lista congiunta del centrosini stra "Machanè Zionì" - Campo sionista - punta a strappare al centrodestra la palma dell'orgoglio sionista offrendo un'interpretazione dell'ideologia originaria differente da quella di Netanyahu e Bennett. Herzog e Livni partono dalla fu sione fra le matrici diversi del Paese che vengono identificate nelle rispettive storie personali: lui viene da una famiglia-simbolo della tradizione laburista, con il padre già presidente dello Stato, e lei da una famiglia-simbolo della tra dizione conservatrice, con il padre fra i fondatori dell'Irgun di Menachem Begin che si ispiravano al revisionismo di Zeev Jabotinski. Durante la campagna e lettorale, nei comizi, nelle interviste e negli spot tv, Herzog e Livni hanno par lato spesso dei propri "valori diversi" per sottolineare come la scelta di "unirsi" esprima la volontà di "tornare alle origini" ovvero alla necessità di rifondare la società israeliana, sulla base della tradizione sionista, per vincere le sfide che David Ben Gurion - padre fondatore - volle inserire nella Dichiarazione di Indi pendenza: la pace con i vicini, l'unione con gli ebrei della Diaspora, la coesio ne fra tutti gli israeliani, minoranze incluse. Herzog e Livni puntano così a rige nerare il concetto di "coesione nazionale" ovvero ridurre le differenze econo miche, sociali e politiche che "hanno trasformato Israele in uno Stato indeboli to da troppe spaccature e differenze". È un messaggio che punta a raccoglie re lo scontento delle fasce economiche più deboli, che non hanno tratto giova mento dal boom delle start up hi-tech, ed anche ad andare incontro alla mino ranza degli arabo-israeliani, che rappresenta oramai il 20 per cento della po polazione. L'idea sionista in cui Herzog e Livni si riconoscono non ha bisogno della legge sulla ebraicità dello Stato voluta da Netanyahu perché si richiama alla Dichiarazione di Indipendenza che parla di "nazione ebraica e democrati
ca" con pieno rispetto per tutte le minoranze che vi vivono. Sul fronte dei ne goziati con i palestinesi Herzog contesta a Netanyahu di "non aver avanzato i dee nuove" ed aver governato "sulla base della paura" ritenendo che invece spetti al premier "dimostrarsi creativo ed innovatore" nella trattativa al fine di "sbloccare lo stallo con la controparte". Non si tratta dunque di proposte nuo ve ma della volontà di avere un approccio ai palestinesi "innovatore" rispetto al passato per "dare agli israeliani ciò che più vogliono - come ripete Tzipi Liv ni - una speranza di pace".
(Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, 13 marzo 2015)
Il generale dei carabinieri Del Sette in visita al ghetto di Roma
«La sicurezza è in nostro primo obiettivo».
«La vigilanza di quest'area è, per noi un obiettivo importante dal 1982 anche se in questo periodo lo è in particolar modo». Lo ha detto il Comandante generale dell'Arma dei Carabinieri Tullio Del Sette durante una visita alla Comunità ebraica di Roma e al ghetto.
Del Sette era accompagnato dal Comandante provinciale di Roma Salvatore Luongo e dal Generale Angelo Agovino Comandante Regione Carabinieri Lazio. «In tutti questi anni - ha aggiunto Del Sette - abbiamo cercato di svolgere questo lavoro al meglio e c'è stato un lavoro sinergico con chi si è occupato di sicurezza di quest'area dall'altra parte». Ad accompagnare il comandante Del Sette c'erano il presidente delle comunità ebraiche d'Italia Renzo Gattegna e quello della comunità romana Riccardo Pacifici.
«La nostra alleanza punta - ha sottolineato Gattegna - a darci la possibilità di non stravolgere la nostra quotidianità e la nostra vita: se dovessimo rinunciarci perchè ci sentiamo minacciati significherebbe che le forze del male hanno raggiunto il loro obiettivo». «La vigilanza delle forze dell'ordine - ha aggiunto Pacifici - dona serenità alle famiglie. Si possono coniugare sicurezze e serenità, blindatura ma anche la possibilità che la gente si incontri».
(Il Messaggero, 13 marzo 2015)
Il voltafaccia
di Antonio Donno
Il Partito democratico americano, con il presidente Harry Truman in testa, ha dato un contributo fondamentale alla nascita dello stato di Israele, il 14 maggio 1948. Benché il dipartimento di stato fosse accanitamente contrario al sostegno che Truman e i suoi collaboratori della Casa Bianca stavano assicurando al movimento sionista, per ragioni che riguardavano il possibile schieramento del mondo arabo a fianco dell'Unione sovietica, il Partito democratico, sia alla Camera dei Rappresentanti sia al Senato, sposò senza indugi la politica pro sionista di Truman.Così Israele, nei suoi primi decisivi anni di vita, almeno fino al 1953, poté contare sull'appoggio incondizionato del Partito democratico. Anzi, fu proprio l'ala progressista del partito, quella liberal, a schierarsi in prima fila nel sostenere la causa della nascita di Israele contro l'opposizione e le manovre dilatorie del dipartimento di stato e del Foreign Office britannico, intese a far fallire il piano di spartizione. Uno degli esponenti più in vista tra i liberal del tempo, Freda Kirchwey, scrisse parole di fuoco contro coloro che facevano di tutto perché il nuovo stato di Israele non vedesse la luce: "Uno dei capitoli più disgraziati della storia degli Stati Uniti è stato scritto da quegli esponenti del dipartimento di stato e della Difesa che hanno adottato una politica di rinvio che può solo avere disastrose conseguenze per la pace e la sicurezza, per non parlare della giustizia e della moralità".Ancora Kirchwey: "Se gli Stati Uniti dovessero piegarsi di fronte a tali pressioni, sarebbero distrutte le basi morali sulle quali è stata costruita la nostra nazione (
). Una dimostrazione di fermezza da parte nostra metterebbe fine al gangsterismo arabo".
Anche durante il decennio repubblicano, con Dwight D. Eisenhower alla Casa Bianca e John Foster Dulles come segretario di stato, il Partito democratico, con Adlai Ewing Stevenson (1900-'65) in testa come principale esponente della parte liberal del partito, accusò ripetutamente il Partito repubblicano di voltare le spalle al giovane e debole stato ebraico, al fine di recuperare l'amicizia del mondo arabo e allontanare i sovietici dal medio oriente, mettendo a repentaglio la stessa sopravvivenza di Israele.
Che cosa spingeva il Partito democratico e i liberal al suo interno a sostenere a spada tratta le ragioni di Israele?Per rispondere a questa domanda occorre riferirsi alla cultura politica in quel momento diffusa nel mondo occidentale, ossia tra la fine della guerra e i primi anni 50. E' sufficiente indicare nella specificità dell'orrenda situazione del popolo ebraico la ragione unica dell'atteggiamento del mondo democratico occidentale a favore della soluzione della nascita di uno stato ebraico in Palestina, cioè nell'antica Terra d'Israele? Certamente questa ragione è incontestabile, perché poggiava pesantemente sul senso di colpa del mondo democratico, ma è una ragione che discende da una nuova visione dell'ordine mondiale, o da una nuova speranza di un ordine che facesse i conti definitivamente con la barbarie.Il Partito democratico e gli stessi liberal vedevano nella Guerra fredda non solo il modo politico-diplomatico-militare di contrapporsi al totalitarismo comunista, prolungamento su altre sponde dello sconfitto totalitarismo nazionalsocialista, ma la ragione stessa dell'esistenza della democrazia nel mondo. Questo dato è di un'importanza cruciale.
La distruzione dell'Europa durante due guerre mondiali, il trionfo macabro di forze irrazionali (o allora giudicate tali) dedite allo sterminio e alla negazione stessa dell'individualità umana come creatrice di progresso e di bene - forze che avevano dominato e devastato tutta la prima metà del Ventesimo secolo - erano giudicati inammissibili per la mentalità emergente nel mondo democratico.Era il momento che gli Stati Uniti si mettessero alla testa di una nuova fase della guerra a favore del progresso pacifico e democratico dell'umanità: questa era la motivazione del Partito democratico e dei liberal americani: una potente spinta morale alla base di una scelta di lotta per la libertà.
Israele rappresentava il cuore di un problema morale di dimensioni planetarie. Nel piccolo stato ebraico da fondare come rifugio di un'umanità reietta per secoli, il Partito democratico e i suoi liberal vedevano la ragione stessa, la ragione più cogente dell'esistenza della democrazia e della libertà nel mondo. E nel mondo arabo ostile agli ebrei l'esempio lampante di irrazionalità, reazionarismo, odio, arretratezza, fanatismo.Gli arabi odiavano gli ebrei perché ebrei. Nulla di nuovo oggi da questo punto di vista. La battaglia per Israele era il "test case" della nuova fase della storia mondiale, dove la liberazione di un popolo, la cui cultura era all'origine stessa dell'occidente, era il simbolo di una rinascita spirituale del mondo democratico e di un suo impegno a livello globale: una sorta di purificazione.
Il liberal Adlai Stevenson, governatore dell'Illinois e candidato democratico alla presidenza nei primi anni 50, così si espresse: "Proprio perché il sionismo rappresenta l'aspirazione a una patria ebraica, io mi sento di essere un sionista". Ascoltando Chaim Weizmann, leader del movimento sionista, nel 1940, Stevenson così commentò: "Per un momento non ho più seguito le sue parole e ho riflettuto sulle qualità di una grande leadership, di una grandezza perenne. Ho riflettuto sull'indomabile volontà di raggiungere un grande obiettivo, non per mezzo dell'odio, del fanatismo, dell'ignoranza, della schiavitù, della brutalità e del sangue, ma per le vie del compromesso e della pace". Le parole del liberal Stevenson rappresentano bene ciò che andava maturando nella sensibilità democratica della cultura occidentale.
Insomma, l'uscita del mondo dall'incubo della guerra era, soprattutto per la cultura occidentale, un processo di rigenerazione, una rigenerazione che non cercava strade nuove, nuovi punti di riferimento, ma trovava nelle fondamenta stesse della propria tradizione gli strumenti per la rinascita.La tradizione consisteva nei principi della filosofia liberale, quella filosofia da cui era scaturito l'esperimento americano; e con Israele si vedeva una sorta di compimento di quell'esperimento in un popolo che era stato una delle matrici culturali e spirituali di quella stessa vicenda americana.
Michael Novak, filosofo e teologo cattolico americano, ha ben scritto che le ali dell'aquila americana rappresentano l'una il cristianesimo, l'altra l'ebraismo. E la nascita di Israele, voluta dai democratici di Truman e dalla stessa ala liberal del partito, sanciva il fatto che "Israel in the mind of America" fosse un dato ineliminabile nella cultura americana. O, almeno, così sembrava.Dal canto suo, il Partito repubblicano, dopo il decennio di Eisenhower, fu all'opposizione negli anni di John Fitzgerald Kennedy (1961-'63) e Lyndon Johnson (1963-'69), e non ebbe alcun interesse per il dossier "Israele".
Ma furono proprio gli anni 60 a cominciare a intaccare quel legame tra il Partito democratico, i suoi liberal e Israele, nato alla fine degli anni 40 sulle basi degli impulsi politici ed etici della filosofia liberale americana. E ben prima della guerra del 1967, alla quale troppi si riferiscono come momento topico nell'inizio dell'indebolimento del legame tra i liberal del Partito democratico e Israele. Il fatto è che, a partire dai movimenti di liberazione nazionale dei paesi coloniali, nella società occidentale, e in quella americana in particolare, si stava introducendo il virus del terzomondismo come criterio unico e incontestabile nell'interpretazione della storia contemporanea.Con la diffusione dell'ideologia terzomondista tra le fasce giovanili, con i suoi dogmi sullo sfruttamento dei paesi coloniali da parte del mondo capitalistico, la continua predazione delle ricchezze e la concezione che il mondo ricco fosse ricco grazie alle ruberie perpetrate a danno dei paesi del Terzo mondo, si andava imponendo nella cultura occidentale un modo di leggere i rapporti tra i paesi ricchi e i paesi poveri in un senso unico, totalizzante. Chi non vi si adeguava era tacciato di imperialismo, reazionarismo, come minimo di insensibilità.
Era apparsa la political correctness, che avrebbe ammorbato la nostra storia sino a oggi. Il terzomondismo fu il primo veicolo di tale mutamento culturale e i suoi sacerdoti furono "i teologi della rivoluzione mancata, ottenebrati dall'assunzione di massicce dosi di oppio ideologico", come ha scritto il sociologo Luciano Pellicani, riprendendo una famosa espressione di Raymond Aron.I dannati della terra di Frantz Fanon, che fu una delle letture preferite del futuro presidente americano Barack Hussein Obama, procurò la bibbia del pensiero unico, mentre gli sfruttati del Terzo mondo divennero i nuovi proletari che avrebbero portato a compimento quella rivoluzione che i proletari imborghesiti e panciuti dei paesi capitalistici non erano riusciti a sviluppare o non avevano voluto realizzare, ammaliati dalle sirene del benessere capitalistico.
La new left americana fu la portatrice di questo dogma di liberazione. Benché i suoi seguaci nei campus dichiarassero che il loro scopo fosse restaurare l'originaria "innocenza" americana - quell'innocenza persa con lo sfruttamento dei paesi poveri, l'imperialismo, il capitalismo - la new left, in effetti, stava introducendo nella società americana nuovi criteri di giudizio e una modificazione sostanziale del linguaggio.Per dirla con lo studioso Barry Rubin, "il capitalismo stesso era il male. L'America non era una meritocrazia ma una colonia dominata da vecchi maschi bianchi, in cui le donne, i non-bianchi e i giovani erano generalmente cittadini di seconda classe", condannati allo sfruttamento e all'emarginazione, esattamente come i popoli nonbianchi del Terzo mondo. Questa identificazione ha un significato tutto particolare. Assimilare gli "sfruttati" all'interno dei paesi capitalistici con gli "sfruttati" del Terzo mondo permetteva una divisione semplicistica ma affascinante tra sfruttatori e sfruttati in senso planetario e un percorso rivoluzionario libero dalle pastoie dogmatiche marxiste, semplice e chiaro.
Quando gli esiti della guerra del 1967, con la folgorante vittoria di Israele, furono universalmente chiari, il piatto era già servito. Una nuova mentalità aveva fatto breccia soprattutto tra le fasce giovanili dei paesi ricchi. Il marxismo-leninismo cominciava a essere relegato in ristretti gruppi di professori americani, "un esiguo numero di vecchi e avviliti accademici marxisti con i peli sulle orecchie", come ebbe a dire Tom Wolfe con la sua tradizionale delicatezza.Così, nel mondo politico americano, furono il Partito democratico e i liberal ad assorbire la lezione della new left e a riciclarla all'interno del linguaggio politico corrente. Progressivamente, i mass-media americani di area liberal iniziarono a sdoganare il terzomondismo e il suo linguaggio semplice e facilmente comprensibile.
Il mondo arabo mediorientale, un tempo considerato dai liberal come portatore di arretratezza, fanatismo e diseguaglianza, fu catapultato senza indugi nel settore degli sfruttati, con pochi riguardi verso la necessaria considerazione delle gravi discriminazioni presenti nella sua cultura, soprattutto tra uomini e donne. Di conseguenza, il meccanismo terzomondista appioppava a Israele l'accusa di paese sfruttatore, imperialista, colonialista. Il terzomondismo, con la sua aberrante logica semplificatoria, aveva operato una divisione nella questione mediorientale: da un lato, il mondo arabo sfruttato, dall'altra Israele, longa manus dell'imperialismo e dello sfruttamento del mondo ricco. Quando terminò la Guerra dei sei giorni, i suoi risultati permisero ai terzomondisti e ai liberal americani di tuonare: avevamo ragione! L'ideologia terzomondista aveva fatto breccia tra i liberal statunitensi e in buona parte del Partito democratico, così la posizione di Israele acquisì una nuova aberrante dimensione: ora lo stato ebraico non era più il prodotto di una guerra di liberazione nazionale contro l'imperialismo inglese e il fanatismo arabo, come era stato considerato dal mondo liberal americano nei decenni precedenti, ma al contrario svolgeva il ruolo di oppressore verso i popoli del Terzo mondo, cioè, nel caso mediorientale, gli arabi.
Da quel momento in poi, i liberal americani presero progressivamente le distanze da Israele e il democratico Jimmy Carter, presidente dal 1977 al 1981, fu l'esempio più chiaro di questo distacco. Fu il Partito repubblicano con Richard Nixon (presidente dal 1969 al 1974), poi Ronald Reagan (1981-1989), infine George W. Bush (2001-2009) a porsi decisamente dalla parte di Israele.L'attuale presidenza di Obama conferma pienamente questo mutamento politico nella sinistra americana e lo radicalizza. Il recente discorso del premier israeliano Benjamin Netanyahu al Senato americano, di fronte alla maggioranza repubblicana e in assenza di buona parte del gruppo democratico, fotografa bene il capovolgimento delle alleanze che negli Stati Uniti sostengono Israele, come esito del lungo processo di radicalizzazione del mondo liberal americano sotto l'egida dell'ideologia terzomondista.
(Il Foglio, 13 marzo 2015)
Parigi - Riapre il supermercato kosher
Teatro del sanguinoso sequestro ad opera dell'islamista Amedy Coulibaly, sarà di nuovo in funzione domenica.
PARIGI - L'Hyper Cacher di Porte de Vincennes a Parigi, il supermercato di prodotti kosher teatro del sanguinoso sequestro ad opera dell'islamista Amedy Coulibaly che costò la vita a quattro ostaggi, riapre le porte domenica, interamente rinnovato.
L'esterno è stato ridipinto di bianco, al posto del nero precedente, e l'insegna con il nome del negozio per il momento è stata tolta. All'interno, un mobilio ripensato, in colori vivaci sui toni del rosa e del fucsia. Davanti restano le transenne e i mazzi di fiori deposti in memoria delle vittime, ma i gestori del supermercato, dicono alla radio Europe 1, non vogliono "smettere di vivere".
Anche i dipendenti dell'Hyper Cacher sono tutti nuovi. I precedenti commessi e cassieri sono ancora in gran parte sotto shock per l'attacco subito a gennaio, e la maggior parte non pensa di essere in grado di tornare a lavorare in quel posto. Anche il "magazziniere eroe" Lassana Bathily, che aveva salvato diversi clienti nascondendoli in una cella frigorifera, pensa di cambiare lavoro.
(Corriere del Ticino, 13 marzo 2015)
Cosa ci fa il "maresciallo di campo" di Obama in un gruppo anti Bibi?"
di Rolla Scolari
Ci mancava soltanto un ex pilastro della campagna di Barack Obama a turbare le aspettative elettorali di Benjamin Netanyahu e ad alimentare la narrativa delle antipatie tra la Casa Bianca e il premier israeliano. Jeremy Bird ha 36 anni e un curriculum da fare invidia: laureato a Harvard, ha lavorato per le campagne di John Kerry e del governatore del Vermont Howard Dean, ha collaborato con Obama sia nel 2008 sia nel 2012; nella campagna per la rielezione del presidente è stato "National field director". La rivista Rolling Stone lo ha definito il "maresciallo di campo" di quello sforzo elettorale.
Ora, a tre anni di distanza, è tornato a occuparsi di elezioni, ma invece di lavorare per la vittoria di un candidato, aiuta un'organizzazione non profit israeliana che non sostiene alcun politico ma vuole che "King Bibi" Netanyahu, dopo sei anni al potere, sia sconfitto. V15, Victory 2015, è nata da un'idea su Facebook di alcuni giovani della Tel Aviv più laica e trendy, come trendy e piena di energia notturna, stilisti emergenti e gallerie è la via dove si trova il quartier generale dell'associazione, Rehov Lilienblum. Il ruolo di consulente di Bird ha fatto sorgere controversie, visto che la collaborazione, iniziata a dicembre, ha anche coinciso con i mesi di polemiche e dibattiti sul discorso di Benjamin Netanyahu al Congresso americano, tenuto pochi giorni fa.
In quest'atmosfera, la presenza di un personaggio come Bird, vicino al presidente e strumentale alla sua rielezione nel 2012, ha fatto sorgere le voci più maliziose. In un recente articolo su di lui il New York Times ha scelto di precisare: "Non ci sono prove che suggeriscano che Obama o i suoi consiglieri abbiano qualcosa a che fare con la mossa di uno dei più importanti protagonisti della sua campagna, che non ha mai lavorato alla Casa Bianca".
A ben vedere c'è chi ricorda come a Netanyahu qualcosa di simile sia già accaduta nel 1999 quando uno dei più cruciali strateghi di Bill Clinton, James Carville, aveva aiutato il laburista Ehud Barak a sconfiggerlo.
Nell'ultima settimana di campagna che precede un voto che per la prima volta in anni non sembra scontato a favore del premier uscente, Bird e i suoi V15 non sono l'unico guaio di Netanyahu. Erano migliaia le persone che sabato sera hanno riempito l'iconica piazza Rabin di Tel Aviv. Striscioni e cartelli non sostenevano nessun politico in particolare. Chiedevano a Bibi di andarsene: il ritornello di queste elezioni. A Gerusalemme e Tel Aviv la chiamano "Bibi fatigue". E per la prima volta, ha scritto Haaretz, quotidiano della sinistra liberale israeliana, il partito del premier sente di perdere presa, anche se in realtà il 17 marzo la sfida resta più che aperta. Sono molte le fonti interne ad aver rivelato ai giornalisti locali nelle scorse ore che il rischio di una sconfitta di Bibi esiste. Sia i sondaggi del canale del Parlamento sia quelli di una delle maggiori emittenti del paese danno all'Unione sionista del laburista Isaac Herzog e dell'ex ministro della Giustizia Tzipi Livni due o tre seggi di vantaggio rispetto al Likud. Qualcuno si è accorto dell'affaticamento del premier quando lunedì il suo staff ha deciso di non convocare la stampa a una breve visita elettorale a Mahane Yehuda, simbolico mercato di Gerusalemme e tradizionale roccaforte del Likud.
Netanyahu dà la colpa a "forze dall'esterno" per la perdita di slancio e il riferimento a V15 e a Bird non è velato. "C'è un grande sforzo globale per far cadere il governo del Likud", ha detto davanti a un gruppo di sostenitori, mentre secondo Haaretz il suo entourage ha lamentato l'azione di uomini d'affari stranieri che per influenzare le elezioni starebbero finanziando gruppi non profit che, a differenza dei partiti, possono per legge accettare donazioni fatte dall'estero.
(Il Foglio, 13 marzo 2015)
Una guida alle elezioni israeliane
PERCHÉ SI VOTA? Nel dicembre 2014 Benjamin Netanyahu, allora a capo del governo, ha annunciato che si sarebbero tenute elezioni anticipate. La causa è da ricercare nella crisi politica che per mesi ha tormentato la fragile coalizione di governo e che ha avuto uno dei suoi apici nel licenziamento del ministro delle Finanze Yair Lapid (del partito centrista Yesh Atid) e del ministro della Giustizia Tzipi Livni (del partito centrista HaTnuah). Una delle ragioni principali della profonda crisi politica risiede nella proposta di legge presentata dal governo per ridefinire lo stato di Israele: non più "stato ebraico e democratico" ma "patria nazionale del popolo ebraico" con evidenti implicazioni per gli arabi israeliani, che compongono circa il 20% della popolazione del paese. La legge in questione è una "Legge fondamentale", equivalente alle leggi costituzionali nei paesi dotati di una Costituzione scritta.
QUALI SONO LE PRINCIPALI FORZE IN CAMPO? Likud (HaLikud, "Il consolidamento")
Partito politico di centro-destra fondato nel 1973 da Menachem Begin, in alleanza con altri partiti della destra israeliana, il Likud ottenne la sua prima vittoria elettorale nel 1977, interrompendo quello che fino ad allora era stato il monopolio del Partito laburista israeliano e riuscendo a rimanere al governo fino alla sconfitta elettorale del 1992. Nel 1996 il Likud tornò al governo, con Benjamin Netanyahu nel ruolo di Primo ministro. Nonostante il successo elettorale ottenuto nel 2003, nel 2005 il partito subì una crisi interna, in seguito alla decisione da parte dell'allora leader del partito, Ariel Sharon, di creare un nuovo partito, Kadima. La decisione penalizzò il Likud alle elezioni del 2006; il partito tuttavia è riuscito a ottenere un nuovo successo alle elezioni del 2009, in seguito alle quali, nonostante il centrista Kadima avesse ottenuto la maggioranza dei seggi, il leader Netanyahu venne investito dell'incarico di formare il governo. Nelle elezioni del 2013, il Likud, in ticket con il partito di destra Yisrael Beiteinu guidato da Avigdor Liebermann, ha ottenuto la maggioranza dei voti, ottenendo 31 seggi alla knesset (20 Likud; 11 Yisrael Beiteinu). L'alleanza tra i due partiti è durata però solamente fino al luglio 2014, quando Liebermann, allora ministro degli esteri, denunciò la divergenza di vedute tra lui e Netanyahu su diverse questioni e dichiarò lo scioglimento dell'alleanza, ferma restando la permanenza di Yisrael Beiteinu all'interno della coalizione di governo. Unione sionista (HaMahane HaZioni)
Alleanza politica di centro-sinistra tra il Partito laburista israeliano (Miflèghet Ha-'Avoda Ha-Yisraelit, comumente Ha'Avodà) e HaTnuah ("Il movimento"). L'alleanza è stata costituita nel dicembre 2014, nella speranza di radunare l'elettorato di centro-sinistra e sconfiggere il rivale Likud. In caso di vittoria alle prossime elezioni, il leader del Partito laburista Isaac Herzog e la leader di HaTnuah Tzipi Livni si alterneranno nel ruolo di Primo ministro, i primi due anni il primo e i successivi due anni la seconda.
L'Unione sionista, il cui slogan principale è "Responsible leadership for Israel" e che si presenta come "il movimento del cambiamento", si prefigge l'obiettivo di costruire un paese "sicuro, ebraico e democratico"
Nella precedente tornata elettorale, il Partito laburista aveva guadagnato 15 seggi e sedeva tra le file dell'opposizione, mentre HaTnuah, con 6 seggi, era parte della coalizione di governo.
HERZOG E LIVNI: CHI SONO COSTORO? Yitzhak (Isaac) Herzog: figlio del generale Chaim Herzog, sesto presidente di Israele, e nipote di Yitzhak HaLevi Herzog, stimato rabbino capo prima d'Irlanda e successivamente del mandato britannico di Palestina, Isaac Herzog è alla guida del Partito laburista dal novembre 2013. Succedendo a Shelly Yachimovich, che si focalizzava principalmente sulle questioni socio-economiche, Herzog ha spostato le priorità del partito sulle questioni di sicurezza e sulla ripresa del negoziato con i palestinesi, manifestando il suo supporto per la soluzione dei due stati. Tzipi Livni: fondatrice del partito HaTnuah, nato nel 2012 da una costola del partito centrista Kadima, Tzipi Livni ha ricoperto l'incarico di Ministro della giustizia tra marzo 2013 e dicembre 2014, nel governo guidato da Benjamin Netanyahu. A differenza di quest'ultimo, Livni è un'ardente sostenitrice della soluzione dei due stati. Nel 2005, alla nascita di Kadima, Livni seguì Ariel Sharon e Ehud Olmert nel loro passaggio dal Likud al neonato partito, costituitosi a supporto del piano di disimpegno unilaterale proposto da Sharon, che prevedeva lo smantellamento totale degli insediamenti ebraici nella striscia di Gaza e di quattro insediamenti in Cisgiordania. Nel 2008, Livni venne eletta alla guida di Kadima, succedendo a Olmert. Nelle elezioni legislative del 2009, Kadima ottenne la maggioranza dei seggi alla Knesset. La vittoria elettorale non fu però sufficiente ad assicurare al partito la leadership del paese; la coalizione di partiti di centro-destra, guidati dal Likud di Netanyahu, ottenne un numero di seggi tale da indurre l'allora presidente Shimon Peres a investire Netanyahu dell'incarico di formare un governo. Livni divenne dunque il capo dell'opposizione.
E GLI ALTRI? Altre forze in campo sono HaBayit HaYehudi ("La casa ebraica"), Kulanu ("All of us") e Yisrael Beitenu ("Israele, casa nostra")
Il primo è un partito politico sionista religioso della destra israeliana guidato da Naftali Bennett, nato nel 2008 dalla fusione di due partiti nazionalisti religiosi, Moledet e Tkuma. Nelle ultime elezioni, HaBayit HaYehudi ha ottenuto 12 seggi, divenendo la quarta forza politica all'interno della knesset. Il partito si distingue per le sue posizioni fortemente a favore dell'espansione degli insediamenti israeliani, per l'opposizione alla soluzione dei due stati e per il supporto all'annessione allo stato di Israele dell'area C della West Bank (territori della Cisgiordania controllati e amministrati da Israele).
Kulanu è invece una formazione centrista nata nel novembre 2014 da una costola di Kadima per volontà dell'ex ministro delle Telecomunicazioni Moshe Kahlon. Potrebbe essere molto importante per determinare la prossima maggioranza.
Yisrael Beitenu, infine, è un partito laico di destra, guidato da Avigdor Lieberman. Potrebbe non superare lo sbarramento elettorale
DA CHI SONO RAPPRESENTATI GLI EBREI ULTRA-ORTODOSSI? Le formazioni politiche principali sono Shas e Giudaismo unito nella Torah.
Shas, guidato da Atieh Deri, è un partito ultraortodosso che rappresenta i gruppi sefarditi e mizrahi (ebrei di origine medio-orientale e mediterranea), storicamente marginalizzati nella società israeliana. Potrebbe ottenere uno storico 10% dei voti, crescendo di 2 punti rispetto al 2013.
Giudaismo unito nella Torah è invece un gruppo religioso che rappresenta i movimenti più tradizionali tra gli ashkenaziti (ebrei di origine centro-nord europea e orientale). Secondo i sondaggi potrebbe ottenere il 5% dei voti.
E LA POPOLAZIONE ARABA ISRAELIANA? I quattro principali partiti che rappresentano le istanze della minoranza araba (circa il 20% della popolazione) si sono uniti in unica lista ("Joint list"), nonostante le profonde differenze ideologiche, per cercare di superare la soglia di sbarramento che è stata elevata dal 2% al 3,25%. Questi partiti sono: Hadash (socialdemocratico, a favore della soluzione dei due stati e compsoto da arabi ed ebrei); Ta'al (laico e antisionista), Lista Araba Unita (islamista e antisionista), Balad (laico, di sinistra, nazionalista arabo e antisionista). A capo della lista vi è il leader di Hadash, Ayman Odeh.
(Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, 13 marzo 2015)
Lista Araba Comune: gli islamisti hanno sconfitto la convivenza
Il rifiuto di stringere un accordo elettorale con il più a sinistra dei partiti sionisti rivela che i veri obiettivi non sono l'uguaglianza e la convivenza arabo-ebraica.
L'ipocrisia ha anche un lato positivo giacché implica una sorta di vergogna. I razzisti sono a volte consapevoli delle gravi deficienze del loro pensiero pregiudiziale circa le persone di una diversa ascendenza, religione o colore della pelle. Se ipocritamente nascondono il loro razzismo è perché un po' se ne vergognano. Non si deve disprezzare questo genere di ipocrisia, che è un ingrediente fondamentale in una società che attraversa processi di cambiamento. Vale sia per gli ebrei che non amano molto gli arabi, sia gli arabi che non amano gli ebrei.....
(israele.net, 12 marzo 2015)
Eataly Roma e il Centro Kasher insieme per promuovere la cultura gastronomica ebraica
Seguono un rigoroso rituale di macellazione e una lavorazione altrettanto scrupolosa le carni kasher vendute presso il Centro Kasher di Claudio Spizzichino (in arrivo dall'allevamento di Vittorio Mastropietro). Dal 6 marzo anche la macelleria di Eataly Roma proporrà al grande pubblico le carni in arrivo dal Centro Kasher, con l'obiettivo di promuovere la cultura gastronomica ebraica.
ROMA - È vero, Eataly rappresenta nel mondo il meglio del made in Italy, ma allora perché non dare spazio anche a chi, pur legato a un'altra cultura alimentare, lavora un prodotto 100% italiano (e di qualità) per adeguarlo alle esigenze di una vasta comunità?
Per ogni ebreo praticante la Kasherut è legge quanto gli altri precetti religiosi che si attiene a rispettare. Solo che interessa da vicino le abitudini alimentari quotidiane, determinando divieti e pratiche di trasformazione delle materie prime. Dalle regole per la macellazione rituale delle carni (solo quelle consentite) dietro licenza fornita dal rabbino al divieto di consumare il sangue. Da qui deriva la necessità di uccidere l'animale con un solo taglio alla gola, per provocarne l'immediato dissanguamento; poi le carni vengono salate per non meno di venti minuti (e non più di un'ora) e il fegato scottato. Solo a questo punto si disporrà di carni kasher pronte per la vendita e il consumo. Le stesse che Claudio Spizzichino lavora dal 1987 nel Centro Kasher di via Fonteiana (dove l'attività si è trasferita nel 2013) rifornendo una clientela numerosa, a partire dall'ottima materia prima di Vittorio Mastropietro, storico fornitore di manzo chianino certificato Dop.
Carni kasher (italiane) di alta qualità che dallo scorso 6 marzo sono disponibili presso la macelleria di Eataly Roma, dove uno spazio dedicato e gestito dal personale interno proporrà al grande pubblico i prodotti confezionati con doppio sigillo di Kasherut. L'obiettivo è quello di contribuire alla diffusione della cultura alimentare kasher - a partire da una città come Roma che vede una grande rappresentanza ebraica - auspicando di poter presto rendere disponibili altri prodotti che rispondano alla certificazione di garanzia.
Intanto sono già molti gli chef che hanno mostrato di apprezzare la qualità elevata di una carne sottoposta a controlli scrupolosi.
Centro Kasher Spizzichino, via Fonteiana 24/26, Roma - tel. 06 66157796
(Gambero Rosso, 12 marzo 2015)
PayPal acquista la start up israeliana CyActive per 60 milioni di dollari
Il colosso dei pagamenti online, PayPal, esegue un'altra acquisizione in Israele. Globes rivela che PayPal ha acquisito CyActive, società di sicurezza informatica di Beersheva, per un importo pari a 60 milioni di dollari. L'accordo è stato firmato e a breve si prevede di andare in operativo. Questa sarà la seconda acquisizione di PayPal in Israele. Nel 2008, la società aveva già acquistato la società di monitoraggio frodi finanziarie FraudSciences per 169 milioni dollari. La somma di acquisto della CyActive è un dato importante e significativo per la società stessa perché, ad un anno di vita, possiede già un numero considerevole di clienti grazie alla sua tecnologia di sicurezza. CyActive è parte del cyber incubatore JVP di Beersheva, istituito diciotto mesi fa come parte del Beersheva Advanced Technologies Park....
(SiliconWadi, 13 marzo 2015)
Marocco: Casablanca decide il restauro delle sue sinagoghe
Forte segnale per il dialogo e la convivenza pacifica.
di Diego Minuti
ROMA - Con l'annuncio che la municipalità di Casablanca avvierà a breve le procedure amministrative per il bando di concorso relativo al restauro di parte della sua preziosa medina e, con essa, delle sue ventidue sinagoghe, dal Marocco giunge l'ennesimo significativo segnale per il confronto nel dialogo e per la convivenza pacifica tra religioni diverse.
Il Marocco ospita da secoli una consistente comunità israelita, che nel tempo ha espresso personalità in ogni campo, senza che la loro estrazione religiosa fosse un ostacolo.
Il Regno, quindi, ha una lunghissima tradizione di tolleranza, consolidata con fermezza anche quando in Paesi non lontani i sentimenti anti-israeliani si sono tradotti in atti di violenza insensata. Come l'attentato dinamitardo dell'aprile del 2002 contro la sinagoga di Djerba, in Tunisia, prima conferma della penetrazione della jihad e di al Qaida negli allora apparentemente tranquilli Paesi del Nord Africa.
A questa logica il Marocco - grazie ad Hassan II ed al figlio Mohammed VI - è sempre riuscito a sfuggire, come testimoniano i numerosi luoghi di culto israelitici, protetti ed anzi curati perché il Regno, che ha anche pagato un pesante tributo al terrorismo di matrice islamista, non vuole che si manifestino tensioni legate alla religione. A conferma di ciò basta solo ricordare che ogni anno, un mese dopo la celebrazione della Pasqua ebraica, in totale sicurezza migliaia di ebrei (che arrivano non solo da Israele, ma anche da Paesi europei e da Stati Uniti e Canada), per celebrare la Hiloula, partecipano al pellegrinaggio ad Asjen, ad una decina di chilometri da Ouezzane, per visitare la tomba del rabbino Amram Ben Diwan e la sinagoga che a lui è stata dedicata. E lo stesso accade a Moualine, con il pellegrinaggio annuale al mausoleo di rabbi Abraham Aouriouer, la cui figura è ancora oggi rispettata anche dai non ebrei, tanto che alla celebrazione del rito in suo ricordo partecipano le massime autorità civili e politiche della regione. Forti segnali che il Marocco vuole rendere ancora più visibili con iniziative che altrove farebbero clamore, ma che nel Regno sono semplicemente la continuazione di una ultradecennale lungimirante politica di tolleranza.
A Casablanca, come riferisce La Vie Economique, è stato lanciato un appalto per interventi nel perimetro della Medina e, in essa, anche quelli relativi al restauro della sinagoga Ettedgui, compresi il suo giardino ed i luoghi circostanti.
Di questi lavori beneficeranno anche molti altri luoghi di culto israeliti, tra i quali le sinagoghe Benarrosh, Beth Elohim e David Hamelekh, da sempre meta, oltre che di fedeli, anche di turisti interessati alla storia ed all'arte.
(ANSAmed, 12 marzo 2015)
Israele importa i primi pomodori da Gaza dopo otto anni
di Silvia Di Cesare
Israele ha importato 27 tonnellate di pomodori e 5 tonnellate di melanzane dalla Striscia di Gaza. È la prima volta che il governo israeliano importa frutta o verdura dalla Striscia, dopo il blocco economico imposto in seguito alla vittoria di Hamas alle elezioni governative nel 2006.
Il governo israeliano ha approvato un piano che prevede l'importazione di 1200 tonnellate di prodotti al mese. I palestinesi hanno accolto con favore la decisione israeliana, nonostante la quantità delle esportazioni ortofrutticole sono al di sotto di 3 tonnellate rispetto al periodo pre-blocco economico.
(ArabPress, 12 marzo 2015)
"Una scelta difficile di grande importanza: la sorte degli ebrei bulgari 1943"
SOFIA - Una mostra dal titolo "Una scelta difficile di grande importanza: la sorte degli ebrei bulgari 1943" è stata inaugurata il 9 marzo presso il Palazzo Nazionale della Cultura NDK (terzo piano, ala est) a Sofia, e rimarrà aperta fino al 19 marzo.
L'esposizione descrive la storia degli oltre 48.000 ebrei bulgari la cui pianificata deportazione nei campi di sterminio fu impedita dalle proteste della società civile, della Chiesa Ortodossa Bulgara, di individui ed organizzazioni politiche.
La mostra include una selezione di documenti e fotografie provenienti dall'Archivio di Stato bulgaro e dal Yad Vashem, il Museo dell'Olocausto israeliano.
Questi documenti descrivono la vita della comunità ebraica in Bulgaria, l'aumento dell'antisemitismo in Europa e gli sforzi della società bulgara per il salvataggio di cittadini bulgari di origine ebraica, durante la Shoah.
La mostra è stata esibita per la prima volta nel marzo 2013, presso il Parlamento europeo, quando fu inaugurata dal Presidente bulgaro Rosen Plevneliev e dall'allora presidente di Israele Shimon Peres.
E' stata poi esposta al Centro Peres per la Pace di Tel Aviv, al Museo della Tolleranza di Los Angeles e alla Biblioteca Comunale di San Francisco.
(Bulgaria-Italia.com, 12 marzo 2015)
L'incoscienza d'Israele
Il gossip della campagna elettorale più banale di sempre nasconde l'angoscia di non poter "tenere", come prima della guerra del Kippur.
di Giulio Meotti
ROMA - Israele è un fazzoletto di terra poco più grande della Lombardia, ma è l'unico stato del mondo la cui esistenza è messa apertamente in discussione. Il sud è sotto assedio fra il regime di Hamas e i tagliateste del Sinai. Il nord rigonfia di paura, in attesa che Hezbollah e l'Iran scarichino migliaia di missili sulla fertile Galilea. A destra c'è la Giordania, unico e precario cuscinetto prima dello Stato islamico. Nel mezzo ci sono i palestinesi, sempre più impazienti di accoltellare sionisti. A sinistra c'è l'unico confine tranquillo: il mar Mediterraneo. E' lì che si vorrebbero far rotolare tutti gli ebrei. Eppure, Israele, alla vigilia delle elezioni di martedì prossimo, appare come beato. Il paese si sente sicuramente forte dell'esercito più potente che ci sia "fra Marrakesh e il Bangladesh", come ha detto Amos Yadlin, il generale candidato a diventare ministro della Difesa se la sinistra vincerà alle elezioni. Ma è anche il paradosso di uno dei paesi più minacciati e felici del mondo. Un sondaggio del Pew Center ha appena rivelato che il 59 per cento degli israeliani è soddisfatto del proprio paese, contro, ad esempio, il 33 per cento degli americani (per non parlare dei depressi europei). E se si confrontano il tasso di fertilità e quello di suicidi di Israele con quello di tutti gli altri paesi industrializzati, lo stato ebraico sta al primo posto della classifica dei paesi amanti della vita. Nella campagna elettorale fra il Likud di Benjamin Netanyahu e il "Zionist Camp" di Isaac Herzog non si è parlato delle centrifughe all'uranio degli ayatollah, della Terza Intifada, del boicottaggio e dell'antisemitismo in Europa, dei rapporti con l'America, di califfato, di risoluzioni Onu, di nuovi muri da
Non ha influito sugli elettori il discorso che Netanyahu ha appena tenuto al Congresso degli Stati Uniti. Non hanno peso specifico sugli elettori le uscite contro Bibi degli ex capi del Mossad, degli ex generali, di chi ha avuto in mano la sicurezza del paese.
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costruire, di nuove armi da sviluppare. Non ha influito sugli elettori il discorso che il premier Netanyahu ha appena tenuto al Congresso degli Stati Uniti. E pensare che tutti temevano la faziosità elettorale del suo intervento. Non hanno peso specifico sugli elettori le uscite contro Bibi degli ex capi del Mossad, degli ex generali, di chi ha avuto in mano la sicurezza del paese. All'israeliano medio il politico piace un po' (non troppo) corrotto. E non gli piacciono le slealtà, seppur condite da expertise, di burocrati in pensione e mai eletti. Del tutto ininfluente il tema dell'economia, visto che Israele ha registrato una crescita del 2,6 per cento nel 2014 e per il 2015 ci si aspetta un balzo persino maggiore. Netanyahu ha reso il paese più ricco, più dinamico, più aperto agli investimenti. Tutti i salari crescono, compresi quelli degli insegnanti pubblici. Nessun israeliano pensa che il paese abbia bisogno di una diversa politica economica. Nessuno parla di trattative con i palestinesi, visto che ogni partito ha la propria piattaforma che oscilla fra il fallimentare e l'irrealistico: il Labour di Herzog è per i due stati e per dividere Gerusalemme; il Likud dà voce al più totale e maggioritario scetticismo sulla reale volontà dei palestinesi; la destra di Focolare Ebraico è per l'annessione; Yesh Atid di Lapid vuole un "divorzio" dai palestinesi, ma anche tenere unita Gerusalemme; Kulanu di Moshe Kahlon evita di nominare il problema; Yisrael Beitenu di Lieberman è per lo scambio territoriale; la sinistra di Meretz per le linee del 1967. Un caos programmatico che nasconde il sospetto assoluto nei confronti del mondo arabo-islamico, anche a sinistra. No. A dominare la campagna elettorale, a parte gli esercizi vocali di Herzog per migliorare la propria voce nasale, è stata la storia delle bottigliette. E' successo che la first lady, Sarah Netanyahu, aveva l'abitudine di raccogliere le bottiglie vuote dalla residenza del premier. Ordinava poi all'autista di consegnarle a un supermercato e reclamare l'indennizzo dei vuoti, tenendo per sé il ricavo. Appropriazione indebita di fondi pubblici? Poi c'è stato lo scandalo del tappeto. Si è appreso che quando il presidente Obama ha fatto visita a Netanyahu, nel salotto del premier campeggiava un tappeto sfilacciato. Così un agente dei servizi segreti ci ha dovuto mettere un piede, per evitare imbarazzi. Se non bastasse, la campagna elettorale si è concentrata sul lato spilorcio di Bibi che chiedeva ai dipendenti di compiere acquisti mai rimborsati. Sotto accusa, quarantadue shekel per una bottiglietta di collirio per gli occhi. Diceva Golda Meir a Oriana Fallaci, nel 1972: "Quindici anni fa in Israele non c'erano quasi furti, né assassinii, né prostituzione. Ora invece abbiamo tutto, tutto...". E prima dei tappeti e dei vuoti di bottiglia il paese è stato ipnotizzato dal costo dei gelati al pistacchio di Netanyahu e dei letti speciali che il premier ha chiesto di installare durante il volo di rientro da Washington. E' questo Israele, un misto di incoscienza e di fortezza da Deserto dei Tartari. La banalità quotidiana di Israele, che si riverbera nella sua campagna elettorale, nasconde qualcosa che la rende del tutto irriferibile
La normalità israeliana è in sostanza anormale, è radicata su qualcosa di oscuramente traumatico. Il vero volto della sicurezza e dell'invulnerabilità israeliane, che hanno come specchio la frivolezza in politica, sono insicurezza e vulnerabilità.
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a quella di qualsiasi altro paese civile occidentale. La normalità israeliana è in sostanza anormale, è radicata su qualcosa di oscuramente traumatico. Il vero volto della sicurezza e dell'invulnerabilità israeliane, che hanno come specchio la frivolezza in politica, sono insicurezza e vulnerabilità. Si parla del tappeto di Bibi per non pensare della nuova Masada. Gli israeliani, disillusi del passato e increduli dell'avvenire, sono coscienti della propria forza, oggi come ieri, ma appaiono induriti, inacerbati, sentono fisicamente che non possono abbandonare la guardia nemmeno un giorno, hanno la sensazione d'essere sempre più isolati in un mondo indifferente e che la stessa America è sempre più lontana. Tutto il gossip, questa spensieratezza, è il discrimine che separa Israele dal mondo arabo-islamico. La società palestinese non va al cinema, è concentrata sullo scontro, nelle strade e nell'agone diplomatico. La società israeliana è diversa, vuole vivere. E' come Momik, il personaggio di "Vedi alla voce: amore" di David Grossman, l'adulto dall'aspetto fisico di uno scolaretto. Qualcuno paragona l'incoscienza israeliana al periodo intercorso fra il 1967 e il 1973. Dopo la vittoria di giugno, il paese si divertiva, adorava il nuovo vitello d'oro, il consumismo che dilagava dai fortini della linea Bar-Lev sul canale di Suez ai night club di Tel Aviv. Nessuno prese sul serio i movimenti di truppe sul canale e sul Golan (oggi sono le centrifughe dell'Iran). C'era boriosa sufficienza in tutto il paese. Poi arrivò il 6 ottobre 1973, lo sfondamento delle linee, l'angoscia di non poter "tenere", di essere ricacciati in mare. Dopo la vittoria per disperazione, la gente apparve più matura, come dopo una malattia. Da allora, la possibilità di sparire, di fare le valigie, domina la coscienza di ogni israeliano. Meglio fare i conti in tasca a Bibi e dare una sbirciatina al suo salotto di casa. Si vive meglio. Come se si fosse in un paese normale. Come se non ci fosse soltanto la mobilitazione perenne. Come se, oltre alla maschera antigas, ci fosse anche il collirio di Bibi.
(Il Foglio, 14 marzo 2015)
I cristiani israeliani voteranno per il Likud di Netanyahu
Sentono che il partito conservatore li garantisce di più
di Roberto Copello
Da decenni, quando si parla di questione palestinese e conflitto arabo-israeliano, i cristiani d'Occidente non hanno dubbi su da che parte schierarsi: basti vedere quanti volontari di ong di ispirazione cristiana (mica tutti cattopacifisti) partono per migliorare le condizioni di vita degli arabi a Gaza e in Cisgiordania. Sarebbe dunque logico attendersi che, alle elezioni anticipate di lunedì 17 in Israele, i cristiani locali si schierassero in massa con il fronte «progressista»: il centrosinistra dell'Unione Sionista che vede alleati il laburista Yitzhak Herzog e la popolarissima Tzipi Livni.
E invece, sorpresa. I cristiani israeliani, cattolici o ortodossi, maroniti o melchiti, protestanti o armeni che siano, preferiscono il Likud, ovvero il partito della destra intransigente, del premier uscente Benjamin «Bibi» Netanyahu: quello che ha scatenato la guerra dell'estate scorsa a Gaza, che sponsorizza l'espansione dei coloni ebrei nei Territori palestinesi.
Si badi bene: qui si parla dei circa 160 mila cristiani con passaporto israeliano. Che sono all'80% etnicamente arabi (il resto è di origine soprattutto russa), vivono soprattutto nel nord del paese in Galilea, e se la passano assai meglio dei cugini che stanno al di là della Barriera di separazione (il muro che, però in gran parte è di filo spinato, che divide Israele dalla Palestina). Pare strano però che tifino per chi, dell'ipotesi di due stati, non vuol sentire parlare. Eppure è così, come conferma uno che nei grovigli del Medio Oriente si districa benissimo: padre Giambattista Pizzaballa, 49 anni, lo schietto francescano bergamasco che da 10 anni è il Custode di Terra Santa, ovvero il responsabile dei luoghi santi di proprietà della Chiesa cattolica, fra cui siti archeologici e 74 santuari (un privilegio e una responsabilità che risalgono alla famosa visita di san Francesco al sultano).
«In effetti, la maggior parte dei cristiani in Israele è iscritta al Likud. Dunque è chiaro che sceglierà Netanyahu. Il motivo è semplice: quando la destra in Israele dice sì è sì, se dice no è no. In genere invece la sinistra, quando dice sì, non si sa bene se è proprio sì. Diciamo che la destra è più pratica, la sinistra più idealistica. Detto questo, i cristiani in Israele sono il 2% della popolazione, e quindi politicamente abbastanza irrilevanti. Non saranno certo loro l'ago della bilancia».
Eppure ci sono settori arabi della Chiesa ortodossa molto schierati: in dicembre a Nazareth in mille hanno acclamato Netanyahu, manifestando il desiderio di fare il servizio militare (in Israele arabi e cristiani sono esentati, ndr). Forse si sentono più tutelati dal Likud, specie davanti alla minaccia che l'integralismo islamico pone ai cristiani?
«Siamo a un punto di svolta nella presenza della Chiesa in Medio Oriente. In Siria e Iraq la cosa è evidente. Ma anche in Terra santa, dove non c'è una guerra in corso, c'è una situazione che da anni logora la presenza cristiana. Il conflitto ebraico-palestinese che influisce sulle prospettive economiche, l'isolamento, la mancanza di prospettive, la difficoltà per i giovani soprattutto nei Territori occupati... E poi i cristiani hanno un problema di identità: non sono un terzo popolo, sono arabi palestinesi, però si sentono sempre un po' esclusi sia dagli arabi musulmani sia dagli ebrei».
La vicenda Charlie Hebdo ha complicato tutto... «Il problema delle vignette qui è stato più limitato che in altri luoghi, ha riguardato solo zone classiche della protesta come le palestinesi Nablus, Hebron, Ramallah, certe zone di Betlemme, un po' di più Gaza. Ma non si teme un'espansione dell'Isis perché la dirigenza palestinese, Hamas come Fatah, teme il contagio e cerca di frenarlo. C'è solo qualche cellula, che si ispira all'Isis senza essere direttamente legata al Califfato. È vero, si è visto sventolare qualche bandiera nera dell'Isis, ma credo fosse fatta in casa. Purtroppo l'idea del Califfato esercita un'attrazione incredibile, non solo tra i musulmani più poveri e disgraziati. I nostri cristiani spesso tornano sconvolti dal pranzo con un vecchio amico musulmano che gli ha detto: non condivido che uccidano i cristiani, però questi estremisti sono davvero in gamba».
(Italia Oggi, 14 marzo 2015)
Il Corano spiegato da Magdi Allam per capire la violenza dell'islam
Il terrorismo dei tagliagole si combatte anche conoscendo la loro cultura di morte. Da oggi in edicola con il Giornale il Corano spiegato da Magdi Allam.
di Magdi Cristiano Allam
Leggiamo il Corano per riscattare la battaglia di verità e di libertà incarnata da Benedetto XVI con la storica Lectio Magistralis di Ratisbona il 12 settembre 2006, costretto a capitolare dalla sconvolgente alleanza del «terrorismo dei taglialingue» islamici e della «dittatura del relativismo» che sta spogliando l'Occidente delle fondamenta identitarie, valoriali e culturali dell'unica civiltà che mette al centro la sacralità della vita, la dignità della persona e la libertà di scelta.
Di fatto il declino del pontificato del più straordinario testimone contemporaneo del sodalizio armonioso tra fede e ragione, iniziò immediatamente dopo aver denunciato la violenza intrinseca nell'islam, rievocando le parole dell'imperatore e santo bizantino Manuele II Paleologo (Costantinopoli, 1350 - Costantinopoli, 1425): «Mostrami ciò che Maometto ha portato di nuovo e vi troverai solo delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva a diffondere la fede per mezzo della spada». (Dialoghi con un Persiano, VII dialogo)
Il 30 novembre 2006, all'interno della Moschea Blu di Istanbul, davanti al mihrab, la nicchia di marmo che indica la direzione della Mecca, dopo avere ascoltato dei versetti del Corano intonati in arabo dal Gran
Benedetto XVI sconfessò se stesso raccogliendosi in preghiera, chinando il capo in direzione del principale luogo di culto dell'islam, ingraziando il Gran Mufti «per questo momento di preghiera».
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Mufti Mustafà Cagrici, Benedetto XVI sconfessò se stesso raccogliendosi in preghiera, chinando il capo in direzione del principale luogo di culto dell'islam, ringraziando il Gran Mufti «per questo momento di preghiera», mentre il suo portavoce padre Federico Lombardi precisò che «il Papa ha sostato in meditazione e certamente ha rivolto a Dio il suo pensiero». Quel gesto, a cui Benedetto XVI fu indotto dal pressante condizionamento dell'apparato che governa lo Stato della Chiesa timoroso e preoccupato di arginare l'odio e la violenza che il discorso di Ratisbona avevano generato, di fatto fu una resa a quella «dittatura del relativismo» che il Papa aveva denunciato come il «male assoluto» da combattere, mettendo sullo stesso piano cristianesimo e islam, Dio e Allah, i Vangeli e il Corano.
Leggiamo il Corano per riabilitare la straordinaria protagonista di verità e libertà Oriana Fallaci, che denunciò con chiarezza e coraggio il Corano come la radice del male: «L'islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. È incompatibile col concetto di civiltà». Per uno di quei casi che attestano che nulla è casuale, la morte di Oriana sopraggiunse il 15 settembre 2006, tre giorni dopo il discorso di Ratisbona, proprio quando Benedetto XVI si ritrovò isolato, assediato e aggredito da ogni lato, fuori e dentro la Chiesa. Tra il Papa di «Fede e ragione» e l'Oriana di «La forza della ragione» si era creata un'intesa umana e morale culminata nel loro incontro il 27 agosto del 2005 in udienza privata a Castel Gandolfo. Non fu allestita nessuna camera ardente e il funerale di Oriana fu celebrato in forma strettamente privata. Certamente per sua volontà. Ma anche per l'ostracismo che l'aveva colpita nel mondo trasversale e maggioritario del «politicamente corretto», fatto di condanna se non di scherno per la sua indomabile denuncia non solo del terrorismo islamico ma soprattutto della pavidità dell'Occidente, non solo dell'islamizzazione dell'Eurabia ma soprattutto del Corano.
Leggiamo il Corano per sconfiggere il terrorismo dei taglialingue islamici che stanno perseguitando tutti i testimoni di verità e libertà, riuscendo persino a coinvolgere e a convincere l'Ordine nazionale dei giornalisti in Italia ad accreditare lo psico-reato di islamofobia, che si traduce nel divieto categorico di criticare l'islam, Allah, Maometto e il Corano. Dobbiamo all'integrità intellettuale e al coraggio umano di Alessandro Sallusti se è stata sconfitta questa strategia finalizzata a imporci l'autocensura, a vietarci di essere pienamente noi stessi persino dentro casa nostra, di fatto rassegnandoci alla dittatura islamica morendo dentro, spogliati dei valori che sostanziano l'essenza della nostra civiltà. Il volume pubblicato dal Giornale , «Non perdiamo la testa», ha voluto significare sia il non farci decapitare dai terroristi tagliagole islamici, sia soprattutto il nostro dovere di non rinunciare all'uso della ragione per non vederci sottratto il diritto a entrare nel merito dei contenuti dell'islam e del Corano.
«Il Corano spiegato da Magdi Cristiano Allam», in edicola da oggi in allegato con Il Giornale , s'ispira all'esortazione evangelica «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Giovanni 8, 32). Si tratta in assoluto della sfida culturale più importante, perché solo se avremo l'acume intellettuale, la rettitudine morale e la determinazione civile di guardare in faccia alla realtà del Corano, noi potremo salvaguardare la nostra civiltà.
(il Giornale, 14 marzo 2015)
Marc Chagall: l'amore per Bella e la Shoah nelle tele in arrivo da Israele
di Maurizio Molinari.
«Ich bin Jude», sono ebreo. È la scritta che campeggia sul corpo di un ebreo crocifisso in una stradina di Vitebsk nel quadro che Marc Chagall dipinge nel 1944 per descrivere la Shoah. È una delle 140 opere del pittore ebreo russo in esposizione a Roma, al Chiosco del Bramante, grazie ad una collaborazione fra il Museo d'Israele e Gerusalemme ed Arthemisia. «Il quadro sulla Shoah è un'opera rara, direi unica di Chagall - spiega Ronit Sorek, curatrice del Dipartimento Stampe e Disegni del Museo d'Israele - perché quando la realizza la guerra ancora non è finita ma lui ne descrive già la distruzione avvenuta, esprime come la percepisce a massacro ancora in corso». Il titolo Il Crocifisso evoca l'accusa di deicidio per secoli lanciata contro gli ebrei per attestare come abbia portato ai crimini commessi dei nazisti nei confronti degli stessi ebrei. Nel quadro che raffigura più ebrei crocifissi nelle strade innevate dello shtetl travolto dalla violenza nazista c'è un unico uomo vivo che siede sul tetto, guardando gli ebrei morti, inclusa una madre abbracciata al figlio, in terra, assassinati. Quando Chagall lo dipinge era in America, si sentiva isolato, impotente e si ritrova nell'uomo che guarda dal tetto, unico testimone di un villaggio sterminato. Forse è questo il momento in cui matura la scelta di «non tornare più a Vitebsk » aggiunge Ronit Sorek, ricordando come «nell'unica volta che fece ritorno in Bielorussia non volle mettere piede nel suo villaggio natale perché per lui testimoniava la vita ebraica e non voleva vedere come era stato ridotto, trasformato, dalla guerra, forse per non perdere il contatto con la memoria di quella vita ebraica, a cui era legato anche il rapporto con Bella» la moglie incontrata proprio a Vitebsk che sarebbe diventata la sua musa.
L'amore per Bella ruota attorno a Promenade, il disegno che porterà al dipinto realizzato su olio e tela fra il 1917 ed 1918. «Bella vola tranquillamente nell'aria» dice Sivan Eran- Lavian, capo delle Esibizioni itineranti del Museo d'Israele, secondo la quale il disegno raffigura un'idea «modesta» dell'amore perché «è realizzato senza tecniche sofisticate e si limita a descrivere l'amore grande che li univa».
È la prima volta che il Museo di Israele porta a Roma le opere di Chagall - la mostra è intitolata Amore e Vita - e l'evento coincide con il 50o anno di vita dello stesso museo. È una coincidenza che fa entrare l'Italia nelle celebrazioni del cinquantenario, che vedono esposizioni inaugurate da Shanghai a Parigi, da New York a Taipei. «Pochi sanno che Chagall fu uno dei fondatori del Museo di Israele - spiega Tania Coen- Uzzielli, titolare delle Mostre in arrivo aRoma per l'inaugurazione - perché quandoTeddy Kollek si lanciò nell'impresa si rivolse agli artisti più vicini al giovane Stato. Andò a trovare Chagall a Parigi e ottenne grande attenzione: la vediamo riflessa nella corrispondenza che seguì, In particolare nella lettera del 27 aprile 1965 quando Chagall esprime il sostegno alla nuova istituzione, che nasce l'11 maggio seguente. Le augura la vita "nei tempi a venire", e la definisce con il nome di Museo Nazionale che poi avrebbe adottato».
Il rapporto fra Chagall e il Museo è continuato poi con Ida, la figlia avuta da Bella, che negli Anni 90 donò gran parte delle opere esposte a Roma «rappresentando l'amore che Chagall aveva per Bella ma anche che esprimeva, sebbene in maniera diversa, per tutti gli esseri umani» come afferma James Snyder, direttore del Museo d'Israele, nel testo che apre il catalogo.
Roma, Chiostro del Bramante
Via Arco della Pace 5
Fino al 26 luglio
(La Stampa, 14 marzo 2015)
Chiedetelo ad Hamas
Ieri Hamas ha dato il via a una campagna su Twitter denominata #AskHamas che nelle intenzioni del gruppo terrorista che tiene in ostaggio la Striscia di Gaza dovrebbe convincere gli europei che Hamas non è un gruppo terrorista ma che trattasi di "movimento di liberazione nazionalista".
La campagna, che durerà cinque giorni, è partita in concomitanza con la discussione dell'appello fatto dalla Unione Europea contro la rimozione di Hamas dalla lista dei gruppi terroristici stabilito per un cavillo legale dalla Corte di Giustizia Europea....
(Right Reporters, 14 marzo 2015)
Israele tra nuovo e vecchio sionismo
di Maurizio Molinari
La sfida elettorale del 17 marzo in Israele non è solo fra opposte coalizioni che ambiscono a governare il Paese ma fra diverse visioni del sionismo. Co me ci dice l'ex presidente Shimon Peres, in una conversazione informale nella sua Fondazione a Jaffa, "cento anni fa i pionieri sionisti scelsero di cambiare il mondo degli ebrei e ci sono riusciti". Fra le ideologie del Novecento infatti il sionismo può vantare il primato di aver raggiunto l'obiettivo della formazione dello Stato e di aver mutato anche la natura del popolo ebraico: dalla disper sione alla guida di una potenza regionale, economica e militare, "che nessuno di noi aveva immaginato" come ammette Peres. "Se c'è qualcosa che dobbia mo rimproverarci è di non aver osato abbastanza con i nostri sogni" aggiunge l'anziano leader laburista. Alla vigilia del 67o anno di nascita, lo Stato Ebraico vede però quest'identità sionista al centro di un'accesa contesa politica che si sovrappone alla competizione elettorale per la XX Knesset. Da un lato c'è il centrosinistra, guidato da Yizhak Herzog e Tzipi Livni, e dall'altro il centrode stra, i cui leader di spicco sono Benjamin Netanyahu e Naftali Bennett, porta tori di un messaggio divergente su come il sionismo deve rinnovarsi per af frontare il XXI secolo.
