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Notizie su Israele 445 - 3 dicembre 2008

1. Che cos'è l'ebraismo?
2. La presenza ebraica in Afghanistan
3. Arabi ed ebrei studiano insieme
4. Un'amara novità: la caccia all'ebreo in India
5. Panorama messianico da Gerusalemme
6. Riflessioni
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Ezechiele 37:28. Le nazioni conosceranno che io sono il Signore che santifico Israele, quando il mio santuario sarà per sempre in mezzo a loro.
1. CHE COS'E' L'EBRAISMO?




Corpo a corpo con la storia

di David Bidussa

David Bidussa
Si può studiare l'ebraismo, e dunque rispondere alla domanda di che cosa esso sia, leggendo e rileggendo i testi di commento e studiandone le forme lessicali, le figure retoriche, la struttura logica e argomentativa. Troveremo che tutto questo è coevo ai sistemi di pensiero e all'organizzazione di retoriche assertive e persuasive coeve, presenti e operanti in tutti i sistemi culturali con cui le diverse realtà ebraiche si sono trovate a convivere e a coabitare nel tempo. Oppure, anche, se si considera il corpo dei testi "vetero-testamentari", troveremo testi che si compongono e si assemblano nel tempo e che nella loro esposizione e successione testuale - ovvero come noi oggi li prendiamo in mano uno dopo l'altro - non sono stati composti successivamente uno all'altro. In questo caso la domanda sarà come si è composto un testo che è una collazione e una successione non temporale di testi.
    Ma è solo questo l'ebraismo? Io non lo credo e penso valga la pena di considerare anche altri percorsi.
    Gli ebrei nella storia non si sono mai definiti in relazione a un credo religioso. Si sono definiti come un popolo che ha delle regole e una produzione che riguarda la propria identità culturale, che si costruisce attraverso pratiche, culture testuali, materiali, immateriali, rituali e intellettuali.
    L'ebraismo è dunque un apparato religioso, ma non è solo un apparato religioso. È un insieme di pratiche rituali, normative, pragmatiche, comportamentali, ma non è solo un galateo comportamentale, ovvero un insieme di atti attraverso i quali stabilire e discriminare gli ebrei buoni da quelli cattivi, o i continuatori di un sistema o i suoi distruttori.
    È la costruzione, nel tempo, di un'identità culturale. Perché questa costruzione sia possibile occorre che si abbia una dimensione storica della propria esperienza culturale e una visione geostorica della propria vicenda umana. In breve occorre che si acquisisca un modo di spiegare la storia della propria identità con i libri, ma non solo come produzione autoriferita di testi.
    Gli ebrei sono il risultato di un costante corpo a corpo con la storia e con altri gruppi umani con cui hanno combattuto e convissuto, rispetto ai quali si sono aperti, dai quali si sono nascosti o sottratti, in mezzo ai quali si sono confusi e dai quali sono stati rinchiusi e ghettizzati. E, alla fine, gli ebrei sono anche il risultato della loro libertà nell'esperienza dello Stato di Israele. Sono, in breve, la storia di un costante processo di ibridazione, rimescolamento, riscrittura delle proprie convinzioni. In questo percorso hanno, nel tempo, assunto forme del pensare, vocabolari, lingue, gastronomie, modi di alimentazione, procedure logiche, immaginari, spiegazioni plurali del proprio sapere.
    Nella storia si resiste se si viene a patti con le vicende del mondo. Se si rifiuta il confronto, se non si adeguano linguaggi, modi e pensieri, il destino è la scomparsa dallo scenario della storia. Una delle operazioni preliminari da condurre quando si affronta la storia dell'ebraismo è liberarsi dall'ossessione e dal mito di trovarsi di fronte allo stesso soggetto che intorno al XIII secolo a.C. attraversò in forme avventurose il Sinai.
