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Notizie 1-15 marzo 2016


A che punto è il disgelo fra Israele e Turchia. C'entra la Russia in Siria

Per la prima volta Netanyahu condanna l'attentato di domenica ad Ankara. Il premier israeliano vorrebbe avviare una nuova fase diplomatica con Erdogan. Ma Putin potrebbe inceppare questo processo di riavvicinamento.

di Daniele Raineri

ROMA - Domenica a tarda sera il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha condannato l'attentato che ha ucciso 34 passanti ad Ankara, in Turchia, e ha espresso la sua "solidarietà con il popolo turco nella guerra al terrorismo". Può sembrare una formalità di rito, ma è l'ultima novità in una partita internazionale importante tra Gerusalemme, Ankara e Mosca. Come aveva notato a gennaio la tv israeliana Channel 2, il governo israeliano non ha condannato in modo esplicito i precedenti attentati in Turchia, andando contro il consiglio del proprio ministero degli Esteri, come risposta al fatto - secondo alcuni funzionari citati dal programma - che "la Turchia non condanna gli attentati dei palestinesi contro gli israeliani". E' successo per esempio il 17 febbraio, quando un'autobomba ha colpito un bus che trasportava militari turchi, uccidendo 29 persone (l'attacco è stato rivendicato da un gruppo minore associato al Pkk), o a gennaio, quando una bomba ha ucciso 13 turisti davanti alla Moschea blu di Istanbul (l'attentatore apparteneva in questo caso allo Stato islamico).
  La condanna di Netanyahu potrebbe essere il segnale che il processo di riconciliazione tra Turchia e Israele è davvero in fase avanzata, dopo il quasi azzeramento delle relazioni diplomatiche dopo i fatti della nave Mavi Marmara, nel 2010 (le forze speciali israeliane uccisero dieci cittadini turchi a bordo di una nave che tentava di forzare il blocco davanti alla costa di Gaza). Che si fosse a buon punto si intuiva da molte fughe di notizie arrivate nelle ultime settimane soprattutto da parte turca. Mercoledì scorso il vicepresidente americano Joe Biden, in visita a Gerusalemme, ha detto a Netanyahu: "Erdogan vuole la riconciliazione con Israele il prima possibile". Prima però ci sono ancora questioni da risolvere: tra le condizioni c'è per esempio la rimozione di uomini e sedi di Hamas dalla Turchia, da dove per ora organizzano operazioni contro Israele.
  Se le relazioni tornassero alla normalità, i due governi potrebbero parlare di un contratto enorme che riguarda il gas davanti alle coste israeliane: la Turchia cerca un fornitore alternativo alla Russia, gli israeliani cercano un compratore. Una fonte del ministero degli Esteri israeliana che preferisce non essere citata con il nome dice però al Foglio: "Dubito che le relazioni con la Turchia potranno mai ritornare come erano prima".
  La Russia potrebbe inceppare questo processo di riavvicinamento. Il giorno della visita di Biden, il giornalista israeliano Ben Caspit ha scritto un pezzo intitolato: "Perché Israele ha più bisogno di Putin che di Erdogan", in cui rivela che Netanyahu ha quasi costretto all'incidente diplomatico il presidente, Reuven Riklin, che da tempo era atteso con tutti gli onori in visita ufficiale a Canberra, in Australia, per il 17 marzo (gli australiani attendevano con eccitazione l'arrivo, avevano cambiato l'agenda degli appuntamenti, un mebro del governo ha annullato un viaggio all'estero). E' successo però che i russi hanno invitato Rivlin lo stesso giorno ed è stato necessario scegliere: Canberra o Mosca. Ha vinto la seconda. Come spiega Caspit, in questo momento il governo israeliano vede un'opportunità di infilare un cuneo nell'alleanza tattica tra il presidente Vladimir Putin e i grandi nemici di Israele, Iran e Hezbollah, in Siria. Ci sono segni di malcontento. Il 5 marzo il quotidiano kuwaitiano al Jarida (in arabo: il Giornale) ha scritto che Mosca ha bloccato di almeno sei mesi il trasferimento del sistema missilistico strategico S-300. Al Jarida sostiene che i russi sono infuriati perché le armi che hanno dato alla Siria sono state trasferite a Hezbollah in Libano, e che in alcuni casi hanno puntato gli aerei russi sopra il Libano. Caspit dice che il giornale kuwaitiano è spesso usato da ufficali israeliani per far trapelare notizie. Resterebbe tutto nel mondo delle congetture, se non fosse arrivata la svolta improvvisa del parziale ritiro russo dalla Siria.

(Il Foglio, 15 marzo 2016)


Nuova minaccia dell'Isis dalla Libia: "Cristiani ed ebrei saranno trucidati"

Dal Paese nordafricano l'ultimo atto ostile dei miliziani che promettono di fare a pezzi qualsiasi resistenza

di Lucio Di Marzo

È dalle spiagge della Libia che arriva l'ennesima minaccia lanciata da un jihadista del sedicente Stato islamico, con il gruppo jihadista che ancora una volta prende di mira cristiani ed ebrei, assicurando che tutta la furia dei milizini si scaglierà contro chi si oppone al loro progetto di istituire un Califfato globale, in spregio delle altre religioni e dell'opinione preminente dell'islam stesso.
Immagini di combattimenti, corpi senza vita e due militari dell'esercito di Khalifa Haftar, catturati e presentati nella ormai consueta tuta rosso-arancio che è dei condannati a morte. C'è questo nel filmato, dove i soldati vengono uccisi con un colpo alla testa, dopo che gli viene domandato di "pentirsi" per le loro azioni contro i jihadisti.
"Vi attaccheremo nelle vostre case, con gli esplosivi e le autobomba", assicura il miliziano che dalla Libia si scaglia contro i "nemici" del sedicente Stato islamico.

(il Giornale, 15 marzo 2016)


George del Grand Hotel Parker's: il primo ristorante Kosher di Napoli

È l'unico in città a poter servire piatti freddi conformi alla religione ebraica. Le leggi dell'alimentazione ebraica (kasherut) derivano dalla Bibbia e sono dettagliate nel Talmud.

"George" è il primo ristorante "Kosher" napoletano. Siamo sulla terrazza del Grand Hotel Parker's, ed è qui che svetta l'unico esercizio a poter servire piatti freddi conformi alla religione ebraica.
Come ha fatto sapere Antonio Maiorino, neodirettore del Parker's, in una città tollerante come Napoli è certamente fondamentale aprire le porte a culture diverse anche a tavola.
Le leggi dell'alimentazione ebraica (kasherut) affondano le radici nella Bibbia e sono dettagliate nel Talmud (uno dei testi sacri dell'ebraismo) che, insieme ad altri codici delle tradizioni ebraiche, è considerato trasmissione della Torah.
I cibi kosher sono consumati, oltre che dagli ebrei osservanti, anche da musulmani, indù e consumatori vegetariani, o allergici che si fidano della garanzia di questa certificazione, una delle più affidabili nell'analisi degli ingredienti.

(Napoli Today, 15 marzo 2016)


ECI accoglie con soddisfazione il riavvicinamento tra l'Unione Europea ed Israele

COMUNICATO STAMPA

BRUXELLES, 10 marzo 2016 - ECI ha annunciato, giovedì, che la prossima conferenza programmatica si terrà a Bruxelles, il 21 aprile prossimo. Lo scopo della conferenza è quello di promuovere una maggiore cooperazione tra UE ed Israele, in un momento in cui entrambe le parti stanno cercando di ricostruire delle relazioni dopo un periodo negativo di conflitto diplomatico.
Tali relazioni hanno conosciuto il loro punto peggiore della storia nel novembre 2015, dopo l'emanazione delle "line guida sull'etichettatura dei prodotti israeliani provenienti dai territori amministrati da Israele sin dal 1967". Tali direttive sono state rifiutate dal Presidente del Parlamento Europeo Martin Schulz, che le ha definite "contro produttive" in quanto portano all'aumento della disoccupazione tra i palestinesi...

(European Coalition for Israel, 10 marzo 2016)


Salvarono una bimba ebrea: coniugi sardi "Giusti tra le nazioni"

L'ex consigliere regionale Sotgiu e la moglie sono stati iscritti nell'elenco nel 2015 per aver salvato dalla deportazione la bambina ebrea Lina Kantor Amato, a Rodi, nel 1944, falsificando i documenti e facendola passare per loro figlia.

 
CAGLIARI - Il Consiglio regionale ha ospitato questa mattina la cerimonia di consegna del riconoscimento di "Giusto tra le Nazioni" alla memoria di Girolamo Sotgiu e di Bianca Ripepi. L'ex consigliere regionale e la moglie sono stati iscritti nell'elenco nel 2015 per aver salvato dalla deportazione la bambina ebrea Lina Kantor Amato, a Rodi, nel 1944, falsificando i documenti e facendola passare per loro figlia.
L'onorificenza viene conferita dal Memoriale ufficiale di Israele 'Yad Vashem', a partire del 1962, a tutti i non ebrei che hanno agito in modo eroico e senza interesse personale a salvare la vita anche di un solo ebreo dal genocidio nazista.
   "La testimonianza riportata nel libro di ricordi scritto da Bianca Ripepi, intitolato 'Da Rodi a Tavolara', che descrive la vita della coppia, ben rappresenta il terrore, la fame e le atrocità della guerra e del nazismo - ha detto il presidente dell'Assemblea Gianfranco Ganau - Ho avuto il piacere di leggere il libro che ripercorre gli anni drammatici della guerra, il lavoro a Rodi per salvare gli ebrei dalla deportazione e dall'Olocausto, compreso il gesto, che oggi viene riconosciuto, dell'adozione della piccola Lina. Scelta ovviamente pericolosissima e pesantissima visto il clima e la situazione contingenti in cui si inserisce anche per le grandissime difficoltà legate alla condizione di guerra, di isolamento e di oppressione già presenti che rendevano problematico anche sfamare la propria primogenita Federica (oggi presente nell'aula del Consiglio, ndr)".
   Toccanti le parole della sopravvissuta, la signora Kantor Amato: "sono la testimone vivente di un incredibile ed eroico gesto. Non dimenticherò mai Girolamo e Bianca". E il nipote di Girolamo, Nicola Sotgiu, ha auspicato che "non servano più atti di eroismo". Il ministro di Ambasciata di Israele, Rafael Erdreich, ha ricordato che in Italia il riconoscimento è stato assegnato a 670 'Giusti' e che la storia dei Sotgiu, così come quella di tutti gli altri protagonisti del salvataggio di tanti ebrei, "fa luce al nostro cammino". Ad assistere alla cerimonia, alla quale hanno partecipato i sindaci di Cagliari e Olbia, Massimo Zedda e Gianni Giovannelli, e il rettore dell'Università di Cagliari, Maria Del Zompo, anche tre scolaresche.

(Cagliaripad, 15 marzo 2016)


Militari israeliani favorevoli a un porto marittimo a Gaza

Purché sia accompagnato da adeguate misure di sicurezza

GERUSALEMME - I funzionari militari israeliani sono favorevoli alla realizzazione di un porto marittimo a Gaza se accompagnato da adeguate misure di sicurezza. Lo riferisce il quotidiano israeliano "Jerusalem post", spiegando che la posizione dei militari sarebbe determinata dalla crisi economica che ha colpito Gaza e dall'alta disoccupazione che potrebbe facilitare l'aumento dei disordini portando a nuove ostilità tra Israele e Hamas. Fino ad oggi il governo israeliano non ha mai approvato pubblicamente la realizzazione di un porto marittimo anche se nelle scorse settimane sia il ministro dei Trasporti, Yisrael Katz, e quello degli Alloggi, Yoav Galant, si sono espressi in favore di questo progetto.

(Agenzia Nova, 15 marzo 2016)


Gianni Morandi: "I miei consigli per la Maratona di Gerusalemme"

Partire con calma. Non rempere il ritmo in salita e in discesa. Ma soprattutto "vivere" appieno la Città Santa. Questi i suggerimenti del cantante che ha corso a Gerusalemme la Mezza Maratona di 20 km nel 2015.

di Nicoletta Pennati

Gianni Morandi a Gerusalemme il 13 marzo 2015
Saranno in circa 25 mila a correre la sesta edizione della Jerusalem Winner Marathon in programma venerdì 18 marzo. C'è chi farà il percorso completo di 42,195 km, chi quello della mezza maratona, chi gareggerà sui 10 e chi sui 5 chilometri. Sono previsti persino 1,7 chilometri per le famiglie. Perché la competizione è importante, ma in questo caso, anche partecipare soltanto diventa un evento, una festa, un momento unico che resterà nel profondo del cuore. Perché la Maratona di Gerusalemme è unica. Perché Gerusalemme è Gerusalemme, la Città Santa con i suoi 3mila anni di storia, e i luoghi sacri per le tre religioni monoteiste: cristianesimo, ebraismo, Islam. L'emozione insomma, quando si partecipa a questa Maratona, è grande.
Gianni Morandi la prova ancor oggi quando racconta la sua mezza maratona corsa a Gerusalemme l'anno scorso. Io donna lo ha raggiunto al telefono a Eboli, prima del concerto del tour Capitani Coraggiosi, che lo sta portando sui palchi di tutta Italia insieme a Claudio Baglioni (prossima tappa mercoledì 15 a Pesaro ndr).

- Morandi com'è stato correre la Maratona di Gerusalemme?
  Emozionante, suggestivo e impegnativo. Gerusalemme è unica, la partecipazione è eccezionale, il percorso è un tuffo nel passato, il clima di grande festa, ma il tracciato della gara è difficile. Con salite e discese che possono tagliare le gambe anche ai più preparati.

- Il momento più esaltante?
  Direi che sono stati due: la partenza quando sei in attesa con tutti gli altri e l'arrivo quando ti rendi conto di aver portato a termine un percorso carico di storia e di aver scoperto angoli di questa splendida città che solo correndo ti si sono davvero svelati. Si entra nella Città Vecchia per la Porta di Jaffa inaugurata nel 1538 (quando vennero riscostruite le mura ndr), l'unica sul lato Occidentale a fianco della parte più alta di Gerusalemme. Dove svetta la Torre di David e dove si trova la Concattedrale del Santissimo Nome di Gesù.

- Soddisfatto della prestazione ottenuta?
  Ho ottenuto un discreto risultato: sono stato sotto le due ore. Impossibile, visto il percorso, riuscire a battere il record di 1 ora e 36 minuti che avevo stabilito due anni prima a Cremona.

- La rifarebbe e, nel caso, come la affronterebbe?
  Sì, la rifarei perché tornare nella Città Santa è sempre una gran gioia. Di sicuro, conoscendo il tracciato, mi allenerei di più preparandomi alle parti in salita facendo un numero maggiore di ripetute. Così facendo sono sicuro di poter migliorare il tempo finale di 7-8 minuti.

- Cosa consiglia a chi la correrà il 18 marzo di quest'anno?
  Suggerisco di dosare le energie. Di non partire subito sparati, ma prenderla con calma e cercare di tenere il più possibile il proprio ritmo nonostante le salite e le discese che tendono a spezzarlo.

- Colazione abbondante?
  Chi corre la maratona oltre ad essere ben preparato sa come alimentarsi al meglio. Io, per esempio, due ore e mezzo prima di correre la mezza maratona ho mangiato una porzione abbondante di crostata con la marmellata. Un'ora dopo l'avevo del tutto digerita ed ero pronto per fare la mia gara.

- Meglio bere lungo il percorso?
  In genere, ogni 4-5 chilometri, c'è un punto ristoro dove offrono tè caldo, una fetta di limone o di arancio. Io consiglio sempre di bere, Anche se sembra di non avere sete. La maratona "consuma" senza accorgersene.

- Quanto si allena durante la settimana?
  Al momento sono in tour e quindi corro quando la sera non ho il concerto: tre-quattro volte la settimana senza esagerare troppo con i chilometri. Ne faccio dagli 8 ai 12. Non di più.

- Correre le serve anche per salire più in forma sul palco?
  Certo, serve a fare fiato. Stare sul palco è come partecipare a una maratona, bisogna essere ben preparati. Ho 70 anni dopo tutto e reggo più che bene anche grazie allo sport.

- Prossimo impegno agonistico?
  A metà giugno a Lampedusa. Prenderò parte alla prima edizione di una gara in tre tappe consecutive di circa 10 chilometri al mgiorno. L'obiettivo è mettere l'isola al centro dell'attenzione in modo positivo: è bella e c'è bella genta che ci vive.

- Il suo sogno come atleta?
  Fino ad oggi ho corso 12 maratone, tra cui 4 volte New York e Boston così suggestuva e faticosa, oltre ad un'ottantina di mezze maratone. Vorrei portare a termine due delle Maratone classificate come Gold che mi mancano: quella di Tokyo e quella di Chicago.

- E magari in quell'occasione battere il suo record nella Maratona di 3 ore e 36 minuti?
  Perché no? Punto alle 3 ore e 30 minuti anche se ho avuto qualche problema ad un ginocchio ed è dura. Ma con l'allenamento, chissà…

(Io Donna. 15 marzo 2016)


Violato il sito della biblioteca ebraica di Venezia. Gruppo islamico inneggia al Jihad

Gli hacker del «cyber califfato» a Venezia. Indaga la procura antiterrorismo.

di Eleonora Biral

 
VENEZIA - La firma è quella di un gruppo che già in passato finì al centro di un'inchiesta: il «Tunisian Fallaga Team». E il messaggio è contro l'occidente: «Perché ci attaccano? Voi che vi definite antiterroristi avete creato il terrorismo e occupate il nostro paese per rubare la nostra ricchezza».
   Questa volta a finire nel mirino del collettivo tunisino che denuncia i «crimini» contro i musulmani è stato il sito internet della biblioteca archivio Renato Maestro della comunità ebraica di Venezia. II portale ieri è stato vittima di un attacco hacker. «Se n'è accorto il tecnico che stava lavorando al sito al mattino», spiega Gadi Luzzatto Voghera, direttore della biblioteca. «Stava aggiornando i contenuti e ha visto che il sito era oscurato. Non si è trattato del solito dispetto informatico».
   Già, perché la home page si era trasformata in una schermata a sfondo nero coperta di scritte in lingua inglese che rimandavano a un portale di propaganda con video e interviste. Il sito web della biblioteca era già stato hackerato in un anno fa, ma si trattava solo di un blocco «innocuo» per sospenderne la visibilità. «Questa volta la home page è stata sostituita per alcune ore da un sito inneggiante agli attacchi islamisti in Tunisia e proclamante la lotta per la liberazione della Palestina» precisa Voghera.
   Il Fallaga Team, per la «cyber resistenza» tunisina, denuncia «il terrorismo dei sionisti contro i musulmani in Palestina, delle forze russe in Siria, di quelle americane in Afghanistan» e così via. «Perché? Perché l'Islam è la vera religione?». E continua: «Difenderò la mia patria, i miei fratelli e le mie sorelle fino alla morte e non mi interessa se mi chiamerai terrorista».
   Un messaggio chiaro, firmato da un gruppo che nell'estate del 2015 perse sei membri, arrestati in Francia perché ritenuti responsabili di attacchi sul web. Un team denominato Fallaga, che sta per «partigiano», termine che trova le sue radici nella resistenza anticoloniale francese in Algeria. Gli investigatori all'epoca, secondo quanto riportò la stampa francese, ritennero che il Fallaga fosse una creazione del cyber califfato.
   E quello alla biblioteca Renato Maestro di Venezia non è stato l'unico attacco in Italia. Già nei giorni scorsi il Fallaga Team aveva boicottato il sito di Casa Artusi, un centro enogastronomico di Forlì.
   E nei mesi passati non sono mancati attacchi al sito dell'aeroporto di Perugia intitolato a San Francesco d'Assisi e a portali in provincia di Genova. «Si tratta di una minaccia violenta e mirata, dal sapore apertamente antisemita», dice Voghera. «Non riusciamo a capire perché abbiano attaccato il sito della biblioteca e non quello della comunità ebraica».
   Secondo il direttore, gli hacker potrebbero aver agito approfittando del cinquecentesimo anniversario del ghetto ebraico di Venezia e andando così a caccia di visibilità per la propaganda.
   Il sito è tornato online nella stessa mattinata, sistemato dal tecnico che lo aveva scoperto. Tutto il materiale è stato trasmesso alla Digos di Venezia che sta indagando nel massimo riserbo coordinata dalla procura lagunare.
   «Ho richiesto alla Digos una dettagliata informativa sull'argomento» ha spiegato il procuratore aggiunto antiterrorismo Adelchi d'Ippolito. La relazione dovrebbe finire sul suo tavolo già questa mattina, mentre dalla comunità ebraica annunciano che continueranno nel loro lavoro.
   «Da molti anni la nostra istituzione mette a disposizione materiali legati alla storia dell'ebraismo veneziano, promuovendo iniziative legate alla convivenza delle culture», conclude Voghera. «Continueremo a fare il nostro lavoro perché lo consideriamo fondamentale per la crescita di una civiltà in cui le diverse componenti della società si confrontano. La violenza non rientra nella nostra prospettiva, ma non accettiamo che si impedisca ad altri di consultare gli strumenti che mettiamo a disposizione».

(Corriere del Veneto, 15 marzo 2016)


Scortesie tra Indonesia e Israele

di Luigi Medici

GERUSALEMME - Israele ha bloccato l'ingresso del ministro indonesiano degli Esteri, Retno Marsudi, in Cisgiordania, dove avrebbe dovuto incontrare i leader palestinesi.
L'annuncio è stato dato dal ministero degli Esteri palestinese il 13 marzo, riporta Albawaba News. Marsudi avrebbe dovuto andare a Ramallah, per incontrare il presidente palestinese Mahmud Abbas e il suo omologo Riyad al-Malki. Il ministro indonesiano avrebbe dovuto valutare la prevista apertura di un ufficio consolare onorario nella città palestinese.
Secondo i media israeliani, al ministro degli Esteri indonesiano è stato negato l'accesso a Ramallah dopo il rifiuto di incontrare i funzionari israeliani: Israele e Indonesia infatti non hanno rapporti diplomatici formali.

(agc, 15 marzo 2016)


In Israele la convention sul turismo accessibile tra tecnologia e nuovi bisogni

 
GERUSALEMME - Cresce il turismo sociale e le strutture che negli ultimi anni hanno investito in accessibilità alle strutture anche per portatori di handicap. Un focus su questo segmento del turismo si terrà in Israele il prossimo 6 aprile presso il City Airport della capitale dove si riuniranno circa 600 operatori per la 4a edizione internazionale dedicata al settore.
La convention si concentrerà su l'accessibilità come leva per le aziende e le organizzazioni in cerca di formule per la promozione del turismo accessibile ovvero viaggi, cultura e tempo libero.
Per il quarto anno consecutivo, Israele dà vita ad una convention finalizzata a presentare una piattaforma professionale e pedagogica che consenta la discussione intorno ai soggetti legati alla accessibilità illustrando le innovazioni tecnologiche dal mondo della accessibilità globale.
Alla convention prenderanno parte rappresentanti delle istituzioni turistiche del governo israeliano, imprenditori, architetti, designer e ingegneri e membri di organizzazioni per i diritti dei disabili, fornitori di servizi e attrezzature specifiche. "Israele è un paese giovane e questo ha permesso di guardare alla progettazione delle nostre strutture in un'ottica contemporanea di fruizione sociale - ha dichiarato il direttore dell'Ufficio Nazionale del Turismo in Italia, Avital Kotzer Adari.

(Primapress, 15 marzo 2016)


L'eretico di Damasco" che difese Rushdie e che la piazza araba ha provato a bruciare

di Giulio Meotti

Il padre aveva una visione libertaria della vita. La madre è stata influenzata dal movimento femminista nel mondo arabo. Nessuno di loro era religioso in senso stretto. Sadik al-Azm da giovane non ha mai avuto bisogno di ribellarsi. Lo fece quando gli affibbiarono l'appellativo di "eretico di Damasco": per la sua tagliente critica dell'uso dell'islam politico, per la sua condanna dell'arretratezza del mondo arabo, al-Azm fu colpito da una fatwa. E quando ha pubblicato la "Critica del pensiero religioso" a Beirut nel 1969 ebbe un assaggio di ciò che sarebbe successo a Salman Rushdie.
   Il caso al-Azm, che oggi vive esule in Germania, è stato il primo grande caso di intolleranza ideologica dell'islamismo nei confronti della libertà di pensare e scrivere. Il nome di al-Azm viene prima degli scrittori algerini sgozzati, dei teologi sudanesi impiccati, delle dissidenti somali fuggite in America. "La tragedia del diavolo" è stato vietato da una fatwa, le copie rimaste in circolazione sequestrate, l'autore è stato minacciato di morte, è finito in carcere e messo sotto processo per più di sei mesi.
   Lettore vorace di Soren Kierkegaard, al-Azm aveva già in precedenza mandato su tutte le furie il mondo arabo con il saggio "Autocritica dopo la sconfitta". La sconfitta a cui si riferiva era quella delle truppe egiziane, siriane e giordane sbaragliate da Israele nel giugno del 1967, che prese di sorpresa i regimi arabi, nonostante la loro propaganda altisonante. Un vergognoso fallimento autoinflitto secondo al-Azm, il quale propose invece al mondo arabo-islamico di abbracciare la democrazia, la ricerca scientifica e l'uguaglianza sessuale. Il mufti di Beirut, offeso dalle critiche mosse da Sadik al Corano e all'islam, lo accusò di incitamento alla "discordia confessionale". Il pubblico ministero disse che al-Azm aveva ridicolizzato l'esistenza di angeli e demoni come insegnato dal Corano. Quando il romanzo di Salman Rushdie, "I versi satanici", apparve nel 1988, Sadik elogiò l'autore in quanto "musulmano dissidente", l'erede letterario di Rabelais e Joyce, che correggeva l'abusata citazione di Goethe sull'oriente e l'occidente "non separabili". Rushdie, secondo al-Azm, incarnava il principio islamico della speranza e aveva agito come "un fautore di un islam laico, illuminato".
   Studioso di Kant e Bergson, al-Azm fu dunque tra i pochissimi autori arabi che osarono lodare esplicitamente il libro di Rushdie e condannare la fatwa decretata dall'ayatollah Khomeini. Nel mondo accademico, al-Azm sarebbe salito alla ribalta con una critica iconoclasta di Edward Saìd, l'autore di "Orientalismo", in cui l'intellettuale americano-palestinese dipingeva l'oriente come vittima perpetua dell'imperialismo occidentale e dei suoi stereotipi razzisti. Non secondo al-Azm, per il quale "l'islam forma una civiltà solo nella forma passiva, reattiva, folcloristica". I musulmani, ha detto al-Azm, devono "abolire una volta per tutte il codice penale islamico arcaico", la sharia. Devono rinunciare al concetto secondo cui le donne sono considerate "qualcosa di cui vergognarsi e che vanno coperte come uno scandalo". I sunniti devono invece scusarsi con gli sciiti per "il crimine indicibile dell'omicidio del nipote del Profeta nel massacro Garbala".
   Un piano audace quello di al-Azm, destinato forse al fallimento sotto la spinta delle stragi islamiste che impediscono ogni svolta riformatrice. Ma un piano di cui ancora oggi si sente disperatamente il bisogno. Per questo vale la pena di leggerlo. Perché nella logica perversa degli islamisti, il libro non avrebbe dovuto mai vedere la luce. Perché a scrivere molto meno di quanto non abbia fatto al-Azm oggi rotolano teste in medio oriente.

(Il Foglio, 15 marzo 2016)


Il terrorismo nel mio cortile di casa

La realtà di pacifica coesistenza che il terrorista palestinese di martedì scorso ha voluto colpire.

Più di ogni altra cosa, la passeggiata che conduce da Giaffa al lungomare di Tel Aviv è "la passeggiata della convivenza": ad entrambe le estremità della passeggiata vi sono regolarmente cittadini arabi ed ebrei che passano, si svagano, si godono grigliate.
Questo non vuol dire che vi sia un folle amore tra le due comunità, ma c'è sicuramente una buona convivenza. Il numero di incidenti è praticamente a zero. Personalmente ci vado almeno due volte la settimana. Vi si trova un percorso fissato per correre, camminare, andare in bicicletta, ma anche per incontrare amici e andare a Giaffa per negozi.
E' quasi il mio cortile di casa. Il terrorista che una settimana fa ha ammazzato un giovane americano e ferito a coltellate altre undici persone è stato infine abbattuto a duecento metri da casa mia, a pochi metri dal campo di calcio dove mio figlio gioca tutti i giorni. Già non è rassicurante quando accade in altri luoghi, figuriamoci quando accade vicino a casa. È disperante. Ancora un minuto o due della sua folle corsa e il terrorista sarebbe arrivato al parco giochi dei bambini, adiacente alla zona pedonale HaTachana, nel pomeriggio sempre molto affollata. E' terribile. E' agghiacciante. E' una realtà intollerabile....

(israele.net, 15 marzo 2016)


Oltremare - Pras Israel

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Ogni anno in Israele, più o meno quando arrivano le folate di chamsin primaverile, arriva anche un'ottima occasione per sentirsi profondamente ignoranti in fatto di storia nazionale e cultura generale. È sempre così, quando escono le nomination per il "Pras Israel", il premio distribuito dal Ministero dell'Educazione dal lontano 1953 a un numero variabile di israeliani eccellenti, divisi perfino per categorie. Una specie di micro-Nobel, o mini-Oscar, o comunque una celebrazione allegra e il più delle volte interessante dell'israelianità.
Per cominciare, è un forum nel quale il grado raggiunto nell'esercito, o il numero di guerre vinte o perse, è totalmente irrilevante. Già un bel sospiro di sollievo, in una società nella quale ancora oggi, e chissà fino a quando di questo passo, la gerarchia dell'esercito è incombente ovunque, dalla politica all'industria all'high-tech. Il premio viene dato secondo quattro macro-categorie: scienze sociali o umanistiche o studi ebraici; scienze (esatte o naturali); cultura, arti, comunicazione e sport; e dal 1972, alla carriera e al contributo straordinario alla nazione.
Le nomination di solito non vengono comunicate tutte assieme, lasciando lo spazio sui media a ciascun nominato singolarmente. Per fortuna, perché di solito io scopro l'esistenza di questi israeliani illustri solo in quel momento. Per dire, Nurit Hirsch, nominata ieri per la musica, non era esattamente parte del mio orizzonte culturale. Eppure, ha composto le colonne sonore di 14 film, e ha scritto qualcosa come mille (sic) canzoni, e la sua "Abanibi" ha vinto l'Eurovisione nel 1978. Noi in Italia siamo tutti cresciuti cantando "Ba-Shanah ha-Ba'ah (neshev 'al ha-mirpeset, ecc)" ma sfido chiunque a dire chi l'abbia scritta. E dunque, grazie al "Pras Israel" adesso lo sappiamo: Nurit Hirsch.
Ora, se io volessi essere una israeliana un po' più consapevole, prenderei la lista di tutti quelli che hanno ricevuto il premio dal 1953 in poi, e mi metterei con santa pazienza a studiare. Ci sarebbe da farci un bel PhD in storia della società israeliana, a partire da quella lista.


(moked, 14 marzo 2016)


Istruttori, armi e affari l'alleanza tra Is e Hamas in nome della jihad

L'allarme di Israele: gli islamisti di Gaza addestrano gli uomini del Califfato nel Sinai in cambio del contrabbando di merci.

di Fabio Scuto

RAFAH - Visto dall'alto di questo palazzone senza ascensore, i 13 chilometri di confine fra Gaza e l'Egitto sembrano ben controllati. Un fossato appena oltre l'alto filo spinato, le vedette sulle torrette ogni duecento metri e grandi bulldozer e autobotti militari pronti a intervenire. Perché l'unico modo per bloccare i tunnel di Hamas che passano sotto il confine è allagarli per farli collassare. Gli islamisti della Striscia hanno un retroterra logistico nel Sinai per il traffico di armi e hanno trovato un "accordo" strategico con gli uomini del Califfato che spadroneggiano da tre anni oltre quel reticolato. Una relazione ambigua - Hamas si sta riavvicinando all'Iran che combatte il Califfato in Siria - ma sempre più stretta con uomini delle Brigate Ezzedin al Qassam, il braccio armato degli islarnisti, non solo nella veste di fornitori d'armi ma anche di istruttori. Nonostante la "golden era" del contrabbando sia finita con l'arrivo del Feldmaresciallo Al Sisi al potere in Egitto - sotto queste sabbie è passata qualunque cosa, animali esotici e medicinali, missili e lavatrici, tv e auto rubate - Hamas ha sempre avuto i "suoi" tunnel militari e i suoi desert rats - sono oltre 1000 uomini - continuano a scavarne giorno e notte. Il tunnel è la sopravvivenza per Hamas.
   Dello stretto legame che si è stabilito fra Hamas e gli uomini della Wilaya del Sinai sono convinti anche i servizi segreti israeliani che collaborano attivamente con gli egiziani su questo fronte. n generale Yoav Mordechai - che comanda il Cogat, l'amministrazione israeliana dei Territori - denuncia la cooperazione in corso, con i militanti di Gaza che vanno a combattere nelle file dell'Is in Sinai e i miJiziani salafiti feriti che attraverso i tunnel vengono trasferiti negli ospedali di Hamas a Gaza. Due emiri dell'Is - Mahmoud Zani e Ibrahim Abu Qureia - sono stati recentemente curati a Gaza. Ad altri leader salafiti palestinesi - Sarni Gint e Abdel LatifZagrah - è stato permesso di passare sotto queste sabbie per andare a combattere nel Sinai contro l'esercito egiziano. Diversi miliziani delle Brigate Ezzedin al Qassam, poi,lavorano come istruttori nelle file dell'Is nel Sinai e hanno insegnato le tecniche usate da Hamas contro Israele, come la fabbricazione di led,le bombe artigianali, come confezionare autobomba o una trappola esplosiva.
   Queste alleanze simboleggiano lo stato complesso dei rapporti fra Hamas e l'Is. Da un lato il Califfato rappresenta la concorrenza e una minaccia ma dall'altro figure centrali di Hamas collaborano con l'Is e riconoscono i benefici di questi buoni rapporti, specie quando si tratta di contrabbandare armi e persone attraverso i tunnel. Il rapporto ambivalente si riflette nel movimento in uno scontro aperto nella sua gerarchia. Il "premier" Ismail Haniyeh e Yahia Sinwar - uno dei personaggi di spicco della ala militare del gruppo - sono assolutamente contrari a queste relazioni pericolose. In prima linea a sostenere i rapporti con l'Is e gli altri gruppi salafiti sono l'ex ministro degli Interni Fathi Hamad e un leader di Ezzedin al Qassam, Ayman Nofal, fuggito da una prigione egiziana durante la rivoluzione del 2011 e via tunnel rientrato a Gaza Sono stati loro a "concedere" ai miliziani dell'ls diversi nascondigli di armi di Hamas nel Sinai e l'uso dei tunnel verso Gaza in caso di necessità.
   Di questo si parla a mezza voce nelle strade di Rafah come a Gaza City perché le spie di Hamas sono dappertutto. Basta un nome, una mezza parola di troppo e semplicemente si scompare, per finire in una tomba senza nome bollato come spia. Ma gli occhi di Gaza vedono tutto e raccontano che uno dei capi militari del Califfato nel Sinai, Shadi al-Menei, era nella Striscia due settimane fa e non era la prima visita. Ma questa è stata meno clandestina delle altre visto che ha presenziato a un matrimonio e due giorni dopo era seduto in un caffè piuttosto famoso a Gaza City. Quasi una sfida mafiosa, ma in salsa islamica.

(la Repubblica, 14 marzo 2016)


Trani - La Fondazione Seca raddoppia

Da oggi, a sabato prossimo, nel Polo museale c'è anche il museo ebraico della sinagoga Scola grande

È conosciuta come la Sinagoga Scola Grande e attualmente è occupata dalla sezione del Museo di Storia Ebraica del Polo Museale di Trani. Nelle scorse settimane sono state definitivamente ultimate le opere di risistemazione e rimusealizzazione, al fine di poter rendere di più semplice individuazione il sito, grazie all'intervento della Fondazione Seca.
Intanto la Sinagoga sarà visitabile per tutta la durata della "Settimana della Cultura Ebraica", da oggi, lunedì 14, a sabato 19 marzo, con orario continuato dalle 9.30 alle 19.00, sempre rivolgendosi presso il desk di accoglienza del Polo Museale in piazza Duomo. Il ticket d'ingresso sarà di 3 euro per gli adulti e 2 euro per ragazzi e scolaresche.
La sinagoga Scola Grande, costruita nel XIII secolo, e successivamente trasformata in chiesa di Sant'Anna, sorge su quella che era la strada principale dell'antico quartiere ebraico tranese. Nel periodo di massimo splendore contava ben 200 fuochi, che stavano ad indicare il numero di famiglie appartenenti alla Comunità Ebraica che popolavano la città di Trani, da sempre una delle comunità più grandi del sud Italia.
Importantissimo da ricordare, anche, l'appuntamento con l'apertura straordinaria di tutte le aree espositive del Polo Museale, a partire dal "Museo della macchina per scrivere", diviso in cinque sezioni quali: "la storia e l'evoluzione della scrittura meccanica", una dedicata alle "portatili", una alle "macchine speciali Braille e Steno", una sezione interamente dedicata alla produzione "Olivetti" prima e storica azienda italiana del settore e per finire un'area dedicata alle "Toys", macchine per scrivere giocattolo. Inoltre il Polo comprende il "Museo Diocesano" con una sezione dedicata al "Tesoro Capitolare della Cattedrale", una sezione destinata al "Lapidario" ed infine un'area che custodisce la collezione archeologica "Lillo - Rapisardi" (Il ticket d'ingresso sarà di 5 euro per gli adulti e 3 euro per ragazzi e scolaresche).
Questo imperdibile appuntamento è fissato per la Settimana Santa, da lunedì 21 a lunedì 28 marzo. In questa occasione, la Fondazione Seca regalerà alla città l'occasione di poter ammirare il prezioso Messale del 1370 (XIV secolo), che, negli anni '70, sotto la tutela della Sovrintendenza di Bari veniva trafugato durante una mostra per poi essere recuperato dalla Guardia di Finanza di Roma in una casa d'aste in Inghilterra, e restituito alla Diocesi, nell'ottobre del 2011.
Da allora, lo storico manoscritto dall'inestimabile valore e rifinito in oro zecchino, non è più stato esposto al pubblico. Il Messale, che potrà essere ammirato gratuitamente all'interno della corte del Polo Museale, rappresenta un'importantissima testimonianza della vetustà del culto del Santo patrono Nicola il Pellegrino.

(il Giornale di Trani, 14 marzo 2016)


Tzipi Livni: "Lo status di profugo palestinese è l'unico al mondo ad essere ereditario"

L'ex ministra degli esteri israeliana invita a stabilire un codice democratico universale che impedisca alle organizzazioni antidemocratiche di prendere il potere.

L'Europa dovrebbe considerare i profughi palestinesi come l'esempio di cosa non fare nella sua attuale crisi dei rifugiati. Lo ha detto venerdì la parlamentare Tzipi Livni, di Unione Sionista (opposizione laburista israeliana) intervenendo al Global Forum di Baku, in Azerbaijan.
Parlando alla conferenza internazionale in materia di sicurezza, Livni ha messo a confronto il processo di assorbimento e integrazione in Israele dei profughi ebrei cacciati dai paesi arabi e la situazione dei profughi palestinesi, sottolineando come questi ultimi siano stati e continuino ad essere usati come arma di ricatto e come "merce di scambio" dai loro stessi capi. "Lo status di profugo palestinese - ha spiegato Tzipi Livni - è ereditario e passa di padre in figlio, così la questione dei profughi rende estremamente difficile risolvere il conflitto: i palestinesi sono indotti ad aspettare in eterno un tipo di soluzione che non arriverà mai". Ricordando che i profughi palestinesi sono l'unica comunità di rifugiati al mondo per i quali lo status di profugo viene conferito alle generazioni successive, Tzipi Livni ha detto che dalla loro vicenda il mondo può solo imparare come esacerbare un problema, anziché risolverlo....

(israele.net, 14 marzo 2016)


A Trani si mangia casher. Cibo solo per Ebrei? Conversazione con Cosimo Yehuda Pagliara

"Per un'etica ebraica della cucina" è il tema della conferenza incentrata sulla casherut (il complesso delle regole "casher") con la quale si apre il quarto Festival di arte, cultura e letteratura ebraica Lech Lechà Komemiut che si svolgerà a Trani dal 14 al 19 marzo prossimi.

di Luciana Doronzo

 
Cosimo Yehuda Pagliara serve vino casher agli ospiti dell'edizione 2015 di Lech Lechà
 
Pranzo casher durante l'edizione 2015 di Lech Lechà
 
Cosimo Yehuda Pagliara (a destra) con il giornalista Piero Di Nepi
Qualche anno fa, nel 2013, uscì al cinema un film diretto ed interpretato da Luca Barbareschi, incentrato sulla figura di un trafficante senza scrupoli che commerciava disinvoltamente cibi avariati o addirittura nocivi. Il film s'intitolava "Something good". In una scena del film, il protagonista suggeriva alla propria ragazza di andare in cucina e di mangiare quel che avrebbe trovato, "tanto è casher". Detto da un criminale che si arricchisce trafficando per varie mafie può sembrare una battuta fuori luogo ed infatti lo era. Tuttavia, all'attonita partner spiegava: "Almeno sono certo che un rabbino ha controllato quel che ci mangiamo!" Ecco, così sintetizzata, una realtà che nel contesto italiano, a differenza di altri Paesi, è ancora non è diffusa.
  Esaminiamo i dati (quelli veri, non le rappresentazioni cinematografiche!): il 20% del venduto (non del solo fatturato) del mercato alimentare del Nord America, cioè U.S.A. e Canada insieme, è casher. Bella forza, direbbe uno dei tanti antisemiti dichiarati (tra i tanti non dichiarati): ci sono così tanti ebrei negli Usa ed in Canada che, certamente, consumano "cibo per ebrei". La realtà è ben diversa. Negli Stati Uniti solo il 4% della popolazione totale è di religione ebraica e la maggior parte di essi appartengono a congregazioni "non orthodox", cioè non strettamente osservanti e, in definitiva, del tutto indifferenti al consumo ai alimenti certificati "idonei". In Canada, addirittura, sono molti di meno.
  Già, perché la particolarità che a molti sfugge è che casher è l'espressione ebraica per l'aggettivo "idoneo". Molti, infatti, la confondono - sbagliando - con "puro" che è concetto, evidentemente diverso.
  Cosa rende il prodotto alimentare "idoneo per gli ebrei", idoneo anche per appartenenti ad altre religioni o agli atei? Chiediamolo all'avv. Cosimo Yehuda Pagliara, condirettore artistico della kermesse e relatore, con il Rabbino Capo di Napoli, Rav dr. Umberto Piperno, la dr.ssa Jacqueline Fellus, Presidente della Commissione UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane) per la casherut ed il dr. Salvatore Nardò, amministratore della Konsulta Group, del convegno tranese "Per un'etica ebraica della cucina", incentrato sulla casherut (il complesso delle regole "casher"), con il quale si apre il quarto Festival di arte, cultura e letteratura ebraica Lech Lechà Komemiut che si svolgerà a Trani (BT) dal 14 al 19 marzo prossimi.

- Gli ebrei, da circa 35 secoli, si nutrono secondo le regole dettate dalla Torah, sia quella scritta che quella orale. Dette regole si possono, in estrema sintesi, raggruppare nella norma che proibisce di nutrirsi di carne e di latte nello stesso pasto ("non mangerai la carne del capretto nel latte della madre…"); nella proibizione di carni che non provengano da ruminante con lo zoccolo spaccato, in definitiva, solo bovini, ovini e caprini e che, tuttavia, devono essere macellati secondo procedute rigorosissime ed inderogabili; nella messa al bando di ogni animale "brulicante", considerato abominevole ed altre ancora. Chi sono i non ebrei che potrebbero essere interessati a prodotti alimentari casher?
  Innanzitutto pensiamo a varie categorie di persone intolleranti a questo o a quel prodotto. Ad esempio, gli intolleranti al lattosio possono tranquillamente acquistare prodotti casher di carne che, per via del divieto presente per ben tre volte nella Torah, non possono assolutamente contenere tracce di latte o di derivati dal latte. Ma anche alimenti casher cosiddetti parve o pareve che non contengono né latte né carne.

- Esistono, dunque, prodotti senza carne né latte?
  
Sì, sono quei cibi che possono essere consumati, nell'alimentazione ebraica, sia da soli che associati - di volta in volta e alternativamente - o con la carne o con il latte o i latticini.

- L'ideale per i vegetariani?
  
Non solo per i vegetariani, ma anche e soprattutto per i vegani, sempre più numerosi, per scelta di vita.

- Ci sono altre categorie di persone che potrebbero consumare casher?
  
Sì, i celiaci che consumando prodotti casher le pesach, letteralmente idonei per la pasqua ebraica, sono del tutto privi di agenti lievitati e lievitanti, quali la farina di grano o di orzo. Sono prodotti che ciascun ebreo consuma durante gli otto giorni di pesach, detta comunemente "Festa delle azzime", perché si consumano le matzot, le azzime appunto, che sostituiscono il pane che è, per forza, lievitato. Durante quegli otto giorni, anche il vino deve essere rigorosamente casher ed altrettanto rigorosamente casher le pesach.

- Gli ebrei consumano il vino?
  
Certamente, anzi è un elemento/alimento fondamentale per santificare, letteralmente per separare, i giorni festivi dai giorni lavorativi. Lo Shabbat, la festa più importante che contrassegna la settimana ebraica è santificato dalla benedizione sul vino che, in qualche modo 'apre' il momento del riposo settimanale, il kiddush. Altrettanto importante è il kiddush sul vino a chiusura dello Shabbat, durante il rituale dell'havdalà, letteralmente la separazione. Separazione del tempo sacro dello Shabbat dal tempo profano del lavoro e delle attività ordinarie.

- Sono dunque molte le categorie di possibili acquirenti casher. Ne dimentica qualcuna?
  
"Last but not least", come s'usa dire, ci sono gli islamici che hanno regole alimentari abbastanza simili alle nostre, pensiamo al divieto assoluto - che condividiamo - del consumo o utilizzo di carne suina, che possono tranquillamente consumare prodotti certificati casher. Come peraltro suggeriscono molti loro autorevoli maestri.

- A tavola ebraismo e islam, senza differenze?
  
A tavola, per molti secoli, gli ebrei hanno mangiato assieme a cristiani e, sino a qualche decennio fa, con gli islamici. Poi scelte "politiche" non nostre e che anzi abbiamo subito, hanno portato alla separatezza. Per superare queste divisioni proporremo anche quest'anno a Trani le degustazioni casher. Chiunque potrà sedersi a tavola e gustare cibi "idonei". Resta solo una grande differenza, e solo con gli islamici: il vino. Proibito per loro e prezioso per noi. Ma non possiamo e, se mi consente, non dobbiamo, essere tutti uguali. La bellezza dell'umanità sta nella sua unicità nell'intero creato e nelle sue differenze. Non esiste un altro uguale a lei o a me. Siamo tutti unici come Uno è il nostro Cretaore. Shalom.
  Nel corso della conferenza prevista a Trani dalle ore 17.30 presso la Biblioteca Comunale "G. Bovio" di Trani, sarà presentato il libro "La dieta casher. Storia, regole e benefici dell'alimentazione ebraica", edito da Giuntina.
  Non ci resta che augurare "buon appetito" o, per dirla alla maniera ebraica: "Beteavòn!"

(Fame di Sud, 14 marzo 2016)


Il rabbino che vuole dare un Nobel a Venezia

Intervista a Scialom Bahbout, rabbino capo della comunità ebraica di Venezia. Fuggito da Tripoli all'età di 10 anni, Scialom Bahbout conserva la memoria storica di una comunità che è stata cruciale nella storia del dialogo tra le religioni. Mentre la città si appresta a celebrare i 500 anni del Ghetto, il rabbino chiede un Nobel per la pace a Venezia

di Vera Mantengoli

 
Rav Scialom Bahbout, rabbino capo della comunità di Venezia, nella sinagoga Scola Levantina.
Venezia dovrebbe ricevere il Nobel per la Pace perché è sempre stata il punto di incontro tra culture diverse. A parlare è il Rabbino Capo Rav Scialom Bahbout, originario di Tripoli e, dall'età di 10 anni, residente in Italia.
  Scialom Bahbout ha conseguito il titolo di Rabbino a 21 anni, ma prima di svolgere questo incarico a tempo pieno, è stato per 35 anni professore di Fisica alla Facoltà di Medicina dell'Università La Sapienza di Roma. Dopo Bologna, Napoli e Roma, da un anno è alla guida della Comunità ebraica di Venezia, formata da circa 500 persone. Come 500 sono gli anni che il Ghetto di Venezia festeggerà il 29 marzo con una serie di iniziative di cui abbiamo parlato con Rav Scialom Bahbout che ci ha raccontato anche di progetti per la valorizzazione della cucina ebraica e ha lanciato un messaggio di pace per Israele e Palestina.