Netanyahu-Bennett, identità ebraica e Terra d'Israele
Per Netanyahu e Bennett l'obiettivo primario è garantire l'identità ebraica dello Stato d'Israele nel prossimo futuro e conservare il controllo della maggior par te delle aree della Cisgiordania dove si trovano gli insediamenti ebraici. Neta nyahu ha fatto della battaglia politica sulla legge per sancire l'"ebraicità" dello Stato di Israele il terreno di scontro con il centrosinistra che ha portato alla ca duta del governo di coalizione uscente. L'idea di approvare una legge in cui si stabilisce che Israele "appartiene al popolo ebraico" può apparire dall'esterno qualcosa di ovvio, scontato, ma per Netanyahu non lo è in ragione del timore che il negoziato con i palestinesi di Abu Mazen possa portare a soluzioni terri toriali, anche lontane nel tempo, che vedrebbero gli arabi in maggioranza nel territorio dal Giordano al Mediterraneo. Netanyahu, e con lui il partito Likud, chiede ad Abu Mazen il riconoscimento di Israele come "Stato ebraico" per scongiurare la possibilità che gli arabi-palestinesi possano conquistarlo dall'in terno, grazie ad una formula binazionale, puntando sulla carta demografica. La determinazione con cui Abu Mazen ha finora rifiutato di accettare la defini zione di "Stato ebraico" per Israele - sostenuta tanto da Stati Uniti che Unione Europea - aumenta i timori del centrodestra. A cui si aggiunge il ruolo di Bennett, leader di "Bayit Ha-Yehudì" il partito della "Casa Ebraica" a destra del Li kud, portavoce delle istanze di gran parte dei 250 mila israeliani che vivono e risiedono negli insediamenti di Giudea e Samaria ovvero nella West Bank condivisa con oltre 1,2 milioni di palestinesi. Se la popolazione degli insedia menti ebraici sostiene più Bennett di Netanyahu è perché si sente da lui mag giormente rassicurata sulla futura permanenza di queste aree sotto sovranità israeliana. Bennett ha infatti esposto un proprio piano che prevede l'annessio ne a Israele di tutte le aree della West Bank ad eccezione delle maggiori città palestinesi che avrebbero uno status di indipendenza de facto, con piena li bertà di circolazione dei loro abitanti non solo nella West Bank ma anche den tro Israele dei confini pre-giugno 1967. Il piano di Bennett ha un valore non solo territoriale ma politico-ideologico perché gli insediamenti della West Bank sono divenuti il serbatoio di gran parte degli ufficiali delle truppe speciali, an dando a ricoprire il ruolo di serbatoio dell'entusiasmo sionista avuto dai kibbut zim di impronta socialista fino agli anni Settanta. Il motivo è lo spostamento dei confini esterni di Israele: se allora erano i kibbutzim a trovarsi più esposti al confronto con gli arabi, ora lo sono gli insediamenti.
Herzog-Livni, il sionismo come coesione democratica
La scelta di Herzog e Livni di definire la propria lista congiunta del centrosini stra "Machanè Zionì" - Campo sionista - punta a strappare al centrodestra la palma dell'orgoglio sionista offrendo un'interpretazione dell'ideologia originaria differente da quella di Netanyahu e Bennett. Herzog e Livni partono dalla fu sione fra le matrici diversi del Paese che vengono identificate nelle rispettive storie personali: lui viene da una famiglia-simbolo della tradizione laburista, con il padre già presidente dello Stato, e lei da una famiglia-simbolo della tra dizione conservatrice, con il padre fra i fondatori dell'Irgun di Menachem Begin che si ispiravano al revisionismo di Zeev Jabotinski. Durante la campagna e lettorale, nei comizi, nelle interviste e negli spot tv, Herzog e Livni hanno par lato spesso dei propri "valori diversi" per sottolineare come la scelta di "unirsi" esprima la volontà di "tornare alle origini" ovvero alla necessità di rifondare la società israeliana, sulla base della tradizione sionista, per vincere le sfide che David Ben Gurion - padre fondatore - volle inserire nella Dichiarazione di Indi pendenza: la pace con i vicini, l'unione con gli ebrei della Diaspora, la coesio ne fra tutti gli israeliani, minoranze incluse. Herzog e Livni puntano così a rige nerare il concetto di "coesione nazionale" ovvero ridurre le differenze econo miche, sociali e politiche che "hanno trasformato Israele in uno Stato indeboli to da troppe spaccature e differenze". È un messaggio che punta a raccoglie re lo scontento delle fasce economiche più deboli, che non hanno tratto giova mento dal boom delle start up hi-tech, ed anche ad andare incontro alla mino ranza degli arabo-israeliani, che rappresenta oramai il 20 per cento della po polazione. L'idea sionista in cui Herzog e Livni si riconoscono non ha bisogno della legge sulla ebraicità dello Stato voluta da Netanyahu perché si richiama alla Dichiarazione di Indipendenza che parla di "nazione ebraica e democrati
ca" con pieno rispetto per tutte le minoranze che vi vivono. Sul fronte dei ne goziati con i palestinesi Herzog contesta a Netanyahu di "non aver avanzato i dee nuove" ed aver governato "sulla base della paura" ritenendo che invece spetti al premier "dimostrarsi creativo ed innovatore" nella trattativa al fine di "sbloccare lo stallo con la controparte". Non si tratta dunque di proposte nuo ve ma della volontà di avere un approccio ai palestinesi "innovatore" rispetto al passato per "dare agli israeliani ciò che più vogliono - come ripete Tzipi Liv ni - una speranza di pace".
(Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, 13 marzo 2015)
Il generale dei carabinieri Del Sette in visita al ghetto di Roma
«La sicurezza è in nostro primo obiettivo».
«La vigilanza di quest'area è, per noi un obiettivo importante dal 1982 anche se in questo periodo lo è in particolar modo». Lo ha detto il Comandante generale dell'Arma dei Carabinieri Tullio Del Sette durante una visita alla Comunità ebraica di Roma e al ghetto.
Del Sette era accompagnato dal Comandante provinciale di Roma Salvatore Luongo e dal Generale Angelo Agovino Comandante Regione Carabinieri Lazio. «In tutti questi anni - ha aggiunto Del Sette - abbiamo cercato di svolgere questo lavoro al meglio e c'è stato un lavoro sinergico con chi si è occupato di sicurezza di quest'area dall'altra parte». Ad accompagnare il comandante Del Sette c'erano il presidente delle comunità ebraiche d'Italia Renzo Gattegna e quello della comunità romana Riccardo Pacifici.
«La nostra alleanza punta - ha sottolineato Gattegna - a darci la possibilità di non stravolgere la nostra quotidianità e la nostra vita: se dovessimo rinunciarci perchè ci sentiamo minacciati significherebbe che le forze del male hanno raggiunto il loro obiettivo». «La vigilanza delle forze dell'ordine - ha aggiunto Pacifici - dona serenità alle famiglie. Si possono coniugare sicurezze e serenità, blindatura ma anche la possibilità che la gente si incontri».
(Il Messaggero, 13 marzo 2015)
Il voltafaccia
di Antonio Donno
Il Partito democratico americano, con il presidente Harry Truman in testa, ha dato un contributo fondamentale alla nascita dello stato di Israele, il 14 maggio 1948. Benché il dipartimento di stato fosse accanitamente contrario al sostegno che Truman e i suoi collaboratori della Casa Bianca stavano assicurando al movimento sionista, per ragioni che riguardavano il possibile schieramento del mondo arabo a fianco dell'Unione sovietica, il Partito democratico, sia alla Camera dei Rappresentanti sia al Senato, sposò senza indugi la politica pro sionista di Truman.Così Israele, nei suoi primi decisivi anni di vita, almeno fino al 1953, poté contare sull'appoggio incondizionato del Partito democratico. Anzi, fu proprio l'ala progressista del partito, quella liberal, a schierarsi in prima fila nel sostenere la causa della nascita di Israele contro l'opposizione e le manovre dilatorie del dipartimento di stato e del Foreign Office britannico, intese a far fallire il piano di spartizione. Uno degli esponenti più in vista tra i liberal del tempo, Freda Kirchwey, scrisse parole di fuoco contro coloro che facevano di tutto perché il nuovo stato di Israele non vedesse la luce: "Uno dei capitoli più disgraziati della storia degli Stati Uniti è stato scritto da quegli esponenti del dipartimento di stato e della Difesa che hanno adottato una politica di rinvio che può solo avere disastrose conseguenze per la pace e la sicurezza, per non parlare della giustizia e della moralità".Ancora Kirchwey: "Se gli Stati Uniti dovessero piegarsi di fronte a tali pressioni, sarebbero distrutte le basi morali sulle quali è stata costruita la nostra nazione (
). Una dimostrazione di fermezza da parte nostra metterebbe fine al gangsterismo arabo".
Anche durante il decennio repubblicano, con Dwight D. Eisenhower alla Casa Bianca e John Foster Dulles come segretario di stato, il Partito democratico, con Adlai Ewing Stevenson (1900-'65) in testa come principale esponente della parte liberal del partito, accusò ripetutamente il Partito repubblicano di voltare le spalle al giovane e debole stato ebraico, al fine di recuperare l'amicizia del mondo arabo e allontanare i sovietici dal medio oriente, mettendo a repentaglio la stessa sopravvivenza di Israele.
Che cosa spingeva il Partito democratico e i liberal al suo interno a sostenere a spada tratta le ragioni di Israele?Per rispondere a questa domanda occorre riferirsi alla cultura politica in quel momento diffusa nel mondo occidentale, ossia tra la fine della guerra e i primi anni 50. E' sufficiente indicare nella specificità dell'orrenda situazione del popolo ebraico la ragione unica dell'atteggiamento del mondo democratico occidentale a favore della soluzione della nascita di uno stato ebraico in Palestina, cioè nell'antica Terra d'Israele? Certamente questa ragione è incontestabile, perché poggiava pesantemente sul senso di colpa del mondo democratico, ma è una ragione che discende da una nuova visione dell'ordine mondiale, o da una nuova speranza di un ordine che facesse i conti definitivamente con la barbarie.Il Partito democratico e gli stessi liberal vedevano nella Guerra fredda non solo il modo politico-diplomatico-militare di contrapporsi al totalitarismo comunista, prolungamento su altre sponde dello sconfitto totalitarismo nazionalsocialista, ma la ragione stessa dell'esistenza della democrazia nel mondo. Questo dato è di un'importanza cruciale.
La distruzione dell'Europa durante due guerre mondiali, il trionfo macabro di forze irrazionali (o allora giudicate tali) dedite allo sterminio e alla negazione stessa dell'individualità umana come creatrice di progresso e di bene - forze che avevano dominato e devastato tutta la prima metà del Ventesimo secolo - erano giudicati inammissibili per la mentalità emergente nel mondo democratico.Era il momento che gli Stati Uniti si mettessero alla testa di una nuova fase della guerra a favore del progresso pacifico e democratico dell'umanità: questa era la motivazione del Partito democratico e dei liberal americani: una potente spinta morale alla base di una scelta di lotta per la libertà.
Israele rappresentava il cuore di un problema morale di dimensioni planetarie. Nel piccolo stato ebraico da fondare come rifugio di un'umanità reietta per secoli, il Partito democratico e i suoi liberal vedevano la ragione stessa, la ragione più cogente dell'esistenza della democrazia e della libertà nel mondo. E nel mondo arabo ostile agli ebrei l'esempio lampante di irrazionalità, reazionarismo, odio, arretratezza, fanatismo.Gli arabi odiavano gli ebrei perché ebrei. Nulla di nuovo oggi da questo punto di vista. La battaglia per Israele era il "test case" della nuova fase della storia mondiale, dove la liberazione di un popolo, la cui cultura era all'origine stessa dell'occidente, era il simbolo di una rinascita spirituale del mondo democratico e di un suo impegno a livello globale: una sorta di purificazione.
Il liberal Adlai Stevenson, governatore dell'Illinois e candidato democratico alla presidenza nei primi anni 50, così si espresse: "Proprio perché il sionismo rappresenta l'aspirazione a una patria ebraica, io mi sento di essere un sionista". Ascoltando Chaim Weizmann, leader del movimento sionista, nel 1940, Stevenson così commentò: "Per un momento non ho più seguito le sue parole e ho riflettuto sulle qualità di una grande leadership, di una grandezza perenne. Ho riflettuto sull'indomabile volontà di raggiungere un grande obiettivo, non per mezzo dell'odio, del fanatismo, dell'ignoranza, della schiavitù, della brutalità e del sangue, ma per le vie del compromesso e della pace". Le parole del liberal Stevenson rappresentano bene ciò che andava maturando nella sensibilità democratica della cultura occidentale.
Insomma, l'uscita del mondo dall'incubo della guerra era, soprattutto per la cultura occidentale, un processo di rigenerazione, una rigenerazione che non cercava strade nuove, nuovi punti di riferimento, ma trovava nelle fondamenta stesse della propria tradizione gli strumenti per la rinascita.La tradizione consisteva nei principi della filosofia liberale, quella filosofia da cui era scaturito l'esperimento americano; e con Israele si vedeva una sorta di compimento di quell'esperimento in un popolo che era stato una delle matrici culturali e spirituali di quella stessa vicenda americana.
Michael Novak, filosofo e teologo cattolico americano, ha ben scritto che le ali dell'aquila americana rappresentano l'una il cristianesimo, l'altra l'ebraismo. E la nascita di Israele, voluta dai democratici di Truman e dalla stessa ala liberal del partito, sanciva il fatto che "Israel in the mind of America" fosse un dato ineliminabile nella cultura americana. O, almeno, così sembrava.Dal canto suo, il Partito repubblicano, dopo il decennio di Eisenhower, fu all'opposizione negli anni di John Fitzgerald Kennedy (1961-'63) e Lyndon Johnson (1963-'69), e non ebbe alcun interesse per il dossier "Israele".
Ma furono proprio gli anni 60 a cominciare a intaccare quel legame tra il Partito democratico, i suoi liberal e Israele, nato alla fine degli anni 40 sulle basi degli impulsi politici ed etici della filosofia liberale americana. E ben prima della guerra del 1967, alla quale troppi si riferiscono come momento topico nell'inizio dell'indebolimento del legame tra i liberal del Partito democratico e Israele. Il fatto è che, a partire dai movimenti di liberazione nazionale dei paesi coloniali, nella società occidentale, e in quella americana in particolare, si stava introducendo il virus del terzomondismo come criterio unico e incontestabile nell'interpretazione della storia contemporanea.Con la diffusione dell'ideologia terzomondista tra le fasce giovanili, con i suoi dogmi sullo sfruttamento dei paesi coloniali da parte del mondo capitalistico, la continua predazione delle ricchezze e la concezione che il mondo ricco fosse ricco grazie alle ruberie perpetrate a danno dei paesi del Terzo mondo, si andava imponendo nella cultura occidentale un modo di leggere i rapporti tra i paesi ricchi e i paesi poveri in un senso unico, totalizzante. Chi non vi si adeguava era tacciato di imperialismo, reazionarismo, come minimo di insensibilità.
Era apparsa la political correctness, che avrebbe ammorbato la nostra storia sino a oggi. Il terzomondismo fu il primo veicolo di tale mutamento culturale e i suoi sacerdoti furono "i teologi della rivoluzione mancata, ottenebrati dall'assunzione di massicce dosi di oppio ideologico", come ha scritto il sociologo Luciano Pellicani, riprendendo una famosa espressione di Raymond Aron.I dannati della terra di Frantz Fanon, che fu una delle letture preferite del futuro presidente americano Barack Hussein Obama, procurò la bibbia del pensiero unico, mentre gli sfruttati del Terzo mondo divennero i nuovi proletari che avrebbero portato a compimento quella rivoluzione che i proletari imborghesiti e panciuti dei paesi capitalistici non erano riusciti a sviluppare o non avevano voluto realizzare, ammaliati dalle sirene del benessere capitalistico.
La new left americana fu la portatrice di questo dogma di liberazione. Benché i suoi seguaci nei campus dichiarassero che il loro scopo fosse restaurare l'originaria "innocenza" americana - quell'innocenza persa con lo sfruttamento dei paesi poveri, l'imperialismo, il capitalismo - la new left, in effetti, stava introducendo nella società americana nuovi criteri di giudizio e una modificazione sostanziale del linguaggio.Per dirla con lo studioso Barry Rubin, "il capitalismo stesso era il male. L'America non era una meritocrazia ma una colonia dominata da vecchi maschi bianchi, in cui le donne, i non-bianchi e i giovani erano generalmente cittadini di seconda classe", condannati allo sfruttamento e all'emarginazione, esattamente come i popoli nonbianchi del Terzo mondo. Questa identificazione ha un significato tutto particolare. Assimilare gli "sfruttati" all'interno dei paesi capitalistici con gli "sfruttati" del Terzo mondo permetteva una divisione semplicistica ma affascinante tra sfruttatori e sfruttati in senso planetario e un percorso rivoluzionario libero dalle pastoie dogmatiche marxiste, semplice e chiaro.
Quando gli esiti della guerra del 1967, con la folgorante vittoria di Israele, furono universalmente chiari, il piatto era già servito. Una nuova mentalità aveva fatto breccia soprattutto tra le fasce giovanili dei paesi ricchi. Il marxismo-leninismo cominciava a essere relegato in ristretti gruppi di professori americani, "un esiguo numero di vecchi e avviliti accademici marxisti con i peli sulle orecchie", come ebbe a dire Tom Wolfe con la sua tradizionale delicatezza.Così, nel mondo politico americano, furono il Partito democratico e i liberal ad assorbire la lezione della new left e a riciclarla all'interno del linguaggio politico corrente. Progressivamente, i mass-media americani di area liberal iniziarono a sdoganare il terzomondismo e il suo linguaggio semplice e facilmente comprensibile.
Il mondo arabo mediorientale, un tempo considerato dai liberal come portatore di arretratezza, fanatismo e diseguaglianza, fu catapultato senza indugi nel settore degli sfruttati, con pochi riguardi verso la necessaria considerazione delle gravi discriminazioni presenti nella sua cultura, soprattutto tra uomini e donne. Di conseguenza, il meccanismo terzomondista appioppava a Israele l'accusa di paese sfruttatore, imperialista, colonialista. Il terzomondismo, con la sua aberrante logica semplificatoria, aveva operato una divisione nella questione mediorientale: da un lato, il mondo arabo sfruttato, dall'altra Israele, longa manus dell'imperialismo e dello sfruttamento del mondo ricco. Quando terminò la Guerra dei sei giorni, i suoi risultati permisero ai terzomondisti e ai liberal americani di tuonare: avevamo ragione! L'ideologia terzomondista aveva fatto breccia tra i liberal statunitensi e in buona parte del Partito democratico, così la posizione di Israele acquisì una nuova aberrante dimensione: ora lo stato ebraico non era più il prodotto di una guerra di liberazione nazionale contro l'imperialismo inglese e il fanatismo arabo, come era stato considerato dal mondo liberal americano nei decenni precedenti, ma al contrario svolgeva il ruolo di oppressore verso i popoli del Terzo mondo, cioè, nel caso mediorientale, gli arabi.
Da quel momento in poi, i liberal americani presero progressivamente le distanze da Israele e il democratico Jimmy Carter, presidente dal 1977 al 1981, fu l'esempio più chiaro di questo distacco. Fu il Partito repubblicano con Richard Nixon (presidente dal 1969 al 1974), poi Ronald Reagan (1981-1989), infine George W. Bush (2001-2009) a porsi decisamente dalla parte di Israele.L'attuale presidenza di Obama conferma pienamente questo mutamento politico nella sinistra americana e lo radicalizza. Il recente discorso del premier israeliano Benjamin Netanyahu al Senato americano, di fronte alla maggioranza repubblicana e in assenza di buona parte del gruppo democratico, fotografa bene il capovolgimento delle alleanze che negli Stati Uniti sostengono Israele, come esito del lungo processo di radicalizzazione del mondo liberal americano sotto l'egida dell'ideologia terzomondista.
(Il Foglio, 13 marzo 2015)
Parigi - Riapre il supermercato kosher
Teatro del sanguinoso sequestro ad opera dell'islamista Amedy Coulibaly, sarà di nuovo in funzione domenica.
PARIGI - L'Hyper Cacher di Porte de Vincennes a Parigi, il supermercato di prodotti kosher teatro del sanguinoso sequestro ad opera dell'islamista Amedy Coulibaly che costò la vita a quattro ostaggi, riapre le porte domenica, interamente rinnovato.
L'esterno è stato ridipinto di bianco, al posto del nero precedente, e l'insegna con il nome del negozio per il momento è stata tolta. All'interno, un mobilio ripensato, in colori vivaci sui toni del rosa e del fucsia. Davanti restano le transenne e i mazzi di fiori deposti in memoria delle vittime, ma i gestori del supermercato, dicono alla radio Europe 1, non vogliono "smettere di vivere".
Anche i dipendenti dell'Hyper Cacher sono tutti nuovi. I precedenti commessi e cassieri sono ancora in gran parte sotto shock per l'attacco subito a gennaio, e la maggior parte non pensa di essere in grado di tornare a lavorare in quel posto. Anche il "magazziniere eroe" Lassana Bathily, che aveva salvato diversi clienti nascondendoli in una cella frigorifera, pensa di cambiare lavoro.
(Corriere del Ticino, 13 marzo 2015)
Cosa ci fa il "maresciallo di campo" di Obama in un gruppo anti Bibi?"
di Rolla Scolari
Ci mancava soltanto un ex pilastro della campagna di Barack Obama a turbare le aspettative elettorali di Benjamin Netanyahu e ad alimentare la narrativa delle antipatie tra la Casa Bianca e il premier israeliano. Jeremy Bird ha 36 anni e un curriculum da fare invidia: laureato a Harvard, ha lavorato per le campagne di John Kerry e del governatore del Vermont Howard Dean, ha collaborato con Obama sia nel 2008 sia nel 2012; nella campagna per la rielezione del presidente è stato "National field director". La rivista Rolling Stone lo ha definito il "maresciallo di campo" di quello sforzo elettorale.
Ora, a tre anni di distanza, è tornato a occuparsi di elezioni, ma invece di lavorare per la vittoria di un candidato, aiuta un'organizzazione non profit israeliana che non sostiene alcun politico ma vuole che "King Bibi" Netanyahu, dopo sei anni al potere, sia sconfitto. V15, Victory 2015, è nata da un'idea su Facebook di alcuni giovani della Tel Aviv più laica e trendy, come trendy e piena di energia notturna, stilisti emergenti e gallerie è la via dove si trova il quartier generale dell'associazione, Rehov Lilienblum. Il ruolo di consulente di Bird ha fatto sorgere controversie, visto che la collaborazione, iniziata a dicembre, ha anche coinciso con i mesi di polemiche e dibattiti sul discorso di Benjamin Netanyahu al Congresso americano, tenuto pochi giorni fa.
In quest'atmosfera, la presenza di un personaggio come Bird, vicino al presidente e strumentale alla sua rielezione nel 2012, ha fatto sorgere le voci più maliziose. In un recente articolo su di lui il New York Times ha scelto di precisare: "Non ci sono prove che suggeriscano che Obama o i suoi consiglieri abbiano qualcosa a che fare con la mossa di uno dei più importanti protagonisti della sua campagna, che non ha mai lavorato alla Casa Bianca".
A ben vedere c'è chi ricorda come a Netanyahu qualcosa di simile sia già accaduta nel 1999 quando uno dei più cruciali strateghi di Bill Clinton, James Carville, aveva aiutato il laburista Ehud Barak a sconfiggerlo.
Nell'ultima settimana di campagna che precede un voto che per la prima volta in anni non sembra scontato a favore del premier uscente, Bird e i suoi V15 non sono l'unico guaio di Netanyahu. Erano migliaia le persone che sabato sera hanno riempito l'iconica piazza Rabin di Tel Aviv. Striscioni e cartelli non sostenevano nessun politico in particolare. Chiedevano a Bibi di andarsene: il ritornello di queste elezioni. A Gerusalemme e Tel Aviv la chiamano "Bibi fatigue". E per la prima volta, ha scritto Haaretz, quotidiano della sinistra liberale israeliana, il partito del premier sente di perdere presa, anche se in realtà il 17 marzo la sfida resta più che aperta. Sono molte le fonti interne ad aver rivelato ai giornalisti locali nelle scorse ore che il rischio di una sconfitta di Bibi esiste. Sia i sondaggi del canale del Parlamento sia quelli di una delle maggiori emittenti del paese danno all'Unione sionista del laburista Isaac Herzog e dell'ex ministro della Giustizia Tzipi Livni due o tre seggi di vantaggio rispetto al Likud. Qualcuno si è accorto dell'affaticamento del premier quando lunedì il suo staff ha deciso di non convocare la stampa a una breve visita elettorale a Mahane Yehuda, simbolico mercato di Gerusalemme e tradizionale roccaforte del Likud.
Netanyahu dà la colpa a "forze dall'esterno" per la perdita di slancio e il riferimento a V15 e a Bird non è velato. "C'è un grande sforzo globale per far cadere il governo del Likud", ha detto davanti a un gruppo di sostenitori, mentre secondo Haaretz il suo entourage ha lamentato l'azione di uomini d'affari stranieri che per influenzare le elezioni starebbero finanziando gruppi non profit che, a differenza dei partiti, possono per legge accettare donazioni fatte dall'estero.
(Il Foglio, 13 marzo 2015)
Una guida alle elezioni israeliane
PERCHÉ SI VOTA? Nel dicembre 2014 Benjamin Netanyahu, allora a capo del governo, ha annunciato che si sarebbero tenute elezioni anticipate. La causa è da ricercare nella crisi politica che per mesi ha tormentato la fragile coalizione di governo e che ha avuto uno dei suoi apici nel licenziamento del ministro delle Finanze Yair Lapid (del partito centrista Yesh Atid) e del ministro della Giustizia Tzipi Livni (del partito centrista HaTnuah). Una delle ragioni principali della profonda crisi politica risiede nella proposta di legge presentata dal governo per ridefinire lo stato di Israele: non più "stato ebraico e democratico" ma "patria nazionale del popolo ebraico" con evidenti implicazioni per gli arabi israeliani, che compongono circa il 20% della popolazione del paese. La legge in questione è una "Legge fondamentale", equivalente alle leggi costituzionali nei paesi dotati di una Costituzione scritta.
QUALI SONO LE PRINCIPALI FORZE IN CAMPO? Likud (HaLikud, "Il consolidamento")
Partito politico di centro-destra fondato nel 1973 da Menachem Begin, in alleanza con altri partiti della destra israeliana, il Likud ottenne la sua prima vittoria elettorale nel 1977, interrompendo quello che fino ad allora era stato il monopolio del Partito laburista israeliano e riuscendo a rimanere al governo fino alla sconfitta elettorale del 1992. Nel 1996 il Likud tornò al governo, con Benjamin Netanyahu nel ruolo di Primo ministro. Nonostante il successo elettorale ottenuto nel 2003, nel 2005 il partito subì una crisi interna, in seguito alla decisione da parte dell'allora leader del partito, Ariel Sharon, di creare un nuovo partito, Kadima. La decisione penalizzò il Likud alle elezioni del 2006; il partito tuttavia è riuscito a ottenere un nuovo successo alle elezioni del 2009, in seguito alle quali, nonostante il centrista Kadima avesse ottenuto la maggioranza dei seggi, il leader Netanyahu venne investito dell'incarico di formare il governo. Nelle elezioni del 2013, il Likud, in ticket con il partito di destra Yisrael Beiteinu guidato da Avigdor Liebermann, ha ottenuto la maggioranza dei voti, ottenendo 31 seggi alla knesset (20 Likud; 11 Yisrael Beiteinu). L'alleanza tra i due partiti è durata però solamente fino al luglio 2014, quando Liebermann, allora ministro degli esteri, denunciò la divergenza di vedute tra lui e Netanyahu su diverse questioni e dichiarò lo scioglimento dell'alleanza, ferma restando la permanenza di Yisrael Beiteinu all'interno della coalizione di governo. Unione sionista (HaMahane HaZioni)
Alleanza politica di centro-sinistra tra il Partito laburista israeliano (Miflèghet Ha-'Avoda Ha-Yisraelit, comumente Ha'Avodà) e HaTnuah ("Il movimento"). L'alleanza è stata costituita nel dicembre 2014, nella speranza di radunare l'elettorato di centro-sinistra e sconfiggere il rivale Likud. In caso di vittoria alle prossime elezioni, il leader del Partito laburista Isaac Herzog e la leader di HaTnuah Tzipi Livni si alterneranno nel ruolo di Primo ministro, i primi due anni il primo e i successivi due anni la seconda.
L'Unione sionista, il cui slogan principale è "Responsible leadership for Israel" e che si presenta come "il movimento del cambiamento", si prefigge l'obiettivo di costruire un paese "sicuro, ebraico e democratico"
Nella precedente tornata elettorale, il Partito laburista aveva guadagnato 15 seggi e sedeva tra le file dell'opposizione, mentre HaTnuah, con 6 seggi, era parte della coalizione di governo.
HERZOG E LIVNI: CHI SONO COSTORO? Yitzhak (Isaac) Herzog: figlio del generale Chaim Herzog, sesto presidente di Israele, e nipote di Yitzhak HaLevi Herzog, stimato rabbino capo prima d'Irlanda e successivamente del mandato britannico di Palestina, Isaac Herzog è alla guida del Partito laburista dal novembre 2013. Succedendo a Shelly Yachimovich, che si focalizzava principalmente sulle questioni socio-economiche, Herzog ha spostato le priorità del partito sulle questioni di sicurezza e sulla ripresa del negoziato con i palestinesi, manifestando il suo supporto per la soluzione dei due stati. Tzipi Livni: fondatrice del partito HaTnuah, nato nel 2012 da una costola del partito centrista Kadima, Tzipi Livni ha ricoperto l'incarico di Ministro della giustizia tra marzo 2013 e dicembre 2014, nel governo guidato da Benjamin Netanyahu. A differenza di quest'ultimo, Livni è un'ardente sostenitrice della soluzione dei due stati. Nel 2005, alla nascita di Kadima, Livni seguì Ariel Sharon e Ehud Olmert nel loro passaggio dal Likud al neonato partito, costituitosi a supporto del piano di disimpegno unilaterale proposto da Sharon, che prevedeva lo smantellamento totale degli insediamenti ebraici nella striscia di Gaza e di quattro insediamenti in Cisgiordania. Nel 2008, Livni venne eletta alla guida di Kadima, succedendo a Olmert. Nelle elezioni legislative del 2009, Kadima ottenne la maggioranza dei seggi alla Knesset. La vittoria elettorale non fu però sufficiente ad assicurare al partito la leadership del paese; la coalizione di partiti di centro-destra, guidati dal Likud di Netanyahu, ottenne un numero di seggi tale da indurre l'allora presidente Shimon Peres a investire Netanyahu dell'incarico di formare un governo. Livni divenne dunque il capo dell'opposizione.
E GLI ALTRI? Altre forze in campo sono HaBayit HaYehudi ("La casa ebraica"), Kulanu ("All of us") e Yisrael Beitenu ("Israele, casa nostra")
Il primo è un partito politico sionista religioso della destra israeliana guidato da Naftali Bennett, nato nel 2008 dalla fusione di due partiti nazionalisti religiosi, Moledet e Tkuma. Nelle ultime elezioni, HaBayit HaYehudi ha ottenuto 12 seggi, divenendo la quarta forza politica all'interno della knesset. Il partito si distingue per le sue posizioni fortemente a favore dell'espansione degli insediamenti israeliani, per l'opposizione alla soluzione dei due stati e per il supporto all'annessione allo stato di Israele dell'area C della West Bank (territori della Cisgiordania controllati e amministrati da Israele).
Kulanu è invece una formazione centrista nata nel novembre 2014 da una costola di Kadima per volontà dell'ex ministro delle Telecomunicazioni Moshe Kahlon. Potrebbe essere molto importante per determinare la prossima maggioranza.
Yisrael Beitenu, infine, è un partito laico di destra, guidato da Avigdor Lieberman. Potrebbe non superare lo sbarramento elettorale
DA CHI SONO RAPPRESENTATI GLI EBREI ULTRA-ORTODOSSI? Le formazioni politiche principali sono Shas e Giudaismo unito nella Torah.
Shas, guidato da Atieh Deri, è un partito ultraortodosso che rappresenta i gruppi sefarditi e mizrahi (ebrei di origine medio-orientale e mediterranea), storicamente marginalizzati nella società israeliana. Potrebbe ottenere uno storico 10% dei voti, crescendo di 2 punti rispetto al 2013.
Giudaismo unito nella Torah è invece un gruppo religioso che rappresenta i movimenti più tradizionali tra gli ashkenaziti (ebrei di origine centro-nord europea e orientale). Secondo i sondaggi potrebbe ottenere il 5% dei voti.
E LA POPOLAZIONE ARABA ISRAELIANA? I quattro principali partiti che rappresentano le istanze della minoranza araba (circa il 20% della popolazione) si sono uniti in unica lista ("Joint list"), nonostante le profonde differenze ideologiche, per cercare di superare la soglia di sbarramento che è stata elevata dal 2% al 3,25%. Questi partiti sono: Hadash (socialdemocratico, a favore della soluzione dei due stati e compsoto da arabi ed ebrei); Ta'al (laico e antisionista), Lista Araba Unita (islamista e antisionista), Balad (laico, di sinistra, nazionalista arabo e antisionista). A capo della lista vi è il leader di Hadash, Ayman Odeh.
(Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, 13 marzo 2015)
Lista Araba Comune: gli islamisti hanno sconfitto la convivenza
Il rifiuto di stringere un accordo elettorale con il più a sinistra dei partiti sionisti rivela che i veri obiettivi non sono l'uguaglianza e la convivenza arabo-ebraica.
L'ipocrisia ha anche un lato positivo giacché implica una sorta di vergogna. I razzisti sono a volte consapevoli delle gravi deficienze del loro pensiero pregiudiziale circa le persone di una diversa ascendenza, religione o colore della pelle. Se ipocritamente nascondono il loro razzismo è perché un po' se ne vergognano. Non si deve disprezzare questo genere di ipocrisia, che è un ingrediente fondamentale in una società che attraversa processi di cambiamento. Vale sia per gli ebrei che non amano molto gli arabi, sia gli arabi che non amano gli ebrei.....
(israele.net, 12 marzo 2015)
Eataly Roma e il Centro Kasher insieme per promuovere la cultura gastronomica ebraica
Seguono un rigoroso rituale di macellazione e una lavorazione altrettanto scrupolosa le carni kasher vendute presso il Centro Kasher di Claudio Spizzichino (in arrivo dall'allevamento di Vittorio Mastropietro). Dal 6 marzo anche la macelleria di Eataly Roma proporrà al grande pubblico le carni in arrivo dal Centro Kasher, con l'obiettivo di promuovere la cultura gastronomica ebraica.
ROMA - È vero, Eataly rappresenta nel mondo il meglio del made in Italy, ma allora perché non dare spazio anche a chi, pur legato a un'altra cultura alimentare, lavora un prodotto 100% italiano (e di qualità) per adeguarlo alle esigenze di una vasta comunità?
Per ogni ebreo praticante la Kasherut è legge quanto gli altri precetti religiosi che si attiene a rispettare. Solo che interessa da vicino le abitudini alimentari quotidiane, determinando divieti e pratiche di trasformazione delle materie prime. Dalle regole per la macellazione rituale delle carni (solo quelle consentite) dietro licenza fornita dal rabbino al divieto di consumare il sangue. Da qui deriva la necessità di uccidere l'animale con un solo taglio alla gola, per provocarne l'immediato dissanguamento; poi le carni vengono salate per non meno di venti minuti (e non più di un'ora) e il fegato scottato. Solo a questo punto si disporrà di carni kasher pronte per la vendita e il consumo. Le stesse che Claudio Spizzichino lavora dal 1987 nel Centro Kasher di via Fonteiana (dove l'attività si è trasferita nel 2013) rifornendo una clientela numerosa, a partire dall'ottima materia prima di Vittorio Mastropietro, storico fornitore di manzo chianino certificato Dop.
Carni kasher (italiane) di alta qualità che dallo scorso 6 marzo sono disponibili presso la macelleria di Eataly Roma, dove uno spazio dedicato e gestito dal personale interno proporrà al grande pubblico i prodotti confezionati con doppio sigillo di Kasherut. L'obiettivo è quello di contribuire alla diffusione della cultura alimentare kasher - a partire da una città come Roma che vede una grande rappresentanza ebraica - auspicando di poter presto rendere disponibili altri prodotti che rispondano alla certificazione di garanzia.
Intanto sono già molti gli chef che hanno mostrato di apprezzare la qualità elevata di una carne sottoposta a controlli scrupolosi.
Centro Kasher Spizzichino, via Fonteiana 24/26, Roma - tel. 06 66157796
(Gambero Rosso, 12 marzo 2015)
PayPal acquista la start up israeliana CyActive per 60 milioni di dollari
Il colosso dei pagamenti online, PayPal, esegue un'altra acquisizione in Israele. Globes rivela che PayPal ha acquisito CyActive, società di sicurezza informatica di Beersheva, per un importo pari a 60 milioni di dollari. L'accordo è stato firmato e a breve si prevede di andare in operativo. Questa sarà la seconda acquisizione di PayPal in Israele. Nel 2008, la società aveva già acquistato la società di monitoraggio frodi finanziarie FraudSciences per 169 milioni dollari. La somma di acquisto della CyActive è un dato importante e significativo per la società stessa perché, ad un anno di vita, possiede già un numero considerevole di clienti grazie alla sua tecnologia di sicurezza. CyActive è parte del cyber incubatore JVP di Beersheva, istituito diciotto mesi fa come parte del Beersheva Advanced Technologies Park....
(SiliconWadi, 13 marzo 2015)
Marocco: Casablanca decide il restauro delle sue sinagoghe
Forte segnale per il dialogo e la convivenza pacifica.
di Diego Minuti
ROMA - Con l'annuncio che la municipalità di Casablanca avvierà a breve le procedure amministrative per il bando di concorso relativo al restauro di parte della sua preziosa medina e, con essa, delle sue ventidue sinagoghe, dal Marocco giunge l'ennesimo significativo segnale per il confronto nel dialogo e per la convivenza pacifica tra religioni diverse.
Il Marocco ospita da secoli una consistente comunità israelita, che nel tempo ha espresso personalità in ogni campo, senza che la loro estrazione religiosa fosse un ostacolo.
Il Regno, quindi, ha una lunghissima tradizione di tolleranza, consolidata con fermezza anche quando in Paesi non lontani i sentimenti anti-israeliani si sono tradotti in atti di violenza insensata. Come l'attentato dinamitardo dell'aprile del 2002 contro la sinagoga di Djerba, in Tunisia, prima conferma della penetrazione della jihad e di al Qaida negli allora apparentemente tranquilli Paesi del Nord Africa.
A questa logica il Marocco - grazie ad Hassan II ed al figlio Mohammed VI - è sempre riuscito a sfuggire, come testimoniano i numerosi luoghi di culto israelitici, protetti ed anzi curati perché il Regno, che ha anche pagato un pesante tributo al terrorismo di matrice islamista, non vuole che si manifestino tensioni legate alla religione. A conferma di ciò basta solo ricordare che ogni anno, un mese dopo la celebrazione della Pasqua ebraica, in totale sicurezza migliaia di ebrei (che arrivano non solo da Israele, ma anche da Paesi europei e da Stati Uniti e Canada), per celebrare la Hiloula, partecipano al pellegrinaggio ad Asjen, ad una decina di chilometri da Ouezzane, per visitare la tomba del rabbino Amram Ben Diwan e la sinagoga che a lui è stata dedicata. E lo stesso accade a Moualine, con il pellegrinaggio annuale al mausoleo di rabbi Abraham Aouriouer, la cui figura è ancora oggi rispettata anche dai non ebrei, tanto che alla celebrazione del rito in suo ricordo partecipano le massime autorità civili e politiche della regione. Forti segnali che il Marocco vuole rendere ancora più visibili con iniziative che altrove farebbero clamore, ma che nel Regno sono semplicemente la continuazione di una ultradecennale lungimirante politica di tolleranza.
A Casablanca, come riferisce La Vie Economique, è stato lanciato un appalto per interventi nel perimetro della Medina e, in essa, anche quelli relativi al restauro della sinagoga Ettedgui, compresi il suo giardino ed i luoghi circostanti.
Di questi lavori beneficeranno anche molti altri luoghi di culto israeliti, tra i quali le sinagoghe Benarrosh, Beth Elohim e David Hamelekh, da sempre meta, oltre che di fedeli, anche di turisti interessati alla storia ed all'arte.
(ANSAmed, 12 marzo 2015)
Israele importa i primi pomodori da Gaza dopo otto anni
di Silvia Di Cesare
Israele ha importato 27 tonnellate di pomodori e 5 tonnellate di melanzane dalla Striscia di Gaza. È la prima volta che il governo israeliano importa frutta o verdura dalla Striscia, dopo il blocco economico imposto in seguito alla vittoria di Hamas alle elezioni governative nel 2006.
Il governo israeliano ha approvato un piano che prevede l'importazione di 1200 tonnellate di prodotti al mese. I palestinesi hanno accolto con favore la decisione israeliana, nonostante la quantità delle esportazioni ortofrutticole sono al di sotto di 3 tonnellate rispetto al periodo pre-blocco economico.
(ArabPress, 12 marzo 2015)
"Una scelta difficile di grande importanza: la sorte degli ebrei bulgari 1943"
SOFIA - Una mostra dal titolo "Una scelta difficile di grande importanza: la sorte degli ebrei bulgari 1943" è stata inaugurata il 9 marzo presso il Palazzo Nazionale della Cultura NDK (terzo piano, ala est) a Sofia, e rimarrà aperta fino al 19 marzo.
L'esposizione descrive la storia degli oltre 48.000 ebrei bulgari la cui pianificata deportazione nei campi di sterminio fu impedita dalle proteste della società civile, della Chiesa Ortodossa Bulgara, di individui ed organizzazioni politiche.
La mostra include una selezione di documenti e fotografie provenienti dall'Archivio di Stato bulgaro e dal Yad Vashem, il Museo dell'Olocausto israeliano.
Questi documenti descrivono la vita della comunità ebraica in Bulgaria, l'aumento dell'antisemitismo in Europa e gli sforzi della società bulgara per il salvataggio di cittadini bulgari di origine ebraica, durante la Shoah.
La mostra è stata esibita per la prima volta nel marzo 2013, presso il Parlamento europeo, quando fu inaugurata dal Presidente bulgaro Rosen Plevneliev e dall'allora presidente di Israele Shimon Peres.
E' stata poi esposta al Centro Peres per la Pace di Tel Aviv, al Museo della Tolleranza di Los Angeles e alla Biblioteca Comunale di San Francisco.
(Bulgaria-Italia.com, 12 marzo 2015)
Netanyahu ha costruito meno colonie della sinistra
Sorpresa. Il premier di centrosinistra israeliano Ehud Olmert ha colonizzato la Cisgiordania più del nazionalista Benjamin Netanyahu, bestia nera di metà Occidente. L'israeliano CentraI Bureau of Statistics ha reso noto che nel 2014 l'avvio di nuovi cantieri al di là delle Linea Verde è calato del 52,5% rispetto al 2013. Netanyahu non ha dato all'edilizia nei Territori occupati quella spinta promessa alla destra israeliana. Tornato al potere ad aprile 2009 dopo aver sconfitto Olmert, Netanyahu ha sì promesso più costruzioni in Cisgiordania, salvo proclamare una moratoria delle stesse da novembre fino a settembre del 2010. Atteso alla prova del voto martedì 17, lunedì Netanyahu ha visitato Giudea e Samaria promettendo una maggiore presenza israeliana. Secondo il CBS, però, fra il 2009 e il 2014 nei Territori palestinesi sono state edificate 9.216 case contro le 11.425 del 2003-2008 (con Olmert premier dal 2006). Cifre prese al balzo dal nazionalista Naftali Bennet secondo cui solo il suo partito «La Casa ebraica» può garantire la presenza israeliana in Cisgiordania. E Netanyahu si preoccupa: con il 47% dei consensi resta il leader più popolare ma il suo Likud arranca nei sondaggi, superato dai laburisti e minacciato a destra da Bennet.
(Libero, 12 marzo 2015)
Le verità agricole di Israele colorano padiglione e logo a Expo Milano 2015
Nel definire il concept del logo del padiglione Israele a Expo Milano 2015, il commissario generale Elazar Cohen, si è ispirato a un verso della preghiera per la pace e la giustizia nei canti di Re David nella Bibbia (Salmi 85:12): «La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo». Il design del logo è un progetto sviluppato dal ministero degli affari esteri israeliano con la collaborazione della web-company IsayWeb.
Grafiche multicolor reinterpretano i concetti alla base del padiglione: ciascuno dei tre segni che compongono il logo è composto da tre lettere dell'alfabeto ebraico che, assieme, formano la parola «emet», verità. Le lettere, da destra verso sinistra, sono la alef la mem e la tav, rispettivamente prima, centrale e ultima lettera dell'alfabeto ebraico). AIef, fluida, si mescola a tonalità di blu e rimanda all'acqua, ingrediente «alfa» dell'agricoltura. Mem è in verde come un cespuglio rigoglioso che rimanda alla straordinaria opera di riforestazione del territorio di Israele. Tav è in un pattern grafico giallo: rimanda al sole, fonte di vita da cui trarre energia. E al deserto in cui gli israeliani sono riusciti a far crescere campi di grano, vigne, frutta e verdura.
(ItaliaOggi, 12 marzo 2015)
Parigi vuole evitare che Obama firmi un deal con Teheran. Parla Mogherini
Fabius contro l'Iran, con toni poco diplomatici. Mrs Pese al Foglio: ''Non ci sarà accordo se non sarà buono".
BRUXELLES - Molto più di Benjamin Netanyahu o dei senatori repubblicani, è la Francia che potrebbe bloccare l'accordo sul nucleare con l'Iran. Sabato, dopo un incontro con John Kerry, il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, è stato molto poco diplomatico nel rinfacciare al segretario di stato americano le "divergenze" che ancora permangono a seguito dei suoi negoziati bilaterali con l'iraniano Mohammad Javad Zarif. Divergenze non solo con l'Iran, ma anche e soprattutto con l'Amministrazione Obama, accusata di perseguire la sua agenda politica senza tenere conto degli alleati: "E' un negoziato multilaterale e faremo in modo che le nostre posizioni siano conosciute", ha spiegato Fabius. La Francia esige una "riduzione" delle centrifughe e "un limite alla ricerca e allo sviluppo". Parigi ha dubbi sulla "durata dell'accordo" e sui "controlli" per impedire agli iraniani di riprendere le attività per sviluppare la Bomba, così come lo status della centrale ad acqua pesante di Arak. Un "accordo solido" è quello che non permetterà "mai" all'Iran di sviluppare armi atomiche, ha detto Fabius.
L'Alto rappresentante per la politica estera europea, Federica Mogherini, sembra intenzionata a soccorrere l'amico Kerry. Lunedì ha convocato Fabius, il britannico Philip Hammond e il tedesco Frank-Walter Steinmeier per una riunione con Zarif a Bruxelles. "Abbiamo valutato assieme al ministro iraniano che sarebbe utile un appuntamento tra lui e i ministri europei. L'obiettivo è preparare il terreno per chiudere i punti che sono ancora aperti", dice Mogherini al Foglio. "Non ci sarà accordo, se non sarà buono", spiega: il compromesso deve escludere l'uso militare e garantire l'uso civile, ma anche consentire all'Iran di "aprirsi ai rapporti con l'occidente e di giocare un ruolo diverso nelle tante crisi regionali che abbiamo intorno a noi". Ma per Parigi il nucleare è prioritario rispetto allo Stato islamico.
Per Parigi, il cui ruolo di attore globale è giustificato dal suo status atomico, l'emergere di un Iran nucleare potrebbe significare un ulteriore declassamento geostrategico. Dentro il ministero degli Esteri, inoltre, è forte un gruppo che non si fida più dell'Iran, dopo che la Repubblica islamica ha tradito l'accordo di Parigi del 2004 sul congelamento dell'arricchimento dell'uranio proseguendo le sue attività clandestine. François Hollande aspira anche al ruolo di portavoce dei paesi della regione - Israele e Arabia Saudita - che si sentono abbandonati dagli Stati Uniti di fronte alla progressione dell'Iran. Parigi è pronta a pagare a caro prezzo la difesa di valori e interessi geostrategici. Secondo un rapporto del Senato del novembre scorso, la Francia è "la grande perdente delle sanzioni contro l'Iran". Le importazioni di petrolio iraniano sono crollate da 1,7 miliardi di euro nel 2011 a 1,7 milioni nel 2013. La presenza storica di PSA Peugeot-Citroén e Renault si è praticamente azzerata: i "materiali di trasporto" esportati verso l'Iran sono passati da 1,3 miliardi nel 2004 a 32 milioni nel 2013. "Il livello degli scambi bilaterali tra i nostri due paesi ha conosciuto una caduta brutale in questi ultimi dieci anni", ha spiegato il Senato. "I nostri scambi commerciali con l'Iran sono stati ridotti a poco più di 500 milioni di euro nel 2013, invece dei 4 miliardi di euro nel 2004".
I grandi gruppi francesi stanno facendo pressioni: Total ha lasciato aperto un ufficio di rappresentanza a Teheran. Ma Fabius sembra immune agli interessi economici francesi. Nel corso della sua lunga carriera politica, le tattiche degli ayatollah sono diventate quasi una questione personale. Fabius si era da poco dimesso da primo ministro quando, nel settembre 1986, un attentato a Rue de Renne provocò la morte di sette persone. Fu il primo di una serie rivendicata dal "Comitato di solidarietà con i prigionieri politici arabi del medio oriente", organizzazione vicina a Hezbollah, pilotata dall'ambasciata iraniana a Parigi. L'attentato era legato al contenzioso tra la Francia e la Repubblica islamica su Eurodif, una società di produzione di combustibile nucleare. In base a un accordo concluso con lo Scià, l'Iran sarebbe entrato nel capitale di una filiale in cambio di uranio arricchito. Ma dopo la Rivoluzione, Parigi impose un embargo sulle forniture, congelando i fondi iraniani investiti in Eurodif. L'attentato a Rue de Renne doveva convincere i francesi a rimborsare l'Iran.
Fabius "ne ha abbastanza del lassismo nucleare di Barack Obama", ha detto al Canard Enchainé un diplomatico: "La Francia si opporrà a un accordo compiacente con l'Iran" e "Fabius lo ha fatto capire a Kerry". Secondo una fonte europea, "Fabius sabato è stato molto meno diplomatico dentro la riunione con Kerry e gli altri ministri europei che durante la conferenza stampa". A metà febbraio la Francia avrebbe inviato a Washington delle "contro-proposte" per evitare un accordo debole. Fabius e Hollande conterebbero sul Congresso americano per evitare che Obama firmi "n'importe quoi aver l'Iran".
(Il Foglio, 12 marzo 2015)
Si vuole riconoscere uno Stato che è fatto di terroristi?
Lettera a Beppe Severgnini
Voglio proprio vedere con che coraggio i politicanti italiani e di mezzo mondo riconosceranno la Palestina dopo lo storico verdetto emesso dalla Corte Federale di Manhattan, New York, nel quale si condannano l'OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) e la ANP (Autorità Nazionale Palestinese) per terrorismo. Per riassumere brevemente i fatti, dopo mesi di processo durante i quali sono emersi fatti incontestabili che legano l'OLP e la ANP non solo al terrorismo palestinese di qualche anno fa ma anche a quello odierno, la corte federale Southern District di New York ha riconosciuto le due organizzazioni palestinesi colpevoli di aver ordinato e finanziato atti terroristici nei quali sono morti cittadini americani equiparando quindi, di fatto, la OLP e la ANP a organizzazioni terroristiche. Ma la cosa più interessante, sotto l'aspetto giuridico internazionale, non è tanto la condanna che non svela nulla di nuovo sul terrorismo palestinese, quanto piuttosto i retroscena emersi come per esempio il fatto che la ANP, quindi Abu Mazen, continuano a versare mensilmente un vitalizio alle famiglie dei terroristi palestinesi che nel corso degli anni hanno compiuto attentati terroristi, tra le quali per esempio possiamo trovare anche le famiglie degli attentatori della strage di Fiumicino del 1973 e quelli della strage, sempre di Fiumicino, del 1985. Un vitalizio pagato con soldi europei e macchiato di sangue innocente. E' emerso persino il tariffario pagato dalla ANP (sempre con soldi europei) alle famiglie dei terroristi (lo trovate qui) dal quale si evince che più un palestinese è terrorista (più ne ammazza) e più viene ricompensato. Vedete, questo che è solo un retroscena è un fatto persino più importante del verdetto stesso perché evidenzia con chiarezza cosa sia effettivamente la ANP e chi sia esattamente Abu Mazen. Ma davvero si vuole dare ufficialità a un terrorista? Ma davvero si vuole riconoscere uno Stato che nei fatti è governato solo da terroristi e fatto da terroristi?
Mario Borsi
(Corriere della Sera, 12 marzo 2015)
Lo troveranno, lo troveranno il coraggio, i politicanti italiani e di mezzo mondo. Di questo tipo di coraggio, ne hanno già fatto vedere molto. "Ma davvero si vuole riconoscere uno Stato che nei fatti è governato solo da terroristi e fatto da terroristi?" Sì, certo, se i terroristi ammazzano ebrei israeliani, no problem. M.C.
Giuliani e la storia nascosta: «Gli ebrei oltre la Shoah»
di Silvia Pagliuca
Esplorare l'altra faccia della storia. Raccontare gli ebrei a cavallo tra primo e secondo Novecento andando oltre la Shoah. È questo lo spirito con cui Massimo Giuliani, professore di Lettere e Filosofia all'università di Trento, ha scelto di ridare voce, tra gli affreschi della Biblioteca comunale di via Roma, alle vite di alcuni ebrei italiani. «Perché ci sono storie che non si leggono sui libri, ma che hanno la stessa dignità di altre e meritano di essere conosciute. Esempi di anime messe alla prova da grandi tormenti, pubblici e privati - ricorda Giuliani, che nel 2000 ha conseguito il dottorato alla Hebrew University di Gerusalemme - stretti com'erano negli anni del fascismo, tra Torà, sionismo e resistenza».
Sono queste le tre dimensioni che lo studioso indaga in occasione del decimo incontro del ciclo La seconda Guerra dei Trent'anni organizzato dal Centro Studi sulla Storia dell'Europa Orientale e dalla Fondazione Museo Storico del Trentino. Per farlo, sceglie di ricordare le gesta di uomini comuni che con le loro esistenze hanno contribuito a definire il mosaico dell'identità ebraica moderna. Tra questi: Giorgio Nissim (il cui cognome, in ebraico, rimanda al termine «miracolo»), riferimento in Toscana per gli ebrei che qui emigrarono dalla Germania dopo l'ascesa di Hitler, convinti che l'Italia avrebbe potuto essere per loro una buona culla, salvo poi doversi ricrede pochi mesi più tardi, nel modo più atroce. Quello che toccò da vicino, tra gli altri, il livornese David Prato, rabbino capo di Alessandria d'Egitto, chiamato a Roma per esercitare lo stesso incarico che deterrà per soli due anni, abbandonando il Paese il giorno successivo all'approvazione delle leggi razziali del 1938. Una scelta provvidenziale la sua, diversa da quella portata avanti da sua figlia e suo genero, un ebreo fascista, entrambi deportati e poi uccisi ad Auschwitz. «Tale storia mostra quanto profonde fossero le lacerazioni anche familiari. Ebrei diventati fascisti, pronti a mostrarsi finanche più fascisti di altri», sottolinea Giuliani che tra «i traditori» ricorda Israel Zoller, meglio noto come Eugenio Zolli, il rabbino di Roma che decise di convertirsi al cattolicesimo «proprio nel momento in cui la comunità più avrebbe avuto bisogno della sua guida».
Ma tanti altri compongono il patchwork di Giuliani: dall'ebreo torinese Carlo Alberto Viterbo, sopravvissuto grazie al confino in un paesino dell'entroterra macerate se ad Aldo Finzi, ebreo per parte di padre, inizialmente fascista convinto, poi giustiziato nella strage delle Fosse Ardeatine, passando per il rabbino Angelo Sacerdoti, punto di riferimento per tutti gli ebrei di Roma, abituati a vivere da secoli come «sudditi di serie C del Papa». «Fino a Gino Bartali - conclude Giuliani - che nella sua bicicletta portava messaggi, soldi e carte di identità, pedalando da Genova a Lucca, da Firenze ad Assisi, nel nome della libertà».
(Corriere dell'Alto Adige, 12 marzo 2015)
Elezioni in Israele, ci prova anche il partito delle ultraortodosse
di Alfredo Ranavolo
Dietro i principali, l'universo dei piccoli partiti che si presentano alle elezioni israeliani del 17 marzo è frastagliatissimo.
Tra questi c'è B'Zchutan, formato da donne ultraortodosse che reclamano gli stessi diritti di cui godono le altre donne, quelle "secolarizzate", riguardo per esempio a occupazione, istruzione, ruolo nella comunità, trattamento in caso di divorzio.
"Vogliamo dare - dice la leader Ruth Colian - alle donne maggiore sostegno, qualcuno su cui poter contare all'interno della Knesset. Lo Stato di Israele ha fallito nel proteggere le donne ortodosse".
Ma per altre donne ortodosse, sono proprio queste richieste a confliggere con la scelta di vita di seguire strettamente le tradizioni. Anche il semplice volantinaggio, all'interno delle zone più conservatrici di Beit Shemesh, città che si trova trenta chilometri a ovest di Gerusalemme, ha incontrato sguardi torvi e resistenze.
"La donna che non crede che il suo posto sia a casa, che si vede in una posizione più alta del proprio marito, è un problema" ha affermato una giovane intervistata appena dopo aver preso visione di un opuscolo del B'Zchutan.
L'azzardata decisione di correre alle elezioni della 33enne, trova opposizioni decise degli ambienti ultraortodossi. Due anni fa aveva già provato a bussare alla porta del partito Shas per farsi candidare alle municipali, trovandola sbarrata.
In seguito si era rivolta alla Alta Corte, chiedendo di tagliare i fondi ai partiti che discriminano le donne. Richiesta respinta.
Gila Yashar, altra esponente del giovane partito, ha affermato che quanto provano lei e le sue compagne a compiere con esso è "una rivoluzione nella società ultraortodossa. Noi siamo il ponte tra gli ultraortodossi e la società israeliana".
Ma anche dagli ambienti laici, ovviamente, Yashar, Colian e le altre non possono attendersi grandi appigli.
Ma il "fattore donna" potrebbe, invece, rivelarsi molto importante nel nuovo parlamento israeliano. Non ci si attende che il numero possa significamente aumentare rispetto ai 27 seggi dell'ultima legislatura, ma parecchie figure femminili, a partire dalla nota Tzipi Livni, appaiono figure chiave della politica israeliana. Destino che sarà difficilmente condiviso da qualcuna delle ultraortodosse.
(euronews, 12 marzo 2015)
Quando i libri insegnavano a odiare l'altro
«Scuole e libri durante la persecuzione antisemita» è il titolo dell'esposizione che la nostra classe ha visitato al museo ebraico di Bologna. Da alcuni anni l'Istituto Nazionale di documentazione per la ricerca educativa di Firenze ha iniziato un progetto di recupero del patrimonio conservato all'interno del proprio archivio storico.
Si è data particolare attenzione al materiale scolastico, ai 3.000 e passa quaderni tra gli anni '20 e gli anni '60. Nel corso della catalogazione dei materiali sono stati reperiti documenti di valore storico in grado di fare luce sulle vite di alunni Ebrei alla vigilia della pubblicazione del Regio Decreto del 1938 per la difesa della razza ariana nella scuola fascista. Esaminando i libri di testo dell'epoca si nota una grande differenza tra la scuola di allora e la scuola di oggi. Gli alunni erano destinati a diventare presto bravi soldati quindi il modello proposto era quello dell'obbedienza come Balilla per i maschi o Piccola Italiana per le femmine. Un quaderno di prima di un bambino del 2015 presenta stimoli per il gioco mentre i quaderni dei bambini dell'epoca fascista riportavano filastrocche e testi chiari, belli, eleganti nelle illustrazioni ma pieni di riferimenti alla politica e alle leggi razziali: i manifesti, le riviste anzi 'insegnavano' le leggi razziali, cioè che esisteva una razza superiore ed altre inferiori. A noi studenti del XXI secolo serve conoscere, capire, ricordare il razzismo di ieri per tentare di riconoscere il razzismo di oggi.
(il Resto del Carlino, 12 marzo 2015)
Rischio di chiusura per la cattedra di Heidegger
L'Università di Friburgo abolirà ermeneutica e fenomenologia. Ma il mondo accademicosi ribella.
di Maurizio Ferraris
Lanciata il 9 marzo una petizione che ha già raccolto quasi duemila firme, a il giro del mondo filosofico non soo tedesco. Reagisce contro la decisione della Università di Friburgo di sostituire la cattedra di filosofia che è stata di Husserl e di Heidegger (ma anche di Windelband, e di Rickert, e ora è tenuta da Günter Figal) .per sostituirla con una cattedra secondaria (Juniorprofessur) di logica e filosofia del linguaggio, che costerebbe la metà di quella attuale. Non dico che la decisione equivalga alla chiusura della Scuola di Atene da parte di Giustiniano, ma certo appare meno motivata (dopotutto, i filosofi erano pagani e l'imperatore era cristiano).
Non è chiaro il vantaggio che deriverebbe dal sopprimere una cattedra su cui si sono avvicendati i maggiori esponenti del neokantismo, della fenomenologia e dell'ermeneutica. Dopotutto, anche da un puntodi vista meramente opportunistico, è dubbio pensare che gli studenti vengano da tutto il mondo a Friburgo per seguire dei corsi di logica e filosofia del linguaggio: il vin du pays sono la fenomenologia e l'ermeneutica. La cattedra pubblica l'Intemational Yearbook for Hermeneutics, una delle poche riviste filosofiche tedesche riconosciute internazionalmente, e la scomparsa della cattedra comporterebbe una riduzione degli scambi internazionali, e dunque anche dei finanziamenti che legati a queste iniziative.
Corre anche voce che la seconda cattedra dell'ormai piccolo dipartimento di filosofia sarà sostituita da una Juniorprofessur in filosofia araba medioevale. Ma non si tratta di una fantapolitica occupazione islamica dell'Università come ipotizzato da Houellebecq, semplicemente di un misto di interessi, rivalità, miopia. L'appello osserva che, piuttosto, converrebbe aprire una competizione internazionale per trovare il miglior rappresentante della tradizione della fenomenologia e dell'ermeneutica. Difficile non essere d'accordo. L'antisemitismo dei Quaderni neri di Heidegger ha gettato nuovo e motivatissimo discredito su un essere umano, ma fortunatamente le idee sono solitamente migliori dei loro interpreti.