    Gli ebrei non sono lo stesso soggetto storico nel tempo. Non solo perché nel tempo si sono ibridati, mescolati, trasformati, ma anche perché la stessa produzione normativa che tutti noi siamo abituati ad assumere come un unico scaffale lineare è il risultato di esperienze e di riflessioni culturali che ogni volta hanno una loro specifica cifra culturale. Comunemente si parla di «cultura ebraica», di «ebraismo», e se ne parla come di un insieme organico e continuo, ovvero come un unico testo aperto e progressivo di cui si può fornire una ricostruzione storicistica. Doppio errore, perché per produrre una linearità di questo tipo occorre un centro che esprima una autorevolezza costante e inoltre che si definisca un canone. Ora, l'esperienza diasporica ebraica, eccetto il tentativo babilonese con l'Esiliarca, non ha espresso il primo aspetto (ovvero non ha dato luogo a un centro riconosciuto con una gerarchia che stabilisse costantemente il canone per tutti), e allo stesso tempo è stata il risultato di conflitti fra più centri produttivi, con la prevalenza ogni volta di un luogo e di un grappolo di testi che nel tempo hanno finito per definire l'ebraismo.
    Per descrivere la storia dell'ebraismo si deve ricorrere, nel corso della storia diasporica, a una catena di luoghi e a una costellazione di testi e di conflitti fra modelli interpretativi e prodotti testuali, che hanno i loro snodi principali ogni volta in realtà culturali diverse: Alessandria d'Egitto, la Spagna della conquista araba, la Renania, la Boemia, e poi alcuni degli stati italiani, l'Europa Centro-orientale, Safed e infine, nel tempo attuale, Israele, gli Stati Uniti, la Francia.
    Se noi volessimo comporre una tavola sinottica che ponesse in relazione testi scritti - e che abitualmente siamo indotti a radunare entro un unico termine, «cultura ebraica» appunto - con le correnti sussultorie che attraversano la storia politica, sociale e culturale di questo bimillennio, vedremmo che ad ogni snodo d'epoca corrisponde un testo o un corpo di testi che sono il risultato selettivo di un confronto.
    È questo corpo di testi che va a comporre nel tempo ciò che si è soliti denominare con il termine intemporale di «cultura ebraica» o ebraismo. La sintesi che si ricava da questo rapido excursus storico è il fatto che il tempo, non solo lo spazio, è una categoria essenziale. Non credo che esista l'ebraismo come corpo organico che si costruisce coerentemente e che origina da un solo nucleo.
    Credo che esistano gli ebrei nel tempo, appunto, che producono un complesso culturale che leggiamo come un corpo coerente. Ma gli ebrei non sono un ordine coeso, una monade senza porte né finestre. Sono uomini e donne che la storia ha spesso costretto a mettersi in strada. Lungo le strade in cui si sono trovati a vivere - e molto spesso a percorrere correndo - hanno dovuto lasciare sul campo molte cose; mettere nel proprio bagaglio fatto in fretta, oggetti e testi accumulati alla rinfusa, scegliendo ogni volta cosa salvare, cosa gettare e cosa portarsi dietro. Spesso non potendo portarsi dietro tutto, il problema era come ricordarsi ciò che si lasciavano alle spalle.
    La cultura ebraica è proprio questo: un costante principio di costruzione e di ricostruzione, nel tempo appunto, che ha un rapporto con sistemi culturali con cui è entrata in contatto, con concetti che si recuperano e si inglobano lungo la strada. È per questo che al centro non sta il testo, bensì il commento: ovvero la capacità di costruire e individuare il senso del testo. Una dimensione che mette al centro un rapporto con la storia.

