Incontro su Israele a Torino - 3 dicembre 2023
«Israele ha ragione! MA...»
Dopo la strage perpetrata da Hamas il 7 ottobre in Israele, tutti i media tranne qualche rara eccezione propongono una narrazione dei fatti ponendo, dopo l'iniziale solidarietà ad Israele, un grosso MA che vorrebbe quasi giustificare l'atto terroristico e questo MA serpeggia anche nell'ambiente evangelico. Cercheremo con il prof. Marcello Cicchese di eliminare quel MA... con argomentazioni storiche, culturali e soprattutto bibliche.
(Chiamata di Mezzanotte, novembre 2023)
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Ma i palestinesi stanno preparando solo altro terrore
Non si vede nessuna Autonomia Palestinese moderata che possa rappresentare quel punto di riferimento per un eventuale futuro pacificato che Biden suggerisce ogni giorno
di Fiamma Nirenstein
È stata la sua cara mamma che quando Omar Artsan, uno dei detenuti per terrorismo delle carceri israeliane appena liberato nello scambio, drappeggiato nella bandiera verde degli assassini è corso fra le sue braccia, ha subito gridato commossa: «Coll’anima, col sangue, ti esalteremo Hamas». Non solo l’autorità palestinese di Abu Mazen ma anche Gerusalemme Est si ammanta del verde di Hamas. Non si vede nessuna Autonomia Palestinese moderata che possa rappresentare quel punto di riferimento per un eventuale futuro pacificato che Biden suggerisce ogni giorno.
Palestinesi e Hamas oggi sono quasi una cosa sola e non perché Israele abbia rifiutato accordi di pace. Blinken è di nuovo in arrivo: il vecchio sogno dei due stati per due popoli balena continuamente. Gaza invece che da Hamas dovrebbe essere governata da Fatah. Purtroppo lo schema è irreale: non solo l’odio aggredisce dalla scuola allo schermo tv ai discorsi di un rais corrotto e debole che nega la Shoah, finanzia il terrorismo e alla fine viene emarginato dai sanguinari di Hamas.
La società palestinese riaccoglie centinaia di giovani e donne che proprio come accadde quando Sinwar fu rilasciato nello scambio per Shalit, diventeranno militanti e forse leader del terrorismo. E mentre il sentimento degli israeliani è volto al ritorno degli ostaggi e il Paese sospende la guerra di sopravvivenza, Sinwar compie con gli scambi una sua guerra di conquista fino al West Bank, facendone la prossima roccaforte di Hamas. Blinken deve pensare un suggerimento migliore per il futuro di Gaza e anche del West bank.
(il Giornale, 29 novembre 2023)
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"Blinken deve pensare un suggerimento migliore per il futuro di Gaza e anche del West bank". Forse bisognerebbe dare qualche suggerimento a Blinken, invece di aspettarsene qualcuno da lui. M.C.
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“Nachrichten aus Israel” (Notizie da Israele), editoriale
Da Haifa
Cari amici di Israele,
si può veramente dire che dal 7 ottobre 2023 il mondo è cambiato . Le atrocità commesse da Hamas negli insediamenti ebraici confinanti con Gaza sono così oltraggiose, così orribili, che i filmati girati dagli stessi terroristi sono insopportabili da guardare. Ma devono essere mostrati e pubblicizzati in tutto il mondo, in modo che tutti capiscano cos'è veramente Hamas e nessuno possa avere simpatia per esso. Hamas deve essere distrutto, proprio come è stato distrutto il regime nazista, e qualsiasi simpatia per esso deve essere considerata punibile.
Il fatto che gli Stati Uniti siano partiti così rapidamente per il Medio Oriente con le loro portaerei e navi da guerra dimostra che in gioco c'è molto di più che Hamas. È coinvolto anche l'Iran sciita, fanatico e religioso, che è dietro Hamas e l'ha costruito con molti miliardi.
Lo stesso vale per Hezbollah in Libano. Israele teme l'apertura di un serio secondo fronte da parte di Hezbollah in Libano. Solo le massicce minacce di Israele e la presenza di forze americane hanno apparentemente impedito a Hezbollah di entrare in guerra per il momento.
Per capire cosa sta accadendo in Medio Oriente, è necessario comprendere la politica e la strategia dell'Iran, mossa dall'Islam sciita. L'Iran è convinto che l'Islam governerà il mondo. La guerra tra Iran e Iraq sotto Saddam Hussein è durata otto anni. Da allora, l'Iran non è più stato coinvolto direttamente nelle guerre, ma ha costruito cosiddetti proxy che combattono le guerre per suo conto.
Anche gli Houthi, un altro proxy iraniano nello Yemen, hanno lanciato missili contro Israele in direzione di Eilat. Fortunatamente non hanno avuto successo. Gli Houthi hanno anche condotto una guerra contro l'Arabia Saudita, causando gravi danni all'industria petrolifera del Paese. Questo è il motivo principale per cui i sauditi sono interessati a un'alleanza con Israele, soprattutto perché Israele, come loro stessi oggi, vede l'Iran come la più grande minaccia alla pace mondiale.
C'è il rischio che gli Houthi blocchino lo stretto di Bab-al-Mandab, impedendo così il passaggio delle navi attraverso il Mar Rosso e il Canale di Suez. A quanto pare gli Stati Uniti sono consapevoli di questo pericolo, dato che hanno agito rapidamente per evitare una conflagrazione globale in questa direzione.
Il Marocco è l'unico Paese arabo ad avere un'alleanza di difesa con Israele, anche se non è passato molto tempo da quando i due Paesi hanno stabilito relazioni. Come mai? C'è anche un importante stretto vicino al Marocco, lo Stretto di Gibilterra. L'Iran sostiene gli insorti del Polisario nel Sahara occidentale, che vogliono diventare indipendenti dal Marocco. L'Iran sta quindi costruendo segretamente un proxy in questo stretto, una delle più importanti rotte di navigazione, pronto a conquistare e bloccare lo stretto all'"ora zero".
Tutto ciò appare desolante, ma ci sono punti luminosi. Israele ha arabi musulmani nell'esercito, drusi, beduini e altri, alcuni dei quali occupano posizioni di rilievo. Alcuni di loro hanno perso la vita nella lotta contro Hamas. Le loro famiglie hanno espresso l'orgoglio di aver potuto contribuire alla lotta contro questa barbarie inaudita. Hanno poi affermato: "Siamo al fianco di questa lotta fino alla vittoria!".
Abbiamo sentito ripetutamente la dichiarazione dei media qui in Israele: "Questa è una guerra della luce contro le tenebre, e la luce vincerà!"
Stiamo effettivamente vedendo i segni che le guerre di cui parla la Bibbia per i tempi finali si stanno avvicinando. Possa Dio dare al suo popolo Israele e a tutti noi che siamo dalla parte del Signore Dio la forza e la fermezza di difendere Lui e la sua causa.
Con questa preghiera nel cuore, cordiali saluti, dal vostro
Fredi Winkler
(Nachrichten aus Israele, dicembre 2023)
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Barcellona: sospesi i rapporti con Israele
di Nathan Greppi
Venerdì 24 novembre, il consiglio comunale di Barcellona ha approvato una mozione per
sospendere ogni rapporto con Israele fino a quando non avverrà un cessate il fuoco con la Striscia di Gaza.
La mozione, come riporta il Jewish Chronicle, era stata portata avanti da Barcelona en Comú, lista civica di sinistra del precedente sindaco
Ada Colau
, ed è stata appoggiata dall’attuale sindaco
Jaume Collboni
del PSC (Partito dei Socialisti di Catalogna), assieme al partito secessionista Sinistra Repubblicana di Catalogna.
La mozione condanna gli attacchi alla popolazione civile di Gaza, equiparando gli attacchi terroristici di Hamas alla reazione israeliana, e individua i principali ostacoli alla pace nella “occupazione e colonizzazione di territori palestinesi” e nella “negazione dei diritti” al loro popolo.
La Colau ha dichiarato
che quello che sta avvenendo “non è una guerra, è un genocidio. Non dobbiamo solo denunciarlo, ma anche agire”.
La decisione è stata accolta positivamente da Hamas, che ha elogiato la decisione di Barcellona
in un comunicato ufficiale sul loro canale Telegram, invitando altre città a fare lo stesso.
Già a febbraio, l’allora sindaco Colau aveva sospeso i rapporti con Israele e il gemellaggio con Tel Aviv. In quell’occasione
Lior Haiat
, portavoce del Ministero degli Esteri israeliano, definì la decisione “in totale contrasto con la posizione della maggioranza dei cittadini di Barcellona e dei loro rappresentanti in consiglio comunale”. Aggiunse che la decisione “è di sostegno agli estremisti, alle organizzazioni terroristiche e all’antisemitismo, e danneggia gli interessi dei barcellonesi”.
In seguito alle elezioni comunali di giugno, in cui la Colau venne sconfitta, il nuovo sindaco Collboni aveva restaurato a settembre le relazioni con lo Stato Ebraico e il gemellaggio con Tel Aviv.
Dopo i fatti del 7 ottobre, diversi membri del governo spagnolo hanno rivelato posizioni antisraeliane
: il giorno stesso del massacro, la vicepremier Yolanda Diaz Perez arringò una folla a Cadice esprimendo il proprio sostegno ai “fratelli e sorelle del popolo palestinese”. Mentre a novembre, durante una visita al confine tra Gaza e l’Egitto, il Primo Ministro Pedro Sánchez ha criticato l’operato d’Israele e chiesto il riconoscimento di uno Stato palestinese. E con la formazione del nuovo governo il 21 novembre, ha nominato Ministro per l’Infanzia e la Gioventù la comunista Sira Rego, che ha
giustificato l’operato di Hamas
con la scusa della “resistenza”.
(Bet Magazine Mosaico, 29 novembre 2023)
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Hamas straccia le intese. Separa le famiglie e prova a logorare Israele
Doppia tortura per i piccoli
di Fiamma Nirenstein
Palloncini, sorrisi, discorsi di tenerezza e benvenuto. Israele è un Paese che da quando è nato non fa altro che festeggiare commosso la sua resurrezione da guerre, il superamento dei suoi terribili lutti, la sua gioia di essere vivo e l’incredibile resistenza dei suoi cittadini e soldati. La gioia di chi ritorna e di chi lo accoglie dopo il timore di una separazione definitiva è in questi giorni fonte di grande fiducia. Così è in questi giorni: si cerca di risorgere un po' nei ritorni quotidiani degli ostaggi. Ma è difficile ripararsi dalle immense contraddizioni che la gioia contiene, i soldati aspettano sulla sabbia di Gaza, è un confronto perdente col sadismo di Hamas: anche ieri la restituzione è contestata ritardata, alla fine arriva dopo la rottura del sempre ritardati, sempre contestati nel buio di Gaza dal sadismo di Hamas.
Hamas rompe i patti, divide madri e bambini a suo piacimento in modo da allungare i tempi e avere tregue più lunghe, offre ostaggi ottenendo un sì per i prossimi due giorni senza promettere i bambini di cui anzi lascia intendere di aver perso le tracce per il bel numero di 18 creature. Non a caso ieri su 9 bambini c'erano solo due mamme; e ancora, i due bambini Bibas dai capelli color carota che tutto il mondo ormai conosce, uno dei quali ha dieci mesi, non sono fra i restituiti. Un altro gesto di odio e ripicca.
Hamas cerca anche di confondere la testa del mondo suggerendo una sindrome di Stoccolma con finti saluti gentili dei mostri e delle loro vittime. Ma poi è chiaro: Elma Avraham 84 anni, appena giunta in Israele è crollata in una sorta di coma finale con cui i dottori lottano, tutti sono denutriti, Adina Shoshani di 72 anni, il cui marito era stato appena assassinato quando i terroristi l’hanno caricata sulla moto, scendendo dalla macchina ha respinto con la mano il braccio del terrorista. La gente d’Israele seguita a combattere con tutte le sue forze per l’ossigeno del ritorno dei propri cari.
Ma se sono una bandiera le foto di Avigail, 4 anni, restituita dopo 50 giorni di prigionia, è difficile ignorare che questa bambina non ha più casa, la sua mamma e il suo babbo sono stati assassinati a Kfar Aza, le restano i nonni e i due fratellini Michael di 9 anni e Amalia di 6 che si sono salvati restando zitti chiusi un armadio per sei ore mentre i mostri cercavano altre vittime nella casa. Avranno di che pensare e parlare nel futuro. E se tutta Israele tesse una tela di positività indispensabile, di generosità unica, pure la tragedia del 7 di ottobre è immanente, onnipresente finché Hamas non sarà sconfitto. Hila, 13 anni, accolta nelle braccia dello zio, è tornata senza mamma: Raya Rotem era con la figlia fino a poche ore prima del rilascio e Hamas dice invece che ne ha perso le tracce. Manipolazioni. Anche Maya Regev è stata restituita mentre Itay suo fratello di 18 anni, è sempre nelle mani dei terroristi. Chi ha visto la foto di Chen Goldstein che finalmente riceve fra le sue braccia Agam di 17 anni, Gal di 11 e Tal di 9 sente un grande dolcezza e consolazione: ma forse i bambini ignorano che sono orfani del padre e orbati della sorella diciannovenne Yam, rimasta col papà, uccisi. Ella Elyakim di 8 anni e la sorella Dafna di 14 che finalmente abbiamo potuto vedere nelle braccia della mamma, hanno visto assassinare il padre, la sua compagna, il loro bambino Tomer. Le storie che accompagnano queste e tutte le altre vicende sono complicate una ad una, con nascondigli, bruciati vivi, tagliati a pezzi… sono peggiori di qualsiasi film dell’orrore, sono storie di caccia alle donne ai bambini. L’amore della gente di Israele, generoso, consistente, accompagna uno ad uno chi ritorna; anche chi li accoglie è orfano, vedovo, scioccato.
Gli ultimi ostaggi, quasi tutti bambini, sono stati scortati con boria militare dai gruppi di terroristi che Sinwar ha usato nelle operazioni di sterminio, e persino con le stesse macchine pickup bianche. Dentro il nord di Gaza, dove specie a Sajaia sembra essere viva la forza di Sinwar, i soldati aspettano il segnale. Ci vorrà ancora del tempo, lo scambio durerà altri due giorni almeno. Molti calcoli dicono che anche dopo queste manovre, Hamas si terrà ancora 18 bambini in mano. Ma alla fine, è escluso che Israele non riprenda la battaglia per tornare a dare ai suoi, a tutti quanti, una casa.
(il Giornale, 28 novembre 2023)
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Il popolo israeliano vuole la vittoria
I nostri leader politici non devono permettere che il naturale desiderio di restituire gli ostaggi prevalga sull'urgente necessità di distruggere Hamas.
di Douglas Altabef
GERUSALEMME - Israele si sta attualmente concentrando sul rilascio graduale di gruppi di ostaggi detenuti da Hamas. Nell'ambito del cessate il fuoco temporaneo tra Israele e il gruppo terroristico, negli ultimi quattro giorni sono stati rilasciati 50 ostaggi israeliani. Oggi e domani verranno rilasciati altri 10 ostaggi al giorno.
La domanda è: cosa succederà dopo? È qui che le cose diventano non solo opache, ma potenzialmente spaventose.
Hamas spera ovviamente che ci abitueremo ai rilasci quotidiani, il che implica un cessate il fuoco più lungo. In questo scenario, Hamas diventa un burattinaio. Avrà il pieno controllo degli eventi e del calendario. Inoltre, l'influenza di Israele, che deriva dal suo successo sul campo di battaglia, diminuirà con l'estensione del cessate il fuoco. E ciò incoraggerà coloro che vogliono che Israele si ritiri e ponga fine alle sue operazioni militari.
I leader americani ed europei proclameranno: State recuperando tutta la vostra gente, avete causato gravi danni ad Hamas, avete ucciso molte persone a Gaza - sembra abbastanza. A questo si aggiunge l'enorme costo economico di mantenere centinaia di migliaia di riservisti dell'IDF sul campo.
Tutto ciò potrebbe significare che la richiesta di porre fine alla guerra diventerà sempre più forte, persino irresistibile.
Questa è la formula del disastro.
Israele non sta combattendo una guerra per salvare ostaggi. Stiamo combattendo per il terreno su cui ci troviamo. Il barbaro massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre ci ha insegnato che non possiamo più tollerare la loro esistenza sul nostro confine. Non se vogliamo un Israele del sud.
Il pericolo insito nello scenario descritto sopra - la perdita della determinazione a distruggere Hamas - è quindi assoluto.
Le truppe israeliane sul campo non hanno certo perso la loro determinazione. Una montagna di prove aneddotiche suggerisce che i soldati dell'IDF sono desiderosi di continuare a combattere e sono assolutamente contrari a porre fine alla guerra.
È quindi facile credere che la guerra continuerà. Ci stiamo prendendo una pausa solo perché non abbiamo altra scelta.
Lo sento dire spesso, ma perdonate il mio scetticismo. Questo scetticismo non è diretto contro il popolo israeliano, né contro coloro che stanno facendo tutto il possibile per riportare a casa tutti gli ostaggi. È diretto contro la nostra leadership.
Questa leadership ha inizialmente insistito sul rilascio di tutti gli ostaggi, ma poi ha ceduto e ha accettato l'attuale cessate il fuoco. In questo contesto, è difficile credere che le odierne pacche sulle spalle non lascino presto il posto a un atteggiamento molto meno aggressivo.
Cosa possiamo fare noi, comuni israeliani che vogliono distruggere Hamas?
In primo luogo, dobbiamo continuare a ricordare ai nostri leader politici che noi, i loro elettori, ci aspettiamo che siano risoluti. Condanneremo con forza qualsiasi deviazione dall'obiettivo di sconfiggere Hamas.
Un esempio di questo tipo di promemoria è l'enorme manifesto che l'organizzazione Im Tirtzu ha appena srotolato sull'autostrada della spiaggia (Strada 2) vicino al raccordo Glilot tra Tel Aviv e Herzliya. Lo striscione recita: "Un intero popolo chiede la vittoria". Ricorda ai nostri leader gli obiettivi che gli israeliani sostengono a larga maggioranza:
- L'eliminazione di Hamas.
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La messa in sicurezza permanente del corridoio di Gaza.
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Il rilascio degli ostaggi.
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Il ritiro a nord per neutralizzare la minaccia di Hezbollah.
È compito della leadership israeliana, non dei suoi elettori, pianificare e attuare questi obiettivi. Ma temo che ancora una volta i cittadini abbiano le idee più chiare e siano più impegnati a raggiungere gli obiettivi nazionali urgenti rispetto alla nostra leadership.
Pertanto, noi cittadini dobbiamo essere inequivocabili. Dobbiamo dire ai nostri leader che non devono permettere che il naturale desiderio di salvare gli ostaggi faccia abbandonare il compito urgente di sconfiggere Hamas.
Dovrebbe essere ormai chiaro che negoziare il rilascio degli ostaggi senza chiarire il vero motivo della presa di ostaggi è solo un invito ad altri rapimenti e ad altre distruzioni.
Noi, il popolo, dobbiamo assicurarci che i nostri leader lo capiscano: Non possono abbandonarci. Non possono aspettarsi che Israele sia di nuovo al sicuro se non viene eliminata questa minaccia.
Prendiamo molto sul serio la loro dichiarazione che i leader di Hamas sono uomini morti. Lasciamo che accada.
Nessuna preoccupazione umanitaria, nessuna pressione internazionale può cambiare la determinazione del popolo israeliano. È in questi momenti che emergono i grandi leader. Sono all'altezza della sfida e ci trascinano con sé con la loro irremovibile determinazione a raggiungere la vittoria.
Netanyahu, Galant e Gantz, la nazione si aspetta che voi siate fermi, determinati e risoluti. Questo è il vostro momento. Coglietelo. Portateci la vittoria che noi, i vostri cittadini, chiediamo. Non accetteremo nulla di meno.
(Israel Heute, 28 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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A proposito della manifestazione di sabato: io, ebrea e femminista, mi sono sentita esclusa dal corteo
In piazza la solidarietà con i palestinesi e nessuna voce contro gli stupri subiti dalle donne israeliane da parte dei terroristi di Hamas.
di Daniela Hamaui
Essere ebrea ed essere femminista: non ho mai pensato che ci fosse una contraddizione tra queste due anime. Sabato invece mi sono trovata davanti a un bivio: andare o non andare alla manifestazione di Roma, partecipare o meno a quello che ritengo essere un momento di cambiamento fortissimo nella battaglia contro la violenza sulle donne. Per la prima volta quasi 500 mila ragazze, ragazzi, donne e uomini hanno sfilato contro il femminicidio, per il rispetto dei diritti, della dignità e dell’autodeterminazione delle donne. Hanno preteso che nessuna ragazza debba avere più paura a uscire alla sera o sia costretta a correre con le chiavi in mano per aprire velocemente il portone e sfuggire a un molestatore. Hanno ricordato Giulia Cecchettin, la sua morte atroce e urlato le parole taglienti di sua sorella Elena. Dopo anni in cui le giovani chiedevano: “Perché devo essere femminista?”, la risposta era davanti ai loro occhi. Giulia era stata uccisa da un ex fidanzato che non accettava la separazione e la libertà che lei pretendeva. La mobilitazione di sabato rimarrà quindi nella storia del femminismo italiano come un importante momento di svolta e partecipazione ma converrà interrogarsi su quale direzione prenderà questo movimento.
Io ho deciso di andare comunque alla manifestazione di Milano ma non riuscivo a farne davvero parte. Qualcuno dirà che nei raduni di massa c’è sempre qualcuno che si sente escluso, che il conflitto israelo-palestinese era marginale rispetto ai temi dei diversi cortei, che i fatti avvenuti il 7 ottobre sono atroci ma che il popolo di Gaza soffre da anni. Tutto vero, anche se non posso fare a meno di chiedermi: ma il movimento femminista non era nato per tutelare tutte le minoranze? Anche quelle di una sola donna discriminata? Non avevamo davvero pensato che la sorellanza fosse il vero e unico motore per cambiare il mondo?
Chiunque abbia ascoltato i resoconti, i racconti delle sopravvissute al massacro da parte dei terroristi di Hamas e abbia letto l’articolo denuncia della professoressa Tamar Herzig sulle pagine di questo giornale, sa che quel giorno è stato compiuto forse il più violento stupro di massa dei nostri giorni. In poche ore ragazze, donne e bambine sono state violentate, mutilate, portate via sanguinanti e con le gambe spezzate. Il corpo di Shani Louk, catturato al rave party, è stato usato come un trofeo: buttata su un camion seminuda, Shani è stata oltraggiata da chi, sapendo che era già morta, le ha sputato addosso.
Il silenzio su questi fatti è stato quasi assordante, nessun riferimento nelle varie assemblee e raduni che hanno preceduto la grande manifestazione di sabato. Nessuna voce si è alzata per denunciare, e Non Una Di Meno, l’organizzazione che ha promosso il corteo, ha deciso di aderire “alla lotta contro il genocidio di uno stato colonialista nei confronti di Gaza” e previsto la presenza di donne del Movimento degli studenti palestinesi con bandiere e slogan, ma non di israeliane che potevano partecipare ma senza nessun segno di identificazione.
Molte ebree nel mondo, dopo quello che è successo il 7 ottobre, si sono sentite in parte anche israeliane, vicine ai familiari degli ostaggi che da 52 giorni ne chiedono la liberazione e che manifestano contro il premier Netanyahu, responsabile di un pessimo governo, ma soprattutto vicine alle donne violate e uccise solo perché ebree. In tutte le guerre, il corpo delle donne è diventato un premio da esibire, da umiliare, da profanare. Lo stupro è usato come arma di dominio, di sopraffazione e anche se la Convenzione di Ginevra lo ha riconosciuto come un crimine contro l’umanità, la violenza sessuale ricompare ad ogni conflitto: dal Ruanda alla Bosnia, dal Congo al Darfur, dall’Ucraina fino a Israele, dove il 7 ottobre la guerra non era ancora iniziata.
Il movimento femminista ha sempre avuto a cuore la tutela delle donne ovunque siano state maltrattate e, in questo caso, avrebbe dovuto accogliere sia il dolore delle palestinesi che piangono disperate la morte dei loro figli sia quello delle israeliane, vittime di un attacco atroce e premeditato. Il silenzio della manifestazione non ha fatto male solo alle israeliane e alle ebree a cui è mancata la vicinanza, ha fatto male soprattutto al movimento che ha preferito distinguere tra le vittime da sostenere e quelle da dimenticare, stabilendo così che non tutte le violenze meritano uguale rispetto e attenzione.
(la Repubblica, 28 novembre 2023)
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I moralismi universali finiscono quasi sempre per avere una componente antiebraica. MC.
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Rabbino aggredito con insulti antisemiti a Genova. “Clima pericoloso”
GENOVA – Minacciato di morte con un cacciavite e insultato perché «ebreo». È l’incubo vissuto ieri pomeriggio in via Lomellini, nel centro storico, dal rabbino Haim Fabrizio Cipriani, 55 anni, che ha dovuto chiedere l’intervento della polizia, per difendersi da un uomo che lo ha preso di mira mentre camminava per strada, solo perché indossava la kippah. Il folle ha anche estratto dalle tasche un cacciavite, gridando a Cipriani: «Vai via sporco sionista di m..., sennò ti apro».
Lo stesso rabbino ha immediatamente dato l’allarme. Sul posto sono intervenute le pattuglie della Digos e dell’ufficio prevenzione generale della Questura. I poliziotti hanno bloccato l’uomo che lo aveva aggredito e lo hanno accompagnato in questura.
Si tratta di un genovese di 58 anni che è stato denunciato a piede libero per minacce aggravate. E gli è stata contestata anche l’aggravante degli insulti razziali, prevista dalla legge Mancino. «È stata davvero una brutta esperienza - spiega Cipriani - perché in generale ma soprattutto a Genova si respira un brutto clima di odio verso di la popolazione ebraica. E quanto accaduto oggi (ieri per chi legge, ndr) ne è una dimostrazione. Non mi sono spaventato, ma sono indignato per quanto ho subito».
A tratteggiare un momento storico estremamente complesso e difficile da affrontare è la presidente della Comunità ebraica genovese, Raffaella Petraroli. «È stato un atto inqualificabile, ma va inquadrato con la persona che lo ha commesso, che da quanto ho capito è un soggetto fragile - spiega - Il problema è il clima pesante che si respira». Il riferimento è alle iniziative in corso in città: «Abbiamo quotidianamente manifestazioni pro Palestina, l’occupazione dell’Università, dibattiti con personaggi discutibili. Con una condizione di ignoranza diffusa su ciò che è lo Stato di Israele, le sue origini e la sua storia. Ecco, in un clima di questo genere alcuni possono trovare la spinta per sfogare le proprie fragilità».
Ancora domenica scorsa ha sfilato per le strade una manifestazione per la Palestina, a Genova. Il corteo regionale, organizzato dal movimento Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni (Bds), era partito da piazza Caricamento per raggiungere piazza Matteotti, con lo slogan: «Palestina libera-Israele fascista Stato terrorista». All’iniziativa avevano aderito altre associazioni, partiti e sindacati. “Free Palestine”, “Free Gaza”, “Generazione dopo generazione fino alla liberazione”, “Stop genocide”, “Fermate i bombardamenti”, “Le vite palestinesi contano” e “Fuori Israele dall’Università” le scritte su alcuni degli striscioni e dei cartelli in mezzo a bandiere palestinesi, mentre gli organizzatori hanno chiesto e ottenuto che fossero abbassate le bandiere di partito.
Al corteo hanno partecipato anche un gruppo di profughi palestinesi e rappresentanze di studenti universitari e delle scuole genovesi con lo striscione “Studenti e operai con la Palestina”. Va ricordato poi come a Lettere sia in corso un’occupazione che, però, non blocca le lezioni.
La crisi tragica che si vive fra Israele e Palestina non può non fare da sfondo, per Petraroli, a una difficoltà di dialogo evidente.
«Non possiamo dire nulla per la crisi in atto. E che lascia senza parole, da una parte e dall’altra. Quel che è certo è che invece riceviamo solidarietà da tutte le istituzioni e le forze dell’ordine garantiscono sicurezza alla sinagoga 24 ore su 24. Di tutto questo siamo estremamente grati. Ma prenda ad esempio il 25 novembre, la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Nessuno ha fatto riferimento a quanto di terribile hanno subito le donne nell’attacco del 7 ottobre. Solo la ministra Eugenia Roccella e Mara Carfagna hanno scritto parole su questo. Mi permetto una punta di amara autoironia, il signore che ha aggredito Cipriani oggi ha avuto il coraggio di dire ciò che molti purtroppo pensano e non dicono».