- Che ruolo ha la Comunità ebraica di Venezia oggi?
  "Questa comunità è tra le più piccole esistenti, ma è anche quella con il patrimonio storico e culturale tra i più antichi al mondo. Qui si parla di secoli e secoli di storia. Inoltre Venezia ha avuto un ruolo centrale per la stampa. Molte edizioni di libri sacri sono stati stampati qui per la prima volta. Insomma, Venezia è una pietra miliare della storia ebraica".

- Qual è l'origine degli ebrei che vivono nella Comunità ebraica di Venezia?
  "I primi ad arrivare sono stati gli ashkenaziti, dalla Germania. Poi, dopo il decreto di Granada del 1492 fatto dai re cattolici di Spagna, sono arrivati gli ebrei dalla penisola iberica, chiamati sefarditi. Poi, nel 1541, giunsero a Venezia gli ebrei espulsi dal Regno di Napoli, quindi dal Mezzogiorno e dalla Puglia. Immaginatevi come doveva essere il Ghetto nel 1516, quando si sono ritrovati a dover convivere ebrei provenienti da luoghi diversi, quindi con una propria cultura. Questo dà l'idea del lungo processo di integrazione che è avvenuto nei secoli e di come oggi a Venezia la Comunità ebraica sia perfettamente integrata".

- Quali progetti ha in mente per il futuro?
  "Per quanto riguarda la Comunità ebraica vorremmo, per esempio, valorizzare il settore del cibo perché potrebbe diventare un motore di sviluppo e di innovazione. La Silicon Valley è un posto piccolo, ma da lì provengono grandi idee innovative. Lo stesso potrebbe avvenire a Venezia. Tra le idee c'è quella di puntare sul cibo. A proposito, proprio nel cibo si vede l'integrazione tra ebrei e veneziani. Molti piatti oggi considerati veneziani sono anche israeliani. Un esempio? Le sarde in saor o i bigoi in salsa sono piatti che si ritrovano nella nostra cultura, come anche i dolci con le uvette. Sicuramente le uvette sono un ingrediente importato che da noi è sempre stato di uso quotidiano. C'è anche da dire che la prima forma di certificazione dei cibi viene dagli ebrei. Kosher significa certificazione, autorizzazione. Insomma, c'è una cultura del cibo ebraico che può essere riscoperta".

- Che cosa si aspetta dalle celebrazioni dei 500 anni?
  "Le celebrazioni richiamano sempre qualcosa collegato al passato, ma invece vorrei che si pensasse al futuro. Ovvero, conoscere il passato con lo scopo di trasformarlo in qualcosa di attivo per il futuro, in modo da restituire all'intera città quel respiro internazionale che rappresentava e che può ancora rappresentare Venezia in tutto il mondo, non solo per noi ebrei".

- È da qui che nasce l'idea di dare a Venezia il Nobel per la pace?
  "Non ho ancora scritto formalmente la proposta, ma lo farò sicuramente. Certo, Venezia per sua stessa natura ha questa missione di unire culture diverse e lo dimostra con la sua storia. In questo periodo si parla di continuo di terrorismo. Venezia è una città che da sempre è predisposta a un incontro tra Oriente e Occidente e potrebbe essere concretamente un simbolo di pace".

- Il Ghetto di Venezia sembra una piccola isola di pace. Come si vive da qui la questione palestinese?
  "Seguiamo quello che succede, anche da distanti. La situazione attuale non porta a nulla. Anche mettendo la questione su un piano di vantaggi, c'è qualcosa da guadagnare da questa guerra? A che cos'ha portato l'ultima Intifada dei coltelli? A nulla. La pace è l'unica soluzione e sarebbe anche l'unico vantaggio per tutti, ma bisogna essere in due per farla. A mio parere, se i palestinesi fossero stati e fossero più lungimiranti potrebbero vedere Israele come un grande alleato. Un esempio è quando Israele ha abbandonato le zone agricole di Gaza che erano organizzate e avviate. Invece di continuare a coltivarle sono state distrutte. Per quanto riguarda Israele credo invece che dovrebbe conoscere meglio la cultura araba. Insomma, israeliani e palestinesi potrebbero diventare alleati, creare un mercato comune e questo sarebbe vantaggioso per entrambi. Nessuno ci ha ancora lavorato bene. L'unica volta che un accordo di pace era quasi riuscito, parlo del protocollo dell'autonomia di Gaza e Gerico del 1994 con il primo ministro israeliano Ehud Barak, Yasser Arafat non ha firmato. Questa è comunque la direzione".

- Pensa sia possibile?
  "È difficile, ma quello che è difficile non è impossibile. Insomma, non si possono buttare in mare gli ebrei! Io stesso con la mia famiglia sono fuggito dalla Libia nel 1958, a 10 anni, a causa dei conflitti che rendevano impossibile continuare a vivere lì. Siamo scappati da un giorno all'altro, con le chiavi della casa di Tripoli in mano, ma non ci siamo più tornati e io mi ricordo perfettamente la mia casa. L'unica cosa che ci siamo portati via è stato un pianoforte perché mia sorella non poteva stare senza e mia mamma non voleva privarla di questo strumento. Siamo andati a Torino, poi mia sorella ha sposato un veneziano e mi ha preceduto. Racconto questo per dire che ci sono stati anche tanti ebrei costretti ad andarsene, ma in nessun caso si può pensare che eliminare l'altro sia la soluzione".

(La voce di New York, 13 marzo 2016)


Il ministro dell difesa israeliano in Usa per aiuti

Yaalon vorrebbe almeno 40 miliardi di dollari

Il ministro della difesa Moshe Yaalon è partito per gli Stati Uniti dove intende discutere degli aiuti militari ad Israele per il prossimo decennio, anche alla luce delle nuove minacce che scaturiscono per lo Stato ebraico dall'accordo internazionale sul nucleare iraniano. Secondo il quotidiano Yediot Ahronot, il premier Benyamin Netanyahu ha convenuto nei giorni scorsi, nel suo colloquio con il vice presidente Usa Joe Biden, che per Israele è preferibile concludere una intesa con la amministrazione di Barack Obama e non attendere oltre. Ma le cifre in discussione - aggiunge il giornale - restano molto distanti.
    Da parte americana, afferma Yediot Ahronot, si parla di aiuti per un valore complessivo di 34 miliardi di dollari, mentre Israele ritiene necessaria una cifra superiore ai 40 miliardi.
    Alla luce di queste divergenze, prosegue il giornale, è stato deciso di concordare intanto una serie di necessità prioritarie per Israele e di valutarne i costi complessivi in una fase successiva.
   
(ANSA, 13 marzo 2016)


Il ricordo di Elio Toaff a quasi un anno dalla sua scomparsa

Livorno, a quasi un anno dalla sua scomparsa, ha ricordato nella sala del consiglio di palazzo comunale il rabbino Elio Toaff, rabbino capo di Roma dal 1951 al 2001, scomparso il 19 aprile 2015. La cerimonia, organizzata dalla Comunità Ebraica di Livorno con il patrocinio del Comune di Livorno, ha avuto inizio con il saluto del sindaco Filippo Nogarin e di seguito con gli interventi del rabbino capo di Livorno Yair Didi, di Ruth Dureghello (presidente della Comunità ebraica di Roma) e del presidente della Comunità Ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri.

(La Nazione, 13 marzo 2016)


Memorie da Tripoli: la fuga degli ebrei libici nel 1967

Alla fine degli anni Sessanta, a causa delle crescenti violenze della comunità araba su quella ebraica, migliaia di ebrei furono costretti a emigrare dalla Libia

di Micol Debash

La cattedrale di Tripoli, edificata durante il colonialismo italiano in Libia (1934-1947). Nel 1970, con l'esodo degli italo-libici, divenne la moschea di Maidan al Jazair (moschea di Piazza Algeria)
Sono le otto di mattina e una folla imbestialita marcia verso la Città Vecchia, la zona nord-occidentale di Tripoli, in Libia. È il giugno del 1967 e in concomitanza con la Guerra dei Sei Giorni - un conflitto tra Israele, Egitto, Siria e Giordania - gli ebrei di Tripoli sono il bersaglio della comunità araba locale. Bruciano i negozi, distruggono le macchine, entrano nelle case degli ebrei, profanano templi e rotoli della Torah.
Giulia, ebrea trentenne, sta correndo da un terrazzo all'altro con in braccio il più piccolo dei suoi tre figli, un neonato di pochi mesi. Non sa da che parte scappare, teme per la sua famiglia e per i suoi bambini. Le sembra di essere in un incubo.
Fino a quel giorno, a Tripoli gli ebrei convivevano con gli arabi. Tuttavia in quegli anni si respirava una crescente atmosfera di ostilità, principalmente in conseguenza della creazione dello Stato di Israele il 14 maggio del 1948. Quello stesso anno dimostrazioni e sommosse contro la comunità ebraica libica aumentarono considerevolmente.
I rapporti tra la comunità araba e quella ebraica si facevano sempre più instabili. Tra gli ebrei, vi era una crescente preoccupazione e ci si interrogava sull'esigenza di lasciare la propria patria ed emigrare in un luogo sicuro. Tuttavia, per alcuni, era difficile pensare di poter lasciare Tripoli.
Giulia, ad esempio, era la figlia del proprietario di una grossa distilleria e moglie del gestore di uno stabilimento in cui si produceva materiale da costruzione. "La vita della mia famiglia a Tripoli era agiata, - racconta Giulia - avevamo una bella casa, una Volkswagen e i nostri figli andavano alla scuola privata delle suore bianche".
Tripoli aveva le sembianze di una città italiana. Nel 1934, sotto l'impulso di Benito Mussolini, l'Italia avviò una politica di colonizzazione della Libia, costruendo infrastrutture come strade, ponti, ospedali e scuole. La colonizzazione italiana della Libia (1934-1947), terminò con il Trattato di pace firmato tra l'Italia e le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, con cui lo Stato italiano doveva rinunciare a tutte le sue colonie, compresa la Libia.
Dato il lungo periodo di colonizzazione, tutte le vie principali di Tripoli portavano nomi come Corso Vittorio, Piazza Italia o via Dante. Era una bellissima città, c'era lusso e ricchezza, alberghi eleganti e spiagge paradisiache. Nella stessa città convivevano arabi, ebrei e cristiani. Le donne arabe si riconoscevano facilmente poiché nascoste dietro ai baracani, antenati del burqa, che le coprivano interamente lasciando solo un occhio scoperto.
La calma era però solo apparente. In realtà, la censura era asfissiante, le donne non potevano uscire da sole senza essere importunate da sguardi indiscreti e mani invadenti. Gli ebrei inoltre erano soggetti a diverse restrizioni.
A nessun ebreo era concesso avere il passaporto. Per lasciare la Libia, si doveva richiedere il Travel, un documento provvisto di un visto valido per tre mesi. Nessun nucleo famigliare poteva lasciare il paese senza che uno dei familiari rimanesse in Libia. Gli ebrei potevano fare i commercianti, ma non potevano assumere posizioni di rilievo all'interno della società.
Con la Guerra dei Sei Giorni, le tensioni esplosero definitivamente. Il 5 Giugno del 1967 a Tripoli si scatenò un pogrom contro gli ebrei. Il bersaglio era la hara, quartiere ebraico della città. La folla era violenta e accecata dall'odio e i risvolti furono drammatici: 17 ebrei vennero trucidati. Tre di questi furono pugnalati. Due famiglie vennero prelevate da un finto ufficiale libico con la scusa di essere portate in salvo in un campo di raccolta: appena fuori città, furono uccise.
Giulia ricorda quel giorno come se fosse ieri: "Mentre ero in fuga e correvo tra un terrazzo all'altro dei palazzi di Tripoli, ho rivolto lo sguardo alla strada solo per un attimo. Proprio in quel momento, ho visto un gruppo di arabi uccidere brutalmente il figlio del nostro macellaio, 19 anni, mentre tentava di aprire il locale del padre così come faceva ogni mattina".
Quei giorni furono un inferno per gli ebrei libici. La famiglia di Giulia rimase in casa per un mese insieme al marito Aldo e i figli Josy, nove anni, e Gaby, di pochi mesi.
"All'appello mancava mia figlia Elizabeth, sette anni, che era rimasta all'asilo dalle suore bianche dalla mattina del 5 giugno, giorno del pogrom contro gli ebrei", ricorda.
Le suore bianche la riportarono a casa tre giorni dopo, camuffata da bambina araba.
Per alcuni aspetti, la famiglia di Giulia poteva ritenersi più al sicuro delle altre. Non abitavano nel quartiere ebraico e il loro appartamento aveva una porta blindata, un lusso a quei tempi. Nonostante ciò, non c'era giorno in cui Giulia non ricevesse minacce telefoniche. "Presto arriverà il tuo momento, stiamo arrivando a prendere i tuoi figli", le ripetevano tutti i giorni al telefono.
"Non facevo altro che pregare, pregavo che non venissero a prenderci gli arabi, pregavo per la salvezza dei miei figli, pregavo che saremmo riusciti a emigrare al più presto".
Vista la condizione degli ebrei libici, impossibilitati a uscire di casa senza mettere a repentaglio la propria vita, l'unica soluzione per la comunità ebraica di Tripoli rimaneva l'espatrio. Tuttavia, per un ebreo lasciare la Libia non era così facile. Serviva un visto rilasciato dalle autorità locali.
Preoccupato della condizione degli ebrei di Tripoli, il presidente della comunità ebraica in Libia inviò un appello al primo ministro locale per ottenere un permesso speciale affinché gli ebrei potessero lasciare il paese anche solo momentaneamente. Pochi giorni dopo, il permesso venne accordato con l'approvazione del Re Idris.
Seppur non avesse preso alcuna posizione riguardo alla Guerra dei Sei Giorni, sul primo re di Libia pesava la responsabilità di non essere riuscito a garantire l'incolumità degli ebrei libici. Dunque al Re Idris non rimaneva altra scelta che farli espatriare, seppur per un tempo limitato.
Entro settembre del 1967, circa 4.100 ebrei libici emigrarono in Italia. Giulia e Aldo erano tra questi e nel mese di giugno del 1967, raggiunsero l'Italia.
"All'aeroporto ci eravamo divisi. Non potevamo lasciare la Libia come famiglia unica, non ce l'avrebbero permesso. Dunque ho finto di non essere sposata e ho viaggiato con il mio cognome da nubile". Il viaggio non fu facile. Giulia raccontò alle autorità libiche di voler lasciare il paese per andare a un matrimonio in Italia.
Al fine di rendere la sua versione più credibile, mise in valigia un vassoio d'argento come regalo per la coppia sposata, un vestito da sera e un bel bracciale da indossare al ricevimento. Ma soprattutto si raccomandò con i suoi figli, il più grande di nove anni, di non chiamarla mamma in pubblico e di non avvicinarsi a lei per nessun motivo.
Le autorità libiche, sospettose fino all'ultimo, cercarono di mettere Giulia in difficoltà. Persino sull'aereo, prima del decollo, la perquisirono davanti a tutti i passeggeri, compreso il marito, che dovette stare a guardare fingendo di non conoscerla.
Aldo e Giulia arrivarono in Italia con i loro tre figli e nient'altro. Non avevano soldi, vestiti, oggetti di valore. Dovettero abbandonare tutta la propria vita alle spalle.
"A Tripoli ho lasciato tutti i miei ricordi, tutte le fotografie dell'infanzia dei miei bambini, i loro giocattoli preferiti, la nostra prima casa".
Tutti i 4.100 ebrei che sono stati costretti ad andare via da Tripoli alla volta dell'Italia subirono la stessa sorte. Sono dovuti partire con poche monete in tasca - venti sterline a testa per l'esattezza - e lasciare tutti i loro beni in Libia, confiscati dalle autorità locali.
In Italia furono riconosciuti rifugiati sotto l'egida dell'Alto Commissario dell'Onu. Molti di loro si stabilirono a Roma. La gioventù lavorava per mantenere i genitori. Le famiglie ebree vivevano nella miseria aspettando ogni giorno, alla stazione Termini o all'aeroporto di Fiumicino, notizie sui propri cari. Molte famiglie erano divise tra la Libia e l'Italia.
Giulia si trasferì per pochi mesi a Ostia con la sua famiglia, per poi spostarsi in Via Pascarella, a pochi passi dalla stazione Trastevere. Rimase in Italia fino al 1970, anno in cui la sua famiglia decise di fare Aliyah, ovvero trasferirsi in Israele.

(The Post Internazionale, 13 marzo 2016)


Nazista, naturalmente

Non c'è quasi nulla di «elevato» nel pensiero di Martin Heidegger. E l'antisemitismo metafisico è un'idiozia. La bizzarra, infinita fortuna del Pastore dell'Essere tra i filosofi italiani è basata su una malintesa idea di che cos'è la modernità.

di Roberta De Monticelli

 
Roberta De Monticelli
Prosegue, con il secondo volume, la traduzione italiana dei Quaderni neri di Heidegger, nell 'attenta traduzione di Alessandra Iadicicco (1938/1939). Dell'antisemitismo "metafisico" di Heidegger si parla dall'uscita del libro di Donatella Di Cesare Heidegger e gli Ebrei (Bollati Boringhieri 2014, edizione riveduta 2016).
Tra sconcerti e sdrammatizzazioni, una cosa colpisce: che quasi non ci siano eccezioni all'imperturbata ammirazione che si continua a tributare a questo sofista, alla sua idea della "macchinazione" universale, che ha colpa di tutto, e ha nome Modernità.
E più genericamente questa potenza oscura è descritta più siamo tranquilli noi - amici dell'Essere che contemplano l'Essenza del Nichilismo, il Destino dell'Occidente, la Tecnica, il Capitalismo, la Finanza - tutti i volti della Metafisica insomma, e qualcuno ce
ne sfugge: il Neo liberismo, forse. In questa ammirazione c'è tutta la storia dell 'irresponsabilità intellettuale e morale di una vastissima parte del pensiero europeo e italiano, dal dopoguerra a oggi. La riflessione che vi propongo si basa sui volumi dei Quaderni neri che sciranno in versione italiana: sono testi che risalgono agli anni dell'impegno nazista di Heidegger. Cos'è l'antisemitismo metafisico? È l'accusa a «quella specie di umanità che, essendo per eccellenza svincolata, potrà fare dello sradicamento di ogni ente dall'Essere il proprio "compito" nella storia del mondo». Così «il mio attacco a Husserl è diretto non solo contro di lui - il che lo renderebbe inessenziale - l'attacco è diretto contro l'omissione della questione dell'Essere, cioè contro l'essenza della metafisica come tale, sulla cui base la macchinazione dell'ente riesce a dominare la storia». Così scrive Heidegger nel Quaderno nero intitolato Riflessioni XIV, all'indomani dell'offensiva tedesca a Est, annunciata da Hitler il 22 giugno 1941.
Ora, Heidegger ha ragione: Husserl è proprio uno sradicatore. Prendiamo un suo testo di quasi vent'anni prima, L'idea d'Europa, sull'universalità dei giudizi veri e ben fondati - anche quelli di semplice esperienza - che costituiscono acquisizioni per tutti: «quello che vedo io può vederlo chiunque... da qualsiasi cerchia culturale provenga, amico o nemico, greco o barbaro, figlio del popolo di Dio o Dio dei popoli nemici».
Ecco qui all'opera l'ebreo errante che sradica. Di più: Husserl insiste sullo sradicamento, non solo in relazione all'evidenza universale dei giudizi di fatto, ma anche e soprattutto in relazione alla ricerca di evidenza per i giudizi di valore: «così profondamente radicate nella personalità che già il loro metterle in dubbio minaccia di "sradicare" la personalità stessa, la quale ritiene di non poter rinunciare a loro senza rinunciare a se stessa - cosa che può portare a violente reazioni d'animo».
Cioè: sapere aude. Con l'aggiunta di una nuova e sofferta consapevolezza di quanto sia difficile il passaggio alla maggiore età: dalle care certezze della comunità d'appartenenza all'autonomia del pensiero adulto. Husserl insiste, spietato: «E non importa che piaccia o meno a me o ai miei compagni, che ci colpisca tutti "alla radice": la radice non serve». Donatella Di Cesare riassumeva così il risultato della sua esplorazione dei Quaderni neri: «Il pensiero più elevato si è prestato all'orrore più abissale».
La mia domanda è: ma che cosa ci sarà di "elevato"? Come si può considerare "elevata" l'idiozia etno-metafisica dell'ebraismo sradicatore? Come risulta bene dal passaggio di Husserl, Heidegger imputa a questo "sradicatore" quella che è per Husserl la gloria di Socrate: la vita esaminata, il vaglio critico delle tradizioni e culture d'appartenenza.
Ma non sembra molto più elevata l'idea di incolpare l'Ebreo Metafisico di essere l'agente della modernità, bersaglio di tutto il linguaggio heideggeriano: e modernità - in filosofia - vuol dire l'Illuminismo, il principio kantiano di autonomia morale della persona, l'universalismo morale, il cosmopolitismo politico, la scienza e la democrazia.
Purtroppo è proprio questa l'idea di modernità ereditata da una grande ala della filosofia italiana contemporanea.
Che sembra confondere nel "destino dell'Occidente" la ragion pratica e Auschwitz, l'Illuminismo e il nazismo. Sulle tracce di Adorno Horkheimer, e della loro oscura Dialettica dell'Illuminismo. E che cosa insegna questo pensiero ai nostri figli? A proposito della macchinazione di cui non siamo mai noi ad aver colpa: sarà un caso se il livello di discriminazione concettuale e di discernimento morale, oltre che di intelligenza politica del male che affligge la democrazia, resta, anche fra molti dei filosofi più in vista, pari a quella di un adolescente narciso alle prese col lato oscuro della forza?

(Il Sole 24 Ore, 13 marzo 2016)


Hamas scava tunnel e nei kibbutz ll panico aumenta a ogni rumore sospetto

di Carlo Antonio Biscotto

I residenti dei kibbutz al confine di Gaza vivono nel terrore. Ma questa volta non scrutano il cielo né il muro che li separa dalla Striscia; poggiano l'orecchio sul pavimento o sul terreno e ascoltano. Dalia Levy vive a pochi chilometri dal confine. Prende il cellulare e fa ascoltare una registrazione effettuata durante la notte: scricchiolii, strani rumori e fruscii. Per lei sono la prova che i combattenti di Hamas stanno scavando dei tunnel sotto i suoi piedi. "Ho paura che i terroristi sbuchino da sotto il pavimento e ammazzino me e i miei figli", dice singhiozzando. In questa regione di Israele ci sono, oltre ai kibbutz, piccoli villaggi agricoli che si trovano a poche centinaia di metri dal confine con Gaza. Affacciandosi alla finestra gli israeliani possono vedere i palestinesi che coltivano i campi o camminano in strada. Costruire un tunnel sembra tutt'altro che impossibile. I timori sono stati alimentati anche dalle dichiarazioni del capo di stato maggiore dell'esercito israeliano secondo cui "contrastare la minaccia dei tunnel è quest'anno la principale missione dei militari". D'altro canto Hamas non si nasconde dietro un dito. Ismail Haniyeh, uno dei leader dell'organizzazione, ha fatto sapere dir ecente che i militanti scavano giorno e notte. "Tunnel sottoterra e razzi in cielo", ha minacciato.
   I lavori di scavo proseguono a ritmo talmente frenetico che si sono verificati almeno cinque crolli solo negli ultimi mesi. Ovviamente non tutti i tunnel sono diretti verso Israele. È vitale per Hamas mantenere aperti i collegamenti con l'Egitto per aggirare l'embargo. Un ufficiale dell'esercito egiziano ha detto due settimane fa che in un tunnel lungo 35 metri i suoi soldati hanno trovatoarmi, esplosivi esacchetti di cocaina. Per gli abitanti dei kibbutz di confine i tunnel sono un continuo motivo di ansia. Ne sa qualcosa Ayelet Schachar-Epstein: "Anche se la mia casa è a tiro dei mortai di Hamas, i tunnel mi fanno molta più paura. Sono devastata dall'angoscia. Ogni sera metto i miei figli a letto e mentre leggo una favola al più piccolo non faccio che pensare alla possibilità che un gruppo di terroristi faccia irruzione in casa e ci ammazzi tutti".
   Questo scenario da incubo in realtà non ha precedenti. Finora quello che Ayelet teme non è mai accaduto. Almeno non nei confronti dei civili. Non di meno questo genere di guerra sotterranea non è una novità in questa zona del mondo: nel 132 AC i ribelli ebrei usavano una fitta rete di tunnel sotterranei per attaccare le legioni romane dell'imperatore Adriano. Ma la minaccia dei tunnel è penetrata come un veleno nell'animo degli israeliani nel giugno 2006 quando un commando di militanti sbucò da un tunnel e tese un agguato ai soldati facendo prigioniero il diciannovenne Gilad Shalit, liberato cinque anni dopo. "Gilad Shalit fu come un campanello d'allarme", dice Miri Elsin, ex ufficiale dei servizi segreti militari. Le segnalazioni arrivano in continuazione ai comandi militari della zona. "Ho sentito chiaramente il rumore di un martello e di uno scalpello e la mia vicina mi ha detto che sente scavare sotto il cemento", ha raccontato un abitante del villaggio di Pri Gan alla Reuters.
   Militari e responsabili della sicurezza sono scettici. Pri Gan si trova a circa tre miglia dal confine con Gaza e Hamas non ha mai scavato un tunnel così lungo. Inoltre nella zona il terreno è sabbioso e argilloso e un eventuale scavo non produrrebbe rumori come quelli denunciati dagli abitanti del villaggio. Ma la gente ha paura e non presta ascolto alle rassicurazioni. "Bisogna svegliarsi prima che accada qualcosa di grosso", esorta Dalia Levy. Nel frattempo, purtroppo, muoiono innocenti da una parte e l'altra: dopo la serie di accoltellamenti contro ebrei avvenuti martedì scorso, sono due i bambini palestinesi che hanno perso la vita nel bombardamento israeliano di ieri mattina su Gaza; una bimba di 6 anni e il fratello di 10. Il bombardamento era stato effettuato in risposta al lancio di razzi di alcune ore prima da parte di miliziani palestinesi contro Israele.
   
(il Fatto Quotidiano, 13 marzo 2016)


Fra Israele e Hamas è scontro pure sulle tv

E riapparso su un satellite egiziano il canale tv di Hamas operante dalla Francia che il governo Hollande aveva fatto spegnere su richiesta di Netanyahu; il premier israeliano è stato costretto a ritelefonare a Parigi per ottenere un nuovo spegnimento. Intanto Hamas hackera i programmi del secondo canale israeliano e irrompe sui teleschermi per tre minuti con messaggi di odio e minacce: «Ebrei imparate dalla storia e andatevene». Il giorno prima Gerusalemme aveva chiuso due canali tv di Ramallah senza licenza.

(Libero, 13 marzo 2016)



L'umanità del Ghetto di Venezia

A 500 anni dalla nascita del primo quartiere ebraico d'Europa, Donatella Calabi ne esplora la storia urbanistica e demografica, restituendoci l'humus vitale della comunità.

di Sergio Luzzatto

 
Sezione di un edificio del campo di Ghetto Nuovo: disegno acquerellato del XVIII secolo nel quale si vedono bene la frammentazione interna in un gran numero di appartamenti, i nomi degli occupanti e l'altezza ridotta dei diversi piani. Fonte: Archivio di Stato di Venezia
Quando si dice: lo spaccato di un ambiente e di un'epoca. Datato 1778, il disegno di Giorgio Fossati è esattamente questo, e lo è nella doppia accezione del termine. È il disegno in sezione di una casa del Ghetto, per mano di un noto architetto del Settecento veneziano. Ma è anche una rappresentazione diretta, immediata, dei modi di vita in quella casa del Campo di Ghetto Nuovo: la casa «sopra il Rio di San Gerolamo» (il «camarino», si legge nell'appunto a sinistra) dove abita la signora Giuditta Alpron.
   I piani dell'edificio sono addirittura sette, cui va aggiunta una mansarda. La signora Giuditta si è riservata gli ultimi due, con il sottotetto e una terrazza. Negli altri piani - che hanno i soffitti particolarmente bassi: sono poco più che mezzanini, per aumentare il numero di alloggi disponibili - si addensa, si incrocia, si pesta i piedi una varia umanità. Davide Zemello risulta abitare sia al pianterreno, cioè al livello del Rio, sia al terzo piano. Al primo piano stanno i fratelli Valenzin, al secondo Isac Vita Todesco, al quinto i fratelli Malta. Al quarto piano è insediata la Fraterna da Maritar Donzelle, un'associazione di carità per le giovani prive di dote. Tutti gli occupanti della casa sono ebrei. E tutti vivono in affitto. Nel pieno dell'età dei Lumi, la proprietà immobiliare resta preclusa agli israeliti, quand'anche entro i limiti del quartiere loro imposto e riservato. Il Ghetto di Venezia era stato il primo in Europa, al punto di dare il nome alla cosa: la parola «ghetto» derivava dal «getto» delle scorie di una fonderia di rame situata lì, a Cannaregio, dopo che la «g» dolce del dialetto veneto aveva ceduto il passo - nella lingua degli ebrei ashkenaziti - alla «gh» dura del tedesco. Il 29 marzo 1516, la Repubblica Serenissima aveva ordinato a «li Giudei» della città di «tutti abitar unidi» nella «Corte de Case» presso San Gerolamo, «acciocché non vadino tutta la notte attorno». Ogni mattina, soltanto al primo suono della campana di San Marco gli ebrei di Venezia (cinquecento o settecento che fossero, secondo i calcoli del diarista Marin Sanudo) avrebbero avuto il diritto di lasciare il Ghetto per affaccendarsi, al mercato di Rialto, nelle solite loro faccende: i banchi di pegno, la vendita di stoffe, il riciclo di abiti e oggetti usati. In fondo, tenere gli ebrei dentro la città, senza ricacciarli verso la Terraferma od oltre le acque del Lido, costituiva un buon affare così per i padroni di casa come per l'erario della Repubblica. «Quando li hebrei andassero via di Venetia - ragionava un proprietario - si caveria molto poco, per esser loco picolo e di poco momento, et a ridurlo che li potessero habitar cristiani li bisognarabe spender molti denari». Trattenere gli ebrei a Venezia profittava anche alle casse dello Stato, poiché incrementava il gettito fiscale; e comunque valeva a conservare sul posto i beni dei cristiani finiti in mano a zudei attraverso i banchi dei pegni. Insomma, occorreva fare buon viso a cattivo gioco. Bisognava vendere agli ebrei il diritto d'accesso all'acqua dei pozzi. Bisognava individuare i luoghi dove potessero tagliare ritualmente la loro carne. E bisognava rassegnarsi a quelle poche case di Cannaregio straripanti e maleodoranti, «otto e diese e alle volte molte più persone quali stano in un sol logo streti et con molto fettor».
   Del Ghetto, nel cinquecentesimo anniversario, Donatella Calabi restituisce ora una storia anzitutto urbanistica. Segue l'allargarsi del quartiere recintato, quando al Ghetto Nuovo si aggiunse il Ghetto Vecchio (i nomi traggono in inganno) e poi il Ghetto Nuovissimo. Accompagna l'accrescersi demografico della comunità ebraica di Venezia, quando agli ashkenaziti si sommarono i sefarditi, levantini o ponentini, elevando a quasi cinquemila - verso la metà del Seicento - il numero di israeliti abitanti in città, il 3% della popolazione totale. Sottolinea la svolta intervenuta nel 1589, quando gli ebrei furono ufficialmente autorizzati dalla Repubblica a «tener sinagoghe, secondo l'uso loro»: le cinque sinagoghe tanto dimesse nell'aspetto esteriore quanto trionfanti, all'interno, di luce naturale e artificiale, che ancora oggi testimoniano ai turisti di una vita religiosa tutta concentrata sull'illuminazione del Libro.
   Lungi dall'esaurirsi tra banchi e banche di Rialto, la quotidianità degli ebrei veneziani era fatta di mille altre cose. Le yeshivot dove bambini (i maschi, ma anche le femmine) e ragazzi studiavano dapprima l'ebraico e la Bibbia, poi le scienze e la filosofia. Le stamperie dalle quali uscirono, fra Cinquecento e Settecento, autentici tesori di letteratura biblica, talmudica, cabbalistica. Le botteghe di Cannaregio (legali o illegali) dove si lavoravano gioielli, si trafficavano preziosi, si confezionavano e si smerciavano pellicce. E ancora i forni per il pane e per le azzime, i negozi di cibo kosher, le botteghe del barbiere e del cappellaio, l'antro dell'alchimista, il deposito delle casse da morto destinate a viaggiare in gondola - un giorno o l'altro - verso il cimitero di San Nicolò al Lido: l'unico bene immobile che gli ebrei veneziani avessero il diritto di possedere.
   Come per altre comunità ebraiche degli antichi Stati italiani, così per la comunità di Venezia la fine dell'isolamento avvenne per tappe, con fughe in avanti e marce indietro, nei decenni compresi tra l'epopea di Napoleone e l'epopea del Risorgimento. Durante la Restaurazione, il governo austriaco riconobbe agli ebrei la possibilità di accedere alla proprietà immobiliare. Banchieri come gli Errera o i Levi poterono dunque muovere alla conquista di prestigiosi palazzi sul Canal Grande, mentre la declinante popolazione del Ghetto pur cercava di conservare le sue antiche abitudini. Cercava di evitare che la fine delle interdizioni coincidesse con la fine delle tradizioni. Cercava di non pagare troppo caro il prezzo dell'uguaglianza.
   Separate da un secolo di storia, due istantanee tratte dal libro di Calabi - l'una curiosa, l'altra drammatica - rappresentano l'alfa e l'omega di questa storia. Il 1o dicembre 1830, il medico Giuseppe Levi procede a un rilevamento delle oche possedute dai macellai operanti nel Ghetto, e ne conta nientemeno che 1.580: in pratica, un'oca per ogni ebreo allora residente in città, a suggello della centralità dell'oca nell'arte del «mangiare alla giudia», perché non mancasse mai in tavola un salame d'oca, o un fegato grasso, o una focaccia alla pelle d'oca fritta. Il 17 settembre 1943, il medico Giuseppe Jona, anziano presidente della comunità israelitica locale, preferisce suicidarsi piuttosto che consegnare ai nazifascisti l'elenco dei suoi correligionari destinati ai treni per Auschwitz. Rinunciare all'allevamento delle oche non era bastato agli ebrei per farsi accettare quali uomini e donne come gli altri.

Donatella Calabi, Venezia e il Ghetto. Cinquecento anni del «recinto degli ebrei», Bollati Boringhieri, Torino, pagg. 186, € 15, in libreria dal 17 marzo

(Il Sole 24 Ore, 13 marzo 2016)


Delegazione di Hamas al Cairo per discutere relazioni con Egitto

IL CAIRO - Una delegazione del movimento islamista palestinese Hamas si sta recando in queste ore al Cairo per discutere delle relazioni del gruppo con il governo egiziano. Lo ha rivelato oggi una fonte anonima di Hamas ripresa dal quotidiano libanese "The Daily Star". I rapporti tra il movimento palestinese e l'Egitto si sono incrinati dopo la destituzione al Cairo del presidente Mohammed Morsi, espressione dei Fratelli musulmani. Le nuove autorità egiziane, guidate dal presidente Abdel Fatah al Sisi, hanno ripetutamente accusato Hamas di condurre attività di destabilizzazione in Egitto con l'obiettivo di riportare al potere la Fratellanza. L'ultima accusa risale alla scorsa settimana, quando Il Cairo ha fatto sapere che il movimento islamista palestinese sarebbe dietro l'assassinio, nel luglio del 2015, del capo procuratore egiziano Hisham Barakat.

(Agenzia Nova, 12 marzo 2016)


Impiccagioni di minori e «cancellare Israele». Ecco l'Iran "moderato"

Le elezioni in Iran le avranno anche vinte coloro che vengono definiti "moderati", e anche su questo non mancano i dubbi, ma di sicuro il regime islamico non è diventato affatto moderato.

 Impiccagioni record
  Un'ultima conferma è arrivata dall'inviato speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani in Iran. L'anno scorso si è registrato un nuovo record per quanto riguarda le esecuzioni capitali: ben 966 persone sono state impiccate, soprattutto per crimini legati allo spaccio di droga, contro le 697 del 2013 e le 91 del 2005. E questo nonostante al governo ci fosse un presidente "moderato" come Hassan Rohani.

 73 minori giustiziati
  Inoltre, continua Ahmed Shaheed in un rapporto di 21 pagine rilasciato giovedì, almeno 73 minori sono stati impiccati tra il 2005 e il 2015, nonostante «simili esecuzioni siano severamente e inequivocabilmente proibite dalla legge internazionale». Il numero delle esecuzioni minorili è più alto nella Repubblica islamica rispetto a qualunque altro paese (Cina esclusa, visto che non comunica i dati sulle esecuzioni, considerati segreto di stato).

 «Cancellare Israele»
  Ci sono altri elementi che fanno dubitare della rinnovata moderazione dei vertici iraniani. Prima dei test missilistici compiuti tra lunedì e martedì, secondo quanto riportato dall'agenzia di stampa ufficiale Fars, le Guardie rivoluzionarie hanno scritto su ogni missile balistico in ebraico: «Israele deve essere cancellato dalla faccia della Terra». Il capo del programma missilistico, Amir Ali Hajizadeh, ritenendo il messaggio troppo ambiguo, ha specificato: «I missili hanno una gittata di 2.000 chilometri e sono pronti a colpire il regime sionista».

(Tempi, 12 marzo 2016)


Eccidio di Guardistallo. Promosso un incontro coi parenti delle vittime

E lunedì arriva in Comune Ariel Toaff, figlio del rabbino a cui è dedicata una piazza

Guardacristallo
GUARDISTALLO - Un incontro con i parenti delle vittime dell'eccidio di Guardistallo: per la commemorazione del 29 giugno il Comune vuole organizzare una manifestazione che coinvolga anche le giovani generazioni; per questo ha deciso intanto di riunire i parenti delle vittime della strage nazista che il 29 giugno del 1944 provocò la morte di 63 persone inermi. «A 72 anni da quesi tragici fatti che hanno segnato così duramente il nostro paese - spiega il sindaco Sandro Ceccarelli - vorremmo intraprendere un percorso nuovo, rivolto ai giovani, invitandoli a prodigarsi sempre per la pace. Per questo c'è bisogno di capire insieme il passato per costruire il futuro. Ed è questo l'intento dell'incontro che abbiamo promosso con i familiari delle vittime, molti dei quali non vivono più a Guardistallo». L'incontro è stato organizzato per il 2 aprile alle 10,30 nella sala del consiglio comunale. A loro sarà illustrato per primi il progetto, che coinvolge le scuole di Guardistallo ed ha il patrocinio della Provincia di Pisa e della Regione Toscana.
   «Vogliamo che questa tragedia che ha colpito Guardistallo sia il punto di partenza per costruire un processo di pace - spiega Ceccarelli - sul modello di quello che succede a Sant'Anna di Stazzema, dove si è consumata un'altra terribile strage. All'interno del progetto vogliamo anche ricordare la figura del parroco don Mazzetto Rafanelli, il vero eroe di quei giorni».
   Prosegue intanto la collaborazione con la comunità ebraica. Lunedì 4 marzo sarà ospite del Comune collinare il figlio di Elio Toaff, il rabbino emerito a cui Guardistallo ha dedicato una piazza. Elio Toaff non ha potuto partecipare alla cerimonia di intitolazione. Verrà quindi lunedì prossimo per visitare la piazza dedicata al padre, e sarà accolto nella sala consiliare.

(Il Tirreno, 11 marzo 2016)


Maratona di Gerusalemme 2016: correre nella spiritualità

Paesaggi spettacolari da attraversare in occasione della maratona di Gerusalemme

Il 18 marzo 2016 si terrà la sesta edizione della Maratona della città di Gerusalemme, una corsa estremamente affascinante percorsa lungo alcuni luoghi avvolti da un'estrema spiritualità. Per soddisfare le esigenze degli atleti partecipanti, gli organizzatori hanno previste 4 diverse gare su distanze diverse: 42 km, 21 km, 10 km e 5 km. Tutti i percorsi hanno come scopo quello di raccontare la storia di Gerusalemme e dei suoi oltre 3000 anni di civiltà. Panorami e paesaggi spettacolari permettono di coniugare l'evento sportivo con emozioni che solo in una città assolutamente unica come Gerusalemme si possono provare.
   Questa competizione, il cui nome è Jerusalem International Winner Marathon, rappresenta uno degli eventi più importanti del cosiddetto anno gerosolimitano. La prima edizione ha visto la luce nel 2011 grazie al Sindaco della città, Nir Barkat, che si impegnò personalmente per l'organizzazione della manifestazione.
   La maratona si tiene sempre nel mese di marzo, in concomitanza con l'inizio della primavera che rappresenta il periodo ideale per praticare sport all'aria aperta. In città confluiscono migliaia di atleti, professionisti e runner amatoriali, che vengono da ogni parte del mondo sia per la partecipazione alla gara podistica sia per ammirare i suggestivi panorami di questi luoghi.
   Numerosi sono gli eventi che accompagnano la Maratona di Gerusalemme. Precisiamo innanzitutto che, nella stessa giornata, si corrono anche le gare su distanze minori per dare la possibilità a tutti gli atleti di partecipare e confrontarsi sulla distanza più congeniale. Manifestazione molto interessante è l'esposizione 'Sport e salute' che vede la partecipazione di molte aziende operanti nel campo dell'atletica leggera, sia nell'abbigliamento sia negli accessori sportivi sia nell'alimentazione e nelle bevande. Spettacoli e attività culturali saranno il degno contorno di questa particolarissima esposizione.
   Il pieno di carboidrati è assicurato dall'usuale Pasta Party durante il quale atleti e accompagnatori gusteranno gratuitamente alcune prelibatezze a base di pasta. Al parco Sacher si terrà invece la fiera dello sport, con lezioni su varie discipline sportive, corsi di zumba, artisti vari e gli immancabili stand dedicati alla gastronomia.
Nel giorno della gara, poi, lungo il percorso, gli spettatori potranno partecipare a una serie di piccoli eventi che si tengono nelle strade cittadine, comprese attività sportive e spettacoli. La degna chiusura è data dalla suggestiva cerimonia di premiazione che celebrerà degnamente gli atleti classificati nelle varie discipline.

(Si Viaggia, 12 marzo 2016)


Un dubbio: ma chi glielo fa fare, ai palestinesi, di diventare un piccolo e marginale Gabon?

Forse gli arabi palestinesi preferiscono restare le star della diplomazia mondiale come eterne vittime di Israele, con tutti gli appoggi e aiuti che ne derivano.

E se gli arabi palestinesi non volessero affatto un loro stato? E se l'assioma sulle aspirazioni palestinesi dato per scontato da quasi tutti fosse in realtà sbagliato?
Che gli arabi palestinesi non vogliano un loro stato è un'affermazione che può sembrare troppo paradossale. Tuttavia, vale la pena provare ad approfondirla. Gli arabi palestinesi hanno ottenuto una posizione di assoluto rilievo nella diplomazia internazionale come raramente accade a popoli senza stato. Non c'è quasi risoluzione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ostile a Israele che non goda di una schiacciante maggioranza di voti. Qualunque risoluzione fortemente critica verso Israele ha ottime probabilità di essere approvata nella maggior parte degli organismi internazionali. Qualsiasi incidente, anche minimo, che veda coinvolti arabi palestinesi e Israele riceve grande rilievo sulla maggior parte dei mass-media internazionali. Gli arabi palestinesi sono comunemente rappresentanti come le vittime, nel loro lungo conflitto con Israele. I capi dell'Autorità Palestinese vengono ricevuti come graditi ospiti dalla maggior parte dei leader mondiali....

(israele.net, 12 marzo 2016)


Hamas interrompe il Grande Fratello in tv con il solito messaggio terrorista

Un messaggio di minacce di Hamas ha interrotto venerdì sera il programma tv israeliano Grande Fratello su Canale 2. Per alcuni minuti - hanno riferito i media - sul video è comparso un proclama della fazione islamica al potere a Gaza corredato da immagini, nel quali si preannunciavano "nuovi attacchi". «Imparate dalla storia - ha sostenuto il messaggio in arabo ed ebraico - Attenti alle vostre vite e andate via dal Paese». La rete satellitare francese Eutelsat smetterà di trasmettere il canale televisivo Al-Aqsa legato ad Hamas con una decisione - secondo una fonte israeliana, citata da Haaretz - venuta a seguito di una telefonata tra il premier israeliano Benyamin Netanyahu e il presidente François Hollande. Da tempo Israele aveva chiesto a Eutelsat di cessare le trasmissioni perché queste includevano «richiami all'istigazione alla violenza contro israeliani». Al-Aqsa è andata comunque lo stesso in onda con nuove frequenze attraverso - ha spiegato Haaretz - il satellite egiziano Nilesat e Arabastun posizionato in Arabia Saudita. Intanrto sale la tensione: in seguito agli attentati dei palestinesi, sabato un ragazzino di dieci anni è stato ucciso a Gaza durante un attacco ritorsivo dell'aviazione israeliana ad alcune strutture di Hamas dopo il lancio di almeno 4 razzi dalla Striscia verso Israele. Lo dicono fonti locali che citano il portavoce del ministero della sanità di Gaza. Insieme al ragazzino è stata ferita - secondo le stesse fonti - anche la sorella della stessa età. I due ragazzini, al momento dell'attacco, si trovavano nella loro casa a Beit Lahiya, a nordovest della Striscia.

 Raid israeliano in risposta ai razzi lanciati da Hamas
  L'esercito israeliano da parte sua ha confermato in un nota di aver colpito la notte scorsa «in riposta all'aggressione quattro siti di Hamas nel nord della Striscia». Poi ha ricordato che dall'inizio dell'anno sono stati sette i razzi lanciati da Gaza verso Israele. Il portavoce militare Peter Lerner - contattato dall'Ansa sulle notizie che provengono da Gaza riguardo la morte del bambino palestinese durante l'attacco - ha risposto che l'esercito non ha commentato le accuse. INsomma, è di nuovo allarme nel sud di Israele. A meno di due mesi dall'ultimo lancio di razzi, almeno quattro missili sono stati lanciati in serata dalla Striscia di Gaza e sono caduti nel sud dello Stato ebraico. A riferirlo è stato il portavoce militare precisando che i razzi sono caduti in zone aperte. Poco prima nelle comunità israeliane attorno alla Striscia erano risuonate le sirene di allarme. Secondo quanto riferiscono le stesse fonti non si segnalano vittime. Nelle stesse ore due soldati israeliani rimanevano feriti da colpi di arma da fuoco sparati nei pressi del checkpoint di Beit Oron, un insediamento ebraico in Cisgiordania, sulla strada 443 che collega Tel Aviv a Gerusalemme. L'esercito è alla ricerca degli autori dell'assalto. La tensione rimane alta anche a Gerusalemme. Venerdì mattina nei pressi della Porta di Jaffa all'ingresso della Città Vecchia un israeliano di circa 30 anni è stato accoltellato. Pochi minuti dopo la polizia ha fermato l'aggressore nei vicoli della Città Vecchia: un ragazzo palestinese di 19 anni della zona di Ramallah, in Cisgiordania. ntanto secondo un sondaggio solo l'8% degli israeliani è soddisfatto di quanto il governo di Benyamin Netanyahu sta facendo contro l'ondata di attacchi palestinesi, mentre il 77% non è convinto che l'esecutivo abbia preso misure sufficienti. La rilevazione è stata effettuata tra mercoledì e giovedì di questa settimana dalla tv della Knesset (Parlamento) su un campione di 500 persone rappresentative di un campione statistico della popolazione israeliana. Alla domanda se fosse favorevole all'espulsione delle famiglie dei terroristi, il 63% degli intervistati ha risposto di sì e il 25% no.