(Il Secolo XIX, 25 novembre 2008)





2. LA PRESENZA EBRAICA IN AFGHANISTAN




Ironia della storia. Discendenti ariani o ebrei in Afghanistan?

di Anna Carbich

Il viaggio che ho fatto quest'estate in Iran ha lasciato un profondo segno nel mio cuore e grande curiosità. Naturale quindi che continui a leggere di questo favoloso e antico paese. Due i libri che mi stanno accompagnando in questo mio ideale ritorno in Persia. Uno è "Alla ricerca di Hassan", di Terence Ward, Editrice TEA, che parla del ritorno dell'autore nel 1998 in quell'Iran dove aveva trascorso una bellissima infanzia trent'anni fa. L'altro, continuamente citato dallo stesso Ward, è "La Via per l'Oxiana" dell'inglese Robert Byron, scritto nel 1933. Le date sono importanti perché come si può immaginare sono due testimonianze di situazioni tanto interessanti quanto diverse. Robert Byron descrive nel suo libro un lungo viaggio attraverso Persia e Khorasan, fino al misterioso Afghanistan, con particolare attenzione e amore per l'architettura persiana. Non è di Iran tuttavia che voglio parlare qui, anche se ci sarebbe ancora tanto da dire, ma di un argomento suggeritomi da alcune frasi lette proprio in quel libro, annotazioni di diario scritte da persona colta, curiosa e dotata naturalmente anche di quel famoso sense of humour tipico degli inglesi.
    Cito le sue parole: "Una possibile soluzione a questo enigma ci è stata data ieri dal mio vecchio amico il console afgano. Stavamo discutendo di una notizia apparsa sul giornale secondo la quale il governo afgano ha deciso di ricostruire Balkh, nonostante la vicina Mazar el Sharif sia una fiorente città. Egli mi rispose che Balkh era una città storica, la culla della Razza Ariana. Questa mania deve essersi diffusa dalla Germania. Fino ad un anno fa gli afgani sostenevano di essere essi stessi ebrei, discendenti delle tribù perdute d'Israele, ma niente è troppo fantastico per il nazionalismo afgano."
    Ora due precisazioni sono necessarie. Balkh, è l'antica Bacria, il sito in cui si trasferirono delle tribù proto-indo-iraniche provenienti dalle regioni a nord dell'Amu Daria (il fiume Oxus) più di tremilacinquecento anni fa. La sua storia evidentemente è ricchissima. Da Balkh le tribù proto-indo-iraniche si diffusero poi in altre regioni della Persia e dell'India. I locali la chiamano La Madre di tutte le Città e viene considerata anche il luogo di nascita di Zoroastro. Il nome Bactria fu dato dai greci di Alessandro.
    Invece l'"enigma" di cui parla Robert Byron è il fatto che aveva incontrato parecchi profughi ebrei provenienti dall'Afghanistan. Essi si occupavano soprattutto del commercio delle pelli del famoso agnellino persiano, tipico di quelle zone, particolarmente ricercato dai pellicciai e dalle signore europee. Perché si chiedeva Byron, espellere quei commercianti che contribuivano al benessere della regione?
    Di questa espulsione aveva beneficiato la vicina Persia, che aveva accolto molti di quei profughi con le loro attività. Altri erano andati nelle repubbliche sovietiche dell'Asia Centrale. Da secoli quelle comunità erano molto importanti perché, coi loro commerci, erano sempre state un punto di collegamento tra il Medio Oriente e la Cina.
    Ecco allora che ho cercato di sapere di più di questa dimenticata comunità ebraica in Afghanistan, la cui presenza viene fatta effettivamente risalire a 2730 anni fa, al tempo dell'esilio babilonese. Sarebbero quindi discendenti delle leggendarie tribù perdute. Vi sono anche somiglianze con molti nomi Pashtun, secondo alcuni il nome della città di Kabul deriverebbe addirittura da Caino e Abele, e Afghanistan discenderebbe da "Afghana", nipote di Re Saul della tribù di Beniamino.
    Altre leggende parlano di ebrei persiani che al tempo della conquista araba nel settimo e ottavo secolo si rifugiarono a Ghazna, fiorente città sulle rive del fiume Gozan. Il famoso scrittore e viaggiatore Beniamino di Tudela parla addirittura di 80.000 ebrei che vivevano a Ghazna nel 1180. Pochi anni più tardi però i mongoli di Gengis Khan rasero tutto al suolo e nemmeno gli ebrei riuscirono a salvarsi dalla loro furia devastatrice. Rimasero solo alcune sacche isolate qui e là. Poco si sa della loro presenza nei secoli successivi, finché nel 1839 le autorità persiane cominciarono ad imporre conversioni forzate ed ecco che una nuova ondata migratoria si spostò verso l'Afghanistan. Si trattava perlopiù di commercianti di antichità, tappeti e pelli. La comunità non rimase a lungo tuttavia, perché nel 1870 le autorità afgane lanciarono una campagna antiebraica che spinse molti, ma non tutti, ad emigrare verso la Palestina. Ed eccoci arrivati al 1933, quando i terribili venti nazisti soffiavano già molto forte.
    Da allora la situazione è andata peggiorando, dei 300 ebrei rimasti nel 1969 siamo arrivati ad uno solo a tutt'oggi, almeno spero che ci sia ancora, Itzhak Simentov, rimasto tenacemente a vivere nella sinagoga di Kabul, di cui si ostina a fare l'affezionato guardiano.