(Il Secolo XIX, 28 novembre 2023)
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"Il 7 ottobre è la fine del compromesso e il ritorno del Jihad". Parla Georgers Bensoussan
"La guerra in Israele è un nuovo episodio della lotta tra due nazionalismi. Ma questa lettura non funziona più. Una lettura religiosa sembra più convincente con un’organizzazione islamista che non prevede né compromesso né negoziazione, ma solo la distruzione dell’altro" dice lo storico al Foglio
di Giulio Meotti
È sera quando i corpi senza vita di due “collaborazionisti d’Israele” sono trascinati per strada, dileggiati e al grido di “Allahu Akbar” appesi a un palo della luce. Non siamo a Gaza sotto Hamas, ma a Tulkarem sotto l’Autorità Nazionale Palestinese, finanziata dalla Ue, dall’Onu e dagli Stati Uniti, a soli dieci chilometri dalla città israeliana Netanya. Una ferocia che sembra confermare la tesi di Georges Bensoussan, lo storico francese che ha scritto “Storia della Shoah” (Giuntina), “Genocidio, una passione europea” (Marsilio), “Il sionismo” e “L’eredità di Auschwitz” (entrambi per Einaudi). “Il 7 ottobre è un nuovo episodio nella lotta tra due nazionalismi, ma questa lettura occidentale non funziona più” dice Bensoussan al Foglio. “Una lettura religiosa sembra più convincente con un’organizzazione islamista che non prevede né compromesso né negoziazione, ma solo la distruzione dell’altro. Non è un movimento politico, ma millenarista condannato a schiacciare o essere schiacciato”. Su questo piano, Hamas è la continuazione della lotta guidata dal mufti di Gerusalemme Amin al Husseini, che tra l’inizio degli anni ’20 e il 1949 si oppose a qualsiasi accordo e rifiutò tutte le vie negoziali offerte dagli inglesi. “Fino al rifiuto nel 1947 della decisione delle Nazioni Unite di spartire la Palestina in due stati” continua Bensoussan al Foglio. “È un riflesso della lotta condotta sul campo dagli arabi di Palestina, una lotta che non fa prigionieri ebrei né lascia dietro di sé alcun ebreo ferito. Qualsiasi avversario che cade nelle loro mani (compresi i bambini) in un convoglio caduto in un’imboscata, ad esempio, viene assassinato. Questo livello di violenza estrema, accompagnato dalla crudeltà nell’uccisione e nella profanazione dei cadaveri, scuoterà le coscienze della comunità ebraica, compresi i suoi membri più pacifisti, e finirà per distruggere ogni possibilità di convivenza tra i due popoli. La violenza estrema con intenti genocidi come quella del 7 ottobre 2023 ti blocca in un’alternativa omicida: ‘Loro o noi’. Il conflitto è meno politico che esistenziale contro uno stato di Israele giudicato colpevole di esistere. Una visione che affonda le sue radici nella psiche degli individui abitati dal delirio paranoico dell'antisemitismo che fa dell'ebreo la spiegazione ultima dei disordini del mondo. Avendo la Shoah ‘disonorato l’antisemitismo’, come ha affermato Georges Bernanos, è lo stato ebraico a essere al centro di una fantasmagoria poco attenta alla storia. Queste rappresentazioni mentali fanno parte di un delirio collettivo, come la ‘caccia alle streghe’ che si diffuse in gran parte dell'Europa centrale nel XVII secolo, o la febbre antisemita europea della seconda metà del XIX secolo. Solo un’analisi culturale e antropologica, unita alla psicoanalisi, sarebbe in grado di districare questo intreccio. Ecco perché cercare di dimostrare che lo stato d’Israele non cerca di uccidere bambini piccoli o di sventrare donne incinte è praticamente inutile perché le convinzioni, più forti dei fatti, costituiscono una colonna vertebrale della psiche e una difesa contro l’ansia della libertà”. Parti importanti del mondo islamico sono ancora ossessionate dalla distruzione di Israele. “Addurre tre ragioni, semplificando” ci dice Bensoussan. “Innanzitutto perché il dogma islamico espresso nella Sunna e nella Sira (la vita di Maometto), come in alcune parti del Corano, implica una visione degradata dell'ebreo. Il suo status di dhimmi (‘protetto’ o ‘sotto l’egida di’) implica un’inferiorità giuridica che, a lungo andare, configura un’inferiorità antropologica. Con lo stato di Israele la regola fondamentale che regola i rapporti tra ebrei e musulmani è stata calpestata. In secondo luogo, secondo la regola coranica, un ebreo non può comandare un musulmano. Con lo stato di Israele, gli ebrei comandano i musulmani in Israele così come in Cisgiordania. Questa situazione è un’assurdità teologica. In terzo luogo, il successo dello stato di Israele è uno schiaffo in faccia alla psiche araba collettiva. Mette in luce il fallimento complessivo del mondo arabo, la sua incapacità di costruire una società democratica e aperta, la sua incapacità di trattenere i suoi giovani qualificati, ecc., un fallimento tanto più violento in quanto contrasta con il successo di buona parte dei paesi asiatici. Pertanto, per spiegare il successo israeliano, gran parte del mondo arabo ricorre alla teoria del complotto. A maggior ragione quando occorre spiegare le vittorie militari israeliane sugli eserciti arabi. Anche questo è il motivo, oltre al suo aspetto religioso in senso stretto, per cui questo conflitto sta assumendo sempre più una svolta antropologica, quella dello scontro tra due modelli di società, una società aperta e orizzontale, di fronte a una società verticale, autoritaria e clanica”. Cosa rispondere a coloro che accusano Israele di rubare terre ai palestinesi giustificando così gli orrori di Hamas. “Questa è una questione centrale. Gli ebrei sono accusati di essere intrusi, ‘colonialisti’. La realtà storica dice il contrario: assistiamo, nel XIX secolo, all’interno della minoranza ebraica continuamente presente su questa terra, a un movimento di rinascita nazionale ebraica. Un movimento che intende emanciparsi dal diritto ottomano (lo fece nel 1918) e soprattutto dalla dhimma, abolita per legge nel 1856, ma che di fatto persiste nelle mentalità. Liberarsi di questa secolare oppressione che rende gli ebrei (e i cristiani) cittadini di seconda classe è ciò che rende il sionismo, fin dalle sue origini, un movimento di emancipazione e una lotta anticolonialista contro una condizione dominata dall’islam. È questa lotta che, nata dall’interno della Palestina stessa e alla quale si unisce il movimento sionista dall’esterno, intende rifondare uno stato-nazione nella terra dei nostri antenati”. Ma la Umma è impegnata a negare che esista una terra degli antenati. “Sappiamo che il legame speciale degli ebrei con Gerusalemme è oggi contestato. Ma allo stesso modo in cui possiamo, con la stessa sicurezza, assicurare che la terra è piatta e che il sole gira attorno al nostro pianeta. Queste sciocchezze ideologiche non impediscono che Gerusalemme venga nominata più di 600 volte nella Bibbia. L’accusa di colonialismo rivolta agli ebrei ha un insospettabile aspetto orwelliano. Questa è l'origine di questa tragedia. Coloro che volevano la guerra l’hanno persa e oggi si presentano come vittime di un ‘oppressore colonialista’. Attraverso un’efficace macchina propagandistica, manipolano la compassione universale e tendono (generalmente con successo) a farci dimenticare le origini di questa disgrazia. Il principio della sovranità ebraica e quello della liberazione da uno status discriminatorio sembrano difficilmente accettabili in un mondo arabo-musulmano che, nonostante alcuni tentativi hanno mancato il movimento illuminista occidentale”. Rimangono infine altre questioni storiche, raramente sollevate e tuttavia cruciali per chi vuole comprendere, al di là della legittima emozione di ciascuno, il caos di oggi. “Perché lo stato arabo previsto dal voto delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947 non è nato contemporaneamente allo stato di Israele? Alla fine della guerra, nel gennaio 1949, perché non fu proclamata l’indipendenza della Palestina araba in Cisgiordania e Gaza? Perché i rifugiati palestinesi, tre quarti dei quali rimangono in Palestina, non sono stati ricollocati in patria, ma rinchiusi nei campi profughi, rendendoli, nel mondo, gli unici rifugiati di padre in figlio? Perché i rifugiati che hanno raggiunto i paesi vicini, ad eccezione del Regno di Giordania, non hanno ricevuto né permessi di lavoro né naturalizzazione? Perché la Cisgiordania, parte dello stato di Palestina concepito dalle Nazioni Unite, fu annessa dal re Abdullah nel 1949? E perché il territorio di Gaza era allora amministrato dall’Egitto? Perché la Lega Araba ha accettato per 18 anni (1949-1967) che questi territori palestinesi non avrebbero dato origine a uno stato di Palestina indipendente? Infine, perché l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite creata nel 1950 su base temporanea per aiutare i rifugiati palestinesi, continua nel 2023? È in queste origini storiche che risiede la verità del conflitto”. L'attacco del 7 ottobre è stato costellato da atti di barbarie. “L’efferatezza di cui parli non è un’operazione militare, è una ‘caccia agli ebrei’ in una violenza che è implicitamente la risposta alla rivolta degli ebrei dominati contro la sua condizione di dhimmi, la risposta all'’arroganza’ dal sottomesso di ieri che pretende di fondare uno stato-nazione in Palestina. È la sua ribellione che intendiamo far pagare all’ebreo con questo sfogo di crudeltà. Tuttavia, gli occidentali oggi sono incapaci di comprendere questa economia dell’odio, sognano da woke una società pacifica ed edonistica, dimenticando che la forza principale dei popoli, come diceva Raymond Aron, non risiede tanto nella ricerca dei propri interessi razionali quanto piuttosto nella ricerca trionfo delle loro passioni arcaiche”. La politica è accettazione della realtà, il messianismo apocalittico appartiene ad un altro ambito, conclude Bensoussan. “Il nazionalismo è capace di negoziare con la realtà anche a costo di maledirla perché è consapevole dei suoi limiti. Per lui la politica è un mezzo. Questa concezione si ispira alla modernità dell'Illuminismo e più precisamente allo shock intellettuale e politico delle guerre di religione in Europa nei secoli XVI e XVII, che portarono per la Francia all'Editto di Nantes e per l'Europa ai trattati di Vestfalia (1648). Il mondo arabo-musulmano ha conosciuto diversi tentativi di modernità. Ma questo promettente vento di liberalismo, dal Cairo a Baghdad, si esaurì negli anni ’30 sotto il peso delle ideologie totalitarie provenienti dall’Europa, e si perse definitivamente con la sconfitta araba del 1967 che, di conseguenza, conferì all’islam un peso maggiore nel 1979 con la vittoria degli islamisti sciiti a Teheran. Tuttavia, l’orizzonte islamico di cui Hamas partecipa è la Jihad che separa il mondo tra la terra dell’Islam e la terra della guerra (Dar el Harb) combattuta per la conquista. Una concezione del mondo evidentemente in contrasto con lo spirito dell'Illuminismo e che rende impossibile qualsiasi soluzione politica”.
Il Foglio, 28 novembre 2023)
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Torna ‘’Più libri più liberi’’: anche la cultura ebraica presente tra stand e conferenze
di Michelle Zarfati
Dal 6 al 10 dicembre torna a Roma Più Libri Più Liberi, la fiera nazionale interamente dedicata alla piccola e media editoria. La manifestazione, promossa e organizzata dall’Associazione Italiana Editori/AIE, si terrà come di consueto nello scenografico edificio de La Nuvola all’Eur. “Più libri più liberi” è un appuntamento ormai consolidato nella Capitale per lettori, editori e amanti dei libri. L'iniziativa celebra quest’anno i suoi ventidue anni e aprirà al pubblico con più di 594 espositori, provenienti da tutto il Paese, che presenteranno il proprio catalogo e le novità. Cinque giorni densi con più di 600 appuntamenti. La manifestazione sarà inaugurata ufficialmente il 6 dicembre e aprirà le porte al grande pubblico con un tema fondamentale per la lettura, la libertà.
Come ogni anno, anche la letteratura ebraica sarà presente in tutte le sue forme, sia tra gli espositori della fiera sia tra gli appuntamenti e le conferenze in calendario.
Sarà dunque un’occasione perfetta per immergersi anima e corpo nel mondo magico dei libri, per poterli toccare, annusare, acquistare e leggere. Tra gli stand, la letteratura ebraica sarà rappresentata dalla casa editrice ebraica Giuntina, con testi che spaziano dalla saggistica ai grandi classici per arrivare ai romanzi storici. Numerosi anche gli appuntamenti e le conferenze. Si partirà proprio il 6 dicembre con la presentazione del libro "Tre stelle nel buio" (Manni) di Lia Tagliacozzo, che assieme a Pupa Garribba parlerà ai ragazzi delle leggi razziali e della Shoah. Si proseguirà alle 18.30 con la presentazione del libro "il Progetto Ernesto Nathan" (Nova Delphi), dedicato all'omonimo Sindaco di Roma. Alla presentazione saranno presenti numerose personalità tra cui Rav Riccardo Di Segni, Rabbino capo della Comunità Ebraica di Roma e Francesco Rutelli ex Sindaco di Roma. L'indomani avrà luogo la presentazione del libro "Il pensiero di Vasilij Grossman" (Rosenberg & Sellier) di Giovanni Maddalena: un testo dedicato alle idee presenti nelle opere di Grossman, noto giornalista e scrittore ebreo sovietico. Non solo, nei giorni successivi verrà presentato l'ultimo atteso libro di Erri De Luca "Cercatori d’acqua" (Giuntina), un testo in cui lo scrittore porta i lettori alla riflessione sull'importanza dell'acqua focalizzando l'attenzione su come l'elemento sia presente negli scritti biblici.
Questi sono solo alcuni dei numerosi appuntamenti previsti durante la fiera libraria. Conferenze e presentazioni imperdibili dedicate a scrittori e temi ebraici declinati a loro volta con linguaggi sempre diversi.
Tanti i visitatori e gli amanti della lettura previsti alla manifestazione ma anche numerose scuole, che rappresentano anno dopo anno un messaggio speranzoso per il futuro, capace di dimostrare come la letteratura resista e come i libri possano ancora avere quel valore sociale e culturale di cui sono da sempre investiti.
(Shalom, 28 novembre 2023)
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Il lupo si è mangiato la nonna e la sua casa, ma l’amore vince ancora
di Angelica Calò Livnè
Siamo cresciuti con la Bella addormentata nel bosco, Biancaneve e Cenerentola, ma ora queste fiabe non vanno più: oggi ai bambini non si raccontano storie di streghe, di matrigne e mele che addormentano finché giunge un principe che con un bacio sulle labbra fa risvegliare la dolce principessa. Ora le protagoniste sono bambine coraggiose che conquistano mondi lontani, che insieme ai loro compagnucci costruiscono, inventano, creano, fanno lavoro di squadra con empatia, rispetto per sé stesse e per ogni creatura. I bambini, già dall’asilo, imparano a risolvere i problemi e a gestire il tempo, e questo accade qui in Israele e in tante altre parti del mondo. Sì, c’è ancora un po’ di magia per dare sfogo alla fantasia, ci sono zucche che volano, pinguini che danzano e scope sulle quali si cavalca per gareggiare con palline alate. Oggi le fiabe non fanno paura bensì sviluppano le capacità trasversali, insegnano a non arrendersi e ad intensificare i sensi e ad essere più accorti ma serenamente. Anche Avigail, Ela’, Dafna, Agam e tutti gli altri bambini di Be’eri, Nir Oz, Kfar Aza e Sderot sono cresciuti così e nonostante le sirene e gli aquiloni incendiari sono cresciuti senza rabbia e per 50 giorni sono riusciti a sopravvivere al buio, a volte senza cibo, a mani estranee e a volti mascherati che parlavano una lingua sconosciuta. Ora, una parte di questi bambini e di madri, eroi che sono stati trascinati via scalzi, in pigiama, sono tornati a casa, la loro casa che il lupo malvagio è riuscito a distruggere nonostante fosse costruita in pietra, a divorare i tre porcellini, le sette caprette, la nonna, Cappuccetto rosso e perfino il cacciatore. Per alcuni di loro non ci sono il papà o la mamma o nessuno dei due a riabbracciarli, tranquillizzarli e aiutarli a crescere a ripiantare in loro il seme della vita. Siedo imbambolata davanti alle immagini dei loro zii, delle loro nonne. Ho gli occhi pieni di lacrime mentre ascolto le loro parole: “Siamo di nuovo uniti, abbiamo tutta la vita davanti, ora è il tempo di ricostruire, ora è il tempo della speranza!” Le lacrime che mi riempiono il volto non sgorgano per la morte e per la distruzione, ma per la vita, per questa immagine incomparabile di positività, per gli occhi scintillanti di Omri che parla emozionato del ritorno di Hen, sua sorella con le figlie. A Hen hanno ucciso il marito Nadav e la figlia primogenita Yam.
“Nadav e Hen erano insieme da quando avevano 14 anni. Ora Hen dovrà portare avanti la sua famiglia da sola, ma noi siamo qui!”
Si tutto il Paese è qui, come scrisse il poeta Nathan Alterman, “ferito ma vivo, ad accogliere il miracolo, unico e solo”. Un Paese lacerato, con forze inesauribili che si rinnovano nel corso dei secoli dopo ogni pogrom, dopo ogni intifada, ancora e ancora malgrado e a dispetto di lupi, orchi, streghe e draghi sanguinari, perché l’arma segreta del popolo d’Israele è un amore che è al di sopra di ogni incantesimo o maleficio. L’amore è il nostro spirito e la nostra fede al di sopra di ogni male: un meccanismo arcano che ci aiuta a non soccombere e fa girare ancora il mondo.
(moked, 27 novembre 2023)
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Appena rilasciata strilla: «Cancellare Israele»
Oltre tre dozzine di prigionieri palestinesi, tra cui 24 donne, sono tornati a casa, come previsto dagli accordi. Il filo conduttore che lega la maggior parte di loro è il "sostegno al terrorismo". Fra i prigionieri liberati dagli israeliani c'è anche Nour AI-Taher, 18enne di Nablus, che vuole lottare per Gaza.
di Daniele Dell'orco
Oltre tre dozzine di prigionieri palestinesi, tra cui 24 donne, sono tornati accolti da eroi in Cisgiordania dopo il loro rilascio dalle carceri israeliane come parte dell'accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas.
Tra canti, urla e battiti di mani hanno sfilato persone tenute in custodia in Israele con accuse di vario genere, dai reati minori ai lanci di pietre (soprattutto per gli adolescenti), dai post social agli attacchi con pugnali contro soldati dell'esercito israeliano.
Il filo conduttore che lega la maggior parte di loro è il «sostegno al terrorismo», accusa che grazie a questo accordo è finita in una sorta di stand-by. Nour Al-Taher, 18enne di Nablus, ha persino potuto posare di fronte ai giornalisti davanti alla bandiera verde di Hamas che quasi si confondeva col suo niqab dello stesso colore. Dopo aver ringraziato Allah e la "Resistenza" palestinese, Al-Taher, in carcere da settembre 2022, che era stata arrestata durante scontri alla Moschea al-Aqsa, a favore di telecamera dice che adesso vuole «lottare per Gaza», ammettendo candidamente: «Il nemico è chiunque consenta a Israele di esistere».
Di fatto, autoassolvendosi per il passato ma magari anche per il futuro: «Qualsiasi sia l'accusa, qui, sei innocente, sempre, perché se hai violato la legge, è stato solo per opporti a Israele: per avere giustizia. Dei nostri 7mila prigionieri, 142 sono morti, morti di morte naturale. Israele non rilascia neppure i corpi», dice, parlando poi delle restrizioni imposte a tutte le detenute alle quali gli israeliani a suo dire «tolgono tutti i diritti». «Nessun essere umano può sopportarlo. Le condizioni delle detenute sono estremamente complicate. C'è una campagna massiccia per togliere tutti i diritti che le prigioniere avevano in precedenza. Posso solo dire che le condizioni sono estremamente terribili e intollerabili».
Un'altra prigioniera rilasciata ha scomodato il paragone tra le prigioni israeliane e Guantanamo. All'Arab News Agency, Assel Al-Tayti, dopo un anno di prigionia, ha definito «tragiche» le condizioni e parlato di Israele che picchia e pone in isolamento forzato le detenute: «Non c'era la televisione, la radio, niente ... Ci hanno fatto vivere in condizioni molto difficili e non sapevamo nulla dell'esterno. Vivevamo in stanze con le pareti, isolati».
Alcune ex detenute, come Hanan Barghouti, hanno scelto di non festeggiare il rilascio, ufficialmente per rispetto dei palestinesi uccisi, feriti e sfollati dai bombardamenti su Gaza. ma allo stesso tempo anche seguendo il consiglio delle autorità israeliane che non possono vedere di buon occhio le parate pro- Hamas.
Come quella di Fatima Amarneh 41 anni di Jenin, nel Nord della Cisgiordania, accolta con gli allori dopo essere finita in carcere per aver tentato di accoltellare un militare israeliano nei vicoli della Città Vecchia di Gerusalemme. Sempre in niqab, ma nero, divenne famosa sui social perché il suo attacco, ripreso dalle telecamere, venne respinto con la forza e il militare dell'Idf la prese a calci.
In molti video ripostati in queste ore di giubilo per i palestinesi, però la prima parte è scomparsa nel nulla.
Libero, 27 novembre 2023)
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I bambini rapiti da Israele tornano a una difficile realtà
di Antje C. Naujoks*
Almeno 30 minori israeliani di età compresa tra i 4 e i 17 anni sono stati crudelmente uccisi nel massacro di Hamas. Altri sette bambini, di età compresa tra i cinque e i dodici anni, sono stati uccisi a seguito di attacchi missilistici, tra cui cinque bambini della comunità beduina musulmana di Israele. La maggior parte di loro è stata privata della vita nelle loro case, dove avrebbero dovuto sentirsi al sicuro. Alcuni sono stati bruciati vivi, altri sono stati uccisi davanti ai loro genitori, mentre altri ancora sono stati costretti a guardare i terroristi di Hamas che massacravano i loro genitori.
Nella Giornata Mondiale dell'Infanzia, proclamata per la prima volta nel 1954 e celebrata il 20 novembre, l'UNICEF, il Fondo delle Nazioni Unite per l'Infanzia, ha taciuto sul crudele destino di questi bambini israeliani uccisi. Questo vale anche per 40 cittadini israeliani minorenni che sono stati rapiti nella Striscia di Gaza all'inizio di ottobre insieme a 200 adulti. La maggior parte di loro è stata rapita insieme a uno o entrambi i genitori da Hamas e da altri terroristi islamici radicali, compreso un bambino di dieci mesi.
Anche alcuni nonni sono stati rapiti insieme a loro e ai loro genitori. Ma i terroristi, così come presumibilmente i civili della Striscia di Gaza, hanno rapito anche bambini senza un parente al loro fianco. Tutte le organizzazioni internazionali che si occupano del benessere dei bambini sono rimaste vergognosamente in silenzio sulla sorte dei minori israeliani rapiti.
• Dettagli raccapriccianti
I minori costituiscono un sesto di tutti i rapiti da Israele alla Striscia di Gaza. Di questi, nove bambini non sono nemmeno in età scolare, avendo solo tra i dieci mesi e i cinque anni. La stragrande maggioranza, 19 bambini, ha un'età compresa tra gli otto e i 13 anni. Il gruppo dei 15-18enni comprende dodici ragazze e ragazzi. La maggior parte di questi 40 bambini e adolescenti sono ragazze.
Due 17enni sono stati rapiti nei kibbutzim Nir Yitzchak e Holit. Tutti gli altri sono stati presi dai terroristi nei kibbutzim Kfar Asa, Be'eri e Nir Os, che hanno un numero particolarmente elevato di vittime a causa di terribili massacri e i cui membri costituiscono anche la maggioranza dei rapiti.
Alcuni di questi bambini stavano semplicemente visitando i parenti che vivono in questi kibbutzim, come ad esempio le sorelle Aviv e Ras, di due e quattro anni, che, insieme alla madre Doron, non sono solo cittadini israeliani ma anche tedeschi. Hanno fatto visita alla nonna nel kibbutz Nir Os.
• Chi è tornato finora Venerdì sera, i primi ostaggi sono stati rilasciati nell'ambito di un accordo con Hamas mediato da Stati Uniti e Qatar, che è stato poi attuato per un periodo di alcuni giorni con il coinvolgimento dell'Egitto, vicino a Gaza e Israele. Anche la Croce Rossa Internazionale era presente, con i suoi emblemi in primo piano, mentre questa organizzazione umanitaria si è distinta per la sua assenza - alcuni sostengono addirittura l'inattività. Tra i primi a essere liberati sono stati Aviv e Ras insieme alla madre Doron.
Da allora, in un totale di tre rimpatri di ostaggi, sono stati liberati 40 israeliani, oltre a 17 cittadini thailandesi e filippini, il cui rilascio è stato garantito da un accordo separato. Dei 19 ostaggi rilasciati, 19 erano donne adulte di età compresa tra i 21 e gli 85 anni, il che significa che 21 bambini e giovani costituiscono la leggera maggioranza di quelli rilasciati finora.
• Ritorno traumatico La cittadina israelo-irlandese Emily Hand ha fatto notizia molto prima del suo ritorno in Israele. Emily, la cui madre è morta di cancro poco dopo la sua nascita, sta crescendo con il padre Thomas, al cui fianco si trovava l'ex moglie Narkis, assassinata il 7 ottobre.
Thomas Hand è stato inizialmente informato della morte della figlia. Due settimane dopo, ha appreso che l'identificazione non era corretta e che sua figlia era invece tenuta in ostaggio nella Striscia di Gaza. Non era a conoscenza delle condizioni degli ostaggi come tutti i loro parenti. Emily, che ha compiuto nove anni mentre era tenuta in ostaggio, è tornata in Israele sabato, accompagnata dalla sua migliore amica Hila Rotem, 13 anni.
Emily aveva trascorso la notte con Hila, che era stata rapita dal Kibbutz Be'eri insieme alla madre - e, come si è scoperto in seguito, anche insieme a Emily. Emily è una delle bambine tenute in ostaggio senza parenti.
Ma anche la sua amica Hila è tornata dalla Striscia di Gaza da sola, perché, contrariamente agli accordi, Hamas non ha garantito che madri e figli non fossero separati. Hila è stata separata dalla madre due giorni prima del suo rilascio. Il 25 novembre Emily è riuscita a volare tra le braccia del padre, che non voleva lasciarla andare. Hila Rotem è stata abbracciata dallo zio, fratello della madre.
Anche i fratelli Noam e Alma, di 17 e 13 anni, sono tornati in Israele da soli. Sono stati rapiti insieme al padre Dror. La moglie e madre Jonat è stata uccisa il 7 ottobre nel kibbutz Be'eri. Non solo hanno dovuto abbandonare il padre, ma anche il cugino Liam, di 18 anni, nelle mani di Hamas.
Tra gli altri parenti, solo il fratello Jahli, sopravvissuto perché non era nel kibbutz quando Hamas ha attaccato, ha potuto abbracciarli. Per la gioia dei fratelli, anche la cagnolina di famiglia Nella ha fatto parte del comitato di benvenuto, il che non era affatto scontato, dato che i terroristi hanno massacrato molti amati animali domestici nei kibbutzim insieme ai residenti.
• Una nuova realtà difficile Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden si è impegnato in prima persona per ottenere il rilascio di tutti gli ostaggi, ma ha ripetutamente sottolineato la sorte della piccola Avigail di tre anni. Avigail è cresciuta di un anno durante i circa 50 giorni in cui è stata tenuta in ostaggio e, insieme a Emily Hand, è una delle bambine rapite nella Striscia di Gaza senza parenti al loro fianco.
Avigail vive nel kibbutz Kfar Asa. Oltre alla cittadinanza israeliana, ha anche quella americana. Durante le settimane trascorse nella Striscia di Gaza, ha trascorso del tempo con i suoi vicini, dai quali era fuggita il 7 ottobre.
Insieme ai suoi fratelli di sei e nove anni, la bambina è stata costretta a guardare i terroristi che uccidevano sua madre Smadar. I tre bambini sono poi corsi fuori verso il padre Roi, fotografo del portale di notizie "ynet", che inizialmente aveva fotografato gli alianti dalla Striscia di Gaza, ma si è precipitato a casa quando ha capito che si trattava di un attacco massiccio.
Quando i bambini hanno visto che anche il padre era stato colpito dai terroristi, i fratelli maggiori sono corsi al riparo della loro casa e hanno chiamato il "Magen David Adom" (Stella Rossa di Davide). L'operatrice telefonica si è tenuta in contatto per 14 ore con i due bambini, che si sono nascosti in un armadio su suo consiglio. La sorellina Avigail corse dalla vicina famiglia Brodetz. Fu rapita insieme alla madre di questa famiglia e ai suoi tre figli.