(Secolo d'Italia, 12 marzo 2016)


Un software libera la Polonia dalla responsabilità sul genocidio degli ebrei

Dall'Auschwitz-Birkenau Memorial and Museum un software per impedire l'uso dell'espressione «campo di concentramento polacco» per riferirsi ai campi di concentramento o internamento nei quali i nazisti terminavano gli ebrei.

di Mauro Notarianni

Nel maggio del 2012 Barack Obama commise una gaffe che rischiò di causare uno scontro diplomatico con la Polonia. Consegnando una medaglia al valore civile postuma a Jan Karski, ex ufficiale polacco che testimoniò le atrocità dei nazisti contro gli ebrei, usò l'espressione «campo di concentramento polacco» per riferirsi ai campi di concentramento o internamento nei quali i nazisti sterminavano gli ebrei. L'Auschwitz-Birkenau Memorial and Museum ha ora annunciato "Remember", un software per Mac e PC (un add-in per vari programmi) che dovrebbe consentire di eliminare l'errata dicitura in applicazioni quali Word, Safari, Keynote e Outlook.
   Si tratta di un'importante distinzione per la popolazione polacca. Usare i termini "campi di sterminio polacchi" implica responsabilità del popolo polacco per le atrocità commesse dal Terzo Reich della Germania sul suolo polacco. Il campo di concentramento di Auschwitz fu costruito durante l'occupazione tedesca della Polonia, vicino a quello che, prima della guerra, era il confine tra la Germania e la Polonia. La distinzione appare ovvia a chi visita il Museo di Concentramento di Auschwitz-Birkenau, ma a quanto pare c'è ancora chi commette l'errore linguistico di dare responsabilità polacca in quei massacri.
   Remember funziona alla stregua di un correttore ortografico: dopo l'installazione individua le parole, suggerendo la dicitura corretta. Quando individua termini quali "Polish death camps" o "Polish extermination camps" suggerisce "German extermination camps", "German death camps" o "German death camps in Poland". Supporta anche la lingua italiana. Con Word funziona come un plug-in integrandosi con il dizionario integrato nell'applicazione.

(macitynet, 12 marzo 2016)


Dustin Hoffman choc: «I miei parenti ebrei uccisi dai comunisti»

Nel corso di uno show, il premio Oscar ha scoperto il tragico passato della sua famiglia ucraina, vittima della polizia sovietica e dei gulag.

di Eleonora Barbieri

 
«Questa è una storia terribile, non è una bella cosa da raccontare ai bambini…». Sarà anche per questo che Dustin Hoffman ha dovuto aspettare fino a 78 anni, per scoprire la verità sulla storia della sua famiglia. Su quel nonno e quei bisnonni di cui suo padre Harry non gli aveva mai parlato, sui quali aveva come eretto un muro. Dietro quel muro c'era la tragedia di un popolo e di un mondo, e anche di una famiglia intera e di un ragazzo in particolare: perché il nonno Frank e il bisnonno Sam Hoffman sono stati sterminati in Russia, anzi in Unione Sovietica, nei primi anni dopo la Rivoluzione; e la bisnonna, Libba, è stata imprigionata in un gulag per cinque anni, prima di riuscire a fuggire e arrivare sull'altra sponda dell'oceano, prima in Argentina e poi, finalmente, a Ellis Island. Era il 1930, Libba Hoffman aveva già 62 anni. I referti medici dicono: affetta da «demenza senile». La donna aveva perso il braccio sinistro, era quasi cieca. Era sopravvissuta a un campo di sterminio, di quelli che servivano a punire i nemici della Rivoluzione. Perché i signori Hoffman erano ebrei. Oggi Hoffman lo dice: «Sono ebreo .. Sì, sono ebreo».
   Ha scoperto tutto grazie a una trasmissione televisiva della Pbs, Pinding Your Roots, letteralmente «Scoprendo le tue radici». Ed è stato in diretta, l'altra sera, mentre il conduttore Henry Louis Gates Jr gli raccontava che cosa avevano scoperto sulla sua bisnonna coraggiosa e indistruttibile, che l'attore si è messo a piangere: «Loro sono sopravvissuti perché io fossi qui». La bisnonna Libba era, semplicemente, «un'eroina». Una donna che a 53 anni aveva visto sparire, nel giro di pochi mesi, il figlio e il marito. Era andata così: Frank Hoffman si era già trasferito in America, a Chicago, dall'Ucraina, il suo paese d'origine. Però poi gli erano arrivate le notizie di quei pogrom, quei massacri in cui finivano gli ebrei, ed era accaduto anche a Belaya Tserkov, la sua città. Perciò Frank Hoffman, che in America aveva una vita e anche un figlio (cioè il padre di Dustin Hoffman) era tornato a casa, per salvare i suoi genitori. Tempo di rimettere il piede in patria ed era sparito. Qualche mese dopo, lo stesso destino era toccato al padre Sam. Entrambi erano stati arrestati e poi uccisi dalla Ceka, la polizia segreta dei bolscevichi. Libba non si era data per vinta. Come racconta un trafiletto in un giornale russo del 1921, Libba aveva cercato di corrompere un agente della Ceka, probabilmente per sapere qualcosa del destino del marito e del figlio: e così era finita in una campo di concentramento.
   Anche se aveva già più di cinquant'anni, Libba era riuscita a sopravvivere. Il lavoro duro, le sofferenze, le condizioni di vita estreme non l'avevano piegata, nonostante tutto. Era fuggita in Argentina. E poi era arrivata in America, a Chicago, dove era morta nel 1944, a 76 anni. Di tutto questo, di questa storia di sacrifici e dolore e separazioni che è intrecciata a una storia molto più grande e altrettanto terribile, Dustin Hoffman non sapeva niente. «Mio padre era ateo» ha raccontato l'attore. Di ebraismo non si parlava, di religione non si parlava in casa sua. Non si parlava, soprattutto, della famiglia paterna, con la quale «non c'erano rapporti» (i suoi si erano trasferiti a Los Angeles). Oggi lui prova a capire. Quelle lacrime che significano? Commozione, certo. «Orgoglio», come ha detto lui, per una donna, la sua bisnonna, che ha dato la vita e anche di più per essere libera, e non si è lasciata piegare dall'orrore, dalla dittatura, dalla perdita dei suoi amori. Anche affetto per il padre, quello che aveva eretto un muro di dimenticanza: «Forse era semplicemente che non voleva fare sapere ai bambini, alla famiglia, perché è tutto così atroce. Magari mio padre, chi lo sa, ha pianto, si è aggrappato alle gambe di suo padre, gli ha gridato: "Ti prego, papà, non andare" ... Povero papà».
   Oggi, dice Hoffman, «a chi mi chiede: chi sei?, rispondo: sono un ebreo». Certe parole vanno esibite, «portate sulla manica». Bisogna «fare un annuncio», scoprirle, come certe verità di famiglia, anche se non sono delle belle favole da raccontare ai bambini.

(il Giornale, 12 marzo 2016)


Riparte l'ospedale israelitico

La Regione firma l'accreditamento, sospeso dopo l'inchiesta. Nuova struttura di controllo.

ROMA - L'Ospedale Israelitico torna ad offrire i servizi in convenzione con il Sistema sanitario nazionale. Il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, ha firmato ieri i primi due decreti per l'accreditamento delle sedi di via Fulda e di via Veronese, riducendo da 126 a 114 i posti letto tra degenza ordinaria e day hospital.
Riparte così l'attività medico-chirurgica dell'ospedale dopo lo stop dovuto alla tempesta giudiziaria dello scorso ottobre su un presunto giro milionario di rimborsi per interventi mai eseguiti. Dopo la batosta che ha colpito i vertici dell'Israelitico, la Regione aveva sospeso l'autorizzazione sanitaria e revocato l'accreditamento. E così, la struttura che conta un milione di prestazioni ambulatoriali e 15mila operazioni chirurgiche nel 2014, è arrivata vicina al fallimento.
   Dopo lo choc iniziale, la comunità ebraica ha nominato il nuovo commissario Alfonso Celotto che ha riaperto l'attività medica privata nella sede dell'Isola Tiberina e, dopo una sentenza del Tar, in via Fulda e via Veronese. A gennaio poi, è arrivato il nuovo commissario prefettizio, Narciso Mostarda.
   «In pochi mesi abbiamo risolto il problema garantendo legalità e salvaguardia delle eccellenze del sistema sanitario» ha detto Zingaretti. «Abbiamo lavorato insieme per difendere un ospedale importante per la nostra città e salvaguardare 800 posti di lavoro» commenta il prefetto Franco Gabrielli.
   La vicenda non è chiusa. Resta l'incertezza sul futuro della sede principale dell'Isola Tiberina - non ancora accreditata con il Sistema sanitario nazionale e quindi ferma alle visite private - e sui conti economici dell'intero ospedale su cui pesano i mesi di chiusura e i crediti non ancora incassati dalla Regione Lazio. L'Israelitico, dal canto suo, assicura il commissario Mostarda, creerà «un sistema per azzerare il rischio di comportamenti criminosi» e propone «una struttura di controllo mista con personale dell'ospedale e delle Asl per garantire ogni giorno la regolarità».

(Corriere della Sera - Roma, 12 marzo 2016)


Roma - Shoah: il coraggio di Nardecchia, 'lattaio del ghetto'

Salvò bimbi ebrei dalla deportazione

di Patrizio Nissirio

 
ROMA - Gabriele Sonnino aveva 4 anni, ma si ricorda bene cosa accadde il 16 ottobre del 1943. "Il portiere di Palazzo Pediconi, Giuseppe Bernardini, ci aveva nascosti. Ci sporgemmo dal portone, e un soldato tedesco prese il braccio mia sorella Sara, e ci stava portando al centro della strada. Quando dalla latteria uscì Francesco Nardecchia. Urlò al tedesco che eravamo suoi figli, gli mostrò il crocefisso, e ci scaraventò dentro alla latteria, salvandoci la vita".
E' la storia di un grande gesto di coraggio che oggi è stata ricordata nel cortile della scuola ebraica a Portico d'Ottavia a Roma, con una una cerimonia di premiazione della signora Virginia Nardecchia, in memoria del padre Francesco, il "lattaio del ghetto". Un evento nato dall'incontro del tutto casuale tra la signora Virginia e Gabriele Sonnino, avvenuto a 70 anni di distanza da quel tragico giorno ("lei entrò nel negozio per comprare un uovo di Pasqua" nella pasticceria dove lavorava Gabriele, ricordano i due sorridendo, oggi al Ghetto), nasce l'idea di questa giornata. La signora Nardecchia è stata premiata. Il Rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni e il presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello, le hanno consegnato una pergamena quale attestato di gratitudine e riconoscimento e una medaglia d'argento coniata per l'occasione da un laboratorio orafo, sito proprio nel locale in cui si trovava la latteria. Per lei, anche un album pieno di disegni di bambini della scuola che hanno voluto ricordare il gesto di Francesco.
"Io mi ricordo poco di quel giorno, avevo 13 anni, ma non capivamo cosa stava succedendo, quando papà portò quei bambini dentro alla latteria. Ripensare a quello che fece è bellissimo. Sono emozionata, ed anche un po' stralunata oggi", dice la signora Virginia. Sonnino fa un paragone con l'attualità, e sottolinea come si debba sempre ricordare quello che è stato: "Oggi, a questi migranti che fuggono dalla guerra, qualcuno tende una mano, ci sono navi che vanno a salvarli. Per gli ebrei, all'epoca, c'era la caccia in tutta Europa. E nessuno fece niente per salvare sei milioni di persone: americani, britannici, o francesi. Ci aiutò solo qualche singola persona di buon cuore come Francesco Nardecchia o Giuseppe Bernardini, gli angeli del Ghetto, per questo bisogna ricordarli".
Per il rabbino Di Segni: "Nel buio ci sono momenti di luce. Nella storia del popolo ebraico, anche durante i momenti brutti, storie come questa hanno illuminato il percorso".
Per Dureghello: "Magari tutte le famiglie fossero come i Nardecchia. Sono orgogliosa di premiare questa famiglia, che ha permesso ad un'altra famiglia, salvando quei bambini, di continuare a esistere. C'è voluto un gran coraggio".

(ANSAmed, 11 marzo 2016)


Lega araba: Hezbollah libanese è un'organizzazione terroristica

La Lega araba ha approvato una risoluzione che dichiara le milizie sciite libanesi hezbollah "una organizzazione terroristica". A riferirlo sono i media arabi. Secondo quanto riporta il quotidiano egiziano "Al Youm7", i delegati dell'Iraq e del Libano hanno espresso riserve sulla risoluzione. L'annuncio della decisione della Lega araba è stato dato alla stampa da Wahid Mubarak, diplomatico del Bahrain , che ha letto la risoluzione dei ministri riuniti nella capitale egiziana al Cairo dove c'è la sede dell'organizzazione panaraba. Libano e Iraq hanno espresso "riserve" sulla decisione dei ministri, ha aggiunto il diplomatico. All'inizio di marzo, le monarchie del Golfo avevano preso una decisione analoga.

(affaritaliani, 11 marzo 2016)


Regno Unito - J-TV, la YouTube ebraica

di Adam Smulevich

"C'è un gran bisogno che gli ebrei inglesi riscoprano la bellezza della loro identità e delle loro tradizioni. Mi piacerebbe essere un tramite". È l'auspicio espresso da Oliver Anisfeld, 21 anni, studente universitario e ideatore di J-TV, un canale di youtube dedicato al mondo ebraico anglosassone che si propone di colmare il "gap educativo" di cui soffrirebbero oggi i suoi coetanei.
Presentato davanti a un folto pubblico in una struttura del Parlamento britannico, J-TV si divide in quattro segmenti che coprono, tra gli altri, temi d'attualità, pensiero ebraico, costume. L'aggiornamento previsto è settimanale. "La sfida è di creare un nuovo canale, con un alto posizionamento qualitativo" ha detto Anisfeld al Times of Israel.
Tra i sostenitori dell'iniziativa anche l'ex rabbino capo d'Inghilterra e del Commonwealth, rav Jonathan Sacks, che in un video messaggio sottolinea come i nuovi strumenti tecnologici finalizzati alla comunicazione costituiscano, se ben utilizzati, "un dono di Dio". Apprezzamento è arrivato anche dal responsabile etico della Bbc, Aaqil Ahmed, che ha sottolineato il bisogno di maggiore consapevolezza religiosa largamente diffuso nella società inglese. "La strada scelta da J-Tv può essere quella giusta", ha detto Ahmed.
A un paio di settimane dal lancio il canale stenta però a decollare. I dati delle singole visualizzazioni non sono infatti entusiasmanti: poche centinaia di click, in alcuni casi molto meno.
Chissà che proprio il rav, di cui sono note le straordinarie capacità comunicative e la capacità di muoversi nell'intricato mondo del web, delle new technology e dei social network, non possa venire in soccorso con qualche brillante idea.

(moked, 11 marzo 2016)


Da Gaza due razzi verso il sud di Israele

Accoltellamento a Gerusalemme. In Cisgiordania feriti due soldati.

E' di nuovo allarme nel sud di Israele. A meno di due mesi dall'ultimo lancio di razzi, almeno due missili sono stati lanciati in serata dalla Striscia di Gaza e sono caduti nel sud dello Stato ebraico. A riferirlo è stato il portavoce militare precisando che i razzi sono caduti in zone aperte. Poco prima nelle comunità israeliane attorno alla Striscia erano risuonate le sirene di allarme. Secondo quanto riferiscono le stesse fonti non si segnalano vittime. Nelle stesse ore due soldati israeliani rimanevano feriti da colpi di arma da fuoco sparati nei pressi del checkpoint di Beit Oron, un insediamento ebraico in Cisgiordania, sulla strada 443 che collega Tel Aviv a Gerusalemme. L'esercito è alla ricerca degli autori dell'assalto. La tensione rimane alta anche a Gerusalemme, dove questa mattina nei pressi della Porta di Jaffa all'ingresso della Città Vecchia un israeliano è stato accoltellato. Poco dopo la polizia ha fermato l'aggressore nei vicoli della Città Vecchia: un palestinese di 19 anni.

(ANSA, 11 marzo 2016)


Va in gita in Galilea e trova un prezioso sigillo dell'antico Egitto

Il sigillo ritrovato in Galilea
Straordinaria scoperta per caso di un turista-archeologo

di Luisa Mosello

Un'escursione davvero preziosa quella di un turista in Israele. Mentre camminava insieme al figlio nel Parco nazionale dei Corni di Hattin in alta Galilea durante una normalissima gita la sua attenzione è stata catturata da un piccolo oggetto bianco che spiccava in mezzo alle pietre nere di basalto del luogo. Armit Haklay, residente sempre in Galilea ma nella zona bassa, non era mai stato lì. Ma ha subito capito che doveva trattarsi di qualcosa di importante: aveva la forma di uno scarabeo e dei disegni incisi sulla superficie e poteva essere proprio un antico sigillo egizio. E infatti era proprio così. Non ci ha pensato neanche un minuto e subito è andato a consegnare il piccolo tesoro all'autorità locale per i beni archeologici, Israel Antiquities Authority. In cambio ha solo chiesto di sapere che cosa fosse inciso sulla superficie del sigillo.

(Il Messaggero, 11 marzo 2016)


Presentata a Trani la IV edizione di Lech Lechà

Settimana di Arte, Cultura e Letteratura Ebraica

Il 10 marzo è stata presentata a Trani, presso Palazzo Lodispoto, sede del cittadino Polo Museale, Lech Lechà - Settimana di Arte, Cultura e Letteratura Ebraica (in programma a Trani dal 14 al 19 marzo 2016), la manifestazione che da ormai quattro edizioni ha riacceso i riflettori sull'ebraismo meridionale di cui Trani è tornata ad essere la capitale. All'incontro con la stampa sono intervenuti Clara Minerva, Prefetto di Barletta Andria Trani, Anna Vita Perrone, Dirigente Servizio Cultura della Regione Puglia, Giuseppe Corrado, Presidente Provincia BAT, Amedeo Bottaro, sindaco di Trani, Grazia Di Staso, assessore alla Cultura del Comune di Trani, Pierluigi Campagnano, Vice-Presidente Comunità Ebraica di Napoli, Cosimo Yehudah Pagliara, assessore e consigliere della Comunità Ebraica di Napoli nonché co-direttore artistico della manifestazione insieme a Francesco Lotoro e Ottavio Di Grazia; il dott. Antonio Quinto in rappresentanza della Fondazione SECA e Luigi De Santis, console onorario in Puglia dello Stato di Israele.
   Dopo la proiezione di un video che ha sintetizzato spirito e finalità di una manifestazione ormai diventata di interesse nazionale, il co-direttore artistico Cosimo Yehudah Pagliara, ha spiegato il significato dell'espressione ebraica Komemiut (a testa alta) che quest'anno fa da sottotitolo alla manifestazione, quale richiamo ad una fiera affermazione della propria identità ebraica, totalmente aperta al dialogo con gli altri e volta a promuovere la reciproca conoscenza quale strumento di incontro e di integrazione, nel rispetto delle peculiarità di ciascuno. Un approccio tanto più significativo in un momento in cui l'antisemitismo torna a serpeggiare in Europa in modo preoccupante. Il messaggio arriva da una città come Trani che - ricorda Pagliara - per secoli ebbe il quartiere ebraico, la Giudecca, e non il ghetto, forma di segregazione affermatasi solo dopo i provvedimenti antisemiti del XVI secolo. Fino alla nota cacciata degli Ebrei dal Regno di Napoli del 1541 non ci sono stati ghetti in Puglia, regione in cui l'apporto ebraico è stato sempre molto attivo e presente, così come lo è stato a livello nazionale: basti pensare che ai moti risorgimentali ha contribuito il 27% degli ebrei, una percentuale altissima attestata anche da storici non ebrei. Oggi - ha concluso - gli ebrei voglio continuare ad essere partecipi ed ecco perché è importante il ruolo di Trani capitale dell'ebraismo non solo di ieri ma anche del presente e del futuro.
   Ha quindi preso la parola Clara Minerva, Prefetto di Barletta Andria Trani, che ha definito Lech Lechà "un momento di dialogo importante in una fase storica delicata in cui emergono forme preoccupanti di intolleranza e odio etnico, per cui è più che mai urgente lanciare messaggi di segno opposto. In tal senso la cultura svolge un ruolo chiave, perché riesce ad arrivare là dove non arrivano gli Stati, impegnati a garantire la sicurezza; purché però sia una cultura della pace e della tolleranza."
   L'intervento del presidente della provincia BAT, Giuseppe Corrado, ha sottolineato come Lech Lechà rappresenti "il punto di arrivo di un percorso di valorizzazione dell'integrazione, principio secondo il quale si può e si deve convivere nel rispetto delle specificità di ciascuno." "Ritengo - ha aggiunto - che iniziative come questa vadano sostenute e incoraggiate. Vorremmo infatti che dall'essere ormai una manifestazione di interesse nazionale, possa diventare un appuntamento di rilevanza internazionale".
   Il Console Onorario in Puglia Luigi De Santis ha evidenziato il legame profondo e reale fra gli ebrei italiani e lo Stato di Israele, che proprio in Puglia ha voluto il suo primo consolato onorario. Ha quindi lodato la mission di una manifestazione come Lech Lechà che "promuove la conoscenza quale motore di un'integrazione che esclude la rinuncia o lo snaturamento della propria cultura stimolando al rispetto per gli altri." Ha quindi sottolineato come "la scelta di Israele di avere in Puglia il suo primo consolato onorario non è affatto casuale ma si lega appunto al ruolo che la regione sta giocando nella rinascita dell'ebraismo meridionale". Si è quindi detto "ben felice di far sì che la nuova istituzione possa collaborare con Lech Lechà e con le varie altre realtà operanti sul territorio."
   Anna Vita Perrone, Dirigente Servizio Cultura della Regione Puglia, ha riferito come la Regione si senta "orgogliosa che Lech Lechà stia crescendo sempre più" ed ha annunciato che "nel piano strategico per la Cultura che l'ente sta approntando, la manifestazione avrà un ruolo importante, dovendosi considerare un modello per tutte le iniziative che intendono promuovere il dialogo pacifico e l'integrazione".
   Grazia Di Staso, assessore alla Cultura del Comune di Trani, ha definito la comunità ebraica cittadina come "un capitale da valorizzare, per il percorso di pace e di tolleranza che è stata in grado di promuovere." Ha quindi ricordato come fin dal Medioevo "Trani abbia svolto un ruolo fondamentale, tornando ora a dare risalto alla pregnanza culturale della sua comunità ebraica".
   Antonio Quinto, parlando a nome della Fondazione SECA, curatrice del nuovo Polo Museale di Trani e fra i partner di Lech Lechà, ha espresso l'orgoglio di questa istituzione per aver aver avuto l'occasione di ospitare la manifestazione nella riqualificata struttura di Palazzo Lodispoto, da considerarsi a disposizione della comunità ebraica e dell'intera città. Ed ha infine annunciato che il Polo Museale, che comprende anche la Sinagoga Museo S. Anna oltre al Museo Diocesano e quello della Macchina per scrivere, sarà inaugurato il prossimo 21 aprile.
   Nel riprendere la parola, Cosimo Yehudah Pagliara ha annunciato per il 2017 due importanti partnership di Lech Lechà con alcune importanti realtà come il Museo dei Lumi della comunità ebraica di Casale Monferrato (Alessandria) e la israeliana Magen David Adom (Stella rossa di Davide), la società di soccorso nazionale, competente per le emergenze sanitarie e gli interventi in caso di disastro, fornendo soccorso con le ambulanze e un servizio di banca del sangue, analoga alla Croce Rossa e alla Mezzaluna Rossa internazionale.
   Ha quindi proseguito la serie di interventi Pier Luigi Campagnano, vice-presidente della Comunità Ebraica di Napoli, che ha voluto ricordare gli esordi e l'evoluzione di Lech Lechà, passando poi la parola ad Amedeo Bottaro, sindaco di Trani, il quale ha ricordato come la restituzione nel 2005 della Sinagoga Scolanova, la più antica d'Europa, abbia rappresentato "un atto importante in cui si è espresso il grande spirito di accoglienza della città di Trani". Ha quindi sottolineato anche l'importanza turistica di una manifestazione come Lech Lechà, in grado di attrarre persone da ogni dove."Il quartiere della Giudecca, dove io stesso vivo - ha detto il primo cittadino - è quotidianamente frequentato da persone che giungono fin qui per cogliere la storia che trasuda dalle sue pietre.E questo è per noi un motivo di orgoglio, accresciuto dal fatto che l'ebraismo a Trani non è solo memoria storica ma rivive ogni giorno grazie alla sua attiva comunità ebraica".
   I co-direttori artistici Ottavio Di Grazia e Francesco Lotoro hanno quindi chiuso l'incontro illustrando a grandi linee un programma che anche quest'anno, dal 14 al 19 marzo, si annuncia ricchissimo di iniziative fra conferenze, presentazioni librarie, mostre, concerti, studio dei testi scritturali, proiezione di docu-film, cucina casher elaborata sotto stretta sorveglianza del rabbinato di Napoli, e il grande dono dello Shabbat nell'incantevole scenario della Sinagoga Scolanova di Trani. In particolare Lotoro ha voluto rimarcare il forte legame instauratosi fra lo stato di Israele e la Puglia che ha avuto il merito di riportare l'ebraismo in un luogo dei suo fasti. Ha inoltre ricordato come quest'anno si sia particolarmente consolidato il legame con le scuole, sempre più interessate a conoscere i vari aspetti dell'ebraismo e a rendendersi partecipi in modo attivo.

 Anticipazioni sul programma
  Sono sette le sezioni che compongono il cartellone di Lech Lechà Komemiut: Reshìt (Convegni su ebraismo, storia e attualità ebraica, Israele); Sefarìm (Fiera del libro ebraico, mostre e film); Yeshivà (Tefillòth e lezioni rabbiniche presso la Sinagoga Scolanova); Il canto di Abramo (Concerti, musiche e danze tradizionali ebraiche); Chi è rimasto a bottega? (Ristorazione casher sotto sorveglianza del Rabbinato di Napoli); Yom ha-Shabbat (Il Sabato, cuore pulsante della vita ebraica); Il ritorno del Mabit (La serata dell'ebraismo tranese).
   Fra gli appuntamenti principali in programma la presentazione (martedì 15 marzo) del libro "Con lo sguardo alla luna. Percorsi di pensiero ebraico" (Giuntina) di Rav Roberto della Rocca, dedicato alla riscoperta di un ebraismo vivo, capace di rimanere sempre attuale, inesauribile fonte di saggezza e insegnamento; nella stessa giornata, la conferenza "Noi non dimentichiamo. I fatti di Monaco 1972", con proiezione del film Munich di Steven Spielberg (2005) e gli interventi di Raphael Luzon scrittore e giornalista, Silvia Godelli già Assessore al Mediterraneo, Cultura, Turismo Regione Puglia, e Miriam Rebhun, scrittrice; la presentazione (mercoledì 16 marzo) del libro "Tramonto libico. Storia di un ebreo arabo. Prefazione di Roberto Saviano" (Giuntina), con intervento dell'autore Raphael Luzon, costretto nel 1967 ad abbandonare Bengasi in seguito al pogrom scatenato dalle folle arabe contro gli ebrei; l'appuntamento "Da Trani uscirà la Torà" (venerdì 18 marzo), giornata di full immersion nello studio dei pilastri scritturali dell'ebraismo (Torà e Mishnà); il concerto Il violino di Chagall dell'Orchestra Giovanile del Conservatorio di Musica U. Giordano di Foggia nella suggestiva cornice del Castello Svevo di Trani nell'ultima serata (sabato 19 marzo). I biglietti, al costo di 3 euro, potranno essere acquistati presso la Sinagoga e il Polo Museale - Info: 346.6812143-3924578848.
   Tra gli eventi, si segnala la mostra fotografica Il Cantico dei Cantici a cura di Norma Picciotto, che sarà inaugurata lunedì sera alla ore 20.00, alla presenza dell'autrice. Seguirà l'interpretazione dei versi del cantico a cura di Gianluigi Belsito, Claudia Lerro e Domenico Tacchio. La mostra rimarrà aperta fino al 19 marzo.
   Sempre presso il Polo Museale, si segnala la proiezione del docu-film Rinascere in Puglia, a cura dell'Associazione Amici di Maghen David Adom (AMDA-ITALIA), prodotto da Gady Castel e girato da Yael Katzir, che sarà proiettato lunedì 14 marzo, alle ore 9.00 e ore 11.00.
   Anche gli studenti del Liceo De Sanctis parteciperanno a questa IV edizione di Lech Lechà: venerdì 18, alle ore 10.00, nell'Aula Magna del Liceo (sito in via Tasselgardo) racconteranno, attraverso pièce teatrali, video e letture sceniche, storie tratte da libri di autori ebrei o di argomento ebraico.

(Puglialive, 11 marzo 2016)


L'uomo più vecchio del mondo? 112 anni e sopravvissuto a Auschwitz

Da qualche settimana Israel Kristal è diventato la persona vivente più anziana del pianeta. Dal 1944 al 1945 fu internato nel campo di concentramento polacco. Quando gli alleati arrivarono pesava 37 kg. «Il segreto della longevità? È tutto deciso dall'alto»

di Federica Seneghini

 
Lo sguardo sereno, la kippah in testa, le borse sotto gli occhi, e il sorriso di chi, dalla vita, ha avuto tanto. Israel Kristal è un sopravvissuto dell'Olocausto. Entrò ad Auschwitz nel 1944, aveva 41 anni. Ci restò fino alla fine. Fu salvato in punto di morte dagli alleati nel maggio del 1945. Quando arrivano, era poco più di uno scheletro. Pesava 37 kg ed era un uomo distrutto. Tutti i suoi familiari erano morti, moglie e figli compresi. Lui no. Sopravvivesse. E qualche settimana fa, a 112 anni e 178 giorni, è diventato l'uomo più vecchio del mondo.

 Il segreto della longevità
  Nato il 15 settembre 1903 a Zarnow, in Polonia, Kristal lavorò nel negozio di famiglia a Lodz fino al 1940. Dopo la fine della guerra, decise di trasferirsi con la seconda moglie a Haifa, in Israele, dove vive tuttora. «Non so quale sia il segreto per vivere a lungo», ha detto agli addetti del Guinness dei Primati, che venerdì sono andati a trovarlo per comunicargli il record. «Credo che tutto sia deciso dall'alto e non dobbiamo per forza conoscere le ragioni di tutto».

(Corriere della Sera, 11 marzo)


"Europei parassiti sulla sicurezza". Obama fa i conti con gli alleati

Obama, schiaffo agli alleati "Opportunisti e scrocconi". Il presidente Usa traccia un bilancio della sua politica estera con "Atlantic".


Siria, la linea rossa.
Sono fiero di aver avuto la capacità di tornare indietro all'ultimo momento evitando la risposta militare.
A Netanyahu. Sono nero e figlio di una mamma single. Nonostante questo sto alla Casa Bianca. Sbagli se pensi che io sia un incompetente.


di Federico Rampini

NEW YORK - Basta con i comportamenti da «parassiti e scrocconi» degli alleati europei. È stufo della «condiscendenza» di Benjamin Netanyahu. La guerra in Libia è stata «un fallimento». Sono confessioni che un presidente di solito riserva al suo primo libro di memorie, appena lasciata la Casa Bianca. Barack Obama invece vuota il sacco in anticipo. Ha ancora dieci mesi al potere ma evidentemente non vede l'ora di regolare i conti. Con nemici e alleati. Lo fa in una lunga serie di interviste al magazine The Atlantic. Ne emerge una difesa della sua politica estera, e qualche autocritica. Primo: non fare stupidaggini. Principio ispiratore della sua politica estera è la famosa frase "don't do stupid shit" (letteralmente tradotto con "str ... zate"). Lui lo usa come antidoto alla filosofia di George W. Bush, che considera ancora prevalente nell'establishment di politica estera. Attacca il «feticismo della credibilità acquisita con la forza militare». Secondo lui «gettare bombe su qualcuno per dimostrare che sei pronto a gettare bombe su qualcuno, è la peggiore ragione per usare la potenza militare». La sua gerarchia dei pericoli veri è chiara, ancorché controversa: «L'Is non è una minaccia esistenziale per gli Stati Uniti, il cambiamento climatico sì». Un presidente deve sapere che non può risolvere tutto, deve scegliere dove può avere un impatto vero. «Non è brillante l'idea che di fronte a ogni crisi dobbiamo mandare i nostri militari a imporre l' ordine».

 Europei scrocconi
  Parassiti della sicurezza. L'espressione che usa Obama per descriverli, "free rider", indica chi usa un mezzo pubblico senza pagare il biglietto. «Non sopporto quei comportamenti, perciò ho detto a Cameron che l'Inghilterra non può aspirare a una relazione speciale con noi se non spende almeno il 2% del Pii per la Difesa». Per la stessa ragione volle che francesi e inglesi prendessero il comando delle operazioni in Libia per cacciare Gheddafi: «Era parte della campagna anti-scrocconi». Ma Sarkozy se l'è giocata in campagna elettorale «strombazzando le gesta della sua aviazione, dopo che noi avevamo eliminato tutte le difese antiaeree di Gheddafi».

 Libia, "perché è finita male"
  Obama spiega perché si lasciò trascinare in quell'operazione. «C'erano proteste di massa contro Gheddafi, lui mandò l'esercito verso Bengasi promettendo di uccidere i rivoltosi come topi. Una serie di paesi europei invocarono l'intervento. Volevano che fossimo noi a farlo: scrocconi. Io posi delle condizioni: mandato Onu, niente scarponi sul terreno. coinvolgimento degli alleati europei e del Golfo». Il suo bilancio oggi è negativo: «Abbiamo evitato una guerra civile ancora peggiore ma nonostante tutto è un caos». Chiama in causa gli alleati: «Avevo più fiducia negli europei, pensavo che essendo più vicini sarebbero stati maggiormente coinvolti nel dopo-Gheddafi».

 Siria, la "linea rossa" oltrepassata
  Lo hanno criticato anche i suoi due segretari di Stato (Clinton e Kerry) più o meno implicitamente, per quello sciagurato avvertimento. Obama minacciò nel 2013 l'attacco militare se Assad avesse varcato la "linea rossa" delle armi chimiche; poi non passò agli atti. Oggi il presidente confessa che si sentiva andare «in una trappola», se fosse intervenuto. «Potevamo fare dei danni al regime Assad ma non eliminare completamente i suoi arsenali. Lui sarebbe sopravvissuto vantandosi di avere sfidato vittoriosamente l'America, denunciando la nostra azione come illegale. Sono fiero di avere avuto la capacità di tornare indietro all'ultimo, nell'interesse dell'America e nel rispetto della nostra democrazia. Ho voltato pagina rispetto ai manuali d'istruzioni di Washington, che tendono a prevedere sempre la risposta militare».

 Arabia Saudita e "'conflitti tribali
  È duro con quello che fu per decenni l'alleato privilegiato degli Stati Uniti in Medio Oriente, subito dopo Israele. «Si misura il successo di una società da come tratta le sue donne. Un paese non può funzionare nel mondo moderno se reprime metà della sua popolazione». Respinge le critiche dei sauditi sull'aver sdoganato l'Iran. «Sauditi e iraniani devono instaurare una pace fredda, imparare a condividere il vicinato. Non sta a noi usare la nostra potenza militare per i loro regolamenti di conti tribali».

 Con l'iran un obiettivo limitato
  Obama non si riconosce nelle descrizioni di chi gli attribuisce una grande disegno storico, una "pace persiana", qualcosa di simile al disgelo Usa-Cina sotto Nixon-Kissinger. Qui adotta una descrizione minimalista e pragmatica per l'accordo con Teheran: «C'era un pericolo concreto da evitare, il piano nucleare. Di quello mi sono occupato».

 Stato islamico, "Dark Night" di Batman
  Ha cambiato idea, e definizione, sui jihadisti dello Stato Islamico. Riconosce di averli sottovalutati - per difetto di informazioni dalla sua intelligence - quando li definì «la squadra giovanile di Al Qaeda". Ora passa a un'altra metafora, il Joker di Gotham City. Perché come nel film di Batman la vera forza dell'Is è stata quella di inserirsi in un'area controllata da «criminali corrotti» e appiccare l'incendio.

 Il pessimo rapporto con Netanyahu
  A conferma dell'antipatia reciproca ecco un aneddoto su un incontro col premier israeliano. Irritato dalla condiscendenza e dal senso di superiorità con cui "Bibi" lo sta trattando, Obama sbotta: «Sono nero e figlio di una mamma single. Nonostante questo sono riuscito a diventare presidente. Se pensi che sono un incompetente ti sbagli».

 L 'Ucraina e Putin
  Un'altra crisi che lui affronta con la realpolitik. Pur restando ferma la condanna dell'aggressione russa, e le sanzioni per convincere Mosca a rispettare la legalità internazionale, Obama vede una inevitabile "asimmetria". L'interesse di Putin è troppo forte in quell'area, che invece per l'America è distante e non strategica «L'Ucraina non è uno Stato membro della Nato e resta vulnerabile verso un dominio militare della Russia. Bisogna essere chiari su quali siano i nostri interessi strategici, e in quali casi noi siamo pronti a entrare in guerra».

(la Repubblica, 11 marzo 2016)


Proprio con questa intervista Obama ha confermato di essere quello che idealmente ha detto a Netanyahu di non essere: un incompetente. Più precisamente: un incapace. Incapace anche sul piano emotivo di essere all’altezza del compito che gli è stato affidato. Che abbia avvertito questa incapacità nel confronto diretto con Netanyahu è normale: il presidente israeliano lo supera di molte spanne su molti piani. E che lui abbia voluto attaccarsi all’essere nero per adombrare un atteggiamento razzistico da parte dell’ebreo Netanyahu, è infantile, prima ancora di essere maleducato e indegno di un presidente degli Stati Uniti d’America. M.C.


Usa 2016, tutti contri Trump, "neutrale" su Israele

 
Donald Trump
Tutti contro Donald Trump su Israele. Durante il dibattito repubblicano di Miami, i candidati hanno battagliato duramente sulla questione israeliana. Il miliardario newyorchese ha ribadito la sua posizione: "Tra noi sono il principale sostenitore di Israele [...], ho un cognato e due nipoti ebrei", ma, ha detto Trump, per arrivare a un accordo bisogna andare a un tavolo e apparire il più neutrali possibile. Una posizione che i rivali non hanno gradito: il senatore della Florida, Marco Rubio,il governatore dell'Ohio, John Kasich e il senatore texano, Ted Cruz, si sono infatti coalizzati contro il magnate sulla questione.
  Cruz ha rivendicato con orgoglio di non essere neutrale, definendosi assolutamente un fautore di Israele, distanziandosi da Obama, Hillary e lo stesso Trump. Ha poi puntato il dito contro l'Iran dell'ayatollah Ali Khamenei, tacciandolo di essere un pericolo per la sopravvivenza di Tel Aviv. Rubio ha criticato la possibilità di un accordo, asserendo che i palestinesi non vorrebbero negoziare ma soltanto distruggere Israele e occuparne il territorio. Sulla stessa linea si è posto Kasich, che ha usato parole dure contro i palestinesi e Hamas è ha aggiunto: "Dobbiamo aiutare Israele a armarsi e a difendersi".
  Trump, dal canto suo, ha replicato di essere un grandissimo sostenitore di Israele, ribadendo la sua volontà di arrivare a un accordo, per quanto difficile l'impresa possa rivelarsi. Ha rivendicato di essere un abile negoziatore, aggiungendo che molti ebrei sarebbero in realtà favorevoli ad una pacificazione con i palestinesi. "Se diventerò presidente, una delle mie priorità assolute sarà la protezione di Israele ma anche cercare di arrivare a un accordo", ha chiosato il magnate.

 Divisi anche sulla questione islamica
  Nel dibattito repubblicano di Miami irrompe e divide anche la questione islamica. Il moderatore di Cnn ha chiesto a Donald Trump se intendesse confermare le sue recenti dichiarazioni, secondo cui i musulmani odierebbero l'America. Il miliardario ha annuito, aggiungendo: "La maggioranza degli islamici nutre odio nei nostri confronti". Si è quindi inserito Rubio: "È importante distinguere tra un Islam moderato e uno radicale", ha detto notando come un gran numero di americani sia musulmano e serva fedelmente il proprio paese. Nello specifico, il senatore della Florida ne ha fatto anche un problema di politica estera, sostenendo come gli Stati Uniti abbiano bisogno dell'aiuto di varie nazioni islamiche (dalla Giordania all'Arabia Saudita) per abbattere il radicalismo dell'Isis. Sulla stessa linea si è collocato il governatore dell'Ohio, John Kasich, che ha invitato a dividere i terroristi dai moderati, proponendo una coalizione anti-Califfato, nonché un riavvicinamento tra l'Occidente e la Turchia.
  Trump ha ribattuto duramente, citando gli attentati terroristici dell'11 settembre 2001 di New York. Ha poi scandito: "Non sono politicamente corretto. Larghe parti del mondo musulmano ci odiano e dobbiamo fermarle prima che sia troppo tardi". Il miliardario ha inoltre aggiunto come in molte moschee in Medio Oriente si inciterebbe alla morte degli americani, ribadendo il suo sostegno alla tortura per fronteggiare il terrorismo.
  Rubio ha replicato seccamente: "Non voglio essere politicamente corretto ma dire cose corrette". Ha quindi sostenuto di voler riorganizzare l'esercito e utilizzare il campo di prigionia di Guantanamo per la detenzione dei terroristi, cosa che invece il presidente Barack Obama sta per chiudere. Il senatore ha infine affermato la necessità di potenziare le reti di intelligence. Ted Cruz, dal canto suo, si è mantenuto più defilato sul problema: ha affermato di voler fare "tutto il possibile" per distruggere l'Isis e ha attaccato poi l'amministrazione Obama per l'accordo sul nucleare con l'Iran. Ha infine rivendicato con orgoglio di essere un fautore di Israele e di sostenere musulmani come il generale e presidente dell'Egitto Abdel Fattah al Sisi, "che combatte contro i radicali".

(ItaliaOggi, 11 marzo 2016)


«Libererò il quartiere ebraico di Trani dalle auto entro la fine del mio mandato»

L'impegno del sindaco Bottaro

«Il primo a risentirne sarò io che, abitando in quel'area, sarò costretto a non poter più portare la mia auto sotto casa. Ma è giusto che sia così, e che chi decide di abitare in una zona monumentale, come il quartiere ebraico, vada anche incontro a delle piccole rinunce personali in favore della collettività».
   Così il sindaco, Amedeo Bottaro, al Polo museale gestito dalla Fondazione Seca, a margine della presentazione ufficiale di "Lech Lechà", la settimana di cultura ebraica più importante del Mezzogiono e che Trani si appresta ad ospitare per il quarto anno consecutivo.
   Le manifestazioni saranno numerose, come anche le sedi, ma l'ebraismo è un pezzo di Dna della città, con le sinagoghe (due delle quali riaperte, di cui una al culto) e quella Giudecca che, chiusa al traffico sarebbe un autentico gioiello.
   «Noi siamo già felici per quello che si è fatto in questi dodici anni - dice il responsabile culturale della comunità ebraica, Francesco Lotoro, fra i direttori artistici di Lech Lechà -, ma qualsiasi altra cosa serva a valorizzare il quartiere e la presenza ebraica a Trani sarà la benvenuta».
   E Bottaro, premettendo «un doveroso ringraziamento ai miei predecessori per quello che hanno fatto, pensa al valore aggiunto della chiusura al traffico: «Il progetto di utilizzare varchi elettronici lo stiamo portando avanti, ma non so se ce la faremo per questa primavera. Nell'attesa però, vorremmo già creare delle aree pedonali. Di certo, non posso completare il mio mandato se, prima, non avrò pedonalizzato l'intera area».

(il Giornale di Trani, 11 marzo 2016)


Gli ebrei a Milano. Le leggi razziali nei documenti conservati all'Archivio di Stato di Milano

Fino al 30 aprile la possibilità di visionare una selezione dell'ampia e varia documentazione che sarà a disposizione non solo degli studiosi ma di tutti i cittadini.

MILANO - L'Archivio di Stato di Milano ha aperto il 10 marzo le sue stanze per svelare per la prima volta una nuova pagina relativa alla persecuzione degli ebrei, ha inoltre inaugurato la mostra Gli ebrei a Milano. Le leggi razziali nei documenti conservati all'Archivio di Stato di Milano (1938-1945), che presenta una selezione di documenti tra le migliaia contenuti nell'inventario presentato.
   Alla presentazione sono intervenuti il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, il direttore dell'Archivio di Stato di Milano, Benedetto Luigi Compagnoni, il Sovrintendente archivistico per la Lombardia, Maurizio Savoja e inoltre Ezio Barbieri, docente dell'Università degli Studi di Pavia e Alba Osimo della Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell'Archivio di Stato di Milano.
   Un evento molto importante poiché per la prima volta, una documentazione così ampia e varia sarà a disposizione non solo degli studiosi ma anche dei cittadini.
   Ci sono documenti presenti nel fondo della Prefettura di Milano, relativi ai provvedimenti presi dal Ministero dell'Interno e conservati nei fascicoli delle Provvidenze Generali, nei Fascicoli personali e in quelli delle Confische dei beni ebraici, che permettono di far rivivere molte storie di ebrei residenti o che comunque vivevano la città negli anni Quaranta. Tra i documenti è allora possibile trovare e scorgere pezzi di vita quotidiana come la richiesta di deroga per mantenere personale di servizio ariano, oppure chi ha contratto matrimonio misto e chiede sia rivista la sua posizione e quella dei figli, chi chiede invece di "essere discriminato", per poter così mantenere il proprio lavoro. Si tratta perlopiù di persone appartenenti alla media e alta borghesia non ancora conscia del terribile destino che da li a poco l'attende.

(artemagazine, 11 marzo 2016)


Difendere Israele: il 2017 sarà un anno impegnativo

di Giacomo Khan

 
A volte le ricorrenze e gli anniversari anziché unire nel ricordo possono essere motivo di ulteriori lacerazioni e divisioni, con celebrazioni vissute da punti di vista differenti e con approcci profondamente lontani. Una vittoria per alcuni è la sconfitta per altri; la giustizia imposta dai vinti è l'ingiustizia subita dagli sconfitti. Come a dire che non esiste una verità oggettiva, ma molte verità in contrasto le une con le altre, e perciò soggette a interpretazioni, ad omissioni, a nascondimenti.
   E' questo ciò che si annuncia per il prossimo anno, quando con il 2017 saranno trascorsi 50 anni dalla Guerra dei sei giorni, al termine della quale Israele - sul punto di essere spazzata via da una coalizione araba potentissima (Siria, Giordania, Egitto, Iraq) con un esercito di circa 300 mila effettivi - riuscì a conquistare inaspettatamente il Sinai (restituito poi all'Egitto nel 1979), la Striscia di Gaza (da cui è uscita definitivamente nel 2005), la Cisgiordania, Gerusalemme est e le alture del Golan.
   Proprio questa vittoria, che portò ad una profonda trasformazione geografica e quindi sociologica dello Stato ebraico, segnò da quel momento un cambiamento radicale del mondo occidentale verso Israele, a cui fu attribuita - a torto - una politica espansionistica, di sfruttamento e di segregazione delle popolazioni che abitavano in quei territori conquistati.
   E' proprio a partire dal 1967 che Israele - costantemente impegnata nella difesa dei suoi confini e dei suoi cittadini sottoposti all'incessante minaccia araba e agli atti di terrorismo e di violenza che non hanno mai risparmiato la popolazione civile - si è trovata a dover combattere un'ulteriore nuova e diversa battaglia: quella della disinformazione.
   Non è un mistero rivelare che per anni Israele ha sofferto di una impreparazione a questa guerra mediatica, in parte dovuta alla necessità di gestire le poche risorse economiche verso altre priorità e altre urgenze. Così nel corso degli anni le bugie e le menzogne ripetute dai nemici di Israele hanno trasformato la sua vittoria sul campo di battaglia nella sua peggiore sconfìtta.
   Per smascherare la propaganda e la manipolazione dei media anti-israeliani, è stato persino inventato un termine 'Pallywood' (neologismo che unisce 'Palestina' e 'Hollywood'), che annovera decine di episodi di manipolazione dell'informazione ai limiti della fantascienza: i video della mai avvenuta morte di Muharnmad al-Durra; le foto manipolate della Guerra del Libano del 2006; i falsi funerali per le strade di Gaza o di Ramallah; i video fraudolenti sulle presunte violazioni commesse dall'esercito israeliano; le accuse mai provate di uso di armi non convenzionali, di avvelenamento delle acque, di stupri di massa, ecc.
   L'industria del falso e della menzogna non si è mai fermata, anzi a breve sfornerà nuovo materiale propagandistico. Nelle prossime settimane arriveranno infatti alla spicciolata nei territori palestinesi decine di scrittori di fama mondiale (hanno aderito lo scrittore peruviano Premio 'Nobel' Mario Vargas Llosa, oltre ad alcuni Premi 'Pulitzer') che raccoglieranno materiale, interviste, riflessioni che verranno poi pubblicate nel 2017 - a 50 anni dalla Guerra dei sei Giorni - in un libro che illustrerà il significato 'di vite trascorse sotto occupazione militare'. Negli stessi mesi in cui uscirà questo libro, il giornale Shalom celebrerà 50 annì di vita e di impegno nel contrastare, con una piccola ma sempre agguerrita redazione, la campagna di demonizzazione di Israele, svelando le menzogne e raccontando aspetti e realtà del Medio oriente che spesso i grandi media ignorano o volutamente tacciono. Anche in questo modo, guardiani della verità, la Comunità ebraica romana è vicina ad Israele e la difende da vecchie e nuove menzogne.