(la Repubblica, 12 marzo 2015)
Israele - Ayman Odeh l'alfiere della 'Lista araba unita'
L'avvocato di Haifa che punta a essere terza forza alla Knesset.
di Massimo Lomonaco
Se nel prossimo parlamento israeliano gli arabi dovessero essere la terza o quarta forza come numero di seggi, lo dovranno in parte a Ayman Odeh, 41 anni, leader carismatico della 'Lista araba unita', una novita' assoluta nel panorama politico del voto del prossimo 17 marzo. Alla formazione, alcuni sondaggi accreditano circa 13 posti (su 120) alla Knesset. La forza di Odeh - personaggio molto diverso ad esempio da Haneen Zoabi, altra figura di spicco, e contestata, della politica araba alla Knesset - non risiede solo nella travagliata ma infine trovata unita' elettorale degli arabi di Israele (circa 1,5 milioni), quanto anche nella sua storia. Quasi sconosciuto fino ad oggi al grande pubblico israeliano, Odeh e' di Haifa, nel nord di Israele, citta' considerata tra le piu' integrate nelle sue tre componenti fondamentali: ebraica, araba, cristiana. Avvocato di professione, Odeh e' un laico che ha alle spalle una famiglia di tradizione comunista, anche se oggi lui stesso si definisce - come ha spiegato ai media - ''socialista e democratico'': due concetti che ci tiene a mantenere separati. Il volto nuovo della lista araba unita si e' fatto le ossa nel consiglio comunale della sua citta' natale tra il 1998 e il 2005, poi e' diventato segretario generale di 'Hadash': partito che si definisce arabo-ebraico, non sionista, e la cui maggioranza di leader ed elettori sono arabi israeliani. Il risultato maggiore di Odeh e' stato quello di saper unire 'Hadash' con gli 3 altri partiti arabi ('Balad' 'Lista Unita' e 'Taal') in un fronte comune dalle grandi aspirazioni elettorali. ''Tra 'Campo sionista' (centro sinistra) e 'Campo nazionale' (destra) voglio creare - ha detto in una recente intervista a I24 - un 'Campo democratico'. Non voglio farlo da solo e non solo con gli arabi ma anche con e per gli ebrei. Insieme''. ''Nelle elezioni del 2015 la parola 'pace' e' diventata obsoleta: ho paura che nel prossimo voto - ha spiegato indicando la sua ideologia generale - lo diventi anche il termine 'democratico'''. Il programma di Odeh e' puntato decisamente sul sociale: ''Voglio parlare - ha detto nella stessa intervista - alle classi basse piu' deboli, quelle che ora sono rappresentate da Aryeh Deri (Shas, il partito religioso rivolto agli ebrei sefarditi) e da Moshe Kahlon (di 'Kulanu', nuova organizzazione nata sulla scia del Likud, partito di destra del premier Benyamin Netanyahu). Voglio essere totalmente dedicato a questi strati sociali''. Quello che Odeh non vuole piu' e' che ''Israele sia lo stato dei tycoons che governano tutti''. ''Vogliamo avere un impatto. Vogliano raggiungere - ha ripetuto al Financial Times - il 20% in modo da essere attori sulla scena politica e non restare solo ai bordi del campo''.
Fatto sta pero', ad esempio, che Odeh ha scelto di non siglare un patto elettorale aggiuntivo con 'Meretz' (partito di sinistra) che avrebbe certamente favorito entrambi. Una mossa denunciata aspramente dai dirigenti di Meretz (al suo interno ci sono anche rappresentanti arabi israeliani) che hanno accusato Odeh. Ma, in base al risultato elettorale, Odeh potra' veramente avere un peso a livello di governo? La partecipazione a un eventuale esecutivo di centro sinistra guidato dal laburista Isaac Herzog ad esempio e' stata esclusa da entrambe le parti.
Ma le cose potrebbero cambiare se Herzog fosse invece costretto a varare un governo di minoranza (61 seggi): in questo caso l'appoggio esterno della 'Lista unita' varrebbe oro. E si dice che in cambio al partito di Odeh potrebbe andare la presidenza della importante commissione parlamentare per gli affari interni: un buon risultato. Intanto - quando ancora le urne sono chiuse - Odeh ha portato a casa un appoggio di prestigio: quello di Gideon Levy uno dei piu' famosi (e contestati dalla destra) opinionisti israeliani del liberal 'Haaretz': '''La Lista unita' - ha scritto - e' un chiaro raggio di luce nella stagione elettorale''. E ha invitato sia arabi sia ebrei a votarla.
(ANSAmed, 11 marzo 2015)
Orrore Isis, bimbo uccide "spia del Mossad"
Nuovo video: la vittima è un palestinese andato a combattere in Siria e accusato dì essere un infiltrato.
di Maurizio Molinari
Con un video di 13 minuti sull'esecuzione di una presunta spia del Mossad, lo Stato Islamico (Isis) recapita la prima sfida diretta ad Israele. Il personaggio del video è Muhammad Musallam, 19 anni, palestinese di Gerusalemme Est che dopo aver completato 12 anni di scuole dell'obbligo ed essersi offerto volontario come pompiere in Israele, tre mesi fa scelse di partire per la Siria facendo sapere alla famiglia di aver scelto di «morire da martire». Nell'ultimo numero di «Dabìq», il magazine di Isis, la sua storia è raccontata in un'intervista-confessione che il video di «AI Hayat» ripropone dal vivo.
È Musallam, vestito d'arancione come i condannati a morti di Isis, a raccontare di essere stato «reclutato dal Mossad per spiare i fratelli palestinesi» in cambio di «5000 shekel» (circa mille dollari) ed aver più volte aiutato gli israeliani a identificare «chi lanciava pietre». Nel video Musallam fa i nomi degli arabo-israeliani che lo avrebbero reclutato, spiegando che gli israeliani gli chiesero di compiere una «nuova missione» e «andare nello Stato Islamico per fargli sapere dove si trovano i depositi di armi e soprattutto quali sono i nomi dei palestinesi che vi combattono». In cambio di queste informazioni «mi offrirono una casa e molto danaro».
Messaggio elettorale
Fu cosi che, secondo il racconto del video, Musallam arrivò in Siria «passando dalla Turchia» per unirsi a Isis dove però venne scoperto, arrestato e interrogato. Terminata la confessione, il video mostra l'esecuzione dove un jihadista adulto - parlando in francese - si rivolge agli «ebrei» paragonandoli ai «crociati», preannunciando «punizioni» e assicurando la «prossima liberazione di Gerusalemme». Si tratta probabilmente di Sabri Essid, cognato di Mohammed Merah, l'attentatore che colpi una scuola ebraica a Tolosa nel 2012.
Sullo sfondo di immagini della città vecchia di Gerusalemme, con la moschea della Roccia in primo piano. Nel linguaggio di Isis ciò significa rivolgersi ai palestinesi di Gerusalemme Est - a una settimana dal voto politico in Israele - chiedendogli di unirsi alla jihad contro «gli ebrei», puntando sull'impatto visivo dell'eliminazione della «spia» per attestare la propria sanguinosa credibilità. L'esecuzione viene affidata a un adolescente che, in tuta mimetica, si mette davanti a Musallam e gli spara in fronte con la pistola, per poi scaricare su di lui più proiettili in maniera analoga a quanto fatto - in un video precedente - da un bambino kazako nei confronti di due presunte spie russe. L'esecuzione delle spie affidata a minorenni rientra nei messaggi del Califfo al-Baghdadi sulla volontà di adoperare i «cuccioli della Jihad» per combattere le «guerre del futuro».
(La Stampa, 11 marzo 2015)
Jérémie Berrebi, tra ortodossia ebraica e high-tech israeliano
Per incontrare Jérémie Berrebi, occorre lasciare il centro di Tel Aviv e dei suoi grattacieli, attraversare ovest verso Bnei Brak, la capitale degli ebrei ultra - ortodossi di Israele. La location può sembrare un po' assurda ai più: il nostro interlocutore non è forse uno dei pionieri di internet in Francia, che appare oggi tra gli investitori più attivi del mondo delle startup? Si, ma ora, a 36 anni, Jérémie Berrebi è anche un ebreo credente ortodosso. Il suo essere uno studioso di Talmud e strettamente osservante dei precetti ebraici, si coniuga perfettamente con il ruolo di imprenditore avido di tecnologia e di innovazione....
(SiliconWadi, 11 marzo 2015)
Israele, il 17 marzo alle urne: i principali candidati
ROMA - A una settimana dalle elezioni anticipate in Israele, i sondaggi sembrano concordare: sarà un testa a testa tra il Likud di Benjamin Netanyahu e l'Unione sionista di centro-sinistra, entrambi proiettati verso la conquista di 22-24 seggi sui 120 che compongono la Knesset. Il premier uscente ha puntato sul tema della sicurezza per lo Stato ebraico, lo sfidante Isaac Herzog vuole la ripresa dei negoziati di pace con i palestinesi e ristabilire un legame di fiducia con la Casa Bianca. Quello che segue è un elenco dei principali candidati alle elezioni del 17 marzo in Israele.
Conosciuto anche come "Bibi", BENJAMIN NETANYAHU, 65 anni, è in cerca di un quarto mandato come primo ministro alla guida del partito conservatore Likud. La sua politica di espansione degli insediamenti ebraici nei Territori occupati e la rottura dei colloqui di pace con i palestinesi nell'aprile del 2014, hanno deteriorato gravemente i rapporti con la Casa Bianca. Potendo contare sull'alleanza, già sperimentata, con i partiti di estrema destra, Netanyahu ha più probabilità del leader di centro-sinistra Herzog di assicurarsi la guida del prossimo esecutivo. E se riuscirà a conservare il mandato fino alla scadenza naturale del 2019, sarà il più longevo premier della storia di Israele.
Contende la poltrona all'attuale premier il co-leader dell'Unione sionista ISAAC HERZOG, noto col soprannome di "Buji", israeliano di sangue blu: è figlio del sesto presidente di Israele, nipote di uno stimato rabbino e nipote di uno dei più autorevoli ministri degli Esteri israeliani. Avvocato di formazione, Herzog ha studiato negli Stati uniti ed è alla guida dei laburisti dal 2013. Cinquantaquattro anni, è entrato per la prima volta in Parlamento nel 2003 e in passato ha rivestito diversi incarichi ministeriali.
Se l'Unione sionista dovesse guidare l'esecutivo, l'accordo è per una rotazione, che porterebbe dopo due anni le redini del governo nelle mani della centrista TZIPI LIVNI. Nata da una delle famiglie conservatrici più note in Israele, 56 anni, Livni si è a poco a poco affrancata dal Likud, tanto da assumere la guida del partito centrista Kadima dopo le dimissioni di Ehud Olmert. Livni si è detta convinta che solo la soluzione dei due Stati potrà salvaguardare Israele, con i suoi valori di Stato ebraico democratico.
MOSHE KAHLON, 55 anni, ha trascorso otto anni nelle Forze armate prima di lanciarsi nella carriera politica. Stella nascente del Likud, Kahlon è stato ministro delle Comunicazioni. Dopo una pausa politica, nel 2014 ha formato un nuovo partito, Kulanu, che include nella sua agenda politica temi essenzialmente sociali. Nonostante la sua politica relativamente progressista in politica interna, Kahlon è considerato un falco in politica estera e di sicurezza. Sostiene comunque un compromesso con i palestinesi sulla soluzione dei due Stati, incluso un accordo su Gerusalemme.
Uno dei leader più carismatici emersi nella comunità ebraica ultraortodossa è ARYEH DERI, leader del partito Shas, nato in Marocco nel 1959 ed emigrato in Israele nel 1968. È stato ministro degli Interni a soli 29 anni. Condannato nel 2000 per aver accettato una mazzetta, Deri ha scontato 22 mesi in carcere, per poi tornare alla politica nove anni dopo. E' considerato un pragmatico, aperto a possibili alleanze con centristi e sinistra, favorevole alla soluzione dei due Stati con i palestinesi.
ELI YISHAI, leader della neoformazione Ha'am Itanu, nato a Gerusalemme nel 1962 da una famiglia tunisina, ha rivestito diversi incarichi ministeriali sia con premier conservatori che laburisti. La sua carriera politica è stata contraddistinta dalla rivalità con l'ex mentore politico Deri. Yishai è conosciuto per le sue posizione estremiste, che lo hanno portato ad affermare nel 2012 che Israele dovrebbe "mandare Gaza indietro al Medioevo. Solo così potrà essere tranquillo per 40 anni".
Fra gli ultranazionalisti religiosi emerge NAFTALI BENNETT, classe 1972, che vanta una brillante carriera militare nelle unità di elite, parla un perfetto inglese e ha un passato da imprenditore di successo. Dal 2012 è il leader del partito The Jewish Home, con 12 seggi alle elezioni del 2013. È stato ministro dell'Economia con Netanyahu. Fiero sostenitore degli insediamenti, Bennett si oppone tenacemente alla soluzione dei due Stati e perora l'annessione di gran parte della Cisgiordania. Il suo ritornello: "Non cederemo mai Gerusalemme".
L'attuale ministro degli Esteri, AVIGDOR LIEBERMAN, nato nell'ex Unione sovietica nel 1958 e immigrato in Israele con la famiglia a 20 anni. È entrato in politica come stretto collaboratore di Benjamin Netanyahu per poi fondare nel 1999 un proprio partito, Yisrael Beitenu, che porta avanti una politica di massima fermezza nei negoziati con i palestinesi. Si è dimesso nel 2004 dal governo guidato da Ariel Sharon perché contrario al ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza. Il suo partito continua ad incoraggiare l'arrivo in Israele di ebrei da altri Paesi e ad offrire incentivi economici agli arabi israeliani affinché lascino Israele.
YAIR LAPID, 48 anni, popolare ministro delle Finanze nell'ultimo governo Netanyahu, silurato dal premier per un disaccordo sul budget, è il leader della nuova formazione Yesh Atid, catapultato dagli schermi televisivi alla politica nel 2012.
(askanews, 10 marzo 2015)
Gli israeliani non credono che i palestinesi saranno più disponibili se cambierà il governo
Secondo gli ultimi sondaggi, metà degli elettori pensa che un governo diverso potrebbe invece migliorare l'atteggiamento dell'amministrazione Obama verso Israele.
"Ancora una volta lo stato sionista dimostra quanto è estraneo alla cultura del Medio Oriente". "Cioè?". "Fanno di nuovo elezioni libere e democratiche!"
Gli israeliani non credono che le elezioni di martedì prossimo possano portare a un rinnovato processo di pace con l'Autorità Palestinese perché dubitano delle reali intenzioni dell'attuale dirigenza palestinese.
E' quanto emerge dall'ultimo sondaggio Peace Index sponsorizzato dall'Israel Democracy Institute e dell'Università di Tel Aviv, che ha intervistato un campione rappresentativo della popolazione adulta del paese sull'impatto che potrebbe avere nel processo di pace il partito che sarà chiamato a formare il prossimo governo. Il 64% degli ebrei israeliani e il 35% degli arabi israeliani si dice certo o quasi certo che la dirigenza palestinese non mostrerà maggiore flessibilità né maggiore disponibilità a fare concessioni se il prossimo governo sarà formato dai leader dell'Unione Sionista, Isaac Herzog e Tzipi Livni, contro il 30% degli ebrei israeliani e il 23% degli arabi israeliani che invece ritengono o sono sicuri che la dirigenza palestinese mostrerà maggiore flessibilità e disponibilità di fronte a un governo guidato da Herzog e Livni....
(israele.net, 11 marzo 2015)
Al posto della stella gialla
di Roberto Della Rocca
Questa mattina mentre accompagnavo mio figlio ad arruolarsi nell'esercito israeliano varie e molteplici sono state le riflessioni e i sentimenti che ho provato. Un turbinio di emozioni personali intrecciate e mischiate a quelle collettive del nostro popolo.
Mentre assieme ad altri genitori salutavamo i nostri figli ho tentato di immaginare le rispettive e diverse storie dei bisnonni di questi nuovi soldati. Magari uno speziere in Marocco, un chasìd in Polonia, una sarta in Kurdistan e chi come i miei antenati sudditi del papa.
Ma questa mattina il mio pensiero fisso è andato a mio nonno Rubino z.l, ucciso barbaramente dai nazisti, a soli 40 anni, durante una marcia di evacuazione dal campo di Auschwitz. Pur sforzandomi di tenermi lontano da una certa retorica e pur rifiutando con forza il banale, quanto strumentalizzato, rapporto di causalità tra la Shoah e lo Stato di Israele, ho voluto ipotizzare, con bizzarra fantasia, se mio nonno avesse potuto solo immaginare che un giorno un suo pronipote avesse indossato una divisa, ben diversa dalla sua, con inciso sul petto "esercito di difesa di Israele" al posto della stella gialla.
Che ci piaccia o meno, anche questa è la nostra miracolosa storia.
(Kolot, 10 marzo 2015)
Israele a fine febbraio ha ricevuto il 91% delle precipitazioni annue
Anche il livello del Mar Morto è aumentato a febbraio di 7 centimetri, portando il bacino a 428,82 metri sotto il livello del mare.
Dall'inizio della stagione delle piogge fino alla fine di febbraio Israele ha ricevuto 1,16 volte la quantita' media di precipitazioni in questo periodo dell'anno, pari al 91 per cento della media annua totale. Lo riferisce il quotidiano "Jerusalem Post". Durante il mese di febbraio il livello del lago Kinneret (Lago di Tiberiade) e' salito di 48 centimetri portando il bacino a 212,12 metri sotto il livello del mare. A febbraio il volume del Kinneret era pari a 82 milioni di metri cubi, poco meno della media di febbraio ma molto di piu' del record negativo dello scorso febbraio di 11,5 milioni di metri cubi. Anche il livello del Mar Morto e' aumentato a febbraio di 7 centimetri, portando il bacino a 428,82 metri sotto il livello del mare.
(MeteoWeb.eu, 10 marzo 2015)
A piedi tra le meraviglie di Israele
Il Mountain To Valley Relay Race è un evento sportivo annuale che ha avuto luogo negli ultimi sette anni nel nord di Israele. Questo è il primo anno che l'appuntamento è esteso ai turisti di tutto il mondo. Oltre 9.000 persone sono infatti attese a partecipare a all'appuntamento che si terrà dal 29 aprile al I maggio 2015. L'evento si snoda su un periodo di 24 ore con una staffetta di 215 km suddivisa in 24 sezioni, ognuna tra i 5 e i 14 km. Gruppi di 4, 6 o 8 corridori possono iscriversi sia nella categoria competitiva o in quella non competitiva. La gara sarà suddivisa in due manche distinte: la prima manche partirà il Mercoledì sera e si concluderà il Giovedi sera; la seconda manche inizierà Giovedi mattina e si concluderà il Venerdì mattina.
L'idea è quella di regalare ai partecipanti l'emozione della corsa, da soli o farcendo parte di un gruppo, insieme con le vedute spettacolari della Terra Santa. La maggior parte del percorso si svolge su strade sterrate e solo alcuni tratti saranno su strade asfaltate. I sentieri si combinano così da offrire dei percorsi importanti per le tre religioni monoteiste: Ebraismo, Cristianesimo e Religione musulmana
Maggiori informazioni e registrazione: www.mountain2valley.org
(Mondo in tasca, 10 marzo 2015)
Alstom alimenterà 120.000 israeliani con l'energia termica
Da due anni e mezzo, Alstom sviluppa nuove tecniche per l'industria energetica. L'azienda ha assunto, oltre ai precedenti 12, anche 23 dipendenti supplementari nel 2013 ed ulteriori 17 nel 2014. La nuova industria energetica è specializzata nel settore geotermico industriale per la perforazione da 1.500 a 3.000 metri di profondità e negli impianti solari termici.
Il primo progetto è in corso di realizzazione nel deserto del Negev, nel sud di Israele.
Thierry Dulong, direttore della nuova centrale Alstom, commenta: I finanziamenti per il progetto sono stati ottenuti nel giugno 2014. Il progetto è stato realizzato in partnership con la società israeliana BrightSource specializzata nella tecnologia solare termica, chiamata Ashalim. Alstom e il suo partner israeliano, intervengono per conto di un cliente sono intermediario per lo Stato di Israele....
(SiliconWadi, 10 marzo 2015)
Milano - Beteavòn, una cucina per la solidarietà
di Francesca Matalon
Pareti a specchio, eleganti centrotavola, luce soffusa, e poi trendy finger food e calici di bollicine. Non mancava niente alla serata di gala e beneficienza per raccogliere fondi destinati a Beteavòn, la prima cucina sociale casher in Italia nata a gennaio 2014 su iniziativa di Merkos l'Inyonei Chinuch, il ramo educativo del movimento Chabad-Lubavitch, per distribuire pasti gratuiti a chiunque ne abbia bisogno. Beteavòn opera in accordo con il Comune di Milano, in collaborazione con i servizi sociali della Comunità ebraica del capoluogo lombardo, ed è realizzata con il supporto della onlus Enel Cuore, attiva nell'ambito dell'assistenza sociale e socio-sanitaria, dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, della Regione Lombardia e di donatori privati. "Questa serata dimostra quanto è bello lavorare insieme, portando avanti un progetto grazie alla collaborazione di varie anime interne ed esterne alla Comunità", ha sottolineato il presidente della Comunità milanese Walker Meghnagi portando i suoi saluti.
Beteavòn infatti si è distinto come modello di cooperazione e sinergia tra realtà religiose e culturali diverse, e collabora inoltre con la Comunità di Sant'Egidio, a cui fornisce una volta alla settimana pasti caldi per i senzatetto che si raccolgono presso le stazioni Cadorna e Porta Garibaldi, e con i Centri di ascolto Caritas del Comune di Milano. "Siamo tutti diversi, ma abbiamo un fine comune e in nome di quello lavoriamo bene, guardando a ciò che ci unisce più che a ciò che ci divide", ha sottolineato Daniela Zippel Mevorah, ex assessore ai servizi sociali della Comunità ebraica di Milano, impegnata in prima persona nel progetto, chiamata dalla direttrice della scuola ebraica del Merkos Rivki Hazan a portare i suoi saluti. "I nostri valori etici sono la cosa più importante che abbiamo e ciò che ci rende uomini", ha osservato suo marito Rav Avraham Hazan, direttore del Merkos. Nel ringraziare tutti coloro che rendono possibile il progetto, un saluto è stato anche indirizzato al vicepresidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Roberto Jarach, presente in sala insieme ad altri membri del Consiglio UCEI, tra cui il Presidente della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea Giorgio Sacerdoti.
La casherut nutre dunque lo spirito oltre che il corpo, ponendosi perfettamente in linea con l'idea portante di Expo, che aprirà proprio a Milano tra qualche settimana. A portare i saluti del sindaco di Milano Giuliano Pisapia e della vice sindaco Ada Lucia De Cesaris, il presidente della Commissione Consigliare Expo 2015 Ruggero Gabbai. E per parlare di made in Italy e della cultura dell'alimentazione è intervenuto come ospite anche lo chef Davide Oldani, ideatore della cucina pop e Ambassador Expo 2015.
L'attività della cucina sociale è partita circa un anno fa con la distribuzione di una decina di pasti in occasione dello Shabbat ed è cresciuta rapidamente. "Oggi distribuiamo circa 1200 al mese, ma vogliamo migliorare ancora", ha aggiunto rav Igal Hazan. Tutto questo è possibile grazie al lavoro dei cinquanta volontari e dei numerosi donatori, e l'obiettivo è di arrivare a 1500 pasti entro la fine del mese. A questo scopo sono state battute all'asta nel corso della serata alcuni gioielli della collezione di Hasbani e delle opere d'arte bibliche della Collezione Tesoro.
La cena, offerta e preparata da La Casa dei Sapori, è stata inoltre rallegrata dalla musica del gruppo reggae israeliano Zvuloom Dub System e dal monologo del doppiatore e regista Luca Sandri. A presentare gli ospiti i deejay di Radio 105 Ylenia e Dario Spada.
(moked, 10 marzo 2015)
Israele - Lite per la "lista Schindler": battaglia legale per la proprietà
ROMA - Una durissima battaglia legale è in corso in Israele per i diritti di proprietà dei documenti di Oskar Schindler, l'industriale tedesco divenuto celebre per aver salvato circa 1.200 ebrei dallo sterminio durante la Seconda guerra mondiale. La vicenda vede opporsi Erika Rosenberg, biografa argentina, legataria ed esecutrice testamentaria della vedova di Oskar Schindler, Emilie, e il prestigioso memoriale della Shoah a Gerusalemme, Yad Vashem.
La disputa riguarda in particolare il possesso di migliaia di documenti, tra cui due delle quattro copie esistenti della famosa lista di Schindler, in possesso dello Yad Vashem dal 1999. L'originale di questo documento che elenca i nomi dei dipendenti ebrei salvati da Schindler fu distrutta alla fine della guerra.
I documenti erano contenuti in una valigia che è stata consegnata al memoriale e non appartengono a Emilie Schindler, è la posizione dello Yad Vashem. Da parte sua, Erika Rosenberg contesta un furto di proprietà.
Schindler, membro del partito nazista, era un imprenditore tedesco accreditato di avere salvato la vita di 1.200 ebrei che lavoravano nelle sue fabbriche. Nel 1993, il film "Schindler list" di Steven Spielberg ha reso la sua storia famosa in tutto il mondo. Dopo la guerra, Schindler emigrò con la moglie in Argentina, e fece ritorno in Germania solo nel 1958. La valigia contenente i documenti e le foto di Oskar Schindler fu trovata in Germania a casa di una certa Annemarie Staehr.
Nella sua denuncia dinanzi a un tribunale israeliano, Erika Rosenberg ha riferito che Oskar Schindler era l'amante di Annemarie Staehr ed ha accusato quest'ultima di essersi indebitamente appropriata della valigia con i documenti dopo la morte di Schindler nel 1974. La fondazione dello Yad Vashem ha invece spiegato che il rapporto tra Oskar Schindler e Annemarie Staehr era soltanto platonico e che sarebbe stato l'uomo a offrirle la valigetta. Per questo motivo, secondo il memoriale, i documenti non sarebbero mai stati e non possono essere adesso di Emilie Schindler.
Le due parti concordano piuttosto su un punto: la valigia è stata trovata dai figli della coppia Staehr alla morte dei genitori, a fine anni novanta, ed è stata consegnata a un giornale tedesco. Al momento in cui l'esistenza della valigetta è stata resa pubblica, Emilie Schindler ha avviato un'azione legale per ottenerne il possesso. Ma quando un tribunale in Germania ha ordinato che le venisse consegnata, essa era già stata trasferita allo Yad Vashem.
La fondazione ha ribadito di avere ottenuto i documenti in maniera "legale" e di non avere "mai nascosto di possederli". In un comunicato, il memoriale ha inoltre ricordato il loro "valore storico di primo piano", stimando che essi debbano essere di dominio pubblico. "Siamo impegnati in un'azione giudiziaria perché vogliamo essere sicuri che questi documenti non arrivino in mano a persone che non sono i proprietari legali e i cui interessi non sono chiari", è stato spiegato.
Il tribunale di Gerusalemme terrà una seduta preliminare sulla vicanda il prossimo 15 aprile.
(askanews, 10 marzo 2015)
L'orologiaio di Israele
E' il più scialbo capo del Mossad. I vicini di casa non sapevano neppure chi fosse. Ma sotto Tamir Pardo il servizio segreto di Gerusalemme è diventato onnipotente.
di Giulio Meotti
BERNA - Anni Novanta. E' notte. Una pattuglia della polizia si avvicina a un appartamento. Una vecchia signora sofferente di insonnia alle due di mattina si era insospettita per l'arrivo di un'automobile di fronte alla sua casa, nella tranquilla Konitz Strasse. Avvicinandosi alla finestra, gli agenti vedono uomini e donne che armeggiano apparecchi di intercettazione. Sul marciapiede un giovane e una giovane donna facevano da palo, mentre nella cantina altri tre tentavano di manipolare le linee telefoniche di uno degli appartamenti. Quando nella cantina entrano gli agenti svizzeri (che credevano di avere a che fare con ladri comuni), uno degli israeliani spiegò in inglese con la massima naturalezza di avere divorziato di recente e di aver cercato con la sua nuova amica "un tetto per la nottata". Il poliziotto non ci crede e li trascina tutti al commissariato più vicino. Si scoprirà che erano tutti agenti del Mossad e che si prefiggevano di eliminare uomini di affari arabi apparentemente implicati nel trasferimento nella valle della Bekaa libanese di materiali chimici e batteriologici. Avrebbero dovuto essere uccisi con l'introduzione in un orecchio di un liquido letale che avrebbe provocato l'arresto dei battiti cardiaci in poche ore. La casa - si scoprirà - era quella di Jean Abdullah, un anziano operativo di Hezbollah in Europa. Fra gli arrestati c'era anche Ram Ben-Barak. E' lui adesso uno dei probabili candidati a succedere a Tamir Pardo, l'attuale "Memuneh", il capo del Mossad (in ebraico significa "Istituto", l'istituto per antonomasia), che dovrebbe ritirarsi durante il 2015, a meno che il governo non estenda il suo incarico. Proprio quel Tamir Pardo che sarebbe stato implicato nell'affare di Berna. A competere per il suo incarico anche l'attuale capo del National Security Council, Yossi Cohen, e il vice di Pardo, la cui identità non può essere resa nota sulla stampa. Maratoneta che parla un inglese perfetto, padre di quattro figli, Cohen al Mossad ha già diretto la sezione "Tsomet", quella incaricata di reclutare agenti e di infiltrarli nei paesi nemici. Cohen ha diretto le spie in quattro continenti, fra cui Africa ed Europa. Fra i papabili a succedere a Pardo anche un altro Cohen, l'attuale capo dello Shin Bet, il servizio segreto interno, Yoram Cohen, cresciuto in una modesta casa nel quartiere Shapira di Tel Aviv, figlio di Moshe e Leah, emigrati in Israele dall'Afghanistan negli anni Cinquanta. Cohen indossa la kippà, il copricapo dei religiosi, e rappresenta una nuova generazione di spie devote. Durante la prima guerra del Libano, gli amici e i colleghi lo ricordano indossare lo scialle di preghiera dopo un'operazione e intonare Salmi al Signore. Nel caso Cohen venisse nominato, al suo posto potrebbe andare "la volpe", Roni Alsheikh, un ufficiale religioso di origine yemenita. La massima di Douglas MacArthur, lo stratega americano della guerra nel Pacifico, per cui "i vecchi soldati non muoiono, semplicemente appassiscono", non vale per Israele. Tamir Pardo è un veterano della sicurezza dello stato ebraico dal 1976. Pardo è anche noto come "l'orologiaio", per il suo carattere schivo, paziente. E' un eroe che ha ricevuto ben tre premi, nel giorno dell'indipendenza, comminati a chi rischia la vita in missioni segrete per la sicurezza d'Israele. Eppure è molto diverso dal suo predecessore, Meir Dagan, che due notti fa a Tel Aviv ha guidato una manifestazione politica faziosa contro il primo ministro Benjamin Netanyahu, a meno di una settimana dalle elezioni. Se Dagan era chiaramente una nomina personale dell'ex primo ministro Ariel Sharon, Pardo è legato a Bibi. Hanno una storia comune, qualcosa che potrebbe essere definito quasi come un legame di sangue: l'Operazione Entebbe e l'eliminazione di Khaled Meshaal. Pardo era l'ufficiale di collegamento durante l'Operazione Entebbe nel 1976. Fu lui a usare la parola in codice "Carmelo": stava a significare che l'operazione era stata effettuata e che gli aerei erano decollati con gli ostaggi di Entebbe. Tutti tranne Yoni Netanyahu, il fratello dell'attuale primo ministro. Il proiettile mancò di dieci centimetri Pardo, che fu il primo a vedere Yoni crollare. Quattro anni dopo, Pardo entra nel Mossad e inizia a farsi subito notare per uno straordinario potere di improvvisazione. Pardo fa parte degli "sciusciuisti", ovvero quelli che fanno "sh", per invitare al silenzio. Non parlano di quello che fanno. Nel 1997, quando Netanyahu era primo ministro, agenti del Mossad sono stati arrestati in Giordania in seguito al fallimento dell'assassinio del leader di Hamas, Khaled Meshaal. Alla testa della commissione di inchiesta c'era Pardo. Pardo ha fama di essere un personaggio complesso: da un lato, è uno squalo che morde avidamente ogni progetto, dall'altro lato è un pignolo che passa in rassegna tutte le possibilità di successo e di fallimento, una caratteristica che spesso suscita risentimento tra i subordinati. Fumatore incallito, Pardo lavora spesso di notte e convoca riunioni alle 22 e 30. Vuole avere il materiale prima di ogni meeting, così da smontare spesso i piani che i suoi dipendenti hanno accuratamente messo a punto per lui durante settimane di lavoro. A differenza del coriaceo Meir Dagan, Pardo è freddo, distante, quasi irraggiungibile. Privo di carisma, Pardo è difficile, mai incline all'umorismo, anche se esercita un fascino tutto particolare, quasi stoico. Quando è stato nominato da Netanyahu capo del Mossad, i suoi vicini di casa nel moshav Nir ne ignoravano perfino l'esistenza. "Nessuno sapeva quello che stava facendo", diranno. Pardo ha rivoluzionato il Mossad in due campi. Innanzitutto nel reclutamento, dopo il suicidio della spia-traditore Ben Zygier, il "prigioniero X". Non avrebbe mai dovuto essere stato assunto in primo luogo, sebbene al momento delle missioni segrete di Zygier e del suo arresto, il regista del Mossad era il predecessore di Pardo, Meir Dagan. L'attuale capo del Mossad ha inoltre potenziato il ruolo delle donne all'interno del servizio segreto. Tutto ebbe inizio alla periferia di Parigi con una bionda focosa. E' tramite lei che il Mossad (all'epoca Pardo era già un dirigente di spicco) contatta un ingenuo e godereccio iracheno addetto alla costruzione di un reattore nucleare. Dopo un po' di sesso e intrighi, il 7 giugno 1981, una pattuglia di cacciabombardieri israeliani elude la sorveglianza dei radar e distrugge la centrale nucleare irachena di Tuwaitha. Il sogno dell'atomica cullato da Saddam Hussein va in pezzi. Il mondo si indigna per l'audacia israeliana. Ma neanche dieci anni dopo tirerà un sospiro di sollievo quando il rais di Baghdad infiammerà il Golfo. Da allora, il Mossad fa sempre più uso delle femmine fatali. Come Sylvia Rafael, bellissima, alta, arrestata in Norvegia dopo il fallimento di Lillehammer. O Cindy, che si spacciò per estetista e incastrò su uno yacht al largo di Ostia il tecnico nucleare israeliano Mordechai Vanunu che aveva tradito il suo paese vendendo segreti atomici all'estero. Con la nomina di Pardo, il Mossad ha assunto soprattutto il controllo di tutte le operazioni clandestine, comprese quelle dell'esercito, da sempre geloso della propria indipendenza operativa. Tamir Pardo ha dato al Mossad un potere praticamente infinito nella gestione della sicurezza dello stato ebraico. Il 5 agosto 2006, i commandos israeliani arrivarono nel porto mediterraneo di Tiro, in Libano, uccidendo ventisette fra agenti di Hezbollah e Guardie della Rivoluzione iraniane. A guidare l'incursione proprio Pardo, allora capo delle operazioni del servizio segreto. Era la prima volta che un ufficiale del Mossad si metteva a capo di un reparto dell'esercito. Questo metodo non venne applicato nella guerra a Gaza alla fine del 2008 e nel 2009, a causa delle obiezioni dell'allora premier Ehud Olmert che temeva un accentramento di potere. Sotto Netanyahu, il Mossad ha aumentato del ventisei per cento anche il proprio budget. Alcune settimane fa una operazione simile a quella del 2006 si è ripetuta in territorio libanese, con l'uccisione di capi di Hezbollah come Imad Mughniyah e di pasdaran iraniani come Mohammed Ali Allahdadi. Sotto la direzione di Pardo, il Mossad ha smesso di assassinare scienziati iraniani (attività ovviamente di cui non si sono mai avute conferme). I quattro anni di campagna di "targeted killings" è cessata nel 2012, con quattro uccisioni sotto Dagan e una sotto Pardo. Secondo un rapporto del settimanale Spiegel, l'omicidio di Dariush Rezaie fu la prima azione del nuovo capo del Mossad, Tamir Pardo, come la definì al settimanale tedesco un funzionario dello stesso servizio segreto israeliano. "Israele non risponde", replicò Ehud Barak, abbozzando un leggero sorrisetto, a chi gli chiedeva conto di questi strani omicidi in Iran. Da allora, l'ostilità della Casa Bianca di Barack Obama e la sempre più forte azione di controspionaggio iraniano, hanno spinto i "Pardo boys" a concentrarsi sull'intelligence, la raccolta di informazioni sul programma nucleare iraniano. Da qui il potenziamento, da parte di Tamir Pardo, della divisione "Neviot" del Mossad, gli specialisti in sorveglianza, effrazione e intercettazione che sono stati rispediti anche in Europa nel 2012 dopo una lunga assenza. E' la "guerra delle onde" di cui Pardo sarebbe il genio assoluto. Sua l'idea, il 16 aprile 1988, di un Boeing 707 con contromisure elettroniche per coprire l'operazione del commando del Mossad che uccise Abu Jihad a Tunisi? Suo "Stuxnet", il super virus che avrebbe fortemente ritardato le centrifughe nucleari iraniane? Ma non è che c'è lo zampino di Pardo anche nell'intercettazione, la scorsa estate, che i servizi segreti israeliani hanno fatto delle telefonate del segretario di Stato John Kerry? Il responsabile della diplomazia americana venne intercettato dal Mossad durante le conversazioni svolte nelle trattative tra Israele e l'Autorità palestinese. E non fu un bel sentire per Gerusalemme. Un anno fa, Pardo si sarebbe incontrato a Vienna con il capo dell'intelligence saudita, Bandar bin Sultan, per una comune azione di boicottaggio del nucleare iraniano. Pardo finora si è sempre detto contrario a uno strike preventivo sulle installazioni atomiche iraniane. Figlio di ebrei turchi, doppia laurea in Scienze politiche e Storia, Pardo ha trascorso un periodo da ufficiale anche nella squadra segreta "Cesarea", la divisione di assassini del Mossad nata per colpire comandanti e finanziatori dei gruppi terroristici. Il gruppo era stato messo in piedi per dare la caccia ai criminali di guerra nazisti ed è formato dall'élite dell'élite di Israele. Ma è la sorveglianza il suo forte. La grande distanza che separa Israele e Stati Uniti sul nucleare iraniano è adesso sul tempo che servirà agli iraniani per fabbricare la bomba atomica una volta che lo decideranno. Un anno per gli americani, sei mesi per gli israeliani. Ma forse anche meno. Spetterà a Pardo intercettare quel segnale. E se Israele deve prepararsi a dieci anni di containment fra Teheran e le potenze occidentali, l'orologiaio del Mossad è davvero l'uomo giusto per prevenire la "bomba di Allah". E' molto paziente. Una qualità importante in medio oriente.
(Il Foglio, 10 marzo 2015)
I discorsi dell'odio
di Enrico Franceschini e Anais Ginori
Nella diciassettesima camera del Tribunale di grande istanza di Parigi non c'è aggettivo, frase, battuta, concetto, che non venga soppesato, contestualizzato: discussioni infinite per decidere cos'è lecito dire, scrivere. Il romanziere si ritrova accanto al giornalista, un presentatore televisivo vicino a un comico, un attore a un filosofo. La diciassettesima camera, o Chambre de la presse, è il luogo dove da più di un secolo si fissano i limiti di uno dei beni più preziosi della democrazia: la libertà di espressione. In quest'aula affacciata sulla Senna, in cui è stato processato anche Flaubert per oltraggio alla morale pubblica e religiosa dopo la pubblicazione di Madame Bovary, s'incontrano ai giorni nostri la direttrice di Closer accusata di violazione della privacy, un blogger razzista, Jean-Marie Le Pen che ha scherzato sui rom. Passano il comico Dieudonné per le sue ironie sulla Shoah, un semplice cittadino che diffonde teorie del complotto, un rapper con una canzone omofoba, il direttore di Le Monde per uno scoop, ma anche la scrittrice Marcela Iacub per il suo libro scabroso su Dominique Strauss-Kahn. È in questa sorta di salotto culturale che dal lontano 1881 i magistrati stabiliscono di volta in volta la differenza tra informazione e diffamazione, umorismo e insulto. Una tradizione giuridica unica che ha permesso al paese dei Lumi di essere ancora oggi una delle nazioni più liberali e aperte nell'espressione di idee e opinioni. Eppure all'alba di questo 2015 la Chambre de la presse sembra di colpo travolta, impreparata ad affrontare una delle patologie della nostra epoca: hate speech, il discorso dell'odio che, contrariamente al passato, si propaga in pochi clic, diventa virale, inarrestabile e soprattutto banale nella sua micidiale diffusione. Nell'ultimo anno, le dichiarazioni antisemite sono raddoppiate e quelle contro i musulmani sono aumentate del 70% dopo gli attentati di Charlie Hebdo . Una valanga di astio e intolleranza che ha convinto il governo a toccare la "sacrosanta" legge del 1881, baluardo della République finora mai rimesso in discussione. A giorni dovrebbe essere presentata la riforma secondo cui le dichiarazioni razziste, antisemite, e forse anche omofobe, non saranno più solo reati di opinione com'è attualmente ma reati tout court. In Francia qualsiasi abuso della libertà di stampa ed espressione è trattato da giudici e avvocati specializzati e quindi soggetto a particolari garanzie procedurali: la prescrizione è più breve (tre mesi anziché tre anni), non è possibile la custodia cautelare né il processo per direttissima ed è bandita qualsiasi procedura d'urgenza. I délits de presse sono giudicati dalla diciassettesima camera del Tribunale di grande istanza di Parigi. Le pene sono pecuniarie: fino a 12mila euro per la diffamazione, che salgono a 45mila nel caso di incitamento all'odio razziale o antisemita, per cui è previsto anche fino a un anno di carcere. Le condanne ci sono, e anche dure.
Qualche mese fa un'ex candidata del Front National, Anne-Sophie Leclère, è stata condannata a nove mesi di carcere per aver paragonato il ministro della Giustizia a uno scimpanzé. Eppure secondo il governo e alcune associazioni che lottano contro l' hate speech, l'attuale sistema giuridico non è più adatto ai nostri tempi. «Tutti ormai sono d'accordo nel dire che il razzismo non è un'opinione ma un reato. Allora perché non giudicarlo come tale?», si chiede polemicamente Alain Jakubowicz, presidente della Licra, la Lega contro il razzismo e l'antisemitismo. «La legge del 1881 è una legge di libertà, non di repressione», aggiunge Jakubowicz, strenuo promotore di una nuova giurisdizione sul tema. Con la riforma voluta da François Hollande, l'incitamento all'odio potrebbe finire insieme ad altri reati del codice penale, come il furto di un motorino o lo stupro: così com'è già in altri paesi. Un'ipotesi che terrorizza molti avvocati, a cominciare da Richard Malka, storico legale di Charlie Hebdo. «È paradossale notare che dei giornalisti sono morti per difendere la libertà d'espressione commenta Malka e una delle prime misure del governo è un legge che minaccia questa libertà ». L'avvocato di Charlie è contrario alla riforma. «Se passasse, i vignettisti del nostro settimanale sarebbero processati per le caricature su Maometto per direttissima, tra un rapinatore e uno spacciatore. È una legge fondata sull'emozione, e come tale da irresponsabili » continua l'avvocato del giornale attaccato dai terroristi. «Non risolveremo i problemi del razzismo e dell'antisemitismo conclude Malka attraverso leggi che non rispettano uno dei principi su cui si fonda la République». È il grande dilemma che pone il terrorismo a ogni democrazia: proteggere se stessa ma senza snaturarsi. Censurare i predicatori dell'odio, oppure lasciarli liberi in nome di valori che loro stessi non riconoscono? Per la Francia il doppio obiettivo degli attentati di gennaio (libertà di stampa e comunità ebraica) ha amplificato un dibattito che altri paesi, a cominciare dagli Stati Uniti dopo il 2001, hanno già dovuto affrontare. A Parigi però gioca anche una normativa d'eccezione, rappresentata dalla famosa Chambre de la presse.
«La via dell'inferno è lastricata di buone intenzioni», ricorda Jean-Yves Dupeux, presidente dell'associazione degli avvocati specializzati nella libertà di stampa. «La legge del 1881 è equilibrata, è ormai ben rodata», continua Dupeux. «Il formalismo giuridico che impone permette di avere sentenze soppesate in fascicoli spesso delicati ». Tra gli oppositori c'è uno dei principi del foro, l'avvocato Henri Leclerc, presidente della Ligue des Droits de l'Homme, così come la Consulta nazionale per i diritti dell'uomo che ha emanato 15 raccomandazioni per fermare l' hate speech, ma non una riforma della legge del 1881. «Le infrazioni legate al discorso dell'odio o gli abusi della libertà d'espressione ha spiegato un rappresentante della Consulta presentano una specificità che non deve essere integrata nel codice penale». Avvocati e magistrati temono che la riforma potrebbe scatenare il caos nei tribunali. Una prova generale c'è già stata con il passaggio deciso dal governo a novembre del reato di apologia del terrorismo dalla legge del 1881 al codice penale. In poche settimane, i tribunali si sono ritrovati intasati di processi per direttissima: una settantina solo tra gennaio e febbraio, dopo gli attentati. Una "reazione isterica" del governo, ha detto il sindacato nazionale della magistratura. Non è mettendo in galera qualcuno che dice "Je suis Kouachi" che si risolve il terrorismo. Tra voglia di censura e orgoglio libertario, nel paese di Voltaire sempre meno cittadini sembrano disposti a dare la vita perché altri possano esprimere idee che non condividono.
(la Repubblica, 10 marzo 2015)
L'israeliana Noa implora Dio: «Non far vincere Netanyahu»
GERUSALEMME - «Shma Yisrael, Adonai eloheynu. (Ascolta Israele, il Signore è il nostro unico Dio)». Così comincia la lettera di Noa, l'artista israeliana che il 17 marzo si esibirà al Politeama di Genova. In una lunga lettera, Noa fa un forte appello politico contro l'attuale governo israeliano, dominato dalla destra. Il 17 lì si vota: e Noa, all'anagrafe Achinoam Nini, voterà e poi in aereo arriverà a Genova. «Buon Dio, eccomi, sono Achinoam, la ragazzina (...). T'imploro di inviare saggezza e compassione ai cuori dei nostri cittadini, che votino per liberare il Paese del governo razzista, distruttivo, arrogante di Benjamin Netanyahu e le sue coorti. Ti prego, Dio, mandali a casa!» Il suo richiamo è contro l'attuale governo, ritenuto troppo severo nella complessa questione mediorientale.
«Ti prego liberaci di questi malvagi uomini e donne (...). Aiuta i nostri cittadini ad eleggere una leadership illuminata, responsabile, compassionevole e coraggiosa, che si dedichi al benessere di tutti i nostri cittadini, arabi ed ebrei (...). Ti imploro, Signore. Amen».
(Il Secolo XIX, 10 marzo 2015)
Unaltra artista (sono ormai parecchi) che sente il dovere di far conoscere al mondo il suo parere politico. No, non non il suo parere, ma la sua richiesta a Dio. Chissà se sarà contento Dio di questo uso del suo nome a scopi elettorali. M.C.
Asta benefica per la Fondazione Italia Israele per la Cultura e le Arti
A Milano mercoledì 11 marzo
La Fondazione Italia Israele per la Cultura e le Arti presenta mercoledì 11 marzo nella prestigiosa sede del Teatro Franco Parenti di Milano, grazie alla gentile ospitalità di Andreacute;e Ruth Shammah, l'asta di raccolta fondi in favore della fondazione stessa. In occasione dell'asta la Fondazione e la curatrice e critica d’arte Giorgia Calò hanno selezionato i lavori di trentasei artisti nazionali e internazionali, coinvolgendo anche gallerie, collezionisti privati, filantropi e direttori dei musei italiani e israeliani. L'asta di raccolta fondi sarà completata dal progetto ExLibris, che si propone di integrare forme artistiche diverse ricorrendo alla ricchezza della letteratura israeliana. Il progetto ideato e curato da David Palterer, prevede l’intervento creativo di artisti di fama internazionale stimolati dalla lettura dei grandi libri dei principali scrittori israeliani.
La Fondazione Italia Israele per la Cultura e le Arti presenta mercoledì 11 marzo nella prestigiosa sede del Teatro Franco Parenti di Milano, grazie alla gentile ospitalità di Andrée Ruth Shammah, l'asta di raccolta fondi in favore della fondazione stessa.
Alle 19.45, accompagnate da un aperitivo di benvenuto nel Café Rouge, verranno presentate le opere della collezione ExLibris e i cataloghi editi da Gangemi. Dalle ore 20.15, nel foyer del Teatro verrà battuta l'asta.
Oltre cinquanta artisti hanno donato le proprie creazioni, alcune delle quali appositamente realizzate per questa giornata, in cui sarà possibile vedere e aggiudicarsi alcune delle più interessanti opere d'arte contemporanea. La Fondazione Italia Israele per la Cultura e le Arti (IIFCA), nata in concomitanza del terzo Vertice intergovernativo fra Italia e Israele per volontà dei governi dei due Paesi, si propone di promuovere progetti selezionati nei campi della cultura e dell'arte che rispondano a criteri di bellezza, innovazione e abbiano un effetto duraturo sulla società e sul territorio. La Fondazione si propone inoltre con il coinvolgimento della società civile, degli artisti e degli studiosi, d'ideare, promuovere e attuare progetti, attività, manifestazioni, fiere, mostre, esposizioni che abbiano come presupposto una forte integrazione tra i due Paesi e che contribuiscano a incrementare congiuntamente il loro patrimonio culturale.
In occasione dell'asta la Fondazione e la curatrice e critica d'arte Giorgia Calò hanno selezionato i lavori di trentasei artisti nazionali e internazionali, coinvolgendo anche gallerie, collezionisti privati, filantropi e direttori dei musei italiani e israeliani. Nomi affermati e nomi di giovani artisti uniti da un unico intento: il sostegno e la promozione della Fondazione nella realizzazione di progetti culturali d'eccellenza che coinvolgano i due Paesi in uno spirito di scambio e d'interesse comune. La collezione battuta all'asta raccoglie fotografie, disegni, sculture e opere pittoriche, che attraverso linguaggi e tecniche differenti riflettono l'identità e le peculiarità di ciascun artista sottolineandone la libertà di stile e di ricerca. Ogni opera ha dunque un suo valore intrinseco, che si esprime nella libertà dell'atto creativo. L'asta di raccolta fondi sarà completata dal progetto ExLibris, che si propone di integrare forme artistiche diverse ricorrendo alla ricchezza della letteratura israeliana. Il progetto ideato e curato da David Palterer, prevede l'intervento creativo di artisti di fama internazionale stimolati dalla lettura dei grandi libri dei principali scrittori israeliani. Così ad esempio Mimmo Paladino interpreterà "L'Amante" di A. B. Yehoshua, Giosetta Fioroni "Michael mio" di Amos Oz, Alfredo Pirri "Vedi alla voce: amore" di David Grossman. Dopo la presentazione in anteprima, tenutasi il 9 febbraio presso la galleria di Roma Anna Marra Contemporanea, al cospetto del Presidente della IIFCA Piergaetano Marchetti, dell'Ambasciatore d'Israele in Italia Naor Gilon e del Direttore Generale Sistema Paese, MAECI Andrea Meloni, dal 18 al 26 febbraio, la galleria Riccardo Crespi di Milano ospiterà la mostra delle opere che andranno all'asta.
Gli artisti coinvolti nell'asta di raccolta fondi sono: Etti Abergel, Giovanni Albanese, Marisa Albanese, Irma Alonzo, Maya Attoun, Marco Bagnoli, Yael Balaban, Robert Barni, Miki Ben Cnaan, Hilla Ben Ari, Yifat Bezalel, Irma Blank, Veronica Botticelli, Davide Bramante, Anita Calà, Valeria Catania, Francesco Cervelli, Mauro Di Silvestre, Elastic Group of Artistic Research, Giosetta Fioroni, Shay Frisch, Tsibi Geva, Ron Gilad, Shlomo Harush, Orit Ishay, Menashe Kadishman, Shaul Knaz, Jannis Kounellis, Mauro Maugliani, Alessandro Mendini, Hidetoshi Nagasawa, Elena Nonnis, Nunzio di Stefano, Gonzalo Orquín, Mimmo Paladino, Pino Pinelli, Alfredo Pirri, Paolo Radi, Renato Ranaldi, Alessandro Roma, Pietro Ruffo, Mauro Staccioli, Giuseppe Stampone, Stih&Schnock, Daniel Tchetchik, Marco Tirelli, Vedovamazzei, Gal Weinstein, Maya Zack, Gilberto Zorio, Gaston Zvi Ickowicz. Mercoledì 11 marzo 2015, ore 20.15
Teatro Franco Parenti - via Pier Lombardo 14, Milano
Introduzione: Vincenzo Trione, Professore Ordinario di Arte e Media, Università Iulm Milano
Battitore: Jacopo Antolini, Pandolfi Casa d'Aste
(MilanoToday, 10 marzo 2015)
Roma - Pansa in Sinagoga incontra i vertici della Comunità Ebraica
ROMA - Incontro in Sinagoga, a Roma, tra il capo della Polizia, Alessandro Pansa, e i vertici della comunità ebraica capitolina. Al termine dell'incontro, il presidente Riccardo Pacifici, il questore Nicolò D'Angelo e Pansa hanno percorso le strade del ghetto per dare un segnale forte sulla sicurezza del quartiere.
"Vogliamo mandare un segnale di serenità e di normalità. Non dobbiamo lasciarci convincere da chi vuole creare il panico. È importante far vedere ai cittadini che si può passeggiare tranquillamente nel quartiere". Così Riccardo Pacifici, presidente della Comunità Ebraica di Roma. "I ragazzi continuano ad andare a scuola e la vita va avanti", ha affermato Pacifici, che insieme ai vertici della Comunità Ebraica capitolina e al questore ha attraversato il ghetto a piedi per dare un segnale sulla sicurezza della zona. "Per noi, vivere nell'emergenza è normale. Ciascuno di noi -ha spiegato Pacifici - è cresciuto con la presenza delle forza dell'ordine nel quartiere. Ora è importante far vedere che si può passeggiare serenamente".
"La minaccia esiste, l'abbiamo valutata e le misure adottate ci rendono sereni". Così il capo della polizia, Alessandro Pansa, al termine dell'incontro con i vertici della Comunità Ebraica di Roma, tenutosi oggi in Sinagoga. Pansa, che al termine dell'appuntamento ha passeggiato per le vie del ghetto con il rabbino capo, Riccardo Di Segni e con il presidente, Riccardo Pacifici, si è poi fermato pranzo presso un ristorante kosher del quartiere. L'iniziativa, voluta per rassicurare i cittadini sul reale livello di sicurezza della zona, ha visto anche la partecipazione del questore Nicolò D'Angelo. "Abbiamo innalzato il livello di rischio e adottato le misure necessarie - ha dichiarato Pansa - il quartiere è sicuro e deve rimanere sereno".
Servizio di Cristina Pantaleoni
(Meridiana Notizie, 9 marzo 2015)
I senatori repubblicani inviano una lettera a Teheran
Il discorso di Bibi sembra aver fatto breccia nel Congresso
Un gruppo di senatori del partito repubblicano degli Stati Uniti hanno inviato una lettera alla leadership iraniana in cui avvertono che qualsiasi accordo con il Presidente Obama potrà essere rivisto alla fine del suo mandato. La lettera è frutto dell'iniziativa del senatore Tom Cotton ed è stata firmata da quarantasette esponenti di punta del partito repubblicano tra cui Ted Cruz e Marco Rubio, probabili prossimi candidati alle elezioni presidenziali.
Si tratta dell'ennesimo sforzo da parte del Congresso di riprendere il controllo sui negoziati con l'Iran per il nucleare in modo tale da evitare che la Repubblica Islamica rimanga, alla conclusione del patto, in possesso di numerose infrastrutture che gli permetterebbero di sviluppare in pochi anni la capacità di produrre un'arma nucleare, una posizione simile a quella espressa la scorsa settimana dal Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu durante la sua visita negli Stati Uniti....
(Progetto Dreyfus, 9 marzo 2015)
Talia Bidussa alla presidenza dell'Unione Giovani Ebrei d'Italia
È determinata e piena di energie Talia Bidussa, la neoeletta presidente dell'Unione Giovani Ebrei d'Italia. Il Consiglio esecutivo per il 2015 è stato nominato domenica durante un Congresso straordinario tenutosi a Milano, dove Bidussa si è presentata per il suo secondo mandato. "Lavorare l'anno scorso come consigliera è stata un'esperienza tra le più formative che potessi intraprendere: non solo mi ha permesso di acquisire maggiori competenze organizzative, ma il confronto quotidiano con le persone con cui ho lavorato è diventato man mano sempre più un'esigenza personale e sempre meno una mera questione lavorativa", racconta.
Talia è nata a Venezia ma vive da sempre a Milano, dove studia giurisprudenza, lavora come insegnante volontaria in carcere, ed è costantemente impegnata nella vita giovanile ebraica. Ex Shomerista, Talia ha poi mantenuto un ruolo di rilievo all'interno dell'Hashomer Hatzair come shlichonah del ken milanese, incarico che ha abbandonato solo qualche mese fa. Quando ha iniziato a frequentare l'Ugei, ha deciso di partecipare subito in prima persona candidandosi come consigliera dopo pochi mesi. "Molti di noi finito il liceo e concluso il percorso nei movimenti giovanili, come Hashomer Hatzair e Bene Akiva, non sanno come portare avanti quanto appreso e coltivato in quegli anni", osserva. "L'Ugei è esattamente il contesto in cui poter applicare i valori sviluppati precedentemente: a prescindere dalla Tnuah frequentata, entrambe hanno in comune come pilastro fondante il senso di responsabilità e impegno nei confronti del prossimo, fondamentale nell'ambiente comunitario".
"L'Ugei è un grande contenitore a nostra disposizione: sta a noi definirlo e dargli un contenuto. In pochi altri luoghi è altrettanto possibile uscire dalla propria 'comfort zone' e conoscere persone con idee anche molto diverse dalle proprie, e dunque crescere". Così Bidussa spiega quali siano le potenzialità dell'Ugei. Anche in un momento difficile come quello attuale - che tra le altre cose ha visto durante lo scorso Congresso ordinario a Firenze la mancata presentazione di candidati per l'elezione del Consiglio - la neo presidente resta positiva: "Inutile nascondersi, negli ultimi anni l'Ugei ha vissuto dei momenti di crisi e precarietà: questo da una parte può spaventare, dall'altra ci fornisce il modo di reinventarci, rendere l'intera organizzazione più vicina alle esigenze dell'ebraismo giovanile italiano, ed è anche uno stimolo a cercare di fare sempre meglio". Un miglioramento che, sottolinea, riguarda molti aspetti emersi nel corso del Congresso milanese, a partire da quello dei numeri e della rappresentatività.
Bidussa usa parole di grande soddisfazione anche per quanto riguarda la sua nuova squadra: "Il Consiglio appena entrato in carica è formato da persone con background diversi, abilità e interessi molto vari: è perciò il gruppo ideale per intraprendere questo tipo di percorso. A dare fiducia è anche l'evidente spirito di iniziativa emerso tra i partecipanti al Congresso, che entusiasticamente si sono messi a disposizione, offrendo il proprio aiuto in progetti specifici". Tra questi, Talia ricorda l'elaborazione di un nuovo format per l'evento invernale e l'elaborazione di nuovi mezzi di comunicazione a disposizione dell'Ugei.
"L'augurio che ci faccio - conclude - è di vivere quest'esperienza con la massima serenità possibile, e di continuare il lavoro dello scorso Consiglio sempre con entusiasmo e serietà!".
(moked, 9 marzo 2015)
Scoperto in Israele uno straordinario tesoro di monete e gioielli dell'epoca di Alessandro Magno
di Peppe Caridi
Un piccolo tesoro contenente monete e gioielli dei tempi di Alessandro Magno è stato trovato in una caverna nel nord di Israele. Lo ha riferito l'autorità israeliana per le antichità, precisando che fra gli oggetti ritrovati ci sono monete d'argento che risalgono al periodo in cui AlessandroMagno conquistò la regione alla fine del IV secolo a.C. Del tesoro fanno parte anche alcuni gioielli in bronzo e argento, fra cui orecchini decorati, braccialetti e anelli, che furono apparentemente nascosti nella caverna in un sacchetto di stoffa. "Gli oggetti di valore potrebbero essere nascosti nella caverna da residenti locali fuggiti durante i disordini seguiti alla morte di Alessandro, un periodo in cui scoppiò la guerra dei diadochi in Israele fra gli eredi di Alessandro", ha fatto sapere l'autorità in una nota. Due settimane fa tre membri del Club speleologico israeliano avevano notato un oggetto scintillante nella caverna e lo avevano segnalato all'autorità per le antichità. Secondo gli archeologi israeliani si tratta di uno dei più importanti ritrovamenti nel nord del Paese negli ultimi anni. Un mese fa almeno duemila monete d'oro antiche erano state scoperte per caso da sommozzatori al largo della costa di Caesarea, a nord di Tel Aviv.
(MeteoWeb.eu, 9 marzo 2015)
"Il Filo Dimenticato": mostra allestita da Alice Werblowsky
CASALE MONFERRATO "Una delle più belle mostre che abbiamo mai ospitato" - Elio Carmi, vicepresidente della Comunità Ebraica di Casale Monferrato, non ha dubbi di fronte alle opere de "Il Filo dimenticato" la mostra che Alice Werblowsky ha allestito nei locali a fianco della sinagoga di vicolo Salomone Olper.
Alle pareti una ventina di teli, ma la maggior parte sono lenzuola che ricoprivano i letti del Carcere di San Vittore di Milano.
Ogni drappo bianco in realtà racconta due storie: la prima è quella che vi è stata ricamata sopra, vicende poco conosciute che si dipanano tra il 1943 e il 1945 nel quinto braccio del carcere milanese, quello che
ospitava detenuti politi ed ebrei. I primi avevano un nome sulla pagina del registro di entrata (quella del 1942 esposta riporta un Indro Montanelli giornalista), i secondi solo un numero senza identità. Il filo racconta ad esempio di Liliana Segre, l'unica dei 50 bambini ebrei li rinchiusi che dopo essere stata spedita ad Auschwitz dal famigerato binario 21 sia riuscita a tornare, o di Andrea Schivo, la guardia di San Vittore che di nascosto diede da mangiare ai piccoli carcerati e per questo venne ucciso.
L'altra storia è quella di chi ha ricamato i teli: le detenute della San Vittore di oggi: italiane, slave, sud-americane e rom. Coinvolte nel progetto hanno voluto sapere di quegli eventi, e sono tornate nel braccio 5 per raccontarle "all'inizio lavoravano per contro proprio, o divise per etnie, poi poco per volta hanno cominciato a tessere insieme" racconta Alice Werblowsky dipanando insieme ai fili del racconto anche le difficoltà incontrate e le soddisfazioni di quelle giornate trascorse sul tavolo della biblioteca tutte insieme a ricamare fino al successo della mostra alla sua apertura proprio nel carcere. Sforzi ben visibili anche nel video che accompagna l'esposizione.
Un progetto tutto al femminile, perfetto per raccontare senza retorica la giornata della donna. Ma che sarà sarà visitabile fino al 22 marzo (info 0142 71807 www.casalebraica.org).
- LA PROSSIMA
Prossimo appuntamento nel calendario culturale ebraico: domenica 15 marzo alle ore 16 in Sala Carmi presentazione di Sinagoghe in Italia: Guida ai luoghi del culto e della tradizione ebraica, edito da Mattioli. Ne parlano gli autori Franco Bonilauri g e Vincenza Maugeri direttore del Museo Ebraico di Bologna, entrambi specialisti in arte e cultura ebraica. Nella presentazione della Guida si afferma che "Nell'area degli antichi ghetti rimangono alcune delle più belle sinagoghe italiane, in particolare nel Veneto (Venezia, Padova), in Piemonte (Casale Monferrato, Carmagnola, Cherasco), in Emilia-Romagna (Ferrara), in Toscana (Siena, Pitigliano) e nelle Marche (Ancona, Pesaro, Senigallia). Nel clima di libertà seguente all'emancipazione degli ebrei dal 1848, fu possibile la costruzione di grandi edifici monumentali. Talora antiche sinagoghe si dotarono di rinnovate facciate e ingressi (Asti, Pisa), in altri casi si costruirono grandiosi nuovi templi nell'area dell'ex ghetto (Modena, Vercelli, Roma, Firenze) o nei nuovi quartieri di residenza....".
(Il Monferrato, 9 marzo 2015)
Israele: un ponte ecosostenibile fatto da containers
In Israele sarà costruito un eco ponte costituito da container riciclati. Progettato dagli archidetti del Yoav Messer Architects, il progetto ha vinto il primo premio nell'ambito di una gara di progetazzione, l'Ariel Sharon Park Competition, proprio per l'innovativa idea di riciclare le attrezzature per i trasporti, in modo da formare un ponte sostenibile e coperto che costituirà l'ingresso del parco a tema.