(l'ideale, 20 novembre 2008)





3. ARABI ED EBREI STUDIANO INSIEME




Mano nella mano col nemico

In una scuola pubblica israeliana per arabi ed ebrei imparano a conoscersi e a dialogare.

La tregua in atto tra Hamas e Israele rischia in questi giorni di infrangersi per la ripresa delle azioni militari nella Striscia di Gaza e dei lanci di razzi verso il territorio israeliano. I rapporti tra il governo israeliano e l'Autorità Palestinese del presidente Abu Mazen sono congelati per via delle dimissioni del premier israeliano Olmert e per l'imminente fine del mandato del presidente Abu Mazen. In periodi come questi, i contatti tra ebrei israeliani e palestinesi si riducono ai minimi termini, mentre cresce sempre più velocemente la distanza tra i mondi di due popoli così vicini, separati da un muro.
    Per quanto le soluzioni politiche siano distanti, tuttavia, nelle società civili israeliana e palestinese c'è chi non si arrende e continua a costruire ponti tra arabi ed ebrei. Tra queste realtà ce n'è una molto conosciuta, si trova a Gerusalemme. É la



scuola Hand in Hand, uno dei rari istituti statali in Israele dove arabi ed ebrei possono studiare assieme, sulla base di programmi improntati al multiculturalismo. Conoscersi e condividere esperienze sono le sfide con cui i bambini tra i 10 e i 16 anni della scuola si devono confrontare, sia tra i banchi che sui i campi di gioco. La miglior vetrina di questa iniziativa sono infatti gli sport, che notoriamente sono palestra di vita. Bambini e bambine arabi e israeliani giocano assieme, soprattuto a basket, e mostrano una sorprendente capacità di scavalcare le barriere culturali, valorizzando le differenze e superando le paure che le due società instillano continuamente negli adulti. Una paura reciproca che i bambini superano con grande facilità, gettando il seme del dialogo nelle rispettive comunità. Molti pensano che se un giorno l'attuale classe politica smetterà di ostacolare le soluzioni pacifiche del conflitto, questi giovani potranno essere la futura classe dirigente. Di Israele, s'intende, perché i palestinesi che vi partecipano sono arabi con cittadinanza israeliana, da sempre discriminati all'interno di Israele. I palestinesi dei territori occupati per il momento non hanno nulla di simile, non ci sono scuole nei territori in cui si insegni anche l'ebraico.
    Il progetto Hand in Hand ha preso il via nel 1997 in Galilea, nella cittadina di Misgav. In seguito è stata aperta un altra scuola a Gerusalemme e una terza a Wadi Ara, nel centro del paese. Quest'ultima è un caso unico nel suo genere, visto che si trova in un villaggio arabo, l'unico in cui si rechino a studiare anche bambini ebrei. Oggi le tre scuole accolgono oltre novecento studenti che imparano in un contesto completamente bilingue: ogni centro ha un direttore arabo ed uno ebreo e le classi, a loro volta, un insegnante arabo e uno ebreo. Oltre che con i bambini, il progetto Hand in Hand punta a coinvolgere anche i genitori e i leader delle rispettive comunità, creando occasioni di incontro e scambio tra le due distinte storie, esperienze e identità religiose.