(Shalom, marzo 2016)


Ma quanto è piccola la "piccola" Ahed Tamimi?

L'industria della propaganda e della contraffazione della verità palestinese (la cosiddetta "Pallywood") si serve estensivamente e senza scrupoli di adolescenti: soggetti minorenni pienamente maturi, addestrati all'odio e al disprezzo, dalla lacrima facile e dalla capacità di persuadere facilmente l'opinione pubblica occidentale, impreparata e indifesa nel cogliere la mistificazione prodotta dai fabbricanti d'odio.
In questo settore, la famiglia Tamimi vanta una tradizione pluriennale. Grazie alla pronta disponibilità dei media occidentali, che immediatamente mandano una troupe nei territori palestinesi quando allertati circa l'imminenza di "incidenti spontanei", i Tamimi hanno costruito una vera e propria casa di produzione, particolarmente lucrosa e fonte di prestigio e notorietà. Premi e inviti internazionali non sono mancanti, nel tempo....

(Il Borghesino, 11 marzo 2016)


Parigi: giovane ebreo aggredito da nordafricani

L'antisemitismo non fa più notizia ma noi vogliamo indignarci ancora

di Roberta Vital

Sabato pomeriggio un 13 enne è stato aggredito in Rue Vaynet a Parigi mentre si recava in Sinagoga. Aggredito ed insultato per il solo fatto di indossare la Kippah, per il solo fatto di essere ebreo.
Dalle testimonianze gli aggressori sembrerebbero tre ragazzi nordafricani che alla vista della kippah si sono scagliati contro di lui. I tre aggressori sono scappati grazie all'intervento di alcuni passanti e il ragazzo è riuscito a mettersi in salvo.
Una Francia, quella di oggi, che sembra non rispecchiarsi più nei valori di Liberté Egualité, Fraternité, dove la libertà e le giovani vite vengono ancora spezzate in nome dell'intolleranza e del fanatismo. L'Osservatorio dell' antisemitismo francese condanna con fermezza tali intimidazioni ed aggressioni. Ad essere discriminati devono essere coloro che negano la libertà ad altri, coloro che cercano di spaventare e cercano di reprimere l'identità altrui. "Non bisogna arrendersi alla paura", commenta l'Osservatorio dell'antisemitismo francese, "gli ebrei devono sentirsi liberi di indossare la Kippah e la libertà deve essere protetta, non dovrebbe subire minacce o intimidazioni".
Nei silenzio generale, noi continuiamo ad indignarci e a denunciare questo episodio così come qualsiasi tentativo di reprimere la libertà altrui, perché i valori sono universali e devono valere per tutti. Je suis...?

(Progetto Dreyfus, 10 marzo 2016)


Netanyahu avrebbe rinunciato all'incontro con Obama per contrasti nel settore della difesa

GERUSALEMME) - Il premier israeliano Benjamin Netanyahu avrebbe respinto l'invito del presidente statunitensi Barack Obama a recarsi a Washington per via di alcuni contrasti in tema di difesa: lo ha detto il viceministro degli Esteri, Tzipi Hotovely, precisando che i contrasti sono inerenti al sostegno statunitense alla difesa israeliana. Attualmente un accordo in scadenza nel 2018 garantisce ad Israele sovvenzioni militari statunitensi per circa 3 miliardi di dollari all'anno; lo scorso anno le autorità israeliane hanno chiesto di poter aumentare questa dotazione a 5 miliardi l'anno. La richiesta nasce da un'analisi degli esperti secondo cui Israele ha bisogno di 4 o 4,5 miliardi di dollari per ingrandire il proprio esercito, per gli aggiornamenti tecnologici e per far fronte alle minacce dell'Iran e degli stati arabi. Nel corso dei colloqui preliminari le autorità statunitensi sarebbero arrivate ad alzare lo stanziamento fino a 3,7 miliardi di dollari. A quel punto Netanyahu avrebbe deciso di attendere l'elezione del successore di Obama per negoziare il nuovo accordo.

(Agenzia Nova, 10 marzo 2016)


Giornata dei Giusti a Neve Shalom-Wahat el Salam

Fervono i preparativi per una celebrazione ad aprile

I ragazzi di Neve Shalom/Wahat el Salam Education for Solidarity
In Israele c'è una piccola comunità, Neve Shalom/Wahat el Salam (Oasi di pace in ebraico e arabo), che ha dato vita a un Giardino dei Giusti e alla branca israelo-palestinese di Gariwo, la foresta dei Giusti.
Le anime di questo progetto sono il professore israeliano Yair Auron, specialista dei genocidi, e la direttrice del locale Museo Dyana Shaloufi-Rizek, palestinese cristiana.
Dyana ci parlato a lungo del suo progetto di contribuire alla creazione di un'ideale Foresta mondiale dei Giusti, che il 15 gennaio di quest'anno ha dato il via a una serie di attività che culmineranno ad aprile 2016 con una celebrazione della Giornata europea dei Giusti a Neve Shalom.
"L'assunto centrale - spiega Dyana - è di instillare l'idea della responsabilità di ciascun individuo, specialmente in epoche di conflitti e di rischio". Saranno commemorati in particolare "gli individui giusti e coraggiosi che, in tutto il mondo, hanno resistito moralmente a crimini, "olocausti",genocidi, pulizia etnica e gravi persecuzioni".
Gli anni passati, a Neve Shalom, erano state dedicate alcune sculture non solo a Gariwo, che sostiene il loro progetto, ma anche ai "palestinesi che hanno soccorso ebrei nel conflitto israelo-palestinese, e agli ebrei che nella stessa guerra hanno soccorso palestinesi".
Gabriele Nissim, Presidente di Gariwo, aveva partecipato alle celebrazioni. In seguito Dyana ci aveva raccontato del fatto che la comunità di Neve Shalom/Wahat el Salam è formata da famiglie che hanno beneficiato di questi atti di coraggio e di soccorso nel corso degli ultimi cento anni, durante rivolte e altri episodi cruenti della storia israelo-palestinese.
"Lo scopo" è però di creare un sito non solo sensibile a questa realtà locale, ma "con una sensibilità universale", ha raccontato Shaloufi-Rizek. Per questo serve una riflessione che ponga l'accento sui Giusti e non sulle figure di quelli che ognuno dei popoli ritiene essere i suoi "aggressori".
Ad aprile 2016 saranno quindi onorati, oltre ad autori di salvataggi "interetnici" nel conflitto israelo-palestinese, anche armeni che hanno salvato vite ebraiche e turchi che hanno salvato vite armene, con un particolare focus su figure rimaste nascoste e sconosciute ai più.

(Gariwo, 10 marzo 2016)


Quelle carte sconosciute su ebrei e leggi razziali

L'Archivio di Stato rivela documenti d'epoca.

di Anna Mangiarotti


Scaduta la clausola di riservatezza emerge uno spaccato del periodo fascista Le domande della madre di don Lorenzo Milani furono analizzate e cassate Annunciata un'esposizione di preziosi reperti dal grande valore storico Il materiale rimbalzava da un ufficio all'altro senza alcuna chiarezza


MILANO - Scade l'obbligo della riservatezza per i documenti riguardanti gli Ebrei milanesi nel periodo delle leggi razziali fasciste. E si può dare pubblicità ai fascicoli conservati dagli anni Ottanta nell'Archivio di Stato, con i pareri formulati da Carabinieri, Questura e Prefettura, e inviati al Ministero dell'Interno affinché fosse accolta o no l'istanza di «discriminazione» di un individuo di razza ebraica. Bizzarro paradosso giuridico: essere «discriminato» significava sottrarsi al rigore della legislazione antisemita che vietava, tra l'altro, di lavorare per banche e assicurazioni, e contrarre matrimonio con italiani.
  Considerati da Alba Osimo, docente di archivistica e paleografia, con dedizione più che professionale, circa seimila casi. Ne segnala alcuni. Per l'ebrea Alice Weiss - nata a Trieste nel 1895, residente a Milano, coniugata con l'ariano e cattolico dottore in chimica Albano Milani Comparetti - i Carabinieri sono disposti ad applicare il principio delle pari opportunità: il tenente colonnello Raffaele Galleani giudica i meriti umanitari della volontaria nella Croce Rossa Italiana durante la Grande Guerra equivalenti ai meriti militari che la donna evidentemente non può possedere, e per i quali può essere concessa la discriminazione. Invece, il prefetto Marzano esprime parere contrario. Eppure sua moglie gli aveva mostrato una lettera speditale a tale scopo da Firenze, alla vigilia del Natale del '38, dalla contessa Beatrice Pandolfini Corsini: «Sono faccende che devono avere il loro corso e non c'è raccomandazione che tenga, ma i genitori di Albano Milani e suoceri della signora Alice erano persone degne di fede e dell'amicizia che la Firenze colta portava loro... e la brava gente è tale in tutte le razze!».
  Suocero della Weiss, «il prof. Milani, celebre archeologo». Più noto al pubblico sarà, dei tre figli della signora, elencati nel dossier «tutti di buona condotta» come la madre, quello nato il 26-5-1923: Lorenzo, proprio il futuro don Milani che nel 1967 indirizzerà dalla scuola di Barbiana la «Lettera a una professoressa».
  Come si concludano gli iter burocratici per lo più non è dato sapere. Ma anche ulteriori interrogativi permangono: perché Edgard Ancona è discriminato grazie ai meriti del nonno volontario garibaldino e non lo è Guido Coen Sacerdoti che ugualmente li può vantare? Chiaro, il riconoscimento delle «benemerenze eccezionali» dell'ingegner Giuseppe De Benedetti, con la raccomandazione del senatore Agnelli. E neppure sorprende che uomini e donne in circostanze precarie continuino a chiedere il privilegio di non essere considerati ebrei. L'avevano accordata i duchi d'Este nel 1458 alla famiglia di Aldo Raffaele Norsa: nel '39 è discriminato, rientrando dall'Egitto per arruolarsi, ma nel '41 risulta comunque appartenente alla razza ebraica. «Non appartenente», si ostina Pietro Pangrazi a supplicare per il proprio figlio Franco. Quale sorte attende il «bambino in oggetto»? Di sicuro, sono pochi coloro che gli accertamenti indicano emigrati a New York o in Palestina. Tutti attaccati all'Italia. Non capiscono cosa sta accadendo? Casomai, «la più ottusa incomprensione di fronte agli eventi politici et storici in corso» è riferita alla congenita avversione per ogni sentimento nazionale dei non pochi ebrei che il ministro dell'Interno Buffarini, in un telegramma del '41, propone di inviare ai campi di concentramento.
  Sterminato campo d'indagine. O, semplicemente: «Siamo di fronte alla banalità del male», dichiara il neo direttore dell'Archivio di Stato di Milano, Benedetto Luigi Compagnoni, citando Hannah Arendt, e annunciando la mostra «Gli ebrei a Milano. Le leggi razziali nei documenti conservati all'Archivio di Stato di Milano (1938-1945)». Galleria di nomi noti anche attraverso racconti cinematografici, come Finzi Contini, o inedite informazioni su agenti segreti e «la vera eminenza grigia del giudaismo massonico«.
Comunque, memorie da ritrovare. Di una delle cicliche epoche di confusione e disperdimento che possono produrre, direbbe Manzoni, fatti assurdissimi e atrocissimi.

(Il Giorno, 10 marzo 2016)


L'Iran minaccia Israele con i missili pagati da Obama

Sull'ogiva la scritta «Bisogna distruggere i sionisti».

di Carlo Panella

 
Sull'ogiva dei nostri missili balistici lanciati oggi era scritta la frase in lingua ebraica: «Bisogna distruggere Israele»: Hajizadeh Amir, il comandante dei Pasdaran iraniani, ha dato ieri una sonora lezione di politica intemazionale - e un doloroso calcio - a Barack Obama. Questo è l'Iran "riformista" che il presidente americano ha premiato con l'accordo sul nucleare, straordinario attestato di fiducia nelle sue politiche di stabilizzazione e non aggressione. Le mire dell'Iran degli ayatollah, invece, sono sempre quelle definite e sviluppate da Ahmed Ahamadinejad, come il comandante dei Pasdaran ha precisato: «La ragione per cui abbiamo progettato i nostri missili con un raggio di 2.000 chilometri è che siano in grado di colpire il nostro nemico, il regime sionista di Israele, da una distanza di sicurezza». Ma c'è una cosa che Hajizadeh Amir, non ha detto: i missili a medio raggio con sistema di puntamento di precisione e i missili balistici Qadr-H e il Qadr-F e i missili Shahab 1 e 2 a lungo raggio, possono colpire non solo Israele, ma anche l'Arabia Saudita e gli emirati del Golfo. E l'Iran non ha mai nascosto di ritenere un fatto oltraggioso che le Città Sante della Mecca e delle Medina siano sotto la Custodia della dinastia wahabita e anti sciita degli al Saud. Così come possono colpire quella Turchia che sulla rovente crisi siriana è su posizioni antagoniste rispetto all'appoggio determinante fornito dai Pasdaran al regime di Assad.
   Questi missili sono dunque anche un guanto di sfida contro quel "fronte sunnita arabo-turco" che si è dovuto formare negli ultimi mesi nel tentativo di arginare gli effetti disastrosi della concessione di fiducia da parte di Obama ad un Iran che viene considerato dalla sua Amministrazione un «fattore di stabilità».
   Questi missili, inoltre costituiscono un'implicita smentita alla volontà dell'Iran di non proseguire il cammino per dotarsi di una bomba atomica. Infatti i costosissimi missili a lungo raggio Shahab 1 e 2 hanno senso bellico solo se armati di ogiva atomica. Il palese imbarazzo Usa a fronte di questa provocazione è lampante nelle parole del vice presidente Usa Joe Biden, colto dalla notizia proprio durante un suo viaggio in Israele: «Se questa notizia venisse confermata, gli Usa prenderanno delle iniziative». Obama però non può mettere in crisi il processo di appeasement con gli ayatollah, baricentro della sua politica mediorientale - nel pieno di una tesissima battaglia per le presidenziali. È una scommessa su cui ha puntato tutte le carte nell'illusione che questo Iran, questi Pasdaran, questo Khamenei possa essere un fattore di stabilizzazione del Medioriente. E ora ha la conferma che per Teheran questa "stabilizzazione" passa per la "distruzione di Israele". Questo è il "riformismo iraniano".

(Libero, 10 marzo 2016)


La Francia ricuce con gli israeliani

Il ministro degli Esteri francese, lean-Marc Ayrault, ha preso le distanze dal predecessore, Laurent Fabius, annunciando che Parigi non riconoscerà «automaticamente» uno Stato palestinese se i colloqui tra israeliani e palestinesi dovessero fallire. La Francia si è candidata a ospitare una conferenza internazionale volta a sbloccare l'impasse e far ripartire il processo di pace. L'iniziativa era stata annunciata a gennaio da Fabius, che aveva suscitato le ire di Israele sostenendo che Parigi avrebbe «riconosciuto uno Stato palestinese» se i colloqui fossero falliti.

(Libero, 10 marzo 2016)


Fatti inaccettabili che non vengono condannati

"Permettetemi di dire senza mezzi termini che gli Stati Uniti condannano questi atti e condannano il fatto che questi atti non vengano condannati". Lo ha detto mercoledì il vice presidente Usa Joe Biden, parlando a Gerusalemme all'indomani di una serie di attentati palestinesi che hanno provocato, fra l'altro, la morte a Giaffa di uno studente americano, Taylor Force, di 29 anni, senza suscitare alcuna riprovazione da parte dell'Autorità Palestinese. "Questo genere di violenza - ha aggiunto Biden - non può essere tollerato e non può essere considerato dai leader del mondo civile come un modo accettabile di comportarsi. E' intollerabile che nel XXI secolo si prendano di mira civili innocenti, madri, donne in gravidanza. Non ci può essere alcuna giustificazione per questa violenza. Gli Stati Uniti sostengono con fermezza il diritto di Israele a difendersi". Il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), incontrando Biden a Ramallah, ha offerto le condoglianze per la morte del cittadino statunitense ucciso da un terrorista palestinese a Giaffa, ma non ha condannato l'attentato. Ricorrendo alla consueta formula ambigua della condanna del terrorismo "in tutte le sue forme", Abu Mazen ha anzi accusato Israele d'aver "ucciso 200 palestinesi negli ultimi cinque mesi", senza specificare che si trattava di terroristi colti nell'atto di compiere attentati. Amin Maqboul, alto funzionario di Fatah, ha detto che Biden avrebbe dovuto ingiungere a Israele di cessare quella che ha definito "la politica di esecuzioni extragiudiziali" contro i palestinesi e le "aggressioni quotidiane" alla moschea al-Aqsa di Gerusalemme.

(israele.net, 10 marzo 2016)


Che cosa vuole davvero il Califfato? Conquistare il potere sulle anime

Vuoto strategico. Manca un progetto politico per restaurare l'ordine nelle regioni sconvolte dalla guerra.

di Aldo Cazzullo

«Al-Baghdadi non si cura troppo di fedelissimi eliminati e di villaggi perduti, ciò che conta per lui è restare protagonista di una guerra permanente. Riuscire a portarla in Europa, in Russia o negli Stati Uniti significa dimostrare ai propri seguaci di essere il vero Califfo: inarrestabile e feroce».
   Maurizio Molinari parte da queste premesse per spiegare perché non solo non stiamo vincendo, ma non riusciamo a combattere davvero e forse neppure a pensare la guerra contro l'Isis. Il suo ultimo libro Jihad. Guerra all'Occidente (Rizzoli) dà una visione d'insieme che parte dal Medio Oriente, cuore del conflitto, e man mano si allarga al teatro complessivo dello scontro, le potenze regionali del Golfo, l'Europa, l'Asia centrale, la mezzaluna islamica da Timor Est al Marocco, e infine il grande nemico, incubo e sogno di ogni estremista islamico: l'America, dove forse soltanto un nuovo grande attentato potrebbe volgere la partita delle presidenziali del novembre 2016 a favore di Donald Trump contro la vincitrice annunciata — ma debole — Hillary Clinton.
   Quella che stiamo fronteggiando, e che Molinari racconta nel suo saggio, non è una guerra tradizionale; è un'epoca. È anche l'epoca della proliferazione nucleare, delle bombe «sporche». E gli integralisti islamici hanno già dimostrato di essere disposti a sacrificare la vita, pur di spegnerne molte altre insieme con la loro. Si aprono scenari di fronte a cui è inutile tapparsi occhi e orecchie; bisogna invece studiare, prepararsi, informarsi. Perché la storia ci riguarda. Come scrive Molinari, il primo e più facile obiettivo dell'Isis è l'Europa: i Balcani «terre musulmane» nel linguaggio del Califfo, l'Andalusia «da liberare» perché apparteneva al Saladino, Roma «capitale della cristianità» e la Francia «delle prostitute e delle oscenità», colpita non a caso il 13 novembre 2015.
   La scena si apre sul territorio dello Stato Islamico, dalla periferia di Aleppo, martellata per settimane dall'aviazione russa, a quella di Ramadi. Si estende al Kurdistan, nella versione irachena con capitale Erbil e in quella siriana nell'enclave del Rojava; alla striscia di Gaza in mano ad Hamas, con Hezbollah padrone del Libano meridionale e della valle della Bekaa, a chiudere Israele — l'unica democrazia della regione — in una morsa estremista sciita; e poi la mappa delle milizie e dei gruppi etnici quasi sconosciuti nell'Occidente che minacciano, Fajr Libia in Tripolitania, la tribù degli houthi nel Nord dello Yemen, mentre a Sud Mukallah è in mano ad al-Qaida, «senza contare le aree di territorio controllate da Isis nel Sinai, dagli al-Shabab in Somalia, da tuareg e tebu nel Fezzan e da Boko Haram in Nigeria, sulle rive del lago Ciad».
   È il nuovo «grande gioco» della diplomazia e della politica contemporanee, che l'autore conosce bene sia per gli anni trascorsi come corrispondente da Bruxelles e da Washington, sia per l'esperienza sul campo in Medio Oriente. La differenza rispetto all'Ottocento e al Novecento è che oggi non c'è un impero anglosassone — prima quello inglese, poi quello americano — capace di tenere sotto controllo il Great Game. E così le potenze regionali — Egitto, Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran — perseguono ognuna il proprio obiettivo, incapaci di elaborare una strategia comune per fermare la guerra civile islamica, in cui gli estremisti tentano di trascinare l'Occidente, colpendolo per ragioni insieme di strategia e di propaganda. Il Califfo e quelli che ragionano come lui vogliono il potere sulle anime del loro campo; e per prenderlo non esitano a spargere sangue innocente (ma non ai loro occhi) nelle città europee.
   Molinari traccia anche i ritratti dei protagonisti, spesso poco conosciuti. Al-Baghdadi e la sua strategia dei bayat, il giuramento di fedeltà tribale imposto a miriadi di fazioni in angoli della terra che non abbiamo mai sentito nominare, Africa compresa. Il generale iraniano Qassem Soleimani, braccio armato del leader supremo Ali Khamenei, convinto assertore della necessità di «annichilire», «dissolvere» e «rimuovere» Israele. Salman, il re guerriero dell'Arabia Saudita, e il suo uomo Bin Nayef, il «controrivoluzionario» sunnita, che ha eradicato al-Qaida dalla sua terra d'origine. Ahmed El-Tayyeb, il grande imam della moschea di al-Azhar. L'emiro del Qatar Tamim al-Thani, «la sfinge del Golfo», che consente i finanziamenti privati per Isis e invia gli aerei per combatterlo. L'emiro dell'Oman Qaboos bin Said al-Said, il negoziatore segreto… Alla fine della lettura avvincente del libro, se ne esce con una convinzione: di questa guerra forse non vedremo la fine; l'Isis non si ferma soltanto con le bombe occidentali, un intervento armato della comunità internazionale, meglio se con truppe arabe, non è rinviabile; se anche si riuscirà a uccidere al-Baghdadi come si è fatto con Bin Laden, non è affatto escluso che nasca un mostro ancora peggiore, così come oggi lo Stato Islamico è più potente di al-Qaida. Ci possono salvare solo la cultura, la democrazia, la consapevolezza, la coesione: i valori di cui Molinari parlava nel suo libro del 2013 L'aquila e la farfalla. Perché il XXI secolo sarà ancora americano. Valori che non dobbiamo considerare acquisiti per sempre, e vanno difesi a maggior ragione nella difficile epoca che abbiamo davanti.

(Corriere della Sera, 10 marzo 2016)


«Mi dispiace constatare che la vostra posizione è rimasta invariata»

L'autore della lettera che avevamo commentato l'8 marzo nell'articolo "Ma allora... voi ci volete convertire" si è fatto vivo con noi ed ha acconsentito a che sia tolto l'anonimato dal suo scritto. Come gli abbiamo promesso, riportiamo le sue parole senza aggiungere altri commenti, ringraziandolo per la pacata franchezza con cui è potuto avvenire questo scambio. M.C.

Buonasera leggo saltuariamente sempre le notizie su Israele ed ecco qua mi trovo la sorpresa di veder pubblicata in un vostro articolo una mia risposta relativa ad alcuni anni fa.
Mi dispiace constatare che quindi la vostra posizione e' rimasta invariata o meglio specificate che comunque il vostro auspicio e' che gli ebrei si convertano al cristianesimo. Anche se non condivido appieno la chiusura delle comunità ebraiche italiane penso che nel mondo di oggi in occidente debbano esistere il rispetto e la stima in ogni confessione ma nel rispetto delle singole differenze.
Ritengo e ve lo dico con la massima educazione che il vostro auspicio sia una cosa non propriamente corretta... non tanto per me che continuo a essere laico ma per la profonda differenza che c'e' tra chi segue scrupolosamente la religione cristiana evangelista e l'ortodossia ebraica. Il Kippur sarà sempre il nostro giorno più sacro. Sono cresciuto con mio padre che mi ha sempre detto un uovo con il puntino rosso non e' kosher in quando e' fecondato... Per me questi sono i piccoli segni del mio ebraismo e altre centinaia che non vi appartengono e non vi apparterranno a meno che non facciate richiesta esplicita di abbracciare l'ebraismo. Come vi sentireste se ad esempio i cattolici vi dimostrassero amicizia e amore ma nel loro intento vi e' il desiderio di farvi raffigurare immagini sacre all'interno dei vostri luoghi di culto? Io penso che il cristianesimo e l'ebraismo hanno gia fatto dei passi in avanti nel rapporto di amicizia... ma il tutto deve essere fatto nel rispetto delle differenze... Piuttosto gli ebrei sono pochi nel mondo appena lo 0,2 % della popolazione mondiale. Oggi il mondo attuale ci pone di fronte a nuove sfide con un estremismo islamico dilagante e con una crescita continua dell'islam in Europa. Una cosa da ebreo vi dico potreste impegnare tutte le vostre forze per il dialogo e l'evangelizzazione degli immigrati. Questa puo' essere la salvezza del mondo ma per favore a noi ebrei interessa l'amicizia, la fratellanza, la non violenza ma con le nostre differenze che vogliamo mantenere. Insistere su questo punto ci allontanerebbe soltanto.
Buona serata,
Fabio Sermoneta

(Notizie su Israele, 9 marzo 2016)


Mangiare al Ghetto di Roma e altri consigli kasher di Laura Ravaioli

Gli indirizzi dove mangiare al Ghetto di Roma, dal ristorante di cucina giudaico-romanesca a quello mediorientale. E qualche spiegazione in più su cosa significa kasher, secondo la chef Laura Ravaioli, volto del Gambero Rosso.

di Alessandra Tibollo

Laura Ravaioli
"Nella città simbolo del cattolicesimo batte un cuore ebraico", comincia con queste parole l'ultimo programma di Laura Ravaioli sul Gambero Rosso, dal titolo "Kasher". Neanche a dirlo, è dedicato alla cucina giudaico-romanesca e si dipana come un viaggio fra i luoghi della comunità ebraica più estesa d'Italia, passando attraverso i suoi piatti, frutto di un lontano melting pot di culture diverse. Una globalizzazione ante-litteram che si è sviluppata in cucina, per via delle tante migrazioni degli ebrei, fra le deportazioni subite e la costante ricerca della terra promessa.
L'abbiamo incontrata per saperne di più sulle regole della kasherut, per scoprire qualche indirizzo "giusto" nella capitale, e per la sua ricetta di Carciofo alla Giudia, passo a passo.

- Dove bisogna andare per capire qualcosa di più della comunità ebraica a Roma?
  Naturalmente in quello che a Roma è conosciuto come Ghetto, anche se in realtà non si può più definire tale dalla Breccia di Porta Pia, nel 1870, quando Roma venne annessa al Regno d'Italia e cadde il potere temporale del Papa. È lì, vicino al Portico d'Ottavia che ci sono i simboli della comunità, come il Tempio Maggiore, il Museo ebraico che consiglio di visitare, la scuola che affaccia su quella che gli ebrei romani chiamano "La Piazza". E poi tutt'intorno ci sono le piazzette nascoste ma deliziose, come quella della fontana della Tartarughe, Piazza Costaguti, Piazza Mattei. Ci tengo a specificare che sono posti sicuri, anche di questi tempi, perché oltre ad essere area pedonale, c'è un doppio controllo, sia delle forze dell'ordine che della comunità stessa. Per girare il programma ci sono stata per due mesi giorno e notte e posso confermarlo.

- E poi ovviamente si mangia.
  Certamente, anzi lo si fa sempre di più a tutte le ore, grazie al fatto che è diventata una zona turistica. L'ex Ghetto è il quartiere dove si può trovare la vera cucina kasher in città, a meno che non si abbia la fortuna di essere invitati a casa dai membri della comunità per un vero pranzo kasher.

- A proposito, una volta per tutte, kosher o kasher?
  Il significato è lo stesso e comporta l'adesione alle regole della Kasherut. "Kosher" è il termine più comune, quello utilizzato in tutto il mondo, la cui radice proviene dall'Est Europa. "Kasher" è la versione italiana.

- Il piatto simbolo della cucina giudaico-romanesca?
  Agli occhi del mondo è il carciofo alla giudia, che fra l'altro essendo verdura può essere servito sia nei ristoranti di carne che in quelli di latte. Ma se si chiede a un ebreo romano probabilmente risponderà lo stracotto, o la concia, oppure il tortino di indivia e alici.

- Che vuol dire che ci sono ristoranti di carne e ristoranti di latte?
  Tra le numerose regole della kasherut c'è il rigidissimo divieto di consumare insieme carne e latte e questo vuol dire che non ci deve essere contaminazione di nessun genere in cucina. Sarebbe difficile per un ristorante gestire le due cose contemporaneamente e i locali del centro storico sono tutti piccolissimi, ricavati nei locali dei vecchi negozi. Un tempo erano le mercerie dove si compravano i "pedalini", come si dice a Roma, cioè i calzini. Oggi, complice il fenomeno cucina, sono stati quasi tutti riconvertiti.

- È un fiorire di nuovi locali nell'ex Ghetto, quindi?
  Esatto, ma attenzione, non sono tutti kasher. Per esserlo devono possedere la Teudà, ovvero la certificazione di adesione alla Kasherut e sono sottoposti alla supervisione del mashgiach, che effettua sia di controllo delle materie prime che di tutte le procedure. Solo in quelli si cucina effettivamente kasher.

- Il posto in cui mangiare qualcosa di tipico?
  Ristoranti ce ne sono molti e non mi sento di consigliare l'uno o l'altro, perché sono tutti buoni. Quello che sicuramente non faccio fatica a nominare è il forno Boccione, una vera e propria istituzione. È il forno del Ghetto da più di trecento anni ed è gestito da sole donne, tutte della stessa famiglia. È famoso in tutta Roma per la sua crostata di ricotta e visciole e poi perché vende da sempre i bruscolini caldi, appena tostati, oltre ai pistacchi. Ma io consiglio di assaggiare la pizza di Berid.

- Il consumo dei prodotti kasher sta crescendo, come mai?
  Il marchio "K", quello che distingue il kosher food, è una vera e propria certificazione di qualità. Solo per fare degli esempi: conservanti e additivi sono pressoché vietati, gli animali macellati sono venduti solo se assolutamente in perfetta salute. Se viene trovata anche solo una cisti la carne non può essere venduta come kosher. L'assenza totale di maiale rende sicuri gli alimenti, che potrebbero contenerne tracce, anche per i musulmani e i vegetariani. Idem per gli intolleranti al lattosio, che se acquistano ad esempio una margarina kosher sono sicuri che c'è non traccia di latte. Ecco perché i consumi del kosher food nel mondo sono in aumento, interessano fasce diverse di popolazione oltre gli ebrei stessi.

- E il vino?
  È un capitolo importante e delicato da trattare. Negli ultimi anni sono sempre più di qualità e anche molti produttori fuori da Israele hanno cominciato a produrre vini kosher. Questo implica che l'uva, dalla vigna alla bottiglia, viene costantemente seguita da una squadra di "controllori", qualificatissimi ed ebrei osservanti. Ma l'argomento vino è vasto e sottoposto a tante di quelle regole che preferisco sempre far parlare gli esperti del settore.

- A chi dovesse programmare un viaggio per visitare Roma e il Ghetto in particolare, quando consiglierebbe di andare?
  A me piace molto in inverno quando si celebra la festa di Hannukkah, che cade pressappoco nel periodo di Natale, è la festa delle luci e ricorda a tutti gli ebrei che un grande miracolo è avvenuto: l'olio che doveva bastare per un solo giorno illuminò il Tempio per 8 giorni. Per l'occasione si accende il grande candelabro a nove bracci che è davanti al Tempio Maggiore e anche nelle case dietro i vetri delle finestre si scorgono i candelabri accesi. È un momento molto intenso ed emozionante. Tutto questo in cucina si traduce in 8 giorni di festa del fritto. Che dire di più?

Dove mangiare al Ghetto secondo La Cucina Italiana

(La Cucina Italiana, 7 marzo 2016)


Gli israeliani si riversano sui prati per la fioritura del "deserto rosso"

È la stagione degli anemoni selvatici che ricoprono la terra arida Ogni campo e collina si riempie di famiglie in gita, pic-nic e barbecue.

di Lea Luzzati

 
GERUSALEMME - Chissà se la scena piacerebbe a Meir Shalev, il più bucolico (ma anche ironico) fra gli scrittori israeliani contemporanei. In quasi tutti i suoi romanzi la fanno da protagonisti le passioni umane e la natura con le sue tinte, la sua dolcezza e le asperità di cui la terra d'Israele è piuttosto generosa. In questa stagione dell'anno, peraltro, l'asperità maggiore sta nel raggiungerla, la natura. Almeno il sabato, giorno festivo. Dal Sud al Nord del Paese questo è il periodo delle fioriture selvatiche: un momento magico in cui il verde la fa da padrone - ed è uno spettacolo già di per sé, soprattutto per chi sa che presto questo colore lascerà spazio al giallo e all'ocra della lunga e arida estate. E poi ci sono, ovviamente, i fiori: il pezzo forte dell'evento. L'Alto Negev, ad esempio, diventa una costellazione di anemoni spontanei, tanto da farne occasione di un festival nazionale - Darom Adom, «Sud Rosso» (non nel senso della politica).
   Quando è stagione di Darom Adom, cioè dalla seconda metà di febbraio sino a fine marzo, il sabato capita di stare in coda per buone ore, in attesa di raggiungere i prati. Ma gli israeliani, di solito molto poco tolleranti alla guida, consumatori compulsivi di clacson, quando il sabato si tratta di scendere al Sud per gli anemoni rossi diventano infinitamente pazienti. E lo spettacolo diventano loro: famiglie più o meno numerose, preadolescenti che sbuffano perché in astinenza da videogioco, stuoli di bambini eccitati dall'ignoto più che dal festival floreale. Stanno in coda finché non arrivano al parcheggio opportunamente segnalato e di lì si riversano a valanga sui poveri prati. A fare il picnic, giocare al pallone, tentare un barbecue improvvisato.
   È vero che quei timidi fiori sono davvero strabilianti, in questa stagione. Riempiono gli occhi e il cuore. Sotto una collina di anemoni da queste parti, fra dei vecchi sicomori, è sepolto Ariel Sharon accanto a sua moglie. Nella sua fattoria del Neghev ha trascorso gli ultimi, esausti anni di incoscienza.
   Ma gli israeliani che calano da queste parti in massa nella stagione del Deserto Rosso non pensano ai morti, c'è da scommetterei. Vengono qui per rilassarsi, magari seduti per terra proprio sul ciglio della strada, come chi nel nostro Paese va a fare la gita sulla piazzuola dell'autostrada. C'è anche l'immancabile venditore di gelati che sbraita da un malconcio altoparlante. L'eco della sua vociona risuona dentro gli agrumeti ancora carichi di frutti. Qualcuno si avventura fra i filari, raccoglie mandaranci, limoni, grappoli di minuscoli kumquat. Agrumeto in ebraico si dice pardes, da cui viene la parola «paradiso».
   È una scena un po' campestre e un po' surreale. Gli israeliani non hanno paura dell'affollamento, anzi. Sono tendenzialmente agorafobici. I gruppi si piazzano vicini vicini, quasi si toccano. Chiacchierano a voce alta. Purtroppo pestano i fiori. Ma è vietato raccoglierli e nessuno lo fa, perché tutti sanno che questa natura è bella, stupefacente addirittura. Anche tremendamente fragile come breve è il tempo di questa fioritura che non ha bisogno d'altro che della stagione giusta, del sole ancora gentile, di un poco d'acqua. Quest'anno ne è scesa abbastanza per rinverdire il deserto, moltiplicare gli anemoni alle propaggini del Negev. E richiamare frotte di israeliani in coda sulla superstrada prima di raggiungere i campi, le colline, i rossi tappeti di anemoni.
   C'è qualcosa di atavico e profondo in questo amore per la natura un poco grezzo, c'è qualcosa di tenero e quasi commovente nel modo in cui queste miriadi di madri, padri, nonni e figli si buttano sui prati, magari schiacciando i poveri fiori: toccare e respirare la terra, sentire di farne parte come non capitava suppergiù da qualche millennio. Il Deserto Rosso in questa stagione è certo un festival di fiori e masse umane in lento movimento, una cosa che più nazional popolare di così non si può. Ma è anche la meraviglia di trovarsi a contatto stretto con la terra e sentire che quello spettacolo di fiori è per tutti e per ciascuno di noi.

(La Stampa, 9 marzo 2016)


Gerusalemme-Firenze-Assisi. Sulla strada di Gino Bartali

Il 20 marzo l'omaggio della squadra israeliana al campione di ciclismo, per gli ebrei salvati.

di Adam Smulevich

Il grande cuore di Gino Bartali continua a lasciare il segno. E torna a farlo a Gerusalemme, dove proprio in queste ore si stanno definendo i contorni di un nuovo omaggio in ricordo delle azioni di Ginettaccio in difesa degli ebrei perseguitati sotto il nazifascismo. L'appuntamento è per domenica 20 marzo, nella sua Firenze, quando la prima squadra israeliana di ciclismo del circuito professionistico celebrerà il campione di Ponte a Ema percorrendo, sui pedali, la strada del coraggio. E cioè il tortuoso tratto fino ad Assisi che Bartali frequentò decine di volte trasportando documenti falsi all'interno della sua bici e distribuendoli poi ai diversi intermediari della rete di assistenza clandestina per cui fu staffetta e punto di riferimento. Una frequentazione assidua che, unita al fatto di avere accolto in una casa di sua proprietà una famiglia di ebrei fiumani braccati dagli aguzzini (i Goldenberg) e ad altre prove di generosità a rischio della vita, l'ha portato ad essere riconosciuto Giusto tra le Nazioni dallo Yad Vashem.
   «Come rappresentanti di Israele e del suo movimento ciclistico, in questa nostra prima uscita sentiamo il dovere di proporre qualcosa di speciale in ricordo di uno sportivo straordinario che tanto si è speso per il popolo ebraico e per la dignità dell'uomo. Lo faremo in sella a una bicicletta, il nostro grande amore» spiega Ran Margaliot, giovane team manager che da quando ha lasciato l'agonismo (ha corso con il team Saxo Bank, anche al fianco di Alberto Contador) lavora assiduamente per promuovere nel suo Paese la bellezza e la poesia del ciclismo. Gino Bartali è diventato il riferimento etico del gruppo, che ha fissato il proprio quartier generale a Lucca e ha tra i suoi corridori, oltre al campione nazionale israeliano, anche quello canadese e namibiano.
   L'itinerario tosco-umbro sarà segnato dal passaggio nei luoghi più significativi che conservano l'eredità morale del ciclista. Nessuna veste ufficiale ancora per quello che nasce come un patto di Memoria tra atleti consapevoli del loro ruolo e della loro specificità identitaria. Ma l'intenzione di chi sta organizzando l'iniziativa è di farne comunque un'occasione di incontro per i cittadini di Firenze e di Assisi, le loro istituzioni, rappresentanti dello sport italiano (gli inviti partiranno a breve).
   «Quella di Bartali è una vicenda dal valore universale, senza confini. Un dono meraviglioso per l'umanità intera» commenta commosso Ran, esaminando tappa per tappa le frequenze di quei viaggi in solitaria che Ginettaccio conduceva all'insaputa perfino della moglie. Da Firenze ad Assisi, quasi duecento chilometri di passione, resistenza, tenacia. Come ricorda una targa in bella mostra alla stazione ferroviaria di Terontola, crocevia fondamentale di quei mesi drammatici: «Qui Gino Bartali, grande campione di ciclismo, fermò più volte l'allenamento nel tratto Firenze-Assisi negli anni 1943-1944 per aiutare uomini vittime della persecuzione razzista e ideologica durante la seconda guerra mondiale». Parole che sono un invito a nozze per Jonathan Freedman, entusiasta ebreo newyorkese che nel 2015 ha fondato il Team Gino Bartali e che negli scorsi mesi, indossando quella casacca, ha raccontato il coraggio del ciclista Giusto sulle strade degli States avvalendosi del supporto di due ambasciatori: Christian Vande Velde (quarto al Tour de France del 2008) e George Hincapie (un passato in maglia gialla).
   L'appuntamento del 20 marzo nasce proprio dalla collaborazione tra Ran e Jonathan, separati da migliaia di chilometri ma uniti da una passione profonda. E costituirà la vetrina ideale per promuovere la partecipazione del team alla «Settimana Coppi e Bartali» al via pochi giorni dopo dall'Emilia Romagna. Anche in quel caso i colori di Israele saranno tutti per Gino, cui verrà anche dedicato un documentario in cui i fatti storici si intrecceranno ad immagini del team in corsa.
   Parlando con il Corriere Fiorentino, in agosto Freedman ha confidato il suo grande sogno. Conoscere di persona Andrea Bartali, figlio e primo custode delle memorie del padre. Pedalare per le strade di Firenze. Visitare i luoghi che in città ne conservano il ricordo. Come la casa di famiglia in piazza Elia Dalla Costa, l'appartamento in via del Bandino in cui furono accolti i Goldenberg, la famigerata Villa Triste da cui Gino uscì quasi per miracolo sulle sue gambe. «Mancano meno di due settimane al giorno in cui questo auspicio potrà finalmente trovare concretezza. Le sensazioni che provo sono indescrivibili» racconta oggi Freedman.

(Corriere Fiorentino, 9 marzo 2016)


Si toglie il coltello dal collo e uccide l'assalitore

GERUSALEMME - Yonatan Azarihab, ebreo ortodosso di 44 anni, è stato accoltellato da un palestinese a una decina di chilometri da Tel Aviv: con il coltello ancora piantato nel collo, tuttavia, Yonatan è riuscito a ripararsi all'interno di una enoteca prima di estrarlo da solo e con la stessa arma ferire a morte l'assalitore che aveva attaccato il gestore del locale.
Finito all'ospedale non è in gravi condizioni. Un episodio cruento che dà la misura della tensione crescente in tutto Israele per gli attacchi individuali di palestinesi alle persone: oltre al caso di Yonatan a Petah Tikva, altri due attentati a Giaffa e Gerusalemme. A Giaffa, grande sobborgo di Tel Aviv, un palestinese di 22 anni ha ferito una decina di persone, colpendo a morte Taylor Force, studente americano di 28 anni, già veterano delle guerre in Iraq e Afghanistan.
A Gerusalemme due palestinesi hanno aperto il fuoco in due luoghi distinti prima di essere uccisi dalla Polizia. L'incidente di Petah Tikva ha visto coinvolto un giovane palestinese che all'improvviso si è scagliato armato di coltello contro Yonatan, impegnato in una raccolta fondi per il mercato ortofrutticolo locale. Diverse sono state le pugnalate, poi la violenta colluttazione all'interno dell'enoteca.

(blitz quotidiano, 9 marzo 2016)


Intifada dei coltelli senza tregua: palestinese uccide turista americano

Registrate numerose altre aggressioni

di Stepan Chlynov

Martedì sera nella zona del porto di Jaffa, a Tel Aviv, meta nota per il turismo, un diciottenne palestinese armato di coltello ha accoltellato a morte un turista americano e ferito la moglie. Ferite almeno altre undici persone, di cui quattro hanno riportato gravi lesioni. A pochi chilometri dal luogo dell'aggressione, il vicepresidente Usa, Biden, era impegnato in una riunione con i vertici israeliani.
   Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha condannato con forza l'attacco e ha identificato l'americano ucciso come Taylor Allen Force, e in un comunicato ha chiarito: "Come abbiamo detto molte volte, non c'è assolutamente alcuna giustificazione per il terrorismo. Continuiamo a incoraggiare tutte le parti a prendere misure positive per ridurre le tensioni e ripristinare la calma".
   A bloccare l'assalitore ci ha pensato un chitarrista israeliano, balzato agli onori della cronaca perché, nel colpirlo alla testa con il proprio strumento ha impedito che ci fossero altre vittime. Alla stampa ha dichiarato: "Stavo suonando sulla passeggiata a mare di Jaffa quando l'ho visto correre nella mia direzione brandendo un coltello. Sono scivolato ma sono riuscito a colpirlo alla testa". Regala un sorriso, in questa tragedia, la notizia che un negozio di strumenti musicali gli ha regalato una nuova chitarra. E il cantante pop, Geffen, gli ha promesso una chitarra della sua collezione privata.
   Ma non è rimasto episodio isolato in queste ore. A Gerusalemme, stamani, un uomo ha aperto il fuoco con un fucile aggredendo i poliziotti della Città Vecchia. Un agente è rimasto ferito gravemente, e nella fuga ha ferito un secondo agente della polizia israeliana. Sempre a Gerusalemme, nella zona est, una donna palestinese nel tentativo di accoltellare agenti di polizia a Hagai Street, è stata uccisa dagli agenti.
   Ancora, a Petah Tikva, un palestinese di 20 anni ha accoltellato un ebreo ortodosso all'uscita di un negozio. Questa volta la vittima e il proprietario del negozio sono riusciti a bloccare l'assalitore, uccidendolo.
   Intanto a complicare le cose c'è stato anche l'incontro tra Obama e Netanyahu annullato. Secondo il punto di vista di molti analisti, quel che sta pesando davvero è proprio la mancata intesa inerente alla consistenza dei nuovi aiuti militari dagli Usa a Israele, oltre al dissidio storico tra il presidente Usa e quello israeliano sull'Iran.
   Il quadro sembra, inoltre, prossimo a complicarsi ancor di più con il piano, riportato dal Wall Street Journal, di Obama che vorrebbe riavviare i trattati di pace attraverso una Risoluzione Onu. E dal momento che il piano prevede di stoppare le colonie israeliane in Cisgiordania, di riconoscere Gerusalemme Est come capitale palestinese, e la creazione di due stati in base ai confini armistiziali del 1949 tra gli arabi e l'esercito israeliano, la cosa non pare possa esser facilmente digeribile da Israele. Al di là di tutto perché la situazione sul territorio resta a dir poco pessima. E gli attacchi registrati in queste ore non riescono per niente a smentire questa considerazione.
   La sicurezza interna sta tentando di capire se gli attacchi siano solo l'esisto di una strategia per definita. Del resto Hamas non esitato a rilanciare il suo comunicato di felicitazioni proprio per gli attacchi registrati in rapida successione: "Ci felicitiamo per quelle operazioni eroiche. Dimostrano che sono destinati a fallire i tentativi di eliminare la intifada, la quale invece continuerà fino al raggiungimento dei suoi obiettivi".
   Ad ogni modo, quello di queste ore, è un bilancio tremendamente pesante. L'intifada dei coltelli non accenna a placarsi. E l'attenzione dei media è sempre e solo ferma ad un mero report delle notizie.