Per un totale di 160 metri, il ponte sarà il collegamento fra la Lod Road, che parte dalla zona orientale di Tel Aviv al villaggio Bnei Atarot, con l'Hiriya Mountain Park. Questo parco, opera dell'architetto tedesco Peter Latz, ha trasformato una discarica dismessa nel 1998 in uno spazio verde energeticamente autonomo, che grazie all'energia dei rifiuti sepolti riesce a produrre l'elettricità necessaria all'illuminazione e agli impianti. Il ponte di containers sarà appunto la passerella di ingresso al parco ecologico e si snoderà attraverso un percorso leggermente in salita attraversando due piccoli corsi d'acqua.
Lo potranno attraversare i pedoni, i ciclisti e degli speciali veicoli che faranno da navetta per il trasporto pubblico. Degli aggetti in posizioni strategiche faranno da balconi per dotare di uno spazio di sosta la passeggiata e permettere la vista della natura circostante. Saranno utilizzati 29 containers dismessi dal commercio marino a gruppi di 4 o da 6 intervallati da moduli orientati in senso opposto che vanno a formare le terrazze. Inoltre vi sarà un sistema di schermi adibito ad informare i visitatori delle caratteristiche del parco, dei progetti e degli eventi previsti.
I containers si appoggeranno su quattro sostegni formati da quattro pilastri di acciaio. Inoltre, questo eco ponte sarà costruito in un cantiere così da ridurre al minimo l'impatto con il contesto e la modularità degli elementi fa sì che la sostituzione di eventuali parti danneggiate avvenga in tempi brevissimi. Anche la pavimentazione del ponte sarà ecosostenibile, sarà infatti in legno, così da integrarsi perfetamnte in conctesto totalmente sostenibile. L'area ospita anche l'Ariel Sharon Ayalon Park, un sistema di scavi e terrazzamenti che vuole simboleggiare un corridoio umanitario nella pianura in cui scorre il fiume Ayalon.
(Impronta Unika, 9 marzo 2015)
Contro l'antisemitismo della London University
di Pierluigi Battista
Una schifezza antisemita che dovrebbe sollecitare una mobilitazione di chi lavora nelle università europee. Il voto a maggioranza con cui l'Università di Londra ha decretato l'ostracismo contro gli studenti israeliani, i libri israeliani, le ricerche israeliane non può essere trattato con giudizi diplomatici, con cautele eufemistiche, con ipocriti distinguo. È un accanimento senza pari contro i cittadini e le idee di un'intera Nazione. Neanche ai tempi del boicottaggio contro il Sudafrica dell'apartheid si era decretato che gli studenti sudafricani non potessero mettere piede in un'università europea o americana, o che i libri scritti da scrittori e scienziati sudafricani non potessero essere adottati negli atenei.
Neanche con l'Iran che nega con decreto di Stato la verità storica della Shoah, si impedisce la circolazione degli studenti di Teheran. Perché il boicottaggio delle idee e delle persone è incivile, supera ogni limite di decenza. Il boicottaggio contro le merci si può capire: può essere un errore, lo è quasi sempre, ma non calpesta la dignità delle persone. Il boicottaggio contro i libri, la ricerca, gli studenti, i professori è invece una barbarie contro la cultura, il sapere, i valori stessi dell'Europa.
Perciò il voto della London University è una decisione che fa ribrezzo. Perché demonizza lo Stato di Israele. Perché fa a pezzi i diritti dei singoli cittadini di quello Stato. Perché è un'aggressione morale contro lo Stato degli ebrei, proprio adesso che l'antisionismo radicale, la negazione dello Stato di Israele a esistere, è diventato per i fondamentalisti l'arma per massacrare gli ebrei che vivono in Europa, per quelli che non distinguono tra una Sinagoga e un'ambasciata israeliana e mettono sotto assedio i quartieri dove ci sono gli ebrei considerati quinte colonne dell'«entità sionista», i supermercati kosher dove gli ebrei vengono uccisi in quanto ebrei, e quindi complici e corresponsabili del nemico sionista. Se i boicottatori dell'università di Londra non sanno queste cose, sono soltanto ignoranti che macchiano la dignità della loro accademia. Se lo sanno, si prestano al più losco gioco degli antisemiti. E chi collabora con l'antisemitismo, chi non dice una parola sulla caccia all'ebreo merita di veder giudicato il suo boicottaggio con parole che non siano troppo indulgenti: una schifezza antisemita. Una raccolta di firme tra gli accademici europei contro l'antisemitismo dei loro colleghi londinesi?
(Corriere della Sera, 9 marzo 2015)
Parola del Corano: l'islam ci vuole re-invadere
Leggere il Corano per capire che l'islam non si fermerà.
di Magdi Cristiano Allam
Quanto mi fanno ribollire il sangue i buonisti, relativisti e islamofili nostrani che di fronte alle atrocità perpetrate dai terroristi islamici che sgozzano, decapitano, ardono vivi, massacrano i «nemici dell'islam», puntualmente si affrettano a scagionare l'islam, Allah, il Corano e Maometto e contemporaneamente ci auto-colpevolizzano sostenendo che i cristiani sarebbero responsabili di crimini non meno efferati compiuti a partire dalle Crociate, così come gli ebrei (anche se non sono israeliani) avrebbero già quasi del tutto completato il genocidio dei palestinesi. Questo vero e proprio odio nei nostri stessi confronti si sta rivelando il colpo di grazia del tracollo della civiltà profondamente in crisi di quest'Europa sempre più scristianizzata e materialistica, con la prospettiva concreta della sua sottomissione alla dittatura islamica, in un contesto dove sussistono condizioni similari a quelle che portarono all'islamizzazione delle popolazioni delle sponde meridionali ed orientali del Mediterraneo dopo essere state al 99% cristiane per sette secoli.
Dopo la morte di Maometto nel 632, gli eserciti islamici sbaragliarono rapidamente prima l'impero persiano nel 637, poi logorarono l'impero bizantino con la conquista di Siria e Palestina (633-640), Egitto (639-646), Gerusalemme (638). La conquista dell'Africa del Nord avvenne dal 647 al 763. Nel 711 iniziò l'occupazione della Spagna protrattasi per ben otto secoli fino al 1492.
Nel 718 gli islamici si spinsero in Francia occupando Narbona, Tolosa (721), Nimes e Carcassonne (725),
In Italia i primi attacchi islamici alla Sicilia iniziarono nel 652 e il controllo stabile sulla Sicilia è durato fino al 1061, mentre solo nel 1190 finisce la presenza islamica nell'isola. Le incursioni islamiche raggiunsero la Sardegna, Amalfi, Gaeta, Napoli e Salerno, il Monferrato, la Riviera Ligure.
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prima di essere fermati a Poitiers (732). In Italia i primi attacchi islamici alla Sicilia iniziarono nel 652 e il controllo stabile sulla Sicilia è durato fino al 1061, mentre solo nel 1190 finisce la presenza islamica nell'isola. Le incursioni islamiche raggiunsero la Sardegna, Amalfi, Gaeta, Napoli e Salerno, il Monferrato, la Riviera Ligure. Nell'813 gli islamici distrussero l'odierna Civitavecchia, avanzarono verso Roma e saccheggiarono la Basilica di San Pietro e la Basilica di San Paolo per due volte (la seconda nell'864). A Bari fondarono un Emirato islamico durato 25 anni a partire dall'847. La Storia ci dice che dalla morte di Maometto nel 632 fino a quando i cristiani cominciarono a reagire organizzando le Crociate a partire dal 1.096, ovvero 464 anni, gli islamici avevano già occupato con le guerre e una lunga scia di sangue le sponde orientale e meridionale del Mediterraneo, la Spagna, la Sicilia e avevano per due volte saccheggiato la Basilica di San Pietro a Roma.
Ebbene oggi stiamo assistendo all'espansionismo del terrorismo islamico che occupa militarmente dei territori in Siria, Irak, Libia, Nigeria, Mali, Somalia, Yemen, Afghanistan, Pakistan, Indonesia e Filippine; alla crescente islamizzazione delle istituzioni civili in Turchia, Tunisia, Algeria e Marocco; alla presenza di terroristi islamici europei che sferrano attentati all'interno dell'Europa; alla diffusione di una rete sempre più capillare di moschee, scuole coraniche, tribunali sharaitici, enti assistenziali islamici, siti di propaganda jihadisti, centri studi e di formazione che condizionano le leggi secolari e ci impongono di non criticare l'islam, banche islamiche che supportano questa islamizzazione della nostra società. Eppure quest'Europa è sempre più tentennante su come reagire. Se dovessimo attendere non 464 anni ma anche soltanto 40 anni per deciderci ad intervenire per salvare quel che resterà di cristianità sulle altre sponde del Mediterraneo ma soprattutto per salvarci dal terrorismo e dall'invasione islamica all'interno stesso dell'Europa, sarà decisamente troppo tardi. Non esisteremo più né come società europea né come civiltà laica e liberale dalle radici cristiane. La nostra debolezza l'ha descritta in modo impeccabile monsignor
In un incontro ufficiale sul dialogo islamo-cristiano, un autorevole personaggio musulmano, rivol- gendosi ai partecipanti cristiani, disse a un certo punto con calma e sicurezza: «Grazie alle vostre leggi democratiche vi invaderemo; grazie alle nostre leggi religiose vi domineremo».
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Giuseppe Bernardini, vescovo di Smirne, quando il 13 ottobre 1999, ha raccontato che «durante un incontro ufficiale sul dialogo islamo-cristiano, un autorevole personaggio musulmano, rivolgendosi ai partecipanti cristiani, disse a un certo punto con calma e sicurezza: «Grazie alle vostre leggi democratiche vi invaderemo; grazie alle nostre leggi religiose vi domineremo». C'è da crederci, perché il «dominio» è già cominciato con i petrodollari, usati non per creare lavoro nei Paesi poveri del Nord Africa e del Medio Oriente, ma per costruire moschee e centri culturali nei Paesi dell'immigrazione islamica, compresa Roma, centro della cristianità. Come non vedere in tutto questo un chiaro programma di espansione e di riconquista? È un fatto che termini come «dialogo», «giustizia», «reciprocità», o concetti come «diritti dell'uomo», «democrazia», hanno per i musulmani un significato completamente diverso dal nostro. Sappiamo tutti che bisogna distinguere la minoranza fanatica e violenta dalla maggioranza tranquilla e onesta, ma questa, a un ordine dato in nome di Allah o del Corano, marcerà sempre compatta e senza esitazioni. Ecco perché oggi più che mai è necessario conoscere il Corano. «O voi che credete, non sceglietevi per alleati i giudei e i nazareni, essi sono alleati gli uni degli altri. E chi li sceglie come alleati è uno di loro. In verità Allah non guida un popolo di ingiusti» (5, 51). «Vorrebbero che foste miscredenti come lo sono loro e allora sareste tutti uguali. Non sceglietevi amici tra loro, finché non emigrano per la causa di Allah. Ma se vi volgono le spalle, allora afferrateli e uccideteli ovunque li troviate» (4, 89).
Sono decenni che la Chiesa promuove, legittima e difende il dialogo con i musulmani. Il risultato concreto è che i cristiani che rappresentavano il 30% della popolazione del Medio Oriente fino al 1945, oggi si sono assottigliati al 3% e continuano a subire un vero e proprio genocidio. Dico che è arrivato il momento di svegliarci dal sonno della ragione con cui ci siamo imposti di non conoscere la verità presente nel Corano, che per i musulmani è Allah stesso. Solo riscattando il nostro dovere di conoscere la verità del Corano potremo salvaguardare la nostra civiltà.
(il Giornale, 9 marzo 2015)
Oltremare - L'albero e io
di Daniela Fubini, Tel Aviv
Da anni hanno tagliato l'albero che si appoggiava con qualche prepotenza sul lato destro del mio soggiorno. Non so che albero fosse, perché sono botanicamente analfabeta, ma doveva essere parecchio antico, relativamente parlando, visto che il quartiere in cui vivo è stato costruito fra gli anni Cinquanta e Sessanta. Era anche parecchio alto, per arrivare oltre il mio quarto piano - anzi, terzo e mezzo. Qui a Tel Aviv, le case hanno piani e mezzi piani, a seconda del lato del palazzo.
Ora, l'albero aveva due caratteristiche per cui lo amavo molto, e due per cui potevo ben farne a meno.
Mi proteggeva dalla vista dei vicini di fronte, e assorbiva il rumore delle loro chiacchiere fra balconi. Faceva ombra nei lunghi pomeriggi di pieno sole, e me ne accorgo adesso che non c'è e le finestre si scaldano anche all'interno - prima non succedeva. Però, i suoi rami sbattevano con violenza contro le finestre a ogni alito di vento, figuriamoci d'inverno quando arrivavano le tempeste di vento e acqua e sabbia in parti uguali - un concerto di fronde non proprio bucolico. E poi, dai suoi rami entravano in casa (anche a finestre sigillate) occasionali insetti forse interessanti per un entomologo, ma destinati a morte certa dentro casa mia, a volte con qualche sforzo e ciabatte lanciate con forza e successiva soddisfazione.
L'albero è stato tagliato perchè si era ammalato e non è stato possibile salvarlo; mi ha spiegato uno che se ne intende, che quando hanno piantato gli alberi in questa zona, non hanno pensato abbastanza al futuro, e hanno scelto alberi che per natura non vivono più di qualche decina di anni. Quindi è naturale che poi muoiano e debbano essere sostituiti. Se è vero, è una metafora meravigliosa di questo nostro paese: ci riempiamo tutti la bocca della sua eternità e di quanti millenni ha visto, ma poi non facciamo nessuno sforzo per guardare a cento anni da oggi. E sì, intendo politicamente.
(moked, 9 marzo 2015)
L'accordo sulla previdenza sociale tra Italia e Israele
ROMA - "Garantire ai cittadini italiani che hanno lavorato in Italia prima di trasferirsi in Israele la possibilità di percepire un trattamento pensionistico in linea con i contributi versati in Italia, grazie anche alla trasferibilità delle prestazioni previdenziali, con il presupposto di poter accedere alla totalizzazione dei contributi versati solamente nei due diversi regimi previdenziali". Come ha ricordato all'aula di Palazzo Montecitorio Mariano Rabino (Sc) relatore del ddl che ratifica l'Accordo italo-israeliano sulla previdenza sociale, firmato a Gerusalemme il 2 febbraio 2010, è questo l'obiettivo principale del provvedimento, approvato in settimana alla Camera con 343 sì.
Il ddl - rileva il governo nell'Air (Analisi di impatto della regolamentazione; Ndr) - servirà ad "ampliare la tutela dei diritti sociali dei lavoratori dei due Paesi" e "indirettamente determinerà anche un aumento della concorrenzialità delle nostre imprese e l'attrazione di nuovi investitori da Israele".
- COSA PREVEDE L'ACCORDO
Il disegno di legge, di iniziativa del governo, con cui si dà l'ok all'Accordo (che non ha limiti temporali) sulla previdenza tra il nostro Stato e Israele stabilisce, innanzitutto, la specificazione del termine 'prestazione', che - come ha ricordato ancora Rabino in sede di relazione - "si riferisce alle pensioni o a qualsiasi altra prestazione in denaro o beneficio ai sensi della legge di ciascuno stato contraente".
L'applicazione dell'accordo riguarderà persone che siano o siano state soggette alla legislazione previdenziale di uno degli stati contraenti. Inoltre viene prevista, con l'art. 5, la trasferibilità territoriale delle prestazioni di cui una persona sia titolare, anche qualora risieda nell'altro stato contraente rispetto alla propria nazionalità e (art.6) che una persona che svolga attività lavorativa subordinata nel territorio o italiano o israeliano sia soggetta esclusivamente alla legislazione di quel medesimo Stato.
Il relatore, invece, ha spiegato come sia "diverso il caso di un lavoratore subordinato impiegato in entrambi gli stati o di un lavoratore autonomo, i quali saranno invece soggetti alla legislazione previdenziale dello stato di residenza". E, ugualmente, "saranno soggetti solo alla legislazione dello stato contraente di origine gli impiegati pubblici o le persone ad essi assimilate, inviati a lavorare nel territorio dell'altro stato".
(Public Policy, 9 marzo 2015)
Israele lancia la batteria-lampo: basta un minuto per ricaricarla
Si chiama FlashBattery e promette di ricaricarsi in un lampo. E' una batteria per smartphone che in un solo minuto riesce ad accumulare energia sufficiente per durare tutto il giorno. Realizzata dalla startup israeliana StoreDot, la FlashBattery si basa su una tecnologia innovativa che sfrutta molecole organiche di origine non biologica, chimicamente sintetizzate, che acquistano sorprendenti proprietà ottiche ed elettrochimiche. Il risultato: tempi di ricarica drasticamente ridotti (100 volte più veloci) e al contempo maggiore capacità di stoccaggio di energia rispetto a una batteria agli ioni di litio standard.
Secondo gli ideatori, la nuova batteria sarebbe atossica, sicura per l'ambiente, più economica delle soluzioni esistenti e in grado di resistere a migliaia di cicli di ricarica, cinque volte più delle normali batterie.
La startup confida in un lancio sul mercato entro il 2016. La tecnologia utilizzata, inoltre, sarebbe compatibile anche per dispositivi indossabili, tablet e computer portatili, persino veicoli elettrici. Sono in fase di sviluppo le FlashBattery per le automobili. Obiettivo: ricarica completa in cinque minuti, per coprire 480 km di strada.
(Corriere della Sera, 9 marzo 2015)
Vino, ambasciatore di cultura in Israele
ROMA - Vino ambasciatore di cultura in Israele. Uno stage per 20 giovani europei alla scoperta della vite e del vino tra le migliori cantine del Golan, della Galilea e di Gerusalemme. Dal 23 al 29 marzo un viaggio studio per enologi, viticoltori, sommelier e appassionati, organizzato da Città del Vino, Recevin e Intervitis: un viaggio di lavoro tra le vigne e le cantine di Israele, dalle alture del Golan a Gerusalemme. Lo stage organizzato da Città del Vino, da Itervitis - Les Chemins de la Vigne (itinerario culturale europeo) e da Recevin (rete europea di Comuni a vocazione vitivinicola), sarà guidato dalle "guide enoturistiche" Ruti Ben Israel, sommelier specializzata sui vini israeliani, e Yiftah Perets, enologo della cantina Binyamina; entrambi con importanti esperienze di lavoro in Italia. L'itinerario ripercorrerà la storia della vitivinicoltura in Israele, dalle origini ai nostri giorni analizzando tecniche di gestione del vigneto e modernizzazione delle cantine. Tra le tappe la zona del Carmel, cuore dell'industria vinicola israeliana, la Galilea e le alture del Golan, area in crescente sviluppo negli anni '80. E ancora: il sud con Gerusalemme e l'area di Yatir, un territorio dalle forti escursioni termiche. "Il vino è un prodotto carico di valenze simboliche e come in questo caso può unire persone provenienti da territori diversi - sottolinea il direttore delle Città del Vino, Paolo Benvenuti -. È un ambasciatore culturale che permette di fare esperienze sociali e di favorire il dialogo tra i popoli".
(ContattoNews.it, 9 marzo 2015)
Roma - Barriere di sicurezza intorno al Ghetto. I commercianti: sono inutili e dannose
Il capo della polizia Alessandro Pansa oggi nel quartiere per incontrare i vertici della comunità
ROMA - Le nuove misure di sicurezza progettata per il Ghetto, dopo gli attentati terroristici di Parigi, scontentano alcuni dei commercianti e residenti. «Vogliono installare i pilomat - dice Bruno Limentani, titolare dello storico negozio e portavoce dei commercianti della zona - un'idea insensata. Creare una barriera di piloni d'acciaio che chiude l'ingresso al Ghetto crea solo problemi e difficoltà. Meglio gli agenti come a San Pietro». Il Ghetto, come il Vaticano e altri luoghi simbolo è ritenuto dagli specialisti dell'antiterrorismo un obiettivo a rischio di attentati. I piloni - tecnicamente si chiamano dissuasori a scomparsa - diventerebbero un ostacolo.
- LE MISURE
«È un'idea semplicemente folle - spiega Limentani - perché la barriera fermerebbe una macchina, è vero, ma gli attentatori possono entrare a piedi. Non è una vera protezione, visto che poi l'asilo si trova sul lungotevere e lì i bambini chi li protegge? L'unico vero effetto sarebbe quello di scoraggiare la gente a venire al Ghetto, qui ci sono un centinaio di negozi, e ci chiediamo quale futuro ci aspetta. Abbiamo deciso di presentare una petizione contro questa decisione».
Oggi Il capo della polizia Alessandro Pansa andrà al Ghetto per incontrare i vertici della comunità ebraica accompagnato dal questore della capitale Nicolò D'Angelo, parlerà con il rabbino capo Riccardo Di Segni e il presidente Riccardo Pacifici e il presidente dell'unioili: delle comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna, per fare il punto sulla situazione della sicurezza. Al termine dell'incontro, Pansa farà una passeggiata al Portico d'Ottavia «per mandare il messaggio che il quartiere è aperto».
(Il Messaggero, 9 marzo 2015)
Ecologia - "Expo, vetrina fondamentale"
di Adam Smulevich
Fare del deserto un immenso giardino. È il sogno dei pionieri di Israele, un sogno che si sta realizzando anche grazie al contributo del Keren Kayemeth LeIsrael, la più antica organizzazione ecologica al mondo. Nato nel 1901, il KKL delle origini diede vita a una raccolta fondi su scala internazionale per il riscatto del territorio che, il 14 maggio 1948, sarebbe diventato lo Stato ebraico. Cosa bolle in pentola, quali sfide alle porte per la sezione italiana? Ne parliamo con il presidente Raffaele Sassun.
"Il KKL - ci spiega - nel corso di 115 anni si è trasformato e ha cambiato più volte i propri obiettivi. Oggi il KKL è una organizzazione riconosciuta a livello internazionale, lavora insieme alla FAO e ad altre organizzazioni primarie per l'ambiente. IL KKL viene interpellato quando ci sono problemi legati alla natura, come è successo con la vespa australiana, che stava distruggendo completamente le foreste di eucalipto, o legati al benessere dell'uomo, come è successo in Rwanda e in Etiopia. In Italia il KKL ha rapporti con il Corpo Forestale e stiamo lavorando su progetti di sviluppo comune e sulla loro realizzazione per il benessere comune.
- Perché è importante sostenere il KKL?
A fianco di tutti i progetti per il mondo e per l'ambiante, Il KKL rimane sempre una organizzazione veramente sionista, forse oggi la più forte e capillare. Sostenere il KKL significa sostenere l'idea di Israele e il mondo che cresce cercando la pace attraverso la realizzazione di progetti di coabitazione con i propri vicini, di progetti di sviluppo sostenibile affinché le prossime generazioni possano avere le stesse scelte che abbiamo noi, di progetti di rispetto di ciò che ci circonda. Finanziare uno specifico progetto tra i 400 che vengono portati a termine ogni anno dal KKL in Israele e nel mondo, significa sapere esattamente dove vanno e come vengono usate le somme offerte.
- Ritieni che in Italia ci sia sufficiente consapevolezza delle conquiste israeliane in campo ambientale? L'Expo può essere un veicolo?
Sì e no. In Italia e in Europa c'è una forte consapevolezza delle capacità imprenditoriali e dell'innovazione israeliana. Gli incubatori di start-up vengono citati di continuo e le stazioni di R&D (Research & Development, Ricerca e Sviluppo) del KKL soprattutto nel Negev sono oggetto di visite continue e di stage da parte di studenti e professori universitari. Nonostante ciò in Italia c'è sempre un atteggiamento di lentezza e calma verso il cambiamento soprattutto nel campo agricolo e ambientale. L'Expo è una vetrina particolare dei successi e delle novità che il KKL regala al mondo. Milioni di persone avranno modo di conoscere nuove soluzioni e nuovi attori per un mondo migliore.
- Il ministro israeliano Yair Lapid ha lanciato un duro affondo nei confronti del KKL accusando la sua dirigenza di corruzione e legami poco sani con la classe politica. Qual è la tua valutazione a riguardo?
Le elezioni del prossimo marzo risvegliano personaggi che vorrebbero cavalcare gli animi di chi è contrario ai successi del KKL. Basta andare nelle piccole città del Negev e della Galilea per vedere, per sentire, per toccare con mano quale sia il vero atteggiamento della popolazione e degli amministratori locali verso il KKL, unica organizzazione che porta a termine i progetti proposti da giardini nelle scuole a bacini idrici, da punti di incontro per le famiglie dei soldati a rifugi contro i missili sparsi sul territorio, da parchi con accessi per disabili al recupero di ex discariche. Tutto il resto è polemica strumentale.
(moked, 8 marzo 2015)
Elezioni israele: dissidi tra Lista araba e Meretz
In Israele l'opposizione di sinistra rischia di subire una emorragia di voti nelle elezioni politiche del 17 marzo e di perdere uno o due seggi alla Knesset. Lo afferma la stampa odierna commentando dissidi maturati fra il partito della sinistra sionista Meretz e la Lista araba unita.
Ieri avrebbero dovuto siglare un accordo bilaterale per la spartizione dei 'voti in eccedenza': ma la strenua opposizione manifestata da una componente nazionalista all'interno della Lista araba unita ha fatto fallire l'iniziativa. In base alla legge dopo lo spoglio dei voti si procede alla spartizione dei 120 seggi, secondo i rapporti di forza emersi dalle elezioni. I 'resti' - che in genere riguardano tre o quattro seggi - sono poi distribuiti secondo l'entità dei voti in eccedenza (ossia non sfruttati) che ciascun partito può vantare.
Di norma partiti ideologicamente vicini firmano in anticipo accordi bilaterali per evitare che i propri 'resti' vadano in definitiva a partiti molto lontani da loro ideologicamente. La Lista araba unita (che nei sondaggi riceve 12-13 seggi) e Meretz (che nei sondaggi ne riceve 5) dovevano siglare ieri l'accordo sui resti, ma la componente della lista araba Balad si è opposta. Dura la reazione di Meretz, secondo cui elementi moderati nella Lista unificata sono stati sopraffatti da quelli 'nazionalisti'. Delusione viene espressa anche dai dirigenti del partito comunista arabo-ebraico Hadash.
(RaiNews24, 8 marzo 2015)
Expo, Israele e l'agricoltura low cost: così i coloni
hanno battuto il deserto
Dall'irrigazione a goccia alle serre in cui si può manipolare la temperatura per ridurro il consumo di pesticidi. "Così interveniamo sul reddito dei contadini".
di Luca Zorloni
MILANO - Suona quasi come un paradosso: traslocare le tecniche agricole con cui i pionieri
Abbiamo sostituito in questo modo il termine "coloni", usato in modo assolutamente improprio dall'autore dell'articolo
israeliani
hanno vinto il deserto in una delle regioni europee più ricche d'acqua, la pianura Padana. Tuttavia, proprio il sistema di irrigazione a goccia, che centellinando l'acqua ha permesso a Tel Aviv
di far fiorire l'agricoltura locale, potrebbe rivelarsi un espediente per aiutare anche i contadini italiani. E se il gocciolamento ormai è una pratica assodata, in Israele si studiano anche robot da mettere al lavoro nei campi o serre che abbattono i consumi di energia. Un'agricoltura low cost. Perché il problema è conciliare resa produttiva, sostenibilità dell'ambiente ma anche profitto per le tasche del contadino, ancora troppo risicato. E se la serra, ad esempio, brucia meno energia, ne guadagna l'atmosfera ma anche il portafoglio.
Di nuovo, si tratta di innovazioni che andranno in scena anche in Italia. Per la precisione, nei sei mesi dell'Esposizione universale di Milano, da maggio a ottobre. Le tecniche sperimentali saranno applicate in quattro fattorie dimostrative, a Lodi, nel centro di ricerca Parco tecnologico padano, a Mantova, a Milano e nell'hinterland, nel Comune di Mediglia. Obiettivo dell'ufficio commerciale d'Israele nel capoluogo lombardo è di usare le quattro installazioni come prove dal vivo per promuovere le tecniche sviluppate in madrepatria. A cominciare proprio dalla drip irrigation, l'irrigazione a goccia, come conferma Yoram Kapulnik, direttore dell'Organizzazione per la ricerca in agricoltura dello Stato d'Israele e del Volcani center, un centro di studio su piante, animali, suolo, acqua e scienze dell'ambiente, situato alle porte di Tel Aviv.
«Vedrete anche molte tecnologie low cost - aggiunge il professore - come un'aria condizionata a basso impatto, che permette di manipolare temperatura e umidità nelle serre. È un risparmio perché permette di ridurre anche l'uso di pesticidi chimici». Dietro le quinte, in Israele, c'è uno studio approfondito della robotica applicata all'agricoltura. «Il problema è che il profitto per gli agricoltori è ancora troppo basso e per questo, l'età media di un contadino in Israele è di 61 anni. La nuova generazione non si avvicina - osserva Kapulnik -. Il rischio è di dipendere da Paesi terzi».
Da questa considerazione nascono, ad esempio, i robot che si occupano di potare le ramaglie. «Niente ingegneria genetica», osserva il professore, seppure Israele sia uno dei Paesi che ha investito nella ricerca delle piante transgeniche, ad esempio quelle resistenti al caldo. Per Kapulnik bisogna tornare a guardare «la lista della spesa dei contadini, verificare cos'è caro e renderlo più economico». Va bene per gli agricoltori israeliani. Ma interessa anche i colleghi italiani.
(Il Giorno, 8 marzo 2015)
Io, ebreo per un giorno nella Milano musulmana
Basta una kippah in testa e il quartiere etnico si trasforma in territorio ostile. Sguardi torvi, qualche parolaccia, una donna velata allontana la figlia da me. Lei: «Palestina libera». Lui: «Allah akbar». Ma c'è anche chi dialoga.
di Nino Materi
MILANO - Alla fermata dell'autobus due donne musulmane (probabilmente madre e figlia ), entrambe con il volto velato, mi osservano. Poi la donna più grande prende per il braccio la ragazzina e la trascina via. Si allontanano. Come se io avessi la lebbra. Invece ho solo una kippah sulla testa. Appena due grammi di stoffa rasata. Che però possono pesare come un macigno.
La kippah è il copricapo usato dagli ebrei maschi osservanti. La indosso, anche se l'ebraismo non è la mia fede. Inizio il mio «esperimento» di finto jewish in via Padova, periferia milanese ad alta densità musulmana. Sono da poco passate le ore 13, a decine sciamano dalla Centro di preghiera islamico. Chiedo a un ragazzo di fede islamica: «Scusa, sai l'ora?», Un attimo di indecisione. Poi lo sguardo cade sulla mia kippah bianca e la risposta è sferzante: «Che c. vuoi?». A poca distanza c'è un collega, Giovanni Masini, che con una telecamera nascosta riprende tutto: per un'intera mattinata, ha immortalato gli sguardi ostili che mi sono piovuti in testa come una pioggia acida. Per strada, nell'autobus, nei bar. Nulla di traumatico, per carità. Nessuna minaccia. Nessuna violenza. Anche se nei due giorni precedenti - in assenza però di telecamera nascosta - il «test» era andato anche peggio. Con il borsino dell'intolleranza che ha registrato contro il sottoscritto uno sputo [fortunatamente lanciato per terra); un insulto; un «Allah akbar» urlato in faccia; un propagandistico «Palestina libera!»; un ironico «Ciao, giudeo». Ma anche nei momenti più critici (come quello dello sputo o dell'insulto) non mi sono mai sentito in pericolo.
Davanti al Sultan Kebab, all'altezza del civico 95, un tizio mi invita a «cambiare marciapiede»: un episodio dinanzi al quale l'afflato al dialogo interreligioso sembra un po' vacillare ... Da dietro le spalle arriva una ragazza (italiana) con un cane. Mi affianca, si gira, e dice: «Palestina libera!». La maggioranza si limita a guardarmi tra disappunto e disinteresse; nel caso dell'ambulante marocchino che mi sussurra all'orecchio «Allah akbar» il disappunto, probabilmente, prevale sul disinteresse. Idem per il «gentleman» che prima butta l'occhio sulla kippah e poi butta uno sputo (sul marciapiede per mia fortuna). Fin qui il fixing dell'insofferenza, l'indice dow jones dell'antisionismo. Che a Milano non è certo ai limiti di guardia, ma che in vista dell'Expo non va comunque sottovalutato. Come dimostra anche la relazione dei nostri servizi segreti, rispetto al pericolo di attentati terroristici di matrice islamica.
Ma per fortuna nella biblioteca comunale di via Crescenzago, si incontrano anche musulmani come Muhammed, 21 anni, studente di Filosofia all'Università Statale.
Da navigato navigatore del web non gli è sfuggita la video inchiesta fatta di recente da un cronista ebreo francese che è andato in giro, con la kippah, per un quartiere a maggioranza musulmana di Parigi, registrando le frasi di scherno di cui è stato fatto oggetto.
«Un'operazione mediatica molto discutibile - sostiene Muhammed -. Quel giornalista lavora per il quotidiano Maaario, tradizionalmente vicino al premier israeliano Netanyahu. La sua inchiesta non è stata obiettiva, anzi mirava a sostenere le tesi di Netanyahu che, all'indomani dell'attentato contro Charlie Hebdo, ha invitato gli ebrei europei a trasferirsi in Israele. Avvalorare un presunto clima d'odio contro gli ebrei che vivono a Parigi era funzionale a questo schema. E il giornalista Zvika Klein che ha firmato il servizio, si è prestato al gioco».
Un gioco sporco, considerato che il cronista ha ricevuto in un minuto e 36 secondi sette diversi tipi di insulti: da «cane» a «fatti fottere», da «frocio» agli sputi.
Intanto nella nostra discussione, in via Padova, interviene anche un amico di Muhammed, anche lui studente universitario: «Attenti al terrorismo informativo. In paesi ad alta presenza musulmana come Francia e Germania, Hollande e Merkel affermano che in Europa la sicurezza per le comunità ebraiche è garantita». E in Italia? «Nelle nostre città non corriamo nessun pericolo - sostiene Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica di Roma -. Tutti i giorni giro per strada con la kippah, il clima è tranquillo. Noi stiamo bene in Italia, ci sentiamo protetti. Andremo in Israele in libertà e non costretti». Isis permettendo.
(il Giornale, 8 marzo 2015)
Le indecisioni di Lady Pesc
di Sofia Ventura
In una lettera pubblicata ieri da Repubblica, Federica Mogherini afferma che la sfida ai nostri princìpi oggi in corso sta assumendo anche la forma di una recrudescenza dell'antisemitismo, di una minaccia alle comunità ebraiche. È tutto molto vero. Ma proprio perché così vero, sarebbero necessarie parole meno di circostanza, parole di verità, che puntino alla sostanza della questione. Perché non basta considerare inaccettabile l'antisemitismo, è necessario anche chiedersi che cosa vi sia all'origine della nuova forza che vanno assumendo propaganda e atti, anche assassini, antisemiti.
Il problema esiste da molti anni, per esempio, gli ebrei francesi guardano a Israele come patria più sicura. E il problema ha a che fare - e questo andrebbe detto con forza, ma non se ne trova traccia nella 'politicamente corretta' Mogherini - con l'odio verso Israele e, pur non coinvolgendo esclusivamente le comunità islamiche europee, è presente nel loro seno.
Questo non significa affermare che gli islamici europei sono antisemiti, ma che il cancro antisemita - rispetto al quale noi occidentali e cristiani abbiamo in realtà solo una coscienza relativamente recente - ha trovato nuova linfa in un contesto diverso da quello tradizionale. Lo ha ricordato nel mese di gennaio il primo ministro socialista Manuel Valls, affermando come si tratti di un nuovo antisemitismo, sorto sullo sfondo «di Internet, delle parabole, della miseria, dell'avversione verso lo Stato di Israele». E Valls ha richiamato anche i nostri atteggiamenti imbelli: «Come è possibile - si è chiesto - che in certi istituti scolastici non si possa insegnare la Shoah?». Già, perché questo accade certamente in Francia come in Gran Bretagna per non offendere la sensibilità degli studenti musulmani e per paura.
L'Alto rappresentante dell'Unione per gli Affari Esteri Mogherini scrive che l'Unione intende puntare sul dialogo tra religioni e su una task force contro la propaganda antisemita. Vedremo. Ma se queste non vogliono essere solo le proverbiali buone intenzioni, che l'Europa abbia il coraggio di guardare in faccia la realtà, comprese le proprie vigliaccherie e certi suoi doppiopesismi di fronte alla questione mediorientale.
(Quotidiano.net, 8 marzo 2015)
Gli occidentali "politicamente corretti" come la Mogherini vorrebbero opporsi a chi colpisce gli ebrei ma continuare a colpire Israele in tutti i modi. L'antisemitismo degli islamici li mette in imbarazzo, perché loro non fanno differenza tra antisemitismo e antisionismo: loro sono contro Israele proprio perché sono contro gli ebrei. Così "l'Alto rappresentante dell'Unione per gli Affari Esteri Mogherini" non s'accorge, o fa finta di non accorgersi, o forse proprio non ci arriva ad accorgersi, che mettendosi in sintonia con gli islamici nel colpire Israele, si sintonizza anche con il loro coerente odio antiebraico. Questo alla Mogherini non va bene, perché lEuropa che rappresenta è rimasta antisemita come prima, ma a differenza degli islamici si vergogna a dirlo, e allora deve far mostra di combattere gli antisemiti. Così dice che vuole creare una task force, in modo da poter dire agli ebrei: "Non scappate, non andate in Israele, noi vi difendiamo. Gli interessati dicano se questi discorsi li convincono. M.C.
Aggressioni da islamici e condanne poco nette
Walter Meghnagi: «Solo casi isolati, ma alcuni leader musulmani su Facebook fanno peggio».
di Giovanni Masini
Walker Meghnagi, presidente uscente della Comunità ebraica di Milano, prova a raccontare i timori degli ebrei italiani: «Senza fare allarmismi, perché in Italia la situazione è migliore che altrove, ma sicuramente il clima è teso».
C'è davvero il rischio di una nuova ondata d'odio?
«La tensione è alta in tutta Europa. Da noi però, non c'è antisemitismo latente. Grazie a Dio non siamo in Francia o Scandinavia...».
Lì gli ebrei sono in pericolo?
«I francesi, al di là degli immigrati, hanno questo antisemitismo, inutile negarlo. Gli Scandinavi no, ma lì c'è una tale affluenza di musulmani che in molti posti comandano loro».
In Italia com'è la situazione?
«Violenze sporadiche. Purtroppo anche a Milano, città di Expo».
Che tipo di aggressioni?
«Insulti e sputi a chi va in giro con la kippah. Ma anche episodi ben più sgradevoli».
Ad esempio?
«Nella zona di piazzale Lotto a un rabbino hanno tirato la barba. Un uomo che aveva dato due euro a un senegalese si è visto restituire il denaro perché ebreo».
Episodi in aumento?
«Un po', anche se in termini assoluti non sono tanti».
A chi tocca fermarli?
«Noi lottiamo per promuovere la cultura ebraica. Ma gran parte del lavoro va fatto in moschea».
Ci spieghi meglio
«Non c' è nettezza nella condanna dell'antisemitismo. Sarebbe bello un incontro interreligioso per dire un no chiaro all'odio per gli ebrei».
I musulmani potrebbero fare di più in questo senso?
«Assolutamente sì. Se leggeste certe frasi che i responsabili delle comunità islamiche scrivono su Facebook... Diciamo che non aiutano certo dialogo».
Che intende, scusi?
«Provocazioni. Esultanze al rapimento dei tre ragazzi israeliani, per esempio».
Nella comunità islamica ci sono frange dialoganti?
«Per carità, è una realtà articolata. Con il Coreis abbiamo ottimi rapporti. L'imam Pallavicini è una persona splendida».
Milano sta per vedere le due prime moschee. Come vede questa novità?
«Costruire le moschee è giusto. L'importante è controllare bene a chi vengono affidate».
Lei ha proposte?
«Avrei fatto gestire la questione agli Stati che si erano offerti.I lMarocco, la Giordania. Con il Comune abbiamo un ottimo rapporto, ma ci avrebbe fatto piacere sedere a un tavolo di confronto e chiedere di non consegnarle a imam arrivati da chissà dove, senza che si capisca quel che dicono».
Un registro degli imam e l'obbligo della lingua italiana: due proposte avanzate da più parti.
«Mi pare il minimo. Lei sa che i nostri rabbini devono essere italiani per statuto? Siamo in Italia, bisogna rispettare le leggi».
Parliamo di politica: ci sono reticenze nella condanna dell'antisemitismo?
«Molta parte della sinistra sovrappone antisionismo e antisemitismo. Ma la società italiana ha i giusti anticorpi per reagire».
Gli ebrei italiani si sentono sicuri?
«La sensazione è di malessere, non di insicurezza. C'è un po' di timore nelle scuole. La chiave sta nel dialogo interreligioso.
(il Giornale, 8 marzo 2015)
Ebraismo, la forza di un pensiero irriducibile alla filosofia
Da Buber a Benjamin, dalla Arendt a Strauss: un saggio rivisita alcuni maestri del '900 L'antitesi fra Atene e Gerusalemme e l'abisso del male.
di Luca Miele
Il pensiero ebraico, ha scritto Sergio Quinzio, è «dinamico, pluriforme, irriducibile a sistema»: esso si struttura attorno a «categorie» che «anche quando assumono vesti non ortodosse e persino esasperatamente lontane dalla tradizione, restano pur sempre riconoscibili come filiazioni o metamorfosi di una vocazione risalente alla rivelazione biblica». È proprio l'ancoramento alle Scritture a rendere questo magmatico, pulsante, orizzonte di pensiero - che annovera personalità come Hans Jonas, Hannah Arendt, Martin Buber, Walter Benjamin - refrattario a farsi filosofia. È in fondo l'antitesi tra Gerusalemme e Atene, tra sapienza biblica e sophia greca: la prima - come scriveva un altro pensatore ebraico, Leo Strauss - ha come proprio principio «il timore del Signore», mentre per «i filosofi greci il principio della sapienza è la meraviglia». Il volume a più voci Il pensiero ebraico nel Novecento, curato dal filosofo Adriano Fabris (Carocci, pagine 344, euro 28), si pone un obiettivo ambizioso: offrire una mappa delle voci più significative e dei nuclei teorici più densi che attraversano questo orizzonte di pensiero. Con un'''avvertenza'' preliminare, ben chiarita dallo stesso Fabris: «La fede ebraica consiste più in un'ortoprassi che in un'ortodossia. Vale a dire: essa antepone il retto comportamento nel legame con Dio all'accoglimento di specifiche asserzioni di particolari dogmi che riguardano Dio stesso e che sono frutto della ragione umana». Tra i nodi affrontati dal volume - che spazia dal messianesimo alla laicità, dalla «razionalità della salvezza» al tema dell' «interpretazione» - non poteva mancare il "fuoco" che più di ogni altro ha marchiato e messo radicalmente in discussione l'ebraismo: la Shoah, «un'anti-creazione, un non-ordine, un'anti-armonia» (Giuliani), l'evento che «condensa un trauma profondo difficile da decifrare: la ricostruzione storica dell'evento non squarcia il "buco nero" della sua intelligibilità» (Traverso).
Una sfida che chiama in causa il confine incerto tra il dicibile e l'inenarrabile perché il male assoluto, l'abisso spalancato dalla Shoah - annota Donatella Di Cesare, nella voce dedicata allo sterminio - «sembra incolmabile. Alle difficoltà dell'immaginazione, paralizzata di fronte all' enormità del mostruoso, si aggiunge quella del pensiero che fatica a compiere il passaggio dalla dimensione narrativa del ricordo a quella filosofica della concettualizzazione» .
Al cuore di questa esperienza mortifera, vi è il campo di concentramento. Il pensiero ebraico si è interrogato a lungo sulla natura di questa "macchina di morte", sul suo legame genetico con la civiltà industriale e totalitaria (Arendt). Un dispositivo teso allo sterminio (Sofsky) e per questo radicalmente diverso dai campi di lavoro: ad Auschwitz non si produce lavoro ma morte. Nelle sue maglie «l'ebreo è ridotto a non-persona, è trasformato nel "non-uomo"». Ma c'è una spoliazione ancora più radicale, ancora più tremenda che colpisce l'ebreo intrappolato nelle procedure dello sterminio. L'uomo dei campi è privato della sua stessa morte, della sua dignità, del suo significato, della sua densità. Come ha scritto Jean Améry nei lager «il morire era onnipresente, la morte si sottraeva».
(Avvenire, 8 marzo 2015)
«Amos, Amos, perché mi deridi?» (7)
8 marzo 2015
Caro Amos,
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Era l'ora terza quando lo crocifissero.
E l'iscrizione indicante il motivo della condanna diceva: Il re dei Giudei.
dal Vangelo di Marco
Per nove ore il crocifisso era andato avanti a gridare e singhiozzare. Fintanto che era durata l'agonia aveva pianto e urlato e gridato di dolore, invocato ripetutamente sua madre, chiamato e gridato con voce flebile e penetrante, una voce che pareva il pianto di un bambino ferito a morte e abbandonato solo in un campo a patire la sete e dissanguarsi sotto il sole cocente. Era un grido tremendo, un grido che andava su e giù e raggelava il sangue, mamma, mamma, e poi venne uno strillo straziante e di nuovo mamma. E di nuovo un pianto che si levò alto seguito da un flebile, lungo gemito, sempre più flebile, sfinente.
da "Giuda", di Amos Oz
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riguardando i video delle conferenze con cui hai presentato il tuo ultimo libro, rimango ogni volta stupito nel vedere con quanta naturalezza passi dalle finzioni del romanzo alle tue dichiarate convinzioni sulla realtà dei fatti. Non si sa mai se il Gesù di cui parli appartenga al protagonista Shemuel o all'autore Amos. Ho avuto allora la vaga impressione che nel tuo dire alla fine tu non arrivi più a distinguere tra invenzione e realtà, né che tu senta il bisogno di doverlo fare: finzione e realtà diventano per te una stessa cosa.
- IMMAGINAZIONE E POLITICA
Ti chiedo allora: è con un atteggiamento di questo tipo che prendi in considerazione e giudichi i gravi fatti politici che riguardano il tuo paese? E' con il tuo immaginifico talento che riesci a crearti una tua realtà su cui poi ti senti in obbligo di prendere concrete posizioni politiche, che spesso contribuiscono a causare altrettanto concreti disastri sulla nuda realtà dei fatti? Che cos'è il tuo Peace Now se non la creazione di una realtà che esiste soltanto nella forza immaginativa di chi l'ha inventata? E se questa bella invenzione fosse soltanto una chimera che si lascia continuamente inseguire al solo scopo di far cadere nel baratro chi la insegue, insieme a tanti altri? Ti è mai venuto il dubbio che i disastri nel mondo possano essere causati non solo da decisi e duri "salvatori" del mondo, ma anche da comprensivi e teneri "sognatori" che creano nella loro mente un mondo già salvato in cui cercano di far entrare tutti con le buone maniere? Hai mai riflettuto sul fatto che dopo vent'anni di quel Peace Now che ha partorito gli Accordi di Oslo i rapporti fra le persone che vivono su quella martoriata terra oggi sono di gran lunga peggiori di prima?
Che ruolo gioca la capacità di immaginazione nella formazione di giudizi politici su fatti tremendamente concreti? E' un caso che tra i personaggi ebrei più noti in Italia e più decisamente schierati a favore della "pace" ci siano tre rinomati romanzieri e un fascinoso affabulatore? Tutti artisti creativi, tutti geniali costruttori di realtà fittizie. Non si capisce però la ragione per cui questi geniali creatori di mondi fantastici sentano poi l'irrefrenabile desiderio di esprimere pubblicamente il loro parere su concrete realtà politiche come se ne avessero titoli di particolare valore. Si capisce bene invece il motivo per cui altri vanno a chiedere continuamente il loro parere in merito; il motivo è semplice: perché conoscono già quello che pensano, e sanno che l'esposizione ripetuta delle loro opinioni contribuisce a gettare fango su Israele, e per conseguenza indiretta, ma inevitabile, anche sugli ebrei.
- NON CERCAVO UN CONFORTEVOLE RIFUGIO
Questa piccola digressione politica, apparentemente staccata da quanto detto finora, mi serve invece per dire qualcosa sulla posizione interiore in cui mi trovavo dopo essere uscito dalla "casa" spirituale del cattolicesimo di famiglia.
Per quanto riguarda il rapporto con Dio (supposto che ci fosse, come allora dubitavo), ero tutt'altro che ben disposto verso i sognatori che ti sanno presentare belle e attraenti realtà spirituali in cui ti attirano perché loro vi si trovano bene: non ero alla ricerca di un rifugio in cui stare al calduccio e trovare un po' di conforto. Se fosse stato così, tutto sommato avrei potuto rimanere dov'ero. La vita è dura, certo, anche per un giovane che ha davanti a sé tutta la vita aperta, ma credo che se si vuole trovare soltanto un po' di sollievo alle proprie pene, si può decidere di coltivare qualche interesse gradevole, come la musica, il teatro, le lingue straniere, i viaggi, il calcio, il biliardo, le bocce, ma scegliere a questo scopo una religione, di solito quella più a portata di mano, e fingere con se stesso e con gli altri di crederci perché così "ci si sente meglio", era una cosa che mi sembrava del tutto stupida. Il mio discorso era semplice: se un Dio davvero esiste, non si può prenderlo in giro con queste messe in scena; né si può pensare che Lui si faccia davvero prendere in giro in questo modo. Ripeto: non ero affatto sicuro che Dio ci fosse, ma in qualche modo avevo già deciso che se Dio c'è, è una persona seria. E non mi sbagliavo.
Continuai dunque a fare quello che facevo prima, sentendomi semplicemente libero da obblighi religiosi di qualunque tipo. Mi piaceva leggere, e continuai a farlo con maggiore intensità, non per colmare vuoti che non avvertivo, ma per desiderio di conoscere e imparare. E' proprio in quel periodo che feci la conoscenza della letteratura russa, cominciando da un romanzo che mi piacque moltissimo: "Guerra e pace" di Tolstoi. Sulla spinta di quella lettura volli leggere altri romanzi dello stesso autore, per passare poi ad altri scrittori russi dello stesso periodo.
Fu in un modo apparentemente casuale che le cose cominciarono a cambiare.
- UN COMPAGNO DI SCUOLA PREPARATO E ANTICLERICALE
Nella nostra classe di liceo c'era un ragazzo - che in seguito chiamerò Lorenzo - molto preparato in fatto di storia e attualità politica. Ce n'eravamo accorti perché ogni tanto si metteva a questionare con il professore di filosofia, contrastando vivacemente le sue affermazioni. Quel professore era una persona liberale di squisita educazione: si rivolgeva a noi dandoci del lei, lasciava che noi stessi decidessimo quando volevamo essere interrogati, accettava il dibattito con noi, che spesso non sapevamo dire nient'altro che sciocchezze. Ogni tanto ci accadeva di dover assistere a lunghe e animate discussioni tra lui e Lorenzo. A noi studenti in fondo la cosa non dispiaceva, anzi, qualche volta eravamo noi stessi a chiedere a Lorenzo di provocare il professore in qualche acceso dibattito, in modo da poterci fare tranquillamente i fatti nostri durante il tempo della lezione.
Lorenzo era un anticlericale. La cosa divenne chiara quando una volta, essendogli stato chiesto di leggere in classe un testo di storia in cui a un certo punto si trovava scritto "S.S. Pio XII...", lui lesse ad alta voce: "Esse Esse Pio XII...", facendo naturalmente ridere tutta la classe.
Essendo venuto a sapere che non mi consideravo più cattolico, una volta mi propose di andare ad ascoltare una conferenza nella Chiesa Evangelica Valdese di Piazza Cavour. Vi andai, non perché fossi alla ricerca di qualcosa di sostitutivo della religione cattolica, ma per semplice curiosità e desiderio di ampliare le mie conoscenze. L'oratore parlò di Lutero. Non ricordo niente di quello che disse, e sono convinto che anche allora ne capii ben poco: non era un tema che fino a quel momento rientrava nei miei interessi. L'unica cosa che notai, ed era per me nuova, fu che di Lutero l'oratore parlò bene. Per me, per come l'avevo sempre sentito nominare in ambito cattolico, il nome di Lutero non si distingueva molto da quello di Lucifero.
Presi dunque coscienza diretta che esistevano anche cristiani non cattolici. Lo sapevo, certo, dai libri di scuola, ma fino a quel momento questi strani esseri erano rimasti soltanto un paragrafo di storia da imparare per doveri scolastici. La cosa comunque non mi aveva molto impressionato: per me tutto restava come prima.
Lorenzo però, anche se non mi sembrava che fosse un protestante molto assiduo e convinto, mi prese sotto la sua tutela e si propose di farmi conoscere meglio l'ambiente degli evangelici.
Mi portò quindi non più ad ascoltare una conferenza, ma ad assistere a un vero e proprio culto religioso in una Chiesa Evangelica Metodista. Qui posso dire che ricordo qualcosa di più: il predicatore parlò sulla parabola dei talenti. Lorenzo disse però che la predica non valeva molto, ed io non saprei riportarne le ragioni. Ricordavo ancora le preghiere in latino imparate da piccolo, ma i racconti evangelici non facevano parte del mio bagaglio di conoscenze, tanto meno di riflessione.
- IL PACCHETTO-CHIESA Le cose dunque continuavano come prima, né c'era motivo perché cambiassero. Avevo conosciuto altre chiese cristiane, un po' diverse da quella cattolica, ma non vedevo in quale modo questa esperienza, abbastanza interessante sì ma non troppo, avrebbe dovuto modificare le mie considerazioni su Dio. Ero abituato fin da bambino a vedere Dio come un elemento inseparabile del pacchetto-chiesa: avendo gettato via il pacchetto cattolico, era ovvio che per me anche Dio facesse la stessa fine. Mi erano stati proposti altri pacchetti, presentati come migliori, certo, ma non potevano riuscire a farmi cambiare il mio modo di porre il problema di Dio.
Lorenzo però non voleva demordere. Mi portò allora da un missionario evangelico di sua conoscenza. L'esperienza questa volta fu diversa: non entrai nell'edificio austero di una chiesa, né vidi un officiante vestito in abiti solenni far piovere dall'alto sacre parole da prendere o lasciare. Entrai invece in un ufficio come tanti altri, pieno di libri, carte, attrezzi, e vi trovai un giovanotto sui trent'anni, vestito come tutti, con il quale Lorenzo mi propose di entrare in discussione. Discutere mi piaceva, quindi accettai. Non ricordo come si svolse quella prima chiacchierata, ma il risultato fu che alla fine accettai di avere altri scambi ed ebbe inizio una serie di incontri in cui Lorenzo riuscì ad invitare anche altri giovani, tra cui qualche nostro compagno di classe.
La prima cosa che il missionario cercò di farmi capire, con qualche fatica da parte mia perché quel modo di pensare mi era del tutto estraneo, era che il rapporto dell'uomo con Dio non ha come elemento primario la chiesa, ma la persona di Gesù. La chiesa non è quella bella indispensabile confezione in cui si trova contenuto Gesù; non è il pacchetto offerto agli uomini perché possano trovarvi dentro il Salvatore; la chiesa - cercava di farmi capire il missionario - è l'insieme di coloro che hanno conosciuto e accolto personalmente Gesù risuscitato. Anche se le esperienze personali possono apparire diverse, nel rapporto con Dio la successione vera è questa: si entra nella chiesa perché si è creduto in Gesù, non si crede in Gesù come conseguenza del fatto che si è entrati nella chiesa.
Adesso queste cose so spiegarle, ma quanta fatica facevo allora per capirle! Per me Gesù era sempre stato uno degli elementi dell'insegnamento cattolico; un elemento importante, certo, anzi fondamentale, ma sempre e soltanto una parte della struttura della chiesa. Ed è per questo motivo che in questo insegnamento l'istituzione ecclesiastica risulta essere la prima in ordine di importanza: "Extra Ecclesiam nulla salus", al di fuori della chiesa non c'è salvezza. Questo veniva insegnato nei fatti, anche se non sempre lo si ripeteva in termini così chiari e netti.
La mia domanda allora in quel tempo era questa: "Ma se non sono obbligato a passare attraverso la chiesa per conoscere Gesù, in che modo posso conoscerlo?" "Attraverso la lettura delle Sacre Scritture", fu la risposta del missionario. Questa fu per me la seconda cosa assolutamente nuova. Ero preparato a fare molte domande e obiezioni sul pacchetto cattolico contenente Gesù, ma se adesso mi dicevano che il vero Gesù è soltanto quello presentato nella Bibbia, mi trovavo davanti a una sfida: se volevo continuare a discutere di Gesù con quel missionario non avevo altra scelta: dovevo leggere la Bibbia. Era una cosa che non mi aspettavo e a cui non ero preparato.
Mi regalarono un Nuovo Testamento. Naturalmente non l'avevo mai letto; cosa normale per i cattolici di quel tempo. Non si dimentichi che allora la Bibbia era un libro proibito ai laici. Qualche racconto dei Vangeli lo conoscevo, e forse l'avevo anche letto in qualche pubblicazione religiosa per ragazzi, ma che oltre ai Vangeli esistesse anche un Nuovo Testamento, non credo proprio che a quel tempo lo sapessi. A dire il vero, nella biblioteca di mio padre una Bibbia c'era: una bella Bibbia del Martini in due grossi volumi con le preziose illustrazioni del Dorè. E sempre con le illustrazioni del Dorè c'era anche una Divina Commedia in tre volumi. A entrambe le opere avevo dedicato la medesima cura: non ne avevo letto neanche una pagina.
E' a questo punto che mi sembra naturale fare un accostamento fra la tua esperienza e la mia. Tu ed io, quando da giovani ci siamo accostati per la prima volta ai Vangeli, eravamo in una posizione simile: eravamo due ignoranti che per arrivare a capire il Gesù presentato in quelle pagine non eravamo affatto avvantaggiati dall'avere il retroterra in cui eravamo cresciuti, anzi, al contrario, l'insegnamento ricevuto era stato certamente un impedimento, un ostacolo per la comprensione del senso profondo di quelle parole. Tu potresti dire che per me sarebbe stato più facile che per te arrivare a comprendere i Vangeli, perché sono cresciuto in un ambiente cristiano. Io dico esattamente il contrario: per te, ebreo cresciuto nella terra d'Israele, dove Gesù ha vissuto, sarebbe stato molto più facile che per me, cresciuto nella cristiano-pagana Roma, inserirti in quel mondo ebraico dei Vangeli in cui si parla di scribi, farisei, sadducei, tempio, Gerusalemme, Messia. Se dunque sui Vangeli tu ed io non diciamo le stesse cose, non è perché tu appartieni alla società ebraica e io appartengo alla società cristiana, ma perché tu ed io, individualmente, ci poniamo in modo diverso davanti alla persona di Gesù, così come si presenta nei Vangeli.
Ma di questo, a Dio piacendo, continueremo a parlare.
Shalom,
Marcello
(Notizie su Israele, 8 marzo 2015)
Stop ai vandali: la scalinata della sinagoga di Trani finalmente protetta da un cancelletto
A margine della serie di appuntamenti che, l'altra sera, hanno avuto l'apice con la riapertura della sinagoga Scolanova e la visita dell'ambasciatore degli Stati uniti, è emerso un dettaglio, tutt'altro che secondario, proprio in merito alla nuova veste della rifiorita sinagoga. Infatti, la scalinata di accesso, finalmente, è protetta da un cancelletto che, da oggi in poi, fa da dissuasore nei confronti di tutti coloro che, fino a ieri, avevano utilizzato quella sacra rampa come luogo in cui rilasciare scritte sui muri, consumare pasti, urinare, bivaccare.
La comunità ebraica, a lungo ma invano, aveva chiesto uno strumento di tutela della scalinata di accesso alla sinagoga, che è essa stessa luogo sacro. Richiesta esaudita, finalmente, di concerto con la Soprintendenza, grazie ai lavori di restauro dell'intero edificio religioso, durati sei mesi e finanziati con la legge 175. Il grosso dell'intervento ha riguardato la pulizia della facciata, ritornata di un bellissimo bianco di pietra di Trani, la rimozione dei diffusi cespugli ed una serie di interventi di manutenzione anche all'interno.
Per fortuna, però, la comunità ebraica è riuscita ad ottenere non solo il ritorno allo splendore dell'intera facciata dell'edificio religioso, ma anche, l'agognata collocazione un di cancello in ferro battuto nero, sormontato da stella ebraica, che rappresenterà sicuramente un deterrente nei confronti di chi finora aveva scambiato quel luogo sacro per zona franca.
Più volte quest'organo d'informazione s'era occupato dagli oltraggi alla sinagoga, raccogliendo il grido di dolore degli ebrei di Trani, e più volte il Comune era dovuto intervenire con operazioni di pulizia straordinaria per rimuovere le scritte, soprattutto a ridosso delle numerose manifestazioni che la sinagoga ha ospitato per tutto questo tempo, ma, evidentemente soltanto a partire da oggi si dovrebbe scrivere una nuova e civile pagina di rispetto e tutela di questo monumento simbolo della storia della città.
E tale circostanza, perché no, potrebbe anche essere motivo di valutazione, da parte della Curia arcivescovile e della rettoria del tempio, in merito alla difesa delle pareti esterne della cattedrale di Trani, tuttora assediate da fenomeni pressoché analoghi e, soprattutto, incontrollabili.
(il Giornale di Trani, 7 marzo 2015)
L'Austria riforma la legge sull'islam: "Le norme nazionali vengano prima della sharia"
Il governo austriaco ha approvato le modifiche lo scorso 25 febbraio.
di Edith Driscoll
Vietare i finanziamenti esterni per le moschee e le organizzazioni musulmane, inoltre ridurre l'interferenza che potrebbero avere gli imam nella società e ribadire che la legge nazionale ha e deve avere la precedenza sulla legge islamica della sharia per i musulmani che vivono nel paese. Sono alcuni punti della nuova legge che il governo austriaco ha approvato lo scorso 25 febbraio. Secondo i politici austriaci queste nuove disposizioni dovrebbero essere prese come modello dal resto dell'Europa.
La nuova legge (ben nove pagine) regolamenta almeno una dozzina di questioni distinte, come le feste islamiche, i cimiteri musulmani, le pratiche alimentari e le attività del clero islamico. Inoltre si vuole cercare di evitare la formazione e la crescita in Austria di una società islamica parallela, disciplinando le moschee e imponendo agli imam la padronanza del tedesco. Inoltre gli appartenenti al clero con precedenti penali o che "rappresentino una minaccia" non potranno essere assunti dalle organizzazioni musulmane con sede in Austria e ai Paesi stranieri, come Turchia, Arabia saudita e i Paesi del Golfo, non potranno finanziare i centri islamici e le mosche presenti nel territorio austriaco.
"Il nostro obiettivo è quello di ridurre l'influenza politica e il controllo dall'estero e dare all'Islam l'opportunità di svilupparsi liberamente in seno alla nostra società e in linea con i nostri valori comuni europei", ha dichiarato il ministro austriaco dell'integrazione e degli affari esteri, Sebastian Kurz. Ma il paragrafo più controverso è il 4.2, in cui si afferma che le organizzazioni islamiche dovranno avere "un approccio positivo verso la Società o lo Stato" o verranno chiuse. Non sono mancate le polemiche verso questa nuova legge, infatti dal mondo islamico subito sono volate accuse di "islamofobia" e di voler creare un "islam a carattere austriaco". "I Paesi non possono avere una loro versione dell'Islam. L'Islam è universale e le sue fonti sono chiare. Pertanto, la religione non è una questione di ingegneria. Vorrei ribadire che sono futili gli sforzi compiuti dai capi di Stato per creare una versione dell'Islam che sia specifica per i loro Paesi", ha dichiarato Mehmet Gormez, responsabile per gli affari religiosi turco.
(In Terris, 7 marzo 2015)
I Paesi non possono avere una loro versione dell'Islam. L'Islam è universale e le sue fonti sono chiare. Chiarissimo. La sharia sta sopra ogni legislazione nazionale. Chiarissime sono anche le conseguenze che dovranno subire chi si oppone alla sharia, in qualunque paese si trovi. Ma non è guerra di civiltà, dicono gli occidentali. M.C.