Quando Avigail è stata liberata insieme alla famiglia Brodetz ieri, domenica, non solo non aveva una madre che la stringesse tra le braccia, ma nemmeno il padre, che nel frattempo era morto per le ferite riportate. Nel frattempo, i suoi fratelli sono stati accolti dagli zii.
• Immagini impresse nella sua memoria All'età di quattro anni, Avigail può non aver capito cosa accadde quel giorno, ma, come molti altri bambini, ha visto gli eventi. Le immagini sono indubbiamente impresse nella memoria anche dei più piccoli.
Molti minori israeliani, sopravvissuti o rapiti, devono anche fare i conti con il fatto di non avere più una casa fisica. Per i bambini, in particolare, una casa è più di quattro mura, perché la casa è sinonimo di sicurezza e protezione, di ricordi d'infanzia felici. Nel giro di pochi minuti, tuttavia, le loro case sono diventate la scena dei più sanguinosi massacri, perpetrati da terroristi che hanno strappato le vite di innumerevoli mamme, papà, nonne, nonni, zii, zie, cugini, nonché di vicini e compagni di gioco molto frequentati.
In Israele, nessuno vuole perdere la speranza che tutti gli ostaggi israeliani detenuti nella Striscia di Gaza ritornino. Ma nei prossimi giorni, se lo scambio continuerà, ci saranno altri bambini che si spera raggiungano la salvezza con le loro madri, ma dovranno lasciare i loro padri nell'incertezza dell’ostaggio. Un altro aspetto straziante nella vita segnata di questi giovani, delle loro famiglie e dell'intera nazione israeliana.
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* Antje C. Naujoks ha studiato scienze politiche alla Libera Università di Berlino e all'Università Ebraica di Gerusalemme. Traduttrice freelance, vive in Israele da quasi 40 anni, di cui oltre un decennio a Be'er Sheva.
(Israelnetz, 27 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Per Israele la guerra riprenderà subito alla fine della tregua
di Sarah G. Frankl
Le famiglie degli ostaggi sono diventate una forza politica in Israele e sono state fondamentali nel fare pressione su Netanyahu affinché accettasse l’accordo di scambio mediato dal Qatar.
Sebbene la maggior parte degli israeliani sia favorevole a prolungare la tregua per riportare a casa il maggior numero possibile dei 240 prigionieri, ciò non significa che vogliano che la guerra finisca, secondo il presidente dell’IDI Yohanan Plesner.
“Nella società israeliana nulla è cambiato”, ha detto Plesner. “Non vi è alcuna base nell’opinione pubblica per qualsiasi cosa abbia a che fare con un cessate il fuoco con Hamas o qualsiasi soluzione diplomatica”.
Ha aggiunto che: “C’è un’ampia consapevolezza che non c’è modo di ripristinare la sicurezza, la stabilità o qualsiasi tipo di rapporto pacifico con i palestinesi senza eliminare Hamas. E questo significa più operazioni di terra”.
Secondo un sondaggio condotto venerdì dall’Israel Democracy Institute (IDI), più del 90% degli ebrei israeliani sostiene il duplice obiettivo di schiacciare Hamas e salvare gli ostaggi. Alla domanda su cosa fosse più importante, il 49% ha scelto “liberare tutti gli ostaggi”, rispetto al 32% che ritiene che “rovesciare Hamas” dovrebbe essere l’obiettivo preminente.
Martedì scorso, durante il dibattito di gabinetto per approvare la prima interruzione dei combattimenti dall’inizio della guerra, il 7 ottobre, Netanyahu ha chiarito che un voto a favore dell’accordo non era un voto per una pace duratura. Nei giorni successivi, altri politici hanno celebrato le scene del ricongiungimento degli ostaggi con le famiglie – costantemente trasmesse in loop nei notiziari televisivi – chiedendo allo stesso tempo che le operazioni di combattimento riprendessero e fossero dirette al sud.
Le forze di difesa israeliane hanno affermato che le loro truppe all’interno di Gaza rimangono pronte, sebbene la sorveglianza dei droni e le operazioni aeree siano state in gran parte sospese.
L’esercito si sta riorganizzando per la prossima fase delle operazioni, hanno detto i militari, e si aspettano che Hamas faccia lo stesso.
“Torneremo immediatamente alla fine del cessate il fuoco ad attaccare Gaza”, ha detto sabato il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, tenente generale Herzi Halevi. “Lo faremo per smantellare Hamas e anche per creare una grande pressione affinché restituisca il più rapidamente possibile il maggior numero possibile di ostaggi”.
“Qualsiasi ulteriore negoziato si svolgerà sotto il fuoco”, ha detto il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant alle truppe durante una visita a Gaza.
(Rights Reporter, 27 novembre 2023)
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Svolta nell’inchiesta sull’attacco alla Sinagoga di Roma del 9 ottobre ‘82
di Michelle Zarfati
“Finalmente dopo quarantuno anni si comincia a vedere un po’ di luce nel buio” commenta a Shalom Sandro Di Castro - rimasto ferito dall’attacco terroristico del 9 ottobre ‘82 - alla rivelazione di ‘La Repubblica’. Secondo il quotidiano, infatti, è sorta una svolta circa l’inchiesta sull’attacco alla Sinagoga di Roma che ebbe luogo il 9 ottobre del 1982. Il terribile giorno in cui, un commando di terroristi palestinesi, riconducibili al Consiglio Rivoluzionario di Al Fatah guidato da Abu Nidal, colpì la Sinagoga di Roma durante la festività ebraica di Sheminì Atzeret: alle 11.55 del mattino, mentre i fedeli in festa uscivano dalla sinagoga, furono quaranta le persone gravemente ferite e a pagare con la sua stessa vita il piccolo Stefano Gaj Tachè, che morì tragicamente a soli due anni.
Dopo quarantuno anni di silenzio e di vicoli ciechi giudiziari sono indagati ora quattro terroristi. Secondo la Procura di Roma e la Digos, infatti, gli autori dell’attacco potrebbero essere gli stessi individui appartenenti al gruppo che mise in atto l’attentato a Parigi del 1982, sempre contro obiettivi ebraici. I loro nomi sono: Walid Abdulrahman Abou Zayed, Gamal Tawfik Arabe El Arabi, Mahmoud (alias Osman) Khader Abed Adra e Nizar Tawfiq Mussa Hamada. A questi si aggiunge l’unico responsabile individuato sin da subito e condannato in contumacia: Abdle AlZomar che riuscì tuttavia a scappare dall’Italia verso le coste libiche. I loro nomi sono stati iscritti nel registro degli indagati.
L’attentato fu e continua ad essere una ferita indelebile nell’anima e nel cuore degli ebrei di Roma. “Era impossibile che un solo uomo fosse riuscito a far tutto da solo. Quell’operazione era un progetto che prevedeva almeno trenta persone, se non più. È sicuramente qualcosa di positivo vedere iscritti nel registro degli indagati finalmente i nomi di quattro terroristi. Sarebbe tuttavia interessante che la magistratura indagasse su eventuali fiancheggiatori italiani che, visto il periodo delle brigate rosse e del terrorismo, sicuramente sono stati coinvolti. Un’altra cosa su cui mi piacerebbe che la magistratura indagasse è il possibile coinvolgimento di quel fotografo che, casualmente, si trovava davanti alla Sinagoga nel momento dell’attentato. Lui che disse poi di essere arrivato “casualmente” da via Arenula davanti alla sinagoga perché udì il suono degli spari” prosegue Di Castro.
Come riportato da ‘La Repubblica’ gli inquirenti francesi, che hanno lavorato a stretto contatto con gli omologhi italiani, hanno confermato come entrambi gli attentati (quello di Parigi e quello di Roma) siano stati compiuti da uno stesso gruppo di attentatori. Persino le munizioni utilizzate nei due attacchi appartenevano ad uno stesso lotto di produzione di una fabbrica polacca. Anche Victor Fadlun, Presidente della Comunità Ebraica di Roma, in una nota ha ringraziato le Forze dell’Ordine per il loro operato ed i risultati ottenuti, chiedendo al contempo al Governo italiano pressioni a livello internazionale per ottenere l’estradizione dei criminali.
(Shalom, 27 novembre 2023)
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Walker Meghnagi: stupore, delusione e amarezza per la lettera dei 4000 docenti universitari
di Walker Meghnagi
Presidente della Comunità ebraica di Milano
Con grande stupore, delusione e amarezza, abbiamo letto la lettera firmata da più di 4000 membri delle università italiane.
Le menzogne, la mistificazione, il cinismo bugiardo, espressi nella lettera, ricordano gli anni bui delle persecuzioni antisemite, dall’Inquisizione fino alla Shoah e ai gulag.
Quello che colpisce soprattutto è come questa intellighenzia si nutra di un odio antico verso gli ebrei per aiutare i criminali dell’integralismo islamico a realizzare il loro programma che è la distruzione di Israele.
Noi sappiamo che la stragrande maggioranza del popolo italiano conosce la verità e la realtà medio-orientale che vede nello Stato di Israele l’unico Stato democratico della regione, che combatte da quasi 80 anni per la sua sopravvivenza, contro una immensa massa di nemici.
L’attacco del 7 ottobre ha mostrato al mondo la vera faccia di questi criminali e il loro piano di uccidere gli Ebrei solo perché Ebrei.
Questo è un momento molto triste per l’accademia Italiana.
La Comunità ebraica di Milano richiama tutte le istituzioni e le persone di cultura, a espellere simili individui dalla partecipazione e commistione, con fermezza e determinazione, dalle loro posizioni che giorno dopo giorno infettano gli Atenei e contagiano gli studenti ai quali va insegnato ben altro che l’odio razzista e l’antisemitismo.
(Bet Magazine Mosaico, 26 novembre 2023)
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Quei legami tra cortei e Hamas
di Enrico Paoli
La Kefiah per mascherare il volto, indossata sabato in piazza Castello a Milano, per aizzare la folla contro israeliani e giornalisti, nei video postati su Tik Tok non c’è. Dalla finestra del social più amato dai giovani esce il viso angelico di Dawoud Falastin, studentessa universitaria della Statale e figlia di un esponente di spicco dell’Associazione palestinesi in Italia, indossando solo il velo d’ordinanza, usato per coprire i capelli.
Ma di angelico, nei messaggi della pasionaria palestinese protagonista della manifestazione di sabato assieme ad una studentessa di Bergamo, anch’essa con il volto coperto dalla Kefiah, che ha lanciato pesanti offese nei confronti degli israeliani e di Israele, non c’è assolutamente nulla. Anzi, nei suoi video ci sono tutti gli elementi di quel filo rosso che legale piazze ai terroristi di Hamas. «Quando decolonizzeremo la Palestina, decolonizzeremo tutti i Paesi arabi», dice in un post, «Israele è li per far si che ci sia un controllo geopolitico europeo in Medio Oriente». «Il regime sionista ti fa esiliare, anzi ti costringere a scappare», sostiene in un altro. D’accordo, non siamo alla violenza verbale usata in piazza dall’altra barricadera pro Palestina, la studentessa di Bergamo con la sciarpa a scacchi bianca e nera sul volto per non farsi riconoscere («gli israeliani hanno problemi mentali e dovrebbero essere tutti in manicomio, hanno paura dei giovani palestinesi, i prigionieri di guerra israeliani li hanno presi in una casa di riposo»), ma è solo un gioco delle parti, una sottigliezza linguistica fra pasionaria buona e pasionaria cattiva. Il bersaglio è sempre lo stesso: lo Stato di Israele.
Solo che loro, le due ragazze, rappresentano l’immagine accattivante da mandare in piazza, da mostrare sui palchi delle manifestazioni, dando modo a chi muove le fila di restare nell’ombra. E sul camion usato come pedana, a manovrare le due giovani, sostenute dal Collettivo di estrema sinistra Cambiare rotta, in particolare c’era lui, Mohammed Hannoun, noto ai servizi di intelligence di mezza Europa e di Israele, che ogni anno organizza conferenze con le associazioni che sostengono la causa palestinese, quindi anche Hamas.
A luglio di quest’anno, a convalidare le ipotesi investigative delineate dalle unità antiriciclaggio europee è arrivato anche il ministero della Difesa di Israele, che ha chiesto al nostro Paese il sequestro di cinquecentomila dollari che sono stati trasferiti da Hamas ad Hannoun, definito dal ministro Yoav Galant «leader dell’organizzazione terroristica Pcpa – Conferenza popolare per la fratellanza palestinese – affiliata ad Hamas e capo dell’associazione benefica di solidarietà col popolo palestinese». Da luglio, come racconta il quotidiano online Linkiesta, nessuna Procura, né quella Nazionale Antimafia e Antiterrorismo né quella di Genova, ha agito dando seguito alla richiesta israeliana e dalle parti della Guardia di Finanza nessuno sa nulla. Ragione per la quale Hannoun è libero di organizzare manifestazioni a Milano e Genova, dove l’architetto palestinese risiede, che inneggiano all’Intifada «fino alla vittoria», lanciando raccolte fondi per Gaza, respingendo tutte le accuse. E lì, sul palco, ha diretto l’orchestra.
Evidentemente sono stati così bravi da riuscire a convicere un po’ di milanesi che le manifestazioni pro Palestina andate in scena in queste ultime settimane, fossero realmente attestati di solidarietà verso i palestinesi. Invece no. Come al solito nulla è come sembra, e anche quel che sembra pacifico non lo è affatto. E quanto avvenuto sabato lo dimostra apertamente. Tanto da indurre a pensare che la miriade di sigle e associazioni palestinesi, ne esistono di tutti i tipi, abbiamo trovato nel capoluogo lombardo un terreno fertile sia per la raccolta fondi, sia per la propaganda. E se l’Associazione dei palestinesi in Italia rappresenta la punta avanza di questa galassia, iniziano ad avere un peso anche l’Associazione degli studenti universitari Musulmani dell’Università degli Studi di Milano e altre sigle simili.
Non solo. La saldatura fra i palestinesi di Milano e il collettivo di Cambiare rotta, presente sabato in piazza per solidarizzare con Gaza e attaccare il governo Meloni, colpevole di sostenere Israele, non può essere certo un fatto casuale. Fare proselitismo lì, alla Statale, per i palestinesi rappresenta una grande occasione. E la pasionaria dal volto angelico, Dawoud Falastin, è il trattino che unisce i due mondi. Poi, a urlare gli slogan farneticanti, ci pensa la manifestante di turno...
Libero, 27 novembre 2023)
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Ultima tortura jihadista per logorare Israele. Ma Tel Aviv è pronta a riprendere la guerra
Il ritardo nella consegna degli ostaggi è parte della strategia di Hamas per tentare di allungare la tregua e tenere a tutti i costi il potere su Gaza. Il risalto in colore è aggiunto (NsI).
di Fiamma Nirenstein
GERUSALEMME - Uno scambio di ostaggi con Hamas non è un pranzo di gala. Hamas ieri ha inventato una nuova tortura e ne inventerà una al giorno per mettere Israele in ginocchio con l'unica arma che gli è rimasta e cercare di tornare a regnare su Gaza. Una serie di false accuse hanno bloccato al valico di Rafah gli ostaggi israeliani. Sinwar è ormai a un punto di rottura, il goffo tentativo di ieri di sollevare problemi tecnici su una questione vitale come il ritorno di 13 rapiti mostra solo la perversione di Hamas. Il suo terreno di gioco è l'impegno di Israele a non abbandonare nessuno, tantomeno donne e bambini, costi quel che costi. Si è concluso solo in nottata il perverso disegno di dominio della psiche israeliana, il rilascio era previsto alle 16 ma è slittato di molte ore. Durante tutto il giorno una vaga lista di proteste è uscita tramite pettegolezzi, la benzina promessa non è nella quantità prevista, i camion con l'aiuto umanitario non sono in numero giusto, i detenuti palestinesi non corrispondono al patto (peraltro sono rimasti fermi negli autobus fino come pattuito alla liberazione degli israeliani), Israele ha violato la tregua quando ha bloccato il passaggio a Nord (richiesto da Hamas) degli sfollati al Sud...
Intanto, probabilmente terrorizzati, i bambini israeliani con le loro mamme aspettavano di salire sulle ambulanze della Croce Rossa. Una dichiarazione delle brigate al Qassam ha sancito la decisione di Hamas. Al Jazeera ha detto che i rapiti non sarebbero stati consegnati fino al completamento del patto. In questo tragico teatro le famiglie e gli amici dei rapiti che secondo le previsioni, appartengono al kibbutz Be'eri che ha visto gli orrori più indicibili della strage, hanno aspettato all'hotel David sul mar Morto, dove le abbiamo visitate: nell'attesa, sono nel più profondo stato di choc, ma la forza della gente dei kibbutz di Israele di sopportare il lutto e la trepidazione è sorprendente. Non c'è invidia per le famiglie delle persone già liberate. C'è ottimismo nell'aspettare il proprio turno. La menzogna, dato che Israele non oserebbe mai violare un accordo che mette a rischio donne e bambini, vuole schiacciare la gente, i soldati, renderli sconvolti e incerti. Hamas vuole allungare i tempi per rimettersi in sesto: e suggerisce che gli scambi possano continuare altri giorni, forse fino a 10 giorni in cui si restituirebbero altri ostaggi. Per creare uno sfondo credibile si è avuto ieri lo sbarco a Tel Aviv di un inviato speciale dal Qatar e a Gaza la presenza dell'ufficiale sempre incaricato di portare le famose valigie verdi col denaro coi miliardi per Hamas. Sinwar spera che con l'aiuto del Qatar e dell'Egitto, e dato l'interesse di Biden alla tregua, può spingere avanti col terrore l'interruzione della guerra e farla diventare una tregua. Ma Israele sa bene che anche la restituzione dei rapiti è una conseguenza della sconfitta militare e certo non dei motivi umanitari. Per questo, nel bel mezzo del momento di più intensa tensione, il capo di stato maggiore Herzi Halevi ha detto a tutto il Paese in attesa: «Appena conclusa la restituzione dei rapiti, continuiamo». Ovvero, è solo questione di tempo. La salvezza di Israele non è nei patti con un'organizzazione di zombie che bruciano, stuprano, uccidono, decapitano, anche se il Qatar e l'Egitto fanno di tutto per farlo credere. È nel batterne l'organizzazione una volta per tutte, cancellarla dal confine lungo il quale sorgono i kibbutz e le città la cui devastazione ha cambiato Israele per sempre. Halevi ha dichiarato la determinazione dell'esercito ad andare avanti. Quando ha parlato non aveva ancora come confine la mezzanotte, l'ora in cui la tregua scadeva e l'esercito avrebbe dovuto prendere le sue decisioni nel caso in cui patti sugli ostaggi fossero stati violati.
(il Giornale, 26 novembre 2023)
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In un nostro articolo del 22 novembre scorso, dal titolo "Yahya Sinwar sfrutterà Israele...", il direttore del giornale online "Israel heute" esprimeva i suoi dubbi sull'accordo di cessate il fuoco con queste parole: «Sinwar ha insistito su un accordo graduale, e non è una coincidenza. Spremerà in tutti i modi il limone in una limonata chiamata "cessate il fuoco". Sinwar troverà una scusa dicendo che Israele non rispetta il cessate il fuoco e quindi che è libero "di non rispettarlo nemmeno lui». Vedremo se va a finire così. M.C.
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Come perdere la guerra preparandosi alla prossima
Come era prevedibile Hamas ha iniziato a giocare con Israele la partita degli ostaggi. Dopo la liberazione di quattro ostaggi avvenuta a guerra ancora in corso si è giunti all’accordo, mediato dal Qatar, di rilasciare progressivamente altri cinquanta ostaggi in cambio di una tregua di quattro giorni. L’accordo prevede che se Hamas sarà in grado di localizzare altri trenta ostaggi detenuti da soggetti terzi all’interno della Striscia, la tregua potrà estendersi ulteriormente di un giorno oltre i quattro stabiliti per ogni decina di ostaggi che verrebbero rilasciati in aggiunta a quelli già pattuiti.
Una possibile interpretazione del negoziato è che Hamas si trovi in difficoltà a causa della massiccia offensiva israeliana su Gaza e sia stato costretto al rilascio di un certo numero di ostaggi per guadagnare tempo e cercare sostanzialmente delle garanzie e una via di fuga per i propri maggiorenti, ma è una interpretazione assai poco convincente.
È un fatto che Hamas si trovi in difficoltà sotto il profilo militare. Israele ha potuto conquistare senza grandi perdite il nord della Striscia, colpendo come non aveva fatto prima strutture e infrastrutture del gruppo terrorista, ma non lo ha stroncato. Il grosso si trova asserragliato a sud, nei press di Khan Yunis, nascosto nei tunnel sotterranei dove detiene presumibilmente buona parte degli ostaggi, tra cui molti militari.
Per quanto Israele abbia eliminato un numero elevato di jihadisti, il grosso resta intoccato. Quello che appare chiaro, al netto dei wishful thinking è che il negoziato abbia svantaggiato Israele e avvantaggiato Hamas. Quest’ultimo ha ottenuto da Israele la cosa che gli premeva maggiormente, l’interruzione dell’offensiva (il rilascio di 150 detenuti nelle carceri israeliane in cambio degli ostaggi ha un peso solo simbolico e del tutto marginale), ovvero quel cessate il fuoco che tutti i nemici di Israele si auspicavano.
Israele ha dichiarato che l’offensiva riprenderà. Non costa nulla fare annunci. La verità è che su una sua eventuale ripresa peserà enormemente la pressione americana affinché la guerra non prosegua. Si cercherà in ogni modo di ottenere il rilascio di altri ostaggi prolungando ulteriormente la tregua e rendendo sempre più difficile a Israele riuscire a trovare la giustificazione per andare fino in fondo.
Qualche giorno fa Benny Gantz ha dichiarato che per sconfiggere Hamas ci vorranno decenni (nemmeno si trattasse della più organizzata e ramificata organizzazione terroristica del pianeta) e che l’obbiettivo primario di Israele è la liberazione degli ostaggi. Obbiettivo sacrosanto, ma non è più quello successivo al 7 ottobre e per il quale Israele è entrato in guerra: sradicare Hamas da Gaza.
Alla vittoria su Hamas Israele ha anteposto l’obbiettivo umanitario, così perderà la guerra e si preparerà alla prossima.
(L'informale, 26 novembre 2023)
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Diario di guerra: 25 novembre 2023
Da una newsletter di Naomi Ragen
Di tutti i post che ho scritto, devo dire che questo è il più difficile. E questo è sorprendente. Dopo tutto, negli ultimi due giorni almeno una dozzina di ostaggi israeliani sono stati liberati dalla prigionia di Hamas. Credetemi, è stato commovente vedere un uomo abbracciare la moglie e le due bambine. L'avevo visto seduto da solo su una panchina del parco e abbandonato per oltre un mese, e il mio cuore ha sofferto per lui.
Allora perché questo post è così difficile per me? Perché io e il resto del Paese proviamo un profondo senso di umiliazione. Sì, volevamo liberare i nostri ostaggi. Ma non in questo modo: prendendo ordini dalla feccia della terra, persone che dovrebbero essere già morte. Dover sopportare le loro richieste di liberazione dei prigionieri, di camionate di aiuti, e poi sentirli piagnucolare che non è abbastanza, che non liberiamo i prigionieri... Davvero, non provavo una tale rabbia dal 7 ottobre.
Non so se entrare in trattative con Hamas sia stato un errore se riusciamo a recuperare alcuni ostaggi, forse è l'unico modo possibile. Allora perché mi sembra un errore, e per giunta colossale? Perché la bocca dello stomaco mi fa male per la frustrazione e la rabbia?
Perché quello di cui avevo bisogno, quello di cui tutti noi in Israele avevamo bisogno, era di trovare i nostri ostaggi e liberarli in stile Entebbe, non con questa umiliante e disgustosa capitolazione all'estorsione di Hamas; non con questa dimostrazione di piegarsi alle richieste di persone che ormai dovrebbero essere sottoterra, con la bocca riempita di terra in modo da non poter più dire una parola, e certamente non fare richieste.
Quando stanotte è arrivata la scadenza alle cinque, poi alle sei, poi alle otto e sono arrivate nuove richieste - non arrivano abbastanza camion con la roba, non vengono rilasciati i giusti terroristi di Hamas, non lasciamo andare gli ostaggi - ho provato due cose. Prima la furia, poi un senso di enorme sollievo perché in risposta il nostro governo ha finalmente emesso la sua richiesta: entro mezzanotte, o ricominceremo a bombardare.
Volevo che iniziassero a bombardare. E così tutti gli altri nel Paese, tranne i parenti degli ostaggi che saranno liberati questa sera. Anche i nostri soldati lo volevano. Hanno sottratto tempo alle loro vite e alle loro famiglie per fare un lavoro e ora il nostro governo li tiene con le mani in mano. È una cosa che fa infuriare.
Il portavoce dell'esercito israeliano ha cercato di fare buon viso a cattivo gioco, parlando della nostra responsabilità morale di liberare gli ostaggi. Sì, ma non in questo modo. Un altro accordo su Shalit.
Gli unici ad essere felici che l'accordo sia stato salvato sono il Qatar, l'Iran e probabilmente l'Egitto. E le pressioni per mantenere il cessate il fuoco sono sempre più forti. Se tutto questo finirà con Hamas che gongola, sarà un pericolo mortale per Israele, forse non dal punto di vista militare, ma per il nostro morale e il nostro amor proprio.
Spero di sentirmi diversamente quando vedrò quei bambini tornare a casa dalle loro famiglie.
Spero di essere in grado di superare la mia ripugnanza e umiliazione e di evocare un po' della vera gioia che questo evento dovrebbe giustamente portarci quando i nostri familiari vengono salvati e restituiti a noi e alle loro vite.
(Notizie su Israele, 25 novembre 2023)
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La scelta infernale dietro l'accordo sugli ostaggi
Israele si trova in questa terribile situazione soprattutto per colpa degli Stati Uniti.
di Melanie Phillips
Come se gli israeliani non fossero già abbastanza traumatizzati dal riprovevole pogrom di Hamas del 7 ottobre, l'accordo sugli ostaggi ha aggravato la loro agonia. Mercoledì mattina sono stati annunciati i termini dell'accordo tra Israele e Hamas. Degli ostaggi, 30 bambini, otto delle loro madri e altre 12 donne sarebbero stati rilasciati in cambio di una "pausa" di quattro giorni negli attacchi aerei e di terra israeliani, di maggiori forniture di aiuti a Gaza e del rilascio di 150 prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane. Inoltre, Israele avrebbe esteso il cessate il fuoco di un giorno per ogni dieci ostaggi in più rilasciati da Hamas.
Nella tarda serata di mercoledì, il direttore del Consiglio di sicurezza nazionale israeliano, Tzachi Hanegbi, ha annunciato un ritardo. Gli ostaggi sarebbero stati rilasciati non prima di venerdì.
Nella tarda serata di giovedì, il Qatar ha dichiarato che l'accordo sarebbe entrato in vigore alle 7 di venerdì. Secondo vari rapporti, Hamas avrebbe posto all'ultimo minuto ulteriori condizioni per la consegna o avrebbe inasprito le sue richieste a Israele di limitare ulteriormente le sue attività militari.
Chi può essere sorpreso da tutto questo? Perché Israele ha perso il controllo degli eventi. In un colpo solo, ha ceduto il controllo della guerra al leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar.
La pressione delle famiglie degli ostaggi per giungere a un accordo è stata enorme. Nessuno in Israele può sfuggire al loro dolore.
Liberare gli ostaggi è un dovere sacro. Ma cosa succede se un accordo impedisce a Israele di adempiere al suo non meno sacro dovere di garantire che Hamas non possa mai più sottoporre gli israeliani a un simile attacco genocida o peggio?
E i termini dell'accordo sono terribili. Nel momento in cui l'IDF vuole avanzare nel sud di Gaza, si impegna a cessare la sorveglianza aerea per quattro giorni e nel nord per sei ore al giorno.
L'ex consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, John Bolton, ha dichiarato: "È del tutto inspiegabile e ingiustificabile che Hamas cessi la sorveglianza aerea su Gaza per un qualsiasi periodo di tempo, perché utilizzerà questo tempo per riposizionare o rilasciare alcuni dei suoi leader, trasferire gli ostaggi e prepararsi in altro modo per la prossima fase della battaglia".
Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha fatto sapere al Paese che le autorità di sicurezza ritengono che l'accordo non influirà sullo sforzo bellico e che "gli sforzi di intelligence vengono mantenuti in questi giorni".
Dal primo ministro israeliano alle autorità di sicurezza, fino ai vertici dell'esercito israeliano - queste sono le persone la cui compiacenza, arroganza e fatali errori di valutazione hanno reso possibile il pogrom del 7 ottobre. Come si può credere ancora a loro?