(l'Occidentale, 9 marzo 2016)


Meneghello «Giusto fra le nazioni»: così aiutò il cardinale Dalla Costa a salvare gli ebrei

 
Monsignor Giacomo Meneghello, per tanti anni segretario del cardinale Elia Dalla Costa, è stato inserito nell'elenco dei «Giusti fra le Nazioni», le persone che hanno contribuito a salvare gli ebrei durante la Shoah. La medaglia alla sua memoria è stata consegnata questa mattina nell'Arcivescovado di Firenze: a riceverla una pronipote che abita a Firenze (discendente di una delle sei sorelle di monsignor Meneghello). Alla cerimonia sono intervenuti del cardinale Giuseppe Betori, l'ambasciatore d'Israele in Italia Naor Gilon e Sara Cividalli della Comunità Ebraica Firenze.
   Il riconoscimento si aggiunge a quello già attribuito al cardinale Elia Dalla Costa, a sacerdoti come don Leto Casini e don Giulio Facibeni, a suore come Madre Agnese Tribbioli, oltre a una figura straordinaria come Gino Bartali, campione di ciclismo ma anche uomo di grande fede e carità. Figure che sono espressione di una realtà tutta particolare, che vide in quegli anni confluire a Firenze moltissimi ebrei. Dalla collaborazione tra la comunità ebraica e la Chiesa cattolica (intorno alle figure del cardinale Dalla Costa e del rabbino Natan Cassuto) nacque una rete di protezione che riuscì a salvare tante famiglie ebree coinvolgendo parrocchie e conventi.
   Monsignor Giacomo Meneghello aveva seguito a Firenze nel 1931 il cardinale Dalla Costa, di cui era segretario già a Padova sin dal 1923. Nel suo ruolo di segretario si trovò coinvolto anche nelle attività promosse dall'Arcivescovo di Firenze nel periodo delle leggi razziali e dell'occupazione nazista. Le testimonianze dicono che in molti casi fu lui a individuare luoghi in cui nascondere le persone o i canali attraverso cui procurare documenti.
   A segnalare al memoriale dello Yad Vashem il nome di mons. Meneghello è stato Cesare Sacerdoti, uno dei tanti che furono aiutati: «Fui io - afferma - a nominarlo dopo ricerche corroboranti la mia testimonianza delle sue azioni di aiuto generoso e incondizionato dato a centinaia di Ebrei e in particolare alla mia famiglia durante i tristi giorni della occupazione tedesca a Firenze, mi è quindi di conforto la buona notizia di questo meritatissimo riconoscimento». Durante la cerimonia di consegna della medaglia, Sacerdoti ha raccontato la vicenda di quei giorni, in cui fu nascosto insieme al fratello Vittorio prima dalle suore Pie Operaie di San Giuseppe, in via dei Serragli, e poi in un orfanotrofio dell'Opera Madonnina del Grappa a Montecatini. «Mio padre - ha ricordato - rimase sempre in amicizia con monsignor Meneghello, e ogni volta mi diceva: se siamo vivi lo dobbiamo a lui. E insieme a noi furono salvati in quei mesi tanti altri ebrei, circa 400».
   Il cardinale Giuseppe Betori ha ricordato mons. Meneghello come dedito non solo al servizio al cardinale Dalla Costa, di cui era segretario, ma anche nella cura dei poveri: profuse il suo impegno anche nei giorni dell'Alluvione del '66.

(Toscana Oggi, 9 marzo 2016)


Bernie Sanders, l'ebreo che odia Israele

In risposta ad un militante che gli rinfacciava la scarsa enfasi posta sulle sue origini, il rivale della signora Clinton nella corsa alla nomination democratica per la Casa Bianca ha fermamente ribattuto: «sono estremamente orgoglioso di essere ebreo. La famiglia di mio padre è stata spazzata va durante l'Olocausto, e sono perfettamente cosciente dei pericoli dell'estremismo politico». Una dichiarazione perentoria che ha tranquillizzato i simpatizzanti convenuti domenica nel Michigan....

(Il Borghesino, 9 marzo 2016)


E' donna l'occhio di Israele verso il sud del Libano

(Ansa, 8 marzo 2016)


Quel gruppo di storici americani che ha improvvisamente perso la parola

Evidentemente non gliene importava nulla degli studenti palestinesi: semplicemente ce l'hanno a morte con Israele.

Un gruppo di professori universitari americani ha mostrato il proprio vero volto per quanto riguarda Israele. I lettori ricorderanno quei 126 storici che, non molto tempo fa, tentarono (invano) di spingere l'American Historical Association a condannare solennemente Israele perché, coi suoi controlli di sicurezza, "ostacola lo spostamento degli studenti palestinesi". Ebbene, ora è l'Autorità Palestinese che crea posti di blocco che sbarrano la strada agli insegnanti palestinesi, eppure - l'avreste mai detto? - quegli indignatissimi storici americani hanno improvvisamente perso la parola.
Gli impegnatissimi 126 storici avevano presentato la loro proposta di risoluzione al Congresso dell'Associazione Storica Americana dello scorso gennaio ad Atlanta. Sostenevano che a volte i controlli di sicurezza israeliani causano agli studenti palestinesi ritardi "di 15 minuti e anche più", e che questi ritardi evidentemente "intralciano l'attività didattica negli istituiti palestinesi di istruzione superiore"....

(israele.net, 8 marzo 2016)


Shoah: un ricordo intimo tra le pareti di casa

Un'organizzazione israeliana porta i sopravvissuti nelle case per raccontare le tragedie dell'Olocausto. Da quest'anno anche in Italia.

di Micol Debash

E' tradizione in Israele commemorare Yom HaShoah riunendosi nei salotti delle case ad ascoltare le testimonianze di un sopravvissuto invitato per l'occasione. Ogni casa accoglie una ventina di amici, parenti e sconosciuti che si accomodano sui divani, sulle sedie della tavola da pranzo o si appoggiano in qualche angolo del salone per ascoltare il racconto dell'ospite d'onore, di chi la Shoah l'ha vissuta sulla propria pelle. Questa consuetudine non è nata per caso, ma è stata istituita nel 2010 da un'organizzazione israeliana di volontariato: Zikaron BaSalon (in italiano, Ricordo in Salotto). Zikaron BaSalon è un'iniziativa che offre un nuovo modo per commemorare la Shoah: una testimonianza diretta, come quella di un nonno che racconta la propria storia ai nipoti.
   In una giornata così significativa come Yom HaShoah, gli israeliani non si limitano a partecipare alle molteplici cerimonie formali organizzate per l'occasione, ma prendono parte a una commemorazione più intima e significativa e più accessibile soprattutto alle giovani generazioni. I partecipanti possono interagire direttamente con il testimone della Shoah, fare domande e chiedere chiarimenti.
   L'iniziativa non prevede solo la preziosa testimonianza di un sopravvissuto alla Shoah, ma anche delle discussioni di vario genere che possano essere di stimolo per la trasmissione della memoria alle generazioni future.
   Il tema della discussione può variare di casa in casa, tuttavia deve sempre volgere al futuro affinché i partecipanti possano lasciare il salotto con una maggior consapevolezza di come la Shoah influenzi il loro presente e di come essi possano tramandarne il ricordo per le prossime generazioni.
   L'idea di Zikaron BaSalon è nata in Israele nel 2010 e solo nello scorso anno, ha raggiunto circa 150.000 persone e più di 80 case nel mondo. Sono stati aperti salotti in Egitto, India, America, Germania, Australia, Nuova Zelanda, Cina e Canada.
   All'appello mancava l'Italia. Per questo, la Comunità Ebraica di Roma ha deciso di aderire e aprire 10 salotti nella Capitale nella sera del 4 Maggio, in concomitanza con Yom HaShoah.
   Chiunque lo desideri può aprire il proprio salotto e partecipare all'iniziativa di Zikaron BaSalon. Per saperne di più, è possibile contattare il Centro di Cultura Ebraica al numero 065897589.

(Shalom, marzo 2016)


Hamas teme che Israele abbia trovato l'arma per distruggere i suoi tunnel

Le gallerie collassano a un ritmo senza precedenti. Vertice d'emergenza a Gaza per scoprire la "tecnica segreta".

di Giordano Stabile

 
Un misterioso esplosivo liquido. Micro-terremoti. Onde d'urto. Al quartier generale di Hamas, a Gaza, è una corsa per mettere insieme i pochi elementi a disposizione e scoprire l'arma segreta usata da Israele per distruggere a distanza i suoi tunnel. Per la dottrina militare del movimento palestinese le gallerie scavate sotto le città, e quelle che sbucano in territorio nemico, sono insostituibili. Ma ora crollano a un ritmo senza precedenti.
  Nell'operazione Proctetive Edge, nel luglio del 2014, i tunnel avevano messo in difficoltà Tsahal, l'esercito israeliano. Le pattuglie di Hamas erano sbucate alle spalle dei militari che avanzavano dentro la Striscia. Corpi speciali e leader di Hamas erano sfuggiti alla morsa muovendosi per i chilometri di gallerie collegati a edifici e vie di fuga. Allora aviazione e specialisti israeliani avevano avuto vita difficile nel distruggere i tunnel. Ora, in tempo di pace, le gallerie collassano una dopo l'altra. Domenica scorsa i vertici di Hamas, e un team di ingegneri, si sono riuniti d'urgenza per capire che sta accadendo.

 Protective Edge
  I dati parlano chiaro: fra la fine del 2015 e l'inizio del 2016 il numero di tunnel crollati è passato da un media di uno a 4-5 al mese. Solo a gennaio sono morte 18 persone fra combattenti e operai. A febbraio ci sono stati altri tre casi. Lo scorso giovedì un nuovo crollo, sotto la cittadina di Khan Younis ha diffuso il panico fra i militanti. Secondo il quotidiano «Times of Israel» gli uomini «non vogliono più entrare nei tunnel». Testimoni, poco prima del crollo, hanno visto «soldati israeliani che maneggiavano esplosivo liquido, poco distante». Fonti dentro Hamas parlano di «micro-terremoti indotti».
  Nei 50 giorni di Protective Edge sono morti 2140 palestinesi, fra civili e combattenti, e 73 israeliani. A Gaza le forze israeliane hanno distrutto 32 gallerie, una piccola parte del totale. Da allora l'esercito ha speso, secondo la tv Channel 2 News, 250 milioni di dollari per perfezionare le tecniche anti-tunnel. Sono stati costruite finte gallerie per testare nuovi macchinari e far esercitare i soldati.
Ma tutto ciò presuppone il controllo del territorio. A Gaza invece i tunnel crollano a distanza. Il 28 febbraio sono rimasti feriti gravemente altri cinque membri di Hamas sotto il quartiere di Al-Zeitun, Gaza sudorientale. Un mese prima 14 combattenti della Brigata al-Qassam, «pronti a un'azione militare» secondo la stessa organizzazione, sono rimasti sepolti, 7 sono rimasti uccisi. Fra le vittime ci sarebbe anche il nipote di uno dei leader di Hamas Mahmoud al-Zahar.
  Ismail Haniyeh, il leader supremo, ha nominato i sette combattenti «eroi» ai funerali nella Striscia. Ma il programma di costruzione dei tunnel, che coinvolge 1000 lavoratori in tre turni sulle 24 ore, sei giorni a settimana, rischia di essere bloccato. Le gallerie sono in cemento armato, a 30 metri di profondità e quindi non raggiungibili da normali bombe bunker-buster. Sono dotate di sistemi di ventilazione, sensori elettronici anti-intrusi, periscopi, pozzi secondari per la fuga nel caso venissero individuati.

 I tunnel di Hezbollah
  I tunnel militari sono molto più sofisticati e difficili da distruggere rispetto a quelli usati per il contrabbando, al confine con l'Egitto. L'esercito egiziano, dopo la presa del potere da parte del generale Al Sisi, ne ha distrutti 1600, inondandoli. La rete di Hamas assomiglia invece molto a quella di Hezbollah nel Sud del Libano, che fra il 12 luglio e il 14 agosto 2014 ha tenuto testa all'esercito israeliano. Nei tunnel di Hezbollah ci sarebbero decine di migliaia di missili.

(La Stampa, 8 marzo 2016)


Il Cairo: Hamas ha addestrato gli assassini del procuratore Barakat»

di Michele Giorgio

GAZA - Quando ieri hanno letto i titoli della stampa egiziana, i leader di Hamas a G anno avvertito un brivido lungo la schiena. «Arrestati gli assassini del procuratore generale Hisham Barakat», è stato quello di al Akhbar, giornale megafono del regime di Abdel Fattah al Sisi che, con un sommario inquietante, ha aggiunto «La Turchia ospita la mente dell'operazione e Hamas ha addestrato gli attentatori». Simili i titoli di altri quotidiani egiziani. Il Cairo procede come una ruspa, deciso ormai a travolgere Hamas assieme ai nemici dichiarati, i Fratelli Musulmani cacciati assieme al presidente Mohammed Morsi dal golpe militare del luglio 2013. I rapporti tra l'Egitto e il movimento islamico sono andati peggiorando con il trascorrere dei mesi dopo il colpo di stato. A fame le spese sono stati soprattutto i civili palestinesi. Davanti a loro, che già soffrono da quasi 10 anni le conseguenze del blocco di Gaza imposto da Israele - senza contare i morti e le distruzioni causate da tre offensive militari israeliane del 2008, 2012 e 2014 -, si sono abbassate anche le sbarre del valico di Rafah con il Sinai egiziano, l'unica porta sul mondo che avevano a disposizione per curarsi, studiare e viaggiare all' estero. «Per certi versi, il blocco egiziano di Gaza è persino più pesante di quello che attua Israele. Tutti sanno che Israele è nemico dei palestinesi mentre gli egiziani dovrebbero comportarsi come nostri fratelli», commentava ieri con amarezza Tareq Kahlout, un reporter di Gaza.
  Hamas nega, con forza, di essere coinvolto nell'attentato che lo scorso giugno uccise al Cairo Hisham Barakat, il procuratore capo che seguiva migliaia di processi contro gli iislamistimessi fuori legge. Un'accusa resa ancora più forte dall'ufficialità dell'annuncio fatto domenica dal ministro dell'intemo Magdy Mohamed Abdel Ghaffar, secondo il quale il movimento islamica palestinese avrebbe «addestrato» e «preparato» i militanti della Fratellanza musulmana a compiere l'attentato e «supervisionato l'attuazione» dell'attacco. Il piano, ha proseguito Ghaffar, sarebbe stato ordinato da quadri della Fratellanza fuggiti in Turchia guidati da un medico, Yehia El-Sayed Ibrahim Moussa, imputato in vari processi. «Non è possibile che l'Egitto ci rivolga queste accuse, non hanno alcun senso - diceva ieri il portavoce di Hamas, Salah Bardawil, a margine della conferenza stampa tenuta al Commodore Hotel di Gaza city - «Da tempo cerchiamo di ricostruire buone relazioni con i fratelli egiziani per porre fine all'assedio di Gaza, il punto che più di ogni altro impegna i nostri sforzi. Non abbiamo alcun motivo per agire contro l'Egitto, tutti sanno che i nostri nemici sono soltanto gli occupanti israeliani». Bardawil ha detto che Hamas è pronto in qualsiasi momento, anche iintervenendoal processo in Egitto, a dimostrare la sua totale estraneità dall'attentato ad Hisham Barakat.
  Hamas è stato dichiarato «gruppo terrorista» dall'Egitto il 28 febbraio dello scorso anno. Qualche mese dopo però una corte egiziana ha annullato la sentenza contro il movimento islarnico al potere a Gaza dal 2007, lasciando immaginare un miglioramento delle relazioni tra le due parti precipitate al punto più basso dopo il golpe del 2013, quando il regime di al Sisi ha colpito duramente i Fratelli Musulmani e le organizzazioni alleate affiliate, come Hamas.
  Le cose però sono andate in modo diverso, di pari passo con il peggioramento delle relazioni tra l'Egitto e la Turchia. Erdogan aveva appoggiato molto Morsi e i Fratelli Musulmani e non ha mancato di condannare il golpe militare del 2013. Il leader turco è anche, assieme al Qatar, uno sponsor dichiarato di Hamas, altro motivo che lo rende un nemico agli occhi di al Sisi. E non deve essere sottovalutato il significato della «riconciliazione» in atto tra Turchia e Israele (sei anni dopo l'uccisione di lO passeggeri turchi a bordo della nave Mavi Marmara diretta a Gaza compiuta da commando israeliani), vista con diffidenza e sospetto dal Cairo.
  Ankara e Tel Aviv infatti starebbero negoziando, almeno a dar credito alla stampa locale, anche una serie di misure volte ad allentare l'assedio di Gaza, tra le quali la costruzione di un porto galleggiante, secondo alcune fonti, davanti alla costa della piccola striscia di territorio palestinese. Un progetto che non piace al Cairo che vuole che il porto di el Arish resti il punto di arrivo via mare per aiuti umanitari e materiali diretti a Gaza, assieme a quello israeliano di Ashdod.
  «Hamas e i palestinesi di Gaza - conclude Tareq Kahlout - rischiano di rimanere stritolati nel braccio di ferro tra Egitto e Turchia».
Questo ed altro può accadere a chi si propone di distruggere Israele.


(il manifesto, 8 marzo 2016)


L'Isis vuole invadere la Tunisia

di Carlo Panella.

 
Gravissimo sotto il profilo politico e umano: l'attacco sferrato ieri mattina da un nutrito gruppo di miliziani dell'Isis contro la caserma e la città tunisina di Ben Gardane conferma una strategia diversificata e mobile dell'Isis che va ben oltre il presidio, sempre in crescita, della zona costiera libica attorno a Sirte. Il bilancio dei morti (53, secondo le stime ufficiali di Tunisi), e la meccanica dell'assalto, confermano inoltre che la capacità di fuoco dei miliziani dell'Isis non è più di piccoli gruppi, ma calibrata ormai su azioni di vera e propria guerra classica.
   Ben Gardane è una cittadina tunisina di 80.000 abitanti situata a poche decine di chilometri dalla frontiera tunisino libica e a meno di un centinaio di chilometri da Sabratah, citta libica oggetto di più incursioni dell'Isis nelle scorse settimane. L'asse Ben Gardane-Sebrata - questo è il punto - si trova a un migliaio di chilometri circa dalla città di Sirte i quali - in pura teoria - dovrebbero essere sotto il controllo, da ovest verso est, delle milizie di Zintan, fedeli al lontanissimo governo di Torbuk (in Cirenaica), da Fajir Libia, la milizia islamista che obbedisce al governo di Tripoli e anche dalle milizie di Misurata, le più vicine alla ragione di Sirte.
   Ma è ora evidente che le milizie dell'Isis sono in grado di trasportare consistenti gruppi di combattimento e di bypassare le milizie avversarie disposte lungo la costa. Sono in grado cioè di muoversi con facilità, passando in profondità nel territorio libico, per poi colpire alle spalle dello schieramento avverso. Non solo, la scelta di tentare una mossa spettacolare come l'assalto a una caserma dell'esercito tunisino, significa che la strategia dell'Isis è multiforme, che non si prepara solo a difendere i 200 chilometri di costa attorno a Sirte, a tentare delle sortite verso impianti e terminali petroliferi a ovest, sud ed est di Sirte, ma che ha intenzione di coinvolgere in pieno la Tunisia in un nuovo fronte di guerra classica. Non più solo dunque attentati come al Museo del Bardo e a Sousse, non più solo scaramucce sulle montagne alle spalle di Kairouan e verso la frontiera con l'Algeria, ma azioni militari dirette ovunque contro obiettivi qualificanti della Tunisia. Il tutto, secondo l'analisi dell'attacco dello stesso presidente tunisino Caid Essebsi, nell'evidente tentativo di instaurare una "provincia del Califfato", a cavallo del confine tunisino-libico, come quella instaurata a Sirte,. Obiettivo ambizioso, ma non impossibile. Le capacità di reazione dell'esercito e delle forze di sicurezza tunisine infatti - che pure ieri hanno dato, pare, eccellente prova - non sono eccelse. In tutto il paese si susseguono infatti da mesi scontri armati contro miliziani jihadisti, con svariate decine di militari tunisini uccisi, soprattutto lungo le catene montuose occidentali, a ridosso della frontiera con l'Algeria.
   Ma ora, l'apertura di un nuovo fronte jihadista verso oriente, verso la Libia, può essere molto, molto problematica. Secondo al versione fornita da Tunisi, l'attacco militare contro la caserma dell'esercito tunisino e alla polizia di Ben Gardane nella notte di domenica, sarebbe fallito e lo dimostrerebbe l'alto numero dei miliziani dell'Isis caduti (35). Ripiegati, dopo l'insuccesso dell'assalto, anche grazie al rapido impiego da parte dei tunisini di elicotteri d'assalto, i miliziani dell'Isis superstiti hanno colpito alcuni obiettivi civili, tra i quali un'ambulanza e l'ospedale regionale. Per tutta la giornata di ieri Ben Gardane è rimasta completamente paralizzata, le lezioni in tutte le scuole sono state sospese e le strade sono ora pattugliate da soldati tunisini che effettuano rastrellamenti per rintracciare i sospetti appartenenti al gruppo terroristico, mettono in sicurezza gli ingressi della città e i punti sensibili. Le autorità di Tunisi hanno inoltre chiuso tutti e tre i valichi di frontiera con la Libia e intensificato i pattugliamenti aerei lungo il confine. Di fuoco le parole del presidente della Repubblica tunisino Caid Essebsi: "I tunisini sono in guerra contro questa barbarie e contro questi topi che stermineremo definitivamente".

(Libero, 8 marzo 2016)


Tensione fra USA e Israele.

Obama nei giorni scorsi ha invitato Netanyahu a Washington per un incontro bilaterale il 18 Marzo, ma i premier israeliano ha cancellato la sua visita.

di Paolo Gabrielli

Il presidente americano Barack Obama nei giorni scorsi ha invitato Benyamin Netanyahu a Washington per un incontro bilaterale il 18 Marzo ma il premier israeliano ha cancellato la sua visita. A riferirlo è proprio la Casa Bianca tramite il portavoce del National Security Council, Ned Price. "Abbiamo proposto al primo ministro Netanyahu un incontro bilaterale e siamo stati sorpresi di aver appreso attraverso media la scelta del primo ministro".
Versione americana che però non coincide con quella israeliana secondo cui Netanyahu avrebbe dovuto partecipare all'assemblea dell'AIPAC (la più grande associazione israelo-americana), ma l'ha cancellata vista l'impossibilità di poter incontrare Obama, che il 20 Marzo partirà per la storica visita a Cuba. Secondo media israeliani la decisione di Netanyahu di cancellare la partecipazione all'AIPAC è stata dettata anche dal timore del premier israeliano di dare l'impressione di un suo intervento a gamba tesa nella campagna elettorale americana.

(Italia Post, 8 marzo 2016)


La storia di Angela, nata ad Auschwitz

"Ero così malnutrita che non riuscivo nemmeno a piangere. Questa è stata la mia salvezza". Sul "Guardian" di domenica scorsa abbiamo potuto leggere la storia toccante di Angela Orosz, la donna nata nel campo di sterminio nazista di Auschwitz, che nei prossimi giorni sarà chiamata a testimoniare al processo contro un ex guardia nazista di quel lager, Reinhold Hanning.

di Sebastiano Catte

 
 
Angela Orosz oggi
Aveva sette anni, quando a scuola le venne chiesto di scrivere il suo nome e il luogo di nascita che Angela Orosz ebbe per la prima volta la consapevolezza di essere nata proprio lì, in quel luogo dell'orrore. "Non è stato facile accettarlo" - ha raccontato al Guardian - ma mia madre mi ha sempre detto che 'no, non lo avrebbe mai cambiato, questo è ciò che si deve sapere'".
   Angela, che oggi risiede a Montreal, in Canada, aveva già testimoniato solo pochi mesi fa, nel giugno del 2015, al processo contro Oskar Gröning, un contabile di Auschwitz, sergente delle SS naziste accusato di complicità nell'assassinio di 300 mila ebrei in quel campo di morte.
   "Io non posso perdonarvi, Herr Gröning!" - ha detto con la voce rotta dalla commozione. "Quando ho sentito parlare di questo processo dal mio avvocato e amico Heinrich Rothmann, ho deciso di visitare Auschwitz per la prima volta dopo 70 anni. Non mi sentivo ancora pronta a testimoniare. Vi ringrazio per avermi dato l'occasione di parlarvi della sofferenza della mia famiglia e della sorte di centinaia di migliaia di ebrei ungheresi imprigionati ad Auschwitz, di cui più del 90% sono stati assassinati".
   Quella visita ha fatto così scattare dentro di lei l'estremo bisogno di quella che è diventata una vera e propria missione: di dover parlare in nome di chi oggi non può farlo, per puntare il dito contro i responsabili di quella atroce disumanità da cui lei è nata, contro chi in qualche modo ha contribuito a quel terrore, proprio come Herr Gröning.
   È una missione di cui si sente investita e che ha voluto trasmettere anche ai suoi figli perché avverte la netta sensazione che l'Europa oggi sia tornata ad essere un luogo pericoloso per un Ebreo. Per questo c'è ancora bisogno di ricordare alla gente di ciò che è accaduto durante l'Olocausto: tutti coloro che sono sopravvissuti avranno per sempre nel corpo e nell'anima le cicatrici fisiche e psicologiche di quell'orrore.
   La sua storia ha inizio con quella di sua madre, una donna molto colta di Budapest proveniente da una famiglia benestante. Il padre era un architetto molto noto nella capitale ungherese, la madre parlava perfettamente quattro lingue. Dopo aver terminato il liceo non poteva andare al college perché agli ebrei era vietato accedere all'Università. Conobbe suo marito nel 1943 e fino all'anno successivo, quando i nazisti invasero l'Ungheria, ebbero una vita felice. Il giorno dopo Pasqua, nel mese di aprile, sentirono bussare alla porta. Era la milizia locale ungherese, che costrinse i suoi genitori a lasciare la loro casa e a salire su un treno adibito solitamente per il trasporto del bestiame, che li portò al ghetto di Satoraljaujhely, dove vissero di stenti per un mese. Poi da lì un altro viaggio, questa volta verso l'inferno di Auschwitz, dove arrivarono il 25 maggio.
   "È stata un'esperienza a dir poco traumatica - racconta Angela. "Mia madre, con me nel grembo, fu picchiata. Le SS avevano fruste e mitragliatrici e gridarono - 'Tutti fuori, lasciare i bagagli sul treno!' Altre guardie delle SS, colleghi di Gröning erano nelle torri di guardia e puntavano mitra e faretti contro di noi. Fino al suo ultimo giorno mia madre ha sempre avuto il terrore dei cani che abbaiavano, retaggio di quei terribili giorni trascorsi in quel lager".
   "Forse vi ricordate di lei signor Gröning" - si rivolse così Angela alla guardia nel corso del processo. "Era bella, bruna, aveva gli occhi grigio-verdi".
   Appena arrivati ad Auschwitz gli internati venivano suddivisi in due gruppi dal dottor Mengele, il famigerato "angelo della morte". Da una parte le donne incinte, i bambini, gli anziani e le persone più fragili, dall'altra tutti coloro che potevano essere sottoposti ai lavori forzati. Dicevano ai primi: "Toglietevi i vestiti; andrete a farvi una doccia." In realtà questi ebrei furono gasati e prima di essere ammassati nelle camere a gas venivano depredati di tutti i loro averi. Veniva usato il gas Zyklon B (un pesticida) e provocava una morte davvero orribile, con un'agonia che poteva durare anche 20 interminabili minuti.
   Ai genitori di Angela fu risparmiata quella fine atroce: quando fu il turno della madre, il dottor Mengele la ritenne comunque sana e in grado di sostenere i lavori forzati. Fu comunque separata dal padre, che non sopravvisse alle condizioni disumane del campo e morì di sfinimento, costretto a lavorare fino all'ultimo respiro. La madre fu completamente rasata e costretta a farsi un tatuaggio, che era un po' il simbolo della sua disumanizzazione: da quel momento non era più Vera ma un numero, il 6075. Inizialmente le assegnarono il turno di notte nel magazzino che conteneva gli oggetti personali delle vittime. Il suo compito era quello di ordinare quelli di valore e separarli dagli altri. In seguito fu costretta a lavori pesanti all'aperto come la costruzione di strade e di ponti, poi fu trasferita in cucina. Questo le ha permesso di rubare spesso bucce di patate che probabilmente sono state la salvezza della figlia che aveva in grembo. Quello che le davano da mangiare infatti non era sufficiente per poter sostenere una gravidanza: un caffè la mattina, una zuppa di erbe a pranzo e una fetta di pane per cena.
   A un certo punto, sopraffatta dal durissimo lavoro fisico, finì per confessare che era incinta. Secondo le regole di Auschwitz questo avrebbe comportato che sarebbe finita immediatamente nella camera a gas. Invece fu mandata in una caserma del Campo C, dove avrebbe dovuto prendersi cura di alcuni bambini, in particolare dei gemelli che sono stati utilizzati per degli esperimenti medico-scientifici da Mengele e da suoi colleghi. In seguito divenne lei stessa oggetto di sperimentazione per provare la sterilizzazione in laboratorio quando era già incinta di sette mesi: le furono somministrate delle sostanze chimiche tramite dolorosissime iniezioni. All'ottavo mese una dottoressa ungherese che lavorava in quella équipe le suggerì di ricorrere a un aborto. Le disse: "Quando si va a partorire non sappiamo quale possa essere la reazione di Mengele. Se lui è di buon umore, morirà solo il bambino, ma se è di cattivo umore si finisce direttamente nella camera a gas. Sei così giovane, solo così potresti salvarti la vita". Vera rispose che ci avrebbe pensato e che le avrebbe dato una risposta il giorno dopo. Quella notte le apparve in sogno sua madre che la supplicò di non ascoltare quel consiglio: "Vera, il feto è già un bambino, sta per uscire. Non abortire, confida in Dio". La mattina dopo diede il suo responso alla dottoressa: era un no categorico, senza appello.
   Il giorno in cui Angela venne alla luce (presumibilmente il 22 dicembre) la madre fu aiutata dalla responsabile del suo campo: suo padre era medico e sapeva come agire in situazioni del genere. "Pesavo solo un chilo ed ero così malnutrita che non ero in grado di piangere - racconta. Questa è stata la mia salvezza". "Tre ore dopo la nascita - prosegue - mia madre ha dovuto lasciarmi da sola nella cuccetta per andare a rispondere all'appello nominale, dimostrando un coraggio e una forza davvero fuori del comune. Era pieno inverno e, vestita solo di stracci, ha dovuto resistere a lungo al freddo glaciale prima della chiamata. Per tutto il tempo pregava di riuscire a ritrovarmi viva al rientro in caserma".
   Resistettero lì ancora un altro mese, fino al 27 gennaio 1945, quando Auschwitz fu liberata. Proprio quel giorno nacque un altro bambino, si chiamava Gyorgy Faludi. Lei e Gyorgy furono i soli bambini sopravvissuti tra i nati in quel campo di concentramento.
   Dopo la liberazione sua madre cercò disperatamente a Budapest una cura che potesse salvare la figlia. Poco prima di compiere un anno Angela pesava appena tre kg e secondo i medici non aveva alcuna speranza di sopravvivere.
   "Mia madre era l'unica ad avere la convinzione che avrei potuto salvarmi. La gente la prendeva per matta: molti credevano che avesse perso il cervello ad Auschwitz e che io fossi nient'altro che una bambola, perché non ero capace di muovermi. In effetti avevo le sembianze di una bambola di pezza, anche se mia madre mi diceva sempre che ero come un uccello senza p®iume. Alla fine riuscì a trovare un medico che le diede almeno un briciolo di speranza e che si prese cura di me. Lo fece per molti anni, almeno fino a quando le mie ossa non divennero abbastanza forti da permettermi di camminare. Il miracolo si era avverato. Certo porto ancora i segni dell'eredità di Auschwitz e di tutto quello che ha rappresentato, soprattutto per la fame che ha dovuto patire mia madre: sono ancora piccola oggi."
   Angela poi racconta del suo ritorno ad Auschwitz nel gennaio 2015. Si è sentita come in trance, aveva difficoltà di respirazione. "Temevo che ogni passo che facevo fosse sulla tomba di qualcuno. Settant'anni non rimuovono nulla. Niente può cancellare la disumanità e l'incubo di quanto stava accadendo lì".
   "Come faccio a perdonare?" ha detto, quasi supplicando, nel rivolgersi a Herr Gröning nella deposizione al processo. "Come posso dimenticare? Molto tempo dopo la guerra, mia madre sembrava aver messo gli orrori di Auschwitz in fondo sua mente. Ha vissuto come una persona felice e amorevole, ma quando si vide morire di cancro all'età di 71 anni, a Toronto, gli incubi sono tornati. Vide Mengele in piedi davanti alla porta della sua stanza d'ospedale. Nemmeno una forte dose di morfina poteva farlo sparire". La madre di Angela morì il 28 gennaio perché il 27 gennaio era l'anniversario della liberazione di Auschwitz e disse che era certa che per nessuna ragione al mondo poteva morire proprio quel giorno.
   "Per questo e per tutti quelli che hai ucciso o hai contribuito a uccidere, non posso perdonarti, Herr Gröning" - ha proseguito. "Il passato è presente e questo rende impossibile per me dimenticare o perdonare i responsabili di Auschwitz, i numerosi campi di concentramento in Europa e l'assassinio di sei milioni di ebrei. Sei milioni di persone innocenti uccise solo perché erano ebrei."

(com.unica, 8 marzo 2016)


Ma allora... voi ci volete convertire!

di Marcello Cicchese

E' un'obiezione che ogni tanto viene fuori da chi visita "Notizie su Israele". Che altri motivi infatti possono avere dei non-ebrei cristiani professanti che si schierano dalla parte dello Stato ebraico d'Israele? E' quello che certamente pensa qualche ebreo, ed è un pensiero in parte giustificato e in parte no.
   In parte è giustificato perché - è vero - ci sono cristiani che s'interessano di ebrei e di Israele soltanto per verificare se, e in quale numero, alcuni di loro si sono decisi a credere in Gesù. Tutto il resto ha poco interesse, se addirittura non è considerato puro e semplice spreco di prezioso tempo. Probabilmente ci sono cristiani evangelici che quando vengono a sapere che esiste un sito come "Notizie su Israele" si chiedono in cuor loro, se non a voce aperta, quanti lettori ebrei si sono convertiti fino a questo momento, facendo dipendere la loro valutazione dell'opera dal numero che viene fuori.
   In parte non è giustificato perché - è vero - molti ebrei nell'uso che fanno del termine "conversione" sono rimasti al significato che ha avuto per secoli nei rapporti tra popolo ebraico e istituzione ecclesiastica cattolico-romana: conversione come cambiamento di cittadinanza, come rinnegamento della cittadinanza ebraica e successiva acquisizione tramite il battesimo della cittadinanza cristiana, con i relativi privilegi. Sono ebrei che fanno fatica a capire il concetto evangelico di conversione. Questo però non è strano, perché la stessa fatica è fatta da moltissimi non ebrei, anche cristiani o sedicenti tali, anche figli di autentici cristiani. Solo che per gli ebrei questa incomprensione ha conseguenze relazionali particolari, in qualche caso sgradevoli.
   Mi è venuto in mente questo argomento leggendo un passaggio di un articolo di Riccardo Segni, rabbino capo della Comunità ebraica di Roma, dove, in risposta a una presa di posizione papale scrive: "Come ebrei non possiamo certo chiedere che il cristiano che si rivolge a noi rinunci a proclamare la sua identità e la sua fede, ma se nell'approccio dialogico c'è un intento di evangelizzazione anche se non istituzionale, questo deve essere respinto."
   Mi è allora capitato tra le mani uno scambio avuto circa nove anni fa con un ebreo romano, che con grande correttezza si è rivolto gentilmente al nostro sito per esprimere apertamente i suoi dubbi. Riportiamo le sue parole, senza riportarne il nome. Se in seguito vorrà riconoscerne la paternità e aggiungere qualcosa, saremo ben contenti di accogliere e pubblicare le sue parole.
   Di seguito la lettera.
    Salve sono [nome e cognome] xxx anni romano! Sono appartenente alla comunità ebraica romana sono laico e spero vivamente di poter accentuare la mia fede religiosa con il trascorrere degli anni. Il mio ebraismo e' caratterizzato da una parziale osservanza ma da un amore e un appoggio ad Israele molto molto forte. In merito alla polemica di cui tra l'altro non ho capito nemmeno... gli elementi salienti... questa casualmente si e' verifica proprio il giorno in cui con il mio migliore amico cattolico disquisivamo sui motivi che sono alla base del vostro appoggio e amore verso Israele! Non nascondo che ho sempre nutrito dei dubbi sulle vostre posizioni e in particolare sulle forme di simpatia verso gli ebrei messianici! Il mio timore e' che in cuor vostro non ci sia un amore volto a esaltare le differenze tra una religione e l'altra quanto piuttosto il vostro desiderio che gli ebrei un giorno credano a Gesù! Questo sarebbe veramente molto scorretto significa orchestrare nel vostro cuore un desiderio di convertirci... con principi non coercitivi ma ancora peggio di falso amore! Questo e' del tutto scorretto e lasciatemi dire che anche la propaganda di movimenti evangelici americani nelle università italiane e' ugualmente scorretta! A mio avviso non esaltate le differenze ma in cuor vostro desiderate che tutti credino in Gesu' quali allora le differenze con gli islamici che desiderano islamizzare il mondo intero? Io non credo in Cristo, ma rispetto chi la pensa in maniera differente da me spero che possiate darmi a riguardo una risposta esaustiva
    cordiali saluti
   A questa lettera ho dato a suo tempo una risposta personale che adesso rendo pubblica.

Ciao [nome],
sono Marcello Cicchese, il curatore di "Notizie su Israele". Spero che per la differenza d'età mi sia consentito di darti del tu. Sei più giovane dell'ultimo dei miei figli e quindi puoi avere un'idea dei miei anni. C'è poi un fatto che in qualche modo ci avvicina: anch'io sono romano, e "romano de Roma", nato allo scalo San Lorenzo in casa privata. Anche se da più di quarant'anni vivo in Emilia, sono e rimango romano, come potrebbero confermarti anche i miei figli.
   Veniamo adesso alla tua lettera. La chiamo così anche se è una e-mail perché mantiene le caratteristiche positive di una lettera tradizionale: ti presenti con nome e cognome, fai un discorso comprensibile e pacato, e termini con i cordiali saluti. Ti ringrazio per questo, perché gli scambi elettronici oggi sono sempre più affrettati, sciatti e molto spesso offensivi e maleducati.
   Le domande che poni sono più che giustificate e il mio desiderio sarebbe di darti una risposta chiara ed esaustiva, come tu richiedi. Ma pensandoci e ripensandoci, cercando di rispondere anticipatamente alle obiezioni che potresti fare a quello che ti scriverò, nella mia mente si è venuto formando un lungo trattato che avrebbe bisogno di qualche decina di pagine. Diciamo allora che intendo procedere così: inizierò con alcune risposte abbastanza sintetiche, invitandoti a chiedere chiarimenti su tutti i punti in cui avrai da sollevare dubbi o obiezioni. Per parte mia sono disposto a continuare il discorso fino a che lo riterrai opportuno.
   Riporterò alcune tue frasi a cui farò seguire una mia risposta.
    «A mio avviso non esaltate le differenze ma in cuor vostro desiderate che tutti credano in Gesu' quali allora le differenze con gli islamici che desiderano islamizzare il mondo intero? Io non credo in Cristo, ma rispetto chi la pensa in maniera differente da me.»
Questo forse è il punto più importante da chiarire prima di tutto, perché da questo dipende tutto il resto. Mi sembra che la tua posizione sia in linea con l'attuale sensibilità postmoderna che in sostanza dice questo: la verità assoluta da ricercare e con cui confrontarsi non esiste. Le religioni non mettono gli uomini in relazione con un Unico Assoluto e quindi non ci si deve chiedere se sono vere o false, giuste o sbagliate, perché sono tutte vere, nel senso che esprimono autenticamente il modo di sentire di una persona o di un popolo in relazione a ciò che trascende il mondo sensibile. Secondo questa visione, criticare una religione significa calpestare il patrimonio spirituale di una persona o di un popolo, colpire un aspetto della sua identità. Predicare al fedele di una religione un Dio che non corrisponde al "suo" Dio, quello che si integra pienamente nella sua identità particolare, significa fargli violenza. Una violenza fisica o psicologica, ma sempre violenza.
   Dico subito che se è questo il quadro ideologico in cui si affronta una domanda come la tua, noi credenti in Cristo non abbiamo alcuna speranza di riuscire ad essere convincenti. Perché per noi, per la nostra comprensione del messaggio evangelico, quello che conta in primo luogo non è la ricerca di educate relazioni tra adepti di varie fedi, ma la risposta a una domanda fondamentale: chi è Gesù?
   Molti non se ne sono accorti, ma è proprio questo il tema fondamentale dei quattro Vangeli. Molti li trattano come una raccolta di racconti edificanti e morali, altri come un insieme di superstizioni e un'istigazione all'antisemitismo, ma il momento cruciale della vita di Gesù con i discepoli è descritto nel Vangelo di Matteo:
    "Poi Gesù, giunto nei dintorni di Cesarea di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «Chi dice la gente che sia il Figlio dell'uomo?» Essi risposero: «Alcuni dicono Giovanni il battista; altri, Elia; altri, Geremia o uno dei profeti». Ed egli disse loro: «E voi, chi dite che io sia?» Simon Pietro rispose: «Tu sei il Cristo [cioè Messia], il Figlio del Dio vivente»." (Matteo 16:13-16).
Soltanto un ebreo poteva rispondere come Pietro ha fatto, perché un qualsiasi altro pagano non avrebbe saputo nemmeno che cosa significa la parola "Messia". Si pone allora la domanda: è vera la risposta di Simon Pietro, o no? In entrambi i casi ci sono conseguenze, e molto diverse nei due casi. Un altro passo:
    "Gesù gli disse: «Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me." (Giovanni 14:6).
Anche in questo caso bisogna decidersi: è vera o non è vera questa parola? Se è vera, vuol dire che chi è incamminato su un'altra strada non sta muovendosi verso il Padre, cioè Dio, ma da un'altra parte. Amare qualcuno, per chi crede che Gesù è verità, significa desiderare che lasci la strada sbagliata e si incammini su quella giusta, che porta alla salvezza eterna e alla pace con Dio. Quindi quello che tu dici: "A mio avviso ... in cuor vostro desiderate che tutti credano in Gesù" è la pura verità. Però non è soltanto "in cuor nostro", perché lo diciamo apertamente, in ogni occasione e a tutti.
   A questo punto un ebreo come te può pensare: "Lo sapevo, dice che mi ama ma in realtà mi vuole convertire". Conseguenza: se mi vuole convertire, il suo è un falso amore, perché se mi amasse veramente per quello che sono mi rispetterebbe nella mia identità e non cercherebbe di trasformarmi in qualcun altro." E infatti lo dici:
    «Il mio timore e' che in cuor vostro non ci sia un amore volto a esaltare le differenze tra una religione e l'altra quanto piuttosto il vostro desiderio che gli ebrei un giorno credano a Gesù! Questo sarebbe veramente molto scorretto significa orchestrare nel vostro cuore un desiderio di convertirci... con principi non coercitivi ma ancora peggio di falso amore!»
Parlando di "falso amore" poni anche il problema della verità. Qual è il "vero amore"? Mi ama davvero soltanto chi vuole il mio "vero" bene. Ma allora deve anche conoscerlo, questo vero bene. Se, come dicono i Vangeli, Gesù è "l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo", e se soltanto in Lui chiunque crede ha la possibilità di essere salvato dalla perdizione eterna, di essere riconciliato con Dio e di godere, già su questa terra, il bene supremo che Gesù ha promesso ai suoi discepoli quando ha detto:
    "Vi lascio pace; vi do la mia pace. Io non vi do come il mondo dà. Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti" (Giovanni 14:27)
come si può pensare di amare qualcuno e non desiderare che conosca questo bene incommensurabile che è a sua disposizione e può ricevere per grazia? Se tu potessi vedere quante persone, anche ebrei, hanno trovato già su questa terra una pace che mai avrebbero immaginato, capiresti perché il nostro desiderio che altri credano in Gesù è un'autentica forma di vero amore. Nel nostro sito c'è la testimonianza di un ebreo che ha trovato questa pace, e mi permetto di consigliartene la lettura.
   L'amore di cui ho parlato però riguarda i singoli ed è rivolto verso tutti, ebrei e non ebrei senza distinzione. Ma l'amore per un popolo, e in particolare per il popolo d'Israele, è un'altra cosa. Ho provato a spiegare la cosa in un mio intervento sul nostro sito che ti propongo di esaminare con calma:
   Noi desideriamo intensamente che ogni uomo, ebreo o gentile, sia salvato per grazia mediante la fede in Gesù Cristo, ma non è questo il motivo per cui amiamo il popolo d'Israele. Avendo scelto Gesù, che è indissolubilmente collegato al suo popolo (anche in questo tempo) ci sentiamo anche noi collegati a Israele con una naturalezza che dipende dall'amore che ci lega al Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, che è l'unico vero Dio che attraverso Gesù è diventato anche il nostro Dio. L'amore per Israele è difficile da spiegare umanamente, perché la sua intima motivazione è nascosta in Dio. Si può dire che agli uomini risulta inspiegabile come è altrettanto inspiegabile l'odio del mondo per il popolo ebraico. Ma gli ebrei dovrebbero prendere atto che come c'è un odio immotivato per il popolo d'Israele, così c'è anche un amore immotivato, cioè non legato a interessi particolari, neppure al desiderio di vedere molti ebrei credere in Cristo.
   Rimane certamente un fatto che per onestà e chiarezza non si può tacere. E' vero che un ebreo che arriva a credere in Gesù come il Messia rischia di sentirsi escluso dal suo popolo, e in qualche caso di arrivare anche ad esserlo, perché so bene che il termine "convertito" nell'ambiente ebraico equivale a "rinnegato". Non si può escludere che questo avvenga. Diversi hanno dovuto fare questa esperienza dolorosa. Però l'esclusione dal proprio ambiente d'origine, molto spesso soltanto momentanea, non è qualcosa che può capitare soltanto agli ebrei. Posso portarti anche il mio caso personale. Sono nato e cresciuto in una famiglia cattolica, ma durante l'adolescenza ho smesso di considerarmi tale e mi sono considerato agnostico. Poi a diciotto anni ho cominciato a leggere il Vangelo e mi sono "convertito", intendendo dire con questo che mi sono convertito al Cristo vivente. Sono diventato allora un vero "cristiano" conforme all'Evangelo, e questo mi ha fatto vedere distintamente l'idolatria presente nel cattolicesimo, che sempre più chiaramente appare come una gigantesca patologia del messaggio di Gesù. Ho avuto un po' di problemi con il mio ambiente di origine, ma sono stato sostenuto dalle promesse di Dio contenute nella Scrittura e alla fine ho trovato il giusto equilibrio di cui ringrazio il Signore ogni giorno. Gesù ha avvertito con una parola chiara che vale per tutti. e non solo per gli ebrei:
    "Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; e chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me. Chi non prende la sua croce e non viene dietro a me, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita la perderà; e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà." (Matteo 10:37-39).
Però c'è una differenza: un musulmano che arriva a credere in Gesù non è più musulmano; un buddista che arriva a credere in Gesù non è più un buddista; un ateo che arriva a credere in Gesù non è più un ateo; anche un cattolico come me che arriva a credere in Gesù non è più un cattolico; ma un ebreo che arriva a credere in Gesù resta un ebreo, anzi invera la sua identità. Potrei citarti i casi di molti ebrei assimilati a cui poco importava il fatto di essere ebrei, se non altro per gli inconvenienti che procurava, i quali una volta arrivati alla fede in Gesù hanno sentito risvegliarsi in loro il senso profondo della loro identità ebraica. Anche di questo si può trovare un esempio nel nostro sito
   Gli ebrei messianici sono allora l'espressione storica, di rilevanza eccezionale, di questo fatto. E' un fenomeno che praticamente non esisteva ancora quarant'anni fa. Sono una realtà che nessuno, tanto meno un ebreo, dovrebbe trascurare. Ovviamente noi non lo facciamo, ma non per motivi trionfalistici, perché il rapporto con questa nuova realtà pone problemi nuovi anche a noi cristiani. Anche noi gentili che crediamo in Cristo siamo costretti a "darci una regolata", perché il confronto con gli ebrei messianici ci spinge a considerare aspetti del messaggio evangelico che spesso abbiamo trascurato, portandoci a fare riflessioni talvolta faticose. Ma il fatto è lì. Volerlo ignorare non è realistico, non è onesto. E noi non vogliamo farlo, anzi, siamo più che contenti di registrare questa meravigliosa opera che Dio sta facendo in questi ultimi tempi.
   Con questo termino, pur essendo consapevole che molte domande potrebbero essere ancora fatte. Sono sempre pronto a continuare il discorso, se lo riterrai opportuno. Ma in una cosa almeno spero di essere riuscito a convincerti: che siamo sinceri e non abbiamo secondi fini né retropensieri. Il nostro desiderio di vedere ogni persona riconciliarsi con Dio mediante una fede autentica in Cristo e il nostro sincero amore per Israele, come popolo eletto collegato alla sua terra, sono fatti che convivono in noi con molta naturalezza. L'avevo già scritto in passato:
    "Per i cristiani fedeli alla Scrittura due cose devono restare inalterate indipendentemente dalle circostanze del momento: l'amore per Israele e il suo popolo, e la proclamazione pubblica che Gesù è il Messia, il Figlio di Dio e il Salvatore del mondo" (Notizie su Israele 270).
Ti saluto con simpatia,
Marcello Cicchese

Lo scambio purtroppo è finito qui. Nulla impedisce che un giorno possa continuare, eventualmente con altri interlocutori.