Insulti e richiami all'Olocausto. Le lettere all'ambasciata israeliana a Berlino
Almeno venti messaggi al giorno di minacce e messaggi antisemiti negli uffici di Berlino. Il video del diplomatico di Gerusalemme scuote la società tedesca.
di Leonard Berberi
«Assassini, vi odiano tutti». «Che Dio possa punire voi e le vostre famiglie». «Sono molto felice che Hitler vi abbia quasi fatti sparire qui in Germania, ebrei vaff
». «L'umanità vivrà in pace soltanto quando l'ultimo di voi ebrei sarà sepolto». «Sfruttate l'Olocausto perché siete troppo pigri per lavorare». Si potrebbe andare avanti così, di questo passo, ancora per molto. Non sono insulti scritti su forum o siti estremisti. Sono messaggi - nero su bianco - spediti all'ambasciata israeliana in Germania. Così, tutti i giorni. Una media di venti lettere ogni 24 ore piene, zeppe d'insulti e minacce che arrivano sulla scrivania di Jakov Hadas-Handelsman, l'ambasciatore dello Stato ebraico a Berlino.
Gli attentati a Parigi e Copenhagen
E lui, il diplomatico, parte di quelle lettere le ha lette in un filmato prodotto dal quotidiano tedesco Berliner Morgenpost. «Le cose sono peggiorate l'estate scorsa, con la nostra operazione militare "Margine di protezione" su Gaza», racconta il funzionario alla tv israeliana Canale 10. «Ma poi sono precipitate dopo gli attacchi alla redazione di Charlie Hebdo e al supermercato kosher a Parigi e le aggressioni a Copenhagen. Non si tratta soltanto di critiche, che ovviamente è un diritto di chiunque. Qui parliamo di qualcosa di molto più preoccupante: antisemitismo».
L'invito a trasferirsi in Israele
Nonostante le rassicurazioni del governo tedesco l'ambasciatore vede un brutto clima. Non a caso alcuni giorni fa - dalle pagine del Tagesspiegel am Sonntag - ha invitato gli ebrei che vivono in Europa a emigrare in Israele. E poco rassicurano i messaggi - tanti - di solidarietà arrivati dopo il filmato. «Non invidio gli ebrei che vivono nel Vecchio Continente», dice il diplomatico. «Chi si sente minacciato ha oggi la possibilità di venire da noi in qualsiasi momento», ha aggiunto. Un suggerimento che segue quello del premier israeliano Benjamin Netanyahu dopo gli attentati di Parigi e criticato dalla cancelliera tedesca Angela Merkel e dal presidente francese François Hollande.
La rivista in busta anonima
Con i due politici europei si era schierato anche il presidente del consiglio centrale degli ebrei tedeschi, Josef Schuster: «Trasferirsi in Israele non è la soluzione di fronte a una minaccia globale: la paura non è un buon motivo per scegliere la Terra Santa». Ma le cose in realtà non vanno bene nemmeno in Germania. Tanto che la comunità ebraica di Berlino ha deciso di inviare via posta il suo mensile d'informazione (Jüdisches Berlin) in una busta anonima e che nasconda il contenuto per proteggere l'identità dei destinatari. «Per le strade della capitale tedesca gli ebrei vengono picchiati esclusivamente per la loro appartenenza religiosa», scrive Gideon Joffe, il presidente della Comunità di Berlino nell'editoriale della rivista. «Non siamo ancora al punto in cui vengono commessi omicidi ma alcune misure di sicurezza sono necessarie per la nostra protezione».
La trasformazione di Berlino
Agli ebrei tedeschi, poi, è stato anche suggerito di evitare - se possibile - i quartieri delle città a maggioranza musulmana. E se proprio devono andarci allora dovrebbero evitare i simboli religiosi, a partire dalla kippah, il copricapo usato dai maschi. Consigli che fino a un anno fa sarebbero stati impensabili, soprattutto a Berlino: la città negli ultimi anni è diventata la meta preferita dei giovani israeliani, in particolare di quelli con parenti vittime dell'Olocausto che erano stati costretti dai nazisti ad abbandonare le proprie case nella capitale tedesca.
(Corriere della Sera, 7 marzo 2015)
La Palestina che piace all'Ue lancia le auto contro i civili
Altro attentato a Gerusalemme Est, feriti passanti e cinque soldatesse. Per Hamas è un atto eroico. L'Olp dice stop alla collaborazione per la sicurezza con Israele.
di Carlo Panella
Nuovo attentato palestinese ieri a Gerusalemme con la insidiosa tecnica della "car Intifada", tecnica vile e impossibile da prevenire. Ancora una volta un palestinese ha lanciato a tutta velocità la sua auto su un gruppo di passeggeri che attendevano l'autobus in una strada di Gerusalemme per ucciderli. Questa volta Mohammed Salaimeh, palestinese residente a Gerusalemme Est ha colpito alla fermata di Shimon HaTzadik sulla strada numero 1, già teatro di simili imprese. La sua vettura ha colpito sei donne-soldato della Guardia di Frontiera israeliana, ne ha ferito gravemente cinque, poi ha continuato la sua corsa e ha investito un ciclista, la macchina è sbandata, si è fermata e lui è uscito con una barra di metallo in mano, per avventarsi sul malcapitato ciclista che giaceva a terra, ma è stato ferito a colpi di pistola da un poliziotto.
Ad una fermata poco distante, mesi fa, un altro palestinese aveva travolto e ucciso una donna e il suo bambino di pochi mesi. Da un anno in qua, gli attentati palestinesi con le automobili contro le fermate dell'autobus hanno provocato tre morti e varie decine di feriti.
Poche ore prima, la dirigenza palestinese di Ramallah aveva annunciato la sospensione degli accordi di cooperazione delle sue forze di sicurezza con Israele. Una decisione gravissima, dalle conseguenze imprevedibili e funeste perché suona come un via libera ai tanti gruppi armati ed eversivi che agiscono in Cisgiordania, per organizzare azioni violente contro Israele, senza dovere temere l'opera di controllo e prevenzione delle forze di sicurezza palestinesi. Di fatto, un invito a dare il via a nuovi attentati e uccisioni. Una scelta irresponsabile di Abu Mazen che, come la tecnica omicida delle "car Intifada", simboleggia plasticamente l'esasperante fallimento di una dirigenza palestinese che non sa ottenere una pace e lo Stato di Palestina, ma non è neanche in grado di tentare di imporla con la forza - come tentò di fare purtroppo più volte con Arafat - e si affida a vili gesti isolati contro inermi cittadini israeliani.
Il tutto - e questo è il punto fondamentale - in un contesto in cui la leadership palestinese è sempre divisa in due componenti letteralmente l'una contro l'altra armata. Lo scorso agosto Abu Mazen è arrivato
Abu Mazen è arrivato a dichiarare durante un colloquio con i dirigenti del Qatar: «Harnas vuole farmi impazzire. Il suo proposito è distruggere la Cisgiordania e creare uno stato di anarchia per orche- strare un colpo di stato contro di noi».
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a dichiarare durante un colloquio con i dirigenti del Qatar (grande sponsor di Hamas): «Harnas vuole farmi impazzire. Il suo proposito è distruggere la Cisgiordania e creare uno stato di anarchia per orchestrare un colpo di stato contro di noi». Di fatto la Autorità Nazionale Palestinese, che gestisce i territori dal punto di vista amministrativo e della sicurezza interna e non ha la figura giuridica e i poteri di uno Stato, dal 2007 (quando ebbe luogo una guerra civile palestinese con duecento morti) è governata da due esecutivi in feroce polemica. La striscia di Gaza è amministrata da Hamas, la Cisgiordania, invece è amministrata dalla Olp di Abu Mazen. E Hamas, non solo si rifiuta di sedere al tavolo della trattativa con Israele, ma continua a rifiutarsi di riconoscere persino il diritto all'esistenza dello Stato ebraico. I tentativi infiniti di arrivare a una ricomposizione della frattura verticale della dirigenza palestinese tentati dall'Arabia Saudita sono tutti falliti. L'ultimo è naufragato nella scorsa primavera, dopo la formazione di un governo unitario "tecnico", che ha poteri solo formali e di fatto non conta nulla.
A fronte di questa radicale incapacità dei palestinesi di trovare persino un accordo politico tra di loro e alle accuse reciproche di tentativi di golpe e di sopraffazione, le recenti mosse di tanti parlamenti europei di riconoscimento dello Stato Palestinese sono prive di ogni senso politico. Se non peggio. È infatti evidente che la pur dura - e a volte ingiustificata - posizione negoziale del governo Netanyahu non trova una controparte palestinese minimamente affidabile. Se mai Israele riconoscesse uno Stato Palestinese, si troverebbe infatti incuneata tra due porzioni statuali (la Cisgiordania e Gaza) in cui maggioritario, sarebbe il ruolo di Hamas. Una organizzazione terroristica, che permette il radicamento e l'attività a Gaza stessa di centinaia di miliziani legati al Califfato nero di abu Bakr al Baghdadi e che da quando Sharon ritirò l'esercito israeliano da Gaza si è occupata solo di trasformarla in un bunker per lanciare migliaia di razzi e missili contro una Israele "da distruggere". La riprova che il peggior nemico dei palestinesi, da un secolo in qua, sono proprio i palestinesi.
(Libero, 7 marzo 2015)
Forza araba congiunta
di Khaled Abu Toameh (*)
Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha lanciato un'iniziativa per formare una "forza araba congiunta" allo scopo di contrastare la crescente minaccia dell'Islam radicale, soprattutto a seguito delle recenti atrocità perpetrate dal gruppo terroristico dello Stato islamico contro 21 copti egiziani, in Libia.
Tuttavia, perché un'iniziativa del genere abbia successo, è necessario anche il sostegno degli Stati Uniti, dell'Unione Europea e di altre parti internazionali. Ma la sensazione generale al Cairo e nelle altre capitali arabe è che gli Stati Uniti e il mondo occidentale non fanno sul serio quando si tratta di affrontare la minaccia dell'Iran, dello Stato islamico o di altri gruppi terroristici in Medio Oriente. Nel mondo arabo c'è una crescente preoccupazione, in particolare nei paesi del Golfo Persico, riguardo all'indifferenza mostrata da Washington e dalle capitali europee verso la minaccia iraniana alla stabilità del Medio Oriente.
Come ha osservato questa settimana il quotidiano egiziano Al-Ahram: "Non solo l'Iran ha occupato tre isole degli Emirati Arabi Uniti, ma ora assedia i paesi del Golfo e cerca di creare una nuova realtà per spingere i suoi sostenitori Houthi, in Yemen ad assumere il controllo del paese e appoggiare i suoi sostenitori nel Bahrein nell'intento di destabilizzare il paese, oltre a quello che già sta facendo in Libano, in Siria e in Iraq. Si aggiunga a questo il terrorismo dei gruppi radicali che infiammano diverse aree della regione". All'inizio di questa settimana, Sisi è volato a Riad per colloqui urgenti con il sovrano saudita Salman bin Abdulaziz sui recenti sviluppi regionali e internazionali.
Il principale obiettivo della visita del presidente egiziano in Arabia Saudita era quello di assicurarsi l'appoggio al suo piano di creare una "forza araba congiunta" per affrontare le minacce dell'Islam radicale e dell'Iran. L'iniziativa di al-Sisi riflette la crescente delusione araba per il comportamento dell'amministrazione americana e dei suoi alleati occidentali. Ciò che Sisi in realtà intende dire è che l'Egitto e gli altri paesi arabi non possono più contare sulle potenze occidentali per fronteggiare le minacce e le sfide poste dall'Iran e dall'Islam radicale. In un certo senso, si tratta di una mozione araba di sfiducia nei confronti dell'amministrazione americana e delle potenze occidentali.
Alla vigilia della sua visita in Arabia Saudita, il presidente egiziano aveva detto che l'idea di creare una forza araba era nata per preservare la sicurezza e la stabilità dei paesi arabi. "Quando si parla di una forza araba congiunta, non si intende per attaccare ma per difendere la sicurezza dei nostri paesi", egli ha spiegato. "È importante, alla luce dei pericoli e delle minacce." Sisi ha detto di credere che la sua iniziativa otterrà l'appoggio dell'Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti, del Kuwait e della Giordania. "Non si può dire nulla di negativo riguardo alla nostra idea perché non è diretta contro nessuno e il suo obiettivo non è l'espansione né l'invasione". L'iniziativa prende corpo dopo che è giunta notizia dell'esistenza di diversi punti di vista tra il Cairo e Washington sulla necessità di mettere a punto una strategia per combattere il terrorismo.
Secondo l'analista politico Ahmed Eleiba, la recente conferenza di Washington dedicata alla lotta contro l'estremismo violento e alla quale hanno partecipato 60 paesi "non è andata come si aspettavano i rappresentanti dell'Egitto. (
) La conferenza non ha dato vita a una strategia globale sul terrorismo, ma è servita a sottolineare le differenze esistenti tra i vari punti di vista, soprattutto quelli del Cairo e di Washington". Eleiba ha citato Gamal Abdel Gawad, un docente di Scienze politiche all'Università americana del Cairo, che ha detto di aver rilevato una netta divergenza di opinione tra l'Egitto e gli Stati Uniti: "Gli Stati Uniti considerano ancora l'Islam politico come un attore legittimo e presente, e non come sinonimo di estremismo. L'amministrazione americana opera anche una distinzione tra islamisti estremisti e islamisti moderati e ritiene che i moderati possono efficacemente essere integrati nella politica come parte di un sistema politico accettabile.
I funzionari statunitensi ritengono che l'integrazione delle correnti dell'Islam politico, comprese quelle sospettate di estremismo, nella vita politica potrebbe essere benefica." Eleiba ha concluso che "con o senza l'aiuto dell'Occidente, il Cairo ha una strategia contro il terrorismo e un piano di azione articolato". L'iniziativa del presidente Sisi mostra che gli arabi e i musulmani moderati hanno finalmente deciso di prendere in mano la situazione e di smettere di fare affidamento sugli Stati Uniti e sulle potenze occidentali quando si tratta di combattere l'Islam radicale e la minaccia iraniana. Eppure, Sisi e i suoi alleati arabi e musulmani sono ben consapevoli che senza il pieno sostegno della comunità internazionale "la forza araba congiunta" non sarebbe in grado di avere successo. Non ci si aspetta un sostegno all'idea da parte dell'amministrazione americana, che ritiene che i Fratelli musulmani siano un attore legittimo e moderato.
Piuttosto, Sisi e i suoi alleati sperano che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e alcuni paesi dell'Unione Europea approvino l'idea. Questa è la prima volta in decenni che gli arabi parlano di formare una loro forza militare per combattere il terrorismo. Fino ad oggi, la maggior parte dei paesi arabi ha creduto che l'Islam radicale e l'Iran costituissero la più grande minaccia per l'Occidente.
Grazie al nuovo e coraggioso approccio del presidente Sisi c'è la possibilità concreta che gli arabi assumeranno la guida nella lotta contro gli estremisti e i terroristi che continuano a commettere atrocità in un certo numero di paesi arabi. Per la prima volta, i paesi arabi non chiedono all'Occidente di venirli a difenderli dalle atrocità perpetrate dai loro fratelli arabi e musulmani. Si tratta di un'evoluzione che va accolta con favore e sostenuta dagli Stati Uniti e dal resto della comunità internazionale.
(*) Gatestone Institute
(L'Opinione, 7 marzo 2015 - trad. Angelita La Spada)
Il soffice rogo dell'Università di Londra
di Giulio Meotti
ROMA - Hanno votato 2.056 fra docenti universitari, studenti, presidi di facoltà, perfino gli inservienti e gli addetti alla sicurezza. Il 73 per cento ha deciso per il boicottaggio totale delle istituzioni accademiche di Israele. Soltanto in 425 hanno votato contro. A favore dell'esclusione dello stato ebraico il sessanta per cento dei docenti ordinari e dei "lecturers", i docenti associati.
E' stato un referendum sul diritto all'esistenza dello stato ebraico fra le classi abbienti del mondo accademico e culturale britannico. La London University diventa il primo ateneo inglese a votare ufficialmente la fine di ogni legame accademico e professionale con i colleghi israeliani. La prima a farne le spese sarà l'Università Ebraica di Gerusalemme, con la quale l'università londinese ha in corso degli scambi. Ai votanti era stato chiesto se fossero d'accordo con la decisione della Scuola di studi orientali e africani (Soas) della facoltà di aderire alla campagna di boicottaggio di Israele. Il voto è tanto più importante perché arriva dalla più prestigiosa università inglese per gli studi mediorientali. E' la stessa dove era andato a studiare Mutassim Gheddafi, uno dei figli del Colonnello. E' la stessa dove l'imam Yusuf al Qaradawi siede fra gli advisor del Journal of Islamic Studies. E' lo stesso religioso che ha giustificato gli attentati suicidi contro gli ebrei: "Oh Allah, colpisci gli ebrei, i nemici dell'islam. Oh Allah, colpisci questa banda arrogante. Oh Allah, non sprecarne neppure uno, contali e uccidili, fino all'ultimo".
Ci sono poi quei finanziamenti della famiglia reale saudita all'università di Londra (costituiscono il quindici per cento del totale delle donazioni). Di fronte al voto di Londra esultano i militanti del boicottaggio, come Rana Baker, ricercatrice di antropologia di quella facoltà, che dice: "Il referendum è il primo passo nella direzione di porre le università israeliane nel giusto contesto di laboratori militari". Nel 2007 i ricercatori associati del Regno Unito si erano riuniti a Bournemouth per votare a favore di "un boicottaggio generale" delle istituzioni israeliane. E l'università israeliana di Bar-Ilan ha dichiarato che un boicottaggio "silenzioso" delle università inglesi è già in atto da tempo. Ogni corporazione e burocrazia in Inghilterra ha preso parte all'inimicizia d'Israele: insegnanti, dipendenti pubblici, architetti, medici, accademici, giornalisti e chierici religiosi. Ngo Monitor ha appena stilato un bel rapporto su come funziona il boicottaggio.
Il voto della London University, che ieri è stato definito "non binding" dall'amministrazione, avrà effetti pratici e immediati: impedire agli studenti israeliani di ottenere sovvenzioni alla London University, persuadere altre istituzioni accademiche inglesi a rompere le relazioni con le università israeliane, convincere gli accademici che lavorano alla London University a non recarsi in Israele, non invitare gli israeliani alle conferenze della stessa università, impedire la pubblicazione di articoli di studenti israeliani nelle riviste dell'ateneo e non pubblicare articoli su riviste specializzate israeliane.
E' un rogo antisemita soffice.
(Il Foglio, 7 marzo 2015)
Nel giardino dei Giusti ci sono sei nuovi alberi
di Gianni Barbacetto
"Chi salva una vita salva il mondo intero", è scritto nella Bibbia.
Non è vero. Nella Bibbia questa frase non c'è.
Del resto, anche il Corano dice: "Chi uccide un solo uomo innocente, uccide tutta l'umanità". Il gentile che salva la vita a un ebreo, a rischio della sua, è detto Giusto tra le nazioni e gli è dedicato un albero nella Foresta dei Giusti, a Gerusalemme. Ma il lavoro e la passione di Gabriele Nissim, scrittore milanese, ha fatto nascere Gariwo, l'associazione che ha promosso il Giardino dei Giusti di Milano, in cui viene ricordato chi, dopo la Shoah, si è dato da fare per salvare e soccorrere uomini in altri contesti tragici, dal genocidio armeno a quello del Ruanda, dai massacri in Cambogia a quelli in Bosnia. La tenacia di Nissim ha ottenuto che da tre anni si celebri la Giornata europea dei Giusti. Oggi, 6 marzo, a Milano, sul Monte Stella, saranno ricordati con un albero piantato e un cippo altri sei Giusti. Non si è fatto in tempo a onorare Ahmed Merabet, il poliziotto francese di origine algerina ucciso a Parigi mentre proteggeva la redazione di Charlie Hebdo, e Lassana Bathily, il musulmano francese che lo stesso giorno ha salvato decine di ebrei nel supermercato kosher. I nuovi alberi sono dedicati a Razan Zaitouneh, avvocatessa siriana attivista dei diritti civili, rapita nel 2013 vicino a Damasco da gruppi estremisti jihadisti; Ghayath Mattar, giovane pacifista siriano che offriva fiori ai soldati in segno di dialogo e si batteva per i diritti umani e la libertà e che è stato arrestato e ucciso in Siria nel 2011; Mehmet Gelai Bey, turco ottomano, sindaco di Aleppo, che si è opposto alle direttive del suo governo che imponevano l'eliminazione del popolo armeno nel genocidio del 1915; Alganesh Fessaha, attivista umanitaria italoeritrea che ha rischiato la vita per soccorrere i perseguitati in Africa e ha aiutato i migranti e i loro familiari a Lampedusa dopo il tragico naufragio del 2013.
Non solo. Un albero sarà piantato anche in onore degli uomini e delle donne della Guardia Costiera italiana che rischiano la vita, al largo delle coste italiane, per salvare i naufraghi in fuga dalla fame e dalla violenza. Un'ultima pianta, infine, ricorderà Rocco Chinnici, il magistrato palermitano creatore del primo pool antimafia, ucciso da Cosa Nostra ne11983: tra i Giusti entrano così anche i testimoni della legalità e della lotta antimafia.
Cerimonie in onore dei Giusti avranno luogo anche a Firenze, Roma, Bitonto (Ba), Rimini, Bellaria-Igea Marina, Seveso e altre città italiane. Iniziative di Gariwo anche in altri Paesi d'Europa. A Praga ci sarà un convegno dedicato al centesimo anniversario del genocidio armeno e al Giusto Armin T. Wegner. A Varsavia, la Festa dei Giusti, al museo di storia degli ebrei polacchi che sorge nel cuore dell'ex ghetto della capitale e racconta la storia della presenza millenaria degli ebrei in Polonia. A Dusseldorf cerimonia musical-letteraria in onore di Armin T. Wegner, Giusto per gli ebrei e per gli armeni che tentò invano di denunciare la persecuzione degli ebrei in Germania, e di Dogan Akhanli, che si è battuto per la verità sull'omicidio del giornalista Hrant Dink in Turchia. In Israele, incontro presso la Open University of Israel a Ra'anana con Gabriele Nissim, Pietro Kuciukian e Yair Auron in cui sarà annunciata la nascita di Gariwo-Israele. Poi, il 10 marzo, a Neve Shalom-Wahat el Sala m ("Oasi della pace" in ebraico e in arabo), il villaggio abitato da arabi palestinesi ed ebrei israeliani, avrà luogo la cerimonia di dedica degli alberi per gli armeni che salvarono gli ebrei dall'Olocausto, per i soccorritori del genocidio in Rwanda, per i giusti ebrei israeliani e arabi musulmani.
(il Fatto Quotidiano, 6 marzo 2015)
Tel Aviv - Gidon Agaza racconta gli Etiopi in Israele
ROMA - Il Museo Eretz Israel di Tel Aviv ha recentemente aperto una nuova mostra fotografica di Gidon Agaza, artista di origine etiope emigrato in Israele dall'Etiopia quando aveva 11 anni.
La mostra documenta i momenti autentici e speciali ella comunità etiope in Israele, così come i "ricordi" del passato in Etiopia attraverso documenti anche cinematografici e televisivi. Le fotografie in mostra conducono lo spettatore in un viaggio e mostrano la Sigad, la tradizionale festa che si svolge ogni anno a Gerusalemme dove si racconta tanto la vita delle comunità quanto il ricordo dell'arrivo drammatico nella Terra di Israele.
Gidon Agaza era un ragazzo che comprò una macchina fotografica semiprofessionale ed iniziò a fotografare ritratti di persone nel suo stretto ambiente. Dopo aver completato il servizio militare studiò fotografia presso l'Accademia Bezalel di Design e Arti. Allo stesso tempo, ha deciso di concentrarsi sulla sua comunità, fotografarne e documentarne l'integrazione nella società israeliana raccogliendo il tutto in un archivio privato. privato.
La mostra è il culmine del suo lavoro e di archivio. La festa dello SIGAD è uno dei giorni santi non obbligatori che si svolge 50 giorni dopo Yom Kippur. E' un giorno di digiuno, purificazione e si concentra sulla cerimonia del rinnovamento dell'alleanza tra il popolo di Israele e il Signore.
La cerimonia si svolge sulla cima di una alta montagna, a ricordo e a simbolo del Monte Sinai e viene eseguita dai grandi sacerdoti della comunità.
La mostra si chiude il 25 marzo del 2015.
(Prima Pagina News, 6 marzo 2015)
Anche Israele apre alla cannabis medica: i risultati delle ultime ricerche
Che la cannabis terapeutica sia utilizzata in diversi paesi nel mondo è ormai un dato di fatto. Coloro che fanno uso di marijuana per scopi terapeutici sono in continuo aumento e quando è possibile preferiscono acquistare direttamente i semi dai negozi online, coltivandoli direttamente e facendo crescere le piantine. I semi che sembrano andare a ruba al momento sono in particolare i semi autofiorenti , che appunto saltando la lunga fase di fioritura, iniziano a fiorire 5-6 settimane dopo la germinazione. Negli ultimi mesi lo stato di Israele sembra muoversi attivamente nelle ricerche scientifiche sulla cannabis terapeutica, tanto che ne ha permesso l'utilizzo alle autorità religiose ebraiche, sempre per le sole finalità terapeutiche. Per una volta scienza e religione sembrano trovare un interessante punto d'incontro, e la notizia assume grande valore tenendo conto del ruolo preponderante che le autorità religiose ebraiche ricoprono nel paese israeliano. Poche settimane fa un gruppo di ricercatori israeliani ha pubblicato uno studio riguardante gli effetti della marijuana sui disturbi a cui sono affetti solitamente gli anziani. Si sono sottoposti al test una ventina di anziani residenti in una casa di risposo del paese, ai quali è stata somministrata cannabis per tre volte al giorno e per un periodo prestabilito. I risultati sono stati davvero interessanti: tutti i soggetti coinvolti nella terapia hanno riscontrato un miglioramento dei sintomi da cui erano afflitti, come riduzione di tremori e dolori, minori problemi duranti il sonno (più profondo e duraturo) ed un maggiore rilassamento sia fisico che psichico. Tuttavia il risultato più eclatante riguarda gli effetti curativi osservati dopo la somministrazione sulla deglutizione dei soggetti, e quindi sulla disfagia. Si tratta di un disturbo che affligge numerose persone anziane e si manifesta nella difficoltà nel deglutire in autonomia e nella nascita di malattie neurologiche come Parkinson ed Alzheimer. Un rimedio a tale disturbo permetterebbe a molti anziani di alleviare le loro sofferenze e di evitare il ricorso ai farmaci tradizionali. Nel frattempo, in alcune regioni italiane come Puglia e Toscana, la cannabis terapeutica fa parte del programma sanitario regionale ed i sostenitori della marijuana per scopi medici sembrano stiano aumentando anche in nel nostro Paese, dopo aver constatato la crescita esponenziale dei negozi online specializzati nella vendita di semi autofiorenti a scopo terapeutico.
(Positano News, 6 marzo 2015)
E se Abu Mazen volesse lasciare in eredità una terza intifada?
Di certo non vuole essere ricordato come colui che ha ceduto agli ebrei delle terre musulmane, cioè qualsiasi porzione di terra al di qua o al di là dalla Linea Verde.
Un recente titolo del Jerusalem Post recitava: "Abu Mazen potrebbe interrompere la cooperazione con Israele sulla sicurezza a meno che non venga creata la Palestina". Secondo l'opinione corrente, le minacce del presidente dell'Autorità Palestinese di porre termine alla cooperazione sulla sicurezza con le Forze di Difesa israeliane sono semplicemente vuota retorica, giacché Abu Mazen sa molto bene che, senza una presenza militare d'Israele in Cisgiordania, le forze di sicurezza della sua Autorità Palestinese verrebbero travolte in breve tempo. E sa bene che verosimilmente farebbero l'ingloriosa fine dei loro compagni quando nel 2005, nella striscia di Gaza, dopo il disimpegno di Israele, venivano scaraventati giù da edifici di dieci piani ad opera di Hamas, il loro socio nel governo di unità nazionale. Sia Israele che l'Autorità Palestinese sanno che la Cisgiordania diventerebbe molto probabilmente un "Hamastan sul Giordano": un incubo per la sicurezza di Israele e non solo. Il presidente Abu Mazen sa che nel giro di poche settimane, al massimo pochi mesi, tutto questo diventerebbe realtà...
(israele.net, 6 marzo 2015)
Paul Schreiner: «La Shoah in Croazia spesso dimenticata»
Il ceramista di fama mondiale ospite all'ITA per la Settimana della Cultura Ebraica
di Stefano Massaro
Torna nel territorio della Provincia di Barletta - Andria - Trani "Lech Lechà", la Settimana di Arte, Cultura e Letteratura Ebraica, giunta quest'anno alla sua terza edizione. Mercoledì mattina è stata la volta dell'appuntamento nella Città di Andria ed in particolare nell'auditorium dell'Istituto Tecnico Agrario "Umberto I" di Andria, dedicato al campo di concentramento croato di Jasenovac, raccontato da Paul Schreiner. Quest'ultimo, ingegnere ceramico di fama mondiale ed autore del libro "Memorie sulla Shoah in Croazia, perse nonni, madre, sorella e zii a Jasenovac, mentre altri suoi parenti furono deportati presso il campo di Loborgrad e ad Auschwitz.
«Il libro è la voce dell'intimità di tre membri della rinomata famiglia di imprenditori Schreiner, i quali hanno trovato la forza e il senso del dovere, nei confronti dei posteri, per riferire, attraverso la memoria della mente e del cuore, la messa in atto delle leggi razziali contro gli ebrei, sul suolo della Croazia di Ante Paveli?». E' la prefazione di Suzana Glava? che introduce quello che nel libro sarà esplicitato in tutta la sua complessità e drammaticità. Un appuntamento dalle forti emozioni in cui il ceramista Schreiner ha ripercorso una delle pagine spesso dimenticate della Shoah: «Il testo è stato scritto da tre persone che sono sopravvissute a tutte le persecuzioni messe in atto dal regime fascista della Croazia - ha detto Schreiner - Le loro memorie sono storie vere, vissute con sofferenza, e caratterizzate da veri e propri miracoli che hanno determinato la loro salvezza». Il libro è la voce dell'intimità dei tre, i quali hanno trovato la forza e il senso del dovere, nei confronti dei posteri, per riferire, attraverso la memoria della mente e del cuore, la messa in atto delle leggi razziali contro gli ebrei, sul suolo della Croazia di Ante Pavelic. Paul Schreiner ha ricordato i tetri eventi che lo hanno visto privato, tredicenne, degli affetti della sua numerosa famiglia: venti uccisi, sette sopravvissuti, di cui cinque salvati dagli italiani. Alle proprie memorie l'autore ha voluto aggiungere quelle dei cugini di suo padre, Ivo Reich e Medea Brukner, di cui Ivo scampato al famigerato campo ùstascia di Jasenovac, e Medea, con i suoi due figli minorenni, a ben nove campi tra Croazia e Bosnia.
«Lo sterminio degli ebrei in Croazia è stato il più terribile di tutta Europa - ha ricordato Schreiner - prima della guerra c'erano circa 15mila ebrei in Croazia, dopo la guerra ne sono rimasti solo 400. In tutta la Croazia c'erano 82 campi di concentramento sopratutto posti a sud vicino alla Dalmazia. Tutta la costa era nelle mani degli italiani e della mia famiglia cinque sono stati salvati proprio dagli italiani. Nel 1960 sono immigrato in Italia dove vivo anche oggi». L'Istituto Tecnico Agrario è da sempre al centro di appuntamenti della Settimana Ebraica: «Siamo stati ben onorati di ospitare uno degli incontri previsti dalla Settimana della Cultura Ebraica - ha detto Riccardo Liso, Coordinatore dell'Istituto - Un progetto che da anni è stato sviluppato con il Prof. Lotoro per cercare di inculcare negli studenti il principio della legalità e del rispetto reciproco oltre che della convivenza visto anche il momento particolarmente turbolento».
«Voglio complimentarmi con la direzione artistica di "Lech Lechà", per aver anche quest'anno egregiamente organizzato la Settimana di Arte, Cultura e Letteratura Ebraica, iniziativa radicata e completa che ci consente di approfondire al meglio la cultura ebraica in un territorio, quale quello del Sud, il cui legame con l'ebraismo vanta un passato millenario - ha affermato, nel corso del suo intervento, il Presidente della Provincia di Barletta - Andria - Trani Francesco Spina -. La Provincia continuerà ad ospitare ed a far sentire la propria vicinanza ad iniziative come questa, in grado di affermare una forte testimonianza di pace e di dialogo tra i popoli».
(AndriaViva, 6 marzo 2015)
Israele riprende le importazioni da Gaza sperando che Hamas non taglieggi gli agricoltori
Israele ha deciso di riprendere le importazioni di frutta e verdura dalla Striscia di Gaza. Lo ha reso noto ieri il COGAT (Coordination of Government Activities in the Territories) nel contesto di una nuova politica volta ad aiutare la ripresa della economia di Gaza.
Le importazioni dirette da Gaza a Israele erano praticamente bloccate dal 2007 anche se Israele permetteva il transito di merci da Gaza verso il resto del mondo ma non le acquistava per il proprio mercato interno. Con questa decisione dalla prossima settimana i coltivatori di Gaza potranno vendere i loro ortaggi e la loro frutta anche sul mercato israeliano....
(Right Reporters, 6 marzo 2015)
Anche la sinistra di Israele sta con Bibi contro Obama
Dopo il discorso al Congresso Usa sul pericolo iraniano, Netanyahu incassa consensi personali. Il paradosso: il suo partito invece insegue nei sondaggi.
di Daniel Mosseri
Benjamin Bibi Netanyahu è reduce da un clamoroso discorso al Congresso americano durante il quale ha messo in guardia l'amministrazione Obama dal firmare un accordo sul nucleare con l'Iran dell'ayatollah Khamenei. Parole pronunciate nonostante i chiarissimi segnali contrari della Casa Bianca: fra Obama e Netanyahu non corre buon sangue. TI leader di un Paese piccolo si è permesso di mettere in cattiva luce la politica estera della Casa Bianca direttamente da Capitol Hill. La forza comunicativa di Bibi e la sua capacità di farsi ricevere al Campidoglio contro la volontà di Obama non sono passate inosservate: secondo una rilevazione del secondo canale della tv israeliana, 47 elettori israeliani su cento vorrebbero ancora Netanyahu a capo del governo. TI suo sfidante laburista Yitzhak «Buji» Herzog resta parecchio indietro, fermo al 28%. TI premier conservatore ha incassato, sul tema iraniano, anche l'approvazione di intellettuali della sinistra, come lo scrittore David Grossman che ieri su Repubblica spiegava come la bomba degli ayatollah sia una minaccia per tutto il mondo: «In questo, Bibi ha ragione».
Dall'altra parte, invece, qualcosa non funziona nella catena di trasmissione fra Netanyahu e il Likud, ed è ancora la rilevazione di Channel 2 a svelarlo: il partito del premier resta un seggio indietro rispetto alla Unione sionista, l'accoppiata fra i laburisti di Herzog e i centristi (Hatnua) di Tzipi Livni. In altre parole agli israeliani continua a piacere Netanyahu per il suo carisma, per la sua carriera nelle unità speciali di Sayeret Matkal, per essere il fratello di Yonatan, l'eroe di Entebbe, per aver fatto della sicurezza dello Stato una priorità. Ma se l'uomo Netanyahu piace a destra e a sinistra, il Likud non convince. «Il partito conservatore è al governo da sei anni ma gli israeliani non sono contenti», afferma da Tel Aviv l'esperto di sicurezza informatica Simone Cabib. Le questioni sollevate dalle proteste del 2011 - quando in centinaia di migliaia scesero in piazza e si accamparono nelle tende per protestare contro caro-casa e carovita - restano irrisolte. Nato fra le promesse di mille riforme, il governo uscente ha anche impalato il progetto dei centristi dell'ex ministro delle Finanze Yair Lapid per esonerare le giovani coppie dall'Iva sulla prima casa. Richiamati regolarmente alle armi per affrontare le minacce che incombono da nord (Hezbollah) e da sud (Hamas), gli israeliani sono bene attenti a scegliersi leader decisi e competenti. Allo stesso tempo, come in tutti i Paesi del mondo, nel segreto dell'urna gli elettori pensano anche a come arrivare alla fine del mese: !'insoddisfazione per un economia che cresce molto ma che ridistribuisce poco è palpabile. Leader popolare alla testa di un partito normale, Netanyahu non può neppure fare affidamento sul sistema elettorale. Gli israeliani votano in un unico grande collegio nazionale con una legge proporzionale pura, corretta solo da uno sbarramento del 3,25%. Il sistema premia i partiti più che i leader e, come dalle nostre parti, richiede l'intervento del capo dello Stato. Sondaggi alla mano, Bibi parte però in vantaggio su Buji. Chiunque vinca dovrà governare in coalizione e, allo stato, gli alleati di Netanyahu potrebbero raccogliere 65 seggi sui 120 della Knesset contro i soli 62 dell'accoppiata Herzog-Livni. A Bibi servirebbero sei Partner di governo, a Buji anche sette, e incompatibili fra loro.
(Libero, 6 marzo 2015)
I profumi della natura per difendere dagli insetti le riserve di grano
di Maurizio Molinari
GERUSALEMME - Israele vanta la percentuale più bassa di grano perduto a causa degli insetti ed il merito è di un agronomo ucraino di 62 anni con la passione per le spezie. Moshe Kostyukovsky viene da Kiev, si è formato come ingegnere alimentare nell'ex Urss e nel 1991 immigrò in Israele, trovando nel "Volcani Center" di Beit Dagan un laboratorio dove «era possibile esplorare ogni opzione, uscendo dagli schemi». Quanto avvenuto da allora lo ha trasformato nell'artefice della protezione del grano nazionale: Israele ogni anno ne produce solo 250 mila tonnellate, ovvero il 10 per cento del fabbisogno, e dunque deve importarne 4,5 milioni di tonnellate. Ciò significa un'imponente opera di conservazione e protezione che si accompagna ad un tasso di "perdita da insetti" di appena lo 0,5 per cento rispetto al 5 per cento degli Stati Uniti ed ad oltre il 40 per cento della Russia. Kostyukovsky descrive così la strada che ha portato a scoprire la propria ricetta: «Siamo partiti dalla constatazione che le sostanze chimiche facevano più danni che altro, poi abbiamo studiato il comportamento degli insetti individuando la sensibilità ad alcuni odori particolari e dal quel momento abbiamo iniziato a fare ricerca su ogni tipo di spezie».
Passando dalle vesti di ricercatore a ispettore del "Volcani Center", Kostyukovsky è così arrivato ad identificare alcune "sostanze naturali molto efficaci" per limitare al massimo i danni «a cominciare dall'olio di menta». I risultati sono notevoli ma l'agronomo punta a «migliorarli ancora, perché in Israele siamo abituati a non accontentarci mai quando si tratta di sicurezza alimentare». «E' questo il messaggio che il nostro padiglione all'Expo di Milano porta al mondo» conclude.
(La Stampa, 6 marzo 2015)
Netanyahu risponde a Obama: offre un'alternativa a un cattivo accordo
GERUSALEMME - Benyamin Netanyahu ha rispedito al presidente Usa Barack Obama l'accusa di non aver proposto ''niente di nuovo'' nella spinosa trattativa per fermare il nucleare di Teheran. Al contrario - appena atterrato ieri mattina in Israele di ritorno dagli Usa - ha ribadito di aver presentato ''un'alternativa concreta ad un cattivo accordo'' sull'Iran. Da Teheran la portavoce del ministero degli esteri, Marziyeh Afkham, ha invece definito il suo intervento ''menzogne oramai noiose''. Ma il presidente del parlamento iraniano Ali Larijani è andato oltre: se l'Iran venisse attaccato militarmente, Israele - ha minacciato - finirebbe "su una sedia a rotelle".
Nel tentativo di bloccare, o indirizzare in maniera diversa, la partita tra le potenze del 5+1 e l'Iran, Netanyahu ha rilanciato due punti della sua proposta: tempi dell'intesa e sanzioni. Da un lato - ha detto, dopo aver dato ordine di tradurre in farsi il suo discorso - l'obiettivo di "allungare ad alcuni anni" il periodo "necessario all'Iran per progredire verso le armi atomiche" qualora Teheran "decidesse di infrangere gli accordi". Dall'altro - ha aggiunto -, la certezza che le sanzioni non saranno rimosse "in modo automatico finchè l'Iran non cessi di diffondere terrorismo nel mondo, di comportarsi in maniera aggressiva con i suoi vicini e di minacciare di cancellare Israele". Fatto sta che l'Iran - dopo aver denunciato lo "spettacolo ingannevole" del discorso di Netanyahu al Congresso, "parte della campagna elettorale dei radicali a Tel Aviv" - ha ribadito che i suoi negoziatori "non accetteranno mai un accordo sul nucleare che violi i diritti della nazione". Teheran - ha annunciato il presidente Hassan Rohani citato dall'agenzia Irna - "è pronta a mostrare un'ulteriore trasparenza, ma se i negoziati la depriveranno dell'inalienabile diritto ad una tecnologia nucleare, non accetterà mai" l'accordo. Poi ha ammonito sul fatto che l'esito dei negoziati "aiuterebbe a risolvere le crisi causate dall'estremismo nella regione e nel mondo''. Una linea che, presumibilmente, il regime degli ayatollah si appresta a seguire nel prossimo round di negoziati previsto il 15 marzo come ha fatto sapere l'agenzia Fars sulla base di indiscrezioni raccolte da una fonte iraniana. Al tavolo del negoziato dovrebbe esserci anche la vice dell'Alto rappresentante per la politica estera Ue, Helga Smichd. Intanto ieri a Montreux c'è stato il terzo giorno di colloqui tra il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif e il segretario di stato Usa John Kerry, mentre oggi si vedranno i viceministri di tutti i paesi del 5+1 (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania).
Zarif ha insistito che "i negoziati sono senza dubbio la sola possibilità per il mondo per risolvere la questione nucleare", mentre la portavoce del suo ministero da Teheran ha ribadito che l'Iran non accetterà alcun accordo in due fasi, ma solo uno, comprensivo di tutti i dettagli e senza ambiguità. Kerry - in linea con Obama - si è incaricato di rispondere dalla città canadese a Netanyahu: fino ad ora - ha detto - "nessuno ha presentato una alternativa praticabile e duratura" ai negoziati "su come realmente impedire all'Iran di ottenere l'arma nucleare". Fermo sul principio che, se i negoziati avranno successo, "si potrà raggiungere l'obiettivo di dimostrare che il programma nucleare iraniano è e rimarrà pacifico".
Un muro contro muro, quello tra Israele e Usa, che - rafforzato dall'intervento di Netanyahu al Congresso - sembra destinato a proseguire nelle prossime settimane. Intanto il suo discorso almeno in Israele ha avuto consenso: secondo un sondaggio ha fatto guadagnare due seggi al suo Likud portandolo a 23, lo stesso di 'Campo sionista', il competitor elettorale di centrosinistra.
(America Oggi, 6 marzo 2015)
Israele sempre più vicino alle agenzie di viaggi
Dal 30 marzo al 23 ottobre 2015 sarà operativo il nuovo volo effettuato da El Al per conto di Sun d'Or da Napoli Capodichino a Tel Aviv, con frequenza bisettimanale (lunedi e venerdi).
«Si tratta di un'importante iniziativa che apre le porte del mercato del Sud Italia a Israele, utilissima anche per promuovere city break - commenta Avital Kotzer Adari (nella foto), direttrice dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo in Italia - Per avvicinarci alle agenzie di viaggi abbiamo iniziato un e-learning a loro dedicato che toccherà tutte le caratteristiche dell'offerta turistica di Israele. Sono previsti, inoltre, numerosi seminari organizzati con i tour operator e dedicati alle agenzie per sottolineare le valenze della destinazione: vicina, sicura e adatta anche a famiglie con bambini. Per sottolineare quest'ultimo aspetto abbiamo organizzato un viaggio per due VIP e un blogger che partecipa con la famiglia».
Tra i segmenti che l'ente vuole promuovere: il benessere, in particolare sul Mar Morto; il turismo archeologico, presente in molte località (oltre alla celebre Masada, anche Herodion, Beth Shean e Megiddo e altre); le vacanze attive (trekking, bici, etc nel deserto del Negev), e ancora il settore incentive, in particolare a Eilat, sul Mar Morto, e a Tel Aviv, destinazioni indicate per i viaggi d'affari. «Senza dimenticare - aggiunge la direttrice - le visite alle molte cantine per scoprire l'eccellenza del vino aromatico o il festival dedicato ai frutti della terra che si svolge ogni anno nel Nord durante la raccolta dell'uva e delle olive».
Israele è una destinazione perfetta per tutto l'anno e, grazie ai city break, è usufruibile anche a prezzi convenienti. Tra le novità, va sottolineato che quest'anno, per la prima volta, il Mountain To Valley Relay Race è aperto ai turisti di tutto il mondo. Si tratta di una corsa a staffetta che si snoda nel Nord del Paese in 24 ore, per 215 km, divisa in due manche e suddivisa in 24 sessioni, per gruppi che vanno da quattrio a otto corridori. Si svolgerà dal 20 aprile al 1o maggio e sono attese oltre 9mila persone.
Nel 2014 arrivi dall'Italia in linea con quelli del 2013
«Nel 2014 Israele ha registrato circa 2,9 milioni di turisti a livello mondiale - ricorda Avital Kotzer Adari - con un piccolo calo rispetto al 2013. Considerando, invece, anche i visitatori giornalieri, in maggioranza arrivati con le navi da crociera, si sale a 3,25 milioni, ma il decremento raggiunge l'8%. Da rimarcare che nel primo semestre erano aumentati dell'8% e nel secondo la diminuzione è stata del 24%. Il mercato italiano, dopo una crescita del 24% nei primi sei mesi dell'anno, ha chiuso con 112mila arrivi, in linea con il 2013».
«El Al, la compagnia di bandiera di Israele - conclude Aurora Mirata, district manager North Italy del vettore - per partenze dall'Italia fino al 4 aprile offre tariffe promozionali andata/ritorno "tutto incluso" di 240 euro da Milano e Venezia a Tel Aviv, e di 260 euro da Roma. Inoltre, per tutto il 2015 è prevista una tariffa speciale per agenti di viaggi di 220 euro, sempre a/r " tutto incluso" da Milano, Roma e Venezia per Tel Aviv».
(L'Agenzia di Viaggi, 6 marzo 2015)
David Grossman: «Netanyahu ha ragione»
Lo scrittore israeliano noto per le sue posizioni di sinistra e pacifiste ha dato ragione a Netanyahu sul pericolo rappresentato dal nucleare iraniano.
David Grossman, scrittore israeliano di sinistra e pacifista, ha dato un'intervista a Fabio Scuto di Repubblica riguardo le ultime dichiarazioni del primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu sul nucleare iraniano. Netanyahu è stato criticato negli ultimi giorni per avere di nuovo usato toni molto allarmati sul pericolo rappresentato dalla possibilità che l'Iran si doti di un'arma nucleare. In particolare, in un discorso che ha tenuto al Congresso statunitense il 3 marzo, Netanyahu ha criticato molto i tentativi del governo americano di trovare un accordo con l'Iran per fermare il processo di sviluppo del nucleare, dicendo che è meglio non avere un accordo piuttosto che avere un "brutto accordo". Grossman è da sempre molto critico con Netanyahu ma dice che quello che ha detto il primo ministro israeliano al Congresso americano «a proposito dell'Iran e del suo ruolo distruttivo in Medio Oriente non si può e non si deve ignorare».
Grossman ha dato giudizi molto duri nei confronti degli Stati Uniti e del loro modo di portare avanti i negoziati con l'Iran. Ha detto di credere che Netanyahu ha individuato nella giusta maniera il modo maldestro e "persino ingenuo" con cui gli Stati Uniti conducono le trattative:
«Netanyahu ha ragione quando sostiene che dopo dieci anni in cui gli Usa hanno preteso di mettere alla prova l'Iran, non esiste nessuna sanzione che impedisca a quel paese di diventare una potenza nucleare. E su questo in Israele non ci sono differenza fra destra e sinistra, non ci può essere tolleranza»
Grossman ha continuato dicendo che l'Iran è un pericolo reale, non solo per Israele:
«Si impadronisce di altri paesi del Medio Oriente, a partire dal Libano per mezzo di Hezbollah, passando per la Siria e che ha rapporti persino con i sunniti di Hamas a Gaza, per non parlare poi dello Yemen. Sta cercando di allargare il suo ambito di influenza, alleandosi e sfruttando gli elementi più militanti e fondamentalisti di quei paesi»
Se l'Iran dovesse ottenere la bomba atomica, dice Grossman, la situazione diventerebbe ancora più complicata e pericolosa. Nell'intervista a Repubblica, Grossman ha detto anche di augurarsi comunque che Netanyahu non vinca le prossime elezioni, previste per il 17 marzo, e di credere che finché Netanyahu e Obama rimarranno ai loro posti sarà difficile vedere un miglioramento dei rapporti tra Israele e Stati Uniti. I due leader non hanno mai avuto buoni rapporti e il discorso al Congresso di Netanyahu, osteggiato dai Democratici e considerato da alcuni addirittura "anticostituzionale", li ha peggiorati ulteriormente.
(il Post, 5 marzo 2015)
Bambini ultra-ortodossi in maschera per il Purim
BNEI BRAK, Israele - Bambini ultra-ortodossi in maschera per il Purim, la festa che ricorda la salvezza del popolo ebraico dal pericolo di sterminio da parte dell'Impero persiano, e che è narrata nel libro di Ester.
Dopo il digiuno osservato nella vigilia, il Purim è caratterizzato da grandi festeggiamenti: banchetti, scambi di doni e distribuzione di cibo ai più poveri, e sfilate in costume simili a quelle del carnevale. La città di Bnei Brak si trova a est di Tel Aviv, in Israele, ed è abitata quasi esclusivamente da haredim, ovvero gli ebrei ortodossi.
(il Post, 5 marzo 2015)
Isis, allarme del New York Times: "Attenzione all'Iran"
Il quotidiano della Grande Mela contro il "paradosso" che emerge dalla guerra al terrorismo del governo Obama: "Teheran oggi è alleato, ma al tempo stesso nemico".
NEW YORK - Un alleato nella lotta contro l'Isis, ma pur sempre un nemico da cui difendersi. E' il paradosso emerso nelle ultime settimane negli Stati Uniti a proposito dei rapporti con l'Iran: da una parte, il presidente Barack Obama deve gestire le pressioni del partito repubblicano contro la repubblica islamica, con cui sta cercando di concludere un accordo sul programma per impedire che abbia un'arma nucleare, criticato ancor prima della stipula; dall'altra, la Casa Bianca sta diventando sempre più dipendente dai combattenti iraniani nella lotta contro gli estremisti dell'autoproclamato Stato islamico in Iraq e Siria. A parlarne è il New York Times.
Nei quattro giorni in cui le milizie iraniane guidate dal generale Qassem Suleimani si sono unite ai soldati iracheni per riconquistare la città di Tikrit, in Iraq, i funzionari americani hanno ribadito di non essersi coordinati con l'Iran, nella lotta contro il nemico comune. "Tecnicamente sarà pure vero", ma gli Stati Uniti stanno controllando da vicino la guerra che l'Iran conduce parallelamente contro l'Isis, anche per evitare "conflitti" nelle loro attività. Il risultato, secondo molti esperti di sicurezza nazionale interpellati dal New York Times, è che il coinvolgimento di Teheran sta aiutando gli iracheni a tenere la linea, finché gli americani non finiranno di addestrare nuove forze irachene. L'opinione più diffusa tra gli esperti è che la strategia statunitense sia stata finora un successo in gran parte grazie all'Iran, il cui intervento è stato decisivo in molte battaglie.
Il rischio, però, è che l'Iran guadagni un peso eccessivo in Iraq: giorni fa, il Washington Post ricordava che, dove una volta c'era la statua di Saddam Hussein, a Baghdad, ora c'è il ritratto del leader iraniano Ruhollah Khomeini. "Niente illustra meglio - commentava il quotidiano - la trasformazione in atto in Iraq". Uno dei timori è che le milizie sciite possano rendersi colpevoli di atrocità contro i sunniti, di cui già recentemente sono state accusate.
(Today, 5 marzo 2015)
Elezioni in Israele, sarà una sfida all'ultimo voto
Alle urne il 17 marzo. Netanyahu in recupero, ma rimane in vantaggio il centrosinistra di Yizhak Herzog e Tzipi Livni. La lista comune dei partiti arabi è la terza forza politica.
di Maurizio Molinari
GERUSALEMME - Netanyahu in recupero ma rimane il testa a testa in vista del voto del 17 marzo. Sono i sondaggi realizzati dopo il discorso del premier al Congresso di Washington ad indicare una leggera correzione di rotta nell'elettorato israeliano a favore del Likud che riduce a un seggio il distacco dal centrosinistra di Yizhak Herzog e Tzipi Livni (23 a 24), con la lista comune dei partiti arabi terza forza politica con 13 seggi, seguita da "Jewish Home" di Naftali Bennet e Yesh Atid di Yair Lapid appaiati a quota 12.
A conferma comunque che un certo impatto il discorso a Capitol Hill lo ha registrato, adesso il 44 per cento degli elettori ritengono che Netanyahu abbia aumentato le possibilità di rielezione. Ciò significa che la sfida all'ultimo voto diventa uno scenario verosimile con conseguente difficoltà nel formare il nuovo governo.
Sono intanto partiti gli spot radio e tv della campagna elettorale. Il Likud punta tutto sulla figura di Netanyahu che ricorda la fuga del nonno dall'Europa per sottolineare la ritrovata sicurezza nazionale grazie a Israele mentre il centrosinistra scommette sulle voci incrociate di Herzog e Livni, eredi di tradizioni politiche opposte, per rappresentare l'unità nazionale in nome del "sionismo" delle origini.
I verdi tentano di entrare in Parlamento presentandosi come il superamento della polarizzazione destra-sinistra e i religiosi di Shas cavalcano il bisogno di aiuto economico ai poveri mentre per la sinistra del Merez la priorità è cacciata di Bibi e per Yesh Atid il miglioramento della Sanità pubblica.
(La Stampa, 5 marzo 2015)
Il ritorno dei sefarditi in Spagna
di Luigi Medici
MADRID - Centoventuno ebrei sefarditi hanno ottenuto la cittadinanza spagnola nel periodo 2010-2013.
Secondi i dati del ufficiali, inoltre, un disegno di legge è attualmente all'esame del Parlamento per modificare la legislazione vigente, al fine di codificare le procedure per le domande e la concessione della cittadinanza per gli ebrei sefarditi. L'emendamento consentirà la doppia cittadinanza, quindi, per coloro che già ne detengono una che saranno in grado di mantenerla e acquisirne una seconda, come avviene in altri paesi Ibero-americani. I prerequisiti per l'acquisizione della cittadinanza prevedono che il richiedente debba avere un documento che attesti origini ebraiche, e che conosca il ladino, la lingua tradizionale parlata dagli ebrei in Spagna. Inoltre, il richiedente deve avere un certificato emesso dall'Unione delle Comunità Ebraiche di Spagna che confermi l'ascendenza sefardita. Dopo la caduta di Granada e le ultime roccaforti della popolazione musulmana in Andalusia nel 1492, i musulmani e gli ebrei furono espulsi dalla Spagna, dove avevano vissuto per circa otto secoli, mentre quelli che sono rimasti sono stati costretti a convertirsi al cattolicesimo.
(AGC, 5 marzo 2015)
La banda dei Sopravvissuti
di Daniela Gross
"Hanno provato a distruggerci. Siamo sopravvissuti. Andiamo a mangiare". La storia ebraica, dice una celebre battuta, si riassume così. Nel caso della Holocaust Survivor Band, anziché mangiare si suona. E da quei suoni si sprigionano un gusto per la vita e un'allegria che saziano l'anima e sono perfetti per Purim. Alla batteria c'è Saul Dreier, 89 anni; alle tastiere e fisarmonica Reuven "Ruby" Sosnowic, quattro anni più giovani.
Sono sopravvissuti alla Shoah, si sono rifatti una vita in America e la scorsa estate hanno lanciato la loro klezmer band. Piacciono così tanto che sono volati a Las Vegas ad aprire il concerto dell'israeliano Dudu Fisher e poi si sono fatti immortalare in un video del giovane filmaker Joshua Z. Weinstein. Un ritratto tra Woody Allen e il delizioso Buena Vista Sociale Club di Wim Wenders, che si intitola semplicemente "Holocaust Survivor Band" ed è rimbalzato anche nella prestigiosa rubrica Op-Docs del New York Times.
L'idea di mettere su una band è venuta a Saul. "Ho chiamato Ruby e gli ho detto che avevo un'idea. Mia moglie mi ha chiesto se ero matto. Il rabbino a che cosa mi serviva". Ma i due sono andati avanti. "Siamo dei veri sopravvissuti e dunque sappiamo cosa suonare per tutti" spiega Saul, che sembra uscire di peso da una commedia di Woody Allen. Il successo è arrivato alla svelta. Al primo concerto, al Temple Haim di Margate, hanno assistito 400 persone. Poi si sono esibiti in case di riposo, feste, cerimonie. Suonano un klezmer che trascina sulla pista da ballo anche i più malfermi. "Alla gente piace perché gli ricorda i vecchi tempi, quand'erano bambini" dice Ruby. E poi ci sono loro, i due musicisti. "Io piaccio per la mia età, lui perché è bello" scherza Saul.
Di scherzoso c'è però poco, nel loro passato. Saul, nato a Cracovia, è scampato a tre campi di concentramento. Rifugiatosi in America, dopo la guerra si è fatto un nome come costruttore. Ha scoperto il potere della musica nel lager, dove fra i suoi compagni vi era un famoso cantante. "Prendevo un cucchiaio e a un pezzo di legno. Lui cantava e io li facevo suonare come una batteria".
Ruby invece si è salvato dalla persecuzione grazie a un fattore polacco che lo ha nascosto. Dormiva tra le mucche ed è sopravvissuto cibandosi di avanzi trovati fra i rifiuti. Ha scoperto la fisarmonica dopo la fine del conflitto, in Germania dove era stato internato in un campo per displaced person. "Non avevano niente da mangiare, ma la musica vi faceva sentire vivi ed è questo che mi ha indotto a continuare". Una volta arrivato in America, ha lavorato tutta la vita come barbiere e musicista, suonando alle feste ebraiche nell'area attorno a New York e, una volta, perfino allo Studio 54.
Il klezmer riporta Saul e Ruby a un mondo che Hitler ha cancellato con ferocia. "Queste musiche mi fanno sentire come se vivessi la mia vecchia vita prima della Shoah" dice Saul. Più che parlare del passato il duo si gode però il suo presente di successo. "È stato grande suonare con Dudu Fisher a Las Vegas davanti a tanta gente, credo che siamo piaciuti quanto lui", dice Ruby. "Dovevamo suonare solo sette minuti - ribatte Saul - ma poi a Dudu Fisher e al pubblico la nostra musica è piaciuta così tanto che abbiamo finito per suonare 24 minuti filati. È stato un vero pandemonio".
Il video si chiude con i due che suonano sul lungomare, sullo sfondo di un cielo al tramonto e palme agitate dal vento. Difficile non commuoversi e non ricordare gli anziani musicisti cubani ritrovati da Wim Wenders, divenuti protagonisti del suo "Buena Vista Social Club" e poi di una serie di tour mondiali. Non resta dunque che sperare in un film. Magari per la regia di Joshua Z Weinstein, che ha già diretto altri bei documentari - "Drivers wanted", "Flying on one engine" e "Beat Mike Tyson" - ed è stato direttore della fotografia in numerosi progetti passati al Sundance Festival, a Toronto alla Berlinale e al Tribeca Film Festival.
(moked, 5 marzo 2015)
Città vecchia di Gerusalemme come israeliana: La Gran Bretagna blocca la pubblicità
di Roberta Papaleo
L'osservatorio britannico per gli annunci pubblicitari ha bandito un annuncio turistico del governo israeliano che implica che la città vecchia di Gerusalemme faccia parte di Israele. Il volantino mostra un panorama con le mura della città vecchia con accanto la frase "In Israele c'è tutto".
A sua difesa, l'Ufficio per il Turismo del governo di Tel Aviv ha negato che la pubblicità suggerisce che Gerusalemme Est e la sua città vecchia siano parte di Israele. La comunità internazionale considera la zona come territorio palestinese occupato, mentre Israele la reclama come parte della sua capitale.
(ArabPress, 5 marzo 2015)
Secondo l'articolista la città vecchia di Gerusalemme non è israeliana e il governo di Israele non sta a Gerusalemme, ma a Tel Aviv. Netanyahu viene attaccato per il suo atteggiamento verso l'Iran, ma il fatto più importante di lui è che non sarebbe mai disposto a dividere Gerusalemme. Quand'anche si arrivasse a degli accordi compromissori su tutti i punti. alla fine si arriverebbe al nodo fondamentale: Gerusalemme. La Bibbia è ancora una volta confermata. M.C.
Volete sapere tutto sul vino kasker? Oggi, a Trani, se ne parla nel corso di Lech lechà
Nel pieno della festa di Purim e, di conseguenza, delle manifestazioni di Lech lechà, oggi Trani offre un nuovo, accattivante spaccato di enologia in chiave ebraica. Infatti, proprio nel cuore della Settimana di arte, cultura e letteratura ebraica, per la prima volta si parlerà in maniera diffusa ed approfondita del vino kasher: «Antichità e complessità di una tradizione» è il titolo della conferenza in programma oggi, alle 17, presso la sinagoga Scolanova, a cura di Cosimo Yehudàh Pagliara
La cucina kasher dispone di alimentarsi solo con cibi rispondenti a regole ben precise di provenienza, trattamento e preparazione. Alcune di queste regole riguardano, specificamente, il vino, bevanda che ha un importante ruolo nella cultura ebraica sia sotto il profilo strettamente alimentare, sia religioso.
La parola ebraica "Kasher" o "Kosher" significa, appunto, conforme alla legge, consentito cioè da regole millenarie presenti nei testi sacri all'Ebraismo e seguite dagli ebrei di tutto il mondo. Esiste, infatti, un divieto di bere vino o cucinare con aceto di vino che non sia supervisionato dal Rabbino. Ciò è da collegarsi soprattutto al fatto che il vino, per la religione ebraica, è legato alla santificazione del sabato e delle festività che ruotano intorno alla vita degli ebrei, ed ecco perché l'iter per la sua produzione presenta determinate peculiarità.
Ecco alcune delle principali regole da osservare: la kasherizzazione dei tini, o tank in acciaio, attraverso successive operazioni, lavaggio con acqua calda e soda, riempimento e svuotamento successivo nell'arco di settantadue ore per tre volte con acqua fredda; la raccolta dell'uva, da effettuarsi rigorosamente a mano, per evitare che la macchina compia la prima macinatura.
Nel corso di Lech lechà, la garanzia che per il vino utilizzato siano state eseguite tutte le accortezze previste è assicurata dall'Antica casa vinicola Leuci, di Guagnano (Lecce), unico produttore in Puglia di vino kasher e fornitore, appunto, della manifestazione.
(il Giornale di Trapani, 5 marzo 2015)
Il discorso al Congresso Usa fa salire Netanyahu nei sondaggi
di Eric Salerno
Benjamin Netanyahu è tornato a casa da Washington con la possibilità di ottenere due seggi parlamentari in più (secondo gli ultimi sondaggi sulle prossime elezioni) molte critiche e analisi discordati sugli effetti e i messaggi veri e occulti del suo infuocato discorso sulla minaccia iraniana. E sui possibili effetti a lungo termine dello sgarbo nei confronti del presidente Obama e dell'intelligenza stessa degli americani, come si legge in una dichiarazione di Nancy Pelosi, leader della minoranza democratica al Congresso. Tutti concordano sulla necessità di impedire all'Iran di arrivare a poter creare un'arsenale nucleare ma nessuno più di Netanyahu né ha parlato in questi anni spesso esagerandone il pericolo e i possibili tempi di attuazione. Nel 1993, diceva che Teheran avrebbe avuto la bomba nel 1999, titola scettico il sito Ynenews mentre il quotidiano della sinistra di Tel Aviv, Haaretz, ha accusato il primo ministro di cavalcare la "retorica sperando di vincere le elezioni" e di non aver mai citato "l'unica vera minaccia all'esistenza d'Israele", ossia il mancato accordo con i palestinesi.