Sono già venuti meno alla parola data. Dopo il 7 ottobre, avevano giurato di non ripetere mai più la loro precedente politica di rilascio di prigionieri terroristi in cambio di ostaggi. Eppure, nell'accordo hanno accettato di rilasciare 150 prigionieri colpevoli di violenza terroristica - un rapporto di tre terroristi per un ostaggio.
Alcuni israeliani hanno detto che era impensabile lasciare lì gli ostaggi e che si sarebbe dovuto raggiungere immediatamente un accordo per il loro rilascio.
Queste emozioni sono comprensibili. Ma trascurano il fatto che gli ostaggi sono l'arma finale di Sinwar.
Hamas è un nemico dell'umanità che il mondo non ha mai visto. La sua principale arma di guerra è la popolazione - a Gaza, in Israele e in Occidente.
Trasforma la popolazione civile di Gaza in carne da macello per reclutare le sue legioni di utili idioti in Occidente, che rispondono alle cifre delle vittime manipolate da Hamas e alle immagini della sofferenza palestinese facendo pressione sui loro governi affinché smettano di sostenere Israele. E usa i suoi ostaggi per torturare gli israeliani e fare pressione sui loro governi affinché firmino un accordo disastroso.
Gli ostaggi sono quindi vitali per la sopravvivenza di Hamas. Come ha scritto il colonnello in pensione Shai Shabtai per il Centro BESA dell'Università Bar-Ilan: "Hamas ha un solo obiettivo nel trattenere gli ostaggi: negoziati infiniti per impedire il crollo del suo potere politico e militare".
Sinwar non vede quindi alcuna possibilità che gli ostaggi vengano rilasciati volontariamente. Potrebbe rilasciarne alcuni per confondere ulteriormente le idee agli israeliani. Ma trattenere gli ostaggi è il modo per vincere la guerra.
L'unica prospettiva realistica di liberare la maggior parte degli ostaggi è quindi che l'IDF distrugga Hamas il più rapidamente possibile.
Invece, l'accordo rende più probabile una possibile vittoria di Hamas. Dopo aver accettato questo cessate il fuoco, Israele subirà crescenti pressioni da parte dell'America e dell'Occidente per chiedere ulteriori e più lunghi cessate il fuoco "per ottenere il rilascio di altri ostaggi".
In questo modo, Hamas potrà sopravvivere e mantenere la sua minaccia di ripetere i massacri del 7 ottobre "ancora e ancora".
Israele si trova in questa terribile situazione soprattutto per colpa dell'America.
Il pogrom del 7 ottobre è stato segnato dalle impronte digitali del regime iraniano. L'Iran è anche dietro agli attacchi contro Israele che attualmente vengono portati avanti dalla Siria e dal Libano.
Ma sono state le amministrazioni Obama e Biden che con le loro politiche di pacificazione hanno permesso all'Iran di finanziare, armare, addestrare e guidare eserciti per procura, tra cui Hamas, Hezbollah e le milizie siriane intenzionate a distruggere Israele.
È stata l'amministrazione Biden che, cinque settimane dopo il pogrom di Hamas, ha versato nelle casse di Teheran altri 10 miliardi di dollari di sanzioni.
È l'amministrazione Biden che ha costretto Israele all'accordo sugli ostaggi. È l'amministrazione Biden che ora sta facendo pressione su Israele affinché non continui la sua guerra nel sud di Gaza, dove vuole schiacciare Hamas.
L'America dà a Israele una mano e con l'altra gli pianta un coltello nel corpo. Certo, rifornisce costantemente Israele di armi, senza le quali lo Stato ebraico sarebbe impotente.
Ma questo è il minimo che l'America deve fare per evitare che Israele venga distrutto sotto i suoi occhi, cosa che il popolo americano non tollererebbe mai.
Sì, l'amministrazione Biden ha dispiegato due gruppi di portaerei e un sottomarino nella regione "per scoraggiare l'Iran". Ma non ha usato questi mezzi per fermare i razzi di Hezbollah lanciati dal Libano verso il nord di Israele. Né ha risposto adeguatamente alle decine di attacchi iraniani contro le proprie forze in Iraq - anche se l'America potrebbe essere coinvolta ulteriormente nel conflitto, data l'inevitabile escalation di tali attacchi.
Invece, l'America sta usando il suo sostegno militare a Israele per costringerlo a una guerra che risponde agli obiettivi dell'amministrazione Biden di placare ulteriormente l'Iran e di creare uno Stato palestinese. Entrambi gli obiettivi rappresentano una minaccia mortale per la sicurezza e l'esistenza di Israele.
Se questo accordo restituirà la maggior parte degli ostaggi e sconfiggerà Hamas, si dimostrerà che coloro che hanno preso questa fatidica decisione hanno ragione.
Ma se questo permetterà ad Hamas di risorgere dalle ceneri di Gaza, allora le centinaia di israeliani che hanno perso la vita nel tentativo di fermarli definitivamente avranno compiuto l'estremo sacrificio per nulla; altri israeliani innocenti moriranno e l'Iran scatenerà incessantemente altra morte e violenza contro l'Occidente.
Il terribile dilemma di Israele con gli ostaggi ricorda le scelte indicibili imposte ai consigli ebraici che amministravano i ghetti in Europa durante l'Olocausto e che furono costretti dai nazisti a stilare liste di persone da deportare nei campi di sterminio o a rischiare l'uccisione di tutti i residenti del ghetto.
Questa scelta infernale è stata imposta a Israele da una rete di pressioni formata da Yahya Sinwar, dal regime iraniano e, peggio ancora, dall'amministrazione Biden.
Se la comunità ebraica americana assediata vuole sapere come aiutare al meglio Israele in questo momento terribile, dovrebbe far conoscere ai suoi concittadini ciò che l'amministrazione Biden sta facendo a Israele in loro nome.
(Israel Heute, 25 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Il “problema” Israele
di Niram Ferretti
L’informale nasce nel novembre del 2015, otto anni fa, con l’intenzione di fornire ai lettori interessati, in modo documentato e rigoroso, una serie di articoli e interventi sul Medio Oriente, sull’antisemitismo e su tematiche relative al mondo ebraico. La sua attenzione precipua è sempre stato Israele.
In questi otto anni abbiamo avuto la fortuna di ospitare molti autori, alcuni di fama internazionale, come Daniel Pipes, Robert Spencer, Georges Bensoussan, Bat Ye’or, Benny Morris, e altri, i quali ci hanno permesso di comprendere attraverso la loro corposa conoscenza di temi legati alla storia dell’Islam, al mondo arabo e al conflitto arabo-israeliano, le ragioni e i meccanismi sottesi all’odio nei confronti di Israele. Un odio inflessibile che trae principalmente linfa da quello che uno dei suoi maggiori studiosi, Robert S. Wistrich, definiva “l’odio più persistente”, o “l’ossessione letale”, diventati poi i titoli di due suoi libri seminali dedicati all’antisemitismo.
Israele è l’unico Stato al mondo al quale i suoi critici più feroci imputano la sua stessa esistenza. Non avrebbe dovuto esistere. Nemmeno durante la Seconda guerra mondiale, o durante il periodo della Guerra fredda, Stati tra di loro implacabilmente antagonisti come la Germania e la Gran Bretagna, o gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, hanno spinto la loro delegittimazione reciproca al punto tale di dichiarare che il proprio nemico non aveva alcun diritto all’esistenza, che il problema fondamentale non stava nei valori o nella visione del mondo di cui era portatore, o nella sua aggressività o disumanità, ma, appunto, nel semplice fatto del suo esistere.
Il desiderio di cancellare dalla faccia della terra Israele, oggi ufficialmente e programmaticamente dichiarato dall’Iran, e quindi da Hamas, che il 7 ottobre scorso ha dato un assaggio atroce di quello che farebbe con tutti gli ebrei israeliani, uomini, donne e bambini, se potesse farlo, e in passato incarnatosi nel tentativo di realizzarlo da parte dei paesi arabi, non è altro, sostanzialmente, se non la continuazione della convinzione profonda che nutre ogni antisemita genuino; che gli ebrei stessi sono il male e che la loro scomparsa dalla faccia della terra sarebbe un bene per l’intera umanità.
L’espressione più incandescente e devastante per conseguenze di questa convinzione, si è avuta con l’avvento del nazismo, quando Hitler progressivamente arrivò alla determinazione della Soluzione Finale, atta a “purificare” il mondo dal “male” ebraico e che in Medio Oriente, Amin al Husseini, il Mufti di Gerusalemme, si era incaricato di promuovere.
Nessuno che non abbia un minimo di senso della realtà, la capacità di guardare le cose senza pregiudizi, sia egli ebreo o non ebreo, non può non vedere che chi considera Israele un “cancro”, una “pestilenza”, un “abominio”, nutre esattamente questa stessa idea: che il “male” ontologico rappresentato dagli ebrei sia passato al loro Stato.
Certo, viene affermato, ci sono anche numerosi ebrei che sono critici nei confronti di Israele, e che non ne auspicano la dissoluzione. Ma la critica nei confronti di Israele, quando questa critica non è fondata sulla più vieta demagogia e propaganda, quella secondo la quale in Israele si praticherebbe l’apartheid nei confronti dei palestinesi, come pensava l’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, “lottatore per i diritti umani” elogiato da Hamas, o si genociderebbe la popolazione araba che nei decenni non ha fatto che incrementarsi, o che la Giudea e la Samaria sarebbero, contro ogni fondamento storico e giuridico, territori “palestinesi” occupati illegittimamente da Israele, e altro ancora, difficilmente, se non quasi mai, evita questo tipo di retorica e menzogna, fermandosi solo un attimo prima di affermare quello che l’Iran e Hamas dichiarano da decenni, che Israele è una realtà da rimuovere dalla geografia mediorientale.
Il fatto è, detto brutalmente e senza esitazioni, che quello che fa realmente problema relativamente a Israele, è fondamentalmente proprio questo, la sua esistenza. Va ammesso a denti stretti, hanno ragione gli antisemiti quando auspicano la sua distruzione o dichiarano che non doveva nascere, perché sanno cogliere con una precisione maggiore e una maggiore onestà intellettuale, il cuore del problema, quello che i critici ideologici camuffano dietro le loro accuse fantasiose e la loro delegittimazione politica.
L’odio per gli ebrei, the longest hatred per citare ancora Wistrich, si prolunga dunque, inevitabilmente, dentro Israele, ne è la sua fisiologica continuazione, e i numerosi ebrei, tutti immancabilmente di sinistra, che abitualmente criticano Israele, dentro o fuori di esso, affetti, nella migliore delle ipotesi da uno stordimento ideologico che rasenta la patologia o nella peggiore, da una ripugnante malafede, (e i primi a venire in mente nell’un caso o nell’altro, sono quelli di Zeev Sternhell, Illan Pappe, Noam Chomsky, Shlomo Sand, Gideon Levy, Amira Haas), in realtà chiedono a Israele di rinunciare ad essere prima di tutto uno Stato ebraico, poi di difendersi dal nemico concedendogli sempre più credito e legittimità. In altre parole, di rinunciare alla propria identità, di farsi più cedevole e malleabile, di indebolirsi. Gli chiedono, facendosi forti di un umanitarismo e di una democraticità totalmente astratti, del tutto sconosciuti nel mondo arabo e in quello islamico, di venire meno alla sua stessa ragione d’essere. Ma non lo fanno con la capacità di sintesi dura e pura dell’antisemita, il quale, nella sua incarnazione più subdola, afferma, come Ali Khamenei, di non avere nulla contro gli ebrei, vedi alla voce ebrei iraniani, sostanzialmente ridotti a dhimmi, ma di avercela con gli israeliani che, sono, un’altra cosa. Lo fanno in nome dei diritti umani, della presunta difesa del più debole, di chi, cioè, sempre appena ha potuto farlo ha tratto subito vantaggio dalle concessioni ottenute da parte di Israele per poterlo aggredire meglio, come è accaduto con i disastrosi Accordi di Oslo del 1993-1995 o dopo la decisione di Ariel Sharon di lasciare Gaza nel 2005, diventato poi roccaforte di Hamas.
Il grande rimosso che sta alla base delle critiche pretestuose, inette, diffamanti di costoro, è quello del persistente rifiuto arabo nei riguardi di uno Stato ebraico impiantato in una regione a maggioranza islamica, rifiuto che dura da almeno 100 anni, e che si è dovuto in parte addomesticare, vedi gli Accordi di Abramo, e prima di essi i trattati di pace con l’Egitto e la Giordania, perché ci si è resi conto semplicemente di una cosa, che Israele è più forte, e difficilmente può essere distrutto.
Distrutto come vorrebbe che fosse l’antisemita doc. La resistenza tenace di Israele è, in questo senso, emblema della resistenza stessa degli ebrei nei secoli, contro i vari tentativi assimilazionisti e poi eliminazionisti, di dissolverne la specificità.
(L'informale, 26 novembre 2023)
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Maledirò chi ti diminuirà
di Marcello Cicchese
L'Eterno disse ad Abramo: «Vattene dal tuo paese, dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre, nel paese che io ti mostrerò. Io farò di te una grande nazione e ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai una benedizione. Benedirò quelli che ti benediranno, e maledirò quelli che ti malediranno. E in te saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Genesi 12:1-3).
Questi tre versetti della Genesi possono essere considerati l'incipit di tutto il programma di redenzione di Dio. Soffermiamoci in particolare sulla frase:
"Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò quelli che ti malediranno".
Nell'originale ebraico, per indicare la benedizione in questo testo si usa sempre lo stesso verbo: ברך (barach), mentre per indicare la maledizione sono usati verbi diversi: il "maledirò" di Dio viene espresso con il verbo ארר (arar) mentre il "malediranno" degli uomini viene reso con il verbo קלל (qalal).
La cosa merita attenzione. Riportiamo allora i primi versetti della Bibbia in cui compare il verbo "arar".
Genesi 3:14 - Allora Dio il Signore disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, sarai il maledetto fra tutto il bestiame e fra tutte le bestie selvatiche! Tu camminerai sul tuo ventre e mangerai polvere tutti i giorni della tua vita.
Genesi 3:17 - Ad Adamo disse: «Poiché hai dato ascolto alla voce di tua moglie e hai mangiato del frutto dall'albero circa il quale io ti avevo ordinato di non mangiarne, il suolo sarà maledetto per causa tua; ne mangerai il frutto con affanno, tutti i giorni della tua vita.
Genesi 4:11 - Ora tu sarai maledetto, scacciato lontano dalla terra che ha aperto la sua bocca per ricevere il sangue di tuo fratello dalla tua mano.
Come si vede, sono tre devastanti maledizioni con cui Dio colpisce, nell'ordine, il serpente, la terra e l'omicida.
Riportiamo poi i primi due versetti della Bibbia in cui compare il verbo "qalal".
Genesi 8:8 - Poi mandò fuori la colomba per vedere se le acque fossero diminuite sulla superficie della terra.
Genesi 8:11 - E la colomba tornò da lui verso sera; ed ecco, aveva nel becco una foglia fresca d'ulivo. Così Noè capì che le acque erano diminuite sopra la terra.
Il verbo "qalal" qui viene tradotto con l'italiano diminuire, che in questo contesto non ha alcun sinistro significato morale ma indica soltanto l'abbassamento del livello dell'acqua.
In senso morale invece il verbo viene usato poco più avanti per rappresentare l'atteggiamento di Agar verso Sara dopo il concepimento di Ismaele:
Genesi 16:4 - Egli [Abramo] andò da Agar, che rimase incinta; e quando si accorse di
essere incinta, guardò con disprezzo la sua padrona.
L'espressione "guardò con disprezzo la sua padrona" vuol rendere il senso di una traduzione che letteralmente sarebbe "fu diminuita ai suoi occhi la sua padrona". La serva in un certo senso "diminuì" la sua padrona perché cominciò a guardarla dall'alto in basso. Le parti si erano invertite: prima la padrona stava in alto e lei in basso, adesso la padrona sta in basso e lei in alto. E tutto questo senza che nulla sia cambiato nei fatti, ma soltanto "ai suoi occhi". La fertile serva egiziana cominciò a guardare la sterile padrona ebrea con disprezzo, o forse soltanto con compatimento, che è la stessa cosa in forma diversa.
E' chiaro che con femminile intuito Sara non ci mise molto a capirlo. Conosciamo il seguito della storia: Sara va dal marito e gli dice che da quando Agar si è accorta di essere incinta, "io sono diminuita ai suoi occhi". E poiché la cosa non è sopportabile, invoca il giudizio dell'Eterno. Cosa che poi avviene, come si trova scritto nel seguito del racconto.
Il testo in questione di Genesi 12 potrebbe allora essere tradotto così, rispettando la figura retorica del chiasmo usata nell'originale:
Benedirò quelli che ti benediranno, e quelli che ti diminuiranno io maledirò.
Applicando queste parole al popolo d'Israele, discendenza etnica di Abramo, se ne deduce che per cadere sotto la tremenda maledizione di Dio (arar) non è necessario essere antisemiti militanti: è sufficiente diminuire (qalal) Israele ai propri occhi. Basta tenere nei confronti di Israele un atteggiamento simile a quello di Agar verso Sara: un intimo senso di superiorità, un latente disprezzo che può assumere forma di compatimento quando le cose gli vanno troppo male, un'avversione inespressa che emerge soltanto in occasioni particolarmente vistose, un disinteresse totale che si trasforma in antipatia quando viene disturbato e provoca lo sbuffo: "ma sempre questi ebrei, proprio non se ne può più!"
Nella maggior parte dei casi la maledizione di Dio non è percepita come tale, anche perché può avere diverse gradazioni di intensità e di tempi che la rendono irriconoscibile agli occhi di chi non è attento alle vie di Dio. Ma è tremendamente reale, perché Dio è una Persona seria: quello che dice, lo fa. Non è come i nostri governanti.
Le cose non cambiano in ambienti genericamente cristiani. "Diminuire" Israele ai propri occhi con una varietà di argomenti che si presentano come biblici è un fatto che avviene con naturalezza anche tra evangelici, ed esprime quella superbia da cui l'apostolo Paolo (Romani 11:13-32) vuole mettere in guardia i gentili che per grazia di Dio arrivano a credere nel Messia d'Israele come loro Signore e Salvatore. E se la superbia non è riconosciuta come tale, allora non si è più in grado di riconoscere che tanti problemi che affliggono singoli e comunità possono essere aggravati dalla mancanza di una benedizione che avrebbe dovuto esserci, ma non c'è.
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(Notizie su Israele)
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Spade di ferro giorno 50. Sospesa la liberazione del secondo gruppo dei rapiti
di Ugo Volli
• Il colpo di scena di Hamas
Alle sei di stasera Hamas ha comunicato di sospendere la liberazione del secondo gruppo di rapiti, fino a che Israele “continua a violare” i termini dell’accordo. La violazione consisterebbe nel fatto che Israele non consentirebbe ai rifornimenti di arrivare nella parte settentrionale di Gaza (il che è falso perché si sono visti in rete i filmati dei camion dei soccorsi nella città di Gaza) e non consegnerebbe i terroristi condannati in ordine d’anzianità come stabilito. Su questo punto è difficile avere conferme, ma è ovvio che la lista dei detenuti sia stata oggetto di trattative. Al momento non si capisce se Hamas stia facendo un gioco di nervi con Israele o se abbia deciso di rinunciare alla tregua. Funzionari della sicurezza dei Israele hanno dichiarato che “L'organizzazione terroristica di Hamas sa che se i rapiti non verranno rilasciati entro mezzanotte (23 in Italia), torneremo alle azioni militari”.
• Il cessate il fuoco ha funzionato per un giorno
La tregua provvisoria fra Israele e i gruppi terroristi iniziata ieri mattina alle 7 e giunta ormai alla durata di un giorno e mezzo, per un giorno aveva tenuto. Vi erano state alcune violazioni significative ma minori, alcuni razzi sparati pochi minuti dall’inizio del cessate il fuoco su villaggi nella cintura di Gaza; un missile antiaereo contro un drone israeliano che volava nella baia di Haifa, dunque ben dentro il territorio israeliano, abbattuto a sua volta da antimissili; il tentativo dei terroristi di spingere folle di arabi che si erano rifugiati nella zona meridionale di Gaza a cercare di tornare a casa rendendo di nuovo impossibili le operazioni israeliane, che è stato respinto con un uso molto limitato di armi da fuoco. Ma nel complesso non vi erano state imboscate e attacchi terroristici, anche l’attività del fronte settentrionale e delle squadre palestinesi in Giudea e Samaria era molto diminuito: Hamas si è limitato a uccidere e barbaramente appendere per i piedi a una palizzata due arabi di Tulkarem accusati senza processo di collaborazione con gli israeliani.
• La liberazione dei rapiti
Ieri sera sono stati liberati come previsto 13 cittadini israeliani rapiti da Hamas, quasi tutti del kibbutz Nir Otz o presi mentre vi erano in visita: Adina Moshe, 72 anni, a cui i terroristi hanno ucciso il marito; Aviv Katz Asher (2 anni), Raz Katz Asher (5), la loro madre Doron Katz Asher, la cui madre Efrat (69 anni) è stata anche assassinata il 7 ottobre; Margalit Moses, 78 anni, in convalescenza da un cancro, carissima amica di Efrat Katz, appena nominata; Danielle Aloni (44 anni) e la sua figlia di sei anni Emelia; Ruthie (72), Keren (55), e Ohad Munder, quest’ultimo ha compiuto in prigionia i suoi 9 anni; Yaffa Adar, 85 anni; Hannah Katzir, 78 anni, di cui era stata annunciata la morte per mano dei terroristi. Si tratta dunque di un gruppo di donne molto anziane e di madri con bambini; nessuna di loro è una combattente o è stata accusata di alcun reato, se non di essere ebree. Accanto a loro, senza richiesta di riscatto, sono stati rilasciati dieci rapiti thailandesi e un filippino. Oggi dovevano essere liberati altri 14 rapiti, un gruppo più o meno con la stessa composizione demografica. Qualunque persona minimamente onesta, quale che sia la sua posizione politica e il suo ruolo istituzionale, dovrebbe riconoscere che il loro rapimento e il loro successivo imprigionamento è un reato gravissimo, uno dei peggiori che si possano commettere. E però, come molte “femministe” non hanno protestato per gli stupri e i femminicidi di massa del 7 ottobre, così illustri docenti universitari e opinionisti non si sono sprecati a condannare il sequestro di persona.
• I terroristi scarcerati
Per contrasto, nella lista dei prigionieri condannati da regolari tribunali israeliani per gravi reati di terrorismo (anche se sono stati esclusi i terroristi colpevoli di omicidio), che vengono liberati in questi giorni figurano fra le donne Misoun Mussa, condannata a 15 anni per un attacco con accoltellamento nel 2015 contro un soldato israeliano a Gerusalemme; Marah Bakeer, arrestata nell’ottobre 2015 dopo aver accoltellato un poliziotto della polizia di frontiera e condannata a otto anni e mezzo di prigione; Asra Jabas, una palestinese di Gerusalemme Est che ha fatto esplodere un serbatoio di gas sotto la sua custodia a un posto di blocco vicino a Ma'ale Adumim, ferendo un agente di polizia. Vi sono poi 123 ragazzi con meno di 18 anni, fra cui cinque quattordicenni, tutti condannati per atti di violenza che vanno dall’accoltellamento all’investimento automobilistico, al tiro di bombe molotov, al tentativo di omicidio per mezzo di grossi sassi buttati contro i finestrini di automobili in corsa. Ogni equivalenza morale è del tutto improponibile.
• Gli sviluppi politici
Israele sa che il lavoro di pulizia dal terrorismo della Striscia di Gaza non è affatto terminato e intende riprendere la guerra dopo la fine della tregua per la liberazione dei rapiti, che dura fino a lunedì e può prolungarsi secondo l’accordo per ancora qualche giorno se Hamas sarà disposto a rilasciare altri sequestrati. L’Egitto ha confermato oggi la possibilità di un prolungamento “di un giorno o due”. Al di là dei colpi di scena tattici per alzare il prezzo, l’interesse dei terroristi è certamente opposto: prolungare la tregua per poter ricostruire le forze e riprendere il potere su Gaza, dopo aver ottenuto l’uscita dalla Striscia delle truppe israeliane usando la pressione internazionale. Per questo scopo i nemici palesi e occulti dello Stato di Israele lavorano con forza: non solo i manifestanti in piazza, siano islamisti o ultrasininsitri, ma anche governi e istituzioni internazionali, a partire dall’Onu.
• Il Qatar, il Belgio e la Spagna
Stamattina è arrivato in Israele una delegazione del Qatar, che appoggia diplomaticamente Hamas, ne ospita i dirigenti, gli fa da altoparlante mediatico con l’emittente internazionale Al Jazeera, ma si è ritagliato un ruolo di mediatore soprattutto grazie all'accondiscendenza americana. Il Qatar dichiaratamente lavora per estendere la tregua e renderla stabile (fino a quando i terroristi non vorranno romperla di nuovo). Israele è costretto ad ascoltarlo, se vuole liberare per via diplomatica qualche altro rapito. Le riunioni sono in corso in vista della scadenza di lunedì. Ieri invece si sono presentati al valico di Rafah due primi ministri dei governi più ostili a Israele, quello spagnolo e quello belga (mancava l’Irlanda per completare il quadro): personaggi politici che non hanno avuto neppure il buon senso o il minimo di ipocrisia di esprimere solidarietà a uno stato aggredito dal terrorismo e ai suoi cittadini massacrati, né hanno pensato bene di visitare Israele, ma sono andati in Egitto in occasione del rilascio dei rapiti solo a far pressione “per la pace”, in sostanza per riconsegnare Gaza ad Hamas. È una posizione moralmente insostenibile e politicamente debolissima (anche se la Spagna ha purtroppo la presidenza di turno dell’Unione Europea fino alla fine dell’anno). Ma bisogna citarla per comprendere i problemi e le pressioni che investiranno Israele nei prossimi giorni per rinunciare a combattere e lasciare la vittoria a Hamas.
(Shalom, 25 novembre 2023)
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Armi mute dopo 50 giorni. Ma la guerra non si ferma
di Fiamma Nirenstein
Non sono sonni tranquilli quelli nella Striscia: nel buio profondo del silenzio delle armi, dopo la liberazione dei primi ostaggi, i soldati di Israele e i terroristi di Hamas seguitano a fronteggiarsi. È un intervallo in cui tutto può succedere, i soldati avvertiti di conservare la massima allerta, sono rimasti tutti ai loro posti dentro il nord e sud di Gaza; i terroristi preparano in segreto le loro prossime mosse, qualsiasi gesto cinico e perverso è possibile. È sempre la guerra fatale nata da una strage mai vista dal popolo ebraico dal tempo della Shoah, e adesso giocata sulla pelle dei sopravvissuti, specie i bimbi piccoli, la carta preferita di Sinwar.
Inutile illudersi: la tregua non è in vista, solo un intervallo legato agli ostaggi, non si sa per quanti giorni oltre i quattro fissati. L'interruzione delle operazioni di guerra è per Hamas un guadagno che però segnala una sconfitta strategica: contro le previsioni di Sinwar, che si aspettava un'operazione limitata negli scopi e nel tempo come per le guerre precedenti, Israele ha cambiato volto. La decisione è stata quella di combattere una guerra di sopravvivenza che non consenta mai più a Hamas di conservare il suo potere sul territorio e la gente di Gaza. Fino ad ora il nord, centro decisionale strategico, è stato circondato, Sheik Jilin, Shati, Beit Hanun, Rimal e parte di Zeitun e Jabalia sono state conquistate. Le unità che le dominavano sono state eliminate, e così buona parte della leadership intermedia. I dieci battaglioni nel nord non esistono più. È difficile contare quanti dei membri delle 140 compagnie composte ciascuna da 100 armati sono stati cancellati, ma il panorama urbano è un incredibile spettacolo di devastazione, i rifugi, le abitazioni e le armi sono a pezzi. La ragnatela di tunnel sotto gli ospedali, così da garantire la protezione di scudi umani, la grande invenzione di Hamas, è stata in gran parte scoperta, e sgomberata di armi e uomini. Prima del cessate il fuoco l'esercito ha fatto saltare gli ingressi per impedire che gli uomini di Sinwar tentino di tornare a prendere possesso del nord e dei loro covi. Hamas ha chiesto di tornare a nord alla massa sfollata a sud dopo che Tsahal aveva chiesto di lasciare le zone di guerra; ci sono stati dei tentativi di tornare a nord fermati dall'esercito che ha fatto due morti.