(Notizie su Israele, 8 marzo 2016)


"Il Technion è multietnico, sbagliato boicottarlo"

Al Politecnico studiano ragazzi di ogni Paese. E il primo rettore fu un certo Einstein.

Gabriele Levy
Restano senza voce a Torino le opinioni contrarie alla campagna italiana per la revoca degli accordi con Technion, lanciata da un gruppo di 168 accademici che oggi sono diventati più di 300? «Avevo preparato un breve intervento di circa cinque minuti, ma ho deciso di non farlo, per espressa richiesta degli organizzatori: il mio infatti era un intervento pro-Technion» dice Gabriele Levy, ingegnere italo-israeliano laureatosi nel 1988 proprio al Technion, il politecnico di Haifa.
   Sono trascorsi pochi giorni da quando, giovedì, si è tenuta la conferenza «Boicotta il Technion!» al Campus Einaudi, nonostante il rettore avesse negato l'autorizzazione a occupare quegli spazi per quello che non era come un dibattito plurale, a più voci. «Gli studenti hanno comunque occupato un'aula e la conferenza è stata fatta - racconta Levy - All'inizio dell'incontro gli organizzatori hanno spiegato che non erano ammessi interventi della controparte, e a motivare questa posizione c'era sul muro un cartello con la scritta "Rettore: se facciamo una conferenza sul darwinismo, dobbiamo invitare anche i creazionisti?"».
   L'ingegnere dice perciò di aver ripiegato nel taschino il suo intervento e di aver rinunciato a parlare in pubblico. Cosa avrebbe voluto dire? «Lasciando da parte la millenaria disputa dei territori contesi o occupati, e anche quella su chi c'era prima e cosa c'è stato dopo,avrei voluto raccontare ai 168 accademici (che hanno firmato l'appello, ndr) che cos'è il Technion, oggetto del loro boicottaggio, visto che ho avuto il piacere di laurearmi lì in Ingegneria informatica e Ingegneria gestionale nei lontani anni '80». Una delle migliori università tecniche del mondo, secondo i ranking. «Non solo - dice Levy - . Al Technion studiano ragazzi di tutte le etnie e le religioni: circa il 20 per cento degli studenti è arabo, e naturalmente ci sono anche ebrei, buddhisti ed anche tanti atei. Il primo rettore del Technion si chiamava Albert Einstein». Secondo i docenti che hanno aderito all'appello il rapporto attivo e durevole del Technion con l'esercito e l'industria militare israeliana lo rende direttamente complice delleviolazioni del diritto internazionale che essi cornmettono. Questa è la ragione per cui chiedono di interrompere le collaborazioni. «Negli ultimi anni le campagne di boicottaggio hanno danneggiato soprattutto i palestinesi. Alcune settimane fa 90 famiglie palestinesi hanno perso il lavoro proprio grazie al boicottaggio della fabbrica israeliana Sodastream. Anche al Technion c'è gente di tutte le etnie che non ha nessuna voglia di perdere il proprio posto di lavoro».

(la Repubblica - Torino, 7 marzo 2016)


Ha fatto bene l’ingegner Levy a rinunciare al suo intervento: non sarebbe servito a niente. Quelle persone, come tanti altri su questo argomento, non vogliono ascoltare, capire, dialogare: vogliono soltanto scambiarsi fra loro argomenti che li confermino e li aiutino ad odiare. Per loro, come per tanti altri, Israele è puro oggetto di odio. E l’odio puro non tollera di essere disturbato con argomenti ragionevoli. M.C.


"Signora Biden, venga a vedere coi suoi occhi"

Lettera aperta alla moglie del vicepresidente Usa, da tre madri israeliane che vivono a ridosso del confine con Gaza.

Gentile signora Jill Biden, gli israeliani vivono in un bel paese dove non c'è mai un momento di noia. Mai. Israele è una democrazia molto piccola, ma sproporzionatamente colorata e multiforme; molto amata e accogliente ma, a volte, molto molto impegnativa.
Tutte queste definizioni sono vere, ma valgono cento volte di più per noi tre che viviamo nelle comunità israeliane vicine al confine fra Israele e la striscia di Gaza - Yael a Nahal-Oz, Janet nel kibbutz Nir-Yitzhak e Adele nel Kibbutz Nirim - così come per tutte le madri che vivono nelle decine di bucoliche comunità agricole vicine alle nostre....

(israele.net, 7 marzo 2016)


Dieci motivi per cui Bill Gates crede che la tecnologia israeliana stia "migliorando il mondo"

 
Recentemente all'Hangar11 di Tel aviv ha avuto luogo il congresso sul tema dell'innovazione tecnologica Think Next 2016. Quest'anno l'edizione ha celebrato i 25 anni dei Centri di Ricerca e Sviluppo di Microsoft Israel e all'evento è intervenuto il CEO di Microsoft Satya Nadella il quale si è congratulato con gli ingegneri israeliani e i ricercatori per il loro lavoro.
In un discorso trasmesso agli oltre 2.000 partecipanti di Think Next 2016, il fondatore di Microsoft Bill Gates, ha dichiarato che il contributo israeliano verso i settori tecnologici quali analisi e sicurezza sta "migliorando il mondo".
Ecco i 10 motivi per cui Bill Gates crede che la tecnologia israeliana stia migliorando il mondo
  1. I Centri Microsoft di Ricerca e Sviluppo in Israele
    I centri di ricerca e sviluppo Microsoft di Haifa e Herzliya sono uno dei tre centri di sviluppo strategici situati in tutto il mondo, la filiale israeliana è specializzata in tecnologie cloud , business intelligence, analisi di consumo e molto altro ancora.
  2. Sistemi operativi Windows
    Microsoft Israel è da sempre noto per contribuire in modo significativo allo sviluppo di importanti parti del software di Windows così come le sue tecnologie di sicurezza IT.
  3. Software Anti Virus
    Lo sviluppo della suite antivirus Microsoft Security Essential, usata da milioni di utenti in tutto il mondo, è iniziata nel dicembre 2008 nel centro R&D di Herzliya.
  4. Kinect
    Kinect, la linea di dispositivi di Microsoft sensibile al movimento del corpo umano, utilizza come fotocamera la tecnologia sviluppata dall'israeliana PrimeSense. Questa tecnologia ha rivoluzionato l'interazione con dispositivi digitali, permettendo loro di "vedere" in tre dimensioni e consentire agli utenti di controllare un gioco con mani e corpo. Microsoft ha incorporato la tecnologia israeliana nella Xbox 360, Xbox One e nei PC Windows.
  5. Microsoft Ventures Accelerator Tel Aviv
    Il Microsoft Ventures Accelerator di Tel Aviv, istituitonel 2012, è considerato oggi l'acceleratore di impresa di maggior successo al mondo.
  6. Think Next
    Il Think Next è diventato uno dei più importanti eventi tecnologici in Israele. Visto l'enorme successo, Microsoft ha scelto di replicarlo anche negli Stati Uniti, Cina e India.
  7. Soluzioni per la sicurezza informatica
    Nel 2014 e nel 2015, Microsoft ha acquisito le startup israeliane Aorato, Adallom e Secure Islands per migliorare la sicurezza tecnologica dei prodotti offerti. Numerosi rapporti suggeriscono che la multinazionale stia trasformando il suo Centro di Ricerca e Sviluppo israeliano in un nucleo per lo sviluppo globale di tecnologia legata alla cyber-sicurezza.
  8. Motore di ricerca Bing
    I ricercatori israeliani hanno svolto un ruolo di primo piano per lo sviluppo di Bing, il motore di ricerca di Microsoft. Allo stato attuale, Bing è il secondo motore di ricerca più grande negli Stati Uniti dopo Google .
  9. Analisi dei contenuti
    Nel 2011, Microsoft ha acquisito la tecnologia sviluppata dalla startup israeliana VideoSurf per migliorare l'analisi, la ricerca e la scoperta dei contenuti.
  10. Microsoft Forefront Unified Access Gateway
    Microsoft Forefront Unified Access Gateway è un software per computer che fornisce l'accesso remoto sicuro alle reti aziendali sia per i dipendenti che per i partner commerciali. Anche se Microsoft ha interrotto la sua produzione nel 2014, il software per computer sviluppato dalla Whale Communications di Rosh HaAyin, in Israele, è stata a lungo una soluzione importante che garantiva l'accesso sicuro da remoto.
(SiliconWadi, 7 marzo 2016)


Oltremare - Insulti

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Le pubblicità progresso in questo paese sono piccoli pertugi di consapevolezza, che solo dopo diversi anni in Israele si possono capire. Ci si abitua presto a quelle simili in tutti i paesi, da quelle che promuovono il rispetto per gli anziani o il fermarsi davvero alle striscie pedonali, a quella che insegna a riciclare usando dei fantomatici cassonetti arancioni, che non ho mai avuto il bene di vedere in otto anni di vita israeliana, ma immagino che compariranno anche nella Tel Aviv degli inurbati coatti. L'ultima che ho visto di sfuggita mi ha un po' spiazzata. Trattasi di una pubblicità che invita gli ex-militari a restituire il materiale dell'esercito, e lo slogan dice "restituite il materiale e non vi faremo domande". Occhiolino ideale allo spettatore. Nel senso che per "materiale" si intende principalmente armi.
Ora io dico, a parte che qui quasi tutti sono ex-militari. Uomini o donne che siano. E che fra l'altro noi immigrati attempati, cioè arrivati dopo i 26 anni di età, passiamo una vita a domandarci che vita diversa avremmo avuto se avessimo servito la patria come i colleghi e amici. A parte che il numero dei riservisti è altissimo, e che fino oltre i 40 anni ci si aspetta di tornare a servire ad ogni guerra (in media: ogni anno e mezzo). A parte che quasi ogni israeliano che conosco ha l'uniforme lavata e stirata nell'armadio, e teme di non entrarci al bisogno.
Ma se l'esercito fa ciclicamente di queste campagne di restituzione, mi passa il dubbio che metà delle case israeliane siano a rischio esplosione per colpa di quella granata antica e ammaccata, quasi modernariato, messa lì con ordine vicino all'uniforme, nell'armadio… Va beh, allora la prossima volta che vedo la pubblicità progresso per alzare l'ansia sul prossimo terremoto che butterà giù il 60% dei palazzi, o lo tzunami che livellerà tutte le città sulla costa, starò molto più tranquilla. E in Israele non frugate negli armadi altrui, come regola generale.


(moked, 7 marzo 2016)


Romania-Israele: Iohannis incontra Rivlin

Iohannis: "Vogliamo diventare un centro regionale per la lotta contro l'antisemitismo

BUCAREST - La Romania ha l'ambizione di diventare un centro regionale nella promozione dell'educazione sull'Olocausto e nella lotta all'antisemitismo. Lo ha detto il presidente della Romania, Klaus Iohannis, in visita ufficiale in Israele, durante una dichiarazione congiunta con l'omologo israeliano, Reuven Rivlin. "Domani, 8 marzo, la Romania assumerà la presidenza della Alliance of International Holocaust Memorial. Questo riflette il nostro forte impegno rispetto al passato, per ricordare le vittime della Shoah e la lotta all'antisemitismo e la xenofobia. La Romania svolgerà nel modo più responsabile possibile e con grande onore questo compito in stretto contatto con Israele. Abbiamo l'ambizione di diventare un centro regionale per la promozione e l'educazione sull'Olocausto e combattere l'antisemitismo", ha dichiarato il presidente Iohannis che si e detto ottimista circa il rafforzamento delle relazioni tra la Romania e Israele nei prossimi anni.

(Agenzia Nova, 7 marzo 2016)


Biella - Uno Shabbat per la storia

"Uno shabbat assolutamente straordinario, che resterà nella storia della comunità di Biella, sicuramente, ma anche nella storia dell'ebraismo italiano". Risponde così Dario Disegni, presidente della Fondazione Beni Culturali Ebraici in Italia, alle parole di rav Elia Richetti che alla fine della cerimonia che ha visto il sefer casher più antico del mondo rientrare nella sua sinagoga aveva commentato "È stato uno shabbat davvero straordinario, mi spiace per chi non c'è stato"....

(moked, 6 marzo 2016)


Trovata antichissima necropoli in Palestina

di Grazia Terenzi

L'ingresso ad una delle sepolture di Khalet al-Jam'a, vicino la città di Betlemme
(Foto: Rosapaj, Università "La Sapienza" di Roma)
Nella primavera del 2013 è stato scoperto un antico cimitero, vicino Betlemme, che sta fornendo nuove informazioni su una civiltà vissuta 4000 anni fa. In quell'anno si stava costruendo un parco industriale proprio nei pressi della città di Betlemme e durante i lavori è stata fatta questa scoperta interessantissima.
   Il terreno destinato ad edificazione industriare era, anticamente, destinato ad ospitare una necropoli. Quest'ultima, al momento, ha restituito 100 sepolture. La necropoli, secondo gli archeologi, si estenderebbe su una superficie di circa 3 ettari, sul fianco di una collina ed era collegata ad un insediamento a tutt'oggi sconosciuto. Nel 2014 i ricercatori del Ministero del Turismo e delle Antichità della Palestina hanno iniziato gli scavi in quella che è stata chiamata Khalet al-Jam'a, riportando alla luce le prime sepolture. L'anno successivo una missione archeologica congiunta italo-palestinese ha effettuato nuovi sondaggi a Khalet al-Jam'a per pianificare le future esplorazioni, obiettivo delle quali è quello di preservare l'importante necropoli.
 
Amuleti a forma di scarabeo, mutuati da modelli egiziani, trovati a Khalet al-Jam'a (Foto: Rosapaj, Università "La Sapienza" di Roma)
   Il sito risale all'Età del Medio Bronzo e del Ferro ed ha avuto un utilizzo esteso nel tempo: si parla di oltre un millennio e mezzo. Secondo il Professor Lorenzo Nigro, dell'Università "La Sapienza" di Roma, la necropoli era situata lungo antiche rotte commerciali e rifletteva il relativo benessere della società che la utilizzava, benessere che traspare dai corredi funerari rinvenuti: lampade a beccucci, vasi di diverse dimensioni, ciotole con orlo estroflesso, pugnali di bronzo e punte di lancia.
   Anche se la necropoli è stata in parte distrutta dai saccheggiatori e dall'edilizia selvaggia, gli archeologi sono riusciti comunque a trarne utili informazioni. Il luogo è caratterizzato principalmente da tombe a pozzetto, le cui camere sono scavate nella roccia con deposizioni multiple o singole. In una tomba sono
Collocazione della necropoli di Khalet al-Jam'a
stati rinvenuti i resti di un uomo, una donna e un bambino, sepolti con due pugnali di bronzo ed una serie di ceramiche tra cui anche vasi gemelli forgiati attaccati l'uno all'altro. Un'altra sepoltura conteneva i resti di un individuo di sesso maschile, sepolto con una lampada in ceramica; questa sepoltura, secondo i ricercatori, risalirebbe ad un periodo antecedente l'Età del Bronzo.
   Lorenzo Nigro ha avanzato l'ipotesi che la città alla quale la necropoli era collegata possa aver subito una crisi profonda intorno al 650 a.C. circa, crisi che ha determinato la cessazione delle sepolture a Khalet al-Jam'a. La natura di questa crisi non è ancora ben chiara, malgrado si sappia che gli imperi assiro e babilonese puntavano, proprio in quegli anni, alla conquista di questo territorio.
   Una delle sepolture conteneva degli scarabei risalenti alla XIII Dinastia egizia (1802 - 1640 a.C. circa). Gli Egizi erano molto attivi, all'epoca, in questa regione, nella quale stavano espandendo i loro contatti commerciali. Tuttavia gli archeologi ritengono che gli scarabei che hanno ritrovati siano stati prodotti in loco. Lo scarabeo era un simbolo molto importante, nell'antico Egitto. In alcuni casi venivano posti, al collo dei defunti, ciondoli a forma di scarabeo per garantir loro un viaggio sereno nell'aldilà. Uno degli scarabei trovati a Khalet al-Jam'a era inciso con disegni di spirali e geroglifici.

(Le Nebbie del Tempo, 6 marzo 2016)


Israele, giù la popolarità di Netanyahu ed Herzog

Un netto calo della popolarità del primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu e del leader dell'opposizione laburista Isaac Herzog emerge da un sondaggio di opinione condotto dalla televisione commerciale Canale 2.
Se elezioni politiche si svolgessero oggi il Likud riceverebbe solo 26 seggi (rispetto ai 30 ottenuti al voto di un anno fa) e il 'Campo Sionista' del binomio Herzog-Tzipi Livni scenderebbe da 24 a 18 seggi, sui 120 della Knesset.
In ascesa invece due esponenti del centro-destra, entrambi oggi all'opposizione. L'ex ministro delle finanze Yair Lapid passerebbe da 11 a 19 seggi, e l'ex ministro degli esteri Avigdor Lieberman salirebbe da 6 a 8 seggi. Stabile invece la Lista araba unita che in questo sondaggio mantiene i 13 seggi conquistati l'anno scorso in parlamento.

(Corriere del Ticino, 6 marzo 2016)


Barellieri imbranati

Il capitano prende in braccio l'infortunato

I barellieri imbranati colpiscono anche in Israele: durante Maccabi Herzliya-Maccabi Ahi Nazareth lo staff medico trova non poche difficoltà nel trasportare fuori dal terreno di gioco uno dei giocatori ospiti, Moamen Saleh. Il capitano della formazione in maglia verde, frustrato, prende in braccio il compagno e lo porta a bordo campo.

(la Repubblica, 6 marzo 2016)


Buche nella strada per Gaza

GERUSALEMME - La Route 232, che porta al valico di Kerem Shalom, è la strada attraverso la quale passano gli aiuti umanitari verso la Striscia di Gaza.
Quasi 1.000 autotreni fanno la strada (nella foto) tutti i giorni da Israele al valico su questa strada a doppio senso e stretta, riporta Ynet. Oltre a camion di aiuti che viaggiano su questa strada, ci sono veicoli militari della Divisione Idf Gaza, comitive di studenti e veicoli privati dei residenti dal Consiglio regionale di Eshkol che vi circolano. Da anni ormai, i residenti hanno cercato di farla allargare, portandola a quattro corsie, senza alcun risultato.
   La manutenzione della strada è scarsa: ci sono decine di buche; le banchine ai suoi lati sono strette, rendendo i sorpassi molto pericolosi, come testimoniano i numerosi incidenti anche mortali registrati. La questione della Route 232 è stata sollevata nel corso di una riunione tra le comunità al confine di Gaza e il primo ministro Benjamin Netanyahu la scorsa settimana, che ha esaminato le soluzioni temporanee per espanderne il percorso.
   Anche i camionisti lamentano la situazione sulla strada. Al momento, però, il ministro dei trasporti, Yisrael Katz, ha recentemente deciso di vietare il traffico dei mezzi pesanti sulle arterie che portano al valico di Kerem Shalom tra le 07 e le 09 del mattino e tra le 03 e le 05 del pomeriggio, nel tentativo di aumentare la sicurezza dei residenti. Il ministero dei Trasporti israeliano, di fronte alle continue lamentele ha risposto così: «Il governo israeliano ha deciso di realizzare il miglioramento della Route 232 e di ampliarla per avere due corsie per senso di marcia».

(AGI, 6 marzo 2016)


Rapporto Idf: la posizione strategica di Israele è migliorata

GERUSALEMME - La posizione strategica di Israele è migliorata: è quanto si legge in un rapporto delle Forze di difesa israeliane (Idf) relativo agli scenari di sicurezza del 2016. Secondo l'Idf una nuova guerra contro Hamas sul fronte sud, oltre che un nuovo acuirsi della tensione nei confronti di Hezbollah a nord, restano scenari bellici possibili. Difficile capire se "il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto", si legge nel commento del "Jerusalem post" al rapporto: la situazione di Israele può essere vista in diversi modi ma l'analisi oggettiva mostra che i rischi non mancano, come però allo stesso tempo le opportunità. Il rapporto è stato redatto col contributo dei dipartimenti di ricerca del Mossad e dello Shin Bet, rispettivamente le agenzie di intelligence estera e interna israeliane.

(Agenzia Nova, 5 marzo 2016)


"Il libro come corpo", Va in scena Bi-bli-o-logia al Petach Tikva Museum

di Giorgia Calò

   
 
 
Non tutti sanno che la piccola cittadina di Petach Tikva, a qualche decina di chilometri da Tel Aviv, ospita uno dei musei d'arte contemporanea più all'avanguardia, il Petach Tikva Museum of Art. Il museo, pensato come un luogo di dialogo e di scambio, si offre come piattaforma espositiva per artisti nazionali e internazionali. Diretto da Drorit Gur Arie, il museo venne fondato nel 1964. AI momento della sua riapertura, nel 2004, la collezione che parte dagli anni Venti, è stata ampliata con l'aggiunta di giovani artisti tra i quali Rami Maymon, Dina Shenhav e Keren Assaf. Da oltre dieci anni Gur Arie (premiata come miglior curatore dell'anno dal Ministero israeliano, e confermata come tale anche dalla rivista londinese "Monocle", nel 2012) porta avanti un programma tanto raffinato da riuscire a catturare l'attenzione degli addetti ai lavori (e non solo) di tutto il mondo. Il Petach Tikva Museum ha il merito di porsi all'interno di una visione interdisciplinare che unisce arte visiva e cinema, architettura, danza e performance. La programmazione espositiva si concentra spesso su temi geopolitici e sociali, offrendo un ampio spettro di argomenti che vanno dalla sfera culturale israeliana alle questioni relative alla società mondiale in epoca contemporanea. Accanto alle mostre temporanee, il museo funge inoltre da piattaforma per un'ampia attività culturale, di ricerca e discussione critica di questioni chiave della società israeliana.
   Fino al 19 marzo il museo ospita una delle mostre più interessanti della stagione invernale: Bi-bli-o-logia, The Book as Body, curata da Drorit Gur Arie e Raphael Sigal. Una decina di artisti, da Avital Geva a Micha Ullman, mettono in scena varie espressioni di arte contemporanea nel rappresentare il libro come oggetto fisico. Da qui il titolo della mostra che esplora gli aspetti sacri e profani del libro, così come la sua conservazione o la sua scomparsa.
   I curatori della mostra hanno voluto creare uno spazio fluido e interdisciplinare che mostra, fianco a fianco, opere d'arte contemporanea ed oggetti di valore storico e culturale. Evitando qualsiasi forma di gerarchia che potrebbe tracciare i confini che distinguono un libro da un'opera d'arte, una libreria da un museo e un luogo di esposizione da un sito della memoria, si sposta l'attenzione sul rapporto tra lingua e testo, tra opera ed oggetto. Bi-blio-logia in questo modo mette in risalto la posizione del lettore, dell'artista, dell'archivista, del filantropo, dello scrittore e naturalmente del curatore.
   Oltre a una serie di opere d'arte contemporanea, tra cui installazioni, video, fotografie e sculture, alcune delle quali sono state commissionate appositamente per la mostra, Bi-blio-logia dispone di oggetti di alto valore culturale e storico provenienti dalla Biblioteca Nazionale di Israele, dal Cairo Genizah, da Yad Vashem e da altri importanti archivi. Tra gli oggetti in mostra alcuni sono pezzi rari esposti al pubblico per la prima volta, come i manufatti rituali ebraici del diciannovesimo secolo, e i libri che furono di proprietà del celebre filosofo tedesco Walter Benjamin.
   Tra le opere in esposizione va citata la grande installazione Broken Horizons, realizzata da Maya Zack e Stuben21 (duo di designer Nicole Horn & Peter Daniel), commissionata appositamente per la mostra. L'installazione ricostruisce una biblioteca che ospita libri di varie discipline e che i visitatori possono fruire realmente. I titoli esposti ruotano intorno ad un argomento specifico: il senso di appartenenza e di casa, e la condizione di diaspora che inevitabilmente crea una percezione di estraneità, aspetti questi che hanno forgiato, attraverso i secoli, lo stile di vita dell'esistenza ebraica. La biblioteca progettata da Stuben21 convive con i lavori di Zack, simulazioni al computer posizionate sulle pareti della sala che rappresentano Beit Midrash. Queste immagini traggono ispirazione da una varietà di fonti, tra cui fotografie di luoghi di culto e di studio provenienti dall'Europa dell'Est e da Gerusalemme. L'intero progetto si propone come una capsula che racchiude un tesoro di conoscenza del passato e del presente.
   La mostra nella sua complessità è concepita come un'esperienza multimediale, un'ambientazione plurisensoriale atta a favorire un incontro dinamico e partecipativo con lo spettatore.

(Shalom, febbraio 2016)


Gerusalemme di corsa

di Lorenzo Cazzaniga

Gerusalemme prega, Tel Aviv si diverte. Venerdì 18 marzo il concetto più celebre (e reale) di Israele verrà ribaltato quando migliaia di appassionali podisti si daranno appuntamento alla sesta edizione della Jerusalem Winner Marathon. C'è chi si accontenterà di una sgambata da 5 km, chi si cimenterà con le più impegnative gare sui 10 km e mezza maratona e chi, infine, vorrà emulare Fidippide e percorrere i 42,195 km della maratona completa, magari a caccia di un record personale. La differenza. rispetto alle decine di altre manifestazioni di questo genere che si svolgono a ogni latitudine (ormai non c'è grande città che non organizzi una maratona), è che a Gerusalemme si corre accanto a tremila anni di storia, legati a tutte le religioni e letteralmente sfiorando alcuni dei luoghi più sacri del cristianesimo, dell'ebraismo, dell'lslam, qualsiasi sia la distanza prescelta.
   Nella maratona completa è a circa metà percorso che si entra nella Old City, il momento di maggior emozione. II varco prescelto, probabilmente il più affascinante, è quello della Porta di Jaffa, inaugurata nel 1538 nell'ambito della ricostruzione delle mura della Città Vecchia voluta dal sultano Solimano il Magnifico (meno magnifico quando decise di uccidere i due architetti non appena si rese conto che avevano lasciato fuori dalla cinta muraria il Monte Sion e la Tomba di Davide). Resta comunque una meraviglia entrare dall'unica porta che si apre sul lato occidentale, a fianco della zona più alta della Città Vecchia, dove si trovano appunto la Torre di David e la Concattedrale del Santissimo Nome di Gesù.
   Un momento indimenticabile sarà la vista della parte occidentale del Muro del Pianto. probabilmente il luogo sacro più famoso della Terra Santa, quindi il percorso si snoderà in una sorta di strada parallela alla Via Dolorosa (che secondo la tradizione corrisponde al percorso lungo il quale Gesù, portando la croce è stato accompagnato al luogo della sua crocifissione), prima di uscire dalla Città Vecchia dopo aver attraversato il quartiere armeno (in sostanza non si tocca il quartiere islamico, per il quale varrà la pena dedicare una mezza giornata successivamente e ammirare la Cupola della Roccia da vicino).
Il percorso sarà anche piuttosto impegnativo perché la città è un continuo saliscendi: il Monte Sion (765 metri), l'altura sulla quale nato nucleo originario dell'attuale città e il Monte Scopus (826metri), oltre ai panorami che regalano alcuni scorci dall'alto della Old City, sono i must che aiutano a superare la fatica.
   Ma Gerusalemme non è solo la Città Vecchia e, anzi, la maratona consente di ammirare anche la parte nuova e più moderna. spesso un po' trascurata dai classici tour religiosi. Si parte infatti da Rippin Road e si avvista subito la celebre Knesset, il Parlamento di Israele, quindi si passa di fianco all'Israel Museum (da non confondere con lo Yad Vashem, il Museo dell'Olocausto), uno dei più grandi al mondo. Ma non sono da meno i quartieri trendy del German Colony, detto anche Moshava di Rehavia e Talbiya.
   Per tutti, seppur in punti leggermente diversi a seconda della distanza di gara, l'arrivo è previsto (come vuole la tradizione di molte maratone cittadine) nella più grande area verde della città, in questo caso il Sacher Park (niente a che fare con la torta viennese). Stretto tra i quartieri di Nachlaot, Rehavia e il complesso di edifici governativi di Givat Ram, ospiterà dalle 18.45 alle 23.30 le varie premiazioni e chiunque voglia celebrare la riuscita della sua impresa. qualsiasi sia la distanza prescelta. Prima del meritato riposo e magari di una seduta di crioterapia, adeguato preludio alle visite dei luoghi sacri, meno di corsa e in maniera più approfondita, che sono l'obbligo del giorno successivo.

(Sport Week, 5 marzo 2016)


Anche a Praga tante pietre d'inciampo

REGGIO EMILIA - Si inciampa, a Praga come a Reggio. Si inciampa nella memoria, per fortuna. Uno dei principali progetti sulla memoria contemporanea seguito da Istoreco è quello sulle pietre d'inciampo, le piccole opere arte collettive ideate dall'artista tedesco Günter Demnig. Cubi di ottone che emergono dall'asfalto, per far inciampare le persone che camminano e attirare la loro attenzione, posate nel luogo dove vittime del nazismo hanno vissuto liberamente per l'ultima volta. Resistenti, militanti politici, ebrei: l'intera Europa è disseminata di pietre d'inciampo. Dal 2015 sono anche a Reggio: 10 sistemate nel 2015 e 10 nel gennaio scorso, a Reggio, Correggio e Castelnovo Monti, dopo un percorso di studio curato da Istoreco con diverse classi del Viaggio. Alcune di queste classi, quelle dell'istituto Mandela di Castelnovo Monti, sono arrivate a Praga a inizio marzo e di fronte al loro hotel nel cuore cittadino hanno avuto la prima sorpresa: tre pietre d'inciampo a una manciata di metri dall'ingresso dell'albergo. Praga è punteggiata di queste pietre, che ricordano ebrei e resistenti uccisi dai nazisti, e l'hotel del viaggio si trova in una zona purtroppo densa al riguardo, vicino allo splendido quartiere ebraico di Josefov.
   Una scoperta inaspettata per i castelnovesi che nei mesi precedenti avevano conosciuto la storia di quattro loro concittadini catturati nell'ottobre 1944 in una grande retata e poi deportati in campi di lavoro in Germania. Qui la storia è diverse, tre persone di origine ebraica spedite in Lettonia per la "liquidazione". Vista la recente esperienza al riguardo, la classe del Mandela si è messa all'opera: le pietre erano sporche, e loro le hanno pulite, sistemate e omaggiate con un piccolo fiorellino bianco. Che di memoria si possa inciampare, in Appennino come nel selciato di una delle città più belle al mondo.

(Gazzetta di Reggio, 5 marzo 2016)


Israele - La Bibbia si indossa come un gioiello

Un imprenditore israeliano ha creato due microchip che contengono il Vecchio e il Nuovo Testamento.

di Edith Driscoll

I
vecchi e ingombranti tomi della Bibbia sembrano ormai superati. La nanotecnologia ha rivoluzionato il mondo della scienza, della medicina e dell'industria, ma ora sta portando un grande cambiamento anche nella religione e nel modo in cui i fedeli possono pregare o consultare i testi sacri.
Un imprenditore israeliano, Ami Bentov, ha inventato dei microchip di silicone che contengono l'intera Bibbia e che possono essere indossati come gioielli: braccialetto, catenina oppure come Stella di David. L'uomo ha lavorato insieme alla TowerJazz, un'azienda che produce materiali semiconduttori: "Ho pensato che avrei potuto utilizzare la stessa tecnologia che viene usata per costruire i telefoni cellulari e i pc, invenzioni che tendono a dividere le persone - ha spiegato Bentov a religionnews.com - per fare qualcosa che invece unisca gli uomini. Le persone che sono più vicine alla propria fede, infatti, sono anche più vicine a se stesse e le une con le altre".
   Il fondatore di "Jerusalem Nano Bible" ha creato due chip che contengono rispettivamente il Vecchio e il Nuovo Testamento: il primo contiene i 24 libri della Bibbia ebraica, scritta in antico ebraico; il secondo, invece, ha al suo interno il Nuovo Testamento, scritto in greco antico. Bentov ha fatto sapere che il suo team è al lavoro per creare anche una versione scritta in inglese.
   L'obiettivo del progetto è, ovviamente, rendere la Bibbia accessibile a tutti, sia da un punto di vista economico, sia da un punto di vista "fisico": il microchip, infatti, è l'ideale per chi ha problemi di spazio in casa, può essere portato ovunque nel corso della giornata ed è anche molto discreto.
"Per tanto tempo ho sentito il bisogno di fare qualcosa per combattere il male e tutta la sofferenza che avevo intorno a me- ha raccontato l'imprenditore, che per anni è stato un corrispondente di guerra - voglio lasciare qualcosa di buono ai miei figli e alle prossime generazioni".

(In Terris, 5 marzo 2016)


Così Italia e Israele entrano in orbita

Il presidente dell'Agenzia spaziale italiana Roberto Battiston racconta la cooperazione tra i due paesi.

di Rossella Tercatin

 
Samantha Crlstoforetti
In Israele, tra i protagonisti della decima edizione dell'llan Ramon Annual Space Conference, c'era anche Samantha Crlstoforetti, astronauta italiana con il record europeo di permanenza di una donna nello spazio In un singolo viaggio Crlstoforetti, con la sua testimonianza, ha conquistato gli studenti dell'Università di Tel Aviv.
Italia e Israele unite da Shalom. Che in ebraico significa pace, completezza, ed è la più popolare forma di saluto. Ma in questo caso, rappresenta l'acronimo di Spaceborne Hyperspectral Applicative Land And Ocean Mission. Ovvero il nuovo progetto bilaterale lanciato dalle Agenzie spaziali di Italia e Israele. A raccontarne gli obiettivi e il significato a Pagine Ebraiche è il presidente dell'Agenzia spaziale italiana Roberto Battiston, nel corso del suo viaggio tra Gerusalemme e Tel Aviv per prendere parte a febbraio alla decima Ilan Ramon Annua! International Space Conference, la conferenza dedicata alla memoria dell'astronauta israeliano che perse la vita nell'incidente dello shuttle Columbia al rientro da una missione. Un appuntamento che ha visto quest'anno l'Italia tra i protagonisti non solo per via di Shalom, ma anche per la presenza, nella delegazione tricolore, di Samantha Cristoforetti, detentrice del record di permanenza di una donna e di un astronauta europeo nello spazio nel corso di un singolo viaggio, che con la sua testimonianza ha conquistato gli studenti dell'Università di Te! Aviv. E infine per l'annuncio della direttrice italiana dello UN Office of Space Affairs (l'Ufficio che promuove la cooperazione internazionale in materia spaziale) Simonetta Di Pippo che ha comunicato l'ingresso di Israele nell'organizzazione. cioè con la capacità di separare lo spettro dei colori. Nelle immagini della Terra che vengono raccolte normalmente, è possibile distinguere i colori, ma non i differenti materiali che li emettono. Attraverso l'osservazione iper-spettrale invece, si potranno cogliere le precise frequenze delle varie molecole. Per esempio si potrà distinguere tra acque più o meno inquinate. L'Italia prevede di lanciare Prisma, il satellite di prova, già nei prossimi due anni. Mentre Shalom, il satellite permanente su cui stiamo collaborando con Israele, dovrebbe essere ultimato entro il 2020.

- Quando parla di scopi commerciali, cosa intende?
  
Esistono ditte, persone, istituzioni, molto interessate ad avere certi tipi di immagini. Ormai il mercato delle immagini satellitari è vastissimo. Possono essere usate per le applicazioni più disparate, dal settore dell'agricoltura a quello della gestione delle emergenze, dell'inquinamento, del monitoraggio del traffico navale e terrestre, delle variazioni climatiche, degli incendi, oltre che per le classiche previsioni del tempo. A seconda dell'uso che ne viene fatto, le immagini satellitari sono concesse gratuitamente o a pagamento. Oggi sono decine i satelliti nello spazio che le forniscono. La caratteristica innovativa portata da Shalom consisterà appunto nella capacità di osservazione multispettrale che permetterà di identificare non solo i colori, ma i materiali che sono a terra.

- Lei ha viaggiato in Israele diverse volte. Come trova il paese dal punto di vista dell'approccio alla scienza e alla ricerca?
  
Israele è un paese estremamente vivo, molto giovane, con una grande capacità di formare ed entusiasmare i ragazzi. In questi giorni ho visitato un liceo i cui studenti stanno sviluppando dei nano-satelliti che verranno lanciati nell'ambito di un progetto internazionale. Li ho visti motivatissimi e bravissimi. Si capisce che in questo modo si riescono a stimolare le nuove generazioni a fare attività in campo scientifico e tecnologico, una caratteristica fondamentale nel mondo moderno, dove la conoscenza e la competenza tecnica sono alla base dell'economia. L'impegno in campo spaziale poi favorisce la collaborazione internazionale. In Israele dunque vedo un paese molto serio, determinato a fare cose utili e a farle bene, con competenze ed eccellenze industriali straordinarie, con cui l'Italia collabora ottimamente.

- li luogo comune invece vuole che gli studenti italiani non si appassionino alle materie scientifiche. Dal punto di vista dell'educazione dei giovani, l'Italia potrebbe fare di più?
  
Quello scolastico italiano è un sistema solido e valido, che viene da un retaggio culturale di tipo umanistico. È una caratteristica profonda da cui l'Italia si sta riprendendo lentamente. Guardare a paesi come Israele, ma anche Cina e India, vedere con quanta determinazione e dinamismo formano la nuova cultura basata sulla scienza piuttosto che sulla storia e sulle lettere antiche fa una certa impressione dal punto di vista italiano, perché è chiaro che il futuro del mondo sta nell'essere cittadini in grado di controllare, conoscere e sviluppare le nuove tecnologie.

- Secondo lei il viaggio e la popolarità di Samantha Cristoforetti hanno risvegliato qualcosa?
  
Certamente. Se non altro perché ha fatto aprire gli occhi sullo spazio alla popolazione femminile. Samantha si è trasformata in un modello capace di rompere gli stereotipi dei ruoli tradizionali. E poi la sua capacità di comunicare in modo brillante e fresco l'esperienza nello spazio ne ha fatto un fenomeno internazionale, con un impatto assolutamente positivo.

- Se qualcuno le obiettasse che in un momento di crisi economica. investire nello spazio potrebbe sembrare uno spreco, cosa risponderebbe?
  
È molto semplice. Gli studi dimostrano che per ogni euro investito in campo spaziale, c'è un ritorno all'economia di un paese tra i due e i sei euro. Questo accade perché l'impatto delle ricerche spaziali nella vita quotidiana è fortissimo. Basti pensare a quanti di noi non potrebbero più muoversi senza un navigatore, e che a utilizzare i satelliti sono ormai i telefoni, la televisione, la meteorologia, mentre si sta aprendo il settore del monitoraggio dei cambiamenti climatici. Se un giorno i satelliti dovessero smettere di funzionare ci troveremmo davanti a un disastro assoluto. E questa è anche la migliore assicurazione al fatto che lo spazio rimanga pacifico.
  Se si cominciasse a utilizzarlo come terreno di scontro infatti, sarebbe impossibile danneggiare i satelliti altrui lasciando intatti i propri. Gli asset spaziali sono fragili, la loro capacità di rendere la vita più bella è incredibile e rappresenta un continuo richiamo alla necessità di vivere assieme. Un po' come accade nella Stazione spaziale internazionale che continua a ospitare russi, americani ed europei anche in momenti in cui sulla Terra i paesi non vanno così d'accordo l'uno con l'altro.

(Pagine Ebraiche, marzo 2016)


Hezbollah porterà la guerra in Israele

Hezbollah non è più una forza difensiva ma offensiva e sarà il pericolo più immediato e letale per Israele. Ad affermarlo è un rapporto pubblicato giovedì dalla giornalista libanese Nour Samaha su Foreign Policy.
Secondo quanto riferisce Nour Samaha che cita una fonte anonima, i combattimenti in Siria hanno portato Hezbollah a sviluppare una sofisticata struttura di comando e controllo, compresi l'uso di moderne reti di comunicazione, l'uso di droni per la ricognizione e la capacità di mantenere per lungo tempo una linea di alimentazione e supporto ai combattenti in prima linea. Questo fa di Hezbollah una forza offensiva e non più solo una forza difensiva, una forza quindi in grado di attaccare Israele. A questo va aggiunto un arsenale di tutto rispetto che tra le altre cose annovera missili tattici balistici, missili Scud, gli iraniani Fateh-110 e i missili M-600 missili, una versione modificata del siriano Fateh-110. Fonti vicine ai terroristi libanesi hanno detto di ritenere che Hezbollah sia in grado di portare la guerra in territorio israeliano...

(Right Reporters, 5 marzo 2016)


Mamme in pista con la pallavolo israeliana

di Michela Di Carlo

 
Si chiama Mamanet e promette di far tornare in pista (e in forma ) le mamme di tutte le età. La disciplina sportiva, nata in Israele dieci anni fa e che nel paese di provenienza annovera oltre 10mila tesserate, ricorda la pallavolo. Bastano una rete e una palla, ma per evitare di farsi male divertendosi, non si pub schiacciare, si trattiene prima di passarla, per poi buttarla dall'altra parte a due mani. E il Cachibol al femminile, un modo per socializzare e praticare un'attività fisico sportiva con positive ricadute sul fisico (meno stress, miglioramento della forza, della resistenza muscolare e della coordinazione motoria). La disciplina è approdata in questi giorni in Italia grazie a un'intuizione del presidente dell'Aics, Bruno Molea, e della responsabile del network italiano Monica Zibellini, che hanno dato il via ai primi seminari formativi Mamanet Italia' con l'intento diffondere attraverso tecnici, comitati e atlete praticanti questo sport in tutta Italia Direttamente da Israele, a insegnare i dettami del nuovo sport ai neofiti, Ofra Abramovich, che l'ha inventato, codificato, promosso e diffuso nel mondo.

(la Repubblica, 5 marzo 2016)


Repubblica non lo dice, ma al primo seminario di Mamanet Italia ha fatto visita anche l’ambasciatore di Israele in Italia, Naor Gilon. Si può vederlo anche qui. Perché questi aspetti della vita israeliana e i loro pacifici effetti hanno così poca risonanza nei media italiani? M.C.


Israele: fuga da grandi città, tutti a Petah Tikva

I dati migratori dell'Ufficio centrale di statistica.

di Massimo Lomonaco

Fuga dalle grandi città: in Israele, come succede altrove, la tendenza in atto è in questa fase quella di lasciare le 'metropoli', soprattutto per piccoli centri dove si vive meglio, anche a causa del costo della vita.
   E così via da Gerusalemme e anche via, ma in forma minore, da Tel Aviv, la città che non dorme mai. Secondo i dati del 2014 pubblicati dall'Ufficio centrale di statistica, al vertice dei posti che si espandono c'e' un piccolo centro come Petah Tikva che nel 2014 ha registrato un saldo positivo di immigrazione (tra ingressi e uscite) di oltre 3.000 israeliani. Al secondo posto si piazza Ashkelon non lontano dalla Striscia di Gaza con 1.537 nuovi cittadini, seguita da Rehovot e poi da Netanya, luogo sul mare in crescente espansione.
   Al contrario, Gerusalemme guida la classifica dei centri abbandonati con un saldo negativo (anche qui tra ingressi e uscite) di 6.740 persone in meno, seguita da Ashdod porto sulla costa sud di Israele con 2.280 cittadini usciti dal comune. Al terzo posto c'e' Bat Yam, cittadina balneare, vicino Tel Aviv, con 1.774 residenti in meno. Poi Haifa, polo industriale del nord del paese di recente messa sotto accusa per l'inquinamento, che ha perso 1.147 iscritti al municipio. Ed ecco Tel Aviv che ha contato nel 2014 930 cittadini cancellati dalle liste comunali. Ma chi lascia Gerusalemme e Tel Aviv, quali mete sceglie all'interno di Israele? Secondo i dati dell'Ufficio di statistica, nel complesso delle uscite dalla Città Santa (17.091, in parte compensate da 10.351 ingressi per un saldo negativo di 6.740) in molti (1.464) hanno scelto la campagna della non lontana Beit Shemesh, altri (1.454) proprio Tel Aviv.
   Da quest'ultima (che ha contato 21.449 uscite e 20.519 ingressi, con un segno negativo di 930 persone), il complesso delle partenze non si è spostato poi così lontano ed ha scelto (2.017 persone) il sobborgo della città di Ramat Gan. O, un po’ più distante ma sempre a portata di mano, Holon (1.289). In 445 hanno scelto invece Gerusalemme, eterna concorrente di Tel Aviv.

(ANSAmed, 4 marzo 2016)


ICE: azioni di partenariato in Israele

Deadline per le manifestazioni di interesse: 16 marzo

L'Agenzia ICE sta ultimando le Azioni di partenariato in Israele in vista della prossima pubblicazione del Bando Industriale italo-israeliano 2017.
Lo scopo è promuovere la collaborazione industriale e gli accordi di partenariato industriale e tecnologico con controparti israeliane nei seguenti settori oggetto del bando: medicina, biotecnologie agricoltura e scienze dell'alimentazione, applicazioni dell'informatica nella formazione e nella ricerca scientifica, ambiente, trattamento delle acque, nuove fonti di energia; innovazioni dei processi produttivi; tecnologie dell'informazione e spazio- osservazione della terra.
Il bando per l'anno 2016 è pubblicato in base all'Accordo di Cooperazione tra Italia e Israele ed offre l'opportunità alle imprese nazionali di usufruire di finanziamenti - anche a fondo perduto- per implementare progetti di ricerca e sviluppo condotti con controparti israeliane.
A seconda della tipologia di aziende partecipanti e delle loro esigenze, saranno realizzate diverse attività quali: incontri di approfondimento sulle opportunità offerte dal Bando industriale, workshop con presentazioni aziendali, incontri B2B e visite presso siti di interesse.
Le attività saranno realizzate in Israele o in Italia nella prima metà del mese di luglio 2016 e in seguito a successiva valutazione verrà effettuata un ulteriore tappa a gennaio 2017.
E' possibile manifestare il proprio interesse a partecipare entro il prossimo 16 marzo compilando questo modulo.

(Agenzia Spaziale Italiana, 4 marzo 2016)


Il colonnello Patel nuovo capo delle difese missilistiche israeliane

 
Moshe Patel
GERUSALEMME - Il colonnello Moshe Patel, già dirigente della compagnia israeliane Elbit, è stato nominato dal ministero della Difesa israeliano nuovo capo dell'Homa, il comparto del ministero della Difesa che sovrintende lo sviluppo delle difese missilistiche, in sostituzione di Yair Ramati licenziato alla fine di dicembre. Lo riferisce il quotidiano israeliano "Jerusalem post". Attualmente Patel ricopre l'incarico di direttore presso l'azienda Elisra, filiale della Elbit che si occupa di difesa missilistica e dovrebbe assumere l'incarico già nelle prossime settimane. Dando notizia della sua nomina il ministero ha ricordato che ha più di 20 anni di esperienza nel campo della difesa missilistica e che ha già lavorato nell'ambito dei sistemi Freccia 2 e Freccia 3, per la "Fionda di Davide" e nel sistema di difesa aerea "Cupola di ferro". La rimozione di Ramadi è stata ordinata dopo il ritrovamento nel suo computer di documenti altamente classificati, mossa che viola le norme che impongono al personale il trasferimento di materiale riservato su dispositivi personali e quindi vulnerabili ad attacchi informatici. In una nota il ministero aggiungeva che sono in corso un'indagine per verificare la diffusione di tali informazioni e se Ramati abbia compromesso la sicurezza nazionale con la sua azione. Ramati è stato nominato capo del'Homa, il comparto del ministero della Difesa che sovrintende lo sviluppo delle difese missilistiche, nel 2012. Prima della sua nomina Ramati era stato direttore dell'Industria aerospaziale israeliana e in questi anni ha svolto un ruolo chiave nello sviluppo di sistemi di difesa aerea di Israele, tra cui "Cupola di ferro", concepito per intercettare e distruggere missili a corto raggio e proiettili di artiglieria, "Fionda di Davide", mirato alla distruzione di missili a medio e lungo raggio, e dei sistemi Freccia 2 e Freccia 3 sviluppati per intercettare missili balistici a medio e lungo raggio.