A una settimana dal voto (il 17 marzo), le scommesse su chi sarà il prossimo premier sono giocate con stretti margini. Così come i sondaggi danno due seggi in più a Netanyahu (23 su 120), l'opposizione guidata dai laburisti in una coalizione chiamata Campo sionista è attestata sullo stesso numero. Qualche analista israeliano ha voluto leggere nel discorso del premier la consapevolezza di una possibile sconfitta personale ma anche il desiderio di cadere in piedi. Se il mondo abbandonerà Israele, ha detto, Israele saprà agire da sola. Sarebbero le parole con cui Netanyahu, si starebbe offrendo come ministro della Difesa in un eventuale governo guidato dal leader del centro-sinistra Herzog. Altri analisti, sia in Israele che negli Stati Uniti, sottolineano quella parte del discorso del premier in cui si dice, per la prima volta, disposto a sottoscrivere un accordo con Teheran. Non quello che Obama si prepara ad accettare bensì un altro più articolato.
Il problema di Rohani
C'era poco o nulla di nuovo nella sua formula e finito il pathos d'attesa per il discorso al Congresso e per la polemica Netanyahu-Obama, l'attenzione degli israeliani sarà riportata su gli altri temi della campagna elettorale. Mentre il mondo aspetta di capire se i negoziatori occidentali e i rappresentanti iraniani riusciranno a mettersi d'accordo. Teheran non ha sprecato molte parole per rispondere a quelle di Netanyahu e ieri le parti si sono nuovamente incontrati in Svizzera. Qualche passo in avanti c'è stato ma molto, secondo il segretario di stato americano Kerry, resta da fare. La posizione iraniana è stata ribadita dal presidente Rohani: non sarà accettato un accordo sul nucleare che violi i diritti della nazione. Tradotto in termini pratici, la leadership di Teheran deve rispondere alle critiche dei fondamentalisti e deve portare a casa un accordo che suoni vittoria e non sconfitta.
I tempi cominciano a stringersi. Entro la fine di marzo le potenze del 5+1 (Usa, Gran Bretagna, Cina, Francia, Russia e Germania) vogliono arrivare a un accordo quadro da finalizzare a giugno. L'Iran avrebbe accettato di ridurre la propria capacità di produrre combustibile nucleare per almeno i prossimi dieci anni. In cambio insiste per l'eliminazione delle sanzioni che aggravano seriamente sulla sua economia. In particolare quelle legate alla vendita di petrolio, settore ancora più importante in un momento in cui il prezzo del greggio ha raggiunto livelli storicamente molto bassi.
(Il Messaggero, 5 marzo 2015)
La capitolazione di Obama
Nei confronti dell'islamismo estremista ha scelto fin dall'inizio un percorso di appeasement che non ha funzionato.
Neville Chamberlain non era né anti-europeo né antisemita. Firmò l'accordo di Monaco del 1938 con Adolf Hitler nella ferma convinzione che fosse la cosa migliore per evitare la guerra in Europa. Barack Obama non è Chamberlain, non è neanche anti-israeliano e certamente non è antisemita.
Ma fin dall'inizio ha scelto un percorso di appeasement nei confronti dell'islamismo estremista, sia sunnita che sciita. Il suo discorso da adulatore del 2009 al Cairo, all'inizio della sua presidenza, non ha funzionato. Al culmine della crisi dell'estate 2014 a Gaza, quando abbiamo assistito alla nascita di due assi - l'asse pro-Hamas Turchia-Qatar e l'asse Egitto-Arabia Saudita leggermente più moderato - il governo degli Stati Uniti ha optato per quello pro-Hamas. In quei giorni John Kerry venne quasi cacciato dal Cairo....
(israele.net, 5 marzo 2015)
Vichy, il carabiniere che salvò 3.000 ebrei
In relazione ad un articolo che abbiamo riportato sul nostro sito, abbiamo ricevuto la seguente richiesta di informazioni che pubblichiamo nella speranza che qualcuno abbia delle notizie da fornire.
Buongiorno sono il Dr. Enzo Masci, già Luogotenente dei Carabinieri in quiescenza, unitamente all'amico storico Damiano Leonetti, cerchiamo notizie sul Capitano dei Carabinieri Massimo Tosti, dei suoi familiari, e di tutte quelle persone che sono in grado di darci notizie utili, per la realizzazione di un Libro alla memoria di un "Eroe" di altri tempi che ha salvato preziose vite umane da una morte certa.
Grazie Mille in anticipo
Dr. Enzo Masci
Cecina (LI)
info@photoenzomasci.it
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(Notizie su Israele, 5 marzo 2015)
Un'antenna contro l'odio
Istituita nel settembre del 2014 su mandato dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, l'Antenna antisemitismo della Fondazione Centro Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano si propone di offrire un supporto alle persone vittime o testimoni di una discriminazione oltre a un'attività di monitoraggio a beneficio delle istituzioni chiamate ad intervenire a riguardo. "Dopo una prima fase di rodaggio, il servizio sta andando finalmente a regime e mostrando tutta la sua utilità" spiega la sociologa Betti Guetta, commentando i dati dell'ultimo rapporto stilato dai ricercatori del Cdec (15 dicembre-28 febbraio): 43 le segnalazioni pervenute, sette telefoniche e 36 via mail attraverso la compilazione del formulario presente nel sito www.osservatorioantisemitismo.it.
"È ancora presto per poter stabilire il trend dell'antisemitismo e la sua reale consistenza. Serviranno ancora dei mesi e servirà che il servizio sia ancora più capillarmente diffuso così da poter effettuare delle comparazioni scientifiche. Ma alcuni elementi confermano l'importanza dell'antenna: in primis - sottolinea la sociologa - il fatto che si raccolgano segnalazioni da diverse città italiane e non solo da Roma e Milano, nostro principale bacino d'utenza; e poi il fatto che la maggioranza degli episodi di cui veniamo a conoscenza risulti inedita al momento del contatto".
Aggregate in dieci tipologie ideate dall'osservatorio a fini analitici, le segnalazioni sono suddivise in aggressioni fisiche contro le persone, antisemitismo nel web, antisemitismo nei media, graffiti, grafica e scritte, diffamazione e insulti, discriminazione, violenza estrema contro le persone, minacce alle persone, vandalismo. A verificarsi - si legge nella relazione - sono stati in particolare episodi di antisemitismo o manifestazioni di pregiudizio antiebraico sul web (25 casi), seguiti dalle seguenti casistiche: "diffamazione ed insulti" (6), "graffiti, grafica e scritte" (2), "vandalismo" (1), "minacce" (1). Sono state inoltre segnalate offese di matrice antisionista (5) e forme di banalizzazione del nazifascismo e della Shoah (3).
(moked, 4 marzo 2015)
L'occhio di Robert Capa su Israele
In mostra a Tel Aviv gli scatti del grande fotografo americano realizzati tra il 1948 e il '50
di Maurizio Molinari
GERUSALEMME - La dichiarazione di Indipendenza, la nave «Altalena» avvolta dalle fiamme, Menachem Begin mentre parla ad una piccola folla, l'arrivo dei profughi dall'Europa e i nuovi israeliani in transito nei campi «ma'abarot»: sono alcune delle immagini della nascita dello Stato di Israele scattate da Robert Capa ed ora esposte al Tel Aviv Museum of Art in una mostra curata da Raz Samira. Il fotografo americano, di origine ebraica-ungherese, aveva già scattato immagini entrate nella Storia del Novecento: da Leon Troskty alla guerra civile spagnola, dallo sbarco in Normandia ai cecchini tedeschi che a Parigi sparavano sulle folla nel giorno della liberazione.
La scelta di andare a raccontare la nascita dello Stato Ebraico viene ora ricostruita da Eugene Kolb, ex direttore del Museo di Tel Aviv, che intervistò Robert Capa nel 1948. «Ci sono solo due nazioni al mondo dove, appena arrivi, ti chiedono cosa pensi di loro - gli disse Capa - l'Urss e Israele, all'inizio ci si sente in imbarazzo ma poi si comprende il perché: sono le uniche ad aver creato qualcosa di nuovo, diverso da qualsiasi altro precedente». Era questo l'approccio di Robert Capa a Israele. Figlio di un sarto di Budapest, nato con il nome di Endre Friedman, Capa nell'intervista che diede nel 1948 ad «Al-Hamishmar» ammise di «non essere sionista» ma anche di «aver cambiato idea dal momento del mio arrivo nella Terra di Israele perché ho appreso che per la maggioranza degli ebrei del mondo non c'è altra alternativa».
Capa rimase in Israele fino al 1950 e durante la fase più cruenta della guerra di Indipendenza si trovava sul fronte di Latrun, dove gli israeliani subirono pesanti perdite. Fra le testimonianze raccolte nella mostra c'è anche un dispaccio di Moshe Pearlman, primo portavoce militare, che scriveva: «Capa ha simpatie di sinistra, è diventato famoso durante la guerra in Spagna per la propaganda anti-Franco ed in Cina per aver lavorato con le forze comuniste, bisogna aiutarlo nel suo lavoro ma poiché ha una notevole esperienza militare, suggerisco di farlo accompagnare sempre da un uomo dei servizi di sicurezza».
(La Stampa, 4 marzo 2015)
Parigi - Tre mandati d'arresto per un attentato antiebraico del 1982
La giustizia francese ha emesso alcuni mandati internazionali d'arresto nei confronti dei presunti responsabili di un attentato compiuto nel 1982 in un quartiere ebraico di Parigi e costato la vita a sei persone.
Destinatari dei provvedimenti sono tre palestinesi, localizzati in Cisgiordania, Giordania e Norvegia, e sospetatti di aver fatto parte del commando che ha agito in Rue des Rosiers.
Nonostante i progressi dell'inchiesta, non è però scontato che i tre presunti terroristi arrivino davanti a un tribunale francese.
"Le procedure per l'estradizione sono complesse e quindi ci sarà un'altra battaglia per ottenere che le persone siano ascoltate dal giudice. Ma è molto importante, anche se molto tempo dopo, ottenere giustizia. Noi non ci rassegneremo mai".
Ancora oggi, più di 30 anni dopo, l'attentato resta impresso nella memoria di molti.
"Ogni volta che passo da qui vedo mio padre, il nome di mio padre e quello di tutti gli altri. Ecco, non posso dimenticare. Cosa mi attendo adesso dalla giustizia francese? Mi attendo un processo che condanni i responsabili".
Secondo l'inchiesta l'attentato sarebbe stato condotto da Fatah-Consiglio rivoluzionario, un gruppo palestinese facente capo ad Abu Nidal e in conflitto con l'Olp.
(euronews, 4 marzo 2015)
Io non avevo paura
di Sivan Kotler *
"Hai paura?", mi ha chiesto in un'intervista un giornalista spagnolo alla ricerca di voci di esponenti della comunità ebraica. "No", ho risposto. "Preoccupata, forse un po' tesa?". "No". "Niente paura, quindi?", ha concluso con uno sguardo tra il perplesso e il deluso. "Niente", ho confermato, aggiungendo poi con un filo di voce: "Forse solo un po'". "Scusa, hai detto qualcosa?", ha chiesto alzando gli occhi dal suo piccolo blocco per gli appunti. "No, no nulla".
Su un tavolino non lontano campeggiava il titolo di un giornale che segnalava un antisemitismo in crescita: secondo una recente ricerca, negli ultimi sette anni il numero degli atti di antisemitismo è cresciuto.
Per un attimo ho pensato di dovermi giustificare, cioè spiegare che quella di non aver paura non era una scelta voluta o consapevole. Avrei potuto aggiungere qualche parola in più sul fatto che in alcuni momenti non puoi avere paura, non perché sia vietato, ma semplicemente perché non serve. Avrei potuto spiegare tutto questo mentre eravamo seduti in un bar affollato di turisti nel cuore del quartiere ebraico di Roma, a due passi dalle auto della polizia. Ma poi ho preferito di no.
Abbiamo continuato a parlare di tensioni, di paure, di antisemitismo e di minoranze. Insomma del solito e per nulla leggero bagaglio culturale che ci viene costantemente attribuito anche quando facciamo finta di dimenticarlo per strada. Abbiamo parlato della nuova moda degli inviati speciali che attraversano la città come un campo di battaglia, muniti di una telecamera (nascosta) e di una kippà.
È passato meno di un anno da quando, su Tablet, Michael Ledeen aveva descritto una fiorente e sicura comunità ebraica italiana. Gli ebrei italiani, scriveva, "si sentono decisamente più al sicuro in Italia rispetto ai correligionari di Francia e Regno Unito. Non c'è mai stato un movimento antisemita di massa, in Italia". La stessa Italia che, come scrive lo stesso giornalista sul Wall Street Journal, avrebbe l'occasione, per quanto riguarda l'antisemitismo, di distinguersi.
A pochi metri da noi, in via della Vite un negoziante ebreo è stato aggredito nel suo negozio da tre ragazzi incappucciati.
Abbiamo concluso l'intervista in silenzio. La mancanza di paura ormai sembrava un lontano ricordo. Un privilegio perduto.
* Giornalista israeliana
(Internazionale, 4 marzo 2015)
Le cinquanta soldatesse in maschera. La danza spopola in Israele
di Maurizio Molinari
GERUSALEMME - Cinquanta soldatesse che ballano nel cortile di una base nel Sud di Israele: è il nuovo video che spopola nello Stato Ebraico registrando 45 mila contatti a poche ore dal debutto online. Le soldatesse appartengono ad un reparto di "humvees", le jeep del deserto che possono anche essere dotate di armi pesanti, e nel video ballano - anche mascherate - simulando duelli con le spade, brindando con bicchieri vuoti e finendo per danzare tutte assieme al ritmo del rap Flo Rida. Israele è alla vigilia di Purim, la festa che ricorda lo scampato pericolo degli ebrei da un grande massacro nell'Antica Persia, e per celebrarla l'usanza è mascherarsi. Le soldatesse con il video vogliono far sapere al resto del Paese che è Purim anche dentro le basi militari, a dispetto di nemici vicini e lontani.
(La Stampa, 4 marzo 2015)
Sanremo ed il legame con gli ebrei
Un approfondimento sul legame tra gli ebrei e Sanremo.
di Pierluigi Casalino
"Della presenza di comunità ebraiche in tutta la Liguria e in particolare nel Ponente e nella vicina Francia sono numerose le tracce fin dall'epoca pre-romana e poi romana. Le alterne vicende che segnano la vita ebraica in tale zona sono state oggetto di studi e di riflessioni storiche di rilievo, anche in considerazione dei rapporti economici che gli ebrei tenevano con le autorità e le stesse genti locali. Si registra comunque anche una frequentazione anche di ebrei non residenti e provenienti da altre parti d'Italia e d'Europa. Ebrei originari di Casale Monferrato è segnalata sporadicamente, infatti, tra i secoli XVI e XVII a Savona, Pietra Ligure, nel Finalese e soprattutto a Sanremo. In quest'ultima città gli ebrei giungono dalla Germania per acquistare i cedri per la Festa dei Tabernacoli, mentre ad Albisola gli ebrei tedeschi chiedono il permesso a tenere banchi dei pegni durante la crisi generale che aveva anche la Liguria in quell'epoca. Sanremo era un crocevia di transito di ebrei sefarditi di derivazione maghrebina ed iberica, provenzale, ma anche genovese e dell'Europa centro-orientale per la complessità degli interessi commerciali e non di rado per assolvere incarichi diplomatici per questo o quel potentato europeo o musulmano, secondo la loro fine preparazione al negoziato e alla mediazione. In Sanremo gli ebrei avevano creato pure fondaci e banchi per concedere prestiti non solo a privati
Si può concretamente affermare che la documentazione relativa alla presenza degli ebrei a Genova e nelle Riviere comincia a diventare importante (le tracce precedenti risalgono comunque a periodi storicamente individuabili prima e durante l'antichità classica, ma anche medievale) dalla fine del XV secolo, in particolare, come già riportato in altre occasioni, dopo il 1492. In quell'anno, infatti, si registrò la diaspora del "popolo della legge" dalla Spagna, ma anche dalla Francia e dalla Germania, nonostante qualche eccezione, a seguito dell'emanazione di leggi anti-ebraiche. Ebrei di passaggio ce ne sono sempre stati e anche comunità sporadiche, ma in genere la frequentazione ebraica era assai ridotta. Ebrei a Genova e nell'intero Genovesato, ma anche nel resto della Liguria sono testimoniate, in realtà,da numerosi atti, spesso legate alle vicende della politica coloniale e mediterranea della Superba, ma anche a quelle concernenti quella della Cristianità. La convenienza a trattare con ebrei era rilevata da molti documenti del tempo. Gli Statuti di Sanremo già dall'anno 1453 regolavano e tutelavano l'acquisto da parte degli ebrei dei cedri e delle palme per la loro festa dei Tabernacoli (cedri e palme comprate a Sanremo dovevano essere dello stesso numero. Nei primi anni del XVII secolo, tuttavia, il taglio dell'erba fa registrare i primi disordini che accompagnarono tale attività nel corso del secolo. Nel 1604 il Consiglio di Stato di Sanremo lamenta che gli ebrei arrivati in quell'anno si erano procurati già i cedri e le palme altrove e che quindi ne sottraevano in modo indebito alla città. Le autorità genovesi riferiscono al riguardo che tre ebrei provenienti da località imprecisate erano stati arrestati e poi multati dal governo di Sanremo, anche per aver giocato alle carte in un'osteria, violando le norme di Genova. In particolare durante l'interrogatorio di tali soggetti rivelò che uno di essi si recava a Sanremo con passaporto rilasciato dall'imperatore, parlava italiano ed era diventato amico dell'oste, il quale durante il processo aveva fatto da interprete a favore degli ebrei. In ogni caso questi ultimi non erano stati trovati colpevoli di disprezzo della religione cristiana.Il rabbino di Genova, perciò, non fu invitato a imporre il copricapo giallo a tali correligionari. Su questi ed altri episodi concernenti la presenza ebraica a Sanremo si tornerà in altra occasione".
(Sanremo News, 4 marzo 2015)
Il Comune di Rimini onora la Giornata europea dei Giusti
"Un evento - ha detto l'assessore ai servizi al cittadino Irina Imola aprendo la cerimonia - con cui la città di Rimini conferma il proprio impegno non solo nel preservare la memoria della storia della deportazione e della Shoah".
Il Comune di Rimini onora la giornata dei Giusti promossa dal Parlamento europeo "per commemorare il 6 marzo coloro che si sono opposti con responsabilità individuale ai crimini contro l'umanità e ai totalitarismi". Delle tre iniziative in programma, momento centrale sarà l'apposizione della targa commemorativa per onorare il Giusto tra le Nazioni Guido Morganti, il "sarto di Cattolica" che, nel novembre del 1943, si prodigò in aiuto di un gruppo di ebrei ferraresi e mantovani in fuga dalla persecuzione razziale, conducendoli nella vicina Mondaino, suo paese natale, dove vissero sotto falso nome fino al termine della guerra. I salvati, appartenenti alle famiglie Finzi, Rimini e Vivanti, erano tredici di cui sei i bambini.
Il nome di Guido Morganti andrà così ad aggiungersi a quelli di Ezio Giorgetti, albergatore bellariese, e Osman Carugno, maresciallo dei Carabinieri, nominati Giusti fra le Nazioni dallo Yad Vashem in Israele, e degli uomini e delle donne che tra il 1943 e il 1944 diedero rifugio e protezione sul territorio riminese e il Montefeltro a 41 ebrei stranieri in fuga dalle deportazioni. Il momento celebrativo avrà inizio alle ore 11,30 nel Giardino dei Giusti presso il Parco XXV Aprile (nella zona attrezzata lato Ponte di Tiberio) inaugurato lo scorso anno dal Comune di Rimini in ricordo di tutti coloro che durante la dittatura nazi-fascista non esitarono a rischiare la propria vita per prestare soccorso agli ebrei perseguitati.
"Un evento - ha detto l'assessore ai servizi al cittadino Irina Imola aprendo la cerimonia - con cui la città di Rimini conferma il proprio impegno non solo nel preservare la memoria della storia della deportazione e della Shoah a cui ha dedicato da cinquant'anni un progetto specifico di Educazione alla Memoria, ma anche la volontà di promuovere una politica di educazione alla responsabilità individuale, nella convinzione che al racconto del male e dell'orrore dei campi di concentramento e dei genocidi vada affiancato il ricordo del bene e dell'eroismo quotidiano. È necessario ricordare e onorare quella minoranza di uomini e donne comuni, che scelsero di non rimanere indifferenti ed ebbero comportamenti coraggiosi e solidali, per dimostrare che, la scelta secondo coscienza, anche in un contesto di brutale dittatura, è sempre possibile."
Nella serata invece, con inizio alle ore 21 al Teatro degli Atti di via Cairoli, lo spettacolo teatrale "la Scelta" scritto e interpretato da Marco Cortesi e Mara Moschini che racconteranno quattro storie vere di coraggio, fratellanza e di libertà, provenienti da uno dei conflitti più atroci, sanguinosi e assurdi che l'essere umano abbia mai combattuto: la guerra nella ex Jugoslavia negli anni Novanta. Raccolte da Svetlana Broz (nipote di Tito) che ha lavorato sul fronte di guerra come medico, queste quattro storie sono esempi di eroismo e umanità, di persone che hanno avuto il coraggio di scegliere di rompere la catena dell'odio e della vendetta per salvare un altro essere umano. Al termine dello spettacolo, incontro e dibattito con gli artisti, coordinato da Fabio Cassanelli e Patrizia Di Luca con la partecipazione di Irina Imola, assessore del Comune di Rimini.
Si terrà venerdì 13 marzo, invece, l'ultimo appuntamento con le iniziative promosse dal Comune di Rimini con l'incontro pubblico "I Giusti, testimoni della legge di Antigone", in programma dalle ore 17 nella Sala del Giudizio del Museo della Città, con interventi del dott. Enrico Calamai, diplomatico italiano che in Argentina riuscì a mettere in salvo più di trecento perseguitati dal regime militare e ora portavoce del Comitato "Giustizia per i nuovi desaparecidos", e il dott. Emilio Drudi, giornalista che interverrà su "L'eredità di Auschwitz. La memoria come assunzione di responsabilità". "Oggi più che mai informarsi, conoscere è un diritto e un dovere di tutti - ha detto l'assessore ai Servizi generali Irina Imola che introdurrà la serata - per non essere complici e combattere le atrocità di cui siamo spettatori ogni giorno. Le istituzioni devono dunque promuovere con sempre più forza eventi di questo tipo rispondendo alla "legge d'Antigone" proprio come fecero i Giusti."
(RiminiToday, 4 marzo 2015)
Venti teli ricamati dalle detenute di San Vittore
Per ricordare le donne incarcerate tra il 1943 e il '45
CASALE-SINAGOGA Si intitola il "Filo Dimenticato" la mostra che si inaugura l'8 marzo alle ore 16,00 in Sala Carmi, ma è molto di più di un insieme di opere d'arte, è insieme un momento di ricordo, di riscatto sociale e di arte. Merito di Alice Werblowsky giornalista del TG5 che conosce bene Casale (una sua lampada è al museo dei lumi) che ha ricostruito la storia delle detenute di San Vittore negli anni bui del nazifascismo con la collaborazione proprio delle donne rinchiuse oggi nel carcere milanese.
Tutto nasce dalla scoperta in un bric-à-brac parigino di una scatola di fili da ricamo, presumibilmente appartenuta ad una donna ebrea deportata ad Auschwitz e, grazie alla collaborazione di 23 detenute di San Vittore (italiane, slave, sud-americane e rom), si sviluppa un progetto tutto al femminile per raccontare un periodo storico dimenticato ma anche una bellissima occasione di conoscersi e crescere insieme. Le opere sono venti teli, alcuni ricamati sulle lenzuola del carcere, che raccontano venti drammatici episodi accaduti a San Vittore tra il 1943 e il 1945. Un percorso inusuale ed emotivamente toccante attraverso un biennio drammatico della storia italiana e in particolare milanese che ha visto le S.S. trasformare uno dei più conosciuti istituti di pena di Milano in un vero campo d'internamento nel quale furono reclusi, in condizioni disumane, centinaia e centinai di ebrei e detenuti politici.
A loro arrivo al penitenziario gli ebrei infatti non venivano registrati con nome e cognome, ma solo con la lettera E seguita da un numero (E1, E2, E3
): niente più identità, isolamento totale. Subirono torture, stupri e violenze. Del gruppo di 600 adulti e 50 bambini partiti da San Vittore il 21 gennaio del 1944 con destinazione Auschwitz-Birkenau tornarono solo 14 adulti e una ragazzina di 13 anni: Liliana Segre. La mostra racconta anche altri episodi di grande umanità come la storia di Andrea Schivo, la guardia di San Vittore che di nascosto diede da mangiare ai bambini. Fu scoperto e mandato nel campo di Flossenburg, dove trovò la morte (oggi è un Giusto tra le Nazioni nel Giardino dei Giusti dello Yad Vashem a Gerusalemme). O come la storia di Giuseppe Grandi, il giardiniere che aiutò molti ebrei a raggiungere la Svizzera. Arrestato, fu portato a San Vittore e poi a Buchenwald in Germania da dove non tornò. O ancora quella di suor Enrichetta Alfieri, chiamata l'angelo di San Vittore, che nascosti nelle maniche della sua veste, portava fuori dal carcere i messaggi dei prigionieri alle famiglie, chiamati in codice le farfalle. Scoperta dai tedeschi fu rinchiusa per tre settimane in una cella buia nei sotterranei del carcere.
La mostra sarà presentata da Liliana Picciotto, storica del CDEC Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC) di Milano per il quale ha scritto l'opera di riferimento "Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall'Italia 1943-1945 e ha al suo attivo per Mondadori diversi volumi dedicati alla storia degli ebrei italiani e saggi pubblicati sulle principali riviste internazionali di storia.
L'ingresso alla mostra è libero, sarà visitabile fino al 22 marzo, la domenica durante gli orari di apertura della comunità o su richiesta telefonando al 014271807, info www.casalebraica.org
(Il Monferrato, 4 marzo 2015)
Il gladiatore va al Congresso
La parola chirurgica di Netanyahu colpisce la linea dell'accordo sul nucleare iraniano. I piani per la chiusura entro il mese sconvolti. Toni churchilliani contro la "peace in our time". Obama nei guai.
di Giuliano Ferrara
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Netanyahu conclude il suo discorso |
Churchill aveva molto sense of humour. Bibi Netanyahu, come ci ha raccontato Giulio Meotti, ne è totalmente sprovvisto. Ma ha il dono della parola chirurgica, e con il discorso di ieri al Congresso degli Stati Uniti (il terzo in ordine di tempo, privilegio condiviso con il solo Churchill) ha fatto sanguinare i sognatori e i politicanti, che spesso sono la stessa persona, intenti a legittimare la via al nucleare degli ayatollah iraniani per un risultato da vendere come la famosa "peace in our time" promessa dopo la conferenza di Monaco da Chamberlain. Sono grato a Obama e al Congresso, a tutto il popolo americano e alle sue istituzioni, per quanto hanno fatto e fanno per sostenere Israele e con Israele un assetto del mondo sottratto ai lupi rapaci del radicalismo islamico, ha esordito il primo ministro. Ma ora la sfida del nucleare iraniano è esistenziale, un medio oriente nuclearizzato è un incubo, e un accordo migliore di questo "very bad deal" è l'alternativa per la quale bisogna lavorare senza tentennamenti, e sono sicuro che alla fine l'America sarà dalla mia parte, ha concluso. L'atmosfera era da stadio, come si dice.
Le ovazioni, in piedi, non finivano mai. Il discorso di cinquanta minuti ha puntato subito sulla natura rivoluzionaria, nel senso di jihadista, del regime islamico militante che ha preso su di sé la missione di conquista e assoggettamento degli infedeli nel lontano 1979. In regime di sanzioni gli iraniani si sono già presi Baghdad, Beirut, Damasco e Sanaa - ha detto Netanyahu nella sua lingua autorevole, pesante, razionale, consequenziale - e i contenuti dell'accordo in dirittura d'arrivo, quelli che puoi verificare su Google, non c'è bisogno di intelligence, sono pessimi.
Se il segretario di stato John Kerry siglerà il testo in elaborazione a Ginevra, secondo il capo di Israele, l'infrastruttura per l'arricchimento dell'uranio sarà parzialmente ridotta ma resterà intatta, solo disconnessa, e per un periodo che nella storia delle nazioni e delle generazioni è un "battito di ciglia", dieci anni. La fine delle sanzioni non avrà in contropartita alcuna attenuazione dell'aggressività internazionale iraniana. Il contrasto tra gli ayatollah e lo stato islamico è una lotta di potere nel jihad, è un deadly game of thrones (e qui Bibi ha occhieggiato al fantasy drama della Hbo, con un abbozzo di umorismo macabro): in questo caso, e ha inciso le parole fra gli applausi scroscianti, il nemico del tuo nemico è un tuo nemico.
Il gladiatore israeliano non ha risparmiato nessuno degli argomenti efficaci: si è fatto beffe degli ispettori, che possono constatare le violazioni di un accordo ma non fermarle, e il break out, il tempo entro cui si può passare alla bomba, è troppo breve per essere decentemente sopportato. Ha citato il cheating, la truffa, come una caratteristica comprovata dell'atteggiamento e della pratica iraniana in fatto di nucleare lungo gli anni (menzionato il caso analogo e penoso della Corea del nord). Poi ha usato il linguaggio sprovveduto di Kerry, famoso gaffeur, quando ha definito "legittimo" il progresso controllato verso il nucleare di Teheran nell'arco dei dieci anni, vero oggetto dell'accordo di cui, ha aggiunto, "loro hanno bisogno più di quanto noi ne abbiamo bisogno". Linguaggio semplice ma non spiccio, Bibi, amico personale di mezzo Congresso, ha spersonalizzato il conflitto con la presidenza Obama e così lo ha reso politicamente incandescente. Si è posto retoricamente sopra ogni forma di partisanship, fino a citare le ragioni esistenziali e profeti che del popolo ebraico in nome di Mosè e della regina Ester, e così ha inferto colpi duri al partito dell'accordo. Non ha alluso neanche per un istante alla guerra, così ha potuto rifiutare senza attenuazioni una pace che giudica falsa, fondata su una resa all'inevitabile, la fine di una necessaria resistenza.
L'Iran spinge disperatamente per un accordo entro la fine del mese, che comprenda l'immediato rilascio delle sanzioni (mal sopportate da Europa, Cina e Russia). L'ex portavoce dei primi negoziati (2003-2005), oggi "studioso" a Princeton, Seyed Hossein Mousavian, aveva spiegato ieri mattina al Daily Telegraph quello che il ministro degli Esteri iraniano Zarif non può ragionevolmente rendere pubblico: se non firmate ci ritiriamo dal trattato di non proliferazione nucleare e vi costringiamo da posizioni regionali di forza a una guerra. Netanyahu non si lascia impressionare e mette Barack Obama in seri guai.
(Il Foglio, 4 marzo 2015)
L'amore Usa-Israele batte Obama
di Fiamma Nirenstein
"Cari membri del Congresso e del Senato, ho un amore profondo per l'America e rispetto il presidente Obama, ma quell'accordo con l'Iran è un cattivo accordo. Se lo firmate sancite la distruzione del popolo ebraico e la rovina del mondo intero. E se questo avverrà e ci troveremo nella necessità di farlo, ci difenderemo da soli". Chiaro, semplice, contenuto in toni bassi per placare le polemiche che hanno disegnato il viaggio di Bibi Netanyahu a Washington come una sfida al presidente americano Obama, pure il primo ministro israeliano non ha perso l'occasione, e senza mai alzare la voce ma senza rinunciare a esser diretto e anche duro ha ottenuto 23 standing ovation. Perché l'America ama Israele, anche se Obama ha condotto la sua battaglia contro l'invito delle due Camere a parlare dell'Iran.
Obama sapeva che Netanyahu la pensa in modo tale da trascinare il Congresso a un veto su un accordo troppo morbido, e si è innervosito. Del resto Netanyahu non gli è mai stato simpatico, anche se Bibi l'ha ringraziato delle mille volte in cui gli Usa hanno aiutato Israele. Ma Bibi aveva uno scopo, e fra gli applausi l'ha perseguito: l'accordo cui in queste ore lavorano Kerry con il ministro degli Esteri iraniano Zarif in Svizzera è un errore fatale, simile a quello compiuto da Neville Chamberlain quando negò la pericolosità di Hitler, ha detto.
Bibi è stato accompagnato da un coro di prefiche israeliane dato il periodo elettorale, che hanno previsto la fine dell'amicizia con l'America. Ieri, non si vedeva davvero: il premier israeliano ha entusiasmato le Camere unificate per la terza volta, unico premier che abbia avuto questo onore oltre a Winston Churchill. La platea ha ascoltato con tesa attenzione, gli americani sentono in maniera molto diversa verso Israele rispetto al gelido opportunismo europeo. Anche dopo che 50 democratici che hanno annunciato la loro assenza ritenendo che il discorso programmato senza l'assenso di Obama fosse un affronto, e dopo un'intervista alla Reuters in cui Obama ha spiegato che niente è possibile se non la sua idea di accordo con l'Iran, pure Bibi è stato ascoltato da un pubblico pensoso e caldo, anche se ha detto cose che di sicuro hanno dato noia a Obama. C'era la preoccupazione che Bibi rivelasse qualche particolare delle informazioni segrete dei servizi americani e israeliani: ma con signorilità dopo aver riempito Obama di ringraziamenti Bibi ha detto che i particolari dell'accordo si trovano anche su Google, e poi ha attaccato.
Alla fine, Obama in sostanza ha dato a Bibi di fanatico nell'intervista, e Bibi lo ha tacciato di essere ingenuo e facilone. Tutto sottinteso, si capisce.
Netanyahu ha contestato il presidente americano suggerendo intanto di non firmare e di avviare una trattativa completamente diversa.
Bibi ha un piano che consta di tre punti, sul cui sfondo deve brillare il rifiuto totale di lasciare centrifughe in mano all'Iran, e la lotta per i diritti civili, disprezzati e fatti a pezzi dal regime islamista estremo dell'Iran, dove si impiccano gli omosessuali e si perseguitano le donne. Bibi ha giocato i suoi dadi: stanno ruzzolando, ed è già tanto nel mondo di Obama.
(il Giornale, 4 marzo 2015)
Il discorso perfetto di Bibi
Riportiamo dal Foglio ampi stralci del discorso che il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha tenuto ieri di fronte al Congresso degli Stati Uniti.
Cari amici,
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| Il discorso completo di Netanyahu |
sono molto onorato di poter parlare per la terza volta di fronte alla più importante istituzione legislativa del mondo, il Congresso degli Stati Uniti. Vi voglio ringraziare, so che il mio discorso è stato oggetto di grandi controversie. Mi dispiace molto che la mia presenza qui sia stata percepita come una mossa politica: non era mia intenzione. Vi voglio ringraziare democratici e repubblicani per il sostegno comune a Israele, anno dopo anno, decennio dopo decennio. Non importa da che parte dell'Aula siate seduti, so che siete dalla parte di Israele. La straordinaria alleanza tra Israele e gli Stati Uniti è sempre stata al di sopra della politica. Deve rimanere al di sopra della politica. Perché noi, americani e israeliani, condividiamo lo stesso destino, il destino di terre promesse che amano la libertà e offrono speranza. Israele è grato del sostegno del popolo americano e dei presidenti americani, da Harry Truman a Barack Obama. Apprezziamo tutto quel che Obama ha fatto per Israele. Ci sono cose che tutti voi conoscete, come il rafforzamento della cooperazione nella sicurezza e nella condivisione dell'intelligence, e l'opposizione alle risoluzioni anti israeliane dell'Onu.
Ma molte delle cose che Obama ha fatto per Israele non sono così note. L'ho chiamato nel 2010 quando ci fu l'incendio nella foresta Carmel e subito rispose alla mia richiesta di aiuto. Nel 2011, quando la nostra ambasciata al Cairo era sotto attacco, ancora Obama ci offrì assistenza vitale in un momento cruciale. Così come ci ha sostenuti con i missili intercettatori durante l'estate scorsa, quando abbiamo reagito contro i terroristi di Hamas. In tutti questi momenti ho chiamato il presidente, e lui c'era. E buona parte di quel che il presidente Obama ha fatto per Israele non sarà mai noto, perché tocca temi sensibili e strategici che sorgono tra un presidente americano e un premier israeliano. Ma io lo so cosa ha fatto, e sarò sempre grato a Obama per il suo sostegno. E Israele è grato a voi, parlamentari americani, per il vostro sostegno, per averci aiutato in tanti modi, soprattutto con un'assistenza militare generosa e con la difesa missilistica, incluso Iron Dome. Grazie. Grazie America per quello che hai fatto per Israele. Cari amici, sono venuto qui oggi perché, come primo ministro di Israele, sento di avere l'obbligo di parlarvi di una questione che può minacciare la sopravvivenza del mio paese e il futuro del mio popolo: la ricerca dell'Iran di armi nucleari.
Siamo un popolo antico. In 4.000 anni di storia, molti hanno cercato ripetutamente di distruggere il popolo ebraico. Domani sera nella festa ebraica di Purim leggeremo il Libro di Ester. Leggeremo del potente viceré persiano chiamato Haman che cercò di distruggere il popolo ebraico 2.500 anni fa. Ma una coraggiosa donna ebrea, la regina Ester, scoprì la congiura e diede al popolo ebraico il diritto di difendersi contro i nemici. L'attacco fu sventato, il popolo ebraico fu salvato. Oggi il popolo ebraico affronta un altro tentativo da parte di un potentato persiano di distruggerlo. La Guida Suprema dell'Iran, Ali Khamenei, vomita l'odio più antico, lo stesso odio antico antisemita, con le tecnologie più moderne. Twitta che Israele deve essere annientato. Twitta. Sapete, in Iran non c'è esattamente un internet libero. Ma lui twitta in inglese che Israele deve essere distrutto.
A quelli che pensano che l'Iran minaccia lo stato ebraico ma non il popolo ebraico, dico di ascoltare Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, il capo dei terroristi alleati dell'Iran. Ha detto: se tutti gli ebrei si riunissero in Israele, ci toglierebbero il disturbo di andarli a prendere in giro per il mondo. Ma il regime iraniano non è un problema soltanto
L'Iran pone una minaccia non soltanto per Israele ma per la pace del mondo intero. Per capire quanto pericoloso possa essere un Iran dotato di armi nucleari, dobbiamo capire bene la natura di questo regime.
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degli ebrei, così come il regime nazista non era un problema soltanto degli ebrei. I sei milioni di ebrei sterminati dai nazisti erano una frazione dei 60 milioni di persone uccise nella Seconda guerra mondiale. Così l'Iran pone una minaccia non soltanto per Israele ma per la pace del mondo intero. Per capire quanto pericoloso possa essere un Iran dotato di armi nucleari, dobbiamo capire bene la natura di questo regime. Gli iraniani sono persone talentuose. Sono gli eredi di una grandissima civiltà. Ma nel 1979 sono stati dirottati da fanatici religiosi che hanno imposto una dittatura cupa e brutale. Quell'anno, i fanatici scrissero una Costituzione nuova per l'Iran. Imponeva alle Guardie della Rivoluzione non soltanto di proteggere i confini dell'Iran ma anche di completare la missione ideologica del jihad. Il fondatore del regime, l'ayatollah Khomeini, esortava i suoi seguaci a "esportare la rivoluzione ovunque nel mondo". Io oggi sono qui a Washington, e la differenza è profonda. Il documento che è alla base dell'America promette vita, libertà e ricerca della felicità. Il documento fondativo dell'Iran promette morte, tirannia e la ricerca del jihad. E mentre alcuni stati collassano in medio oriente, l'Iran riempie i vuoti proprio per compiere questa missione.
Gli sgherri dell'Iran a Gaza, i suoi lacchè in Libano, le sue Guardie della Rivoluzione sulle alture del Golan stanno stringendo Israele con i loro tentacoli del terrore. Sostenuto dall'Iran, Assad sta ammazzando i siriani. Sostenute dall'Iran, le milizie sciite si stanno scatenando in Iraq. Sostenuti dall'Iran, gli Houthi stanno prendendo il potere in Yemen, mettendo a rischio gli stretti alla bocca del mar Rosso. Assieme allo stretto di Hormuz, questo concede all'Iran un secondo collo di bottiglia nella fornitura di petrolio nel mondo. Proprio la settimana scorsa, vicino a Hormuz, l'Iran ha fatto esercitazioni militari facendo esplodere una finta portaerei americana.
Questo solo la settimana scorsa, mentre erano in corso i colloqui sul nucleare con gli Stati Uniti. Ma sfortunatamente negli ultimi 36 anni gli attacchi dell'Iran contro gli americani non sono stati affatto uno scherzo. L'Iran ha preso decine di ostaggi a Teheran, ha ucciso centinaia di soldati americani, marine, a Beirut, e ha ucciso migliaia di americani, uomini e donne, in Iraq e Afghanistan. Al di là del medio oriente, l'Iran attacca l'America e i suoi alleati attraverso un network globale del terrore. Ha fatto esplodere il centro ebraico e l'ambasciata israeliana a Buenos Aires. Ha aiutato al Qaida a bombardare le ambasciate americane in Africa. Ha cercato di assassinare l'ambasciatore saudita, qui a Washington. Nel medio oriente, l'Iran ora ha il dominio su quattro capitali: Baghdad, Damasco, Beirut e Sana'a. E se l'aggressione dell'Iran resta senza conseguenze, ci saranno nuove conquiste. Mentre molti sperano che possa unirsi alla comunità internazionale, l'Iran è impegnato a trangugiare paesi. Dobbiamo stare uniti per fermare la marcia dell'Iran per conquistare, soggiogare e terrorizzare. Due anni fa ci fu detto di dare al presidente Rohani e al ministro degli Esteri Zarif una chance di portare cambiamento e moderazione nel paese. Che cambiamento! Che moderazione! Il governo di Rohani impicca gay, perseguita cristiani, imprigiona giornalisti e esegue condanne a morte contro più prigionieri di prima.
L'anno scorso, lo stesso Zarif che ammicca ai diplomatici occidentali ha fatto omaggio alla tomba di Imad Mughniyeh. Imad Mughniyeh è lo stratega del terrore che ha versato più sangue americano di tutti a
La battaglia tra Iran e Stato islamico non trasforma l'Iran in un amico dell'America. L'Iran e lo Stato islamico sono in competizione per il primato dell'islam militante. Entrambi vogliono imporre un impero islamico militante prima sulla regione e poi sul mondo intero.
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eccezione di Osama bin Laden. Mi piacerebbe vedere qualcuno fargli una domanda su questo. Il regime iraniano è fondamentalista come non mai, le sue urla "Morte all'America" - la stessa America che chiama Grande Satana - tuonano come non mai. Ora, questo non dovrebbe essere sorprendente, perché l'ideologia del regime rivoluzionario iraniano è radicata profondamente nell'islam militante, e questa è la ragione per cui questo regime sarà sempre nemico dell'America. Non fatevi ingannare. La battaglia tra Iran e Stato islamico non trasforma l'Iran in un amico dell'America. L'Iran e lo Stato islamico sono in competizione per il primato dell'islam militante. Uno si fa chiamare la Repubblica islamica. L'altro lo Stato islamico. Entrambi vogliono imporre un impero islamico militante prima sulla regione e poi sul mondo intero. Sono soltanto in disaccordo su chi sarà a governare quell'impero. In questo "Game of Thrones" mortale non c'è spazio per l'America o per Israele, non c'è pace per i cristiani, gli ebrei o i musulmani che non condividono lo stesso credo islamista medievale, non ci sono diritti per le donne, non c'è libertà per nessuno.
Per questo, quando si tratta di Iran e Stato islamico, il nemico del tuo nemico è il tuo nemico. La differenza è che lo Stato islamico è armato con coltelli da macellaio, armi rubate e YouTube, mentre l'Iran potrebbe essere presto armato con missili balistici intercontinentali e bombe nucleari. Dobbiamo sempre ricordare - lo dico ancora una volta - che il pericolo più grande che minaccia il nostro mondo è l'unione tra militanti islamici e armi atomiche. Battere lo Stato islamico e lasciare che l'Iran abbia le armi nucleari è vincere la battaglia ma perdere la guerra. Non possiamo lasciare che accada. Ma adesso, amici miei, è esattamente quello che potrebbe succedere, se l'accordo che in questo momento è negoziato sarà accettato dall'Iran. L'accordo non impedirà all'Iran di sviluppare armi nucleari. Non farà che garantire che l'Iran abbia quelle armi, un mucchio di quelle armi. Lasciate che spieghi perché. Mentre l'accordo finale non è stato ancora firmato, certi elementi di ogni potenziale accordo sono ormai di dominio pubblico. Non c'è bisogno dei servizi segreti per esserne a conoscenza o di informazioni d'intelligence. Potete cercarle su Google. Senza una cambio drastico sappiamo con certezza che ogni accordo con l'Iran includerà due grandi concessioni. La prima grande concessione lascerà all'Iran la sua vasta infrastruttura nucleare, grazie alla quale il tempo per arrivare alla bomba è molto ridotto.
E' il cosiddetto break-out time, il tempo che ci vuole per ammassare abbastanza uranio di grado militare o plutonio per una bomba nucleare. Secondo l'accordo, non un solo sito nucleare sarà demolito. Migliaia di
centrifughe usate per arricchire l'uranio saranno lasciate a girare. Migliaia saranno temporaneamente disconnesse, ma non distrutte. Siccome il programma nucleare dell'Iran sarà lasciato in gran parte intatto, il tempo di breakout sarà molto breve - circa un anno secondo le stime americane, ancora più breve secondo quelle israeliane. E se il lavoro dell'Iran su centrifughe avanzate, centrifughe sempre più veloci, non sarà fermato, quel tempo di break-out potrebbe essere ancora più breve. E' vero, certe restrizioni sarebbero imposte sul programma e ci sarebbe la supervisione degli ispettori internazionali. Ma ecco il problema: gli ispettori registrano violazioni, non le fermano. Gli ispettori sapevano che la Corea del nord stava per fare la Bomba, ma non fecero nulla. La Corea del nord spense le telecamere, cacciò via gli ispettori. In pochi anni, ottenne la Bomba. Ora, sappiamo che in cinque anni la Corea del nord potrebbe avere un arsenale di cento bombe atomiche.
Come la Corea del nord, anche l'Iran ha sfidato gli ispettori internazionali. Lo ha fatto in almeno tre separate occasioni , nel 2005, 2006, 2010. Come la Corea, l'Iran ha rotto i sigilli e spento le telecamere. Ora, so che questo potrebbe essere uno choc per ciascuno di voi, ma l'Iran non soltanto sfida gli ispettori, ma li inganna. L'agenzia nucleare delle Nazioni Unite ha detto di nuovo ieri che l'Iran rifiuta di essere chiaro sul programma nucleare. L'Iran è stato anche sorpreso - due volte, non una - a operare siti nucleari segreti a Natanz e Qom, siti che gli ispettori nemmeno sapevano esistessero. Proprio adesso, l'Iran potrebbe nascondere siti atomici di cui non sappiamo nulla, né in America né in Israele. Come disse il capo degli sipettori dell'Aiea nel 2013: "Se non c'è nessun sito segreto in Iran oggii , sarà la prima volta in vent'anni che c'è".
L'Iran ha già dimostrato di non meritare fiducia. E questo è il motivo per cui la prima grande concessione è una fonte di grande preoccupazione. Perché lascia l'Iran con una vasta infrastruttura nucleare e s'affida a ispettori per prevenire il break-out. Questa concessione crea il pericolo reale che l'Iran possa ottenere la bomba violando l'accordo. Ma la seconda grande concessione crea il pericolo ancora più grande per cui l'Iran potrebbe ottenere la Bomba mantenendo l'accordo. Perché virtualmente tutte le restrizioni sul programma nucleare dell'Iran scadranno automaticamente in circa un decennio. Ora, un decennio può sembrare molto tempo nella vita politica, ma è un battito di ciglia nella vita di una nazione. (
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La Guida Suprema dell'Iran lo dice apertamente. Dice che l'Iran pianifica di avere 190 mila centrifughe, non le seimila o perfino le 19 mila che ha oggi, ma dieci volte di più. Con questa capacità incredibile, l'Iran potrebbe produrre il combustibile per un intero arsenale nucleare nel giro di settimane, una volta che lo decide. Il mio amico di vecchia data, John Kerry, segretario di stato, ha confermato la scorsa settimana che l'Iran può possedere legalmente un'enorme quantità di centrifughe quando l'accordo scade. Ora, voglio che ci pensiate. Il maggiore sponsor del terrorismo globale può essere a settimane di distanza da avere abbastanza uranio arricchito per un arsenale intero di armi nucleari, e questo con la piena legittimazione internazionale. E inoltre il programma di missili intercontinentali dell'Iran non è parte dell'accordo, e finora l'Iran rifiuta anche di metterlo sul tavolo negoziale. Ora, l'Iran potrebbe avere i mezzi per lanciare questo arsenale nucleare agli angoli più remoti del mondo, compresa ogni parte degli Stati Uniti. Per cui vedete, amici, che questo accordo comporta due concessioni fondamentali: uno, lascia l'Iran con un ampio programma nucleare, e due, solleva le restrizioni su questo programma in circa un decennio.
E' per questo che questo accordo è così cattivo. Non blocca il cammino dell'Iran verso la Bomba. Fa strada all'Iran su questo cammino. E allora perché qualcuno vorrebbe fare questo accordo? Perché sperano
Non credo che il regime fondamen- talista dell'Iran migliorerà dopo l'accordo. Questo regime è stato al potere per 36 anni, e il suo appetito vorace per la violenza aumenta ogni anno.
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che l'Iran migliori nei prossimi anni o perché ritengono che le alternative a questo accordo siano peggiori? Beh, io sono in disaccordo. Non credo che il regime fondamentalista dell'Iran migliorerà dopo l'accordo. Questo regime è stato al potere per 36 anni, e il suo appetito vorace per la violenza aumenta ogni anno. L'Iran sarebbe meno aggressivo se le sanzioni fossero rimosse e la sua economia fosse più forte? Se l'Iran sta inghiottendo quattro nazioni ora che è sotto sanzioni, quante altre ne divorerà quando le sanzioni saranno sollevate? L'Iran finanzierà meno il terrorismo quando avrà montagne di denaro con cui finanziare di più il terrorismo? Perché il regime estremista dell'Iran dovrebbe migliorare quando può godere del meglio dei due mondi: aggressioni all'estero, prosperità in patria? Questo è quello che tutti si chiedono nella nostra regione. I vicini di Israele - i vicini dell'Iran sanno che l'Iran diventerà ancora più aggressivo e sponsorizzerà ancora di più il terrorismo quando la sua economia sarà liberata e gli sarà dato il via libera per la Bomba. E molti di questi vicini dicono che risponderanno cercando di ottenere l'arma nucleare per se stessi.
Perciò questo accordo non migliora l'Iran, peggiora soltanto il medio oriente. Un accordo che dovrebbe prevenire la proliferazione nucleare potrebbe invece provocare una corsa alle armi nucleari nell'area più pericolosa del pianeta. Questo accordo non sarà un addio alle armi. Sarà un addio al controllo delle armi. (
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Una regione dove piccole scaramucce possono provocare grandi guerre sarebbe trasformata in una polveriera nucleare. (
) Signore e signori, sono venuto qui oggi per dirvi che non dovete scommettere la sicurezza del mondo sulla base della speranza che l'Iran migliorerà. Non dobbiamo giocare d'azzardo con il nostro futuro e con il futuro dei nostri bambini. Possiamo rimanere saldi sul fatto che le restrizioni al programma nucleare dell'Iran non siano sollevate finché l'Iran continua la sua aggressione nella regione e nel mondo. Prima di sollevare queste restrizioni, il mondo deve chiedere che l'Iran faccia tre cose. Primo, porre fine alla sua aggressione contro i suoi vicini nel medio oriente. Secondo, smettere di sostenere il terrorismo in tutto il mondo. E terzo, smettere di minacciare di annichilire il mio paese, Israele, il solo e unico stato ebraico. Se le potenze mondiali non sono pronte a insistere sul fatto che l'Iran cambi il suo comportamento prima che l'accordo sia siglato, almeno dovrebbero insistere che l'Iran cambi il suo comportamento prima che l'accordo si esaurisca.
Se l'Iran cambia il suo comportamento, le restrizioni saranno sollevate. Se l'Iran non cambia il suo comportamento, le sanzioni non dovrebbero essere sollevate. Se l'Iran vuole essere trattato come un paese normale, che si comporti come un paese normale. Amici, e che dire dell'argomento secondo cui non c'è alternativa a questo accordo, secondo cui il know-how nucleare dell'Iran non può essere eliminato, che il suo programma nucleare è così avanzato che il meglio che possiamo fare è ritardare l'inevitabile, che è essenzialmente quello che l'accordo proposto cerca di fare? Ora, il know-how nucleare senza infrastrutture non può fare molto. Un pilota senza auto non può guidare. Senza migliaia di centrifughe, tonnellate di uranio arricchito o strutture per l'acqua pesante, l'Iran non può produrre armi nucleari. Il programma nucleare dell'Iran può essere portato molto più indietro rispetto alla proposta attuale insistendo su un accordo migliore e mantenendo alta la pressione su un regime molto vulnerabile, specie dopo il recente crollo del prezzo del petrolio. Ora, se l'Iran si allontana dal tavolo negoziale - e questo succede spesso nel bazar persiano - scoprite il loro bluff. Loro torneranno, perché hanno bisogno di questo accordo molto più di voi. E mantenendo alta la pressione sull'Iran e su quelli che fanno affari con l'Iran, avete il potere di averne ancora più bisogno.
Amici, per oltre un anno ci è stato detto che nessun accordo è meglio di un cattivo accordo. Questo è un cattivo accordo, un pessimo accordo. Stiamo meglio senza. Ci è stato detto che l'unica alternativa a questo cattivo accordo è la guerra. Questo non è vero. L'alternativa a
Ci è stato detto che l'unica alternativa a questo cattivo accordo è la guerra. Questo non è vero. L'alternativa a questo cattivo accordo è un accordo molto migliore, che non lasci l'Iran con ampie infrastrutture nucleari e un tempo di break out così ristretto.
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questo cattivo accordo è un accordo molto migliore. Un accordo migliore che non lasci l'Iran con ampie infrastrutture nucleari e un tempo di break out così ristretto. Un accordo che mantenga le restrizioni sul programma nucleare iraniano fino a che l'aggressione dell'Iran non termina. Un accordo che non dia all'Iran accesso facile alla Bomba. Un accordo che Israele e i suoi vicini potrebbero anche non gradire, ma con i quali possono vivere, letteralmente. E nessun paese tiene di più a un buon accordo che rimuova pacificamente questa minaccia di Israele. Signore e signori, la storia ci ha messo davanti a bivi fatali.
Ora dobbiamo scegliere tra due strade. Una porta a un cattivo accordo che al meglio ridurrà le ambizioni nucleari dell'Iran per un poco, ma porterà inesorabilmente a un Iran dotato di arma atomica, la cui sfrenata ambizione porterà inevitabilmente alla guerra. La seconda strada, per quanto difficile, può portare a un accordo molto migliore, che prevenga un Iran nucleare, un medio oriente nuclearizzato e le orribili conseguenze che entrambi potrebbero avere per tutta l'umanità. (
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Amici, fronteggiare l'Iran non è facile. Fronteggiare un regime oscuro e omicida non lo è mai. Con noi oggi c'è il sopravvissuto dell'Olocausto e premio Nobel Elie Wiesel. Elie, la tua vita e il tuo lavoro ci ispirano a dare senso alle parole "mai più". E ti prometto, Elie, che le lezioni della storia sono state imparate. Posso solo esortare i leader del mondo a non ripetere gli errori del passato. A non sacrificare il futuro per il presente, a non ignorare l'aggressione sperando in una pace illusoria. Ma vi posso garantire che i giorni in cui il popolo ebraico è rimasto passivo contro nemici genocidiari sono finiti. Non siamo più sparsi tra le nazioni, incapaci di difenderci. Abbiamo recuperato la sovranità nella nostra antica patria. E i soldati che difendono la nostra patria hanno coraggio infinito. Per la prima volta in cento generazioni noi, il popolo ebraico, possiamo difenderci da soli. Ed è per questo, è per questo che io, come primo ministro di Israele, posso promettervi ancora una cosa: anche se Israele dovrà resistere da solo, Israele resisterà. Ma so che Israele non è da solo. So che l'America è con Israele. So che voi siete con Israele. Siete con Israele perché sapete che la storia di Israele non è solo la storia del popolo ebraico, ma quella dello spirito umano che rifiuta ancora di soccombere agli orrori della storia. (
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Prima che il popolo di Israele entrasse nella terra di Israele, Mosè ci ha dato un messaggio che ha rafforzato i nostri intenti per migliaia di anni. Vi lascio questo messaggio oggi [parla inizialmente in ebraico], "Siate forti e risoluti, non abbiate paura e non temeteli". Amici, Israele e l'America resisteranno sempre insieme, forti e risoluti. Possiate non temere né aver paura delle difficoltà che ci aspettano. Affrontiamo il futuro con fiducia, forza e speranza. Dio benedica Israele, Dio benedica l'America. Siete bellissimi. Grazie.
(Il Foglio, 4 marzo 2015)
"Un appello di impatto che smonta l'accordo"
Intervista allo storico Daniel Pipes
di Arturo Zampaglione
Presidente da vent'anni del Middle East Forum, un think tank conservatore, e considerato un "falco" sulle questioni medio-orientali, Daniel Pipes mette le mani avanti: «Non sono mai stato tenero nei confronti di Benjamin Netanyahu». Una premessa, questa, che serve a Pipes per non apparire schiacciato sulle posizioni del premier israeliano: eppure il suo giudizio del discorso di ieri al Congresso è a dir poco entusiasta. «È stato un testo scritto e pronunciato in modo brillante», dice Pipes a Repubblica: «Ha toccato tutti i punti-chiave del problema iraniano intrecciando l'intelligenza del ragionamento con appelli molto emotivi».
- Perché la Casa Bianca si era opposta con tanta tenacia alla visita del premier? I giornali conservatori hanno parlato di sei settimane di "capricci".
«Lo si è capito bene ascoltando il discorso: il premier ha smontato sistematicamente tutte le posizioni di Obama e dei suoi negoziatori, avvertendo che il risultato delle trattative sarà di spianare la strada alla bomba atomica iraniana e che non bisogna credere che l'attuale regime di Teheran sia meglio dei precedenti».
- Ritiene che il premier israeliano sia stato in grado di cambiare le opinioni dei politici Usa e gli orientamenti della Casa Bianca in un momento in cui l'accordo con Teheran appare a portata di mano?
«Al Congresso non si sta discutendo se bombardare o meno gli impianti atomici iraniani, ma più semplicemente se mantenere l'arma delle sanzioni economiche nei confronti del regime iraniano, come si apprestano a chiedere i repubblicani in una risoluzione con un alto valore simbolico».
- Perché un provvedimento del genere sia al riparo dal veto presidenziale occorre una maggioranza dei due terzi: non sarà facile, visto che oltre cinquanta democratici hanno boicottato il discorso del premier.
«A me sembra invece che le parole di Netanyahu abbiano fatto breccia - nel Congresso come nel paese - e che non sia quindi impossibile ottenere una maggioranza ampia a favore delle sanzioni commerciali. Di qui il la mia valutazione positiva. Aggiungo che il discorso aiuterà il premier nelle prossime elezioni, perché gli israeliani apprezzeranno la sua statura internazionale».
(la Repubblica, 4 marzo 2015)
Allarme dagli Usa: "Anche gli ebrei italiani sono nel mirino"
di Lucio Luca
ROMA. Le procure di mezza Italia sono già dovute intervenire 21 volte dall'inizio dell'anno. In due mesi, infatti, il numero delle denunce per episodi di intolleranza nei confronti delle comunità ebraiche è triplicato: insulti sul web, scritte offensive sui muri, profili negazionisti su Facebook, striscioni deliranti negli stadi. «Il nostro Paese resta ancora un'isola felice in un contesto europeo sempre più preoccupante-spiegano i responsabili dell'Osservatorio antisemitismo - ma qualche anno fa anche in Francia, Belgio, Danimarca l'odio nei confronti degli ebrei si manifestava con piccoli episodi di intolleranza E poi abbiamo visto quello che è successo .
In Italia, due persone su dieci «manifestano atteggiamenti e sentimenti antisemiti . Siamo al 76esimo posto al mondo in questa particolare classifica del pregiudizio che, Paesi arabi a parte, vede in preoccupante crescita la Grecia con il 69%, la Polonia con il 45% e l'Ungheria con il 41%. «In Europa la situazione è particolarmente allarmante - spiega Alessandro Ruben, consigliere speciale dell'European Jewish Congress - e per questo dopo gli attentati di Parigi il nostro presidente Moshe Kantor ha chiesto alla Ue una task force contro l'antisemitismo che punti sull'istruzione e la sicurezza. Qualche giorno fa l'allarme è stato rilanciato dal Senato americano che ha approvato una risoluzione rivolta proprio alle istituzioni europee. Attenzione, ci dicono da Washington, perché quello che è successo in Francia e a Copenaghen, può ripetersi da altre parti. Per questo insieme a diversi parlamentari italiani abbiamo deciso di lanciare un nuovo appello a Bruxelles e, in particolare, all'Alto rappresentante per la politica estera Federica Mogherini: per gli ebrei la libertà di vivere la propria identità è sempre più difficile e pericolosa».
Nel suo ultimo rapporto, l'Osservatorio antisemitismo spiega che da qualche tempo «gli atti contro gli ebrei sono più violenti e carichi di odio che in passato».Una deriva che allarma anche le istituzioni americane: «Non è un caso - scrivono 53 senatori Usa nella loro risoluzione - che, molto più che in passato, abbiamo assistito in Europa al rientro in Israele di numerosi ebrei, specialmente dalla Francia, dove il «sentimento antisemita è salito al 37%».
Ma anche in Italia l'allarme è alto, specialmente dopo i ripetuti episodi che si sono registrati negli ultimi giorni. Il 25 febbraio un negoziante ebreo minacciato a Roma, il giorno prima un amministratore comunale di Varese che scrive commenti antisemiti sulla sua pagina Facebook, caricature e vignette infamanti spuntate sul web il 22 febbraio, svastiche contro una docente di musica a Napoli. «Un'escalation senza fine che rappresenta molto più che un campanello d'allarme - conclude Alessandro Ruben - ecco perché lanciamo l'appello alle istituzioni europee. Prima che sia troppo tardi.»
(la Repubblica, 4 marzo 2015)
Perché la Shoà. Purim 1946
L'autore di questo articolo, Fulvio Canetti, è nato in una famiglia di ebrei del centro Italia, che per sfuggire ai nazisti e alla deportazione si rifugiò sulle montagne, dalle parti di Montecassino. Dopo aver lavorato come medico per molti anni in Italia, oggi vive a Gerusalemme con la sua numerosa famiglia, tra figli e nipoti. In occasione della festa di Purim, ci ha inviato gentilmente un suo saggio che volentieri pubblichiamo. Avvertiamo i lettori che nell'articolo l'autore si riferisce al libro di Ester citando particolari che non sono contenuti nel testo scritto, ma, come ci ha fatto sapere, appartengono alla tradizione orale e si trovano nel Targum di Jonathan ben Uziel. Il saggio si presenta quindi come un interessante collegamento tra riflessione tradizionale ebraica, storia recente e attualità politica internazionale. NsI
di Fulvio Canetti
GERUSALEMME - Julius Streicher, nel momento della sua impiccagione nella città tedesca di Norimberga, gridò sulla forca "Purim 1946". Chi era costui?