Sinwar ha dunque accettato lo scambio costretto da una clamorosa sconfitta sul campo, anche a vedere indietreggiare gli amici che si aspettava intervenissero, dall'Iran agli Hezbollah a Assad fino agli iracheni che insistono solo nel bombardare le basi americane. Adesso Hamas cercherà di prolungare il silenzio e il divieto di sorveglianza aerea manipolando con la vita degli ostaggi il calendario e l'opinione pubblica israeliana e mondiale. Spera di riorganizzarsi e di spingerla sulla strada della tregua che consentirebbe all'organizzazione jihadista più pericolosa del mondo di restare in possesso di Gaza. Sinwar giocherà qualsiasi carta: ci saranno pesanti provocazioni per esporre Israele alla disapprovazione pacifista, azioni cosmetiche come quella di liberare 10 thailandesi e una filippina. Ma Israele, pure nell'indicibile emozione del successo, per niente scontato, nel mettere i cittadini al primo posto, specie i bambini, sa che la maggioranza deve ancora tornare, e che i soldati restano per ora sulla sabbia di Gaza, finché Hamas non sia sconfitto.
(il Giornale, 25 novembre 2023)
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Solo due persone in questa strada sono sopravvissute"
Sette settimane dopo il 7 ottobre, non tutti i corpi sono stati identificati nel kibbutz Kfar Asa. Solo pochissimi dei sopravvissuti pensano di tornare.
di Valentin Schmid*
Non sono solo le macerie a rendere difficile camminare per le strade di Kfar Asa. Anche la vista è insopportabile. Lungo alcune case a schiera, spezie e bottiglie d'olio sul pavimento suggeriscono che gli appartamenti nella zona d'ingresso avevano le loro cucine. Ma non c'è odore di cibo, bensì di cenere e di bruciato.
In un soggiorno, i mobili, le pareti e il soffitto sono disseminati di così tanti fori di proiettile che è quasi impossibile contarli. Accanto c'è la camera da letto, piena di vestiti e biancheria intima. Molti dei residenti sono stati massacrati nei loro letti.
"Qui vivevano quasi solo giovani", racconta un soldato israeliano. "Singoli, studenti e famiglie". Fissa una grande pozzanghera tra le macerie. "Solo due persone in questa strada sono sopravvissute. Non si sa come, ma in qualche modo ce l'hanno fatta".
È una coincidenza che Hamas abbia imperversato qui il 7 ottobre? Una mappa satellitare di Kfar Asa, trovata sul corpo di un terrorista morto, suggerisce il contrario. Mostra una scuola elementare, un centro giovanile e altri punti particolarmente dolenti.
• “I NUMERI CAMBIANO RAPIDAMENTE"
"Nel kibbutz abbiamo le nostre forze di sicurezza", spiega Israel Lender. Ma la maggior parte di loro è stata colpita mentre si recava all'armeria comune. "Sono morte 63 persone, 18 sono state rapite". In seguito, persone provenienti da Gaza sono arrivate con borse e secchi per saccheggiare le case di Kfar Asa. Siamo rimasti nel bunker per 36 ore. Sentivamo la nostra gente che veniva uccisa attraverso la finestra. Ogni urlo era come se mi entrasse nel cuore", ha dichiarato il 66enne. "Non ho abbastanza parole per spiegarvelo".
Una portavoce dell'esercito interviene. C'erano state almeno tre avanzate contro il kibbutz. Hamas era arrivato con parapendio, moto e camion per uccidere i 53 civili. "No, 63!", interviene Israel Lender. "I numeri cambiano rapidamente", riassume il portavoce dopo una breve discussione. E infatti gli archeologi sono ancora al lavoro a Kfar Asa, setacciando le ceneri delle case bruciate alla ricerca di resti umani.
• O LORO O NOI"
A pochi metri di distanza, Hanan, 39 anni, si trova tra i resti della sua vecchia vita. "Ho preso l'abitudine di venire qui ogni settimana per pulire il mio giardino". Indossa una maglietta bianca con scritte rosse: "Kfar Asa è la nostra casa".
All'improvviso, un forte botto squarcia il silenzio, ma Hanan non si scompone. "È solo l'artiglieria dell'esercito israeliano". Con il tempo ha imparato a giudicare la situazione dai suoni. Colpi di mortaio da Gaza, difesa missilistica israeliana: tutto questo fa parte della sua vita.
Il suono dei kalashnikov la mattina del 7 ottobre era nuovo. "Le camere di sicurezza sono progettate per
proteggere dalle bombe, non dai terroristi. Le porte non possono essere chiuse a chiave, in modo che le squadre di soccorso possano far uscire le persone".
Hanan non riesce più a immaginare di vivere accanto ai suoi "vicini di Gaza". "Ora o loro o noi". Sottolinea più volte di non essere un estremista politico. Ma questo giorno ha cambiato tutti.
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* Valentin Schmid studia attualmente all'Università Ebraica di Gerusalemme.
(Israelnetz, 25 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Nel mondo ipnotizzato dalla propaganda l’antisemitismo dilaga senza far rumore
di Riccardo Ruggeri
«Questo è un mondo in tranche!». Questa frase la pronunciò nel 1938 Leopold Schwarzwild, editore della più importante rivista tedescofona dell'esilio francese Ntb (Das Neue Tage-Buch) in un colloquio con Oscar Levy, ebreo, medico, intellettuale tedesco, in esilio per tutta la vita (ebbe il passaporto Nansen N°1 per gli apolidi perenni). Proprio in quell'anno, pochi mesi prima della Notte dei cristalli, cioè un anno prima dell'inizio della Shoah, scrisse una lunga lettera (aperta) ad Adolf Hitler. Levy, come massimo esperto del pensiero di Friedrich Nietzsche (tradurrà la sua opera omnia in 14 volumi in inglese e parteciperà alla sua edizione nel Regno Unito), con un tono al contempo veemente e pacato, impartisce a Hitler una lezione sul pensiero di Nietzsche (del quale i nazisti si erano impossessati).
E invita perentoriamente lui e i suoi compari nazi a lasciare il «giardino» di una filosofia che loro non avrebbero mai potuto capire! La frase finale di commiato di Oscar Levy è superba «Quando abbandonerete il nostro giardino, Herr Hitler, lo farete in pace e immune dalle nostre maledizioni e urla di vendetta. Noi non vogliamo la vostra vita, vogliamo semplicemente che ve ne andiate. Ma dovete farlo! mein Führer, posso accompagnarvi alla porta?», La frase chiave della lettera per me è però un'altra. Questa: «Come voi sapete, e dite bene nel Mein Kampf, la propaganda deve essere limitata e insensata per avere un successo sorprendente fra le masse». Una «propaganda limitata e insensata» è stato il vero lascito politico-culturale di Hitler. Se ne sono impossessati tutti i regimi successivi, vuoi criminali, o totalitari, o democratici, vuoi di destra, di sinistra, di centro, e questo modello è tuttora dominante. Lo abbiamo visto anche nel caso HamasPalestina- Israele. Siamo stati e siamo tuttora immersi in una orrenda propaganda, «limitata ma insensata».
In lingua italiana, questa lettera la trovate solo su un libriccino pubblicato in Canton Ticino (Edizioni Casagrande) insieme alla famosa «Lettera Gemlich» (16 settembre 1919) che Hitler soldato inviò al suo superiore gerarchico, Adolf Gemlich appunto, per illustrargli «l'avversione di ampi settori popolari verso l'ebraismo» sulla cui analisi da parte dell'esercito non era d'accordo. Lui era molto più radicale. Sosteneva che «l'antisemitismo come movimento politico non deve e non può essere determinato da moti emotivi, ma dalla conoscenza dei fatti». Che poi li sintetizza in tre punti. Più che fatti, paiono, e lo saranno, sentenze. Saranno la traccia del Mein Kampf . Leggendo questo libretto rosso (74 pagine, 12 franchi) capirete dell'antisemitismo molto di più che non della caterva di articoli, pseudo manifesti, reportage, libri, interviste, talk show, documentari, film, dai quali dal 7 ottobre siamo invasi. Non sono certo tutte «fake news», ma tutte sono «fake truth», perché qualcosa ci viene o nascosto o manipolato, cambiandone segno e significato (propaganda in purezza).
L'antisemitismo lo trovi non solo nel mondo islamico, non solo nelle ideologie sunnite o sciite, ma in tutte quelle occidentali, dal nazismo, al fascismo, al comunismo, al maoismo, al liberalismo, al recentissimo cancel-wokismo. Lo trovi fra i poveri, lo trovi nell'Accademia, e pure nei banchieri, nelle periferie, nelle zone residenziali, nelle Ztl. Un'oscena chicca! In Germania (sic!), la direttrice di un asilo ha chiesto di cambiare il nome «Anne Frank» per darne uno nuovo «più adatto ai bambini e che non urti la sensibilità dei loro genitori». L'antisemitismo è un virus pestifero, per ora, senza vaccino o cura. Lo gestiamo, da 2.000 anni, con «chiacchiere furbastre e vigile attesa (ultimamente molto scarsa)»,
Siamo nel 2023, sono passati 85 anni da allora, e non trovo alcun'altra definizione che: «Questo è un mondo in tranche!» L'Occidente starà mica buttando via un altro secolo per colpevole insipienza?
(La Verità, 25 novembre 2023)
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La convergenza eco-islamica
di Davide Cavaliere
Il sindaco arabo di Hebron, Tayseer Abu Sneineh, già condannato da Israele per aver preso parte, nel 1980, all’attacco terroristico alla yeshiva della città di cui ora è primo cittadino, attentato che causò la morte di sei civili, nel novembre dello scorso anno, per risolvere il problema del randagismo, ha offerto ai suoi cittadini una ricompensa di 20 shekel per ogni cane ucciso.
Gli arabi di Hebron hanno svolto l’orribile lavoro a loro assegnato con grande entusiasmo, non solo uccidendo i cani, ma anche, e senza alcun costo aggiuntivo per il sindaco, torturandoli. Gli assassini, fieri e orgogliosi della loro crudele opera, hanno condiviso i filmati delle atrocità commesse sui social media.
Poco meno di un anno dopo, gli arabi-palestinesi avrebbero riservato il medesimo trattamento agli ebrei residenti nel sud d’Israele. Torturare cani o persone è un vero piacere per molti di loro, che crescono in un mondo saturo di violenza e odio.
L’uccisione dei cani, spesso attraverso carne avvelenata, è una pratica ampiamente diffusa nei comuni dell’Area A della Cisgiordania, quelli sotto controllo «palestinese», dove grandi quantità di cibo avvelenato vengono impiegate per uccidere centinaia di randagi, che muoiono così tra grandi sofferenze.
La mattanza dei cani non è l’unico crimine commesso dagli arabi contro gli animali. Nel 2019, attraverso il lancio di aquiloni e palloncini incendiari, gli «innocenti» di Gaza provocarono vasti incendi nel sud d’Israele, mandando in fumo terreni agricoli e riserve naturali. Moltissimi animali, tra cui antilopi Ibex, gazzelle, coyote, roditori, farfalle e linci, che non si trovano in nessun’altra parte del mondo, perirono arsi vivi.
Gli arabi-palestinesi hanno fatto anche un notevole uso di cani e asini «kamikaze». I poveri animali vengono imbottiti di esplosivo e fatti avvicinare ai soldati israeliani con l’intento di compiere una strage.
L’IDF si è imbattuto, per la prima volta, in un attacco terroristico portato da animali nel giugno del 1995, quando un terrorista palestinese si avvicinò a una postazione dell’esercito, a ovest di Khan Yunis, guidando un carretto trainato da un asino carico di esplosivo e lo fece esplodere. Il palestinese morì, ma per fortuna i soldati israeliani rimasero illesi. Hamas rivendicò l’attacco.
L’episodio più clamoroso avvenne però nel 2009, al valico di Karni, fra Gaza e Israele: le truppe israeliane furono sorprese da diversi cavalli lanciati al galoppo verso di loro, su ciascuno dei quali era stato applicato dell’esplosivo.
Nessuna voce si è alzata dal movimento ambientalista per denunciare queste pratiche. Un silenzio che non sorprende, dato che, da almeno vent’anni, si è consolidata un’alleanza tra la sinistra post-comunista, l’islamismo e la galassia ecologista.
Sono numerosi i rappresentanti delle organizzazioni ambientaliste che hanno rilasciato dichiarazioni anti-israeliane e filopalestinesi. Il «verde» francese Patrick Farbiaz prese parte a manifestazioni islamiste a sostegno di Hamas. Politici vicini ai Verdi come Albert Jacquard e Daniel Cohn-Bendit hanno legittimato i terroristi suicidi della seconda Intifada. Il decano delle lotte ambientaliste in Francia, José Bové, incontrò Yasser Arafat e affermò che gli attacchi contro le sinagoghe francesi avvenuti nel biennio 2000-2002 fossero orchestrati dal Mossad.
Il Partito tedesco dei verdi, Die Grünen, è stato fondato nel 1979 da Petra Kelly, una convinta antisionista molto vicina al colonnello Gheddafi e al gruppo terroristico marxista-leninista «Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina», di cui faceva parte Leila Khaled, la dirottatrice di aerei recentemente chiamata a tenere una «lezione» nei locali «occupati» dell’Università di Torino.
Il livello di antisemitismo presente nei Grünen era talmente preoccupante che Simon Samuels, dirigente internazionale del Simon Wiesenthal Center, già nel 1983, manifestò una notevole apprensione.
Da ultima, Greta, la leader dei «Fridays for Future», ha espresso il proprio sostegno ai palestinesi, dunque ad Hamas, mentre altri membri del suo gruppo sproloquiavano circa l’assenza di una «giustizia climatica» nei Territori «occupati» da Israele.
Il movimento ambientalista, fin dalla sua nascita, ha visto riciclarsi al suo interno numerosi membri dell’estrema sinistra antisionista, che hanno usato il tema del «riscaldamento globale» per portare avanti un’agenda avversa a Israele, considerato capitalista, di conseguenza responsabile della devastazione ambientale, e alleato degli Stati Uniti, ritenuti invece, a torto, colpevoli del «cambiamento climatico».
Gli ambientalisti occidentali sono stati corteggiati persino da Osama Bin Laden. L’ormai defunto capo di al-Qaeda, nel suo celebre «messaggio al popolo americano», che in queste settimane ha ripreso a circolare in rete, fece riferimento proprio al «riscaldamento climatico» e al rifiuto americano di ratificare il protocollo di Kyoto per legittimare il suo operato.
Gli ambientalisti, ossia i vecchi anticapitalisti, indirizzano le loro critiche solo alle democrazie occidentali, occultando deliberatamente le violenza sugli animali e i disastri ambientali causati dai loro beniamini arabo-palestinesi. Il verde degli ecologisti è una sfumatura del verde degli islamisti.
(L'informale, 25 novembre 2023)
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Portacontainer israeliana attaccata nell’Oceano Indiano
Una nave portacontainer di proprietà di un miliardario israeliano è stata attaccata da un drone che si sospetta essere iraniano nell’Oceano Indiano.
Secondo fonti di intelligence la nave portacontainer CMA CGM Symi battente bandiera maltese è stata presa di mira da un drone Shahed-136 a forma di triangolo, una vera bomba volante, mentre si trovava in acque internazionali. Il drone è esploso, causando danni alla nave senza tuttavia ferire nessuno dell’equipaggio.
Al-Mayadeen, un canale satellitare panarabo politicamente alleato con il gruppo militante libanese Hezbollah, sostenuto dall’Iran, ha riferito che una nave israeliana era stata presa di mira nell’Oceano Indiano. Il canale ha citato fonti anonime per la notizia, che i media iraniani hanno poi citato.
La CMA CGM, un importante spedizioniere con sede a Marsiglia, in Francia, non ha al momento confermato l’attacco. Tuttavia, l’equipaggio della nave si è comportato come se ritenesse che la nave fosse minacciata.
Infatti, secondo i dati di MarineTraffic.com, la nave aveva il tracker del sistema di identificazione automatica spento da martedì, quando ha lasciato il porto Jebel Ali di Dubai. Le navi dovrebbero mantenere attivo l’AIS per motivi di sicurezza, ma gli equipaggi lo spengono se sembra che possano essere prese di mira. La nave aveva fatto lo stesso in precedenza, mentre attraversava il Mar Rosso passando per lo Yemen, patria dei ribelli Houthi sostenuti dall’Iran.
“È probabile che l’attacco sia stato mirato, a causa dell’affiliazione israeliana della nave attraverso la Eastern Pacific Shipping”, ha dichiarato la società privata di intelligence Ambrey. “Le trasmissioni AIS della nave erano disattivate giorni prima dell’evento, il che indica che questo da solo non impedisce un attacco”.
La Symi è di proprietà della Eastern Pacific Shipping, società con sede a Singapore, controllata in ultima istanza dal miliardario israeliano Idan Ofer.
Nel novembre 2022, la petroliera Pacific Zircon, battente bandiera liberiana e anch’essa associata alla Eastern Pacific, ha subito danni in un sospetto attacco iraniano al largo dell’Oman.
La missione iraniana presso le Nazioni Unite non ha risposto a una richiesta di commento. Tuttavia, Teheran e Israele sono impegnati da anni in una guerra ombra in Medio Oriente, con alcuni attacchi di droni che hanno preso di mira navi associate a Israele che viaggiavano nella regione.
In questa guerra tra Israele e Hamas, iniziata con l’attacco dei militanti del 7 ottobre, gli Houthi hanno sequestrato una nave per il trasporto di veicoli nel Mar Rosso, al largo dello Yemen. Anche le milizie sostenute dall’Iran in Iraq hanno lanciato attacchi contro le truppe americane sia in Iraq che in Siria durante la guerra, sebbene l’Iran stesso non sia ancora stato collegato direttamente a un attacco.
(Rights Reporter, 25 novembre 2023)
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Boualem Sansal: “Il pericolo di attacchi agli ebrei in Europa è altissimo”
“Per l’islamismo, Hamas è come il Saladino che sconfigge i crociati”. Parla il celebre romanziere algerino finito “su tutte le liste nere”, in patria e a Parigi, per aver firmato l’unico grande appello di personalità islamiche in difesa di Israele.
di Giulio Meotti
“Per il mondo arabo e musulmano il 7 ottobre rappresenta una vittoria immensa, grande quanto la vittoria di Saladino contro il re di Gerusalemme che il 2 ottobre 1187 rese la città tre volte santa all’islam fino al 1948. La data va segnalata, è simbolica”. Così parla al Foglio il celebre romanziere algerino
Boualem Sansal, l’autore di “2084” e altri romanzi di successo (in Francia per Gallimard, in Italia per Neri Pozza) e finito “su tutte le liste nere”, in patria e a Parigi. Sansal sull’Express
ha firmato l’unico grande appello di personalità islamiche in difesa di Israele. “Il 7 ottobre ha dimostrato che Israele non era più invincibile e che un pugno di mujaheddin poteva distruggerlo, spezzare l’unità del paese e insediare permanentemente la sua popolazione nel terrore” continua Sansal. “Ha cancellato in un colpo solo tutte le umiliazioni politiche e militari subite dagli arabi, a partire dalla ‘Nakba’ e dalle guerre perdute che seguirono del 1948, 1967 e 1973. I bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza hanno mobilitato il mondo arabo e l’opinione internazionale attorno ai palestinesi e ad Hamas, ieri vista da tutti come un’organizzazione terroristica asservita all’Iran. L’attentato del 7 ottobre ha chiuso definitivamente Israele nella trappola di infinite rappresaglie, esponendolo così alla tentazione di ripristinare la propria invincibilità e sfuggire alla stessa umiliazione. Infine, il 7 ottobre farà uscire l’islam dal vittimismo e dalla miseria in cui è sprofondato per decenni e gli restituirà l’immagine gloriosa che aveva al tempo delle grandi conquiste dal VII al XII secolo”.
Israele resta, per usare le parole di un re del Marocco,
l’afrodisiaco del mondo islamico. “Dopo la perdita dell’Andalusia e la caduta dell’Impero Ottomano, i musulmani hanno visto nell’occidente cristiano il responsabile della loro caduta nella divisione e nella miseria”.
Ma l’umiliazione è tornata nel 1948, ci spiega Boualem Sansal. “
Creando lo stato di Israele nel cuore di questo medio oriente arabo-musulmano, sostenendolo politicamente e militarmente,
l’occidente ha concentrato la rabbia e la vergogna degli arabi su Israele, i cui successi si sono aggiunti alla loro sensazione di essere la vergogna del mondo. C’è poi la religione, il Corano, che condanna espressamente gli ebrei e ne ordina la distruzione, cosa che gli islamisti prendono alla lettera”.
In Europa intanto gli ebrei “scompaiono”, si tolgono i simboli dell’identità, per non essere presi di mira. “
L’esplosione dell’antisemitismo, un antisemitismo sempre più sfacciato,
è una delle conseguenze più preoccupanti del 7 ottobre. Il rischio di attacchi contro gli ebrei in tutto il mondo è rosso. Il 7 ottobre susciterà vocazioni ovunque, ogni apprendista islamista vorrà la sua guerra, la sua vittoria, i suoi ostaggi e vorrà fare, se possibile, meglio di Hamas. Il rischio di un incendio in Europa è molto grande, dobbiamo prenderlo sul serio ed evitare che divampi perché poi nulla lo fermerà. L’Europa è troppo debole, troppo divisa, troppo incoerente per raggiungere questo obiettivo. Russi e cinesi sono alla ricerca di un aiuto per spostare l’ordine mondiale a loro favore”.
Intanto pezzi dell’opinione pubblica occidentale scandiscono slogan come “Palestina libera dal fiume al mare”. “C’è un adagio algerino che dice, per prendere in giro questi ricchi approfittatori, che ‘imparano le acconciature sulle teste degli orfani’” dice Sansal. “Poiché non sanno più pensare alla propria società o essa non vuole più le loro lezioni, diventano guide tra i poveri dove credono di costruire un destino profetico e di brillare a buon mercato. Questo è ciò che ha fatto la sinistra in Francia. Quando ha perso l’ancoraggio nella società, è andata a reclutare tra i migranti, dei quali in realtà non le importa, li vede solo come schede elettorali. Il danno che questi benpensanti arrecano al loro paese è immenso, essi contribuiscono a minimizzare il pericolo islamista e ne aiutano l’espansione nel loro paese. In Francia sono stati all’origine del ricongiungimento familiare degli emigranti che ebbe l’effetto di decuplicare la popolazione musulmana in Francia e di impedire il successo delle politiche di integrazione. Si formarono così dei ghetti che, nel tempo, evolsero verso l’islamismo, la radicalizzazione e il separatismo. Questi pensatori hanno dimostrato di essere molto più pericolosi per l’Europa degli islamici radicali.
È anzitutto contro di loro e contro la loro ideologia, coscienza e compagnia, che dobbiamo combattere. Senza il loro aiuto, gli islamisti non potrebbero resistere alla complessità della società moderna. In Francia sono responsabili di attentati commessi da islamisti che hanno causato centinaia di morti”.
Il Foglio, 25 novembre 2023)
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Spade di ferro - giorno 49. La tregua
di Ugo Volli
• È iniziato il cessate il fuoco
La “tregua breve” fra Israele e Hamas è entrata in vigore stamattina alle 7 (ora di Israele, cioè le 6 secondo il fuso orario italiano): gli aerei dell’aviazione militare israeliana hanno cessato i bombardamenti e anche del tutto i voli nella parte meridionale della Striscia, le truppe di terra hanno cessato di avanzare, attestandosi dietro una linea che corre a sud della città di Gaza. Israele ha distribuito manifestini e video che ammoniscono gli abitanti di Gaza sfollati al sud “per il loro interesse” di non cercare di risalire oltre questa linea, perché “la guerra non è finita e la parte settentrionale della Striscia è una zona di operazioni pericolosa”. Questo tema è certamente problematico, perché Hamas spingerà la popolazione rifugiata al sud a cercare di ritornare a casa, per avere copertura ai propri miliziani e anche per creare imbarazzo a Israele. Già subito dopo l’inizio della tregua vi sono notizie di gruppi di abitanti che cercano di rientrare a Beit Hanun, la località a nord-est di Gaza, immediatamente di fronte a Sderot. Probabilmente non vengono dal sud ma escono da nascondigli e rifugi vari, e certamente costituiscono una difficoltà sia sul piano umanitario che su quello militare. È probabile che nella parte settentrionale di Gaza qualche attività militare continui, come l’esplorazione e la distruzione delle gallerie di attacco dei terroristi. Proprio su questo punto vi era stato l’intoppo delle trattative che avevano provocato un giorno di ritardo nell’inizio della tregua. Vi è stata peraltro subito, appena un quarto d’ora dopo l’inizio, una violazione della tregua da parte di Hamas, che ha sparato alcuni razzi in direzione di villaggi israeliani a est della città di Gaza. Ma si tratta di un incidente giudicato minore da Israele, in qualche modo previsto perché i terroristi hanno sempre cercato di essere gli ultimi a sparare in circostanze analoghe, che non interrompe il cessate il fuoco.
• Gli ostaggi
Se il cessate il fuoco terrà, questo pomeriggio alle 16 locali (le 15 italiane) al valico di Rafah fra Gaza ed Egitto, la Mezzaluna Rossa (versione locale della Croce Rossa) consegnerà ai militari israeliani tredici dei rapiti (donne e bambini) che avranno ricevuti dai terroristi, e saranno immediatamente portati in Israele e ricoverati in ospedale per le cure mediche e psicologiche del caso. Le loro famiglie sono state avvertite ieri, quando l’accordo è stato completamente definito, ma le loro identità saranno comunicate al pubblico solo dopo il ricovero, per garantire la tranquillità loro e delle famiglie. Dopo la conclusione del trasferimento, nel tardo pomeriggio, Israele libererà trentanove fra donne e minorenni, colpevoli di reati connessi al terrorismo, come accoltellamenti e tentativi di investimenti automobilistici, ma non di omicidi, che sono stato già individuati e trasferiti vicini al luogo dello scambio. Si tratta di una proporzione di tre a uno, che riduce molto le pretese iniziali di Hamas e non ha paragoni con quello che accadde per Gilad Shalit, quando oltre 1300 terroristi furono scambiati per il caporale israeliano sequestrato da una torre di guardia dentro il territorio di Israele. È interessante però considerare che anche questa proporzione dello scambio è stata rimproverata allo stato ebraico. Gira per la rete il video di uno scambio di domande e risposte fra una giornalista di CNN e un portavoce militare israeliano, in cui la corrispondente americana chiede all’ufficiale di spiegare il carattere “razzista” di questi numeri, i quali proverebbero addirittura che Israele considera la vita degli arabi tre volte inferiore a quella degli ebrei. Come se la scelta di liberare terroristi che probabilmente torneranno a compiere nuovi crimini, il che è quasi sempre accaduto per quelli scarcerati in passato per scambi analoghi, fosse una scelta di Israele e non il risultato di un ricatto da parte di Hamas.
• L’ultima giornata prima della tregua
I combattimenti di ieri sono stati particolarmente aspri. Gli aerei israeliani hanno bombardato diverse centinaia di obiettivi, le forze di terra hanno continuato a dare la caccia ai terroristi nei loro nascondigli, la marina ha individuato e eliminato il comandante delle forze navali di Hamas. Vi sono stati anche scambi intensi al nord con Hezbollah (che non ha partecipato alle trattative della tregua, ma ha annunciato di volerla rispettare) e nuove operazioni di sicurezza in Giudea e Samaria, in particolare a Nablus (Shechem), che non sono comprese nella tregua. La marina americana ha di nuovo intercettato un missile proveniente dallo Yemen. Sempre dagli Houti era stato sparato in precedenza un missile da crociera diretto a Eilat e abbattuto da un caccia israeliano.
• Che cosa succede ora
Se la tregua verrà rispettata, la liberazione di bambini e delle loro madri e di qualche altra donna rapita dai terroristi in cambio di giovani non ancora maggiorenni ma già coinvolti in reati di sangue avverrà ancora per i prossimi tre giorni con le stesse modalità. L’aviazione israeliana continuerà a non effettuare missioni di bombardamento e si asterrà anche in certi orari dalle missioni informative al Nord della striscia (e del tutto al Sud). È prevista la possibilità di un’estensione di ancora qualche giorno, fino a cinque, se Hamas renderà disponibili altri rapiti da liberare. Alla fine di questa tregua, lunga nel caso più esteso a nove giorni, Israele intende riprendere la pulizia di Gaza dal terrorismo e ha ottenuto per questo il consenso degli Usa. Ma è chiaro che Hamas farà di tutto perché questo non accada e dobbiamo attenderci una forte pressione politica internazionale, con manifestazioni, pronunciamenti di autorità e prese di posizioni di vari stati, in questa direzione.
(Shalom, 24 novembre 2023)
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Il Mossad ha l’ordine di eliminare i capi di Hamas ovunque si trovino
di Sarah G. Frankl
Mentre a Gaza è entrata in vigore la tanto attesa tregua umanitaria che porterà alla liberazione di un certo numero di ostaggi, da una conferenza stampa del gabinetto di guerra si apprende che la tregua non riguarda la caccia ai capi e ai mandanti della strage del 7 ottobre.