(Agenzia Nova, 3 marzo 2016)


Iran - "La leader della resistenza in esilio Maryam Rajavi ha definito le elezioni una farsa"

FrontPage magazine in un articolo sul suo numero del 1o Marzo, intitolato "Le elezioni iraniane: i 'riformisti' non hanno vinto", critica le affermazioni sulla vincita dei "moderati" alle recenti elezioni in Iran. FrontPage magazine scrive: "Ci potrebbe essere una tendenza più 'moderata' dopo l'apparente strategia di 'moderati' e 'riformisti' di unire le forze per strappare seggi ai più dottrinari integralisti. Tuttavia, ciò non muoverà il parlamento verso nessuna vera direzione riformista. Gli stessi 'moderati' sono piuttosto conservatori ed hanno dimostrato pochissimo interesse da parte loro, per qualunque programma volto ai diritti umani. Né il presidente Rouhani, né i centristi 'moderati' che lo appoggiano, che occuperanno i seggi nell'Assemblea degli Esperti e nel parlamento, metteranno probabilmente in pericolo la loro posizione difendendo un programma 'riformista' troppo ambizioso. Al contrario le esecuzioni sono in realtà aumentate durante la presidenza 'moderata' di Rouhani. La situazione delle minoranze religiose, come i baha'i, i cristiani e musulmani sufi, resta 'terribile', secondo Robert P. George, Presidente della Commissione americana sulla Libertà Religiosa Internazionale. Più 'moderati' nell'immagine di Rouhani al parlamento o all'Assemblea degli Esperti, non cambieranno il pugno di ferro con cui il regime teocratico iraniano governa il suo popolo".
   L'articolo su FrontPage, riconosce l'ampio boicottaggio di queste cosiddette elezioni, da parte del popolo iraniano. Parla anche di ciò che è avvenuto sui social media il giorno delle elezioni e dopo, dicendo: "Non c'è bisogno di dire che gli iraniani in esilio non condividono l'entusiasmo del leader supremo. In alcuni tweets affermano che l'alto numero dei votanti, sbandierato dalla stampa di governo, è stato considerevolmente gonfiato. Affermano anche che molti di quelli che hanno votato, lo hanno fatto per evitare l'espulsione dalle scuole o dal lavoro. Molti giovani iraniani sembra abbiano boicottato le elezioni".
La leader della resistenza in esilio, Maryam Rajavi, ha definito queste elezioni "una farsa". E ha detto: "Queste cosiddette elezioni non intendevano eleggere i rappresentanti del popolo, ma sono state una competizione tra esponenti del regime, attuali e passati, colpevoli di torture ed esecuzioni".
   In ogni caso, a prescindere dai risultati delle elezioni, l'ayatollah Khamenei e i suoi alleati integralisti, come il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche, continueranno a governare l'Iran come riterranno meglio.
   "L'ayatollah Khamenei che, naturalmente, non è stato eletto dal popolo, ha l'ultima parola su tutte le più importanti decisioni di politica estera e interna. L'accordo sul nucleare non ci sarebbe stato, ad esempio, senza il suo consenso, che il leader supremo ha concesso solo dopo aver ottenuto molte concessioni dall'amministrazione Obama e dai suoi partners nel negoziato", scrive FrontPage.
   Parlando delle elezioni truccate, il giornale spiega: "Il risultato è stato efficacemente manipolato in anticipo per preservare le basi del potere degli integralisti anche se avessero perso qualche seggio. Il Consiglio dei Guardiani iraniano, dominato dai conservatori, e formato per metà da teologi nominati dall'ayatollah Khamenei stesso, ha praticamente predeterminato la conclusione delle elezioni pre-selezionando innanzitutto gli eleggibili. Quasi la metà dei potenziali candidati inizialmente iscritti a partecipare, è stata esclusa dal Consiglio dei Guardiani. Meno del 10% di quelli a cui è stato concesso di correre per il parlamento erano donne. Solo agli uomini viene permesso di candidarsi per l'Assemblea degli Esperti".
   Quindi, in realtà, queste elezioni hanno rappresentato poco più che una dimostrazione di un'alta affluenza alle urne, per provare probabilmente un ampio sostegno popolare all'attuale sistema teocratico e per dare un'illusione di "democrazia".

(Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, 4 marzo 2016)


A Venezia c'è un'ombra lunga 500 anni

Il Ghetto della Serenissima sta per compiere mezzo millennio: un luogo che fa riflettere su soprusi e umiliazioni, ma anche inclusione e incontri

di Stefano Jesurum.

 
Tra meno di un mese il Ghetto di Venezia compirà 500 anni. In attesa delle importanti celebrazioni e delle prestigiose collaborazioni internazionali che s'inseguiranno per l'intero 2016, forse è il caso di provare a trarre da quella storia qualche spunto di riflessione. Perché abbiamo bisogno di messaggi e speranze di libertà e dignità per ogni individuo oppresso da reclusioni fisiche e mentali, guerre, fame, attacchi terroristici, campi profughi, banlieue. E dunque quale miglior narrazione se non ciò che un tempo fu area di umiliazione, soprusi e sopraffazione per poi divenire — benché a fasi alterne — laboratorio di inclusione e infine, nella contemporaneità, straordinario luogo di incontro tra ebrei e cittadinanza? Così le calli anguste claustrofobiche e struggenti, i bui sotoporteghi, i campielli rilucenti, le case più alte della città per secoli abitate dal popolo cantato da Rainer Maria Rilke si mostrano per quel che sono, il primo caso di segregazione organizzata e al medesimo tempo un "cortile" chiassoso e vitalissimo, spazio d'incontro tra culture e migrazioni. Mura e spessi cancelli che si chiudevano la sera sono stati e rimangono segno dell'intolleranza altrui ma possono divenire pure simbolo di autodifesa e autoconservazione. La contraddizione è forte e diviene simbolica, un luogo dell'anima dove preservazione di sé significa sia contatto e scambio all'interno della minoranza — tra ebrei provenienti da Spagna, Centro Europa, Medio Oriente —, sia intima contiguità con la maggioranza "segregante". La politica della Serenissima fu per molti versi grande esperimento di inclusione seppur attraverso la ferrea separazione di fedi, mestieri e nazionalità. Esclusione da un lato, garanzia di identità dall'altro, e poi collaborazione. E laddove le proibizioni ponevano ostacoli insormontabili fu proprio la collaborazione tra ebrei e cristiani a regalare al mondo, ad esempio, un terzo dei libri in ebraico stampati in Europa fino al 1650.
   Davanti a noi un futuro che sempre più farà i conti con globalizzazione, flussi migratori, identità complesse, tentazione neorazzista di costruire ghetti per liberarsi dell'altro e/o chiusura in se stessi a tutela del proprio Io. Allora, come il vecchio Melchisedech che Rilke racconta volesse abitare nella costruzione di volta in volta più alta del Ghetto, non ci resta che salire e salire, per cercare di vedere al di là, oltre: «il vecchio continuava a ergersi fiero nella persona e poi a prostrarsi al suolo. E la folla, in basso, aumentava, e non distoglieva lo sguardo da lui: aveva veduto il mare oppure l'Eterno nella sua gloria?». Oppure la libertà?

(Corriere della Sera - Sette, 4 marzo 2016)


Leggi razziali. Il Corriere della Sera si allinea con il regime fascista

Le leggi razziali furono introdotte in Italia nel 1938. Imposero, tra l'altro, l'allontanamento degli ebrei dagli incarichi pubblici. Il Corriere spiega, in questo editoriale, le ragioni del suo sì alla misura.

8 ottobre 1938 - Le grandi prove non sono finite; la Rivoluzione fascista continua il suo lavoro all'interno e il suo cammino all'estero: a questo debbono pensare, se ve ne sono, gli animi tiepidi o incerti o forse anche, in buona fede, perplessi sulla necessità dei provvedimenti ispirati a criteri razziali. Provvedimenti discriminativi, di natura eminentemente difensiva, non persecutoria e che si riducono sostanzialmente a uno solo: l'inconciliabile contrasto fra la mentalità fascista - autoritaria, dogmatica, omogenea - e quella ebraica - ipercritica, corrosiva, eterogenea.
Questo dissidio trova i suoi fondamenti nella differenza di razza, indipendentemente perfino dalla coscienza e dalla precisa volontà dei singoli... Il disordine apportato dalla mescolanza di fattori razziali non assimilati nella vita pubblica e amministrativa italiana era notoriamente sproporzionato al numero esiguo (benché non tanto) degli ebrei viventi in Italia; e ciò per l'accentuato sistematico accaparramento dei posti di comando o, più ancora, di funzioni meno in vista ma sostanzialmente assai delicate, specialmente nel campo spirituale: dall'insegnamento alla letteratura, dall'arte editoriale all'arte pura e semplice, che, sotto l'influsso delle correnti ebraiche internazionali, stava per assumere anche in Italia un andamento nettamente contrario a tutta la nostra tradizione e ai bisogni e ai gusti fondamentali del popolo italiano. Occorreva qui un'energica azione di risanamento, che il Regime ha affrontato senza nessuno zelo vessatorio... Si tratta di direttive precise, alle quali tutti i fascisti debbono aderire non solo per disciplina formale ma per meditato convincimento...
Un primo punto è quello riguardante i matrimoni misti. D'ora in avanti essi sono vietati, in omaggio appunto alla tutela della integrità della razza italiana.
Un secondo punto riguarda le attenuazioni notevolissime apportate all'espulsione degli ebrei stranieri esentandone i vecchi e coloro i quali abbiano contratto un matrimonio misto...
Ma il terzo punto, e più importante di tutti, è quello che si riferisce all'elenco delle benemerenze per le quali agli ebrei italiani vengono conservati tutti i diritti acquisiti... Ci risulta tuttavia che gli elementi veramente degni non saranno esclusi dall'Amministrazione, ma adibiti a compiti di carattere amministrativo. Agli altri, come in genere a tutti i funzionari che vengano a decadere dal loro ufficio, è riconosciuto il normale diritto di pensione. Così l'ardua materia è stata compiutamente regolata.

(Corriere della Sera - Inserto, 4 marzo 2016)


Joe Biden da Netanyahu e Abu Mazen

Arrivera' la settimana prossima

Joe Biden
Il vicepresidente Usa Joe Biden arrivera' martedi' a Tel Aviv per una visita di due giorni durante la quale incontrera' a Gerusalemme il premier israeliano Benyamin Netanyahu e il presidente Reuven Rivlin; poi a Ramallah (Cisgiordania) sara' anche ricevuto dal presidente palestinese Abu Mazen.
I dirigenti israeliani prevedono di affrontare con Biden la questione degli aiuti militari statunitensi, che secondo Israele dovrebbero essere sensibilmente accresciuti per compensare i nuovi rischi con cui lo Stato ebraico dovra' misurarsi in seguito all'accordo sul nucleare iraniano. Da parte loro i dirigenti palestinesi attendono di sapere da Biden se gli Stati Uniti abbiano nuovi progetti per procedere alla realizzazione della formula dei Due Stati, mentre sul terreno si moltiplicano le tensioni e le violenze.

(ANSA, 4 marzo 2016)


Egitto - Partito Tagammu: l'espulsione di Okasha dal parlamento è un avvertimento per Israele

IL CAIRO - L'espulsione del deputato Tawfik Okasha dal parlamento egiziano "rappresenta un segnale inviato a Israele" per dimostrare che Il Cairo non accetterà mai una normalizzazione dei rapporti con quel paese. E' quanto afferma il presidente del partito di sinistra egiziano Tagammu, Ali Abdel Al, intervistato dall'emittente televisiva "al Ghad". "Con questa decisione - ha aggiunto - il parlamento del Cairo ha voluto far capire che non ha accettato il fatto che Akkash si sia incontrato con l'ambasciatore israeliano e abbia discusso con lui della situazione della sicurezza in Egitto. Per quanto ci riguarda Akkash ha violato i nostri principi per il suo incontro con l'ambasciatore israeliano e chiediamo provvedimenti per i 12 deputati che lo hanno difeso in quanto in parlamento nessuno deve consentire la normalizzazione dei rapporti con Israele".

(Agenzia Nova, 4 marzo 2016)


Pagine Ebraiche domanda, Rouhani si stizzisce

Molto ha fatto discutere la conferenza stampa organizzata a Roma dall'ambasciata iraniana durante la quale un giornalista di Pagine Ebraiche ha posto al presidente Hassan Rouhani una domanda sui diritti civili negati, eludendo la rigida censura dei funzionari di Teheran e ottenendo in cambio il rigoroso silenzio dal leader sciita, fino ad allora prodigo di proclami propagandistici, Di fronte alla domanda di Adam Smulevich Rouhani ha lasciato la sala visibilmente infastidito. Caporedattore Esteri di Le Monde, Christophe Ayad ha intervistato Rouhani a Parigi assieme ai colleghi Mare Perelman e Ludovic Piedtenu. "Abbiamo anticipato i temi che intendevamo toccare. Ma nessuno - ci spiega - si è sognato di chiederci nel dettaglio le singole domande". Dalla crisi siriana al conflitto tra sunniti e sciiti, dalla fine dell'embargo alla negazione dei diritti umani. Temi veri, domande vere. Che la stampa italiana si è ben guardata dal porgli.
   Come ci conferma Ayad con la sua testimonianza, il confronto risulta impietoso. A Parigi infatti le due conferenze stampa che sono state organizzate, pur ristrette come tempistica, non hanno visto soggiacere i colleghi a richieste di censura. A Roma, come noto, è successo esattamente il contrario. E così, mentre da noi Rouhani ha parlato della straordinaria ospitalità italiana e del sole "che splende su Roma", ai cronisti di Le Monde ha dovuto rispondere a domande un filino più pertinenti. "Il punto è questo: siamo giornalisti e le domande dobbiamo farle. Sta poi al nostro interlocutore decidere se rispondere o meno. Ogni altra soluzione non è compatibile con il nostro lavoro", sottolinea Ayad a Pagine Ebraiche.
   "Una situazione come quella verificatasi a Roma, con il controllo preventivo delle domande e l'accettazione passiva di questa richiesta, non si sarebbe mai potuta verificare in Olanda. I giornalisti non avrebbero accettato questa umiliazione, si sarebbero fatti sentire. E non solo in Olanda, anche in molte altre nazioni d'Europa. Come Inghilterra, Germania, Svezia" spiega Maarten Van Aideren, corrispondente del Telegraaf ed ex presidente dell'Associazione Stampa Estera. "Visto come sono andate le cose - aggiunge poi - ho fatto bene a non partecipare a un incontro così inutile". Di domande scomode Ahmad Rafat se ne intende. Sono oltre 30 anni che non può tornare a Teheran per via del suo impegno da giornalista libero, che incessantemente denuncia i crimini e i soprusi compiuti dai diversi regimi iraniani. Quando era vicedirettore dell'Adnkronos, nel 2008, fu persino cacciato dalla sede romana della Fao, dove di lì a poco avrebbe dovuto parlare Ahmadinejad. ''Scoppiò un caso internazionale" ricorda Rafat, cui fu impedito l'accesso alla sala. Pochi mesi dopo a Ginevra, nella sede delle Nazioni Unite, un nuovo momento di tensione. Rafat chiede conto al leader iraniano della costante negazione dei diritti compiuta sotto il suo governo. Ahmadinejad non risponde, preferendo - pochi istanti dopo, in un corridoio - far rispondere un uomo della sua scorta che aggredisce il giornalista. ''Mi mise letteralmente le mani alla gola, fu un gendarme svizzero a impedire il peggio", spiega Rafat. Sulla conferenza stampa romana il collega ha le idee chiare: ''Uno spettacolo pietoso, per tutta la categoria''.

(Pagine Ebraiche, marzo 2016)


Porte per interni. Effebiquattro in Israele alla Design Week

Effebiquattro Milano, il produttore di porte per interni e il contract, ha presentato la sua collezione all'evento di Tel Aviv.

Si è conclusa nei giorni scorsi la prima edizione della Israel Design Week, l'appuntamento che ha richiamato a Tel Aviv architetti, designer, progettisti e appassionati di design. A un pubblico di oltre 30 mila operatori professionali, Effebiquattro ha presentato le collezioni di porte per interni in vero legno: prodotti innovativi, che esprimono la sensibilità verso l'ambiente, adatti alle specifiche esigenze del Paese mediorientale.
Unica azienda italiana del settore, Effebiquattro ha partecipato all'evento esponendo le collezioni in vero legno NoDoor, Newport e Wall caratterizzate dal design e dallo stile made in Milano e da plus tecnici che offrono una qualità straordinaria. Design Week è stata anche l'occasione per rinforzare il legame con Israele attraverso la partnership con il distributore locale Parket-4-U.
Tra i visitatori dello stand Effebiquattro, anche lo chef abruzzese Massimiliano Di Matteo vincitore di MasterChef Israele.

(Guida Finestra, 3 marzo 2016)


Israele cerca i pellegrinaggi alternativi

di Oriana Davini

Proporre pellegrinaggi alternativi per agganciare la fascia giovane e accontentare i repeater: l'ente del turismo di Israele prova a smarcarsi dalle solite rotte a favore di nuovi prodotti.
"Stiamo promuovendo il Gospel Trail, un percorso in Galilea di 60 km percorribile a piedi, in bici o a cavalo e suddiviso in quattro tappe, quindi adatto anche ai city break", spiega Avital Kotzer Adari
Proprio quest'ultima è una formula sulla quale il ministero del Turismo sta puntando, investendo nella costruzione di boutique hotel e strutture 3 stelle con la speranza di aumentare gli arrivi dopo il calo del 3 per cento del 2015.

(ttgitalia, 3 marzo 2016)



E se le più celebri trasmissioni della tv occidentale esortassero all'assassinio di musulmani?

Una graffiante campagna video per denunciare l'istigazione all'odio e alla violenza verso gli ebrei che imperversa sulla tv palestinese.

La donna col coltello: "Attento, Israele! Attento!" (dalla tv palestinese)
Immaginatevi di accendere il televisore e vedere Oprah Winfrey che non mette in palio la solita auto, ma fa un appello diretto ed esplicito a favore della violenza, a dir poco bizzarro e decisamente inappropriato per una qualunque trasmissione televisiva: "America, uccidi i musulmani". Dopo di lei è la volta di Francis Underwood, il politico impersonato da Kevin Spacey in House of Cards, che guarda nella telecamera come sa fare lui è scandisce: "Non appena arriverò alla presidenza ucciderò i musulmani, e nessuno potrà fermami". E il conduttore del celebre telequiz che chiede ai concorrenti: "Qual è il modo migliore per uccidere i musulmani?"....

(israele.net, 4 marzo 2016)


Russia e Iran, il nuovo asse strategico

di Tatiana Santi

 
Missili S-300
Si rafforza sempre più la collaborazione militare fra Iran e Russia, alleati importanti anche sullo scacchiere siriano e per gli equilibri nella regione. Quello russo-iraniano, al di là della fornitura a Teheran degli S-300, è un asse strategico e utile per entrambi i Paesi su più fronti.
  Il petrolio forse è la vera incognita di questi rapporti, perché l'Iran uscito dalle sanzioni dell'Occidente diventa così un vero concorrente di Mosca nell'ambito energetico. Qual è l'importanza dei rapporti fra Iran e Russia negli equilibri del Medio Oriente e sullo scacchiere geopolitico? Sputnik Italia ha raggiunto per una riflessione in merito Mirko Molteni, giornalista esperto di storia e argomenti militari, collaboratore di "Analisi Difesa" e del quotidiano "Libero".

- I rapporti tra Russia e Iran sono sempre più stretti. Sullo scacchiere siriano l'asse russo-iraniano è determinante nella lotta al Daesh?
  Certo, perché riesce a controbilanciare l'intromissione della Turchia e dei suoi maggiori alleati, i sauditi, nella guerra siriana. Senza contare i rifornimenti di armi che l'Iran fornisce alle milizie libanesi di Hezbollah, che a loro volta appoggiano Assad nella guerra al Califfato. L'Iran intervenendo in Siria e in Iraq e rafforzandosi militarmente nel Golfo persico minaccia il potere dell'Arabia Saudita, la quale a sua volta è alleata della Turchia. In questi ultimi anni l'Iran è uno degli alleati ideali della Russia in questa regione. Anche per la Russia l'Iran è utile perché è un Paese alleato che equilibra la sua strategia. È interessante notare che ai tempi dell'Unione Sovietica, gli iraniani tendenzialmente guardavano a nord con preoccupazione, perché l'URSS confinava direttamente con l'Iran e già negli anni '70 lo Shah di Persia comprava soprattutto armi americane. Finita la guerra fredda è venuto a mancare questo fattore, per cui la nuova Russia ha potuto proporsi come utile alleato politico militare e anche Paese amico con cui tenere rapporti commerciali proficui.

- Paradossalmente uscendo dalle sanzioni però l'Iran è diventato un concorrente della Russia nel settore energetico?
  Sicuramente l'Iran è anche un concorrente della Russia per quanto riguarda la produzione del petrolio. Gli iraniani hanno confermato che, prevedendo appunto un grosso incremento nelle esportazioni dovuto all'eliminazione delle sanzioni, la loro produzione giornaliera verrà aumentata da 4 milioni a 4 milioni 700 mila barili. I russi questo lo sanno, perché sempre in questi giorni il ministro russo dell'energia Alexandr Novak ha dichiarato che sono stati raggiunti degli accordi tra i maggiori Paesi produttori dell'OPEC, per limitare la produzione di petrolio in modo da non fare crollare i prezzi. Questi accordi per il momento non prevedono l'adesione iraniana. Lo stesso ministro Novak ha dichiarato che essendo appena usciti dalle sanzioni, l'Iran non può pensare di limitarsi ancora dopo 30 anni di restrizioni.
  La Russia sicuramente vede l'Iran come un concorrente sotto l'aspetto petrolifero, comprende anche però che nella loro particolare situazione non possono fare altrimenti se non aumentare un po' la produzione. È anche vero che se l'Iran commercia del petrolio in più e ottiene ulteriori entrate, potrà a sua volta pagare altre forniture russe. Sono soldi che possono giovare nel commercio con la Russia. Pensiamo per esempio agli appalti firmati recentemente per 40 miliardi di dollari per aziende russe che in Iran lavoreranno nel settore delle ferrovie e per la centrale nucleare di Bushehr.

- Le forniture degli S-300 sono solo un esempio, si parla anche dei Su-30. Qual è l'importanza strategica di questa collaborazione da un punto di vista militare?
  Queste forniture militari dalla Russia all'Iran si inquadrano nella generale situazione strategica che vede i governi di Mosca e Teheran alleati soprattutto per quanto riguarda la posizione comune nei confronti dell'ISIS. Sappiamo che la Russia è intervenuta da mesi in Siria appoggiando il regime di Damasco, ma anche gli iraniani sono presenti da tempo con i loro volontari sciiti sia in Siria che in Iraq.
  La recente visita in Iran del ministro della difesa russo Schoigu ha rinsaldato ancora di più i rapporti russo-iraniani e ha dato conferma al prossimo arrivo in Iran dei caccia Sukhoi 30 SM, anche se non si conosce ancora il numero esatto. Questi aerei costituiscono un grosso passo avanti per Teheran, dopo anni di utilizzo di aerei vecchi per via delle sanzioni. Poi la visita di Shoigu sancisce gli accordi per la fornitura dei missili antiaerei S-300. Si è detto che forse alcuni di questi missili fossero già stati consegnati, trasportati per nave attraverso il Mar Caspio. Poi i governi hanno smentito questa cosa.
  La cosa sicura è che il governo di Teheran ha confermato che nel 2016 l'Iran avrà questi missili e avrà mandato in Russia 80 ufficiali per addestramenti all'uso degli S-300. Non è escluso che l'Iran compri alla Russia alcuni grossi Ilyushin Il-76 nella versione MKI, utilizzabile per il rifornimento in volo.

- Questa collaborazione fra l'Iran e la Russia è già vista male dagli Stati Uniti, che parlano di una violazione dell'embargo nel caso la Russia vendesse aerei da combattimento all'Iran. Secondo te l'asse russo-iraniano come influirà sul contesto geopolitico?
  I rapporti russo-iraniani possono essere molto importanti per entrambi, perché sia Russia che Iran proprio geograficamente è come se si coprissero le spalle a vicenda. Confinano attraverso le acque del Mar Caspio, un mare interno in cui le forze navali americane sono totalmente assenti. Il Mar Caspio assicura proprio una via logistica e di traffici invulnerabile rispetto a qualsiasi reazione americana. Non è come nei mari aperti dove le navi americane potrebbero fare blocco. Siccome l'Iran si trova in un complesso sistema di equilibri in Medio Oriente, fa da contrappeso rispetto all'Arabia Saudita e Turchia. L'utilità fra i due alleati è reciproca.

(Sputnik News, 3 marzo 2016)


Iran: una falsa democrazia che costa caro

di Roberta Papaleo

Gli iraniani sono liberi di accettare o di rifiutare la 'democrazia' del Leader Supremo, ma il mondo arabo ne sta pagando un caro prezzo.

Quale che sia il concetto di 'democrazia' per le autorità di Teheran, l'attuale regime iraniano è sorretto da una solida base di carattere teocratico-securitaria che detiene il diritto di scegliere chi può candidarsi al parlamento, chi all'Assemblea degli Esperti e chi, infine, dev'essere etichettato come traditore. Questa 'democrazia' è riservata a quanti si oppongono alla politica del regime, prima di finire in esilio o in prigione.
   Tuttavia, sta solo agli iraniani decide se il regime dei Mullah, sostenuto dalla Guardia Rivoluzionaria e i suoi sistemi di intelligence, riflette più o meno le sue aspirazioni. Il vero problema è che l'attuale amministrazione USA si fida del regime di Teheran più di quanto lo facciano gli iraniani stessi. E questa situazione sta costando caro al mondo arabo.
   Di certo, gli arabi hanno pagato un caro prezzo - in termini di politica, di sicurezza e di sviluppo - le scommesse di Barack Obama sulla vittoria di Hassan Rohani alle presidenziali nel 2013 e sulle fatwa di Ali Khamenei sulle armi nucleari. Credo sarebbe ingenuo separare la posizione negativa di Washington nei confronti della rivolta siriana dai negoziati condotti in Oman sul nucleare con Teheran alle spalle dei suoi alleati arabi. Ancora, sarebbe ingenuo separare tali negoziati dalla decisione di Washington di concentrare tutti i suoi sforzi nella lotta contro Daesh (ISIS), contro Al-Qaeda e persino contro l'islam politico sunnita 'moderato' in Medio Oriente.
   Nel frattempo, nelle ultime settimane la macchina mediatica statale iraniana - che ormai è penetrata con successo nel mondo arabo - non ha fatto che sottolineare "l'importanza" delle elezioni. In seguito, i media si sono concentrati nell'evidenziare "l'alata partecipazione" alle votazioni, segno di un ampio sostegno popolare, cosa che Washington e Mosca avevano bisogno di vedere per giustificare l'aver dato all'Iran un maggiore ruolo nella regione alle spese degli arabi.
   Purtroppo, finora gli arabi non sono riusciti a contrastare questa imminente minaccia con la dovuta lucidità e solidarietà. Ancora peggio, alcuni paesi arabi rifiutano di vedere il potenziale pericolo costituito da questo assalto dell'Iran all'ordine internazionale e alla coesistenza settaria, nonostante quanto accade in Iraq, Siria, Libano e Yemen. In questi quattro paesi, Teheran ha diversi gradi di "controllo": dall'occupazione de facto in Iraq e Libano, alla guerra civile aperta in Siria e Yemen. Da parte sua, l'Iran ha fornito a questi paesi strumenti di divisione e distruzione delle istituzioni statali: armi, assassini politici, autobombe, nonché agitazione settaria alimentata tramite i media.
   Un regime fascista come quello di Teheran potrebbe risultare pericoloso anche per coloro che lo aiutano: l'apparato di intelligence della Guardia Rivoluzionaria è sempre più intollerante anche nei confronti di quanti promuovono gli interessi dell'Iran, in nome della libertà e della democrazia.
   Sin dal 1948, le principali potenze occidentali hanno negato di riconoscere il diritto di auto-determinazione dei palestinesi perché hanno sempre dichiarato che Israele "è l'unica democrazia in Medio Oriente". Oggi vediamo una società israeliana sempre più "militante" e una reazione palestinese sempre più estrema alle spese della "soluzione a due Stati".
   Oggi l'Occidente, al timone della comunità internazionale, sta commettendo lo stesso errore: si concentra solo nella lotta contro Daesh, ignorando l'estremismo dei Mullah di Teheran e della Guardia Rivoluzionaria e dimenticando che "l'estremismo genera estremismo".


Da un articolo in arabo di Eyad Abu Shakra, managing editor di Asharq Al-Awsa. Traduzione e sintesi di Roberta Papaleo.

(ArabPress, 3 marzo 2016)


Non si capisce in che modo l’auto-determinazione dei palestinesi e la “soluzione due Stati” avrebbe potuto evitare al regime iraniano di essere fascista. M.C.


L'Europa regala 252 milioni agli amici dei terroristi

di M.G.

 
Il momento è delicato: non c'è una lira in cassa e bisogna fare fronte alle spese per sostenere l'emergenza immigrazione. Pertanto, l'Unione europea si vede costretta per la prima volta nella storia a limare il budget destinato agli aiuti ai Paesi extracomunitari per reperire le risorse da distribuire tra gli Stati membri onde aiutarli a fronteggiare la questione migratoria.
   Nonostante le ristrettezze, c'è però un capitolo di spesa cui a Bruxelles non hanno intenzione di rinunciare: quello relativo agli stanziamenti per i palestinesi. Quello tra la Ue e la Palestina, d'altronde, è il più radicato degli amori: l'Unione mena vanto di essere il maggior donatore multilaterale di aiuti intemazionali ai rifugiati palestinesi (solo nel periodo tra 2007 e 2014 è stato donato oltre un miliardo di euro) e le istituzioni comunitarie non perdono occasione per offrire alla causa palestinese la propria forza d'urto in termini di lobbying (per l'esempio più recente vedere alla voce etichettatura dei prodotti israeliani provenienti dalle colonie).
   Pertanto, si allarghino i cordoni della borsa e si proceda a dotare i palestinesi dei dovuti quattrini. Che non sono propriamente pochi: 252,5 milioni di euro per l'esattezza. Lo stanziamento sarà diviso in due tronconi: il primo e più consistente (170,5 milioni) sarà destinato direttamente all'Autorità nazionale palestinese. Questi soldi, informa una nota della Commissione, serviranno alle spese dei servizi sanitari e scolastici, al sostegno delle famiglie povere e al funzionamento degli ospedali di Gerusalemme Est. La seconda tranche da 82 milioni sarà invece destinata all'Unrwa, l'agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei profughi palestinesi nel vicino oriente e verrà utilizzata per la fornitura dei servizi di base.
   Il punto è che gli organismi destinatari del denaro non sono noti per essere al di sopra di ogni sospetto. L'Anp è stata ripetutamente accusata da Israele di utilizzare parte dei soldi ricevuti a titolo di aiuto internazionale per finanziare attività terroristiche arrivando persino a creare una sorta di sistema di welfare pubblico per il sostentamento delle famiglie dei guerriglieri caduti, per così dire, in servizio; discorso simile per l'Unrwa, la cui contiguità con gli elementi radicali della galassia palestinese (inclusa Hamas) è stata al centro di più di una controversia.
   Per Bruxelles, tuttavia, va benone così: «Attraverso questo pacchetto l'Unione europea ha rinnovato il suo impegno concreto verso i palestinesi», dichiara l'Alto rappresentante della Pesc Federica Mogherini, invitando le autorità locali ad operare «basandosi sul rispetto dello stato di diritto e sui diritti umani, elementi cruciali in vista della creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano».

(Libero, 3 marzo 2016)


Mosè ritrova la parola grazie a 250 mila volontari

Lavorando da casa con un software hanno decifrato un papiro trovato nell'800 in migliaia di pezzi e messo online ne è emersa un commedia ispirata al Libro dell'Esodo.

di Vittorio Sabadin

Duemila anni prima di Charlton Heston nei Dieci comandamenti, un altro attore recitava sulle rive del Nilo la parte di Mosè, in una commedia scritta nello stile greco e ispirata al Libro dell'Esodo. Lo ha scoperto il più grande gruppo di ricercatori che si sia mai messo all'opera su un antico papiro: circa 250.000 mila persone che, lavorando da casa al proprio computer, stanno aiutando l'Università di Oxford a ricostruire e a dare un senso a migliaia di documenti trovati più di un secolo fa a Ossirinco, a 190 chilometri dal Cairo.
  Nel 1897 due studenti, Bernard Grenfell e Arthur Hunt, avevano scoperto in una montagna di spazzatura appena fuori dall'abitato dell'antica capitale del XIX distretto dell'Alto Egitto un inestimabile tesoro di frammenti di papiro, che coprivano un arco storico tra il I secolo a.C. e il VII d.C., gli anni della dominazione greca e romana. I documenti recuperati e portati nella Sackler Library di Oxford dai due archeologi dilettanti erano circa 500.000 e decifrarli tutti sembrava un'impresa impossibile. Nel 2012, 105 anni dopo, ne erano stati trascritti solo 5.000 e a quel ritmo sarebbero occorsi altri 10.000 anni, un'intera era geologica, per venirne a capo.

 Trascritti 200 mila testi
  Un profeta in scena: "Così la principessa mi salvò dalle acque"

«Poi la principessa con le sue ancelle scese per il bagno. Quando mi vide, mi prese in braccio e si accorse che ero ebreo. Mia sorella Mariam corse verso di lei e parlò: "Posso trovare una bambinaia per questo bambino degli ebrei"? La principessa la esortò a farlo, Mariam andò a cercare nostra madre, che apparve subito e mi prese tra le sue braccia. La principessa le disse: "Donna, alleva questo bambino e pagherò il tuo compenso". Lei poi mi chiamò Mosè; perché mi aveva tratto dalle acque sulle rive del fiume».

  L'idea giusta è venuta al professor Dirk Oddbink: se la Sackler avesse messo a disposizione online i frammenti di papiro, sarebbe stato possibile utilizzare il lavoro di migliaia di volontari grazie a un particolare software che avrebbe reso molto semplice la decifrazione anche a chi non conosceva il latino e il greco antico. È nato così l'Ancient Lives Project, che si avvale di algoritmi noti agli astrofisici di Oxford grazie ai quali ogni singola lettera identificata da un volontario è messa in correlazione con le altre e con testi dell'epoca, in modo da ricostruire pazientemente ogni scritto nel database centrale.
  L'adesione al progetto è stata entusiasmante e persino nelle scuole studenti e scolari contribuiscono a svelare i papiri della discarica di Ossirinco. «Da quando il progetto è partito - ha detto Oddbink al sito web dell' Independent di Londra - grazie all'aiuto dei volontari abbiamo potuto trascrivere quasi 200.000 testi, mettendo insieme frammenti di papiri mangiati dai vermi o usati per incartare il pesce, o peggio».
  Uno di questi è proprio il lavoro teatrale scritto all'inizio del I secolo a.C. in trimetro giambico da un certo Ezechiele, nel quale Mosè recita un lungo monologo per descrivere come fu salvato dalle acque dalla principessa egizia e consegnato poi a una balia che era in realtà sua madre. Dell'esistenza di questo lavoro aveva parlato all'inizio del 300 Eusebio di Cesarea, uno dei padri della Chiesa, ma non ne erano mai state trovate copie. Un altro testo inedito e prezioso scoperto tra i frammenti di Ossirinco è una parziale trascrizione di Andromeda, la commedia di Euripide rappresentata nel 412 a.C. e andata perduta. Ne conosciamo la trama grazie a pochi frammenti rimasti, ma è la prima volta che alcune righe del lavoro vengono alla luce. «È come - ha commentato Oddbink - avere ritrovato un testo di Shakespeare che nessuno conosceva».

 Un antico teenager ribelle
  Molti dei papiri gettati nella discarica sono prescrizioni mediche e brevi trattati di medicina. Dopo una sbornia, si consiglia ad esempio di avvolgere il collo con foglie di Ruscus racemosa, un rimedio che si potrebbe provare anche oggi, visto che la pianta è in Italia dai tempi dei Medici. Un altro documento descrive l'esame autoptico, effettuato nel III secolo, di una ragazza di 12 anni, una schiava morta annegata nel Nilo mentre nuotava con i suoi amici. Nei frammenti si leggono molte storie di vita familiare che mostrano a volte straordinarie affinità con la vita di oggi. In un papiro, ad esempio, c'è la prova che i teenager non sono mai cambiati: un ragazzo di 14 anni dice a suo padre che se non avrà il permesso di andare nella grande città di Alessandria smetterà di bere e mangiare.
  Il grande lavoro sui papiri di Ossirinco prosegue in migliaia di case del mondo grazie a persone anonime che aiutano l'Università di Oxford a svelare un pezzo di storia. E leggere per primo qualcosa che nessuno ha letto da migliaia di anni dà a tutti la stessa emozione che provano gli archeologi quando entrano in una tomba inviolata.

(La Stampa, 3 marzo 2016)


Agente di sicurezza israeliano ferito da una ragazza palestinese

GERUSALEMME - Un agente delle forze di sicurezza israeliane è rimasto leggermente ferito dopo essere stato accoltellato da una ragazza palestinese di 14 anni nel villaggio di al Auja nella Valle del Giordano. Lo riferisce il quotidiano israeliano "Jerusalem post". La ragazza è fuggita subito dopo l'aggressione, ma è stata inseguita e raggiunta da un altro agente di sicurezza che l'ha fermata senza ricorrere all'uso delle armi. Poco prima un altro agente israeliano era stato leggermente ferito nella città cisgiordana di Nablus. Questa mattina le forze di sicurezza di Gerusalemme hanno condotto una vasta operazione anti terrorismo in Cisgiordania che ha portato all'arresto di 11 presunti terroristi.

(Agenzia Nova, 3 marzo 2016)


«Io, ebreo, chiedo di essere graziato». Gli appelli per sfuggire alle leggi razziali

Dagli Archivi di Stato gli scritti della comunità milanese all' alba dell'Olocausto. La curatrice: «Questi documenti raccontano tutto il dramma degli anni Quaranta».

di Maurizio Bonassina

Ci sono fogli che quando vengono fuori dai cassetti mettono i brividi. Sarà così all'Archivio di Stato di Milano: carte ingiallite piene di timbri e di suppliche, la stella a sei punte e i corsivi per chiedere grazia.
Gli scritti degli ebrei residenti a Milano (o di stanza provvisoria) saranno messi in mostra: «Gli ebrei a Milano - Le leggi razziali nei documenti conservati all'Archivio di Stato di Milano» è un evento speciale a cui farà seguito la omonima mostra (presentazione il lO marzo, con intervento dell'assessore alla Cultura Filippo Del Como alle 17, via Senato io, ingresso libero).
   La curatrice Alba Osimo (archivista e paleografa) ha predisposto le carte per far tornare indietro nel tempo i visitatori. «Sarà un momento speciale - racconta la curatrice -. Abbiamo selezionato i documenti, quelli più espressivi, per raccontare ciò che è successo agli ebrei milanesi negli anni Quaranta». Tra i fascicoli esposti ci sono i dattiloscritti inviati alla Prefettura in cui si chiede la discriminazione (intesa, in questo caso, come deroga per evitare le sanzioni contro la razza) così da schivare i «provvedimenti» restrittivi e le confische dei beni.
   Comincia, in sordina, l'epurazione. È la media-alta borghesia che fa richiesta: orafi, bottegai, avvocati, insegnanti, notai. Tutti, in base alle promulgazioni del 1938, sono diffidati dal proseguire le attività professionali. Sono anche vietati i matrimoni misti. In più vengono requisite le proprietà e i possedimenti. TI negozio o l'ufficio verranno chiusi: l'editto è immediatamente efficace. I dipendenti, siano essi impiegati, operai o donne di servizio ariane, devono essere allontanati. Ma esistono deroghe: meriti di guerra (la Grande Guerra e quelle colonialiste) o meriti fascisti (!'iscrizione al partito e azioni lodevoli in camicia nera) fanno la differenza.
   Ecco allora le carte e le domande: tra gli antenati un nonno «garibaldino» e tra le donne un passato da «crocerossina», possono valere un privilegio. C'è chi invece chiede l'accertamento di razza: l'albero genealogico, i nonni e i bisnonni a testimoniare l'etnia ariana. E addirittura ci sono famiglie ebree che vogliono salvare la vecchia domestica che ha cresciuto i figli. Per la «tata» vengono allegati (presunti buoni) certificati medici e cartelle ospedaliere. È una corsa contro il tempo. In uno scambio di carteggi le risposte spesso sono negative: bolli e firme per sentenze laconiche e formali, preambolo delle retate, del carcere di San Vittore e poi di Dachau e Auschwitz.
   «Sembrano semplici, ordinarie richieste burocratiche - sottolinea il neo direttore dell'Archivio di Stato milanese Benedetto Luigi Compagnoni - ma, rileggendole oggi, con la storia alle spalle, si avverte pesante il dramma che dietro quei dattiloscritti stava maturando. L'olocausto era alle porte. Gli ebrei milanesi ne erano ancora inconsapevoli. È questo il senso di lettura che vogliamo dare ai nostri visitatori».

(Corriere della Sera, 3 marzo 2016)


Trani torna capitale della cultura ebraica con il Lech Lechà

Dal 14 al 19 concerti, cucina, conferenze e film

di Maria Grazia Rango

«A testa alta», in ebraico, «komemiut». E la parola fondante, che riprende l'atteggiamento tenuto da Mosè al cospetto di Dio, della quarta edizione di «Lech Lechà - Settimana di Arte, Cultura e Letteratura ebraica» in programma a Trani dal 14 al 19 marzo. «A testa alta, con coraggio e senza nascondersi - spiega Francesco Lotoro, co-direttore artistico di Lech Lechà -. La decisione di dare questo sottotitolo fu presa insieme al rabbino capo di Napoli, a novembre, subito dopo gli attentati antisemiti in Francia e non solo, quando c'era qualcuno che suggeriva di non andare in giro con la kippah, e invece noi vogliamo dire che non bisogna nascondersi, perché l'antisemitismo non si combatte celandosi».
   La manifestazione, una delle più importanti dell'ebraismo in Italia, ha il patrocinio e il sostegno di Regione Puglia, Comune di Trani, Unione Comunità Ebraiche Italiane (UCEI), Comunità Ebraica di Napoli, Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria di Barletta, Centro Ebraico di Cultura HaShoresh Doròt Brindisi-Lecce, Fondazione SE CA di Trani, con la collaborazione di Conservatorio di Musica «U. Giordano» di Foggia, Libreria La Penna Blu di Barletta, Vila Viaggi di Trani.
   Per sei giorni quindi Trani sarà capitale dell'ebraismo, con tanti eventi diffusi in vari luoghi simbolo della città, dove si svolgeranno conferenze, presentazioni di libri, mostre, concerti, momenti di studio dei testi scritturali, proiezioni di film e documentari, cucina casher, e lo Shabbat nella Sinagoga Scolanova, la più antica d'Europa. La direzione artistica è affidata a Cosimo Yehudah Pagliara, Ottavio Di Grazia e Lotoro. Pianista e docente di Pianoforte nel Conservatorio di Foggia, Lotoro ha pubblicato l'Enciclopedia discografica KZ Musik in 24 CD-volumi, ed è presidente della Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria di Trani.
   «Questo è il secondo anno che Lech Lechà si svolge a fine inverno, per coinvolgere maggiormente le scuole-continua Lotoro-. Molto spazio verrà dato a Israele, ed essendo il 2016 anno olimpico, ci è sembrato doveroso ricordare il massacro di Monaco del '72, e con noi sarà Raphael Luzon, cugino di uno degli atleti uccisi».
   Il cartellone si articola in sette sezioni che si intrecciano nel corso delle giornate: «Reshit», convegni su ebraismo, storia e attualità ebraica e Israele, «Sefarim», fiera del libro ebraico, mostre e film, «Yeshivà», Tefillòth e lezioni rabbiniche nella Sinagoga, «Il canto di Abramo», concerti, musiche e danze tradizionali ebraiche, «Chi è rimasto a bottega?», cucina casher sotto sorveglianza del Rabbinato di Napoli (per tutta la settimana un ristorante tranese verrà casherizzato e vi si potrà mangiare scegliendo direttamente dal menu pietanze e vino), «Yom ha-Shabbat», il Sabato, apice della settimana ebraica, «li ritorno del Mabit», serata dell'ebraismo tranese.
   Tra gli appuntamenti in programma segnaliamo, nella mattinata inaugurale, il 14 (Aula Magna Liceo De Sanctis, ore 10), la proiezione del docu-film Rinascere in Puglia, a cura dell'Associazione Amici di Maghen David Adom (AMDA-ITALIA); il 15, la conferenza Noi non dimentichiamo. I fatti di Monaco 1972, con la proiezione del film Munich di Steven Spielberg (2005) e gli interventi di Raphael Luzon, Silvia Godelli, Miriam Rebhun (ore 19, Polo Museale); il 16 si parla del volume Tramonto libico. Storia di un ebreo arabo. Prefazione di Roberto Saviano, di Luzon (17.30. Biblioteca comunale); la giornata del 18 è dedicata allo studio dei fondamentali scritturali dell'ebraismo; nella serata finale, il 19, ci sarà il concerto «Il violino di Chagall» dell'Orchestra Giovanile del Conservatorio di Musica di Foggia nel Castello Svevo (20.30). Nel Polo Museale Trani - Palazzo Lodispoto, sarà allestita la mostra fotografica «Il Cantico dei Cantici», a cura di Norma Piedotto.
   L'iniziativa verrà presentata oggi a Roma, nel Centro Bibliografico dell'UCEI (ore 11), con gli interventi di Renzo Gattegna, presidente UCEI, Rav Umberto Avraham Piperno, Rabbino Capo di Napoli, Jacqueline Fellus, presidente Commissione UCEI per la kasherut, Cosimo Yehudah Pagliara, assessore e consigliere della Comunità Ebraica di Napoli, Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia, Amedeo Bottaro, sindaco di Trani, e Francesco Lotoro.

(La Gazzetta di Bari, 3 marzo 2016)


I faraoni e Canaan: l'altra storia in mostra a Gerusalemme

Non solo contrapposizioni, ma sintesi e reciproche influenze

di Lea Luzzati

GERUSALEMME - Nella Bibbia l'Egitto è una meta ambigua, un po' come il suo nome - Mitzraim - che in ebraico porta una desinenza duale. Luogo della schiavitù per antonomasia da cui uscire guidati dalla mano del Signore per trovare la libertà, ma ancor prima se stessi, l'Egitto è anche terra generosa dove non mancano mai le pentole piene di carne. Ed è soprattutto una destinazione ricorrente in un via vai storico e mentale che attraversa secoli di storia ebraica e non solo. Oggigiorno, ad esempio, la stele dello scriba Ramose dedicata alla dea Qadesh (circa 1300 a.C.) è partita dal Museo Egizio di Torino per approdare al Museo d'Israele a Gerusalemme. Sarà uno dei pezzi più importanti di una grande mostra che guarda all'Egitto antico in una prospettiva decisamente nuova.
   «Faraone e Canaan: la storia non detta» è il titolo di questa esposizione che racconta l'epoca del dominio egiziano in terra di Canaan: in altre parole, la Terra Promessa, quella cui approdano le tribù d'Israele dopo l'Esodo e quarant'anni di vagabondaggi nel deserto. Egitto a Canaan per la prima volta non sono qui contrapposte in un'antitesi esistenziale prima ancora che storica - schiavitù/libertà, autonomia/tirannide straniera. Anzi: i reperti dell'archeologia e le (rare) testimonianze scritte parlano di una sintesi, di reciproche influenze. Di una convivenza che si manifesta nell'arte funeraria, nei volti scolpiti che ci arrivano da quel tempo lontano e che parlano di una sorta di inattesa koiné tra una sponda e l'altra di quel Mare dei Giunchi (cioè il Mar Rosso) che miracolosamente si aprì per gli ebrei in fuga dall'Egitto.
   La rassegna al Museo d'Israele che, come spiega il direttore del Museo James Snyder, «svela una estetica sorprendente, straordinarie affinità culturali tra i due Paesi», ci dice in fondo che quelle due sponde del mare a cui il Signore ordinò di aprirsi e farsi asciutto per i figli d'Israele sono state il tracciato di un ponte oltre che un confine drastico. Una lezione quanto mai utile in questo presente che sta trasformando il Mare Nostrum e ciò che gli sta intorno in un teatro di assurdi conflitti.