Un membro del partito nazista, direttore del settimanale antisemita "Der Stürmer" (L'Attaccante) e Gauleiter della Franconia centrale fino al 1940.
Attraverso il suo giornale, Streicher supportò l'approvazione delle leggi razziali emanate a Norimberga nel 1935 da Hitler, aizzando l'odio dei tedeschi contro gli "assassini ebrei".
Partecipò al violento pogrom a Berlino nel 1938 conosciuto storicamente come "La notte dei cristalli" dove tutti i negozi degli ebrei vennero ridotti in frantumi dalla furia nazista.
Dalle colonne del suo settimanale "L'Attaccante" Streicher continuò ad incitare la popolazione tedesca allo sterminio degli Ebrei, di cui propugnava l'estinzione completa.
Alla fine della seconda guerra mondiale era tra gli imputati al processo di Norimberga con l'accusa di essere stato uno dei principali istigatori all'odio razziale nei confronti del popolo ebraico e pertanto responsabile della Shoà.
Il Tribunale militare internazionale, riunito a Norimberga nel 1946, era stato nominato dalle Nazioni Unite per giudicare sui crimini di lesa Umanità compiuti in Europa dal regime nazista.
Undici criminali di guerra vennero ritenuti colpevoli e condannati alla pena capitale mediante impiccagione.
Tra costoro era presente anche il direttore del settimanale Der Stürmer, Julius Streicher, che, sul patibolo, con la corda intorno al collo, gridò "Purim 1946".
La domanda ora è questa: "Come mai un tedesco, non-ebreo ed antisemita abbia potuto dire una parola ebraica piena di significato come Purim? Conosceva forse Streicher questa tradizione?".
Per rispondere all'interrogativo è necessario fare un piccolo preambolo storico per spiegare in cosa consista la ricorrenza di Purim ancora oggi osservata dalla tradizione ebraica.
Nell'anno 597 a.c. il re Nabudonosor conquistò la città di Gerusalemme e deportò in Babilonia buona parte della popolazione ebraica, compreso il re Joakim e il profeta Daniele, allora giovanissimo. Mise sul trono di Gerusalemme come Governatore, Sedecia, zio di Joakim mentre la città stessa e il Tempio del Signore per il momento vennero risparmiati.
In seguito all'ennesima rivolta degli ebrei, dopo undici anni, Nabucodonosor tornò con il suo esercito nella Giudea. Assediò Gerusalemme e dopo averla conquistata distrusse la città insieme al suo Tempio, costruito da re Salomone.
Purim letteralmente vuol dire "Sorti" e le radici di questa festa ebraica si trovano nel libro biblico, noto come rotolo di Esther, dove viene raccontata la miracolosa salvezza degli Ebrei, dispersi nelle centoventisette province del regno persiano di Assuero.
Dopo la conquista di Babilonia nel 539 a.c. da parte del re Ciro il Grande di Persia, gli ebrei che erano stati deportati come schiavi di guerra in questa città da Nabucodonosor, vennero liberati.
Alcuni Ebrei, con l'aiuto dello stesso Ciro, presero la via del ritorno verso Gerusalemme per ricostruire la loro Nazione e il loro Tempio, mentre altri, la maggior parte degli ebrei, preferì restare nell'esilio dorato della Persia.
Alla morte di Ciro il Grande salì sul trono di Persia Dario e dopo questi un nuovo re, di nome Assuero, che non era di sangue reale ed amava poco gli Ebrei dispersi nel suo regno, che si estendeva dalla Persia al Mediterraneo.
Nella città di Susa, l'odierna Teheran, era stato offerto dal nuovo re un banchetto in onore dei Governatori delle centoventisette province del suo regno. La regina Vasthì fu invitata dal re Assuero, chiamato nel rotolo di Esther con il nome di Achashverosch, a presentarsi "nuda" al banchetto per mostrare a tutti i presenti la sua particolare bellezza.
La regina si rifiutò di ubbidire, non per pudore, ma per non essere umiliata davanti a tutti, che era la vera ragione per cui Assuero pretendeva questa"nudità" pubblica dalla regina.
Perché mai il re voleva umiliare la Vashtì? Questa era la nipote del re di Babilonia Nabucodonosor, che aveva distrutto il Tempio di Gerusalemme ed Assuero era salito al trono di Persia con il suo determinante aiuto.
Assuero, non essendo di famiglia reale, una volta salito al potere, come tutti i dittatori, invece di ringraziare per il dono ricevuto, cominciò a sbarazzarsi dagli amici "ingombranti" ad iniziare dalla regina Vashtì, la cui disubbidienza venne punita con la morte.
In più Assuero aveva organizzato questo imponente banchetto per festeggiare secondo i suoi calcoli errati, la fine della Nazione ebraica. Il profeta Geremia aveva predetto, che dopo 70 anni dopo la deportazione in Babilonia, il popolo ebraico sarebbe ritornato a Gerusalemme per ricostruire il Tempio.
Secondo i calcoli di Assuero erano trascorsi questi 70 anni e il popolo si trovava ancora in esilio, quindi la profezia era falsa. In realtà il re iniziava il suo calcolo da quando Nabucodonosor era entrato per la prima volta nella Giudea catturando prigionieri tra le classi abbienti e trascinando costoro come schiavi in Babilonia, mentre bisognava iniziare il calcolo dei 70 anni da quando Gerusalemme e il Tempio erano stati distrutti.
C'era un intervallo di tempo di 11 anni ed è proprio in questo periodo che si svolsero gli avvenimenti tragici legati alla ricorrenza di Purim.
Due cose sono da far notare in questo banchetto. La prima è la presenza sui tavoli di cibi "kasher" cioè cibi permessi agli Ebrei, la seconda è la sistemazione in un angolo della sala degli utensili del Tempio di Gerusalemme, che Ciro il Grande, da Babilonia, aveva portato a Susa, capitale del suo regno.
Perché mai tutti i cibi erano kascher e i recipienti sacri del Tempio si trovavano in un angolo della sala? Assuero voleva dimostrare al mondo la sua tolleranza e il suo pluralismo, nel gestire il potere verso le minoranze.
In realtà il banchetto era una "farsa" orchestrata dal re.
Perché gli utensili del Tempio di Gerusalemme erano stati depositati in un angolo della sala?
Per mettere gli Ebrei alla prova sulla loro vera identità.
Il banchetto difatti, per ordine del re, venne protratto ancora per "sette" giorni e riservato ai consiglieri ebrei di Susa e delle Province del regno.
Furono serviti sui tavoli imbanditi cibi "kascher" nei recipienti del sacro Tempio senza alcuna protesta da parte ebraica per questa chiara profanazione. Gli invitati continuarono a mangiare negli stessi recipienti per sette giorni. Possiamo immaginare allora a qual punto di assimilazione erano giunti gli ebrei nell'esilio dorato della Persia: una vera e propria dolce Shoà, che Assuero stava preparando.
Gli ebrei, a loro insaputa, stavano correndo un grande pericolo identitario, a tal punto da non saper distinguere se la loro capitale fosse Susa o Gerusalemme.
Soltanto Mordecai, si accorge di questa farsa, organizzata da Assuero, ai danni del popolo ebraico e comprende la gravità della situazione.
Insieme ai suoi pochi allievi, Mordecai, prega D-o Benedetto ed inizia un digiuno di sette giorni per tutta la durata del banchetto, rifiutando il cibo, nel tentativo di scongiurare tale eventualità.
Il primo ministro del regno di Assuero è un amalecita di nome Haman, proveniente da Arad, una piccola cittadina situata nel deserto della Giudea.
Chi era Haman e per quale motivo costui si trovava alla corte del re Assuero, non essendo egli un persiano?
Haman era il figlio del re Agag, un amalecita, che era stato risparmiato da Saul, re d'Israele, durante la battaglia, contrariamente agli ordini ricevuti dal profeta Samuele di distruggere ogni cosa appartenente ai discendenti di Amalek. Samuele 1o, 15-31
Invece di essere messo a morte nel corso della battaglia, Agag venne rinchiuso in prigione, dove riuscì ad avere rapporti con una schiava. Da questa unione nacque Haman detto l'Agaghita, nipote del biblico Amalek, che aveva attaccato il popolo ebraico alle spalle, appena uscito dalla terra di Egitto. Esodo 17,14
La popolazione degli Amaleciti, viveva nel Sud di Israele e quando gli ebrei vennero deportati in Babilonia da Nabucodonosor, si estesero sul territorio rimasto privo del popolo ebraico.
Haman e i suoi dieci figli, avevano occupato buona parte della terra di Israele, spingendosi fino al Nord del paese, dove si erano insediate le popolazioni dei Shomronim provenienti dalla Siria e dall'Irak.
Costoro erano alleate degli Amaleciti nel contrastare il ritorno del popolo ebraico nella sua terra. Escogitarono un piano diabolico, che consisteva nel mettere un loro infiltrato alla corte del regno di Persia, per danneggiare i buoni rapporti della comunità ebraica con il potere del re. La scelta cadde su Haman, a cui vennero concessi onori principeschi e mezzi appropriati, in modo da avere la strada spianata per questo obiettivo politico.
Può sembrare "fantascienza", ma non così. Basta dare uno sguardo alla storia del mondo. Cosa fa il terrorista e negazionista della Shoà Abu Abbas finanziato dal danaro di molti antisemiti? Va negli Stati Uniti d'America a perorare la causa "palestinese" nel tentativo di rovinare i buoni rapporti che lo Stato degli Americani intrattiene con Israele per isolare e distruggere Israele.
Il re Ciro il grande e suo figlio Dario, non avevano forse ottimi rapporti con gli Ebrei del regno di Persia?
Ecco dunque spiegato il motivo per cui Haman si trovava alla corte di Assuero in qualità di primo ministro, sponsorizzato e finanziato da coloro che avevano occupato il territorio e le case degli Ebrei deportati in Babilonia.
Cosa dice Haman ad Assuero?
"Esiste un popolo sparso e diviso tra i popoli, in tutte le province del tuo regno. Le sue leggi sono differenti da quelle di ogni altro popolo. Non rispettano le leggi del re e al re non conviene tollerarlo. Se al re piace si scriva che lo distruggano".
"Il re si tolse dalla mano l'anello e lo diede ad Haman l'Agaghita, nemico degli Ebrei". Rotolo di Ester 3, 8-10
Siamo difronte al primo caso storico di "soluzione finale" per il popolo ebraico, messo in atto dal potere politico.
Il secondo caso storico di soluzione finale, conosciuto come Shoà, è accaduto in Germania con la visita del mufti di Gerusalemme Haj Amin al-Husseini al dittatore Adolf Hitler.
Dopo la visita del mufti iniziò nel gennaio del 1942 la "endlösung" tedesca cioè la soluzione finale del popolo ebraico mediante le camere a gas, con l'assassinio di "sei milioni" di ebrei nei Lager nazisti.
Sia l'amalecita Haman, duemila anni fa, sia il gran mufti Amin al-Husseini non volevano in nessun modo il ritorno degli Ebrei in Palestina. Ogni mezzo era lecito per ottenere questo mostruoso risultato, Auschwitz compreso.
Come ricompensa per il prezioso dono fatto da Hitler al mufti, questi offrì al regime nazista un reparto di SS bosniache tutti musulmani, la cui crudeltà faceva impallidire persino le SS tedesche.
Cosa rispondono Esther e Mordecai, ebrei discendenti della tribù di Beniamino, a questo progetto di genocidio del popolo ebraico organizzato da Haman con il benestare del re Assuero?
Esther, rimasta orfana da ragazza, venne affidata alle cure di Mordecai suo parente più vicino. Particolarmente bella, Esther venne condotta dalle guardie al palazzo del re e Mordecai restò solo a combattere questa gigantesca battaglia.
Quando Mordecai prende conoscenza del decreto di Haman, che ordinava l'assassinio di tutti gli Ebrei del regno di Assuero, si strappa i vestiti in segno di lutto.
Percorre le strade di Susa con grida di dolore e arrivato in prossimità della porta del re, informa Esther delle malvage intenzioni di Haman. Supplica questa di recarsi da Assuero per far annullare il decreto di sterminio contro gli Ebrei.
Esther "impaurita" risponde a Mordecai che era proibito entrare al cospetto del re senza essere invitata. Infrangere questa regola significava la pena di morte. Allora Mordecai le risponde duramente." Se il decreto di Assuero di sterminare gli ebrei si realizza, anche tu sarai annientata.
Credi che esisti sola per te stessa? Tu Esther non sei arrivata alla reggia del re per "caso" e pertanto devi compiere la tua missione di salvare il popolo ebraico dalla distruzione."
Esther sembra paralizzata senza possibilità di intervenire.
Haman aveva posto delle guardie all'ingresso della dimora del re con l'ordine di uccidere la regina Esther se questa, di sua iniziativa, si fosse presentata per entrare nelle stanze di Assuero senza il suo benestare.
Esther allora, considerato il grave pericolo, invia a Mordecai il seguente messaggio: "Riunisci tutti gli Ebrei che si trovano a Susa e digiunate per me. Non mangiate né bevete per tre giorni. Anch'io con le mie ancelle digiunerò allo stesso modo. Quindi mi presenterò al re, cosa che è contro la legge e se debbo perire, perirò! "Rotolo 4, 16"
Esther aveva poche "chances" di riuscita, perché era in uno stato di depressione completa. Aveva perduto il gusto della vita. Esther non era solo la cugina di Mordecai, ma anche la sua sposa, che viene a trovarsi nel palazzo del re. Possiamo pertanto immaginare lo stato di "sudiciume" morale che questa donna ha dovuto subire, oltre al dispiacere di aver avuto un figlio con Assuero.
Esther non aveva alcuna speranza di passare l'ultima porta e raggiungere il trono del re, restando in vita. E nonostante questa situazione tragica, la nostra Esther non dispera, crede nel miracolo e continua la sua azione intrapresa, da cui verrà la salvezza di Israele.
"Il terzo giorno Esther indossò gli abiti regali e si presentò nel cortile interno della casa del re, che sedeva nel suo trono nella stanza reale difronte all'ingresso del Palazzo. Appena il re vide la regina Esther ferma nel cortile, ella trovò grazia ai suoi occhi. Il re allora stese verso Esther lo scettro d'oro, che teneva in mano. Esther si avvicinò e toccò con il suo capo lo scettro. E il re le disse: "Che cosa ti accade o regina Ester? Quale è la tua richiesta? Fosse anche la metà del regno ti sarà concessa! "Ed Esther rispose:" Se al re piace, venga il re con Haman oggi al banchetto che gli ho preparato". Rotolo 5,1-4
Esther con la forza del digiuno e della preghiera, compiuti con la partecipazione degli Ebrei di Susa, era riuscita a trasformare un "verdetto" assassino, in una situazione di salvezza e di vittoria, per gli ebrei del regno di Assuero.
Ecco allora che D-o Benedetto non nasconde più la "Sua faccia" agli Ebrei e prende in pugno la situazione per assestare ad Haman la sua sconfitta finale.
La notte precedente il banchetto il re Assuero era insonne. Si fece portare il libro delle cronache del regno, che vennero lette davanti al re. Vi si trovò scritto che Mordecai aveva svelato il complotto dei due eunuchi della soglia, che cercavano di attentare alla vita del re.
"Quale onore venne dato a Mordecai per questo?" Chiese Assuero. Non gli venne concesso nulla fu la risposta.
In quel momento Haman stava entrando nel cortile del Palazzo per chiedere al re di impiccare Mordecai sulla forca, che egli stesso aveva fatto appositamente costruire, nella sua dimora.
Il re chiese: "chi è nel cortile?" E' Haman che sta fermo e aspetta di essere ricevuto.
Una volta alla presenza del re questi gli disse: "cosa si deve fare ad un uomo che il re vuole onorare?" Rotolo 6,6
Haman pensò tra sé e sé: "A chi il re vorrà tributare onore se non a me?". Per questo consigliò Assuero di far indossare l'abito regale all'uomo che il re vuole onorare e lo si faccia cavalcare sul cavallo per la via principale della città.
"Presto-disse il re ad Haman- "fai come hai detto con l'ebreo Mordecai che siede alla porta del re".
Cosa poteva fare Haman se non ubbidire agli ordini di Assuero.
Tornò nella sua casa triste con il capo coperto. Raccontò tutto a sua moglie Zeresh che gli disse: "Poiché Mordecai, dinanzi al quale tu cominci a cadere, è della stirpe degli Ebrei, tu non potrai far nulla, anzi soccomberai dinanzi a lui!". Rotolo 6,13
Nonostante la spada fosse pronta sul collo di Mordecai, questi non ha mai vacillato nella sua fede in D-o Benedetto, che grazie al digiuno e alla preghiera, tornava a mostrare il Suo volto agli Ebrei di Susa, cambiando il decreto del re.
La Provvidenza ha voluto mostrare che la disperazione non esiste anche quando si raggiunge il fondo della tragedia.
Questi tre personaggi Esther, Haman, Mordecai, testimoniano ciascuno a loro modo, il legame esistente tra il popolo ebraico e il Creatore del mondo.
Esther ha dimostrato che la disperazione non esiste. Haman per il suo odio verso gli Ebrei, prova fino a che punto il Signore Idd-o ama il suo popolo d'Israele. Mordecai, con la sua fede incrollabile, non teme alcuna persona.
Dagli eunuchi del re Haman viene condotto al banchetto preparato da Esther.
"Il re disse ad Esther, mentre si beveva del vino: "Quale è la tua richiesta questa sarà esaudita!".E la regina Esther rispose e disse:" Se ho trovato grazia ai tuoi occhi e se al re piace, mi si conceda la mia vita e quella del mio popolo per la mia richiesta, perché sia io che il mio popolo fummo venduti per farci sterminare, uccidere e distruggere."
E il re Assuero disse alla regina Esther: "Chi è mai e dove è colui che osò agire così". Ed Esther rispose:" Un uomo avverso e nemico, questo malvagio Haman."
E Haman restò atterrito dinanzi al re e alla regina. Rotolo 7, 2-7
Uno degli eunuchi, che erano andati a prendere Haman nella sua casa riferì al re Assuero di aver visto in questo posto, una forca alta cinquanta cubiti dove Haman voleva impiccare Mordecai. Allora il re disse: "Impiccatelo ad essa!"
E appesero Haman alla forca che egli aveva preparato per Mordecai e così l'ira del re si acquietò. Rotolo 7, 9-10
Mordecai uscì al cospetto del re con l'abito regale bianco e azzurro, con una grande corona d'oro e un manto di bisso e di porpora. La città di Susa era lieta e festosa e per gli ebrei fu luce, gioia allegria ed onore. Rotolo 8, 15-16
Il re Assuero si levò l'anello che aveva tolto ad Haman e lo diede a Mordecai, che era diventato potente nel Palazzo del regno. Gli Ebrei colpirono tutti i loro nemici con la spada e nella città di Susa anche i dieci figli di Haman vennero pubblicamente impiccati. A questo punto il re chiese alla regina Esther se avesse altre richieste.
"Se piace al re - rispose la regina- sia concesso agli ebrei di Susa di fare domani quello che è stato fatto oggi ai figli di Haman.
Ma sorge la domanda: i figli di Haman era già stati giustiziati con l'impiccagione e dunque per quale motivo devono essere impiccati di nuovo? A cosa voleva riferirsi la regina Ester? Cosa voleva nascondere?
Leggendo "attentamente" i nomi dei figli di Haman al capitolo 9,7 del rotolo di pergamena, si possono vedere "tre" lettere ebraiche scritte in modo più piccolo rispetto alle altre.
E queste lettere sono: la tav che in gematria vale 400, la shin che vale 300 e la zain che vale 7. Sommate danno la cifra di 707. Se calcoliamo che, secondo il calendario ebraico siamo nel sesto millennio, la cifra diventa 5707 che corrisponde al calendario gregoriano al 1946, quando Julius Streicher sul patibolo di Norimberga gridò "Purim 1946".
Bisogna ora chiedersi: "Quale legame esiste tra il Purim dell'amalecita Haman e quello del nazista Streicher?"
Ambedue perseguivano lo stesso obiettivo: la distruzione del popolo ebraico, anche se con strategie diverse. Nel regno di Assuero la soluzione finale venne decisa quando Haman arrivò al potere nella corte del re. Nella Germania nazista la soluzione finale iniziò quando vi fu l'accordo tra Hitler e il mufti Amin el-Husseini nel novembre del 1941.
Sia Haman che il Mufti si opponevano al ritorno degli Ebrei nella loro Terra d'Israele, per contrastare la nascita di una Nazione ebraica e la ricostruzione di Gerusalemme.
Perché tanta paura di una Nazione ebraica? Perché darebbe al popolo ebraico la forza di non inchinarsi alle Nazioni della terra in segno di umiliazione, come accaduto durante il nostro bimillenario esilio.
A cosa difatti oggi stiamo assistendo nella storia del mondo?
All'avversione delle Nazioni verso questo progetto "messianico", che è iniziato con il ritorno del popolo ebraico nella Terra di Israele, da cui nasce una forza miracolosa, necessaria a completare l'opera divina della Creazione.
Mordecai, l'ebreo discendente della tribù di Beniamino, l'unico dei figli di Giacobbe nato in terra d'Israele, è il simbolo di questa forza particolare, che non si inchina alle Nazioni del mondo e combatte per conservare l'identità e la libertà del suo popolo.
Ma, in tutta questa storia c'è un "grosso ma" a cui bisogna dare una risposta con chiarezza e senza ambiguità.
Come mai gli Ebrei, che avevano avuto da Ciro il Grande il permesso e l'aiuto di tornare in Israele, alla fine della cattività babilonese, sono rimasti nell'esilio dorato della Persia?
Come mai dopo la dichiarazione Balfour del 1917, per la costruzione di un "focolare nazionale ebraico" in Palestina la maggior parte degli Ebrei, sono rimasti nell'esilio dorato dell'Europa?
Come mai oggi "milioni" di ebrei americani, restano nell'esilio dorato degli Stati Uniti e non salgono in Israele per ricostruire Gerusalemme?
Una volta data una risposta vera a queste domande, allora e solo allora i tempi "messianici" avranno inizio.
D-o Benedetto apre spesso una porta al popolo ebraico verso la salvezza e la redenzione, ma, dico ma, noi Ebrei con il nostro "libero arbitrio" alcune volte, riusciamo persino a chiudere tale apertura.
Nel momento in cui il popolo ebraico, rifiuta la mano di D-o Benedetto, deve poi fare i conti con il Suo pugno e le conseguenze di queste scelte negative, sono sotto gli occhi di tutti.
Combattere l'ideologia amalecita, che vuole un mondo senza una morale sociale nè naturale, è un dovere per ogni ebreo, che vive nella Terra di Israele.
Ecco il significato del messaggio di Purim, per le future generazioni, che devono realizzare questo programma "messianico "affidato al popolo ebraico.
Per questa ragione per la festa di Purim, viene considerata dalla tradizione il simbolo della Redenzione finale.
*
Leggi e Tradizioni nella festa di Purim
La festa di Purim, secondo il calendario ebraico, cade il 15 del mese di Adar (Marzo) giorno stabilito dall'amalecita Haman per sterminare tutti gli ebrei del regno di Persia che si estendeva dall'India all'Africa.
Andiamo in ordine a descrivere queste leggi ed usanze.
E costume di prelevare un "mezzo shekel" d'argento corrispondente oggi a circa cinque Euro per il Tempio di Gerusalemme. Non esistendo questo perché distrutto dai Romani, il mezzo siclo viene dato in beneficenza.
Digiuno della regina Esther.
Il digiuno inizia prima dell'alba e termina al tramonto del sole. Questo digiuno, che viene fatto due giorni prima cioè il 13 di Adar, è stato istituito dalla regina Esther perché D.o Benedetto usasse clemenza con il popolo ebraico ed annullasse il decreto di sterminio.
Lettura del Rotolo biblico noto come Meghillat Esther.
Il Rotolo di pergamena, dove è stata scritta la storia di Purim, viene letta la sera del 14 di Adar al calare del sole. Nelle città cinte di mura come Gerusalemme viene letta il 15 di Adar. E' usanza, da parte dei bambini, durante la lettura di fare dei rumori con piccole raganelle, quando è citato il nome di Haman il malvagio.
Portare doni ai poveri.
Bisogna donare almeno a due poveri i mezzi necessari per permettere a costoro di festeggiare degnamente il Purim.
Inviare regali agli amici.
Per rinforzare l'amicizia tra le persone vengono inviati doni ai vicini o ai conoscenti in genere di carattere alimentare (dolci, frutta, ecc..) in modo da poterli consumare insieme.
E' costume diffuso mascherarsi e partecipare in questo abbigliamento al "banchetto di Esther" per ricordare quanto avvenuto a Susa in Persia circa 2500 anni fa. Durante questo banchetto è permesso bere del vino in abbondanza in modo tale che "Haman non riconosca Mordecai".
Non viene recitato nella sinagoga il canto dell'Hallel perché sostengono i nostri maestri z.l. che il miracolo è accaduto fuori dalla Terra di Israele.
(Notizie su Israele, 4 marzo 2015)
La vita interrotta di una bimba
Mentana intervista Liliana Segre, donna coraggiosa
«E' questione di pochi anni e poi non ci saranno più testimoni della vita della shoah. E peraltro già oggi il loro racconto, la storia della loro esperienza nel girone infernale più raccapricciante della storia contemporanea, suscita una crescente indifferenza, come se fosse l'ennesima riproposizione di una vicenda già archiviata. Enrico Mentana, direttore del TgLa7, raccoglie le memorie di una testimone d'eccezione Liliana Segre in un libro crudo e commovente, ripercorrendo l'infanzia di una donna coraggiosa: «La mia era una famiglia di ebrei laici, come lo era la maggior parte delle famiglie di ebrei italiani: non ci attenevamo alla kasherrut, in casa nostra si mangiava di tutto, e non frequentavamo mai la sinagoga. Liliana ha otto anni quando, nel 1938, le leggi razziali fasciste si abbattono con violenza su di lei e sulla sua famiglia. Discriminata come «alunna di razza ebraica», viene espulsa da scuola e a poco a poco il suo mondo si sgretola: diventa «invisibile», è costretta a nascondersi e a fuggire fino al drammatico arresto sul confine svizzero che aprirà a lei e al suo papà i cancelli di Auschwitz. Dal lager ritornerà sola, ragazzina orfana tra le macerie di una Milano appena uscita dalla guerra. Dopo trent'anni di silenzio, una drammatica depressione la costringe a fare i conti con la sua storia e la sua identità ebraica a lungo rimossa.
(La Provincia, 4 marzo 2015)
Germania - Dopo 70 anni si ripubblica l'opera di Hitler
Sono scaduti i 70 anni dalla pubblicazione del Mein Kampf, il manifesto dell'ideologia nazista di Adolf Hitler. Come previsto dalla legge sul diritto d'autore, sarà possibile ristamparlo liberamente. In Germania la notizia era discussa già da almeno un paio d'anni e ora il proposito sta per diventare realtà. A deciderlo sono state le autorità della Baviera, che detengono i diritti dell'opera dal 30 aprile 1945, data del suicidio del Fuhrer. Le decisione è stata presa con lo scopo di demifisticare il trattato hitleriano: ogni capitolo sarà commentato da storici che spiegheranno l'assurdità dello scritto, anche per evitare che, una volta libero da vincoli di copyright, diventi monopolio degli estremisti di destra. Il libro sarà reso disponibile anche in formato ebook e in più versioni: quella scolastica avrà la supervisione degli esperti del prestigioso Istituto per la Storia Contemporanea di Monaco, le altre saranno accuratamente commentate da autorevoli professori universitari. L'intero progetto avrà un costo che si aggira intorno ai 500mila euro e ha ottenuto il via libera anche da alcuni gruppi ebraici di sopravvissuti ai campi di concentramento. "Vogliamo che in tutte le edizioni siano espresse con chiarezza le enormi assurdità che sono contenute in quel testo - hanno spiegato alla stampa alcuni portavoce delle autorità bavaresi - e che hanno provocato conseguenze fatali per l'umanità".
Hitler scrisse "La mia battaglia" nel 1924, mentre si trovava in una prigione bavarese dopo un primo tentativo, fallito, di colpo di Stato: il racconto combina elementi autobiografici con le sue opinioni sulla "purezza della razza ariana", l'odio per gli ebrei e l'opposizione al comunismo; rivela, inoltre, i piani di espansione della Germania ad Est oltre un decennio prima della Seconda Guerra Mondiale. Pubblicato in due volumi nel 1925 e nel 1926, il testo, che dal 1936 veniva anche dato in regalo dallo stato nazista ad ogni coppia che si sposava, è stato stampato in circa 10 milioni di copie fino al 1945. "Credo che quando la gente comune leggerà il 'Mein Kampf' si renderà conto che non è stato un gioco - ha detto Rafael Seligmann, direttore del Jewish Voice From Germany di Berlino - e che Hitler ha davvero tentato di convincere le persone ad andare in guerra e ad uccidere. Ecco perché il libro andrebbe letto, perché è importante che tutti sappiano che cosa scrisse questo criminale e che intenzioni avesse".
(DirettaNews.it, 3 marzo 2015)
Alla Casa delle Culture di Roma lo spettacolo "Are you Jewish?"
Dal 13 al 15 marzo 2015
CHAI TEATRO
in
ARE YOU JEWISH?
testi di Bruce J. Bloom, Julianne Bernstein
con Anna Clemente Silvera, Maurizio Palladino e Giulio Cancelli
al violino Carlo Cossu
regia di Maurizio Palladino
con il patrocinio della Fondazione Museo della Shoah
"Are You Jewish" è uno spettacolo kosher in tre portate, metaforicamente servite da Anna Clemente Silvera e Maurizio Pallidino - che firma anche la regia - con la partecipazione di Giulio Cancelli e l'accompagnamento live dalla musica klezmer di Carlo Cossu al violino. Un'occasione per affrontare il tema dell'identità ebraica con tono leggero e malinconico, con picchi di tragicommedia intrisa di autentico umorismo yiddish.
Ed ecco il "menù" della serata:
Hors d'oeuvre, WITZ- una selezione di alcune storielle ebraiche, o witz (barzelletta in yiddish), tra le tante raccolte da Ferruccio Fölkel, lo scrittore triestino che ha diffuso in Italia l'umorismo yiddish. Tipica espressione del cosiddetto umorismo ebraico, fortemente autoironico e paradossale, queste "witz" partono dal nonsense per divertire ma soprattutto per suggerire, evocare e far meditare, attraverso una sorta di filosofia surreale, disarmata e disarmante.
Portata principale, LA MIGLIOR ULTIMA CENA DELLA STORIA di Bruce Bloom- Avram e Netti sono gli ultimi ebrei rimasti dopo il rastrellamento del ghetto di Cracovia. Tutto sembra perduto e l'orda nazista incombe, finché non fa la sua comparsa un personaggio inaspettato, un cuoco cinico e vanesio che con la connivenza di un alto ufficiale delle SS ha preparato alla coppia un'ultima cena coi fiocchi. Peccato non sia un pasto kosher, e che quello potrebbe essere prosciutto!
Dessert, FINCHÉ MORTE NON LI SEPARI di Julianne Bernstein - I novelli divorziati di mezza età Art e Lucille si ritrovano costretti a passare l'eternità insieme in una bara a due piazze. Una buona occasione per appianare le divergenze di un matrimonio finito male.
La produzione, affiancata dal patrocinio della Fondazione Museo della Shoah, è dell'associazione culturale Chai Teatro: un gruppo di artisti e creativi, sorto per realizzare progetti culturali nei settori dello spettacolo, con particolare attenzione per la cultura ebraica e la grande letteratura internazionale. Chai (traslitt. Hay), è una parola composta da due lettere dell'alfabeto ebraico: Chet (ח) e Yod (י) che nella "Ghimatriah", la numerologia ebraica, corrispondono al numero 18. Il suo significato è "vita", "vivo", "vivente".
(Roma, Daily News, 3 marzo 2015)
Terrorismo, Obama da che parte sta?
di Khaled Abu Toameh (*)
Molti arabi e musulmani ritengono che l'incontro tra Obama e l'emiro del Qatar al-Thani sia un dono fatto all'emirato per il suo continuo sostegno ai gruppi radicali islamici che operano in tutto il Medio Oriente, tra cui l'Iraq, la Siria, l'Egitto, il Libano e la Striscia di Gaza. Alla vigilia dell'incontro di Obama, fonti egiziane hanno rivelato che il Qatar fornisce armi e munizioni ai membri dello Stato islamico, in Libia.
Le fonti hanno detto che 35 aerei qatarioti sono stati coinvolti nel trasferimento delle munizioni. Gli analisti politici arabi sono anche preoccupati per i tentativi di Obama di rabbonire l'Iran, che continua a espandere la sua presenza in paesi arabi come lo Yemen, l'Iraq e il Libano, ma anche in Siria, dove è fortemente coinvolto nel sostegno a Hezbollah e nelle operazioni lungo il confine con Israele. Un servizio della Reuters ha rivelato che l'Iran ha anche centinaia di consulenti in Iraq. Il Qatar è uno dei maggiori finanziatori di Hamas, il cui leader, Khaled Mashaal, vive a Doha, la capitale dell'emirato. Nel corso degli ultimi anni, Doha ha elargito a Hamas centinaia di milioni di dollari - denaro usato per l'acquisto e lo sviluppo di armi per attaccare Israele.
Quando Obama lascerà la Casa Bianca, l'Iran molto probabilmente avrà il controllo di più paesi arabi e i gruppi terroristici appoggiati dal Qatar saranno molto più forti. Gli egiziani sono furiosi con il presidente americano Barack Obama per l'incontro da lui avuto questa settimana alla Casa Bianca con l'emiro del Qatar, Sheikh Tamim bin Hamad al-Thani. Essi dicono che l'amministrazione Obama ha di nuovo voltato le spalle agli arabi e ai musulmani moderati, appoggiando chi fiancheggia e finanzia i gruppi terroristici islamici. L'incontro tra Obama e l'emiro si è svolto subito dopo che l'Egitto aveva accusato l'emirato di sostenere il terrorismo. Obama avrebbe dichiarato che "il Qatar è un partner forte nella nostra coalizione per svilire e infine distruggere l'Isil. Siamo entrambi impegnati a fare sì che l'Isil [Isis/Stato islamico] sia sconfitto e che in Iraq vi sia un'opportunità per tutti gli abitanti di vivere insieme in pace".
La decisione di Obama di ospitare l'emiro del Qatar e le sue successive dichiarazioni elogiative sul ruolo dell'emirato nella "lotta contro" lo Stato islamico hanno suscitato aspre critiche da parte degli egiziani e di altri arabi e musulmani. Molti arabi e musulmani ritengono che l'incontro tra Obama e l'emiro del Qatar al-Thani sia un dono fatto all'emirato per il suo continuo sostegno ai gruppi radicali islamici che operano in tutto il Medio Oriente, tra cui l'Iraq, la Siria, l'Egitto, il Libano e la Striscia di Gaza. L'incontro è avvenuto meno di una settimana dopo che l'inviato egiziano alla Lega araba, Tareq Adel, aveva accusato il Qatar di appoggiare il terrorismo. In risposta, Doha ha richiamato il suo ambasciatore al Cairo per "consultazioni".
L'ultima crisi tra il Cairo e Doha è scoppiata dopo che il Qatar aveva espresso delle riserve sugli attacchi aerei contro obiettivi dello Stato islamico in Libia, come ritorsione per la decapitazione di 21 copti egiziani. Alla vigilia dell'incontro di Obama, fonti egiziane hanno rivelato che il Qatar fornisce armi e munizioni ai membri dello Stato islamico, in Libia. Le fonti hanno detto che 35 aerei qatarioti sono stati coinvolti nel trasferimento delle munizioni al gruppo terroristico. Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e il suo regime ritengono che il Qatar sia uno dei principali sostenitori e finanziatori dei gruppi terroristici islamici. Essi reputano che senza l'appoggio qatariota questi gruppi non sarebbero stati in grado di lanciare numerosi attacchi contro i soldati egiziani nel Sinai e Hamas non avrebbe avuto il controllo della Striscia di Gaza. Ma Sisi e il suo regime sono anche furibondi perché Obama ha abbracciato pubblicamente l'emiro al-Thani. Il presidente egiziano dovrebbe recarsi la settimana prossima in Arabia Saudita per colloqui urgenti con re Salman bin Abdul Aziz sulla crisi tra l'Egitto e il Qatar.
Secondo quanto riportato dai media egiziani, Sisi dovrebbe lagnarsi con il sovrano saudita dell'appoggio fornito da Obama all'emirato in un momento in cui l'Egitto e gli altri paesi arabi sono impegnati nella lotta contro i gruppi terroristici fiancheggiati dal Qatar. Al-Sisi spera che i sauditi useranno la loro influenza per convincere Obama a smettere di appoggiare un paese che sostiene apertamente i gruppi terroristici. In Egitto, i giornali controllati dal governo sono ora pieni di articoli e vignette che denunciano fermamente la politica di Obama verso il Qatar. Tali attacchi contro il presidente americano non sarebbero comparsi se non fossero stati approvati da Sisi e dai suoi collaboratori. Una vignetta, ad esempio, ritrae Obama in piedi, accanto all'emiro del Qatar, a una conferenza stampa, che dice: "Abbiamo richiamato dal Qatar il nostro emiro per consultazioni". Questa caricatura intende inviare il messaggio che Obama e l'emiro qatariota, uno dei principali sostenitori del terrorismo islamico, sono amici.
Le condanne egiziane del Qatar sono anche dirette contro l'amministrazione Obama, che sembra perdere un alleato arabo dopo l'altro a causa dell'appoggio all'emirato e ai suoi emissari: i Fratelli musulmani. Scrivendo nel quotidiano Al-Makal, il giornalista Ahmed al-Faqih ha lanciato un feroce attacco contro il Qatar e gli Stati Uniti in articolo titolato "Il nano qatariota che alimenta il mostro dell'Isis". Al-Faqih sostiene che il Qatar non è altro che una pedina nelle mani degli Stati Uniti e del Mossad israeliano, e che l'emirato usa le proprie risorse per sostenere il terrorismo. Un altro giornalista, Ahmed Musa, ha scritto che il Qatar, "che è alleato di Israele e degli Stati Uniti", è stato utilizzato per combattere i paesi arabi come l'Egitto, l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, la Libia e la Siria.
"Il Qatar cospira contro l'Egitto per servire gli interessi delle organizzazioni e dei gruppi terroristici", ha detto Musa, rilevando gli stretti legami tra i qatarioti e l'amministrazione americana. "Il regime del Qatar si è schierato con gli assassini che ingrossano le fila dei Fratelli musulmani e con i terroristi dello Stato islamico e di al-Qaeda, versando loro miliardi di dollari". Gli analisti politici arabi non sono solo preoccupati per le strette relazioni di Obama con il Qatar, ma anche per i tentativi del presidente americano di rabbonire l'Iran. Essi sostengono che ora è necessaria una seria politica americana per contrastare il terrorismo e anche un nuovo e duro approccio verso l'Iran. Mentre Obama era intento ad accogliere al-Thani, il Qatar ha continuato a far fronte alle accuse di fiancheggiare i gruppi islamisti. Gli egiziani asseriscono che l'emirato fornisca "appoggi finanziari, logistici e mediatici ai leader terroristi". Il Qatar è uno dei maggiori finanziatori di Hamas, il cui leader, Khaled Mashaal, vive a Doha, la capitale dell'emirato. Nel corso degli ultimi anni, Doha ha elargito a Hamas centinaia di milioni di dollari - denaro usato per l'acquisto e lo sviluppo di armi per attaccare Israele. Nel frattempo, l'Iran continua a espandere la sua presenza in paesi arabi come lo Yemen, la Siria, l'Iraq e il Libano.
In Yemen, le milizie sciite Houthi, sostenute dall'Iran, hanno contribuito al crollo del governo locale, ha detto questa settimana il segretario di Stato americano John Kerry. In Siria, Teheran è fortemente coinvolta nel sostegno offerto al regime di Bashar Assad e a Hezbollah nella loro lotta contro le forze di opposizione. I generali e gli esperti militari iraniani operano anche sulle alture del Golan, lungo il confine con Israele. Secondo un servizio giornalistico della Reuters, in Iraq, sono presenti centinaia di consiglieri militari iraniani. L'articolo cita ufficiali iraniani che asseriscono come il coinvolgimento di Teheran sia dettato dalla convinzione che lo Stato islamico è un immediato pericolo per i luoghi sacri sciiti. Gli iraniani hanno contribuito a organizzare volontari sciiti e forze della milizia per difendere l'Iraq dai terroristi dello Stato islamico.
Per quanto riguarda il Libano, Hezbollah, il gruppo terroristico legato all'Iran, continua a mantenere in loco una forte presenza politica e militare. Il generale di brigata Amir Ali Hajizadeh, comandante della Divisione Aerospaziale dei Corpi delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC), ha dichiarato di recente: "La Repubblica islamica dell'Iran aiuta l'Iraq, la Siria, la Palestina e Hezbollah esportando la tecnologia di cui dispone per la produzione di missili e altri equipaggiamenti". Quando scadrà il mandato di Obama, l'Iran molto probabilmente avrà il controllo di più paesi arabi e i gruppi terroristici appoggiati dal Qatar saranno molto più forti, uccidendo sempre più musulmani e non musulmani.
(*) Gatestone Institute
(L'Opinione, 3 marzo 2015 - trad. Angelita La Spada)
Obama ha paura di ciò che Netanyahu dirà oggi sull'Iran
Parla il consigliere di Bibi
di Giulio Meotti
ROMA - Ieri, prima di partire per Washington, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è andato a raccogliersi in preghiera al Muro del pianto di Gerusalemme. Poi ha lanciato un videoclip in cui lo si vede intento a scrivere lo storico discorso che terrà oggi al Congresso degli Stati Uniti. Con l'intervento di Netanyahu a Washington, e in contemporanea i colloqui in Svizzera fra l'Iran e il 5+1, si sta scrivendo l'ultimo capitolo di una vicenda che dura da vent'anni. Vent'anni fa, quando ancora non si parlava di Bushehr, Natanz, Fordow e Isfahan, ovvero la fitta rete di fabbriche nucleari che il regime iraniano ha costruito nei sotterranei dell'antica Persia, Netanyahu pubblicò il libro "Fighting Terrorism", in cui scriveva: "Non c'è più tempo, il mondo è di fronte a un abisso e una volta che l'Iran avrà acquisito armi atomiche nulla può escludere che possa spingersi verso l'irrazionalità". Oggi però l'uomo che ha internazionalizzato la questione del nucleare iraniano appare sempre più solo. Netanyahu ha contro la Casa Bianca, l'Europa e molti ufficiali di rilievo del suo apparato di sicurezza.
"Netanyahu sembra solo, ma non lo è", dice al Foglio Efraim Inbar, direttore del Centro Begin-Sadat dell'Università Bar-Ilan, ma soprattutto storico consulente del premier Netanyahu. "Ha il Congresso degli Stati Uniti dalla sua parte e non è poco, assieme a Israele. Il problema è la crisi profonda che si è creata fra Israele e gli Stati Uniti. Netanyahu vuole avere il diritto di dire quello che sa e pensa di fronte all'America e al mondo intero sull'atomica iraniana. Finché c'è la possibilità che il Congresso rilanci il dibattito pubblico negli Stati Uniti contro l'Iran, e ostacoli il tentativo dell'Amministrazione Obama di firmare l'accordo, Netanyahu si sente in dovere di prendere posizione contro tutte le probabilità di fermare un cattivo accordo con l'Iran".
Secondo Inbar, peggiore accordo non poteva profilarsi. "Si tratta di un accordo orribile che legittima il regime iraniano, che giustifica la sua fame nucleare agli occhi dell'opinione pubblica internazionale, che di fatto trasforma l'Iran in uno stato nucleare 'breakout', ovvero che può fare la Bomba quando lo desidera. All'inizio dei talks non ci doveva essere nessun arricchimento dell'uranio e adesso si scopre che l'Iran potrà tenere accese seimila centrifughe, il bunker di Fordo e la centrale di Arak e il sistema missilistico. Non si parla neppure del terrorismo iraniano nel mondo. E' dunque un terribile accordo. Obama cerca un accordo con la Repubblica islamica dell'Iran per il suo programma nucleare che consentirà al presidente di affermare che egli ha impedito a Teheran di costruire la Bomba. Il fatto che l'Iran manterrà la capacità di arricchire l'uranio e che non dovrà smantellare nessuno dei suoi impianti nucleari viene semplicemente scacciato sotto il tappeto come insignificante. Teheran otterrà tutto ciò che vuole, mentre Washington avrà una promessa iraniana di non diventare un paese nucleare finché Obama è alla Casa Bianca". Gli altri punti dolenti dell'accordo sono la supervisione internazionale sul progetto iraniano, quali restrizioni verranno imposte all'Iran dopo dieci anni e cosa accadrebbe se Teheran violasse l'accordo appena siglato. Per due anni si è letto e discusso di un possibile strike militare israeliano alle centrali iraniani. Ma non se ne è fatto mai nulla. Non è che Israele potrebbe tornare a valutare l'opzione adesso che il patto si stringe davvero? Conclude Inbar: "Israele non sarà legato da questo pezzo di carta che verrà firmato fra America e iraniani. Le opzioni militari di un attacco preventivo torneranno sul tavolo. Nella visione di Obama, Netanyahu può ancora utilizzare l'opzione militare, e quindi distruggere il suo unico 'successo' di politica estera. Infatti, tra i candidati premier alle prossime elezioni, solo Netanyahu avrebbe considerato di ordinare all'esercito di attaccare gli impianti nucleari iraniani in spregio agli Stati Uniti".
Per adesso, è Bibi contro tutti.
(Il Foglio, 3 marzo 2015)
Nethanyahu: Gli ebrei non saranno più passivi, mai più
Il premier israeliano ha parlato di fronte all'America Israel Public Affairs: "Per duemila anni siamo stati senza poteri".
ROMA - Parlando di fronte alla più potente lobby ebraica negli Stati Uniti (l'America Israel Public Affairs), il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che l'alleanza con gli Usa non è mai stata così forte e si rafforzerà nel futuro. "Sono più che amici, sono una famiglia: i disaccordi all'interno di una famiglia sono sempre spiacevoli ma dobbiamo ricordare che siamo una famiglia". Netanyahu ha poi affrontato l'argomento legato alle armi nucleari: "L'Iran è prima di tutto uno Stato che appoggia il terrorismo nel mondo. Se svilupperà armi nucleari raggiungerà i suoi obiettivi. Non consentiamo che ciò accada". "L'obiettivo è di alzare la voce contro un accordo sul nucleare con l'iran che minaccia la sicurezza di Israele - ha aggiunto -, ho un obbligo morale di alzare la voce: Israele deve difendere sé stesso contro le minacce". Secondo il premier israliano, "per 2000 anni gli ebrei sono stati senza poteri. Non più. Non saremo passivi".
(il Velino, 2 marzo 2015)
Magdi Allam: "Vi spiego il Corano: ci conquisteranno"
Prossimamente con il Giornale il libro sacro (commentato): "Lì dentro c'è già scritto tutto".
di Alberto Giannoni
MILANO - «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi».
Vangelo di Giovanni, 8:32
Il motto evangelico di Magdi Cristiano Allam
è lo stesso che anima tanti italiani che vogliono capire.
Italiani come quelli che ieri sera hanno riempito il teatro Manzoni di Milano per ascoltare dalla voce esile dello scrittore ed editorialista del Giornale la potente verità sul nuovo terribile protagonista di una storia ben lontana dall'essere finita: il terrorismo islamico che minaccia di piantare la sua bandiera sul Vaticano. Nato al Cairo e per 56 anni musulmano moderato, oggi Allam è sotto scorta da 12 anni: gli islamisti lo hanno condannato a morte. Davanti a centinaia di persone, Allam è stato intervistato da Alessandro Sallusti, direttore del Giornale : «L'unico giornale ha ricordato - che quando sono stato sottoposto a un procedimento disciplinare per omofobia ha assunto una posizione chiara». A poche centinaia di metri dal teatro, Porta Nuova, pezzo pregiato della città comprata dal Qatar. E intanto corre inesorabile la demografia: «Siamo destinati a essere conquistati».
Verità e libertà.
La serata si è aperta con l'attore Edoardo Sylos Labini che ha letto una sura del Corano sulle immagini della barbara distruzione delle statue di Mosul. Ed è proseguita con le profetiche parole di Oriana Fallaci, che morì tre giorni dopo il discorso di Ratisbona di Benedetto XVI. «Il Papa disse la verità. E la voce di Oriana - ha detto Allam - scosse l'Italia e il mondo nella denuncia del terrorismo e anche della pavidità dell'Occidente». A giorni, col Giornale uscirà un'edizione del Corano commentata da Allam. Nel Corano è la risposta di tutto. L'ha ricordato Sallusti: «Sei stato il primo a sostenere che quel che accade non accade per caso ma perché è scritto in un libro sacro, a cui noi portiamo rispetto, ma di cui non esiste interpretazione». «Nell'islam il Corano è della stessa sostanza di Dio - la risposta - Ecco perché non si interpreta». «E ogni volta che pregano, condannano ebrei e cristiani. Se le cose stanno così, che senso ha continuare a promuovere il dialogo all'insegna del relativismo?». Ecco il punto: «Non sono pazzi». Ed ecco il monito, che torna alla Fallaci e Winston Churchill, che col nazismo alle porte esortava gli inglesi: «Verseremo lacrime e sangue». «Anche noi verseremo lacrime e sangue. Siamo in guerra».
(il Giornale, 3 marzo 2015)
Morte di un politico gentile con Israele
Contro Nemtsov, di madre ebrea, anche l'arma dell'antisemitismo
Sua madre era ebrea, ma Boris Nemtsov era stato battezzato da suo nonno, russo ortodosso. Il leader dell'opposizione russa ucciso venerdì sera sotto le torri del Cremlino era un amico di Israele, prendeva parte alle conferenze organizzate dal Centro Simon Wiesenthal e la campagna interna per delegittimarlo ha preso qualche volta le sembianze dell'antisemitismo - verrebbe da dire strisciante, ma mica tanto: l'antisemitismo in certi settori neri di Mosca non striscia, anzi è in forma smagliante.
Questo legame ebraico di Nemtsov va ricordato ora che si è preso quattro pallottole nella schiena perché lui non è che la vittima più illustre della guerra di propaganda che si combatte tra Russia e Ucraina (non conta quale sia il movente vero e il responsabile materiale: Boris ha subìto un martellamento ignobile in vita e di quello si conoscono perfettamente i mandanti). In quella guerra, l'antisemitismo è stato agitato in tutte le sue forme: o gettandolo addosso agli avversari per farli apparire come dei pericolosi nazisti, o rivendicandolo senza imbarazzo - come fattore identitario che condisce meglio il nazionalismo esasperato della soldataglia da ambo le parti.
Muore un politico gentile con Israele, e la questione è quasi assente dalle notizie, schiacciata com'è dall'altra questione, quella gigantesca del rapporto con un Vladimir Putin sempre più prigioniero delle conseguenze della sua politica. Se l'essere di origine ebrea ha aizzato i nemici di Boris Nemtsov durante la sua campagna d'opposizione, gli valga adesso un piccolo riconoscimento in più, accanto a quelli già tributatigli dai simpatizzanti in tutto il mondo.
(Il Foglio, 3 marzo 2015)
Il boogie di Silvan sbarca in Israele
Il suo tour arriverà anche a Lugano e dintorni tra il 10 e il 12 aprile
TICINO/TEL AVIV - Prima di riportare il suo Boogie Woogie Festival a Lugano e dintorni dal 10 al 12 aprile, in questi giorni Silvan Zingg è impegnato in un mini-tour in Israele.
Nel corso della sua lunga attività Silvan si è esibito in tutta Europa, in parte dell'Asia e negli Stati Uniti. "In Israele è la prima volta, non posso nascondere la forte emozione
", ci rivela il pianista ticinese poche ore prima di imbarcarsi sul volo Zurigo-Tel Aviv. "L'invito, oltretutto, mi ha profondamente lusingato, poiché questo tour è legato a una manifestazione molto importante, il Festival Hot Jazz, che con scadenze regolari porta in Israele nomi prestigiosi del panorama musicale internazionale
Nel 2013, ad esempio, è stato il turno di Junior Mance
".
Ma Silvan non sarà solo: "A "corredare" i miei i show i campioni del mondo di ballo boogie woogie, ossia Thorbjorn (Norvegia) e Flora (Francia), che il pubblico ticinese ha già avuto modo di apprezzare nel corso degli anni al Boogie Woogie Festival a Lugano
".
E proprio raccontandoci della prossima edizione della rassegna luganese, la quattordicesima, il cui momento clou è in programma l'11 aprile tra le mura del Palazzo dei Congressi, Silvan ci anticipa la partecipazione di un ospite d'eccezione, quello di Bob Seeley, "una vera e propria leggenda vivente del pianoforte...".
(tio.ch, 3 marzo 2015)
Una sospetta auto bomba davanti alla sede dell'Ucei al Ghetto scatta l'allarme
Gli artificieri chiamati per una yaris abbandonata di fronte agli uffici dell'Unione delle comunità ebraiche italiane.
L'allarme terrorismo è scattato al Ghetto ieri mattina, alle 7.40, una macchina sospetta era stata abbandonata sul lungotevere Raffaello Sanzio, proprio di fronte alla sede dell'Ucei (Unione delle comunità ebraiche italiane). «C'è un'auto sospetta poco lontano dalla scuola ebraica», comunicano i poliziotti della volante ai colleghi della Sala operativa, «chiediamo rinforzi». Dal 113 viene inoltrata la richiesta al commissariato di zona, le auto della polizia piombano su questo tratto del lungotevere in pochi minuti, arrivano anche gli artificieri per controllare se nell'auto ci sia dell'esplosivo.
I controlli
L'area viene transennata e isolata al traffico, gli esperti della polizia controllano con l'aiuto del robottino l'interno della macchina. La tensione è alta, ma si scioglie poco dopo, l'auto «è pulita». I tabulati informati ci rivelano che la macchina, una Yaris, è stata rubata il giorno prima e abbandonata dai ladri nella notte.
L'allarme bomba è falso, ma restano i dubbi degli esperti dell'antiterrorismo. La zona intorno al Ghetto è considerato un obiettivo a rischio di attentati, ed è sotto sorveglianza come altri luoghi della città, gli agenti che lo controllano hanno subito notato la macchina abbandonata e l'allarme è scattato all'istante. Il dispositivo di sicurezza ha funzionato, ma perché l'auto è stata lasciata proprio in quel punto?
Il test
Chi l'ha rubata l'ha usata solo per alcune ore, e già questo, agli investigatori suona strano. In genere le macchine vengono rubate per commettere una rapina o per essere smontate e rivendute. Il dubbio di chi indaga è che possa essersi trattato di un «test». Forse il ladro non era un ladro qualsiasi, e la Yaris è stata lasciata apposta davanti alla sede dell'Ucei per controllare i tempi di intervento delle forze dell'ordine. Naturalmente è solo un sospetto «ma in questo momento storico - dice un investigatore - nulla può essere tralasciato, nemmeno un episodio che sembra banale come questo dell'auto abbandonata al Ghetto. I terroristi ai confini del Mediterraneo sono sempre più accaniti nei loro proclami, dobbiamo essere pronti ad intervenire in ogni momento, e prevedere anche scenari che possono sembrare improbabili. L'Isis ha mandato in rete i fotomontaggi con la bandiera nera del califfato su San Pietro e sul Colosseo, propaganda, e anche se al momento non c'è una minaccia concreta, il pericolo di un attacco per il nostro paese è serio e nulla può essere sottovalutato».
Alcuni giorni fa un altro allarme era scattato nella capitale, due giovani stranieri, forse libici, erano entrati in un'armeria della capitale per chiedere il prezzo di un giubbotto antiproiettile e di un visore notturno. Il proprietario dell'armeria aveva segnalato l'episodio ai carabinieri, ma i due giovani hanno fatto perdere le loro tracce.
(Il Messaggero - Roma, 3 marzo 2015)
Ecco Lech Lechà Purim, il summit dell'ebraismo meridionale a Trani
Tra le tante personalità attese, prevista la partecipazione del Console Generale degli Stati Uniti
TRANI - E' in corso tra Trani e Barletta la terza edizione di Lech Lechà Purìm, Settimana di arte, cultura e letteratura ebraica. L'epicentro delle manifestazioni è la Sinagoga di Trani. E' da qui che si proietteranno sul territorio decine di eventi della Settimana di Lech Lechà che quest'anno cade in coincidenza con la festa di Purìm durante la quale si svolgeranno conferenze, presentazioni librarie, concerti, danze, cucina kasher, studio dei testi scritturali e lo Shabbath nell'incantevole scenario di Piazzetta Scolanova, proprio davanti alla Sinagoga tornata a nuovo splendore dopo recenti lavori di restauro. Il tutto proiettato alla ricerca di radici antiche e di prospettive per il futuro. Lo stesso titolo del festival (Lech Lechà ossia Va' verso te stesso) richiama simbolicamente la dimensione dell'interiorità, i valori del dialogo spirituale, le ragioni più profonde della relazione con se stessi e con l'alterità. Il titolo della nuova edizione del Lech Lechà -ha voluto legarsi quest'anno a una imminente ricorrenza ebraica, la festa di Purim: essa cade il 14 del mese di Adàr, secondo il calendario ebraico (4-5 marzo 2015 secondo il calendario civile). È una festa gioiosa istituita successivamente a quelle stabilite dalla Toràh in ricordo della salvezza del popolo ebraico ad opera della regina Ester. La tradizione vuole che durante il Regno di Assuero, re di Persia e di Media, avvenne che il più potente dei dignitari del re, Hamàn fu indispettito da Mordechài, cugino e tutore della regina Ester, il quale non si inchinava al suo passaggio. Hamàn istigò il re Assuero a emettere l'ordine di distruggere tutto il popolo ebraico cui Mordechài apparteneva. Fu perciò estratto il pur (la sorte) del giorno in cui la distruzione sarebbe avvenuta: il 13 di Adàr. La regina Ester riuscì tuttavia a capovolgere le sorti ottenendo la distruzione di Hamàn e la salvezza degli ebrei di Persia. Questi avvenimenti sono narrati nella Meghillàth Ester (Rotolo di Ester) che viene letta in tale ricorrenza.
Il denso programma di Lech Lechà Purim, è cominciato lunedì 2 marzo e proseguirà fino a sabato 7 marzo con l'alternarsi e susseguirsi di decine di eventi fra Trani e Barletta, eventi che proveranno a narrare il complesso universo della "cultura ebraica"; una settimana tra arte, cultura e letteratura ebraica che quest'anno coincide con la festività ebraica di Purìm e che rende Lech Lechà uno dei più importanti eventi dell'ebraismo italiano.
La manifestazione vede la presenza di rabbini, studiosi, musicisti e da quest'anno coinvolge anche alcune scuole di Trani e Barletta. La scelta è quanto mai significativa perché questo viaggio verso le proprie radici riguarda tutti in un territorio come quello pugliese e più in generale del Sud nel quale i rapporti con la cultura ebraica vantano un passato più che millenario. La prima giornata, lunedì 2 marzo, è cominciata dal Liceo Statale Classico e Scienze Umane De Sanctis di Trani, con la presentazione del libro di Thomas Saintourens Il Maestro, dedicato al pianista Francesco Lotoro, tra i direttori artistici della stessa manifestazione, e condotto da Danilo Marano. Lo scrittore francese definisce il maestro Lotoro «eroe silenzioso che un giorno scoprì di avere una missione, ossia trovare e riportare in vita la musica creata in tutti i campi di concentramento dai musicisti deportati». Oggi, dichiara Lotoro, se tutti questi musicisti fossero sopravvissuti, la cultura umana e il mondo musicale del XX secolo si sarebbero sviluppati in modo diverso. E' difficile comprenderlo da uomini liberi ma quando si è vicini alla morte le forze umane raddoppiano e nel momento più tragico della Storia, l'uomo ha trovato forza e lucidità per scrivere.
La giornata è proseguita, a Barletta, alle 17 presso la Sala Comunità S. Antonio, con I love Israel: Sentimenti dell'ebreo nei riguardi di Eretz Israel. Israele è un'idea prima che uno Stato o una porta d'accesso alle cose dello spirito. Foraggia sentimenti, ispira energie d'amore, scatena odii incontrollabili (da parte di chi Israele non lo conosce) e porta il nome di un patriarca, quel Yaakov che "combattè persino contro Dio". A parlarne sono stati Guido Regina, già Primario di Chirurgia vascolare presso il Policlinico di Bari da anni impegnato nella promozione dei valori e della bellezza intellettuale incarnata nello Stato ebraico. Moderatore Ottavio Di Grazia. A seguire, stesso luogo alle 18, Serena Di Nepi ha presentato "Sopravvivere al ghetto: Per una storia sociale della comunità ebraica nella Roma del cinquecento". C'è qualcosa che lega indissolubilmente il popolo ebraico ai libri. Gli ebrei possiedono il Libro per eccellenza: la Torà, non solo Legge scritta da Dio e summa della storia dell'Umanità e dell'Universo ma thesaurus della Scienza e Tecnica che segna i meccanismi dell'intelletto, scaffale di idee e valori utili a esercitare il gusto del progresso e della libertà d'espressione
Sempre a seguire, ore 19, La kasheruth come profilassi del corpo e della mente, relatore Rav Scialom Bahbout, una lezione dedicata alla memoria di Concetta Dadamo. Il nutrimento materiale è paritetico a quello spirituale, a esso sono dedicati fiumi di pagine di Torà, Mishnà e Talmud al punto che è nata una disciplina di vita e salute, la kasherut. Non si può mescolare latte (o suoi derivati) e carne durante lo stesso pasto, la kasherut raccomanda quali carni o grassi di un animale possano essere mangiati; sono ammessi solo quadrupedi che hanno l'unghia spaccata e sono ruminanti, l'animale va macellato in modo conforme alla halachà. Tutti questi momenti sono legati da un filo sottile che lega indissolubilmente il popolo ebraico ai libri e al libro per eccellenza: la Torah che attraverso la vita degli ebrei e della loro storia permeandone cultura e vita quotidiana.
La manifestazione è proseguita in serata con Il Canto di Abramo: a Barletta, nella Sala Athenaeum alle ore 20, di scena Józef Koffler e l'avanguardia musicale tra le due Guerre, un recital con la pianista Elzbieta Sternlicht dedicato al compositore, didatta e musicologo polacco Koffler che, successivamente all'occupazione tedesca dell'Ucraina, fu catturato con la moglie e il figlio e trasferito presso il Ghetto polacco di Wieliczka.
La prima giornata si è conclusa a Trani, presso il Ristorante Taverna Portanova in piazza Ferdinando Lambert 7, e per tutta la settimana si può mangiare kasher sotto stretta sorveglianza del Rabbinato di Napoli al costo promozionale di € 17,00. Le pietanze saranno accompagnate dal vino kasher prodotto da l'Antica Casa Vinicola «Leuci» di Guagnano (Le), unica azienda pugliese che produce vini kasher.
Giornata centrale nell'ambito della manifestazione, per i suoi molteplici significati storici, religiosi e culturali è quella di oggi martedì 3 marzo quando alle ore 17 sarà inaugurata la Sinagoga Scolanova di Trani, dopo i lavori di restauro che ne hanno visto per diversi mesi la temporanea chiusura. Gli interventi, che hanno riguardato l'interno del plurisecolare edificio di culto, sono stati finanziati con fondi previsti dalla Legge 175/2005 dedicata ad importanti interventi di recupero del patrimonio culturale ebraico presente in Italia. I lavori sono stati coordinati dalla Comunità Ebraica di Napoli (a cui fa capo la Puglia ebraica), in accordo con la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Bari, Barletta-Andria-Trani e Foggia (responsabile la dr.ssa Lucia Caliandro), progettati e diretti dall'architetto barlettano Nicolangelo Dibitonto.