Nella conferenza stampa, tenutasi a Tel Aviv insieme ai membri del gabinetto di guerra, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato di aver “già dato istruzioni” all’agenzia di spionaggio Mossad di colpire i capi di Hamas “ovunque si trovino”.
Il premier lo ha detto dopo che un giornalista ha menzionato una notizia di Kan che affermava che Ismail Haniyeh e Khaled Mashaal sono “euforici” per la guerra e si aspettano di continuare a governare Gaza dopo la sua fine.
Alla domanda se la tregua, che durerà quattro giorni ma potrebbe essere prolungata di qualche altro giorno, si applichi per colpire i capi di Hamas – un presunto riferimento a quelli all’estero – Netanyahu ha detto che non c’è “nessun obbligo di questo tipo”.
Il ministro della Difesa Yoav Gallant è intervenuto per dire che tutti i leader di Hamas sono dei morti che camminano. “Gallant ha detto che i capi del terrore hanno i giorni contati. “La lotta è mondiale: Dagli uomini armati sul campo a quelli che si godono jet di lusso mentre i loro emissari agiscono contro donne e bambini – sono destinati a morire”.
Spiegando le ragioni dell’accordo con Hamas, che vedrà il rilascio di circa 50 ostaggi israeliani – bambini, madri e altre donne – Netanyahu ha detto che le persone detenute a Gaza hanno un “coltello alla gola” e che è responsabilità di Israele salvarle.
Netanyahu ha detto che questo è il compimento del comandamento religioso di riscattare gli ostaggi. Ha detto che questo è stato fatto nel corso della storia ebraica attraverso operazioni militari, ma che a volte queste non erano possibili. Il premier ha descritto la restituzione degli ostaggi come una “missione sacra”.
Netanyahu ha sottolineato che l’establishment della sicurezza ha appoggiato all’unanimità l’accordo, affermando che non danneggerà gli obiettivi militari e potrebbe addirittura farli avanzare – anche se non ha detto come.
(Rights Reporter, 24 novembre 2023)
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Volontari offrono aiuto nella raccolta
La raccolta nel sud di Israele risente della guerra contro Hamas. Ma i volontari stanno dando una mano, comprese le guide turistiche di lingua tedesca. Un reportage sul campo.
di Gundula Madeleine Tegtmeyer
Qualche giorno fa ho ricevuto un messaggio WhatsApp dal gruppo di guide turistiche di lingua tedesca in Israele, fondato qualche anno fa dalle guide turistiche Uriel Kaschi e Schmuel Kahn. Anch'io ho completato con successo i miei studi all'Università Ebraica di Gerusalemme e sono una guida turistica con licenza statale in Israele.
Nell'SMS, Uriel e Schmuel ci chiedono di offrirci volontari il più possibile per la raccolta di jojoba nel Kibbutz Netiv HaLamed-He. Spontaneamente accetto.
Riaffiorano ricordi. In gioventù ho vissuto per diversi anni nei kibbutzim Nir Eliahu e Ramat HaKovesch e ho anche lavorato nei campi. Non vedo l'ora di trascorrere una giornata nella terra, dando un contributo significativo in tempi di guerra contro Hamas, visto che migliaia di lavoratori stranieri del raccolto hanno lasciato Israele.
Come se non bastasse, anche molti kibbutznik sono stati richiamati come riservisti. Netiv HaLamed-He si trova in una posizione idilliaca nell'Emek Elah, la valle dove, secondo la Bibbia, il giovane Davide combatté con successo il gigante Golia con una fionda. È giovedì sera e la nostra operazione di raccolta volontaria è stata coordinata con la direzione del kibbutz per lunedì.
• Cambio di programma
Due giorni dopo, il sabato, Motza'ei Shabbat, la "partenza dello Shabbat", riceviamo un messaggio WhatsApp da Uriel: i piani sono cambiati con poco preavviso, ora andremo alla fattoria biologica Meschek Michaeli nel sud di Israele. Va bene, penso tra me e me, e confermo a Uriel che ci sto. Uriel aggiunge poi che la fattoria biologica si trova nelle immediate vicinanze di Sikim. Sikim? Ho bisogno di un momento per riordinare le idee, questo nome scatena brutti ricordi.
Il 7 ottobre 2023, i terroristi di Hamas hanno attraversato il mare in territorio israeliano e hanno attaccato la base militare Bahad 4 e il kibbutz Sikim. Nel massacro sulla spiaggia di Sikim, Hamas uccise diversi civili e soldati e ne ferì decine.
I terroristi di Hamas sono avanzati verso il kibbutz ma sono stati respinti da civili armati, alcuni dei quali erano ufficiali fuori servizio. Gli scontri nei pressi del kibbutz sono continuati anche dopo il 7 ottobre.
La mia mente corre. Provo un certo disagio all'idea di essere così vicina a Gaza. Annullare la mia partecipazione? No, se è solidarietà, quando, se non ora? Dopo qualche minuto, mando un messaggio a Uriel e gli dico che verrò con lui in Sikim.
Dopo una breve parentesi a Gerusalemme, sono di nuovo a Mevasseret Zion, un sobborgo della capitale. Posso raggiungere la vicina foresta a piedi in 5 minuti, e questo era uno dei motivi per cui volevo davvero tornare a Mevasseret Zion: la vicinanza alla natura.
• Superare lo shock
Dopo i massacri e i rapimenti di Hamas a Gaza, come molti altri, non sono quasi mai uscita dalla porta di casa. Lo shock delle atrocità è stato profondo. Ho dovuto costringermi a fare la mia prima passeggiata nella foresta - ben due settimane dopo l'attacco terroristico di Hamas - e a riprendere le lezioni di chitarra e di flamenco.
Ancora oggi mi sento in colpa quando faccio cose che mi piacciono, mentre molti piangono i loro cari uccisi e l'intera nazione teme per gli ostaggi. Mi commuovono anche le immagini di Gaza, le vittime e le sofferenze della parte palestinese.
Gli amici mi incoraggiano a fare tutto ciò che è bene per me, questo rafforzerebbe la mia resilienza, perché - allo stato attuale delle cose - la guerra contro Hamas durerà ancora a lungo. E in questo momento nessuno può prevedere quello che potrebbe ancora accadere.
Lunedì mattina, partenza intorno alle 6. Uriel guida, Shmuel ci offre delle burekas fresche per iniziare la giornata e Ori mi compra un "Kaffee Hafuch" in una stazione di servizio, un "caffè alla rovescia", come chiamiamo in ebraico un caffè con strati di latte caldo ed espresso ricoperti di schiuma. Dopo un'altra notte breve e agitata, un gradito ristoro per iniziare una lunga giornata.
• Controllo al checkpoint
Durante il viaggio verso il sud del Paese, il traffico intenso si attenua notevolmente, come osserva Uriel: "Non ho mai visto le strade qui così vuote". Il silenzio, a cui non siamo abituati, è inquietante. Dopo un'ora abbondante di viaggio, raggiungiamo una zona militare sbarrata nel sud di Israele e superiamo i posti di blocco dell'esercito.
Schmuel offre ai soldati delle burekas, un soldato ne prende una, gli altri ci fanno domande su cosa vogliamo in questa zona. Spieghiamo che stiamo andando a una missione di raccolta volontaria a Meshek Michaeli e che i nostri nomi sono registrati lì. I soldati riconoscono il nostro impegno volontario con "Kol haKavod!", cioè: complimenti!
Ore 7.30: arrivo alla fattoria di Meshek Michaeli, a conduzione biologica. Diventa subito chiaro chi comanda qui: Richard e Dudu. Dicono a noi volontari chi va in quale campo, chi deve aiutare a pulire e imballare le verdure. A poco a poco, arrivano sempre più volontari israeliani per il raccolto; sono rappresentate tutte le generazioni, dagli adolescenti agli anziani.
Le diverse convinzioni politiche e visioni del mondo sono oggi irrilevanti. Ciò che ci unisce è questo: superare la guerra insieme e dare il nostro contributo alla società.
Anche molte delle nostre guide turistiche di lingua tedesca in Israele hanno risposto all'appello e sono venute da ogni parte del Paese. Lascio vagare lo sguardo. Noto i lavoratori stranieri e chiedo a Richard se sono filippini: "No, i filippini hanno lasciato Israele, questi lavoratori sono tutti thailandesi".
Richard assegna ad alcuni miei colleghi guide turistiche e a me il compito di aiutare nella grande sala. Dovremmo aiutare i thailandesi a gestire il pesante carico di lavoro quotidiano. Smisto cetrioli e lattuga, sto alla stazione di imballaggio, pulisco le verdure e impilo le scatole sui pallet.
Nel sottofondo c'è il suono ovattato di innumerevoli detonazioni, Gaza è a soli 2,5 chilometri da noi. Ariel ispeziona il capannone con occhio critico: "Speriamo che possa resistere a un attacco missilistico". Abbiamo al massimo 15 secondi per raggiungere un rifugio. Continuiamo a lavorare stoicamente, rimuovendo il potenziale pericolo, facendo il nostro lavoro. Arriva un'altra squadra di volontari israeliani con magliette bianche e scritte blu che recitano "Chasakim Jachad", cioè "Insieme siamo forti", e ci dà man forte.
Come promesso al mattino, Richard trova un po' di tempo per me e mi porta in giro con la sua auto per mostrarmi i campi e le serre. Chiedo a Richard del rapporto con i braccianti arabi nella fattoria. Lui risponde: "Male, molto male dal 7 ottobre. È tutto molto difficile".
Pochi minuti dopo incontriamo un giovane arabo. Richard non lo conosce e ferma l'auto per scoprire chi è. Controlla subito i dettagli con Dudu al telefono. Continuiamo il nostro viaggio. Al cancello d'ingresso del Kibbutz Sikim, Richard mi dice di seguire rigorosamente le sue istruzioni.
Non mi è permesso uscire. Area israeliana riservata. Foto solo da questa distanza e attraverso il finestrino dell'auto. Ed ecco di nuovo quel silenzio inquietante. Il kibbutz è stato evacuato dopo l'attacco terroristico di Hamas. La forza di emergenza del kibbutz è riuscita a respingere l'infiltrazione dei terroristi nella comunità.
• Paura: i terroristi di Hamas si nascondono ancora in Israele
Continuiamo il nostro viaggio, il terreno diventa sempre più sabbioso. Richard mi dice che si teme che i terroristi di Hamas possano ancora nascondersi nella zona. Ma non devo preoccuparmi, anche lui è armato. Questo mi rassicura solo in parte.
Il timore che i terroristi possano ancora nascondersi in Israele senza essere scoperti è giustificato. Il 20 novembre, il Jerusalem Post ha riferito dell'arresto di due terroristi di Hamas a Rahat. Anche loro si erano infiltrati in territorio israeliano il 7 ottobre ed erano stati scoperti e interrogati dal "Lahav 433", meglio conosciuto con l'acronimo Shabak o Shin Bet, il servizio di sicurezza nazionale, ben un mese dopo l'attacco terroristico di Hamas.
Richard si scioglie un po' e la nostra conversazione diventa più personale. Mi dice che vive a Beit Shemesh e che il 7 ottobre ha visitato il kibbutz Be'eri. Rimango in silenzio, le immagini dei massacri si affacciano alla mia mente, guardo attraverso il finestrino chiuso dell'auto, le lacrime mi scorrono sul viso. Silenzio. Fatico a trovare le parole. Posso solo immaginare cosa hanno sofferto le persone e sono sollevata dal fatto che Richard non interpreta il mio silenzio come indifferenza, ma come ciò che è: il mio sforzo per trovare parole appropriate.
Richard cambia bruscamente argomento, presumibilmente per autoprotezione. Parliamo di agricoltura sostenibile mentre lui con sicure manovre ci porta fuori dalla sabbia profonda.
• Il sostegno delle donne beduine
Tornando alla sala, noto una donna risoluta. Ordina con sicurezza agli uomini e dà una mano. Il suo abbigliamento mi suggerisce che potrebbe essere una beduina. Le parlo in arabo e mi presento. Si chiama Tahrir, che in arabo significa "liberazione".
Facciamo due chiacchiere e Tahrir mi dice che lei e le altre donne beduine che lavorano per Meshek Michaeli vengono da Rahat. Rahat, che in arabo significa pace e soddisfazione, è una città a 12 chilometri a nord di Be'er Sheva. La popolazione di Rahat è composta quasi esclusivamente da beduini. Inizio una conversazione con altre donne beduine, ma non vogliono essere fotografate, cosa che mi dispiace, tanto più che alcuni dei loro abiti hanno motivi tradizionali. Ma le rispetto. Sono loro che ci preparano anche un pasto delizioso all'ora di pranzo.
Dopo una breve pausa pranzo, diamo il massimo per completare il lavoro della giornata. Durante il nostro tour, Richard mi aveva detto che il raccolto è in ritardo di ben tre settimane a causa della guerra contro Hamas, poiché la zona è stata setacciata alla ricerca di terroristi che potrebbero nascondersi. Gran parte del raccolto era già stato rovinato e ora dovevano fare i salti mortali per salvare ciò che era ancora possibile salvare. In questa giornata, eravamo un mix variopinto di israeliani nativi, donne beduine musulmane di Rahat, thailandesi ed ebrei immigrati da tutto il mondo.
È stata una giornata faticosa ma anche appagante. Continueremo a fare volontariato per tutto il tempo necessario nelle prossime settimane. Quando torno a casa, vedo un WhatsApp della mia amica guida turistica Eva. Muore dalla voglia di sapere com'è stato. Le rispondo.
Eva mi chiede se ho già avuto notizie. Le rispondo di no. È visibilmente sollevata dal fatto che io sia arrivata a casa illesa, e per una buona ragione. Hamas ha bombardato il sud di Israele con dei razzi, uno dei quali ha colpito il kibbutz Sikim. In quel momento stavamo tornando a casa. Penso tra me e me: un buon tempismo.
Mentre scrivo queste righe, i media israeliani e tedeschi riferiscono che un "accordo sugli ostaggi" tra Israele e Hamas potrebbe essere concluso nelle prossime ore. Oggi è il giorno 46 della guerra contro Hamas. Seguiranno altre ore di ansia per gli ostaggi.
(Israelnetz, 24 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Parashà di vayetzè: quando gli ebrei sono graditi
di Donato Grosser
La parashà inizia con le parole: “Ya’akòv uscì da Beer Sheva’ e si avviò verso Charàn” (Bereshìt, 28:10). Arrivato nei dintorni di Charàn, Ya’akòv si imbattè in un pozzo dove vi erano dei pastori con tre greggi in attesa dell’arrivo di altri greggi per poter rimuovere la pietra che copriva il pozzo ed abbeverare gli animali. La conversazione tra Ya’akòv e i pastori fu laconica: “Ya’akòv disse loro: Fratelli miei, di dove siete? E quelli risposero: Siamo di Charàn. Ed egli disse loro: Conoscete voi Lavàn, figlio di Nachòr? Ed essi: Lo conosciamo. Ed egli disse loro: Sta egli bene? E quelli: Sta bene; ed ecco Rachel, sua figlia, che viene con il gregge (ibid., 29: 4-6). R. Eli’ezer Ashkenazi (Italia?, 1512-1585, Cracovia) che fu rav a Cremona, nel suo commento Ma’asè Hashem alla parashà (cap. 21) afferma che quando Ya’akòv chiese se Lavàn stava bene (ha-Shalom lo?) Intendeva avere informazioni sulla situazione economica di Lavàn. Che fosse vivo era già stato chiarito dalla risposta che lo conoscevano. I pastori risposero che se voleva sapere la situazione economica di Lavàn la poteva dedurre dal fatto che Rachèl, figlia di Lavàn, stava arrivando al pozzo con il gregge del padre. Ya’akòv in un primo momento non capì la risposta dei pastori e ritenne che Lavàn avesse altri pastori e che Rachèl fosse arrivata per caso, così come il servo di Avrahàm aveva incontrato “per caso” Rivkà alla fonte. Ma poco dopo si rese conto che Rachèl non era venuta per caso, perché era proprio lei la pastorella del gregge di Lavàn. Lavàn era quindi in una miserabile condizione economica al punto che una giovinetta poteva accudire a tutto il suo gregge. Questo passo viene quindi a insegnare che tutta la successiva ricchezza di Lavàn derivò dal fatto che Ya’akòv si occupò del gregge di Lavàn per vent’anni. Infatti, nel Midràsh (Pirkè Rabbì Eli’ezer, cap 36) è raccontato che prima che Ya’akòv arrivasse a Charàn, il gregge di Lavàn era stato colpito da una epidemia. Erano quindi rimasti pochi animali. Dopo quattordici anni, Rachèl ebbe finalmente il figlio Yosèf e Ya’akòv chiese a Lavàn il permesso di congedarsi e di tornare a casa. Lavàn, rendendosi conto di quale tesoro fosse per lui il genero, gli chiese di restare. Ya’akòv rispose: “‘Tu sai in qual modo io t’ho servito, e quel che sia diventato il tuo bestiame nelle mie mani. Poiché quel che avevi prima ch’io venissi, era poco; ma ora s’è accresciuto oltremodo, e l’Eterno t’ha benedetto dovunque io ho messo il piede. Ora, quando lavorerò io anche per la casa mia?’ (Ibid., 30: 29-30). Da quel momento Ya’akòv venne compensato per il suo lavoro. Dopo sei anni Ya’akòv era diventato ricco con un numeroso gregge, e con schiavi, cammelli e asini. A quel punto egli sentì i figli di Lavan che dissero:”Ya’akòv ha tolto tutto quello che era di nostro padre; e con quello ch’era di nostro padre, s’è fatto tutta questa ricchezza” (ibid, 31:1). L’ingratitudine e l’invidia dei figli di Lavàn era evidente. R. Shlomò Efraim Luntschitz (Polonia, 1550-1619, Praga) nel suo commento Kelì Yakàr, sottolinea la contraddizione e la falsità delle affermazioni dei figli di Lavàn, che Ya’akòv “aveva tolto tutto quello che era di nostro padre”. La morale della storia è che gli ebrei sono graditi quando arricchiscono il paese dove abitano. Non lo sono più quando essi stessi diventano ricchi.
(Shalom, 24 novembre 2023)
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Parashà della settimana: Vayetzè (Partì)
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La guerra con Hamas costa 1 miliardo di NIS al giorno
Moody’s taglia le previsioni di crescita per il 2023 e prevede una contrazione dell’economia dell’1,5% nel 2024, con il 18% della forza lavoro israeliana assente durante la guerra
La guerra con Hamas sta costando a Israele almeno 1 miliardo di NIS ($ 269 milioni di dollari) al giorno ed è destinata a pesare sull’economia del Paese più dei conflitti precedenti, secondo un rapporto dell’agenzia di rating globale Moody’s basato su una stima iniziale del Ministero delle Finanze.
“La gravità dei danni all’economia dipenderà in larga misura dalla durata del conflitto, ma anche dalle prospettive a lungo termine per la sicurezza interna di Israele”, ha dichiarato Kathrin Muehlbronner, vicepresidente senior di Moody’s, in un rapporto pubblicato lunedì. “Sebbene l’incertezza rimanga molto alta, riteniamo che l’impatto sull’economia potrebbe essere più grave rispetto a precedenti episodi di conflitto e violenza militare”.
Secondo un recente rapporto dell’Istituto per gli studi sulla sicurezza nazionale (INSS), citato da Moody’s, che il mese scorso ha messo sotto osservazione il rating A1 del governo israeliano per un declassamento, il costo totale della guerra potrebbe essere compreso tra i 150 e i 200 miliardi di NIS, pari a circa il 10% del prodotto interno lordo.
Questo onere finanziario sarebbe significativamente più alto di quello di operazioni precedenti, come Protective Edge nel 2014 o la Seconda guerra del Libano nel 2006, che durò 34 giorni e sostenne un costo diretto di circa 9,5 miliardi di NIS o l’1,3% del PIL, secondo Moody’s.
La spesa del governo includerà miliardi di shekel per la difesa, per il proseguimento dello sforzo bellico, per assorbire i salari delle centinaia di migliaia di riservisti arruolati, per finanziare i risarcimenti alle imprese colpite dalla guerra e per la ricostruzione e la riabilitazione delle comunità devastate dall’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre. Nel frattempo, si prevede che le entrate fiscali – soprattutto quelle tributarie – continueranno a crollare a causa del calo dei consumi e di altri fattori di domanda.
Le stime dell’impatto economico della guerra hanno spinto Moody’s a ridurre le previsioni di crescita dell’economia israeliana per quest’anno al 2,4% dal precedente 3%. In una prospettiva più pessimistica per il 2024, l’agenzia di rating ha dichiarato di prevedere una contrazione di circa l’1,5% seguita da una crescita molto moderata nel 2025.
L’agenzia di rating Standard & Poor’s ha dichiarato la scorsa settimana che vede l’economia israeliana contrarsi del 5% nel quarto trimestre di quest’anno. S&P prevede che l’economia si espanderà dell’1,5% nel 2023 e dello 0,5% nel 2024, seguita da una crescita più rapida del 5% nel 2025.
“Mentre l’economia ha affrontato bene gli shock negli ultimi due decenni, l’attuale conflitto militare metterà alla prova la capacità di ripresa economica di Israele”, ha osservato Muehlbronner.
Più di 200.000 persone sono state sfollate dalle comunità lungo i confini meridionali e settentrionali in seguito alle atrocità perpetrate da Hamas il 7 ottobre, che hanno ucciso circa 1.200 persone, la maggior parte delle quali civili, e circa 240 sono state prese in ostaggio.
Israele ha giurato di sradicare il regime di Hamas sostenuto dall’Iran nella Striscia di Gaza e di riportare indietro gli ostaggi, e ha preso di mira tutte le aree in cui il gruppo opera, cercando di ridurre al minimo le vittime civili. L’esercito israeliano ha richiamato circa 350.000 riservisti, interrompendo le attività di migliaia di aziende in tutto il Paese.
L’assenza del 18% della forza lavoro del Paese – coloro che sono stati arruolati nell’esercito, coloro che sono stati evacuati dalle loro case vicino ai confini e i genitori che si occupano dei bambini, dato che le scuole funzionano solo in parte – sta già mettendo a dura prova le operazioni delle industrie manifatturiere e del settore tecnologico, ha avvertito Moody’s.
La dipendenza dell’economia israeliana dal settore tecnologico è cresciuta in modo significativo nell’ultimo decennio e ora contribuisce al 18% del PIL, a differenza di meno del 10% negli Stati Uniti e di circa il 6% nell’UE. Circa il 14% di tutti i dipendenti lavora nel settore tecnologico e in impieghi tecnologici in altri settori. L’economia israeliana si basa sui prodotti e sulle esportazioni high-tech, che rappresentano circa il 50% delle esportazioni totali, nonché sulle imposte del settore.
“Sebbene l’industria high-tech sia ora molto più diversificata, il conflitto giunge in un momento difficile per l’industria high-tech a livello globale, e Israele ha visto un afflusso di capitali e attività di raccolta fondi significativamente inferiori quest’anno rispetto agli ultimi due anni”, ha dichiarato Muehlbronner.
Si prevede che gli ingenti costi civili e di difesa della guerra, compreso il pacchetto di aiuti finanziari per le imprese colpite, che si stima costerà circa lo 0,8% del PIL fino alla fine di novembre, avranno un impatto “significativo” sulle finanze pubbliche del governo, insieme a un calo “significativo” del gettito fiscale, ha avvertito Moody’s.
L’agenzia di rating prevede ora che il deficit di bilancio aumenterà al 3% del PIL nel 2023 e più che raddoppierà a circa il 7% del PIL nel 2024. Il deficit fiscale di Israele è già salito al 2,6% del PIL a ottobre, dall’1,5% del mese precedente. Nel 2022, Israele ha registrato il suo primo avanzo di bilancio in 35 anni, pari allo 0,6% del PIL.
“Parte dei costi di bilancio legati alla difesa potrebbero essere assorbiti riorientando altre spese e utilizzando le riserve di bilancio (in genere circa l’1% della spesa complessiva)”, ha dichiarato Muehlbronner. “Non ci aspettiamo che il governo israeliano abbia difficoltà a finanziare anche deficit sostanzialmente più elevati, date le sue fonti di finanziamento ampie e diversificate e il forte sostegno della diaspora israeliana”.
Dallo scoppio della guerra, Israele ha raccolto 30 miliardi di NIS di debito, secondo i dati del Ministero delle Finanze, di cui 6 miliardi di NIS denominati in dollari e raccolti sui mercati internazionali.
(Israele 360*, 22 novembre 2023)
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Spade di ferro - giorno 48. Il rinvio della tregua e la continuazione della guerra
di Ugo Volli
• Rinvio
L’inizio della tregua per la liberazione di cinquanta bambini e donne rapite, che era stato annunciato da Hamas (ma non da Israele) per oggi alle 10 di mattina (ora di Israele, in Italia erano le 9), è stato rinviato, forse a domani venerdì. Il rinvio è stato deciso perché Hamas non ha firmato il protocollo con gli accordi dettagliati sulla liberazione e soprattutto non ha voluto o non è stato in grado di fornire i dettagli sullo stato di alcuni dei rapiti da liberare - dettagli per nulla secondari come lo stato in vita e la condizione fisica. L’esperienza di altre tregue con Hamas suggerisce il fondato sospetto di trucchi nella realizzazione dell’accordo e Israele vuole essere ben sicuro di ottenere quel che ha negoziato, inclusa la clausola per cui i rapiti non liberati siano visitati dalla Croce Rossa. Ci sono le prove di diverse esecuzioni di “ostaggi” da parte dei terroristi, magari con il pretesto che essi sarebbero stati colpiti dai bombardamenti israeliani. Fino a che non ci saranno le garanzie necessarie, la tregua non sarà messa in opera.
• I combattimenti
Nel frattempo Israele ha attaccato con forza le concentrazioni terroriste individuate, tanto ciò che resta nella parte settentrionale della Striscia, dove agisce la fanteria, penetrando nei pozzi di accesso dei tunnel e facendoli saltare, quanto nella parte sudorientale, in particolare Khan Yunis, dove sono in corso intensi bombardamenti aerei. Prosegue anche l’azione nell’ospedale di Shifa, dove si è dimostrata la presenza di terroristi travestiti da personale medico e le forze israeliane hanno arrestato per complicità il direttore dell’ospedale. Un certo numero di giornalisti internazionali è stato ammesso a vedere di persona l’inizio del labirinto delle gallerie segrete dove Hamas aveva centri di comando, depositi d’armi e rifugi per i suoi miliziani. Proseguono anche i combattimenti sugli altri fronti. Con Hezbollah al confine libanese vi sono stati nuovi episodi di tiri di razzi anticarro e di missili più potenti contro gli avamposti israeliani, cui Israele ha risposto con l’artiglieria; in Siria è intervenuta l’aviazione.
• La situazione in Giudea e Samaria
Altri arresti e smantellamenti di gruppi terroristici sono avvenuti in Giudea e Samaria, in particolare a Jenin e a Tulkarem, dove un gruppo terrorista già in azione è stato distrutto con un’incursione di droni. Questa è una cittadina araba che sta proprio sulla linea di delimitazione del territorio amministrato dall’Autorità Palestinese a una dozzina di chilometri da Netanya - il che dovrebbe far riflettere a come sia impossibile ogni discorso sui due stati prima dell’eradicazione completa del terrorismo. È chiaro che l’Autorità Palestinese non ha la capacità, ma in sostanza non ha la volontà di bloccare i terroristi. E l’esperienza del 7 ottobre mostra che non vi sono muri o barriere di protezione che tengano di fronte a un’azione militare vera e propria da parte delle organizzazioni terroristiche. Già girano immagini propagandistiche di Hamas che mostrano l’abbattimento della barriera costruita sulla Linea Verde per difendere la parte centrale di Israele. Solo la capacità, militare, ma anche politica e giuridica delle forze armate israeliane di intervenire tempestivamente per distruggere le aggregazioni terroristiche, in Giudea e Samaria come a Gaza, può garantire la tranquillità del paese.
• La guerra continuerà dopo la tregua?