(peace reporter, 24 novembre 2008)





4. UN'AMARA NOVITA': LA CACCIA ALL'EBREO IN INDIA




Gli ebrei in India

di Elena Lattes

Gli ebrei in India non hanno mai subito rilevanti atti di antisemitismo durante il lungo soggiorno nel Paese (ad eccezione delle oppressioni da parte degli invasori portoghesi nel 16esimo secolo). È perciò un'amara novità la caccia all'ebreo perpetrata dai terroristi che hanno assaltato Mumbai nei giorni scorsi.
    I residenti della Casa Habad non erano autoctoni. La Nariman House, il nome di questa base, agiva come centro di accoglienza per i turisti israeliani, per gli uomini d'affari in cerca di un pasto caldo kasher (che segue le regole alimentari ebraiche) o di un gruppo di 10 uomini con cui pregare o ancora per gente rimasta senza soldi.
    I Chabad sono un fenomeno relativamente recente e mentre hanno attratto migliaia di seguaci nella parte settentrionale dell'India dove i viaggiatori israeliani tendono ad andare per praticare trekking, il centro di Mumbai era di natura completamente differente. Fu stabilito cinque anni fa e soltanto ultimamente si sono cominciati a sentire gli effetti della sua presenza.
    Oggigiorno ci sono oltre 4000 ebrei in India, la maggior parte dei quali vive a Mumbai. I coniugi Holtzberg si occupavano dei visitatori stranieri, ma si dedicavano anche agli indigeni.
    Forse la comunità d'India più famosa è quella degli ebrei Cochin. Non contava più di 2400 anime nel 1947 e soltanto trenta ne rimangono oggi sulla costa Malabar. Ma la comunità più grande è quella dei Bné Israel, di cui 60mila vivono attualmente in Israele, mentre meno di 200 ebrei "baghdadi" rimangono in India.
    I primi ebrei di quest'ultimo gruppo, si insediarono a Bombay, conosciuta oggi come Mumbai, nel 18esimo secolo. Il primo ebreo "Baghdadi", Joseph Semah arrivò nel 1730 da Surat (regione nordoccidentale del Paese). Il primo membro dei Bné Israel giunse invece nella città cosmopolita dai villaggi Konkan a sud di Bombay, nel 1749. Questi ultimi si ritengono di antica origine: secondo la loro tradizione, arrivarono via mare sulla costa Konkan dal regno di Israele, probabilmente nel 175 prima dell'Era Cristiana.
    La fiorente città di Bombay offriva agli ebrei una nuova economia e opportunità di commerci. Nel 1796 la prima sinagoga dei Bné Israel, conosciuta come "Shaar Rahamim" fu aperta da Samuel Ezekiel Divekar, prova evidente dell'esistenza di almeno un minyan (10 uomini) nella città. Altre sinagoghe Bné Israel e luoghi di preghiera sorsero velocemente a Bombay e nei dintorni.
    Nel 1832 il Principe di Exilarco, David Sassun (!792-1864), sfuggì con un largo seguito ai pogrom di Daud Pasha di Baghdad. In pochi anni i "baghdadis" come divennero poi conosciuti, furono chiamati i "mercanti ebrei di Arabia, abitanti e residenti a Bombay".
    I Sassun commerciavano in cotone e filati con la Cina e misero su un cotonificio e altre industrie, sempre nella grande città. Divennero i "Rotschild dell'est" e donarono grandi somme per cause filantropiche.
    Molte strutture importanti di oggi possono essere attribuite a David Sassun e ai suoi discendenti. A metà del diciannovesimo secolo, egli fece costruire l'Istituto Meccanico, la biblioteca e la sala di lettura, l'Istituto industriale intitolati a suo nome e la Torre dell'orologio nei Giardini Vittoria (conosciuti oggi come Veermata Jijimata Udyan) e la statua del Principe Consorte al Museo Vittoria e Alberto (noto ora come il Bhau Daji Lad Museum).
    Nel 1875, il figlio di David, Alberto, costruì il primo porto, intitolato sempre alla famiglia, a Colaba, vicino al punto in cui sono arrivati i terroristi con i gommoni. Nel 1884, Sir Jacob Sassun costruì la sinagoga Kneset Eliyahiu a Fort, in prossimità degli attuali alberghi Oberoi e Taj Mahal.
    Fino al 2006, quando il movimento Lubavitch ha acquistato la Nariman House costruendo al civico 5 di Hormusji Street, a Colaba, la Knesseth Eliyahu era la sinagoga più vicina frequentata dagli ebrei aristocratici e dai visitatori israeliani che soggiornavano nei prestigiosi alberghi.
    Un fatto significante, ma poco noto, è che nel 1924 Sir Jacob Sassun fu il contribuente maggiore alla costruzione del Gateway of India, arco in basalto, principale monumento della città, simbolo del Paese che è solo a pochi passi dall'albergo Taj Mahal e che fu costruito per commemorare la visita del Re Giorgio V e della Regina Maria avvenuta nel 1911. Secondo le cronache dei giorni scorsi, i terroristi potrebbero essere sbarcati proprio in quella zona e aver attraversato a piedi l'arco, dirigendosi verso gli alberghi.