È l'evento che segna fortemente questa edizione del Lech Lechà. La sinagoga è il luogo ebraico per eccellenza, non a caso la cerimonia di inaugurazione sarà preceduta alle ore 12 da una lezione del Rabbino Capo di Napoli Rav Umberto Piperno Preghiera pubblica e privata attraverso gli scritti di Ieshyà da Trani detto il Mabit; una full immersion sotto la guida di numerose autorità rabbiniche (tra le quali Rav Piperno, Rav Bahbout, il Maskil Valter di Castro e il Maskil Marco Dell'Ariccia) nei testi che costituiscono l'ossatura stessa dell'ebraismo, la sua cifra storica e religiosa e che accompagnerà i partecipanti nello studio della Toràh e della Mishnà, del Talmud e della Halachà anche in relazione alla festa di Purim che si svolge in questi stessi giorni.
L'inaugurazione sarà accompagnata da un'altra lezione di Rav Piperno su Democrazia e Repubblica nel commento di Abravanel redatto a Monopoli, seguirà una lezione del Rav Scialom Bahbout Il rotolo di Ester e l'eclissi di Dio; seguiranno gli interventi di Renzo Gattegna (presidente Unione Comunità Ebraiche Italiane), Colombia Barrosse (console generale degli Stati Uniti d'America per il Sud Italia), Pier Luigi Campagnano (presidente Comunità ebraica di Napoli), Antonio De Iesu (Questore di Bari), Clara Minerva (Prefetto della Provincia di Barletta-Andria-Trani), Maria Rita Iaculli (Commissario prefettizio Comune di Trani) e Pasquale Cascella (Sindaco Comune di Barletta). Modererà Cosimo Yehudah Pagliara (referente regionale della comunità di Napoli).
La gran parte degli eventi su Trani non ricadenti in Sinagoga si svolgeranno presso l'Auditorium San Luigi (Piazza Mazzini), ivi si terranno conferenze, presentazioni librarie e concerti sia pianistici che orchestrali grazie alla collaborazione della A.C.L.I. Trani.
Lech Lechà Purìm è sostenuto dall'Assessorato al Mediterraneo, Cultura e Turismo della Regione Puglia e altresì patrocinato da Unione Comunità Ebraiche Italiane, Comunità ebraica di Napoli, Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria di Barletta, Associazione Musicale Suoni del Sud di Foggia e American Chamber of Commerce in Italy.
Durante la settimana, libri di argomento ebraico saranno presentati dagli Autori con la partecipazione di giornalisti e uomini di cultura. Ogni libro sarà acquistabile presso lo stand di editoria e discografia ebraica a margine della relativa presentazione (a cura della Libreria La Penna Blu di Barletta) con una ricca offerta di opere editoriali, saggistica, letteratura religiosa e sociale, romanzi e pubblicazioni recenti di autori ebrei.
(Quindici-Molfetta, 3 marzo 2015)
F-35: Israele acquista altri quattordici caccia
Affare da 2,82 miliardi di dollari
Siglato l'accordo tra Lockheed Martin ed Israele per l'acquisto di altri quattordici F-35 per un costo di circa 110 milioni di dollari ciascuno. E' quanto comunica dal ministero della Difesa israeliano.
Abbiamo acquistato - si legge nella nota ufficiale - altri quattordici JSF per circa tre miliardi dollari, con un costo medio di 110 milioni di dollari a velivolo.
L'affare da 2,82 miliardi di dollari, compresa anche la manutenzione dei velivoli e la formazione del personale, è stato siglato lo scorso fine settimana dopo essere stato approvato da un comitato ministeriale il primo dicembre scorso. Esso prevede l'acquisto di quattordici caccia stealth e la possibilità di comprarne altri 17. E' la prosecuzione di un accordo siglato nel 2010 per l'acquisto di diciannove F-35. I primi due caccia arriveranno in Israele per la fine del 2016.
Con il caccia di quinta generazione - scrivono dall'IAF - incrementeremo la potenza della nostra aeronautica e saremo in grado di difendere Israele da qualsiasi minaccia futura.
Il primo squadrone composto da diciannove F-35 sarà operativo nell'Isralian Air Force ad inizio 2019, mentre è stata già confermata la volontà di acquistare un secondo lotto per la creazione di un secondo squadrone.
L'F-35 è tecnologicamente più avanzato rispetto all' F-16I (la 'I' sta per Israele) ed è considerato uno dei più potenti caccia in produzione. Il velivolo della Lockheed Martin, diventerà il primo aereo stealth in forza all'IAF.
Così come avviene per ogni aereo che entra in linea con l'aviazione israeliana (prassi comune anche negli Usa, in Russia, in Cina, in Giappone, in Svezia, in Germani, ma purtroppo non Italia), anche l'F-35 sarà ribattezzato.
"Ha-Adir" (Il Grande), sarà il nome di battaglia dell'F-35 di Israele.
L'F-35 - continuano dall'IAF - è per certi versi una versione moderna dell'F-16. E' stato costruito come un piccolo aereo monomotore. "Ha-Adir" è estremamente efficace per la sua versatilità in quanto può svolgere qualsiasi tipo di missione: supporto aereo ravvicinato e dogfight in primis oltre alla capacità di ingaggiare il nemico oltre il raggio visivo.
Ma perchè Israele ha puntato sull'F-35?
Per due motivi principali: la tecnologia stealth e l'avionica. La tecnologia stealth consente al velivolo di volare praticamente inosservato. Per molti anni, la tecnologia stealth è stata ritenuta troppo costosa per essere implementata sui piccoli aerei, motivo per cui fu utilizzata solo sui bombardieri più grandi e costosi come il B-2, il B-1 e l' F-117.
Il recente sviluppo dell'F-35 consente l'incorporazione delle caratteristiche stealth ad un prezzo contenuto.
L'F-35, infine, è stato progettato per essere equipaggiato i con migliori sistemi elettronici di bordo al mondo.
Essi saranno parte integrante del velivolo e non come dotazione supplementare così come avviene per altri caccia.
Gli F-35 acquistati
Il Comitato Ministeriale per gli Appalti Pubblici della Difesa di Israele lo scorso primo dicembre ha approvato l'acquisto di quattordici nuovi F-35 rispetto ai trentuno previsti dall'Air Force. Non si tratterebbe di un ripensamento, ma di una proroga rimandata al 2017. Dopo ulteriori consultazioni ed un voto supplementare della Commissione, si valuterà l'acquisto degli altri diciassette caccia.
I quattordici F-35 si aggiungono ai diciannove già acquistati per formare due squadriglie stealth. I primi diciannove F-35 sono costati complessivamente, anche grazie ad aiuti militari ottenuti da Israele, 2,75 miliardi di dollari. Israele, entro il 2021, conta di avere in linea cinquanta F-35.
La base aerea di Nevatim, nel Negev, sarà la casa degli F-35.
La "I" sul nostro caccia sta per Israele
Dieci anni fa, l'aviazione israeliana ha introdotto la lettera "I" sul famoso F-16 Falcon, divenuto l'F-16I. Conosciuto anche come 'Sufa' (Tempesta in ebraico), il velivolo è stato costruito negli Stati Uniti, ma pesantemente modificato con sistemi avanzati progettati e costruiti in Israele.
Ma cosa c'è di così speciale nell' F-16 israeliano?
In effetti, esistono migliaia di F-16 in quasi ogni forza aerea occidentale. L'F-16I 'Sufa' tuttavia, è molto diverso. Intanto la 'I' sta per Israele. Il caccia è stato pesantemente modificato per adattarsi alle specifiche esigenze dell'Israel Air Force. L'F-16I è equipaggiato con sistema di armi all'avanguardia, un radar appositamente costruito e una tecnologia implementata nel casco che consente al pilota di inquadrare il nemico con "il semplice sguardo".
Queste le caratteristiche del 'Sufa'
Conformal Fuel Tanks (CFT) - Questi serbatoi sono realizzati dalle "Israel Aircraft Industries" e aumentano la capacità del carburante interno del velivolo del 50%.
AGP-68(V)X Radar - Il radar ad apertura sintetica (SAR), permette il tracciamento di bersagli terrestri con qualsiasi condizione meteo. Il radar consente il targeting automatico, risparmiando così tempo prezioso.
Helmet Mounted Cueing System - Sul casco dei piloti e dei navigatori sono proiettate varie informazioni come altezza, velocità ed equipaggiamento. Il casco è collegato al sistema di mira e consente al pilota di inquadrare e lanciare un missile su un bersaglio nemico usando solo la vista.
Dorsal spine Avionics Compartment - Parte dei sistemi avanzati sono stati installati secondo le specifiche della IAF. L'F-16I è dotato di sistemi di guerra elettronica avanzati sviluppati in Israele.
Comunicazione satellitare - L'F-16I incorpora due nuovi dispositivi di comunicazione prodotti da Elta e Rafael, tra cui una radio UHF con nuovi metodi di codifica e capacità di relè a lunga distanza.
La pubblicazione dell'IDF, al di là delle note informazioni sul caccia, andrebbe letta in un'altra chiave. L'approfondimento infatti, è un inno patriottico tipico di Israele.
Chiamare un caccia con la prima lettera del proprio paese, lo eleva a difensore assoluto della nazione.
(teleradiosciacca.it, 2 marzo 2015)
Un'azienda agricola di Medesano (PR) lancia il Parmigiano kosher
Specializzata nella produzione del Re dei Formaggi, l'azienda agricola Bertinelli di Medesano sarà la prima a ottenere la certificazione dei due enti più autorevoli al mondo in materia di cibo Kosher. A partire dallo scorso ottobre, infatti, l'azienda che opera sulle colline parmensi ha avviato la produzione di Parmigiano Reggiano dop Kosher: le prime forme saranno disponibili per il mercato a fine 2015. Formaggio prodotto nel segno della kasherut, la normativa ebraica sul cibo basata sull'interpretazione della Torah.
"Nella religione ebraica, le regole alimentari e i cibi sono rigorosamente codificati dai Libri Sacri - spiega Nicola Bertinelli, che insieme con il padre guida oggi l'azienda agricola -. La sfida di conciliare il disciplinare di un prodotto unico al mondo come il Parmigiano Reggiano dop con la kasherut si è rivelata estremamente complessa: le fasi interessate sono tutte, dall'allevamento delle bovine, che deve seguire determinate regole, alla mungitura, eseguita sotto la supervisione di un rabbino che verifica la natura Chalav Yisrael del latte, che può provenire solo da animali kosher".
"Anche il caglio animale con cui produciamo il Parmigiano Reggiano DOP - continua Nicola Bertinelli - deve essere certificato Kosher. In caseificio, il processo produttivo è costantemente monitorato dalla figura del Mashgiach Temid. Inoltre, per quanto riguarda gli impianti e le strutture, tutto il percorso è stato sanificato per adeguarlo alla normativa ebraica".
Bertinelli è infatti la prima realtà al mondo ad aver ottenuto la certificazione Kosher per la produzione di formaggio Parmigiano Reggiano sia da parte di OU - The Orthodox Union (la certificazione è in fase di ratifica, verrà ufficializzata ad aprile) sia da parte di OK Kosher Certification. Entrambi operanti a New York, tra Brooklyn e Broadway, OU e OK sono considerati i più autorevoli enti di certificazione Kosher al mondo dagli statunitensi e dagli israeliani: un aspetto importante perché negli Usa e in Israele vive oltre l'80% delle persone di fede ebraica. In Italia, il Parmigiano Reggiano DOP targato Bertinelli ha ottenuto il riconoscimento del rabbino di Milano.
L'azienda agricola Bertinelli prevede di produrre ogni anno 5.000 forme di Parmigiano Reggiano Kosher: buona parte della produzione avviata nell'ottobre 2014 è già stata venduta. Accanto al Parmigiano Reggiano Kosher l'azienda produrrà un formaggio fresco lattosio-free, sempre Kosher: le prime forme di questo prodotto saranno disponibili a partire dall'estate 2015.
"I motivi dietro a questa novità sono fondamentalmente due. Il principale è di natura culturale: da sempre la nostra si configura come una realtà di eccellenza nella produzione di Parmigiano Reggiano DOP, sensibile alle esigenze di consumatori sempre più esigenti e attenti alla qualità di ciò che servono sulla propria tavola. Se la certificazione Kosher è nata per orientare i comportamenti di acquisto dei fedeli ebraici, oggi è garanzia della qualità e della salubrità di un prodotto. Cito il caso degli Usa, dove i prodotti kosher - oltre 90.000 - rappresentano il 28% dei prodotti alimentari venduti nei supermercati: il 56% dei consumatori è composto da non ebrei bensì da persone che hanno sposato la filosofia alimentare vegetariana o con particolari intolleranze o allergie alimentari".
La seconda motivazione ha invece una natura business: "In un momento in cui anche Confagricoltura certifica le difficoltà del sistema Parmigiano Reggiano, è importante aprirsi nuovi orizzonti di mercato. Nel mondo vivono circa 13,5 milioni di persone di fede ebraica, di cui poco meno di 40.000 in Italia. Il fatturato mondiale del mercato alimentare kosher è stimato in 150 miliardi di dollari: un fenomeno che non è possibile ignorare".
Esprime soddisfazione Jack Dwek, importante esponente della comunità ebraica in Italia: "Il Parmigiano Reggiano Kosher rappresenta una novità di portata storica. Da tempo, la nostra comunità chiedeva di poter avere una versione Kosher del Re dei Formaggi: una missione impossibile all'apparenza. L'azienda agricola Bertinelli ha da subito prestato grande attenzione alle nostre richieste: la collaborazione è partita 12 mesi fa. Un anno segnato da ostacoli, dettati dalla complessità della kasherut: ma Nicola, con pazienza e dedizione, ha saputo ovviare a tutte le difficoltà. E ora il traguardo è veramente vicino".
(ParmaQuotidiano.info, 2 marzo 2015)
E Netanyahu vola negli Usa per fermare il 'cattivo accordo' con il governo di Teheran
di Maurizio Molinari
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu arriva oggi a Washington con l'intenzione di «impedire un cattivo accordo sull'Iran».
Prima di lasciare Israele si è recato al Muro del Pianto, sottolineando che la sua è una missione da «emissario dell'intero popolo ebraico» nel tentativo di convincere gli Stati Uniti a non consentire a Teheran di mantenere la capacità di arricchimento dell'uranio perché ciò significa rendere possibile l'atomica. La scommessa di Netanyahu è convincere il Congresso di Washington, con il discorso di domani, ad impedire il patto fra l'amministrazione Obama e il presidente iraniano Hassan Rohani.
Nel tentativo di smussare le tensioni fra alleati il Segretario di Stato, John Kerry, ha chiamato Netanyahu dicendogli che è «benvenuto» ma chiedendogli il «beneficio del dubbio» sulle intenzioni statunitensi. E Netanyahu ha risposto esprimendo «rispetto per il presidente Obama».
Ma ciò non toglie che Netanyahu si avvia a esporre al Congresso, guidato dai repubblicani, la tesi anti-accordo, che un suo collaboratore riassume così: «Ci sono 6 risoluzioni Onu che obbligano l'Iran a smantellare il programma nucleare e sono state votate sulla base del capitolo VII» ovvero minacciando il ricorso alla forza.
Per il quotidiano kuwaitiano «Al-Jarida» Netanyahu aveva ordinato il blitz sull'Iran nel 2014, i piani erano pronti e l'aviazione israeliana aveva condotto voli di prova su Teheran, passando inosservata ai radar, ma Obama lo venne a sapere da «un ministro israeliano molto vicino» e reagì minacciando di «abbattere gli aerei israeliani in volo sul Golfo» pur di salvare il negoziato in corso. L'indiscrezione al vetriolo svela l'entità del disaccordo fra Obama e Netanyahu sul nucleare iraniano.
(La Stampa, 2 marzo 2015)
Riyad apre lo spazio aereo ai jet israeliani?
di Eugenio Roscini Vitali
Il programma nucleare iraniano ha portato all'avvicinamento tra Arabia Saudita ed Israele: secondo un rapporto reso noto dal canale televisivo israeliano Channel 2, Riyad avrebbe autorizzato l'attraversamento dello spazio aereo nazionale ai caccia delle Forze aeree dello Stato ebraico (Heyl Ha'Avir). In cambio, il governo guidato del leader del Likud, Benjamin Netanyahu, avrebbe dato garanzie circa maggiori aperture sul processo di pace israelo-palestinese.
Indiscrezioni al riguardo circolano da tempo e secondo quanto pubblicato dall'organo di stampa russo Pravda.ru, la notizia sarebbe stata diramata da un rappresentante dell'Unione Europea; ai microfoni del quotidiano moscovita il funzionario dell'organizzazione con sede a Bruxelles avrebbe, inoltre, assicurato che "le autorità di entrambe i Paesi stanno coordinando un'azione comune su tutte le questioni relative all'Iran".
Strategicamente, per Israele l'utilizzo dello spazio aereo saudita rappresenta un fattore di grande rilevanza. In caso di attacco ai siti nucleari e alle rampe di lancio iraniane (nella foto a sinistra il sito di Natanz), i cacciabombardieri potrebbero utilizzare una rotta sensibilmente più breve, poco più di 1.000 miglia (1.600 chilometri).
La distanza sarebbe inferiore sia a quella calcolata per la tratta che dalla Bulgaria attraversa il Mar Nero, la Georgia e l'Azerbaijan, 1.200 miglia (2.000 chilometri), opzione questa che prevede il coinvolgimento di un membro della NATO e dell'Unione Europea e l'autorizzazione al passaggio di velivoli impegnati in una missione ostile contro un Paese terzo, sia a quella che aggira la Penisola Arabica, 3.000 miglia (4.800 km) per raggiungere il Golf Persico sorvolando il Mar Rosso, il Golfo di Aden e il Golfo di Oman.
Lo speciale andato in onda su Channel 2 ha evidenziato, inoltre, la collaborazione tra il Mossad e l'agenzia intelligence saudita Al Mukhabarat Al A'amah, questo nonostante tra i due Paesi non intercorrano rapporti diplomatici.
Riyad e Gerusalemme sono in allarme per l'esito dei negoziati bilaterali Washington-Teheran attualmente in corso a Ginevra: autorizzare il piano iraniano di arricchimento dell'uranio e la costruzione di centrifughe potrebbe, infatti, lanciare nella regione mediorientale una corsa irreversibile agli armamenti nucleari.
Ginevra arriva poi nel momento più basso dei rapporti tra Netanyahu e gli Stati Uniti, con il premier israeliano che su invito dei repubblicani si prepara a parlare al Congresso e si dice pronto ad attaccare la Casa Bianca sugli accordi sul nucleare con l'Iran e Obama che, insieme al Segretario di Stato, John Kerry, e al Consigliere per la sicurezza nazionale, Susan Rice, aggrava la situazione declinando ogni incontro con l'ospite.
(Analisi Difesa, 2 marzo 2015)
Arrestati dai servizi di sicurezza israeliani per traffici con Hamas
Ventisei persone, fra cui tre israeliani ebrei, sono stati arrestati dai servizi di sicurezza di Israele perché sospettati di aver rifornito clandestinamente il braccio armato di Hamas a Gaza di materiali necessari per la produzione di razzi e per l'allestimento di tunnel militari. Uno dei sospetti abita in un villaggio ebraico del Neghev colpito la scorsa estate dal fuoco di Hamas. "È un traditore", ha detto di lui il responsabile degli abitanti della zona.
Oltre ai tre israeliani ebrei, sono stati arrestati anche commercianti palestinesi di Gaza che detenevano permessi di ingresso in Israele. Le loro identità non sono state per ora rese note.
Secondo la radio militare, la rete acquistava in Israele materiali necessari a Hamas (fra cui tubature di vario genere, pannelli di metallo, fibre ottiche) e li faceva entrare di nascosto a Gaza attraverso il valico commerciale di Kerem Shalom. Il valore di queste transazioni, ha aggiunto l'emittente, è stimato in diversi milioni di dollari.
L'israeliano del Neghev accusato oggi al tribunale di Beer heva (Neghev) di aver partecipato attivamente alle operazioni si dice innocente. Il suo arresto, avvenuto settimane fa, è stato reso pubblico solo oggi. "Se colpevole - ha detto David Yellin, il presidente del consiglio regionale del Neghev occidentale (che per 50 giorni si è trovato esposto al fuoco di Hamas la scorsa estate) - quel traditore deve essere chiuso in una cella per tutta la vita". I suoi familiari vivono ancora in un villaggio situato a pochi chilometri in linea d'aria da Gaza.
(Fonte: swissinfo.ch, 2 marzo 2015)
Exploit di un diciassettenne agli europei di scacchi: battuto il campione israeliano Mikhalevski
Itay Westreich ha stupito tutti a Gerusalemme: «Neanche io me lo aspettavo».
di Maurizio Molinari
Un adolescente mette ko il campione, al primo round. Si è aperto con questa sorpresa il campionato europeo individuale di scacchi in corso in un hotel di Gerusalemme. Il protagonista dell'inattesa vittoria è Itay Westreich, 17 anni, riuscito a dare scacco matto a Victor Mikhalevski, campione israeliano di 46 anni considerato pressoché imbattibile nonché erede della tradizione di scacchisti sovietici, essendo originario dalla Bielorussia.
Weistreich, che viene dai piccolo centro di Matan, si dice a sua volta sorpreso per l'impresa compiuta: "Ammetto che non me lo aspettavo, non avevo mai vinto al primo round, giocavo contro un grande campione e quando mi sono accorto cosa è avvenuto ho realizzato di non disporre di un'esperienza da professionista".
In realtà l'adolescente gioca a scacchi da quando andava all'asilo, si è più volte affermato in competizioni minori e negli allenamenti ha sempre vicino - come arma segreta - la madre che gli ha insegnato a giocare con gli scacchi "ed anche ad amarli" come lui stesso precisa. Iniziato da pochi giorni con 248 partecipanti di 33 nazioni, inclusi 112 "chess masters", il campionato europeo ha dunque già trovato la sua prima stella.
(La Stampa, 2 marzo 2015)
Verso il trattamento dei tumori cerebrali
Un nuovo studio presso l'Università di Tel Aviv offre una speranza in più a decine di migliaia di pazienti affetti da gliobastoma multiforme, il tumore al cervello più comune e più maligno. Il Prof. Dan Peer del Dipartimento di Ricerca sulle cellule e di Scienza e geni dei materiali dell'Università di Tel Aviv, ed il Dott. Zvi Cohen, capo dell'unità di neurochirurgia oncologica del Sheba Medical Center di Tel Hashomer, hanno unito le loro forze per sviluppare un nuovo trattamento per il tumore al cervello che agisce direttamente sulle cellule tumorali senza danneggiare i tessuti sani, aprendo così un nuovo scenario per il trattamento di questo tipo di tumore distruttivo, che attualmente non prevede nessuna cura....
(SiliconWadi, 2 marzo 2015)
Oltremare - Missing Sayed
di Daniela Fubini, Tel Aviv
Il New York Times del weekend è una delle cose in cui ho lasciato il cuore a New York. Un cliché finchè si vuole, ma con i ritmi della grande città, il giornale si ha tempo di leggerlo davvero solo nei giorni non lavorativi, e io la domenica mi allungavo spesso e volentieri su un prato (mica uno a caso: la Great Lawn in Central Park), con intorno tutte le sezioni sparpagliate per il raggio di due metri: lettrice felice.
Dal mio arrivo in Israele, ho adottato la versione internazionale dell'Herald Tribune, che di recente è stata rilevata proprio dal Times, e contiene al venerdì la parte internazionale, quella israeliana ricavata da traduzioni abbastanza tempestive di Haaretz, oltre alla fondamentale "The Guide", compendio dei programmi culturali della settimana a venire. Ora l'allungo avviene in spiaggia: paese che vai
Mi sono affezionata presto alle colonne di Sayed Kashua. Negli anni, ho imparato a capire la sua ironia e la critica della società israeliana dall'interno, vista da un arabo israeliano di Tira che vive con la famiglia a Gerusalemme, in zona ebraica, e manda i bambini alla scuola di zona, con bambini ebrei e programma scolastico israealiano. Non è sempre facile guardarsi nello specchio di Kashua. Alcuni trovano il suo humor un po' tirato, anche se lo stesso autore ha firmato la serie tv "Lavoro Arabo (Avoda Aravit)" che ha spopolato per quattro stagioni.
Da qualche settimana, dopo pezzi molto pessimisti durante l'estate di guerra, sulle speranze di qualsivoglia sviluppo in positivo, Sayed Kashua ha chiuso la collaborazione con Haaretz. Motivazione ufficiale: è in America a insegnare scrittura creativa per un anno. Io ancora non mi sono abituata, e sfoglio automaticamente il giornale in cerca delle avventure della famiglia araba-israeliana, con bambini che parlano ebraico, adesso alle prese con l'America profonda, la neve, le auto enormi, le villette, il giardino da curare.
A me piacerebbe davvero che Sayed Kashua ritornasse, se non dagli Stati Uniti, almeno da questo silenzio davvero poco beneaugurante per Israele.
(moked, 2 marzo 2015)
Niente paura, leggete il Corano. Ci troverete le radici del Male
Per 56 anni ho creduto che l'islam potesse essere riformabile grazie a musulmani moderati come me. Mi sbagliavo. Il libro sacro è la negazione della civiltà.
Magdi Allam, editorialista del «Giornale», presenterà stasera a Milano una edizione commentata del Corano che sarà allegata al «Giornale. A intervistarlo il direttore del «Giornale» Alessandro Sallusti. L'incontro dalle ore 21 al Teatro Manzoni di Milano.
di Magdi Cristiano Allam
«Allah Akhbar! Allah Akhbar! Ash-hadu an-la ilaha illa Allah, Ash-hadu anna Muhammad-Rasul Allah». «Allah è Grande! Allah è Grande! Testimonio che non c'è altro dio all'infuori di Allah, Testimonio che Maometto è il Messaggero di Allah». Per vent'anni la mia giornata è stata cadenzata dall'adhan, l'appello alla preghiera diffuso dall'alto dei minareti nella mia città natale, Il Cairo, ribattezzata la «Città dai mille minareti». Per 56 anni mi sono impegnato più di altri, da musulmano moderato, ad affermare un «islam moderato» in Italia, aderendo e sostenendo sostanzialmente la tesi del Corano «creato», che per l'ortodossia islamica pecca ahimè di una fragilità teologica che scade nell'eresia. Perché così come il cristianesimo è la religione del Dio che si è fatto Uomo e che s'incarna in Gesù, l'islam è la religione del loro dio Allah che si è fatto testo e che si «incarta» nel Corano dopo essere stato rivelato a Maometto attraverso l'Arcangelo Gabriele. Per i musulmani quindi il Corano è Allah stesso, è della stessa sostanza di Allah, opera increata al pari di Allah, a cui ci si sottomette e che non si può interpretare perché si metterebbe in discussione Allah stesso.
Per contro, la tesi del Corano «creato», che sottintende che solo Allah è increato, consente l'uso della ragione per entrare nel merito dei contenuti del Corano, che possono essere oggetto di culto da parte della fede ma anche oggetto di valutazione e critica; così come consente la contestualizzazione nel tempo e nello spazio dei versetti rivelati per distinguere ciò che è da considerarsi attuale e lecito da ciò che è invece è da ritenersi prescritto e caduco; ci mette in ultima istanza nella possibilità di poter affermare la dimensione «plurale» dell'islam e, in questo contesto di pluralismo, ci consente di far primeggiare la scelta dell'«islam moderato» che concili la prescrizione coranica con il rispetto dei valori fondanti della nostra comune umanità.
Per 56 anni ho scelto di battermi in prima persona, costi quel che costi, per affermare la bontà del Corano quale testo sacro dell'islam pur nella denuncia del terrorismo islamico. Nel 2003, dopo aver conosciuto Oriana Fallaci ed aver instaurato con lei un rapporto che, al di là della reciproca stima professionale, della condivisione della denuncia del terrorismo islamico e della pavidità dell'Occidente, si fondava su un affetto sincero e una solida amicizia, tuttavia il nostro rapporto fu turbato dal mio rifiuto di abbandonare l'islam e di concepire che la radice dell'islam risieda nel Corano. Mi sentivo contrariato quando scriveva: «L'islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. È incompatibile col concetto di civiltà». Eppure, all'indomani della mia conversione al cristianesimo il 22 marzo 2008, ho scritto: «Ho dovuto prendere atto che, al di là della contingenza che registra il sopravvento del fenomeno degli estremisti e del terrorismo islamico a livello mondiale, la radice del male è insita in un islam che è fisiologicamente violento e storicamente conflittuale».
L'errore in cui incorsi fu di immaginare che l'islam potesse essere riformabile al suo interno grazie all'impegno dei musulmani moderati. Alla fine, dopo oltre cinque anni trascorsi da condannato a morte dai terroristi islamici e reiteratamente minacciato dagli estremisti islamici, mi sono arreso di fronte all'evidenza: si può essere musulmani moderati come persone, ma non esiste un islam moderato come religione. Oggi più che mai dobbiamo avere l'acume intellettuale e il coraggio umano di leggere ad alta voce il Corano e di affermare pubblicamente i suoi contenuti. Non possiamo essere vittime, da un lato, dei musulmani moderati che difendono aprioristicamente e acriticamente l'islam pur di salvaguardare la loro credibilità ed onorabilità, dall'altro, degli occidentali che per paura di offendere i musulmani sostengono in modo altrettanto aprioristico e acritico che il Corano insegna l'amore e la pace, che i terroristi islamici non centrano nulla con l'islam.
Solo leggendo il Corano scopriamo la specificità di una religione che condanna di eresia l'ebraismo e il cristianesimo; la realtà di Allah che era il dio supremo del Pantheon politeista arabo, clemente e misericordioso con chi si sottomette all'islam ma vendicativo e violento con i miscredenti; la verità di Maometto che è stato un guerriero vittorioso che ha fondato una «Nazione di credenti» combattendo e uccidendo i suoi nemici per ordine di Allah.
Solo leggendo il Corano potremo capire le radici di un'ideologia che legittima l'odio, la violenza e la morte, che ispira il terrorismo islamico ma anche la dissimulazione praticata dai «musulmani moderati», perseguendo il comune obiettivo di sottomettere l'intera umanità all'islam, che è fisiologicamente incompatibile con la nostra civiltà laica e liberale negando la sacralità della vita di tutti, la pari dignità tra uomo e donna, la libertà di scelta.
Solo leggendo il Corano potremo capire chi siamo veramente noi, se siamo ancora o non più in grado di riscattare la civiltà di verità e libertà, di fede e ragione, di valori e regole.
L'Italia non ha subito gravi attacchi dal terrorismo islamista, ma non può considerarsi al sicuro se si tiene conto che da anni diversi imam predicano odio, dozzine di centri islamici sono impegnati nel proselitismo e nel finanziamento a gruppi terroristici e che il Paese sta esportando combattenti nei teatri della jihad. Lo rileva un rapporto del Centro militare di studi strategici del ministero della Difesa. La comunità islamica italiana è composta da 1,6 milioni di persone, un terzo degli stranieri presenti, cui si aggiungono 60-70mila convertiti. Sono una ventina le organizzazioni principali, più di 100 le moschee, 159 i centri islamici, decine le scuole coraniche, tanti i siti internet. Secondo il dossier, «la radicalizzazione della comunità islamica rappresenta una potenziale seria minaccia». Dal 2001 ad oggi, circa 200 persone sono state arrestate con l'accusa di terrorismo. Milano è l'epicentro del radicalismo islamico in Italia.
(il Giornale, 2 marzo 2015)
Elmi, spade e scudi: a Gerusalemme, rivivono le crociate
Sembrano scene di un film ma si tratta, in realtà, di una ricostruzione storica. Un gruppo di appassionati israeliani del periodo delle crociate ha riportato in vita il viaggio dei soldati medievali verso Gerusalemme per 'liberare' il Santo Sepolcro. La 'Jerusalem winter march', questo il nome della manifestazione, è partita dalla valle di Aylon per raggiungere la città santa dopo ore di marcia (lapresse).
(la Repubblica, 1 marzo 2015)
Edoardo VIII? Pronto a essere un re nazista
di Matteo Sacchi
Il tema al governo e alla Corona inglese non è mai piaciuto. Ovvero i rapporti di Edoardo VIII (1894-1972), dopo l'abdicazione, con i nazisti.
Una nuova biografia - Seventeen Carnations. The Windsors, the Nazis and the Cover-Up - sullo zio della regina Elisabetta II che, nel 1936, abdicò per sposare l'ereditiera americana Wallis Simpson, presenta una serie di nuovi documenti sulle simpatie hitleriane del sovrano. A scriverla è Andrew Morton, l'autore della più famosa biografia su Lady Diana, che ha passato anni a studiare migliaia di documenti segreti che all'epoca re Giorgio VI, Churchill e persino Eisenhower avevano chiesto di far sparire, ma che invece sono sopravvissuti. Come ha spiegato Morton sul Mail on Sunday mentre il Terzo Reich stava crollando ufficiali nazisti avevano cercato di distruggere migliaia di microfilm relativi alle attività di alti personaggi vicini a Hitler. Il piano fallì e i documenti furono trovati dagli alleati. Arrivarono a Londra sotto il pomposo nome in codice Oro dei pirati. E solo allora gli agenti segreti di Sua Maestà si accorsero che contenevano materiale terribilmente compromettente su Edoardo. Le carte furono occultate, ma Morton sostiene di averle ritrovate. Ne esce un ritratto inquietante dell'ex sovrano, soprattutto per quanto riguarda la sua permanenza nella Spagna franchista e in Portogallo, a partire dal 1940. La tesi del libro è che Edoardo si sarebbe prestato a tornare sul trono come «fantoccio» della Germania nel caso in cui Hitler avesse vinto. Stando ai Windsor file Edoardo, parlando coi tedeschi o i nobili spagnoli, descriveva il fratello come «totalmente stupido», la regina come «un'intrigante» e Churchill come un uomo limitato «adatto a guidare il Paese solo in guerra». Mentre Hitler per Edoardo era «un grande uomo», la cui caduta sarebbe stata «una tragedia per tutto il Mondo». Per di più diceva a tutti che l'unico modo di portare gli inglesi al tavolo della pace era bombardarli senza pietà.
(il Giornale, 2 marzo 2015)
Israele punta sull'«archeologia del presente»
E in biennale schiera Tsibi Geva
Di casa a Tel Aviv, Tsibi Geva è il rappresentante di Israele alla prossima Biennale di Venezia. Come di consueto nelle sue grandi installazioni, anche "Archeologia del Presente", questo il titolo del progetto, si estenderà oltre che dentro le mura del padiglione dei Giardini, anche all'esterno, destabilizzare le divisioni tra "inside" ed "outside", alto e basso, e presenterà una serie di dipinti accanto ad installazioni di carattere scultoreo e oggetti abbandonati e manipolati, abolendo distinzioni gerarchiche tra mezzi e strutture.
Il tema di fondo? La "casa" nel senso più ampio del termine, con un'auto-riflessione dell'artista verso la politica, i temi dell'immigrazione, l'identità ibrida, l'angoscia esistenziale e la vita in un'epoca di instabilità.
Un altro "stato" da tenere d'occhio nella Biennale di Enwezor, certi che non deluderà, come sempre Israele ha saputo fare anche negli anni scorsi.
Geva, classe 1951, dal 1979 ha esposto in tutto il mondo, dall'Institute of Contemporary Art di Boston al nostro MACRO, dal Museo d'Arte di Haifa a Palazzo Reale di Milano fino alla Martin-Gropius-Bau, Berlino. La mostra sarà curata da Hadas Maor, altra figura storica della scena mediorientale, che dalla fine degli anni '90, ha lavorato con i principali musei di arte contemporanea di Israele (tra cui il Tel Aviv Museum of Art, il Museum of Art di Haifa, il Museo di Arte Contemporanea Herzliya, e il Centro israeliano per la Digital Art, di Holon). Inutile ricordare, ancora, che l'Italia sta ancora aspettando una sua lista di rappresentati.
(exibart, 1 marzo 2015)
Israele richiama riservisti
Esercitazione a sorpresa, richiamati tredicimila soldati
Da pochi giorni in carica, il capo di Stato maggiore delle forze di difesa israeliane Gady Eisenkot ha ordinato un'esercitazione a sorpresa di dimensioni senza precedenti negli ultimi anni che include, fra l'altro, il richiamo di 13mila riservisti. Le manovre, che coinvolgono numerose unità nella zona militare centrale, includono la simulazione di attentati palestinesi di vario genere e anche estesi scontri in Cisgiordania.
(TGCOM24, 1 marzo 2015)
Odio antisemita in mostra
«La Collaboration 1940-1945» espone tutto il campionario della caccia all'ebreo: foto, carte di polizia, lettere anonime. Dopo gli attacchi terroristici, la si guarda con occhi diversi.
di Sergio Luzzatto
La prima volta, in dicembre, c'ero andato da storico. Sfavillante delle luci di una vigilia natalizia, Parigi sembrava invitare ad altro siai parigini stessi, eternamente frettolosi, sia i turisti più o meno sfaccendati. Shoppinga parte, anche lì, nel Marais, sembrava esserci di meglio da fare - per chi non fa lo storico di mestiere - che infilarsi nel cortile delle vecchie Archives Nationales. A cominciare da un Musée Picasso finalmente riaperto. Mentre salivo lo scalone dell'Hotel de Soubise per visitare la mostra su «La Collaboration 1940-1945», avevo la sensazione di non fare altro che qualcosa di professionale, quasi di tecnico. La solita mostra documentaria, la solita polvere del tempo.
Mi ero soffermato su certe cose, avevo sorvolato su altre. Mi avevano particolarmente colpito le pagine spiegazzate degli elenchi stilati con zelo, nell'ottobre 1940, dai funzionari della Préfecture de Police di Parigi: il censimento sistematico - strada per strada, casa per casa, abitante per abitante - di tutti i «juifs» residenti a quella data nella capitale e dintorni. In pratica, il lavoro preparatorio per la caccia all'ebreo che si sarebbe aperta quindici mesi più tardi. Sgualcite dall'uso e ingiallite dal tempo, le Pages Blanches di uno sterminio ordinato dai tedeschi, ma organizzato dai francesi.
La mostra (che resterà aperta fino al 5 aprile) espone i materiali più vari, dalle carte di polizia i manifesti di propaganda, dalle fotografie ufficiali ai manoscritti letterari. Il più notevole di questi ultimi consiste in due pagine di Céline, la versione autografa del pamphlet Les beaux draps. lo miero chinato su quelle due pagine, nella vetrina, con il consueto disagio di chi scopre gli orrori di stampa dell'antisemita più talentuoso d'Europa: con la nausea dell'ammiratore disgustato. Né la nausea era scomparsa quando mi ero chinato sulla vetrina accanto: le amatissime copertine bianche di Gallimard, il venerato logo in corsivo minuscolo, nrj, mainalto, come autore di quellibro, il nome di Drieu La Rochelle. L'editore opportunista e il collaboratore collaborazionista.
Oggi - due mesi e mezzo dopo - all'Hotel de Soubise voglio ritornare non più da storico, ma da cittadino (italiano o francese, poco importa: diciamo da cittadino europeo). Voglio visitare la mostra sulla «Collaboration» con gli occhi di chi ha visto, nel frattempo, cose che non avrebbe immaginato di vedere nel suo Paese d'adozione, la proverbiale Francia della Rivoluzione e dei Diritti dell'Uomo. Non soltanto le immagini di due incappucciati nerovestiti che risalgono in macchina, urlando, un momento dopo avere vendicato Maometto e un momento prima di freddare, per strada, un poliziotto di nome Ahmed. Né soltanto le immagini dei clienti di un supermercato kosher, uomini e donne con bambini in braccio che fuggono terrorizzati nel pomeriggio di un giorno da cani.
Pochi giorni fa ho visto altro ancora. Immagini meno drammatiche, e nondimeno inquietanti. Ho vìsto il video di un reporter israeliano che ha camminato dalla mattina alla sera, con una kippah in testa, per le strade del centro e della periferia di Parigi: nient'altro che camminato, dritto davanti a sé, senza far nulla per attirare l'attenzione. E che tuttavia ha raccolto, per reazione, una quantità di sguardi ostili, gesti aggressivi, commenti volgari. Indici puntati contro il «sale juìf», lo sporco ebreo. Sputi addosso. «Questo qui è venuto per farsi fottere». Ho visto anche, nei giorni scorsi, le fotografie delle tombe profanate di un cimitero ebraico d'Alsazia. Una cittadina tranquilla, un paesaggio incantevole all'intorno, e nel campo israelitico decine e decine di sepolcri divelti, vandalizzati, distrutti. I responsabili? Quattro ragazzi del posto, incensurati,fra i quindici e i diciassette anni. Come a dire che potrebbero essere i compagni di scuola dei miei figli.
Sì, ritornando alle Archives Nationales, voglio guardare con occhi diversi la mostra parigina sulla «Collaboration». E voglio farlo pur sapendo che i tempi della storia non vanno mai confusi. Sapendo che l'anacronismo è anzi il peccato mortale dello storico, e che sarebbe improprio per tutti (storici o cittadini) assimilare questo nostro tempo agli anni Quaranta del Novecento. Ma oggi non mi interessa - al limite - la disumana eccezionalità di quei tempi di ferro e di sangue, 1940-1945, la Seconda guerra mondiale, l'Occupazione, la Soluzione finale. Oggi mi interessa l'umana banalità dei meccanismi di difesa e di offesa sociale. Mi interessano il sentimento di appartenenza, la diffidenza verso l'''altro'', la tentazione del capro espiatorio.
Fanno impressione, è chiaro, le fotografie più tragiche della mostra. La foto dei pullman in coda il 16 luglio 1942, quell'unica foto esistente della retata del Vél d'Hiv, 13.152 ebrei da deportare tutti in una volta. Le foto degli ebrei stranieri internati nei campi della Zona Sud e adesso pronti a partire, in fila indiana, per Drancy e poi per Auschwitz. Ma non sono meno impressionanti, a ben guardare, altri documenti esposti alle Archives Nationales. Certe lettere anonime, per esempio. Delazioni spicciole. Pedinate quello, controllate quell'altro, arrestate quell'altro ancora. Regolamenti di conti da vicini di casa ( o da amanti delusi, o da concorrenti commerciali) bardati di patriottiche accuse contro gli ebrei o contro i massoni, contro i comunisti o contro gli stranieri.
Nella Francia del 2015-dove il Front National prevede ragionevolmente di vincere le elezioni dipartimentali di fine marzo - quanto più colpisce della mostra sulla «Collaboratìon- è la forza sempreverde di una doppia retorica: la retorica una e bina dell'inclusione e dell'esclusione. Noi e loro. Ecco la famosa «Afficherouge», il manifesto stampato nella Parigi tedesca del febbraio 1944 contro i combattenti partigiani della Main-d'Oeuvre Immigrée. Che cos'hanno in comune i dieci resistenti più ricercati della regione parigina (e infine catturati, e condannati a morte)? Sono tutti stranieri. Quattro ebrei polacchi, tre ebrei ungheresi, un «comunista italiano», uno «spagnolo rosso», il «capobanda armeno». Nessuno è francese, nessuno è dei nostri. Sono tutti alieni. Hanno combinato tutto fra loro.
Se una retorica dell'esclusione può apparire spesso così primaria da riuscire ingenua, una retorica dell'inclusione può risultare altrimenti sofisticata. Ecco, alla mostra, la foto di un elegante palazzo parigino della Rive droite e un cartellone che troneggia al quarto piano, davanti alle finestre d'angolo:«Vogliamo la Francia unita in un'Europa unita!». La Francia unita in un'Europa unita? Al pianterreno del palazzo, una gigantografia del maresciallo Pétain illustra di quale Francia e di quale Europa si tratti. Perché nel 1940 come nel 2015 le parole degli slogan europeisti suonano bene, ma non bastano a dire tutto. In fondo, sarebbe stata un'Europa unita anche quella della pax hitleriana.
Voglio tornare all'Hotel de Soubise, ma non sono sicuro che rivedere la mostra servirà davvero a chiarirmi le idee. Da un lato, so di detestare l'appello che Benjamin Netanyahu lancia continuamente, da Israele, a tutti gli ebrei di Francia: venite qui, vi aspettiamo, è questa la vostra patria. Dall'altro lato, sento che non deve smettere di parlarci la storia della Terza Repubblica francese naufragata tra le acque di Vichy: una storia fatta - anche quella - di crisi economica, disoccupazione di massa, sgretolamento dei valori democratici' stigmatizzazione del diverso da sé, fascino dei leader populisti.
Né deve smettere di parlarci la storia (precedente, e meno nota) della «destra rivoluzionaria» in Francia: la cultura politica che iniettò all'Europa - oltre un secolo fa, e prima ancora di Benito Mussolini - il bacillo dell'ideologia fascista. Quella strana miscela di destra e di sinistra, di disciplina e di rivolta, di ruralismo e di operaismo, di frustrazione e di fierezza, di crociata e di laicità, che nella Francia di oggi viene quotidianamente impastata da una signora che tutti, ormai, chiamano familiarmente «Marine».
(Il Sole 24 Ore, 1 marzo 2015)
Ecco un'anticipazione del padiglione di Israele
Mancano solo 62 giorni al tanto atteso inizio di Expo. L'Esposizione Universale accoglierà più di 140 paesi da tutto il mondo e uno di questi è Israele. Quest'ultimo è un paese giovane, ma con una tradizione di tremila anni. Attraverso dedizione, lavoro, ricerca e sviluppo ha saputo rendere fertili moltissimi terreni aridi. Questa dedizione lo ha portato ad essere dagli ultimi settanta anni uno dei paesi leader nel campo della scienza e nell'innovazione. Expo Milano 2015 è l'occasione per Israele di far conoscere ai visitatori le competenze acquisite in questi anni, come un grande "granaio di conoscenze".
Il Padiglione- All'interno del Padiglione, che occupa un'area di 2369 metri quadri, grazie ai migliori strumenti e metodi di edutainment il visitatore è immerso in un'immediata esperienza visiva che presenta un meraviglioso viaggio nell'ingegneria agricola con uno sguardo verso il futuro dell'umanità.
(Libero, 1 marzo 2015)
Un tribunale del Cairo dichiara Hamas gruppo terroristico
Pugno duro di AI Sisi contro i fratelli musulmani che condividono la fede sunnita. Una Corte egiziana ha dichiarato che il gruppo palestinese è «scioccante e pericoloso»
di Luca Rocca
Mentre il Partito democratico, coadiuvato dalla confusione e contraddizione del governo Renzi, approva una mozione che spinge verso il riconoscimento della Palestina senza tenere conto dell'opinione dii Israele e del rischio che corre, ieri in Egitto un tribunale ha dichiarato Hamas, il movimento islamico palestinese che controlla la Striscia di Gaza' un'organizzazione terroristica. A riferirlo è stato il quotidiano online al-Ahram, spiegando che la pronuncia della Corte per le questioni urgenti del Cairo deriva dalle cause intentate da due avvocati, Sarnir Sabry e Ashraf Said, che mettono sotto accusa Hamas ritenendolo coinvolto negli attentati avvenuti in Egitto negli ultimi mesi, come ad esempio quelli in Sinai, che hanno provocato la morte di decine di uomini delle forze di sicurezza egiziane. Una decisione, quella del tribunale egiziano, che ha messo in allarme il gruppo palestinese, consapevole delle conseguenze che una sentenza di questo tenore può comportare per la loro organizzazione. Hamas, infatti, ha negato il suo coinvolgimento in quegli attacchi, definendo la pronuncia del tribunale del Cairo «sorprendente e pericolosa». Non è un segreto che il presidente egiziano, Abdel Fattah Al Sisi, stia usando il pugno duro contro quei Fratelli musulmani che condividono con Hamas la fede sunnita. E sunniti sono anche i terroristi dell'Isis. Definire Hamas un' organizzazione terroristica, dunque, significa inserirla nella stessa galassia degli altri due gruppi a cui Al Sisi sta facendo la guerra. Una premessa, dunque, per nuovi, imprevedibili scenari. D'altronde solo un mese fa la Corte aveva appiccicato la stessa etichetta alle Brigate Ezzedine al-Qassam, braccio armato di Hamas, accusato, fra l'altro, di sostenere gli stessi Fratelli musulmani, cacciati, proprio da Al Sisi, dal potere in Egitto, due anni fa, insieme al loro presidente Mohamed Morsi.
Nell'agosto scorso, inoltre, le Brigate Ezzedine al-Qassam hanno imposto il ritiro della delegazione palestinese dai colloqui con Israele, in quel momento mediati dall'Egitto, annunciando contemporaneamente nuovi attacchi contro Tel Aviv. Ma la natura di Hamas, la sua intenzione di distruggere Israele, come scritto nel loro Statuto fondativo, l'aver trasformato la Striscia di Gaza in un avamposto terroristico, dopo la scelta dell'allora premier, Ariel Sharon, di rimuovere da quel territorio, nel 2004, tutti gli abitanti israeliani, non ha impedito, due giorni fa, al centrosinistra italiano di approvare le due mozioni sulla Palestina. Ma mentre la prima, quella voluta dall'Ncd e dall'Udc, ne subordina il riconoscimento sia a un'intesa politica fra Hamas e Al Fatah, l'organizzazione politica palestinese guidata daAbu Mazen che controlla la Cisgiordania, sia al riconoscimento dello Stato d'Israele e infine all' abbandono della violenza, quella voluta dal Pd impegna il governo a «continuare a sostenere in ogni sede l'obiettivo della costituzione di uno Stato palestinese» e solo dopo chiede di tenere «in considerazione le preoccupazioni e gli interessi legittimi dello Stato di Israele». Due testi quasi contrapposti ma entrambi avallati dal governo, nella persona del ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, senza badare al fatto che parte di quel territorio è in mano a dei terroristi riconosciuti tali anche dall'Egitto, cioè dal più importante alleato dell'Occidente nella lotta all'estremismo islamico.
(Il Tempo, 1 marzo 2015)
«Amos, Amos, perché mi deridi?» (6)
1 marzo 2015
Caro Amos,
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Era l'ora terza quando lo crocifissero.
E l'iscrizione indicante il motivo della condanna diceva: Il re dei Giudei.
dal Vangelo di Marco
Per nove ore il crocifisso era andato avanti a gridare e singhiozzare. Fintanto che era durata l'agonia aveva pianto e urlato e gridato di dolore, invocato ripetutamente sua madre, chiamato e gridato con voce flebile e penetrante, una voce che pareva il pianto di un bambino ferito a morte e abbandonato solo in un campo a patire la sete e dissanguarsi sotto il sole cocente. Era un grido tremendo, un grido che andava su e giù e raggelava il sangue, mamma, mamma, e poi venne uno strillo straziante e di nuovo mamma. E di nuovo un pianto che si levò alto seguito da un flebile, lungo gemito, sempre più flebile, sfinente.
da "Giuda", di Amos Oz
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chi legge queste righe potrebbe dire: "In fondo il libro di Oz è soltanto un romanzo, non ha senso quindi voler analizzare, commentare, contestare quello che viene detto su Gesù". Le cose però non sono così semplici e chiare: tutt'altro. L'ambiguità allusiva in cui si svolge l'intreccio rende le affermazioni che vi si fanno sfuggenti e infide, quindi ancora peggiori di esplicite dichiarazioni teologiche. Inoltre, per confermare l'ambiguità, tu hai presentato il tuo libro con la kippà in testa, in un luogo in cui fare il nome di Gesù non è come parlare di Annibale il Cartaginese. Hai fatto anche riferimenti personali alla tua lettura dei Vangeli, dicendo di non riuscire a credere a quello che vi si dice.
Hai accennato a un libro scientifico di un tuo prozio in cui sarebbe dimostrato che Gesù è nato e morto ebreo.
Su questo non posso che essere d'accordo, ma spero che il tuo parente abbia ottenuto qualche altro risultato un po' più importante di questo, perché fino a qui non mi sembra che ci voglia molto per arrivarci. Dici anche, giustamente, che Gesù non ha mai voluto creare una nuova religione.
Poi aggiungi, come per darne una dimostrazione, che Gesù non si è mai fatto il segno della croce, non è mai entrato in una chiesa, perché allora non ce n'erano. E anche questa non sembra un'osservazione molto acuta. Dici invece che Gesù è entrato nelle sinagoghe e ha fatto scandali; e ai presenti che ti ascoltavano in sinagoga hai detto poi che Gesù era un ebreo non conformista, un ebreo ribelle. Qui bisogna notare una cosa strana: nei sottotitoli in italiano del video che riporta la tua conferenza in sinagoga compare esattamente il contrario: "Gesù ... non aveva nessuna conflittualità con gli ebrei. Non era un ebreo ribelle".
Si tratta evidentemente di un errore di comprensione del traduttore, ma certi errori sarebbe meglio non farli.
Presentandomi come cristiano professante, probabilmente per te dovrei appartanere a quella religione con chiese e segni di croce di cui hai parlato. Mi vedo quindi costretto, prima di continuare a parlare di Gesù, e contro le mie abitudini e il mio temperamento, a dire qualcosa di personale, come del resto hai fatto anche tu nelle tue interviste. Quello che di te hai detto pubblicamente mi dà anzi la possibilità di fare qualche interessante confronto fra i nostri due percorsi di vita.
Abbiamo più o meno la stessa età, ma per la precisione posso dire che quando tu sei venuto al mondo io c'ero già. Tu sei nato a Gerusalemme, capitale dell'ebraismo; io sono nato a Roma, capitale del cattolicesimo. A dodici anni tu hai perso la madre; alla stessa età l'ho persa anch'io, anche se in forma naturale, non drammatica. Nell'adolescenza tu ti sei staccato interiormente dall'ambiente in cui sei cresciuto, diventando un "traditore" di tuo padre (uso il tuo linguaggio): hai lasciato un ambiente intellettuale di destra per inserti in un ambiente lavoratore di sinistra. Una cosa di questo tipo ho fatto anch'io: intorno ai quindici anni ho abbandonato interiormente l'ambiente cattolico in cui sono stato allevato, ma con la differenza che non l'ho fatto per entrare in un'altro ambiente che avevo già in mente ed era pronto ad accogliermi: ho lasciato una casa spirituale senza averne una già pronta in cui andare.
Proprio di questo vorrei parlare, non per smanie esibizionistiche, cosa che come dicevo è abbastanza contraria al mio carattere, ma per due motivi. Per prima cosa, vorrei contrastare con qualche informazione il gusto diffuso della dietrologia: disciplina praticata da chi ha l'abitudine, ogni volta che sente dire qualcosa da qualcuno, di non prendere in seria considerazione quello che dice, ma di chiedersi che tipo è quello che parla, se dietro a lui ci sono interessi particolari, appoggiati magari da qualcun altro. Per seconda cosa, vorrei far conoscere, riferendo qualche fatto che mi riguarda, esperienze con Dio che nella loro sostanza sono comuni a migliaia di credenti nel mondo, anche in Israele, anche tra gli ebrei.
Diciamo allora che sono nato in una famiglia di veri cattolici italiani: cioè cattolici tiepidi. Non si pensi infatti che i veri cattolici siano quelli tutti casa e chiesa, che non perdono una messa e fanno collezione di santini: quelli sono una minoranza, che spesso dà anche un po' noia all'istituzione ecclesiastica. Se poi qualcuno pensa che a Roma, essendoci il Papa, i cattolici siano almeno un po' più seri e ferventi, dovrà cambiare idea: è vero il contrario. Come dice il detto: "A Roma si fa la fede e altrove ci si crede". I romani autentici di vecchia data hanno un'esperienza secolare in fatto di dissacrazione: basta leggere i sonetti di Giuseppe Gioachino Belli per rendersene conto. Ma quella romana è un'opposizione bonaria, accomodante, perché profondamente scettica. Al prete, si pensa, si deve lasciar fare il suo mestiere, ma bisogna solo stare un po' attenti quando vuole uscirne. In fatto di soldi, per esempio, è bene fare attenzione, perché, come dice Leo Longanesi in uno dei suoi memorabili aforismi: "al prete, in punto di morte, si può affidare tranquillamente la propria anima; ma vivi, e in buona salute, non c'è prete a cui si affidino i propri quattrini alla leggera". Anche in fatto di vicinanze personali extra ecclesiastiche bisogna essere cauti, come avvisa il Belli in uno dei suoi icastici sonetti: "Sora Terresa mia, sora Terresa, / io ve vorrebbe vede appersuasa / de nun favve ggirà ffrati pe ccasa / ché li frati so rrobba pe la cchiesa".
In questo clima di normale, ovvia cattolicità sono cresciuto fin da piccolo.
La persona in famiglia forse un po' più fervente delle altre era la mia nonna paterna: una pia donna proveniente dalla campagna marsicana, che non perdeva una funzione di quelle comandate, ma che, essendosi portata a Roma le galline che aveva in campagna, e allevandole sul terrazzo di casa sua, quando si trattava di tirare il collo a qualcuna di loro non aveva il minimo accenno di esitazione, facendo così inorridire mia zia che viveva con lei e che, essendo sempre stata cittadina, non ne aveva il coraggio. E della madre diceva: "Cià 'n core nero..." Nonna Susanna, che ricordo sempre con tenerezza, avrebbe voluto avere un prete in famiglia e aveva messo gli occhi su di me. Mi dispiace di averle dato una delusione, ma alla fine credo che mi abbia perdonato.
Mio padre invece era un normale cattolico maschio di quei tempi: un po' di religione - pensava - fa bene alla famiglia, ma senza esagerare. I momenti forti della vita familiare, come nascita, battesimo, prima comunione, cresima, matrimonio, funerale avvenivano quindi, ovviamente, nell'usuale cornice ecclesiastica. Sono stato quindi anch'io regolarmente battezzato da piccolo, cosa di cui ovviamente non ho alcun ricordo. Mi ricordo invece abbastanza bene della cresima, che potrebbe essere vista come il corrispondente, o forse l'imitazione, del Bar Mitzvà ebraico. Ricordo ancora lo schiaffetto con cui il vescovo mi ha arruolato come "soldato di Cristo" nell'esercito della chiesa.
Alla cresima si arrivava (parlo al passato perché per il presente non sono informato) dopo aver fatto la prima comunione; e prima ancora bisognava frequentare un corso di istruzione in cui si doveva imparare un certo numero di preghiere a memoria, naturalmente in latino, perché quella era la lingua sacra con cui ci si rivolgeva a Dio. All'età di otto anni dunque ho imparato a memoria preghiere in latino, una lingua che ovviamente nessuno in famiglia praticava o conosceva, come del resto è avvenuto per secoli agli ebrei in diaspora rispetto alla lingua ebraica. Solo in seguito ho capito che la scelta del latino come lingua sacra per rivolgersi a Dio è un altro aspetto della teologia della sostituzione.
Posso dire, comunque, che quelle preghiere in latino le ricordo ancora quasi tutte, e potrei recitarne qualcuna a memoria, come per esempio il Pater noster.
Quanto a mio padre, la "società cristiana" intorno a lui, non certo l'insegnamento esplicito della chiesa cattolica, gli chiedeva di avere una religiosità da uomo: quindi rispetto per chi vuol fare pratiche religiose, ma niente atteggiamenti da pia donnetta. Bisogna dire che mio padre si è adeguato bene al cliché richiestogli dalla società, perché è rimasto sempre il classico cattolico di Natale e Pasqua, un po' come gli ebrei di Yom Kippur.
Ha voluto però che, per quanto possibile, i suoi figli frequentassero delle scuole religiose. E così è stato anche per me. Gli ultimi anni delle elementari e gli anni della media li ho fatti in un istituto religioso della "zona bene" di Roma: i Parioli. Lì, oltre alle preghiere in latino, durante la messa ci facevano cantare in gregoriano. Era ancora lontano il tempo delle messe beat; al Signore bisognava rivolgersi nell'unica lingua veramente sacra: il latino, e si doveva usare una musica che non si appoggia sulla carnalità dei sensi, ma ha un carattere di spiritualità che conduce verso l'alto. E questo, appunto, è il gregoriano. Ricordo ancora musica e testo del Tantum Ergo Sacramentum, di cui solo in seguito ho saputo che è un inno liturgico estratto da una composizione di Tommaso d'Aquino. A quel tempo, invece, di quello che cantavo non capivo assolutamente niente, senza che nessuno si preoccupasse di spiegarmelo e senza che io mi preoccupassi di chiederlo. La religione era quella: punto e basta. La religione si fa, non si discute. E tuttavia, quell'inno imparato da bambino lo ricordo ancora bene: saprei cantarne anche adesso almeno la prima strofa, come una volta. Più tardi, molto più tardi ho anche capito che in quelle poche parole è già contenuto il nocciolo della teologia della sostituzione: "antiquum documentum novo cedat ritui", l'antico documento ceda il posto al nuovo rito.
Ho voluto raccontare tutto questo per dare un'idea del clima religioso e familiare in cui ho trascorso i primi anni della mia vita: un clima a questo riguardo tutto sommato tranquillo, senza tormenti interiori o contrasti laceranti.
E tuttavia, all'età di circa quindici anni ho interiormente lasciato questo ambiente familiare, almeno per tutto quello che aveva a che fare con Dio. Ma non sono uscito sbattendo la porta, non sono rimasto scandalizzato da comportamenti indecenti di preti o affascinato da una religione di amore universale o da un'ideologia di lotta continua: semplicemente, esaminando con onestà i miei pensieri, ho preso atto di non essere affatto convinto di tutto quello che mi era stato insegnato. E per coerenza ho smesso di considerarmi un cristiano.
In pratica all'inizio non è cambiato niente. Non essendoci più mia madre, e con un padre che doveva pensare a come mantenere cinque figli prima di chiedersi quello che poteva passare per la testa di uno di loro, sono andato avanti senza che nessuno notasse qualcosa di particolare. Quanto a me, dato il mio carattere, mi guardavo bene dal comunicare in famiglia i miei pensieri: erano fatti miei, che c'entravano gli altri?
Come vedi, in questa mia uscita dal cristianesimo di famiglia non c'è niente di drammatico, niente che si presti a colorite ricostruzioni romanzate. Vorrei soltanto sottolineare una non piccola differenza tra la mia esperienza e la tua. Quando un ebreo come te, cresciuto in una famiglia di normale religiosità ebraica, si accorge di non credere più a quel Dio di cui gli avevano parlato da piccolo, non cessa di considerarsi ebreo, e quindi spiritualmente non esce di casa: passa soltanto da una stanza all'altra. Quando invece un gentile come me, cresciuto in una famiglia di normale religiosità cattolica, si accorge di non credere più a quel Dio di cui gli avevano parlato da piccolo, esce spiritualmente del tutto dalla casa. E può accadere che non ne trovi un'altra. Che resti per strada. Senza usare toni drammatizzanti, posso dire che quella è stata la mia esperienza di quegli anni. Ero solo. Non c'era un "noi" che potessi dire con convinzione, tanto meno con fierezza o consolazione. Non avrei potuto trovare conforto cantando il vostro inno sionista "HaTikvà" (la speranza), perché allora non lo sapevo, ma adesso so che ero nella posizione in cui si trovano per natura tutti i gentili: ero senza speranza e senza Dio nel mondo (Efesini 2:12).
Ma da questa posizione Dio mi ha fatto uscire, come ha fatto con tanti altri gentili che oggi possono appropriarsi con fiducia di parole come queste:
Benedetto sia l'Iddio e Padre del Signor nostro Gesù Cristo,
il quale nella sua grande misericordia ci ha fatti rinascere,
mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti,
ad una speranza viva
in vista di un'eredità incorruttibile, immacolata ed immarcescibile,
conservata nei cieli per voi,
che dalla potenza di Dio, mediante la fede,
siete custoditi per la salvezza
che sta per essere rivelata negli ultimi tempi. (1 Pietro 1:3-5)
Ma di questo, se Dio vuole, potremo parlare ancora una prossima volta.
Shalom,
Marcello
(Notizie su Israele, 1 marzo 2015)
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