In questo senso si possono leggere alcune dichiarazioni che parlano della ripresa della guerra dopo il periodo concordato di tregua, fino alla distruzione completa delle organizzazioni terroristiche a Gaza. Lo ha promesso ripetutamente il primo ministro Netanyahu annunciando il cessate il fuoco, lo ha ripetuto oggi il capo di stato maggiore Herzi Halevi oggi in un discorso tenuto ai comandanti dei battaglioni impiegati a Gaza: “Stiamo cercando di collegare gli obiettivi della guerra, in modo che la pressione dell'operazione di terra porti alla possibilità di raggiungere anche l'obiettivo di questa guerra, cioè creare le condizioni per la liberazione degli ostaggi rapiti. Non porremo fine alla guerra. Continueremo finché non saremo vittoriosi, andando avanti e continuando in altre aree di Hamas. Sono molto orgoglioso di voi, state facendo un lavoro eccezionale". Il problema sarà l’atteggiamento della comunità internazionale: è evidente che vi saranno forti pressioni per concludere del tutto l’operazione, assegnando così la vittoria a Hamas. Ma del problema si rende conto anche l’amministrazione americana, che è il partner fondamentale di Israele. Il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ha parlato mercoledì con i leader della comunità ebraica americana e ha affermato che gli Stati Uniti prevedono che la guerra tra Israele e Hamas continuerà dopo la scadenza della tregua [...] “La lotta non è finita. La guerra non è finita. La minaccia posta da Hamas è ancora reale e minaccia la vita del popolo israeliano”, ha detto Kirby ai leader ebrei. Gli Stati Uniti, ha aggiunto, “continueranno a garantire a Israele gli strumenti, le capacità e i sistemi d’arma di cui hanno bisogno per continuare a colpire Hamas”.
(Shalom, 23 novembre 2023)
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“Crescono antisemitismo e odio verso gli ebrei”, l’allarme della comunità ebraica di Torino
Una serata di riflessione a Torino sulla guerra Israelo- Palestinese e sulla via per trovare la pace: «La convivenza tra israeliani e palestinesi è possibile».
di Giovanni Venturi
«Assistiamo a crescenti forme di antisemitismo e odio verso gli ebrei». L’ennesimo allarme arriva da un incontro ieri sera, mercoledì 22 novembre, a Villa Sanquirico di Torino, organizzato da Asset, l’associazione ex allievi della scuola ebraica di Torino, con l'ente di raccolta fondi israeliano Keren Hayesod, per una riflessione sulla guerra israelo-palestinese e su passato e presente dello stato ebraico. Una situazione , la guerra, vissuta con molta ansia dalla comunità israeliana torinese, ha spiegato Giulio Disegni, presidente di Asset, «sia perché molti hanno là amici, parenti e conoscenti» sia per il fatto che «dopo il 7 ottobre (giorno dell’offensiva di Hamas in Israele), assistiamo a un preoccupante rigurgito di antisemitismo. Abbiamo invece bisogno di pace, libertà e condivisione di sentimenti da parte di tutti». E aggiunge: «La convivenza tra israeliani e palestinesi è possibile, il vero problema in questo conflitto è il terrorismo di Hamas».
• Tracciare le vie per la pace
Nella discussione la stella polare è una: tracciare le vie per una pace duratura in nome del popolo israeliano. Soprattutto perché, ha rimarcato Noemi Di Segni, presidente Unione delle comunità ebraiche italiane, «Israele intende avere una convivenza pacifica con le comunità musulmane».
Eppure, secondo Dario Disegni, presidente della Comunità ebraica di Torino, «manca quel rispetto alla base della stessa strada maestra, in particolare dallo scoppio della guerra mediorientale: assistiamo con incredulità a crescenti forme di antisemitismo e odio verso gli ebrei». Per Ariel Finzi, rabbino capo di Torino, «È un periodo tremendo. Possiamo fare hasbara, cioè far capire cos’è successo e cosa sta accadendo in Israele». Un modo anche per «aiutare la comunità a sopravvivere - continua - nel vedere università occupate con manifestazioni pro Palestina che accusano Israele e non ascoltano le grida delle nostre ragazze violentate, di chi combatte e lotta per la libertà delle nostre donne». Chiude lo scrittore Sergio Della Pergola che mette l’accento sia su «un grave boicottaggio degli accademici» nel dibattito collettivo sia sulla «necessità di autocritica della comunità israeliana per la politica interna».
• La testimonianza di una studentessa
Ella Mordohovic, sicritta a Medicina, è una dei 150 studenti israeliani che vivono a Torino. «Dal 7 ottobre Sono choccata e addolorata. Ultimamente ho avvertito diffidenza nei miei confronti, anche all'Università: non è facile essere israeliani in questo momento. Non appoggio quanto sta accadendo laggiù, ma in Italia sta venendo fuori un odio che non è possibile accettare».
• Solidarietà
La serata è stata anche un’occasione di raccolta fondi per i kibbuz in macerie. Un esempio è il Kibbuz Be’eri, villaggio al confine con la Striscia che dallo scorso 7 febbraio vive sotto i bombardamenti e oggi conta “100 morti, di cui 32 bambini, e 40 rapimenti su una popolazione di 1.100 persone”, ha spiegato Eyal Avneri, rappresentante per l’Italia di Keren Hayesod. Che ha poi aggiunto: «Non ci sono solo feriti a livello fisico, ma anche psicologico. Ragazzi e bambini hanno visto i propri genitori torturati, compagni di scuola uccisi. Grazie a questo progetto, intendiamo anche alleviare il post-trauma e avviare terapie psicologiche». Finora, ha concluso Avneri, l’ente israeliano è riuscito a raccogliere «40 milioni di euro in tutto il mondo, di cui 18,5 indirizzati a un fondo per le vittime di terrorismo e mezzo milione per ogni kibbuz distrutto».
(La Stampa, 23 novembre 2023)
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Le elezioni in Olanda e i riflessi sugli ebrei e Israele
di Nathan Greppi
Nell’ultimo anno, la politica olandese ha riservato non poche sorprese ai commentatori internazionali: dopo che alle elezioni del 30 maggio per il Senato si era affermato come primo partito il BBB, fondato per rappresentare gli agricoltori contrari alle politiche ambientaliste, alle elezioni legislative di mercoledì 22 novembre è stato il turno del leader di destra Geert Wilders, noto per le sue posizioni fortemente antislamiste ed euroscettiche, che con il suo Partito per la Libertà (PVV) ha ottenuto oltre il 23% dei voti, nonostante fosse dato in svantaggio secondo i sondaggi.
Il risultato fa sì che Wilders abbia la responsabilità di scegliersi degli alleati per formare il nuovo governo. Dietro di lui, arrivano rispettivamente al secondo e terzo posto la coalizione tra laburisti e verdi, guidata da Frans Timmermans, e il VVD, partito liberalconservatore del premier uscente Mark Rutte.
• Rapporti con ebrei e Israele
In un video in cui Wilders esulta dal suo ufficio per la vittoria ottenuta, si vede sullo sfondo una bandiera israeliana appesa al muro. Infatti, da anni si dichiara forte sostenitore dello Stato Ebraico, al contrario dei partiti di sinistra e ambientalisti, tradizionalmente filopalestinesi. E già nel giugno 2013, durante un discorso tenuto durante una conferenza a Los Angeles, disse di voler spostare l’ambasciata olandese in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme.
Queste sue posizioni hanno radici profonde nella sua formazione politica: da giovane ha vissuto per un anno come volontario a Tomer, moshav e insediamento israeliano in Cisgiordania. Inoltre, dal 1992 Wilders è sposato con un’ebrea, l’ex-diplomatica ungherese Krisztina Márfai. In passato le sue posizioni gli hanno attirato le simpatie di una parte degli ebrei olandesi. Tuttavia, in passato il PVV ha preso delle posizioni che hanno suscitato proteste da parte della comunità ebraica: tra il 2011 e il 2012, appoggiarono l’introduzione del divieto di praticare la macellazione rituale kasher, così come di quella halal per i musulmani. In tale occasione, il rabbinato olandese dichiarò che “non si può essere nello stesso tempo amici di Israele e del popolo ebraico e sostenere leggi anti-ebraiche”.
Un altro punto di rottura con la comunità avvenne nel 2014 quando, durante un comizio in vista delle elezioni europee, incitato da suoi sostenitori disse che avrebbe fatto in modo che ci fossero “meno marocchini” nei Paesi Bassi. Se prima diversi ebrei trovavano condivisibile la sua opposizione all’integralismo islamico e alla criminalità, in molti non potevano accettare che si prendesse di mira con toni razzisti un intero gruppo senza distinzioni.
(Bet Magazine Mosaico, 23 novembre 2023)
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"Come Settembre Nero". Nili, la squadra speciale israeliana che rintraccia i terroristi di Hamas
In Israele è stata attivata un'unità speciale in grado di intercettare ed eliminare i responsabili delle atrocità dell'attacco di Hamas. La stampa locale paragona il gruppo a quello creato dopo la tragedia delle Olimpiadi di Monaco '72
di Mauro Indelicato
L'incubo vissuto da Israele il 7 ottobre scorso ha colto di sorpresa la popolazione e le forze di sicurezza. Ma i più anziani ricordano come la storia dello Stato ebraico è costellata di attacchi, attentati e crisi di ostaggi. E adesso, passati i giorni dell'amarezza, le forze di sicurezza si preparano a dare materialmente la caccia ai responsabili degli assalti e delle atrocità di Hamas. Un po' come avvenuto con la crisi degli ostaggi di Entebbe nel 1976. E soprattutto come avvenuto, quattro anni prima, dopo l'attacco terroristico contro la delegazione di atleti israeliani alle olimpiadi di Monaco 1972.
• L’unità speciale Nili
La squadra speciale composta da soldati, membri della marina e delle forze di sicurezza, nonché dai servizi segreti dello Shin Bet, ha già un nome. Si chiama Nili, acronimo della frase "L'Eterno di Israele non ti abbandonerà mai" contenuta nel libro della Genesi.
L'unità si è formata subito dopo le stragi del 7 ottobre. L'obiettivo dei suoi membri è diverso da quello del resto dell'esercito. Non si tratta infatti di dare seguito ai piani militari contro Hamas, portati avanti in queste settimane soprattutto dall'aviazione. L'unità Nili ai occupa di riconoscere ed eliminare, uno dopo l'altro, tutti i responsabili materiali degli assalti alle comunità israeliane attorno la Striscia di Gaza. Coloro dunque che hanno dato il via alle atrocità contro i civili o si sono macchiati in prima persona di crimini contro la popolazione.
La squadra Nili, secondo la stampa israeliana, avrebbe già colpito. Alcuni dei raid effettuati a Gaza negli ultimi giorni non hanno infatti preso di mira depositi di munizioni oppure obiettivi militari di Hamas. Al contrario, nelle incursioni sono stati colpiti singoli individui che hanno avuto ruoli importanti nelle azioni terroristiche del 7 ottobre.
Tra questi figura Ali Qadhi, ucciso a ottobre da un raid nella Striscia. Secondo l'intelligence, il miliziano avrebbe organizzato l'assalto contro uno dei kibbutz del sud di Israele. Stessa sorte è toccata a Billal Al Kedra, ritenuto artefice delle stragi attuate nel kibbutz di Nirim, uno dei più colpiti dagli attacchi di Hamas. Il nome più eclatante ucciso dalle operazioni dell'unità Nili, sarebbe al momento quello di Muhamed Katmash, tra i comandanti più importanti dell'organizzazione terroristica e responsabile dei lanci di missili verso le città israeliane.
I membri di Nili agiscono su più fronti. C'è infatti dietro un lavoro di intelligence, volto a individuare personaggi e nascondigli. Poi c'è un'azione compiuta sul campo, con i raid mirati. Ma c'è anche un'unità informatica che si occupa del riconoscimento facciale. Vengono così raccolti molteplici dati e, successivamente, si passa all'azione.
• In Israele si rievoca il precedente di Monaco
Il precedente più ricordato in questo momento in Israele è quello relativo alla strage attuata dal gruppo terrorista palestinese Settembre Nero contro la delegazione dello Stato ebraico a Monaco 1972. L'allora premier israeliano Golda Meir, subito dopo la morte di 11 atleti presenti nel villaggio olimpico, ha autorizzato la formazione di una squadra speciale per rintracciare ed eliminare tutti coloro che hanno avuto un ruolo in quel massacro.
Un obiettivo centrato dopo diversi anni di ricerche e attività di intelligence. A Beirut, così come a Parigi e a Roma, la morte di diversi miliziani palestinesi è stata attribuita proprio all'unità israeliana attivata dopo la strage. L'operazione più eclatante in quel contesto è stata attuata a Beirut, dove un commando israeliano composto da agenti vestiti in abiti femminili ha ucciso almeno tre esponenti di Settembre Nero.
• L’ordine di Netanyahu di eliminare anche i capi di Hamas all'estero
L'Unità Nili però potrebbe non entrare in azione unicamente nella Striscia di Gaza. Proprio come nei precedenti rievocati dalla stampa israeliana, i membri della forza speciale potrebbero agire anche all'estero. Nei giorni scorsi il premier Netanyahu è stato categorico: il governo ha dato ordine di catturare i membri di Hamas ovunque si trovino. Dunque anche in Libano, in Turchia, in Iran e in Qatar. Un Paese quest'ultimo dal ruolo molto delicato.
A Doha risiedono gran parte dei capi politici di Hamas, ma al tempo stesso il governo dell'emirato è impegnato in prima linea nella mediazione per portare a casa gli ostaggi israeliani detenuti a Gaza. Se l'Unità Nili dovesse entrare in azione in territorio qatarino, potrebbero esserci ripercussioni sulle trattative. Ed è quello che temono i parenti degli ostaggi, i quali infatti non hanno salutato con entusiasmo l'annuncio di Netanyahu. Al contrario, il premier ha ricevuto il plauso della parte più a destra della coalizione di governo.
(il Giornale, 23 novembre 2023)
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Nota dell'Assemblea dei Rabbini d’Italia
Il consiglio dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia afferma:
«Ieri l’incontro del Papa con i parenti degli ostaggi rapiti da Hamas, da tempo richiesto e sempre rinviato, è stato finalmente possibile perché è stato seguito da un incontro con parenti di palestinesi prigionieri in Israele, così come riportato dal Papa, mettendo sullo stesso piano innocenti strappati alle famiglie con persone detenute spesso per atti gravissimi di terrorismo. E subito dopo il Papa ha pubblicamente accusato entrambe le parti di terrorismo. Queste prese di posizione al massimo livello seguono dichiarazioni problematiche di illustri esponenti della Chiesa in cui o non c’è traccia di una condanna dell’aggressione di Hamas oppure, in nome di una supposta imparzialità, si mettono sullo stesso piano aggressore e aggredito. Ci domandiamo a cosa siano serviti decenni di dialogo ebraico cristiano parlando di amicizia e fratellanza se poi, nella realtà, quando c’è chi prova a sterminare gli ebrei invece di ricevere espressioni di vicinanza e comprensione la risposta è quella delle acrobazie diplomatiche, degli equilibrismi e della gelida equidistanza, che sicuramente è distanza ma non è equa.»
Acrobazie diplomatiche e funambolismi sono sempre stati una caratteristica della diplomazia vaticana. Il mondo ebraico ufficiale sembra non aver capito che il cosiddetto "Dialogo ebraico-cristiano" è avvenuto sempre nel quadro istituzionale della Chiesa Cattolica. Qualcosa del genere hanno provato a fare dopo il Concilio Vaticano II (e qualche volta purtroppo ci sono riusciti) con il tentato dialogo ecumenico fra cattolici ed evangelici. Alcuni di noi a suo tempo furono addirittura coccolati (chi scrive può dirlo per esperienza personale); e anche se a livello di semplici persone l'avvenuto "disgelo" in certi casi può aver avuto utili conseguenze, si poteva capire fin dall'inizio che all'istituzionale CCR (Chiesa Cattolica Romana) interessava soprattutto la cornice del quadro, non il contenuto: quando si riusciva a mettere ben a fuoco le fondamentali differenze di dottrina e condotta, il dialogo gradatamente si estingueva. Forse anche per il mondo ebraico può essere venuto il momento di capire che il dialogo ad alto livello con un'istituzione religiosa ormai in via di disfacimento è più dannoso che utile. M.C.
(Notizie su Israele, 23 novembre 2023)
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L’accordo sugli ostaggi
di Ugo Volli
• L’accordo
A tarda notte di ieri, dopo un’accanita discussione, il governo israeliano ha approvato un accordo per la liberazione di un certo numero di persone rapite da Hamas, in cambio della scarcerazione di un numero più consistente di terroristi arrestati e di una tregua di cinque giorni. L'accordo approvato comprende 30 bambini, otto madri e altre 12 donne. I 50 ostaggi verranno liberati in gruppi più piccoli durante quei giorni e non tutti in una volta. Israele in cambio rilascerà circa 150 donne e minori palestinesi detenuti nelle sue carceri per reati legati alla sicurezza, ma nessuno di loro sarebbe direttamente coinvolto in attacchi terroristici con vittime. Esiste la possibilità del rilascio di altri 30 ostaggi trattenuti a Gaza nel caso in cui la pausa nei combattimenti dovesse prolungarsi per altri quattro giorni. I liberati saranno tutti cittadini israeliani, ma in parallelo vi è la possibilità che siano liberati dei rapiti tailandesi. L’accordo è stato negoziato dai servizi di informazione israeliani con i dirigenti di Hamas in Qatar, grazia alla mediazione di quest’ultimo stato e con l’appoggio di Usa e Egitto. Come parte dell’accordo, il carburante potrà entrare a Gaza durante la pausa dei combattimenti. Israele si era opposto a questi rifornimenti per evitare che Hamas lo sequestrasse per uso militare, ma oggi ha rinunciato a questa interdizione. Ogni giorno ci sarà una finestra di sei ore, durante la quale la sorveglianza aerea di Israele su Gaza verrà interrotta. L’attività dell’aviazione militare cesserà del tutto sulla parte meridionale della Striscia e si interromperà dalle 10 alle 16 sulla parte settentrionale. "Ci sono altre capacità di raccolta di informazioni. Non saremo ciechi in quelle 6 ore in cui non ci saranno droni e palloncini in aria", ha detto ai giornalisti un alto ufficiale israeliano. Non sarà consentito agli sfollati di queste settimane di far ritorno alla parte settentrionale di Gaza.
• La discussione
Sull’accordo sono state espresse molte riserve da parte dei politici di destra (Otzma Yehudit, il partito di Ben Gvir e Sionismo religioso, il partito di Smotrich). A favore si sono pronunciati i servizi (Mossad e Shin Bet) il vertice delle Forze Armate e gli altri esponenti del governo, da Netanyahu a Gantz ai partiti che sono espressione del mondo religioso charedì. Anche l’opposizione di sinistra si è detta favorevole. Critiche sono arrivate invece da numerosi opinionisti.
• I problemi
I rischi e i limiti dell’accordo sono chiari. Solo una parte dei sequestrati verrà liberata, ne restano in mano ai terroristi quasi duecento, in una situazione di grave sofferenza per loro e le famiglie e con la possibilità di essere usati ancora per scambi e scudi umani. Lo scambio dei rapiti con terroristi regolarmente arrestati legittima in qualche modo i crimini di Hamas e soprattutto ne rafforza molto la popolarità nel mondo arabo e fra i palestinesi. I terroristi avevano sempre dichiarato apertamente, anche prima del 7 ottobre, di voler rapire degli israeliani per scambiarli con i terroristi detenuti. Ora ci sono riusciti e questo cambia il senso percepito della loro operazione, la trasforma in un successo anche se hanno subito perdite gravi, che comunque per la mentalità islamica sono valutate positivamente come atti di martirio.
• Che succede ora
Sul piano operativo è evidente che una tregua di cinque giorni, che è già previsto si possa prolungare per altri quattro, con una forte diminuzione della sorveglianza aerea, permetterà ai terroristi di riorganizzarsi, di rifornirsi, di uscire dalle situazioni più problematiche in cui si trovano. Dopo una settimana o dieci giorni di pausa ci saranno troppe pressioni internazionali, e dunque sarà molto difficile per Israele ricominciare la guerra, come pure Netanyahu ha promesso di fare, salvo che Hamas stesso non decida che gli conviene riprendere i combattimenti. In ogni caso l’iniziativa sarà in mano loro. Potranno decidere se attaccare, fuggire, prolungare ancora la tregua centellinando il rilascio dei rapiti. È molto probabile che l’operazione Spade di ferro, come l’abbiamo conosciuta finora, si concluda qui. Gaza è conquistata solo in certi settori, il sistema dei tunnel smantellato solo al Nord e parzialmente, Hamas è duramente colpita, ha perso migliaia di uomini e moltissimi quadri, ma il suo nucleo centrale è ancora in piedi. Non sono neanche esauriti i suoi missili. Se restasse così nel giro di qualche tempo potrebbe ricostruire le sue capacità militari, utilizzando come ha sempre fatto i soccorsi internazionali per farne armi e contando sull’aiuto di Iran, Qatar, Turchia. Si tratta di capire che cosa accadrà nelle settimane successive, con mezza Gaza occupata, centinaia di migliaia di sfollati e la struttura terroristica ancora esistente. Tutto ciò creerà a Israele numerosi problemi tecnici ma soprattutto politici.
• Le ragioni
Perché si sia arrivati a questo accordo è abbastanza chiaro. Ci sono le ragioni delle famiglie dei rapiti, che nell’etica ebraica sono importantissime. È stata determinante una forte pressione internazionale e soprattutto americana. C’è stato forse un certo scetticismo da parte dei vertici militari, ormai da decenni abituati a pensare in termini di deterrenza e non di vittoria. È pesata anche la ricomparsa di manifestazioni contro il governo, che approfittando del dolore delle famiglie dei rapiti rischiavano di riprodurre le dinamiche della disobbedienza civile che ha avuto certamente peso nel far percepire ai terroristi la debolezza di Israele prima della strage. A quel che si capisce, Netanyahu e Gallant hanno resistito a questa pressione per una decina di giorni, poi hanno dovuto cedere. Forse hanno ottenuto una promessa americana di consentire la ripresa dei combattimenti, ma è difficile che essa si realizzi davvero. Certo che la lenta e sistematica avanzata delle forze armate si è interrotta e salvo incidenti imprevisti per un certo periodo la situazione militare e quella politica si stabilizzeranno al punto attuale.
(Shalom, 22 novembre 2023)
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La trappola di Hamas
L’accordo con Hamas che Israele ha finalizzato ieri con la mediazione del Qatar, il principale sponsor finanziario del gruppo terroristico sunnita e che entrerà in vigore domani, prevede il rilascio di cinquanta ostaggi, prevalentemente donne e bambini, dei 240 ancora nelle sue mani, con, come controparte, una tregua per la durata di quattro giorni.
Il meccanismo prevede che se Hamas sarà in grado di localizzare altri trenta ostaggi detenuti da soggetti terzi all’interno della Striscia, la tregua potrà estendersi ulteriormente di un giorno oltre i quattro stabiliti per ogni decina di ostaggi che verrebbero rilasciati in aggiunta a quelli già pattuiti. In questo caso la tregua sarebbe estesa a sette giorni.
Hamas sa perfettamente quanta importanza Israele dà alla vita dei propri concittadini, e che, per riaverli vivi, è disposto a pagare un prezzo alto. Lo scopo di avere degli ostaggi, per i rapitori, chiunque essi siano è esattamente quello del ricatto e del vantaggio da ottenere.
Dopo tre settimane di offensiva terrestre Hamas si trova in palese difficoltà all’interno della Striscia. Quella che secondo i soliti sedicenti esperti avrebbe comportato un bagno di sangue per l’IDF, è stata, fino ad ora un’operazione che, nonostante il numero dei caduti, oltre settanta tra le file dell’esercito israeliano, ha portato alla conquista della parte settentrionale dell’enclave. Il grosso della forza di combattimento di Hamas è asserragliato al sud.
Al momento Hamas ottiene un immediato vantaggio, quello di vedere depotenziare l’offensiva israeliana e di guadagnare tempo, e l’acquisto di tempo, nel corso di una guerra è un fattore determinante, soprattutto quando chi lo acquista è la parte più debole.
Nonostante i proclami del gabinetto di guerra, che l’obbiettivo prefissato, lo sradicamento di Hamas da Gaza, verrà mantenuto, Hamas sa benissimo di potere contare sulle pressioni internazionali finalizzate ad allungare il più possibile la tregua. In questo senso, Hamas giocherà la sua partita con scaltrezza usando gli ostaggi come fisches da lanciare sul tavolo da gioco, tentando, e ci sono alte probabilità che riesca, di differire sempre di più la vittoria di Israele, fino a non renderla più l’obbiettivo prioritario.
(L'informale, 22 novembre 2023)
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Yahya Sinwar sfrutterà Israele...
... se non stiamo attenti. Il "piccolo Hitler", nascosto da qualche parte nel sottosuolo della Striscia di Gaza meridionale, saccheggerà Israele anche politicamente, proprio come ha fatto Hamas la mattina dello Shabbat nero nel sud di Israele.
di Aviel Schneider
Se Israele non sta attento, cadrà in una trappola con lo scambio di ostaggi. Con chiunque ne parli, la maggior parte degli esperti di sicurezza vede nero. Ma d'altra parte, il governo deve decidere, e non è facile.
Non ci sarà un solo cittadino in questo Paese che non si commuoverà fino alle lacrime per il ritorno degli ostaggi israeliani, neonati, bambini, madri e donne. La gioia della gente sarà immensa e per le famiglie interessate sarà un sollievo celestiale dopo oltre un mese di inferno. Ogni minuto è importante e l'intero governo e l'apparato di sicurezza di Gerusalemme hanno deciso quella notte di correre un rischio e di accettare l'accordo per lo scambio di ostaggi. Tutto questo è una dichiarazione morale e di valore sull'impegno del governo nei confronti dei suoi cittadini. Eppure, nonostante le difficoltà e le preoccupazioni che tutti condividiamo tra la popolazione, è dovere della leadership e dei media evidenziare anche i pericoli che si celano dietro l'accordo per lo scambio di ostaggi. Yahya Sinwar, il leader di Hamas sul campo ma in realtà in clandestinità, conosce la società israeliana meglio di quanto si pensi, e probabilmente meglio del popolo stesso. Durante i 22 anni di prigionia in Israele, Sinwar ha imparato non solo l'ebraico, ma soprattutto le debolezze della società israeliana.
Il 7 ottobre, Yahya Sinwar ha colto Israele completamente di sorpresa mettendo in atto un piano di inganno completo e strategico. "Le migliori menti del sistema di sicurezza israeliano non hanno capito l'inganno per i motivi più disparati, e tutti dovranno anche risponderne dopo la guerra. Ciò che le giovani soldatesse hanno visto con i loro occhi alla barriera di confine non è stato preso sul serio dai loro comandanti", ha scritto il noto esperto militare israeliano Yossi Yehoshua. "I comandanti di alto livello vedevano il quadro generale ma non la realtà sul campo e il governo si preoccupava di problemi che oggi sembrano solo idioti e stupidi".
Proprio come Yahya Sinwar ha colto di sorpresa Israele più di sei settimane fa, è molto probabile che saremo nuovamente ingannati. Quasi tutti gli esperti di sicurezza e militari del Paese che non sono legati al governo lo hanno avvertito nei giorni scorsi. In linea di principio, anche la maggioranza della popolazione la pensa così.
Il governo non deve accettare l'accordo di Yahya Sinwar. Sinwar ha ingannato il governo per più di una settimana. Sinwar ha iniziato con 100 ostaggi, bambini e donne. Poi è sceso a 80, poi a 70 e ora siamo a 50. E Sinwar ha diviso questo rilascio di 50 ostaggi israeliani in un piano graduale, che giocherà contro di noi tecnicamente e politicamente. Sarebbe meglio se Israele non accettasse questo accordo. Finora Sinwar ha visto la massiccia offensiva di terra israeliana a Gaza, la sua gente uccisa e in fuga. Ha anche visto Israele prendere l'ospedale Shifa, anche se questa era una linea rossa per Sinwar. L'esercito israeliano sta soffocando l'intero sistema del terrore e i palestinesi stanno fuggendo verso sud. Vede la crisi umanitaria. A Yahya Sinwar basta un cessate il fuoco. Quattro o cinque giorni. Un cessate il fuoco così lungo potrebbe porre fine alla guerra nella Striscia di Gaza. Aumenterà anche la pressione internazionale su Israele. Non dobbiamo essere in grado di porre fine alla guerra ora perché abbiamo ancora molti ostaggi nella Striscia di Gaza. Sarebbe meglio e più necessario ottenere uno scambio completo di ostaggi, ma per questo Sinwar e Hamas devono essere completamente distrutti.
Tutto ciò che si dice di Yahya Sinwar nella Striscia di Gaza e in Israele è vero. Quando molti anni fa mise le mani sull'apparato "Al Majed" e ripulì la società palestinese dai collaboratori di Israele e dai palestinesi che si erano allontanati dall'Islam, nella Striscia di Gaza si destò un mostro.
"Interrogava i palestinesi con falsa gentilezza davanti a una tazza di caffè e, non appena terminato l'interrogatorio e appreso tutto ciò che voleva sapere, uccideva l'interrogato con un colpo alla testa", ha sottolineato l'esperto di Medio Oriente ed ex generale Moshe Elad, che 30 anni fa dirigeva il coordinamento della sicurezza nel cuore biblico della Giudea e Samaria. Sinwar trascinava collaboratori e traditori, legati alla sua auto, lungo la strada di Salach al-Din a 150 chilometri all'ora e seppelliva gli apostati dalla fede islamica in pilastri di cemento dopo averne smembrato i corpi". Per Sinwar non ci sono ostacoli.