(La Stampa, 3 marzo 2016)


Start-up, Intesa Sanpaolo entra in Israele

Intesa Sanpaolo ha avviato una partnership strategica con The Floor, nuovo incubatore di start-up fintech attivo da ieri in Israele, aTeI Aviv. Obiettivo di The Floor è diventare un vero e proprio hub: punto di riferimento per il mercato dove, oltre a fare selezione e mentoring di start-up a cura dei partner bancari, vi saranno un centro di ricerca, programmi di formazione per il settore, spazi di co-working e incontro.
   La nascita di The Floor si avvale del contributo del fondo cinese Pando Group e vede quattro banche straniere in qualità di alleati strategici: oltre a Intesa Sanpaolo, Royal Bank of Scotland, Hsbc e Santander. Accanto alle banche sono presenti Intel e Thomson Reuters. La partnership con The Floor permetterà a Intesa Sanpaolo di effettuare lo scouting esclusivo di realtà fintech israeliane e di svolgere attività di mentoring su imprese ritenute interessanti. «Entrare a far parte di The Floor», ha commentato Maurizio Montagnese, Chief Innovation Officer di Intesa, «rappresenta un passo ulteriore nel consolidamento del nostro network internazionale nell'ecosistema dell'innovazione» .

(ItaliaOggi, 3 marzo 2016)


Sodastream e la stella gialla della Ue

A colloquio coi vertici dell'azienda israeliana più boicottata del mondo.

di Giulio Meotti

 
Sodastream, un'isola di pace
ROMA - "A seguito di forti pressioni dai media e dai rivenditori nordeuropei, abbiamo deciso persino che i nostri prodotti per quei mercati portassero la dicitura 'made in China', la madre dei diritti umani".
   Prima di fare l'amministratore delegato di Sodastream, Daniel Birnbaum era il capo della Nike in Israele. Un lavoro molto più semplice. Birnbaum sapeva che il suo nuovo incarico sarebbe stato più politico. Ma non avrebbe mai immaginato di dover chiudere la sua fabbrica principale e licenziare seicento palestinesi a seguito di una campagna di boicottaggio di Israele. Che adesso incassa la sua vittoria più importante. Prima Sodastream, società israeliana leader mondiale nei prodotti di gassificazione dell'acqua, ha chiuso il suo stabilimento principale in Cisgiordania a Mishor Adumim. Poi, ieri, tutti i seicento operai palestinesi sono tornati a casa, senza lavoro.
   Gli ultimi operai palestinesi hanno perso il lavoro a Sodastream a causa del mancato rinnovo dei permessi da parte israeliana. Sabato sera, in un centro commerciale vicino all'ex stabilimento SodaStream, un giovane palestinese, Saadi Ali Abu Ahmad, ha attaccato una guardia israeliana, Tzvika Cohen, che ora lotta per la vita in ospedale. Abu Ahmad lavorava nel centro commerciale, con un permesso. Ora gli israeliani hanno bloccato gli accessi per motivi di lavoro e Sodastream sta lottando per ridarglieli. Dopo l'uscita dell'azienda dai Territori, quei palestinesi dovevano fare la spola ogni giorno fino a Rahat, città beduina dentro ai confini riconosciuti di Israele. Stessa paga, stessa mensa, stessi mezzi di trasporto: dei 1.200 lavoratori Sodastream, 950 erano arabi israeliani e palestinesi.
   "Il Bds (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni di Israele, ndr) è una organizzazione economica terroristica che vuole distruggere Israele" spiega Birnbaum in questa intervista esclusiva al Foglio. "Eravamo l'obiettivo ideale: siamo passati da essere presenti in tredici paesi a quarantacinque in quattro anni; ci siamo quotati al Nasdaq; i nostri ricavi sono passati da 90 milioni a 450 milioni; i nostri prodotti sono visibili in 70 mila negozi in tutto il mondo e abbiamo scelto Scarlett Johansson come sponsor al Superbowl. Siamo stati presi di mira dall'Unione europea con le sue ong che finanziano il Bds. Diciassette stati europei, fra cui l'Italia, hanno definito il nostro business 'illegale'". Fino alla decisione di ricollocarsi. "Il boicottaggio aveva contaminato la nostra reputazione, più che i nostri affari, usando slogan falsi e orrendi. Il messaggio si è diffuso in tutto il mondo, anche nel lontano Giappone e in Nuova Zelanda, così come negli Stati Uniti. La retorica dell'odio si è evoluta da episodi sporadici a qualcosa di più tradizionale, anche nel settore bancario, tra celebrità e imprenditori, e nei campus universitari e nelle strade". Sfortunatamente Israele ha fatto poco per contrastare questo movimento. "La mia azienda per anni è stata in trincea contro di loro, da sola. La loro ideologia ricorda i Protocolli dei Savi Anziani di Sion. Ci hanno accusato di approfittare dell'occupazione, quando la nostra unica ragione per essere nei Territori era dare lavoro a migliaia di palestinesi. I miei dipendenti arrivavano da Gerusalemme est, Ramallah, Hebron, Gerico e Nablus. Eravamo un ponte, l'opposto di un boicottaggio". Birnbaum racconta alcuni episodi per farci capire cosa ha dovuto passare la sua azienda: "In molte occasioni i nostri prodotti sono stati danneggiati con accuse di 'crimini di guerra', 'pulizia etnica'. Un negozio a Brighton nel Regno Unito è stato preso di mira da attivisti due volte alla settimana, per più di due anni. Avevano anche la copertura di membri del Parlamento britannico, in particolare la rappresentante dei Verdi Caroline Lucas. Il nostro ufficio nel Regno Unito a Cambridge è stato attaccato da hooligan con granate fumogene in quello che sembrava un attacco terroristico". Altri casi. Il colosso commerciale inglese John Lewis fece sapere che non avrebbe più venduto Sodastream. Gli attivisti del boicottaggio avevano organizzato picchetti di fronte alla catena, chiedendo di interrompere le vendite di Sodastream e ai consumatori di boicottarne i prodotti.
   Birnbaum è durissimo con Bruxelles, che ha legittimato le campagne di ostracismo e demonizzazione del "made in Israel". "La marchiatura dell'Unione europea contro i prodotti israeliani è come la stella gialla dei nazisti. La Ue ha votato la marchiatura cinque giorni prima delle stragi di Parigi. Perché non ci sono label contro il Marocco che ha invaso il Sahara? O contro la Cina? Solo Israele merita un label? Si chiama antisemitismo. L'Unione europea dovrebbe vergognarsi e chiedere scusa a Israele". 114 marzo, alla Sapienza di Roma, il dipartimento di Economia ospiterà i boicottatori dello stato ebraico. Lo farà a nome dei seicento palestinesi che hanno perso il lavoro?

(Il Foglio, 2 marzo 2016)


Solo in Israele: le parole di una dottoressa araba

Dirige la terapia intensiva e, dice, "non vivrei mai in un altro posto".

Ci siamo incontrate una settimana fa, mentre ero lì per assistere un mio parente. Faiza è a capo del reparto di terapia intensiva, e corre da un paziente all'altro offrendo sempre un sorriso dolce e cure molto professionali.
Faiza vive a Shuafat, un quartiere arabo di Gerusalemme teatro di frequenti disordini. Proviene da una famiglia di undici figli, per la maggior parte laureati nelle università israeliane. Tra un paziente e l'altro, ci scambiamo opinioni sulla vita.
"Amo la mia vita - dice - Mi piace vivere in Israele. Ringrazio ogni giorno Allah per avermi dato l'opportunità di crescere qui. So che se non fosse stato per questo paese, non sarei mai diventata quello che sono. Qui si può scegliere - aggiunge, mentre finisce il caffè della pausa e accenna col capo a medici e infermieri arabi - Israele ti dà la possibilità di esprimere il tuo potenziale umano"....

(israele.net, 2 marzo 2016)


Lo stato del Vaticano è la sostituzione

di Marcello Cicchese

In un articolo dal titolo "Dialogo, avanti con prudenza", che compare sul numero di marzo del mensile "Pagine ebraiche", il rabbino capo della comunità ebraica di Roma, Riccardo Di Segni, prende in esame un recente documento della Commissione vaticana per i rapporti religiosi con l'ebraismo. All'inizio dell'articolo il rabbino scrive:
    «Il documento vaticano è una sorta di bilancio e sintesi su quanto è stato fatto dalla Chiesa cattolica negli ultimi cinquanta anni a partire dalla Nostra Aetate, soprattutto dal punto di vista teologico, nella definizione di come la Chiesa interpreta il ruolo dell'ebraismo e come debba di conseguenza rapportarsi ad esso. Si tratta di un documento molto importante perché rappresenta il punto di arrivo di una lunga strada, ma anche il punto di partenza per gli sviluppi futuri. Trattandosi di una riflessione teologica interna al mondo cristiano, l'osservatore esterno che la segue con attenzione è tenuto al rispetto e alla non interferenza. Quando tuttavia le decisioni che ne derivano hanno un impatto sull'altra parte, è inevitabile essere coinvolti e fare dei commenti per le conseguenze previste.»
 
Al fine di comprendere quali potrebbero essere i punti dell'attuale dottrina cattolica che potrebbero avere conseguenze sgradevoli per gli ebrei, il rabbino entra nel merito di argomentazioni biblico-teologiche del documento, commentandole in modo positivo o negativo secondo i casi. Fatti molto positivi sarebbero l'abbandono della teologia della sostituzione e la rinuncia all'evangelizzazione degli ebrei; fatto leggermente negativo sarebbe il riferimento alquanto lacunoso alla terra e allo stato d'Israele, presi in considerazione soprattutto per la difficile situazione in cui si trovano i cristiani che vivono - cosa unica al mondo - in uno stato a maggioranza ebraica.
   In conclusione, dice il rabbino dopo queste valutazioni teologiche, il dialogo ebraico-cristiano può continuare ad andare avanti, sia pure con prudenza.
   La tesi che qui si vorrebbe sostenere è questa: al fine di capire se la situazione della minoranza ebraica in Italia può essere nel prossimo futuro più o meno rassicurante, la valutazione degli argomenti teologici usati dalla chiesa cattolica non serve a niente.
   Il motivo è semplice: la chiesa cattolica non fa dipendere la sua politica dalla teologia, ma, al contrario, la sua teologia dipende dalla politica. Dunque è alla politica cattolica che bisogna guardare, non alla teologia.
   Ma proprio questo può servire a rassicurare gli ebrei in Italia: la chiesa cattolica oggi non ha alcun interesse a dimostrarsi ostile verso gli ebrei. Al contrario, fa parte della sua "superiore" politica universale presentarsi come amica, o addirittura protettrice, degli ebrei. Soprattutto qui in Italia, dove si trova la sua sede centrale.
   Nei rapporti con le alte gerarchie cattoliche gli ebrei non hanno bisogno di cercare il "dialogo", o di rallegrarsi quando altri lo chiedono; molto semplicemente, possono continuare a cercare la "coesistenza pacifica". Nel passato l'hanno sempre fatto, nelle forme allora possibili: con la condiscendenza, l'accettazione dei limiti, il rendersi utili in vari modi. E in fondo ci sono riusciti: gli ebrei romani sono stati disprezzati, umiliati, sfruttati in mille modi, ma in fondo hanno potuto evitare quei feroci pogrom che in altri paesi si sono abbattuti sui loro fratelli.
   Se le cose oggi sono cambiate non è per un aggiornamento della teologia cattolica, ma per i cambiamenti politici avvenuti dall'unità d'Italia in poi. Per questo il papa oggi può andare dagli ebrei ad offrire qualcosa di cui non hanno più bisogno: il dialogo. Il famoso dialogo. Il mediatore tra gli uomini e la sincretistica divinità annunciata dal papa: il dio sconosciuto che tutti chiamano con il nome che vogliono e a cui si può arrivare per molte vie, tra cui la Torah, tra cui il Cristo. Tra cui anche Maometto? Questo il papa non l'ha detto agli ebrei, forse lo dirà ai musulmani.
   Veniamo adesso al punto presentato come leggermente negativo del documento cattolico: la terra e lo stato d'Israele. Perché l'argomento è stato appena sfiorato? Per le solite ragioni: perché riguarda la politica. Quella vera, per la chiesa cattolica. Non la politica dell'Italia, dell'Europa o del mondo intero, ma la politica dello stato del Vaticano, che è l'elemento fondamentale della teologia cattolica. L'esistenza dello stato d'Israele è una minaccia teologica all'esistenza dello stato del Vaticano. Fino a che esisterà uno stato del Vaticano teologicamente giustificato la chiesa cattolica non potrà dire di aver abbandonato la teologia della sostituzione. Il sostituto del regno messianico promesso a Davide è già presente a Roma. Molti non se ne sono accorti, facilitati in questo dagli amorevoli abbracci che il papa è pronto a dispensare a tutti. Nemmeno il rinnovo del giubileo a Roma ha fatto sorgere il dubbio. Ci si è tolti d'impaccio parlando di "giubileo cristiano", ma questo è da rigettare. Se non sono gli ebrei a respingere l'uso del termine ebraico "giubileo", devono essere i cristiani a respingere l'uso del termine "cristiano". Un giubileo cristiano non esiste. Quello che esiste è un sostituto deformante e illecito del giubileo ordinato da Dio al popolo ebraico in un certo tempo e per determinati scopi. La teologia della sostituzione cattolica è ancora presente, e proprio nei punti fondamentali.
   Ma per quanto riguarda la coesistenza pacifica, gli ebrei italiani possono stare tranquilli: da parte cattolica non avranno disturbi. La situazione può essere paragonata a quella dell'Iran: gli ebrei lì stanno forse un po' più scomodi, ma non sono maltrattati. Il problema dell'Iran è lo stato d'Israele, non gli ebrei del paese. Come per il Vaticano. E in entrambi i casi, per fondamentali motivi teologici. Certo, se gli ebrei iraniani cominciassero ad esprimere atteggiamenti a favore di Israele, non si sa come andrebbe a finire, ma finché se ne mantengono distanti, possono vivere abbastanza tranquilli.
   Gli ebrei italiani vivono ancora meglio di quelli iraniani, ma che cos'è che può metterli a rischio? Forse le loro feste, i loro riti, la kasherut? Certamente no, anzi per queste cose sono sempre più notati e apprezzati. Anche per loro il rischio è rappresentato da quel collegamento con Israele che molti vorrebbero veder spezzato e che invece, nonostante l'impegno di alcuni ebrei "odiatori di sé" antisionisti, continua a mantenersi in coloro che si sentono parte del popolo ebraico. Si rifletta: qual è l'ultimo grave attacco antisemita subito dagli ebrei italiani? L'attentato alla sinagoga di Roma del 1982 che causò la morte di Stefano Gaj Taché. E quale ne fu la causa? lo stato d'Israele.
   Non sorprende allora l'educata leggerezza con cui il papa ha appena sfiorato il tema Israele nel suo discorso in sinagoga: è quello, infatti, il tema fondamentale del rapporto tra chiesa cattolica ed ebrei. E per affrontarlo, anche soltanto come argomento di seria discussione, il dialogo ad alto livello ecclesiastico non serve a niente.

(Notizie su Israele, 2 marzo 2016)



La questione ebraica è la questione israeliana
La questione israeliana è la questione messianica

 


Militari israeliani "deviati" da un App finiscono nella bocca del nemico

di Luca Lippi

 
Le forze israeliane hanno ucciso un palestinese e causato diversi ferimenti durante scontri avvenuti lunedì ultimo scorso a seguito di un tentativo di salvataggio di due soldati che a causa dell'applicazione Waze di Google sono stati ingannati finendo accidentalmente in un campo profughi Palestinese. Questo è quanto reso noto da un portavoce dell'esercito israeliano i due soldati maschi sono erroneamente entrati nel campo profughi di Qalandiya in Cisgiordania quando i palestinesi hanno incendiato il loro veicolo, costringendoli a uscire. I soldati sono fuggiti in direzioni diverse, contattando immediatamente il comando che ha provveduto a soccorrerli entro 30 minuti, traendoli in salvo portandoli fuori dal campo profughi.
   I due uomini, un pilota dell'esercito e il comandante di squadra dall'unità Oketz , stavano utilizzando l'applicazione GPS invece delle mappe tradizionali, questo è quanto emerge dalla prima indagine condotta dal Ministro della Difesa israeliano. "I soldati stavano apparentemente usando Waze", ha detto Yaalon ieri alla Stampa. "Ho imparato secoli fa l'importanza di navigare con l'ausilio di una mappa vera e propria, e, soprattutto, di conoscere il territorio circostante e di non fare troppo affidamento sulla tecnologia che può portare l'utilizzatore fuori strada."
   Il portavoce di Waze, Julie Mossler, ha detto al Newsweek che l'applicazione ha un "ambiente" che evita percorsi in territori palestinesi controllati, e afferma che i militari non hanno utilizzato la funzione aggiuntiva: "L'applicazione Waze include una specifica impostazione di default che impedisce percorsi attraverso le zone che vengono contrassegnati come pericolosi o vietati per gli israeliani" Mossler aggiunge: "In questo caso, l'impostazione è stata disattivata. Inoltre, il militare alla guida ha deviato dal percorso suggerito e, di conseguenza, è entrato nella zona vietata".
   Mossler continua: "Waze ha e sta continuando a lavorare direttamente con le autorità competenti per ridurre il verificarsi di tali incidenti, ma purtroppo non c'è la possibilità di prevenire tutto, in ultima analisi, un po'di prudenza è nella perizia dell'utilizzatore"
   L'esercito israeliano, che non ha voluto commentare sulla Waze App, ha aggiunto: "Durante la notte, una folla ha attaccato un veicolo militare nel campo profughi di Qalandiya. Pietre e bottiglie molotov sono state lanciate contro il veicolo. C'erano due soldati all'interno del veicolo che sono fuggiti a piedi. Durante l'operazione di salvataggio, sono scoppiati dei disordini. I rivoltosi hanno aperto il fuoco contro le forze, e scagliato sassi e bottiglie molotov. Le forze di sicurezza hanno sparato verso la direzione del fuoco. Diverse forze di sicurezza sono rimaste ferite durante la rivolta"

(Intelligonews, 2 marzo 2016)


Aereo Ryanair e jet israeliani, incidente sfiorato

Incidente aereo sfiorato nei cieli israeliani: due aerei da guerra israeliani si sono avvicinati pericolosamente ad un volo civile Ryanair. Ad evitare il peggio, spiega il quotidiano Times of Israel, la prontezza di azione del pilota dell'aereo civile, che ha corretto all'ultimo la rotta per evitare il peggio. La compagnia aerea irlandese ha però negato l'episodio.
  L'incidente è avvenuto martedì primo marzo, quando due jet F-16 dell'aviazione militare israeliana si sono avvicinati oltremodo ad un volo civile nei cieli della regione di Gerusalemme, sul deserto del Negev, sulla rotta verso le piste dello scalo internazionale Ben Gurion.
  L'aereo commerciale coinvolto era un volo della compagnia low cost Ryanair con 167 passeggeri a bordo decollato da Cracovia in direzione dell'aeroporto internazionale Ovda di Eilat, nel sud di Israele.
  Secondo il Times of Israel, i caccia partecipavano a un'esercitazione militare e "i piloti Ryanair hanno evitato la collisione cambiando percorso all'ultimo momento".
  Un portavoce dell'esercito israeliano ha confermato che gli aerei "si sono avvicinati" durante la giornata, ma ha assicurato che "non è esistito alcun rischio di collisione" e che si sta indagando sull'accaduto.
  La compagnia low cost irlandese, che si definisce la più economica d'Europa, ha iniziato a collegare la città di Ovda e diverse città europee nel luglio del 2015, diventando l'unica compagnia che opera voli internazionali nella città meridionale del Paese.
  David O'Brien, amministratore delegato di Ryanair, ha spiegato la decisione con la scelta di venire incontro alle richieste di turismo e viaggi in Europa centrale da parte dei cittadini israeliani.

(blitz quotidiano, 2 marzo 2016)


Per gli Stati del Golfo Hezbollah è un "gruppo terroristico"

Sale la tensione tra il fronte sciita e quello sunnita. Decisione formale di Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar: «Spargono sedizione e violenza».

di Giordano Stabile

 
Militanti di Hezbollah in Libano durante il funerale di un combattente
BEIRUT - I sei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc9, guidato dall'Arabia Saudita), hanno designato l'Hezbollah libanese come «organizzazione terroristica». La decisione segue l'alzarsi della tensione fra il fronte sunnita e quello sciita guidato dall'Iran, che ha in Hezbollah il suo più fedele alleato, anche in Libano.
  La scorsa settimana Riad aveva deciso di sospendere i 4 miliardi di dollari di aiuti militari al Libano a causa delle «interferenze» di Hezbollah in Siria e della sua influenza «negativa» sul governo libanese. Hezbollah partecipa al governo di unità nazionale libanese, e ha due ministri. Ieri sera il leader Hassan Nasrallah ha ribadito i suoi attacchi all'Arabia Saudita ma ha anche detto di volere «l'unità del Libano» e che non lascerà l'esecutivo.

 «Decisione comune»
  I Paesi del Gcc avevano già imposto sanzioni ad Hezbollah nel 2013, dopo il suo intervento a fianco di Bashar al-Assad in Siria contro i ribelli appoggiati da sauditi e Turchia. Arabia Saudita, Emirati arabi uniti e Bahrein avevano già definito, singolarmente, Hezbollah «organizzazione terroristica». Kuwait, Oman e Qatar non l'avevano ancora fatto.
  Riad ha però fatto pressione sugli alleati perché ci fosse una presa di posizione comune. Il segretario generale del Gcc, Abdullatif al-Zayani, ha comunicato che la decisione è stata presa da tutti i Paesi membri che «prenderanno le misure necessarie per rendere operativa la decisione». Il Gcc accusa Hezbollah di «reclutare giovani per condurre attacchi», e spargere «sedizione e violenza», in palese violazione della loro sovranità.

 Il discorso di Nasrallah
  Nel suo discorso di ieri sera, salutato nei quartieri sciiti da raffiche di kalashnikov in aria, Nasrallah ha accusato Riad di aver spinto il Libano in una nuova fase di conflitto politico e accusato i sauditi di aver inviato «autobombe in Libano» per accendere un «conflitto settario».
  Il ministro degli Esteri del Bahrein, Hamad al-Amir, ha detto però che i membri del Ccg non hanno ancora deciso le «misure corrette» da prendere per inserire ufficialmente Hezbollah nella lista nera delle organizzazioni terroristiche, mentre il suo Paese lo ha già fatto lo scorso aprile, diventando così il primo Stato arabo a prendere questa iniziativa dopo avere accusato il gruppo libanese di appoggiare e addestrare gruppi sciiti radicali che si oppongono a Manama.
  La decisione degli altri Paesi del Golfo segue il coinvolgimento militare di Hezbollah in Siria al fianco del presidente Bashar al-Assad.

(La Stampa, 2 marzo 2016)


L'influenza sta per essere debellata?

L'influenza, di qualunque tipo e minacciosità, sta per essere debellata. È questa la speranza che sorge all'indomani del deposito del brevetto di un promettente vaccino da parte di una compagnia israeliana, la BiondVax, fondata e diretta dal dottor Ron Babecoff. L'azienda, situata non distante da Tel Aviv, sta completando il secondo dei tre stadi previsti per l'autorizzazione alla commercializzazione del farmaco, e ha recentemente annunciato che l'agenzia governativa NATI (National Authority for Technological Innovation) finanzierà fino al 40% dell'investimento da quasi un milione di dollari, pianificato per portare a termine lo sviluppo del vaccino anti-influenzale....

(Il Borghesino, 2 marzo 2016)


Dibattito anti Israele, l'Università nega l'aula: "Non c'è contraddittorio"

di Fabrizio Assandri

L'«assemblea contro il Technion» prevista giovedì si terrà lo stesso. Anche se non c'è più una sala e anche se uno dei due relatori sembra aver rinunciato. Gli studenti del «collettivo Palestina» potrebbero tenere l'incontro all'aperto.
   Ieri la Scuola di scienze giuridiche dell'Università ha revocato la concessione degli spazi, un'aula da un centinaio di posti al Campus Einaudi, dopo aver visto il volantino dell'incontro. L'istituto accademico di Haifa con cui Università e Politecnico hanno siglato un accordo di ricerca «è coinvolto - si legge - nell'occupazione e nell'apartheid della Palestina». «Ci era stata chiesta l'aula per un dibattito aperto, non per un'iniziativa così schierata e unilaterale - dice il rettore Gianmaria Ajani -. Sono venuti meno i motivi per cui avevamo concesso gli spazi».
   «Ma i relatori erano quelli - è la replica del collettivo Palestina - mai abbiamo voluto far passare l'assemblea per un seminario con la controparte». A parlare del rapporto scienza-etica doveva essere un docente dell'Università, l'antropologo Roberto Beneduce, firmatario della petizione anti Technion a cui hanno aderito 55 accademici torinesi. E poi Ronnie Barkan, attivista israeliano dei diritti palestinesi. «Beneduce - spiegano dal collettivo - dopo la presa di posizione dell'ateneo rinuncerà all'incontro». Ma da cosa può essere nato l'equivoco? Gli studenti ipotizzano che l'Università abbia considerato Barkan controparte solo perché israeliano. In ogni caso, rigettano le accuse di antisemitismo del docente di semiotica Ugo Volli, ma la discussione verte soprattutto su un altro piano: «Averci tolto lo spazio è un impedimento alla libertà d'espressione all'interno dell'Università». Anche il vicerettore per la ricerca Federico Bussolino si era espresso favorevolmente a concedere gli spazi «anche a un incontro unilaterale». La docente di Geografia culturale Daniela Santus esulta per la revoca dell'aula: «Troppo spesso il diritto d'opinione c'è solo per qualcuno». Per il fisico Alessandro Ferretti «è una sconfitta: non si può pretendere che in ogni incontro ci sia il contraddittorio». Il Consiglio degli studenti, con l'astensione dei tre rappresentanti vicini a CL, attacca la scelta dell'Università: le chiede di fare dietrofront e di ridare l'aula al collettivo perché «la presenza di un contraddittorio non è un prerequisito per un dibattito».

(La Stampa, 2 marzo 2016)


Israele accusa Assad: "Ha usato armi chimiche".

Il governo siriano ha usato armi chimiche contro civili anche dopo l'avvio della tregua di questi giorni. L'accusa arriva da Israele: il ministro della Difesa Moshe Yaalon ha affermato:"I siriani hanno adoperato armi chimiche militari e di recente materiali come la clorina, contro i civili. Incluso questi giorni, dopo il supposto cessate il fuoco, lanciando barili di clorina sui civili".
Già nel 2014 una missione di indagine dell'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac) aveva stabilito che l'uso di gas clorino nella guerra civile in Siria era stato "sistematico", anche dopo che il paese aveva consegnato le sue scorte di armi tossiche.
Sul fronte delle trattative di pace, avviati dall'Onu, la notizia è che riprenderanno a Ginevra il 9 marzo, mentre il presidente siriano Bashar al Assad intervistato dalla televisione tedesca Ard ha offerto ai ribelli una amnistia e "un ritorno alla loro vita civile normale"a patto che "depongano le armi".
Di certo in alcune parti della Siria la tregua è fittizia, lo dimostra il ferimento di 33 giornalisti stranieri; il gruppo è stato attaccato mentre si trovava vicino alla città di confine di Kenbasa, nella provincia siriana di Latakia, nel nord del paese, dove sono esplosi otto colpi di artiglieria provenienti dalla zona di confine con la Turchia. L'azione è stata attribuita ai fondamentalisti di al Nusra, uno dei gruppi a cui non si applica il 'cessate il fuoco'. Almeno tre civili siriani sono rimasti uccisi e altri otto feriti in un altro attacco, sempre attribuito ad al Nusra nella zona di Kenbasa.

(il Fatto Quotidiano, 2 marzo 2016)


Ma quali ayatollah riformisti: in Iran vincono i furbi centristi

di Carlo Panella

 
I "moderati" Rafsanjani e Rohani
Nelle elezioni in Iran, persino a Teheran, non hanno affatto vinto i riformisti, come urla la stampa mondiale con titoloni ad effetto, ma si è imposto il blocco tra conservatori e «principialisti» (i seguaci dell'ortodossia khomeinista). Peggio ancora, l'analisi dei candidati eletti, spiega che l'elettorato non si è affatto schierato a favore dei candidati riformisti, ma si è collocato al centro in maniera nettamente maggioritaria. A Teheran, ad esempio, è vero che tutti e 30 i candidati della lista sponsorizzata da Rohani si sono imposti, ma è ancora più vero che solo una netta minoranza tra loro è riformista e che la maggioranza, il caso classico è quello di Motahri, sono dei conservatori, realpolitiker o «principialisti».
   La crassa ignoranza del contesto politico iraniano dei commentatori e dei giornalisti, sommata al desiderio che la realtà si pieghi ai propri schemi, non coglie un dato fondamentale. In Iran, Paese autocratico e autoritario, non solo non vige una democrazia, ma neanche una struttura dei partiti di tipo occidentale. Le liste elettorali, che non corrispondono affatto a partiti, vengono così composte in modo trasversale, sommando candidati riformisti, conservatori o principialisti. Non solo, i voti che provengono dalla immensa provincia hanno un segno ben diverso da quello di Teheran e premiano molto più il fronte oltranzista-conservatore di quello riformista-conservatore. Dunque, un voto e dei candidati che premiano una sorta di «grande centro», non intenzionato a impostare riforme democratiche e base parlamentare perfetta per la continuazione dell'esperimento di Rohani. Il quale, altro elemento di mistificazione delle analisi trionfanti dei media, non è e non è mai stato un riformista. Al contrario, durante tutta la fase della presidenza Khatami, tra il 1997 e il 2005, quando effettivamente il Parlamento e la presidenza della Repubblica erano controllati dai riformisti, si è ben guardato dallo schierarsi con loro. Insomma, quello che ci viene indicato come il leader dell'area riformista è tutt'altro che un riformista. È un navigato burocrate, che si è sempre tenuto un passo indietro dalla ribalta e dalla esposizione a favore di uno o dell'altro fronte - una sorta di Monti o di Andreotti in tono minore - pur di conquistarsi la fiducia dell'establishment rivoluzionario. Per questo è stato scelto da Ali Khamenei come candidato alla presidenza della Repubblica dopo i due tempestosi mandati dell'oltranzista Ahmadinejad. Per questo è riuscito a condurre le trattative sul nucleare con Obama senza scontentare il fronte oltranzista, che è comunque ancora perfettamente in grado di condizionarlo, ora anche nel nuovo Parlamento. Dunque, per nulla una «svolta moderata», ma la continuazione di un percorso ondeggiante.
   Un risultato sfavorevole alla componente riformista, che si rispecchia nella composizione del Consiglio degli Esperti, istituzione fondamentale perché di qui a poco nominerà il successore della Guida della Rivoluzione, l'autocrate assoluto di tutte le istituzioni iraniane: Ali Khamenei è infatti anziano e molto malato. Qui, i media politically correct si basano solo sul successo di Rafsanjani e Rohani che si sono piazzati ai primi posti e ipotizzano scenari idilliaci. Ma, a prescindere dal fatto pur fondamentale che Rafsanjani è uno dei peggiori figuri della dirigenza khomeinista, dalle mani grondanti di sangue degli oppositori, il dato di fatto è che su 88 membri, i riformisti eletti sono non più di 10. Tutti gli altri appartengono al blocco conservatore o oltranzista. Si è dunque certi che il successore di Khamenei sarà uguale a lui: un mediatore che, alla fine, fa pendere sempre l'ago della bilancia a favore degli oltranzisti. Come ha fatto con Ahmadinejad. Come sta facendo organizzando, assieme a Rohani e con l'assenso di Rafsanjani, le spedizioni militari in Siria, Iraq, Libano e Yemen. Come fa, dando il suo sigillo alle centinaia di esecuzioni, spesso di oppositori, che caratterizzano l'era del «riformista» Rohani.

(Libero, 1 marzo 2016)


Stretta di mano nel segno di Israele

La serata del «Keren Hayesod». I tre principali protagonisti della campagna ospiti dell'agenzia sionista.

               Stefano Parisi                            Corrado Passera                               Beppe Sala
Tre amici di Israele. Stefano Parisi, Beppe Sala e Corrado Passera ieri hanno partecipato all'evento che ha aperto la campagna 2016 del «Keren Hayesod», il braccio operativo di raccolta fondi del movimento sionista e dell'Agenzia ebraica.
   Un gesto che dimostra la vicinanza allo Stato d'Israele dei principali candidati alla fascia tricolore di Milano, che dai promotori dell'evento erano stati definiti «sostenitori della causa». La causa del «Keren Hayesod» è antica. Dalla fondazione di Israele a oggi l'ente ha sostenuto l'Agenzia ebraica contribuendo al ritorno in patria di tre milioni di persone. E all'evento di Milano, oltre ai tre candidati, era annunciato come ospite anche un alto ufficiale dell'intelligence militare israeliana.
   La partecipazione non poneva alcun problema a Parisi, candidato del centro-destra e notoriamente, da sempre, «amico di Israele». Idem per l'ex ministro Passera, che nei giorni scorsi aveva addirittura segnato l'evento nella sua agenda pubblica con gli appuntamenti elettorali. Meno scontata invece la partecipazione di Sala. Mentre il centrodestra difende il diritto all'esistenza e alla sicurezza dello Stato di Israele, infatti, un bel pezzo della sinistra che sostiene la candidatura a sindaco del commissrio Expo è storicamente sbilanciato in tema di Medioriente. La sinistra ex comunista, infatti, per un antico riflesso anti-americano o anti-israeliano, ha una posizione unilaterale sul conflitto, tuttora aperto. La sinistra «arcobaleno» in particolare, Sel in testa, ha posizioni filopalestinesi molto marcate. Quest'area di sinistra considera addirittura il sionismo come una dottrina di destra, quando invece nasce come il Risorgimento ebraico. Per questo Sala - che si scopre «filo israeliano» nonostante la sua antica simpatia per i partiti della sinistra italiana, confessata di recente - potrebbe incontrare un problema ulteriore nel tentativo di riunire sotto la sua candidatura tutto il mondo della sinistra milanese. Dal Pd (che ha accompagnato le insegne della Brigata ebraica al corteo del 25 aprile) alla lista arancione con i dirigenti di Sel, che potrebbero avere più difficoltà del previsto a convincere i loro elettori a sostenere Sala, mentre la sinistra-sinistra va in piazza con le bandiere palestinesi.

(il Giornale, 1 marzo 2016)



La parola della croce

La parola della croce è pazzia per quelli che periscono, ma per noi che siamo salvati è la potenza di Dio. Sta scritto infatti: «Io farò perire la sapienza dei savi e annienterò l'intelligenza degli intelligenti». Dov'è il savio? Dov'è lo scriba? Dov'è il disputatore di questo secolo? Dio non ha forse resa pazza la sapienza di questo mondo? Poiché, visto che nella sapienza di Dio il mondo non ha conosciuto Dio con la propria sapienza, è piaciuto a Dio di salvare i credenti mediante la pazzia della predicazione. Poiché i Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano sapienza; ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo, e per i Gentili, pazzia; ma per quelli che sono chiamati, tanto Giudei quanto Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio; poiché la pazzia di Dio è più savia degli uomini, e la debolezza di Dio è più forte degli uomini.
dalla Prima lettera dell'Apostolo Paolo ai Corinzi, cap. 1

 


Torino - Università verso il dietrofront sull'assemblea degli studenti

Il caso Technion continua a creare malumori tra docenti. Rosario Ferrara: "Se fosse stato chiaro che c'era un pregiudizio ideologico, non avremmo concesso gli spazi".

di Fabrizio Assandri

L'Università concede gli spazi ma ora valuta se revocarli all' «assemblea studentesca contro il Technion». Un incontro in programma giovedì, con Roberto Beneduce, docente che ha firmato l'appello al boicottaggio dell'istituto di ricerca di Haifa, e Ronnie Barkan, attivista israeliano anche lui sulla stessa linea. Ora tutto è in forse e anche uno dei relatori si smarca.
  L'incidente torna a far discutere l'ateneo, a pochi giorni dalla petizione che chiede di boicottare proprio l'accordo che Università e Politecnico hanno sottoscritto con l'istituto di ricerca israeliano. Sotto accusa sono le collaborazioni del Technion con l'esercito israeliano e «l'oppressione dei palestinesi». Una petizione definita «assurda» dal sindaco Fassino e che sta raccogliendo sempre più consensi. Erano in 27, ora sono 55 i prof torinesi firmatari, quasi tutti dell'Università e qualcuno del Poli.
  La difesa dei rispettivi rettori Gianmaria Ajani e Marco Gilli era stata che l'accordo non prevede applicazioni militari, ma riguarda gli ambiti di salute, acqua e agricoltura.

 Il volantino
  L'assemblea di giovedì si presenta con una posizione chiara. Nel volantino, del Technion si dice che «è coinvolto nell'occupazione e nell'apartheid della Palestina». Si vede un carrarmato con in cima la bandiera di Israele e una chiave inglese che lo smonta. «Non sapevamo fosse a senso unico: se fosse stato chiaro che c'era un pregiudizio ideologico, non avremmo concesso gli spazi. Gli studenti ci avevano parlato di un seminario scientifico e della presenza di una controparte» dice Rosario Ferrara, direttore della scuola di scienze giuridiche, politiche ed economiche. Il quale avrebbe anche dovuto portare un saluto. Ma adesso aggiunge: «Con il rettore decideremo se revocare la sala».
  Gli studenti cadono dalle nuvole. «Invitare chi è pro Technion? Non l'abbiamo mai detto». Dal collettivo "progetto Palestina" si smarcano dall'accusa di aver tenuto nascoste le intenzioni. «Abbiamo sempre detto che era un incontro sul boicottaggio e avevamo dato i nomi dei relatori. Se avevano dubbi, bastava cercare i nomi su Google».
  Ma ora anche uno dei relatori, l'antropologo Roberto Beneduce, prende le distanze. Con una premessa: «Quest'iniziativa è utile e io sono per il boicottaggio». Ma dal punto di vista organizzativo, «se è stata cercata una controparte, e nessuno si è reso disponibile, l'incontro va fatto lo stesso. Se invece non si è cercato il confronto, riconsidererò la mia partecipazione: in un ateneo che senso ha fare seminari o assemblee dove la si pensa tutti uguale?».

 Le posizioni
  Per il vicerettore alla ricerca Federico Bussolino, che pure è favorevole all'accordo con il Technion, l'Università«deve essere un luogo di discussione, dove si può anche esprimere il dissenso. E' meglio un dibattito tra posizioni diverse, ma anche una voce sola deve avere il suo spazio». Non la pensa così Daniela Santus, docente di Geografia culturale: «II diritto d'opinione esiste solo per alcuni, basti pensare a Pane bianco a Bologna. Se un gruppo di docenti chiedesse un'aula per proporre di boicottare le istituzioni palestinesi, verrebbe messa a ferro e fuoco». Ugo Volli, docente di semiotica e membro della comunità ebraica: «L'Ateneo deve proibire un incontro contrario allo spirito dell'università e alla Costituzione: è come se i nazisti chiedessero di fare un'iniziativa contro il 25 aprile. Questi studenti sono antisemiti. L'Emt, le università cinesi o lo stesso Politecnico non fanno ricerca militare? Perché se la prendono solo con Israele?». Anche il Poli si è trovato in passato di fronte a scelte difficili sugli spazi da concedere, ad esempio li aveva rifiutati a un incontro «contro il masterplan del Comune sulla Cavallerizza». «Di fronte a un attacco diretto al Technion non darei la sala - dice Sergio Roda, direttore della scuola di studi umanistici - ma non sempre il confine tra politica e scienza è netto».

(La Stampa, 1 marzo 2016)


Napoli - Comunità ebraica, i volti e le vite

Giancarlo Lacerenza raccoglie le storie di centocinquanta anni di insediamento in città.

di Titti Marrone

 
Sinagoga di Napoli - Cappella Vecchia
In yiddish-tedesco Rothschild significa «scudo rosso», espressione che designava l'insegna del negozio di rigattiere nel ghetto di Francoforte di Meyer Amschel a fine '700. Lì Meyer fece i suoi primi passi nell'unico settore in cui era consentito agli ebrei di lavorare, insieme con quello degli stracci: divenne cambiavalute del ghetto e riuscì ad introdursi nel sistema finanziario dell'Assia, diventando principale «merchant banker- del regno. Con Carl Mayervon Rotschild la famiglia arriverà a Napoli nel marzo 1821, facendone la quinta capitale europea dov' era insediata un'agenzia dei potenti banchieri, con la funzione di unico prestatore e intermediario di servizi finanziari, per erogare i mezzi di cui il Regno delle Due Sicilie aveva bisogno e curarne i pagamenti su tutte le piazze europee. A tale presenza si fa abitualmente risalire la rinascita della comunità ebraica napoletana in età contemporanea, nel 1864, con la sinagoga di Cappella Vecchia, la nomina del primo rabbino, il piemontese Beniamino Artom, l'avvio di attività di assistenza agli ebrei napoletani, con l'Asilo Rothschild e l'ospedale sorto nel villino Schmitt di Posillipo. E proprio a una de Rotschild, Giulia, Matilde Serao avrebbe indirizzato una dedica de Il ventre di Napoli di intonazione intima e affettuosa.
  Gli studi assai documentati di Giancarlo Lacerenza hanno dimostrato però come, ad attirare a Napoli un nucleo di ebrei, non furono solo i Rothschild ma fu in realtà anche «un processo sorto senza dubbio dal basso, grazie all'aggregazione di pochi ... coraggiosi ebrei già presenti per varie ragioni in città». Con questa precisazione, lo storico napoletano ha messo a punto un ricco e assai ben illustrato volume di autori vari sulla storia della comunità ebraica più a Sud d'Italia, che sovrintende anche alla vita associativa dei pugliesi e calabresi: La comunità ebraica napoletana - Centocinquant'anni di storia (Giannini editore, pagg. 244).
  Si parte dalle prime tracce di presenza ebraica, tra le mura del Vicus Iudaeorum, a ridosso dell'Anticaglia, dove in età bizantina e ducale gli ebrei erano costretti a risiedere, si continua seguendone l'aumento fino alle 500 presenze segnalate fin quasi all'età sveva, si procede segnalando attività tipografiche cui si devono preziosissimi incunaboli etesti rari. La data di rottura nella Napoli spagnolesca è il 151O, poco dopo la cacciata degli ebrei voluta da Isabella la Cattolica, e bisognerà aspettare 200 anni prima di ritrovare una nuova comunità. Il saggio di Vincenzo Giura perlustra con ampio respiro analitico la storia della riammissione degli ebrei a Napoli voluta da Carlo III, «perché si ritenne che essi potessero costituire un elemento non trascurabile per la ripresa economica del regno». Ma Carlo avrebbe poi revocato i privilegi concessi, sotto l'impulso del clero e dei nemici degli ebrei, arrivati a soprannominarlo «lnfans Carolus Iudaeorum».
  Nonostante il ritardo con cui la comunità riuscì ad ottenere dallo Stato unitario il riconoscimento di ente morale - solo nel 1900 - il periodo fino agli anni '30 del '900 fu di piena integrazione degli ebrei napoletani. E si ricordano la partecipazione di tanti ebrei alla prima guerra mondiale, il ruolo di famiglie come gli Ascarelli, con Giorgio finanziatore del primo stadio, al Rione Luzzatti, e presidente dell'associazione sportiva Calcio Napoli, o i Recanati, tra cui Mario, pioniere della cinematografia, l'impegno in attività economiche vitalissime, la presenza incisiva d'intellettuali di alto rango come Augusto Graziani, in cattedre universitarie prestigiose. Poi le leggi razziali, una persecuzione che non risparmiò quanti, come Amedeo e Aldo Procaccia, avevano aderito al fascismo, né ebbe riguardi per chi, come lo zio di Alberto Defez, aveva partecipato alla Marcia su Roma. Molti testimoni - da Bivasch a Defez a Miriam Rebhun a Alberta Levi Temin - ripercorrono nelle loro testimonianze la durezza di un periodo non sfociato in rastrellamenti solo perché 1'8 settembre sbarcarono gli Alleati, ma che ugualmente determinò sofferenze e annoverò 17 deportati mai più tornati. Le pagine finali sono sulla ripresa dopo la guerra, propiziata da un segnale dal forte impatto simbolico: la nascita del primo bimbo ebreo napoletano, Guido Sacerdoti, nipote di Carlo Levi, pittore egli stesso e grande medico di recente scomparso, emblema di una comunità napoletana oggi vitalissima, intrecciata con la parte più rappresentativa della città.

(Il Mattino, 1 marzo 2016)


Il più antico Sefer Torah "Kosher" d'Italia ritorna nella sinagoga di Biella

 
La Sinagoga di Biella
Domenica 6 marzo, alle ore 11, presso la Sinagoga di Biella, in vicolo del Bellone 3, avrà luogo la cerimonia per la riconsegna del più antico Sefer Torah "kosher" d'Italia, perfettamente integro e utilizzabile per le funzioni religiose.
Il prezioso manufatto del XIV secolo, composto da un Rotolo, avvolto su due bastoni per la lettura progressiva durante le funzioni religiose dell'anno ebraico, sul quale è trascritto il Pentateuco, è stato appena restaurato anche grazie al contributo della Fondazione CRT nell'ambito del progetto "Restauri Cantieri Diffusi", in collaborazione con la Fondazione per i Beni Culturali Ebraici in Italia. Il recupero del Sefer Torah è stato effettuato a Roma dall'esperto sofer Amedeo Spagnoletto, unico copista negli ultimi 150 anni ad aver trascritto a mano il Sefer Torah.
Il lavoro ha riguardato la pulitura delle pergamene, la risistemazione e la cucitura di quelle lacere, il riempimento delle lettere che presentavano cancellature o fenditure dell'inchiostro (ha-nirà le-ain), la sostituzione dei rattoppi (matlitim) inadeguati effettuati nel corso degli anni, il restauro con pasta di pergamena di tutti i fori causati dai tarli. Il rientro verrà celebrato con una cerimonia speciale definita "Haknasat Sefer Torah", aperta agli ebrei, alle Istituzioni e a tutti coloro che hanno contribuito al suo restauro.
Il pubblico e la cittadinanza sono invitati a seguire le successive relazioni presso il prestigioso Palazzo Gromo Losa a Biella Piazzo.
Il Sefer Torah, prima del suo ingresso in sinagoga sarà rimontato sui suoi bastoni originali, "vestito" con tutti gli addobbi rituali (manto di broccato, corone (Ataroth) e medaglioni d'argento (Tass). Dopo le speciali benedizioni per l'occasione solenne, sarà riposto nell'armadio sacro della Sinagoga (Aron ha-Kodesh), da cui sarà estratto per ogni funzione di culto ebraico.
"Restituire un Sefer Torah adeguato all'uso liturgico significa riappropriarsi del culto e della Memoria di una Comunità da sempre viva e presente sul territorio - afferma la Presidente della Comunità ebraica di Vercelli, Rossella Bottini Treves -. Sono grata a coloro che hanno contribuito per questo ultimo restauro: la Fondazione per i Beni Culturali Ebraici in Italia, l'UCEI, il Ministero per i Beni Culturali Settore promozione dei beni librari ed archivistici, editoria ed istituti culturali della Regione Piemonte, alle Fondazioni bancarie e, in particolare, la Fondazione CRT che ha sempre aderito e contribuito per il restauro conservativo delle Sinagoghe di Vercelli e di Biella a partire dal 2003".
Realizzato in pergamena e composto a mano nel XIV sec. da uno scriba (sofer), il Sefer Torah, che contiene i primi cinque libri dell'Antico Testamento, è l'oggetto di maggior valore conservato in una sinagoga e può essere utilizzato per le attività religiose solo se "kosher", cioè integro e privo di imperfezioni.
La lettura avviene solo utilizzando lo Yad per seguire il testo ebraico e non deve essere toccato con le dita. Prima del restauro, la Comunità ebraica di Vercelli, unitamente alla sua sezione di Biella, pur possedendo un cospicuo numero di antichi Sefarim, non poteva utilizzarne nessuno idoneo per il culto.

(AostaCronaca.it, 1 marzo 2016)


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