(Agenzia Radicale, 1 dicembre 2008)





5. PANORAMA MESSIANICO DA GERUSALEMME




Un rabbino insulta gli ebrei messianici

di Gershon Nerel

«Gli ebrei messianici sono un movimento che si basa o sull'ignoranza o sulla malevolenza o sull'esplicita intenzione di distruggere il popolo ebraico. Probabilmente queste tre componenti compaiono insieme.» Queste parole provengono da un articolo dal titolo "Ebraismo messianico: veleno in cioccolatini". L'autore è il dr. Chaim Z. Rozwaski, un rabbino "liberale" di Berlino (l'articolo è comparso recentemente su "BEGEGNUNGEN - Zeitschrift für Kirche und Judentum", nr. 3, 2008, p. 24).
    Purtroppo l'articolo contiene non solo maligni attacchi contro gli attuali ebrei che credono Yeshua, ma anche presentazioni deformate del cristianesimo in sé. Naturalmente non si possono negare le pagine buie e dolorose nella lunga storia della relazione tra chiesa e sinagoga, ma bisognerebbe tuttavia guardarsi dal fare un quadro unilaterale in bianco e nero, e saper distinguere tra storia della chiesa e Nuovo Testamento. Bisognerebbe anche riconoscere che Yeshua stesso non ha permesso o approvato gli orrori commessi in suo nome come i battesimi forzati, le guerre sante, l'inquisizione o l'antisemitismo teologico. Anche se per secoli cosiddetti cristiani hanno attaccato l'ebraismo e ucciso ebrei, simili delitti non appartengono né all'insegnamento di Yeshua né al messaggio del Nuovo Testamento.
    Purtroppo il rabbino Rozwaski non vuole riconoscere che i primi discepoli di Yeshua e le prime comunità erano ebraiche e si sono sviluppate nella Terra Promessa di Israele. I primi seguaci del Messia Yeshua erano saldamente radicati nell'ebraismo. Il loro gruppo era uno dei tanti "partiti" ebraici, come i sadducei, i farisei e gli esseni.
    Come rabbino che si dichiara liberale o appartenente all'ebraismo riformato, Rozwaski dovrebbe ammettere che anche oggi l'ebraismo non è un blocco monolitico, ma assomiglia piuttosto a un variopinto mosaico. Come duemila anni fa a Gerusalemme, oggi nell'ebraismo ci sono diversi gruppi: ci sono gli ortodossi, i liberali, i laici e anche gli ebrei messianci.
    Nel suo articolo, il rabbino Rozwaski afferma ripetutamente che gli ebrei che credono in Yeshua perseguono lo scopo di distruggere l'ebraismo. Riferendosi al titolo del suo articolo, sostiene l'idea che gli ebrei messianici siano un pericolo per la tradizione ebraica, perché agiscono dall'esterno come un «cioccolatino» che «all'inizio è dolce al palato», ma alla fine «uccide tutto ciò che è ebraico». Rozwaski considera gli ebrei messianici come missionari che si rivolgono a «ebrei ignari» e tentano «con tutti i possibili trucchi come il Tallit (scialle delle preghiere) e il canto di sinagogali inni di lode a Israele» di condurli a credere in Yeshua come Figlio di Dio. Il rabbino però non fa che esprimere la sua preconcetta opinione degli ebrei che credono in Yeshua. Dal momento che la sua veduta nasce da pregiudizi e malanimo, non vuole ammettere che molti testi nell'Antico Testamento indicano Yeshua come il Redentore promesso.
    Per prima cosa attacca con durezza gli ebrei messianici. «L'"ebraismo messianico" è un continuo tentativo di conquistare ebrei con seducenti discorsi e astuzia: è la continuazione della Shoà (Olocausto) con altri mezzi.» Segue poi un amichevole invito agli ebrei messianici a «tornare» alla sua forma di ebraismo. In modo patriarcale, come se avesse il monopolio dell'«ebraismo» e della verità, Rozwaski si appella ai suoi «fratelli e sorelle» che credono in Yeshua. Li esorta a ritornare nella loro comunità ebraica, affinché possano porsi, insieme ad altri ebrei, alla presenza dell'«uno e unico» Dio d'Israele.
     Ma Rozwaski trascura il fatto che il Dio d'Israele nella Bibbia appare come pluralità e non come un Essere unico. Questo si capisce soprattutto dai termini ebraici Elohim e Adonai. Effettivamente Yeshua è identico con JHWH, la Persona divina che ha incontrato il patriarca Abraamo a faccia a faccia (cfr. Ge 18:1-13). A causa della sua intolleranza Rozwaski non solo trascura questa e altre dichiarazioni bibliche sull'unigenito Figlio di Dio (cfr. Sl 2:7), ma non permette nemmeno che entrino nel suo modo di pensare.
     Probabilmente i redattori della rivista BEGEGNUNGEN hanno accolto il contributo di Rozwaski nella terza edizione per "controbilanciare" una serie di articoli sugli ebrei messianici. Ma a parer mio questo articolo contribuirà a rafforzare la già presente polarizzazione all'interno del mondo ebraico. Quando si pongono gli ebrei messianici in collegamento con la Shoà, questo non è soltanto una manipolazione della storia, ma anche uno scandalo intellettuale, perché questo tipo di insulti è fin troppo a buon mercato. A questo punto vorrei rispondere al rabbino Rozwaski con un amichevole invito in una comunità messianica, invitandolo nello stesso tempo a ripensare le sue vedute sulle promesse messianiche nella Bibbia. Sarebbe accolto come benvenuto ospite in ogni comunità messianica.
    
(Nachrichten aus Israel, dicembre 2008 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





6. RIFLESSIONI




Quando un ebreo insulta un cristiano




MUSICA E IMMAGINI




Amen




INDIRIZZI INTERNET




Chabad.it

Mamash




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