Due fenomeni davano da pensare a Sinwar. L'estrema sensibilità di Israele nei confronti delle vite umane e la debolezza dei politici nei confronti della società israeliana. Sinwar capisce molto bene che la società israeliana è stressata e molto vulnerabile.
Questo è il concetto di Israele che Sinwar presenta nell'accordo per lo scambio di ostaggi. Egli commercializzerà l'accordo come se avesse ottenuto un'enorme tregua nel bel mezzo della guerra per soli cinquanta donne e bambini, due gruppi di persone che considera inferiori. Durante questo cessate il fuoco, Hamas si riprenderà e si riorganizzerà nel sud di Gaza. Inoltre, il rilascio di 150 donne e minori palestinesi dalle prigioni israeliane, tutti terroristi e non innocenti. Inoltre, l'importazione di cibo, medicine e, per finire, di carburante.
Sinwar ha insistito su un accordo graduale, e non è una coincidenza. Spremerà in tutti i modi
il limone in una limonata chiamata "cessate il fuoco". Sinwar troverà una scusa dicendo che Israele non rispetta il cessate il fuoco e quindi che è libero "di non rispettarlo nemmeno lui". In un secondo momento, accuserà Israele di aver attivato un drone per individuare la sua posizione nonostante l'accordo. In terzo luogo, farà in modo che i media stranieri siano autorizzati ad entrare nella Striscia di Gaza durante il cessate il fuoco, per presentare a loro e al pubblico mondiale le immagini più raccapriccianti di bambini palestinesi morti e gravemente feriti. Non appena il mondo vedrà queste immagini, i Paesi occidentali eserciteranno incredibili pressioni su Israele affinché ponga fine alla guerra. Il governo di Gerusalemme non può e non deve permettersi questo, perché la popolazione non lo permetterà. E se il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu non sarà abbastanza forte, questo porterà a disordini tra la popolazione. Israele non è entrato in guerra solo per liberare gli ostaggi, ma soprattutto per distruggere Hamas.
Inoltre, il dottor Moshe Elad ritiene che durante il cessate il fuoco, Sinwar darà istruzioni alle sue cellule di Hamas in Giudea e Samaria di compiere attacchi terroristici in Israele e anche dal Libano, per costringere Israele a concentrare i suoi sforzi strategici altrove rispetto a Gaza. "Durante il cessate il fuoco, Hamas eserciterà forti pressioni sugli iraniani per convincere Hezbollah e gli Houthi a molestare Israele".
Sinwar ritiene che le pressioni su Israele avranno successo e che Israele interromperà quindi il suo proposito di distruggere Hamas nel sud della Striscia di Gaza a Khan Yunis. Come piano B, egli fortificherà la sua roccaforte a Khan Yunis, suo luogo di nascita e città natale, per la prossima fase della guerra. Se il suo piano dovesse fallire, verrà ucciso lì da un barile bomba o da un colpo di pistola sparato da un soldato israeliano. Questa è la promessa che il governo ha fatto al popolo israeliano, e il governo deve mantenerla.
(Israel Heute, 22 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Ho visto il video degli orrori di Hamas. È accaduto, di nuovo
“Mamma, ho ammazzato dieci ebrei con le mie mani”, “Quei cani hanno paura”, “Voglio fare un selfie con te” detto a un ostaggio sul pickup. Quarantatré minuti e 138 morti, neppure un decimo del totale del massacro del 7 ottobre. Un pubblico (ristretto) sconvolto.
di Gabriele Carrer
Il papà scappa con i suoi due figli. Il solo intimo che indossano fotografa la sorpresa del momento. Cerca rifugio per loro. Lo trova. Trova il rifugio antiaereo fuori dalla loro abitazione nel kibbutz. Una granata fa in tempo a raggiungerlo prima che la porta si chiuda. Lo lascia senza vita. Priverà uno dei figli della vista da un occhio. Lui e il fratello vengono trascinati in casa. I loro corpi ricoperti del sangue del papà. Piangono. Disperati. Chiamano il papà. “Perché sono vivo?”, grida in lacrime, grida strazianti, uno di loro dicendo di non vedere da un occhio. Sono sul divano in cucina. A pochi centimetri da loro, uno dei terroristi di Hamas apre il frigorifero. Rovista un po’. E alla fine, a muso, tracanna della Coca Cola. Qualche minuto più tardi arriverà la mamma. E gli operatori della sicurezza faranno fatica a trascinarla al riparo quando scoppierà in lacrime vedendo il corpo senza vita del marito.
In molti momenti durante quei lunghi 43 minuti proiettati in una sala dell’ambasciata di Israele a Roma noi giornalisti, una dozzina, ci siamo guardati più volte negli occhi. Sconvolti. Meglio che guardare certe immagini e ascoltare certi audio del massacro del 7 ottobre. Alcuni di questi materiali erano già circolati online, ma in forme tagliate o oscurate. Neanche l’ambasciatore Alon Bar riesce a guardare quelle immagini. Gioca con la penna tra le sue mani. Guarda nel vuoto. Sembra cerchi di pensare ad altro. Sicuramente non sarebbe il solo.
Perché non si può rimanere indifferenti. Non davanti a quelle immagini, buona parte delle quali prodotte proprio dai terroristi di Hamas con bodycam e smartphone per diffondere e celebrare le proprie gesta ai parenti, agli amici ma anche e soprattutto al mondo. Non davanti a certe parole: “Spara”, “Brucialo”, “Prendilo e appendilo in piazza Al-Alam”, “Mamma, ho ammazzato dieci ebrei con le mie mani”, “Quei cani hanno paura”, “Voglio fare un selfie con te” detto a un moribondo ostaggio caricato sul cassone del pickup. E soltanto alla fine si scopre di aver visto 138 morti su quello schermo. In 43 minuti. E non è neppure un decimo del totale delle vittime dell’attacco perpetrato da Hamas il 7 ottobre scorso.
Perché mostrare questo video? Per dire, ribadire e se serve anche convincere che ciò che non doveva capitare “mai più” invece è accaduto di nuovo, che degli ebrei fossero uccisi soltanto perché ebrei. Per mostrare ciò che è Hamas, spiegato bene da Hamas, e perché va estirpata per assicurare un futuro migliore a israeliani e palestinesi.
Perché mostrarlo a un pubblico ristretto anche se potenzialmente influente? Per rispetto delle vittime e delle famiglie. Ma anche per non dare l’impressione di essere alla ricerca di coperture per le morti causate dalla reazione di Israele.
Un dilemma che assilla anche chi guarda e poi scrive.
(Formiche.net, 22 novembre 2023)
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“Se mio figlio ha partecipato agli attentati di Hamas lo ammetterete?”
Lo scherzo all’ufficio ammissioni di Harvard
di Pietro Baragiola
L’ufficio ammissioni dell’università di Harvard è caduto vittima di uno scherzo telefonico realizzato dalla giornalista satirica israeliana Racheli Rottner che si è finta la madre di un terrorista di Hamas interessata a sapere se la partecipazione del figlio al massacro del 7 ottobre possa migliorare le sue possibilità di entrare nel rinomato ateneo.
Questo scherzo è stato ispirato dalle numerose critiche che nelle ultime settimane sono state rivolte a diverse università americane per la loro mancata condanna dei crimini di Hamas e per il sostegno che molti studenti hanno espresso pubblicamente nei confronti dell’organizzazione terroristica, portando ad un aumento preoccupante degli episodi antisemiti nei campus.
Pubblicato online domenica 12 novembre sotto forma di filmato animato per il sito israeliano Mako, lo scherzo è stato poi condiviso su YouTube dove ha ottenuto milioni di visualizzazioni in meno di 24 ore.
LO SCHERZO AD HARVARD
Dopo gli eventi del 7 ottobre Rottner è stata incaricata di sostituire i redattori delle diverse rubriche di Mako, senza però avere mai l’occasione di raccontare gli eventi attraverso il suo peculiare taglio satirico.
“Fu così che mi venne l’idea di fare uno scherzo telefonico che fosse legato alla guerra senza che la riguardasse direttamente” ha affermato la giornalista, spiegando che, nonostante il suo primo istinto fosse quello di rivolgere lo scherzo direttamente ad Hamas, sarebbe stata un’impresa troppo ardua.
L’ispirazione per Harvard le arrivò dopo aver visto un’intervista in cui l’attrice ebrea americana Mayim Bialik affermava che, a causa dell’aumento degli episodi antisemiti in America e specialmente nell’università di Harvard (dove si è laureata), si sentiva una straniera nel suo stesso paese. Anche molti altri ex alunni del rinomato ateneo tra cui l’ex ministro del Tesoro Larry Summers e il senatore repubblicano Ted Cruz hanno considerato inaudito che, a meno di 24 ore dall’attacco del 7 ottobre, 33 associazioni studentesche di Harvard avessero firmato una lettera aperta accusando Israele come “la vera responsabile di tutte le violenze”.
La presidentessa di Harvard, Claudine Gray, ha tentato di sedare la situazione, condannando personalmente le atrocità commesse da Hamas e dichiarando che “le prese di posizione di gruppi studenteschi, anche numerosi, non rispecchiano l’opinione dell’ateneo”. Ciononostante, le manifestazioni antisemite sono aumentate sempre più, portando molti importanti donatori ebrei a minacciare di tagliare i fondi devoluti all’università per un totale di decine di milioni di dollari.
Fu così che la Rottner cominciò a pianificare lo scherzo, scegliendo di interpretare il personaggio di “Jaama” una donna che chiama per conto del figlio “Hameed”, terrorista di Hamas, nella speranza di ottenere una borsa di studio per il suo notevole “attivismo politico”.
“Voglio solo sottolineare ancora una volta che si tratta di una vera e propria chiamata all’ufficio ammissioni. Molte persone sono rimaste talmente sbalordite che mi hanno chiesto se si trattasse di uno sketch ma è reale” ha confermato Rottner, spiegando che nonostante il responsabile dell’ufficio ammissioni fosse chiaramente a disagio è rimasto in linea fino alla fine.
“Mi aspettavo che riagganciasse la cornetta molto presto e non l’ha fatto, portandomi così ad aggiungere domande sempre peggiori” ha raccontato la giornalista. “Purtroppo viviamo in una società in cui riattaccare il telefono in faccia a qualcuno è considerato più grave di ascoltare una persona mentre parla del massacro di bambini innocenti come se niente fosse”.
TRADUZIONE DELLA TELEFONATA
Ufficio Ammissioni dell’Università di Harvard, come posso aiutarla?
- Salve, il mio nome è Jaama. Mio figlio Hameed vorrebbe registrarsi nella vostra università il prossimo anno. Forse ha sentito parlare di lui? Era uno dei combattenti di Hamas che ha partecipato alle lotte del 7 ottobre. Un vero attivista politico! Volevo dunque chiederle se aveste una borsa di studio per l’attivismo politico? No tutte le nostre borse di studio vanno agli applicanti che non possono permettersi la retta scolastica. Non ce ne sono per merito.
- Non lo aiuterebbe dunque il fatto che era un combattente di Hamas? Tutto quello che uno studente ha fatto prima di fare richiesta lo può aiutare nel processo di selezione.
- Ok quindi lo potrebbe aiutare il fatto di aver partecipato al massacro del 7 ottobre? In-in-in aggiunta a tutto il resto. Il nostro processo di ammissione esamina tutta la carriera liceale di uno studente sia dentro che fuori dalla classe.
- E il massacro è un vantaggio giusto? O-o-ognuna delle attività può portare un vantaggio. Esaminiamo tutte le loro attività dentro e fuori dalla classe.
- E non si preoccupi. Non ha violentato nessuna delle prigioniere. Ha molto rispetto per tutti i generi. Le ha solo uccise. È molto femminista. Quindi andrà bene, giusto? Io…le posso solo dire che può provare a mandare la richiesta.
- Ottimo, ottimo! Perché ha molto rispetto anche per le minoranze etniche. Ha massacrato solo bambini bianchi. Non abbiamo bisogno di altri uomini bianchi nel mondo, non trova? Pronto? …. ha per caso qualche altra domanda da pormi?
- Si, volevamo sapere delle regole di condotta nel campus in modo da non fare niente di proibito. Si può fumare nel campus? Hummm non ne sono sicuro.
- Ok, allora si possono bere alcolici? No, bere alcolici non è concesso.
- E violentare? Anche quello non è concesso.
- E massacrare i bambini? In giro per il campus? Anche quello non è concesso.
- E indossare un cappello? Può indossare un cappello.
- Oh bene! Ho avuto paura per un momento. Ok. Mio figlio non vede l’ora di essere ammesso nella vostra università. Ha molte attività divertenti per lui, gli altri studenti e per tutti i presenti nel campus. Sarà molto divertente! Grazie davvero!
…buona giornata.
- Anche a lei!
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LO SKETCH DI ERETZ NEHEDERET
Harvard non è stata l’unica università americana ad essere travolta dalla crescente ondata di antisemitismo che si è diffusa tra gli studenti statunitensi.
Questo fenomeno preoccupante ha attirato l’attenzione del programma satirico di Keshet TV Eretz Nehederet (Un Paese Meraviglioso) che ha deciso di trasmettere uno sketch in cui una coppia di studenti americani ultraliberali sposano l’antisemitismo e sostengono allegramente il terrorismo di Hamas.
“Siamo pienamente a sostegno di tutti coloro che sono LGBTQH. Ovviamente la ‘H’ sta per ‘Hamas’ che è così trendy in questi giorni” affermano gli attori durante lo sketch, giustificando i propri insulti verso gli studenti ebrei auto dichiarandosi non antisemiti ma “razzisti fluidi”.
La clip continua con i due studenti che simulano un collegamento con l’armato Abu Fatwa, un terrorista di Hamas, senza accorgersi dell’interminabile filippica di insulti e minacce che l’uomo rivolge a loro: tra cui la promessa di “uccidere tutti gli infedeli”. Quando il terrorista dice che gli mancano solamente altri razzi per sconfiggere Israele e passare all’America, uno degli studenti risponde in maniera entusiasta: “basta che siano organici”.
La conduttrice del telegiornale di Canale 12, Yonit Levi, ha postato la clip sul suo account X domenica 5 novembre ed entro lunedì aveva già ottenuto più di 11,5 milioni di visualizzazioni ed oltre 30.000 “mi piace”.
Questa non è la prima volta che Eretz Nehederet crea uno sketch satirico sul conflitto tra Israele e Hamas: solo una settimana prima aveva postato un video in cui prendeva in giro la BBC per la sua copertura pro-palestinese della guerra.
(Bet Magazine Mosaico, 22 novembre 2023)
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L’Ema sapeva fin dal primo momento che il vaccino non evita il contagio
L'Agenzia europea del farmaco ribadisce, in una lettera a un eurodeputato, che i sieri non furono autorizzati «per prevenire la trasmissione». È la conferma che il green pass non aveva una giustificazione scientifica.
di Maddalena Loy
Sull'efficacia e sulla sicurezza dei vaccini anti Covìd, somministrati in massa in tutto il mondo (13,5 miliardi di dosi a novembre 2023), la menzogna è stata la cifra predominante della comunicazione istituzionale. Si prenda ad esempio la frase pronunciata dal presidente Aifa Giorgio Palù il 23 dicembre 2020, quattro giorni prima dell'arrivo delle prime forniture sul continente europeo, attese come lo sbarco in Normandia:« Questo vaccino previene addirittura l'infezione, quindi dà un'immunità sterilizzante», rivelò con enfasi l'appena nominato presidente Aifa in una conferenza stampa organizzata con il governatore veneto Luca Zaia. Per poi ribadire: «E quasi certo che entrambi i vaccini a mRna (Pfizer e Moderna, ndr) diano un'immunità sterilizzante, lo stanno già misurando adesso, quindi io vi anticipo dei dati che sono quelli che ci ha trasmesso l'Ema (l'Agenzia europea dei medicinali, ndr) e che noi abbiamo visto in Aifa».
Ema trasmise davvero queste informazioni ad Aifa? La lettera inviata dall'Agenzia europea dei medicinali poche settimane fa all'eurodeputato olandese Marcel De Graaff dice esattamente il contrario di quanto affermato da Palù.
Lo scorso 4 ottobre De Graaff, insieme con altri deputati europei (Gilbert Collard, Francesca Donato, Joachim Kuhs, Mislav Kolakusìc, Virginie Joron, Ivan Vilibor Sincic e Bernhard Zimniok) invia una lunga lettera a Ema chiedendo l'immediata sospensione delle autorizzazioni dei vaccini Comirnaty (Pjizer, ndr) e Spikevax (Moderna, ndr), concesse in tutta fretta a fine 2020. Ema risponde alla lettera di De Graaff il 18 ottobre, dandogli sostanzialmente ragione proprio sull'inefficacia rispetto al contagio: «Lei afferma», scrive Ema a De Graaff, «che i vaccini avrebbero dovuto essere somministrati solo a chi necessitava di protezione personale, perché non sono autorizzati per ridurre il rischio d'infezione. Lei afferma inoltre che l'autorizzazione concessa non è in linea con gli usi promossi dalle aziende farmaceutiche, dai politici e dagli operatori sanitari».
In effetti, come dimenticare i moniti, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella a Papa Francesco, a vaccinarsi «per proteggere gli altri»? « Vaccinate i bambini per proteggere i nonni», giunsero a dire politici e giornalisti, alcuni auspicando perfino l'eliminazione fisica di chi si fosse sottratto all'inoculazione. Il clima di caccia alle streghe culminò con l'approvazione del Dl 52 del 22 aprile 2021 che istituì il green pass. Sulla base di quali informazioni scientifiche Mario Draghi ha potuto impunemente affermare che «se non ti vaccini, ti ammali e muori» e imporre il certificato verde, senza il quale molti lavoratori hanno perso il posto di lavoro? E ancora, quali informazioni scientifiche sono state fornite alla Corte Costituzionale, che ancora a fine 2022 ha potuto mettere nero su bianco che «alla luce delle risultanze scientifiche disponibili» (quando fu introdotto l'obbligo di vaccinazione per i sanitari, ndr), l'imposizione del vaccino era l'unica possibilità di proteggere i malati in contatto con i medici? Ema non lo aveva scritto: «Lei ha ragione a sottolineare che i vaccini contro il Covid-19 non sono stati autorizzati per prevenire la trasmissione», ha confermato l'Agenzia a De Graaff, «le informazioni sul prodotto affermano chiaramente che i vaccini servono "per l'immunizzazione attiva per prevenire il Covid-19”, e i rapporti Ema rilevano la mancanza di dati sulla trasmissibilità», Non sono mai esistiti, dunque, i dati di cui ha parlato Palù e sui quali le massime istituzioni italiane, dal premier Draghi al ministro della Salute Roberto Speranza, hanno imposto restrizioni gravissime della libertà dei cittadini. Nell'assessment report sul vaccino Comirnaty pubblicato da Ema il 21 dicembre 2020 - ben prima dell'istituzione del green pass - l'Agenzia scrive chiaramente che «al momento non sappiamo se il vaccino protegge dall'infezione asintomatica, né conosciamo il suo impatto sulla trasmissione virale. L'efficacia del vaccino nella prevenzione della diffusione e della trasmissione del Sars Cov-2 potrà essere valutata soltanto dopo l'autorizzazione attraverso studi epidemiologici o clinici». Noi de La Verità lo diciamo da oltre due anni, ma la lettera conferma che anche la massima autorità sanitaria europea sapeva fin dall'inizio che il vaccino non impediva l'infezione.
«Da parte di Ema c'è stata una gravissima mancanza di responsabilità riguardo la salute della popolazione e la violazione dei diritti fondamentali» dichiara De Graaf a La Verità, «ma peggio ancora hanno fatto i governi: conoscevano i dati Ema e nonostante ciò hanno fatto incredibili pressioni per l'uso off-label del vaccino. Hanno mentito e persino violato i diritti dei cittadini: è uno scandalo enorme, e la maggior parte dei deputati al Parlamento europeo sono complici in quanto membri dei partiti che governano l'Ue, che sono invischiati fino al collo in questo scandalo».
Qualcuno obietterà che comunque il vaccino andava fatto per evitare il ricovero in ospedale. «Confermando che anche i vaccinati contraggono l'infezione, è un non argomento», replica De Graaff. Inoltre, «se il vaccino era, come Ema ammette, una forma di "prevenzione personale", com'è stata possibile la vaccinazione di massa su miliardi di persone, inoculate senza che un solo medico facesse una valutazione individuale sul loro stato di salute? È stata creata una cortina fumogena sulla pericolosità di questi vaccini. Il mio partito chiederà conto al governo olandese di queste nuove informazioni rilasciate da Ema: questo è ciò che posso fare come politico, ma altri, con cui collaboro, potranno portare queste evidenze in tribunale».
I governi Ue sono avvisati.
(La Verità, 22 novembre 2023)
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Su tutto il modo in cui le autorità del nostro paese hanno gestito per due anni la questione pandemica «... la menzogna è stata la cifra predominante della comunicazione istituzionale». L'aspetto preoccupante è la quantità di persone che non ha saputo riconoscerla e si è piegata senza obiezioni alla menzogna della narrazione ufficiale. Questo fa temere che la cosa possa ripetersi per altri argomenti. M.C.
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Incontro su Israele a Torino - 3 dicembre 2023
«Israele ha ragione! MA...
Per un disguido tra organizzatore e oratore, il titolo dell'incontro appare in una forma che può prestarsi ad equivoci. Se per motivi tecnici quel MA non ha potuto essere tolto dagli avvisi in cui è comparso su altre piattaforme, questo può essere fatto graficamente
qui
e sarà fatto oralmente nella trattazione del tema. M.C.
(Chiamata di Mezzanotte, novembre 2023)
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Spade di ferro - giorno 46. La legge internazionale e le trattative con Hamas
di Ugo Volli
• Pirateria nel Mar Rosso
Gli Houthi, gruppo terrorista yemenita sostenuto e armato dall’Iran, in guerra col governo legittimo del loro paese e con l’Arabia che lo appoggia, hanno sequestrato nel Mar Rosso una nave mercantile di nome 'Galaxy Leader' e hanno pubblicato abbondanti foto e video di questa operazione, proclamandosi orgogliosi di aver dirottato una nave che dicono "israeliana", dato che dicono di aver dichiarato guerra a Israele per appoggiare Hamas, tentando anche di bombardare città civili israeliane come Eilat. Peccato che la nave fosse di proprietà di una società inglese, registrata alle Barbados, in navigazione verso il Giappone, priva di carico, con un equipaggio internazionale in cui non figuravano marittimi israeliani. Insomma un atto di pirateria marittima auto-denunciato in pompa magna e del tutto inutile, anche dal punto di vista dei fuorilegge che l’hanno realizzato. La pirateria è forse il più antico reato condannato dalla legge internazionale. Sembrava estinto da un paio di secoli, grazie all’azione concorde delle marine militari di mezzo mondo, poi è stato rimesso in uso dall’Iran nel Golfo Persico, dai fuorilegge somali e ora dagli Houthi nel Mar Rosso. Colpisce l’assenza di reazioni da parte del mondo civile che si proclama difensore della legalità internazionale, anche perché il Mar Rosso e lo stretto di Bab el Mendeb su cui si affaccia lo Yemen, sono la fondamentale via commerciale che collega, passando per il Canale di Suez ed eventualmente Gibilterra, tutta l’Europa inclusa Gran Bretagna e Germania ed anche gli Stati Uniti orientali all’Estremo Oriente (Russia e Cina) e alle fonti petrolifere del Golfo Persico. Se a Sud di Suez si stabilisse un regime costante di pirateria i rifornimenti industriali, alimentari ed energetici di mezzo mondo sarebbero a rischio. Questo episodio mostra anche il pericolo di mantenere dei territori in mano ad attori non statali. Gli Houthi come Hamas fanno le vittime, cercano di farsi tutelare dalla legge internazionale quando fa loro comodo, ma la violano continuamente in maniera crudele e sistematica: sono pirati, assassini di massa, violentatori; sparano sulla popolazione civile dei paesi che considerano nemici, rapiscono, riducono in schiavitù. Ma la tanto lodata “comunità internazionale”, le commissioni dell’Onu, le Ong che dicono di proteggere i diritti umani non fanno nulla per fermarli e se qualcuno interviene con la forza, come sta facendo Israele strillano e protestano. O addirittura sostengono, come ha fatto qualcuno, che contro gli attori non statali non vi sarebbe diritto degli stati all’autodifesa.
• La fuga dei leader di Hamas
L’operazione di pulizia di Gaza è intanto entrata in una fase decisiva. Dopo aver ormai conquistata la parte settentrionale e buona parte di quella centrale della Striscia, le truppe israeliane procedono sistematicamente a eliminare le istallazioni militari del terrorismo e in particolare i tunnel. È un lavoro lunghissimo, perché quasi ogni palazzo nasconde un deposito d’armi, un appostamento per la battaglia, soprattutto una botola che porta ai pozzi di collegamento con le gallerie. Ed è anche un impegno molto pericoloso, perché dappertutto potrebbero esserci nemici appostati, bombe nascoste poste a esplodere, trappole. Ogni giorno in queste operazioni qualche soldato cade e molti sono feriti. Sono soprattutto gli ospedali a essere oggetto di queste difficili esplorazioni, perché lì sotto sono state scavate le istallazioni più importanti del terrorismo e si trovano anche tracce degli ostaggi. Ci sono informazioni fondate per cui i capi di Hamas (quelli che stanno a Gaza, non gli altri che danno ordini da comodi alberghi in Qatar), in particolare il leader politico Yahia Sinwar e quello militare Mohammed Deif avrebbero usato le gallerie per fuggire da sotto l’ospedale di Shifa, dove si nascondevano e ora sarebbero nella parte meridionale della Striscia, insieme a buona parte delle loro forze rimanenti, che sono ancora consistenti. Il loro progetto potrebbe essere di resistere a oltranza, ma più probabilmente di rifugiarsi in Egitto, usando i tunnel transfrontalieri una volta allestiti per il contrabbando e poi per lo più distrutti dalle autorità egiziane, ma ancora in parte esistenti. Lo farebbero seguendo la classica regola della guerra asimmetrica, codificata da Mao, che spiega la loro strategia: "Se il nemico avanza, ritirati; se il nemico si ferma, disturbalo; se il nemico è stanco, attaccalo; se il nemico si ritira, inseguilo". Per riuscirci hanno però bisogno di bloccare l’azione israeliana.
• Le trattative
Per questa ragione sono riprese le trattative: Hamas offre la liberazione di alcuni ostaggi (a quanto pare una cinquantina di donne e bambini) in cambio del rilascio di un certo numero di terroristi e soprattutto di un cessate il fuoco di alcuni giorni (si discute fra i tre e i cinque). I terroristi pretendono anche che Israele sospenda durante questo periodo i rilevamenti visivi degli aerei e dei droni, col pretesto che in questo modo il rilascio degli ostaggi sarebbe più sicuro, ma in realtà è per nascondere i propri movimenti. Ci sono forti ragioni per spingere Israele alla trattativa, che continua da tempo con interruzioni, bluff, ricatti. La prima è naturalmente la richiesta sempre più forte delle famiglie dei rapiti, che sperano di rivedere i loro cari - ma sarebbero solo una minoranza dei 240 sequestrati. La seconda è la pressione della comunità internazionale e in particolare degli Stati Uniti. Ma bisogna essere chiari. La tregua con la liberazione di alcuni ostaggi sarebbe una vittoria per Hamas; per Israele costituirebbe, se non proprio una sconfitta, un prezzo ulteriore da pagare ai terroristi in seguito del pogrom del 7 ottobre. Gli ostaggi sono stati sequestrati proprio per essere scambiati, per diventare moneta di scambio ed eventualmente scudi umani, come è sempre accaduto coi terroristi dai tempi di Gilad Shalit e anche prima. La scarcerazione dei detenuti aumenterebbe la popolarità di Hamas. L’interruzione dell’offensiva darebbe ai terroristi il tempo di riorganizzarsi per combattere o fuggire, la vita dei soldati sarebbe più a rischio, vi sarebbe subito un’ulteriore pressione per allungare la tregua, insomma rischierebbe di sfuggire lo scopo di questa guerra, l’eliminazione dei gruppi terroristi da Gaza. E questa sarebbe un trionfo per costoro, secondo le regole della guerra asimmetrica, dove basta all’attaccante riuscire a sopravvivere per avere vinto la battaglia. Per questo il primo ministro Netanyahu e il ministro della difesa Gallant, a quel che si dice, cercano di resistere alle richieste della vecchia opposizione di sinistra, che è ricomparsa in piazza in Israele e anche di parti dell’apparato militare. Ma non è detto che ci riescano a lungo.
(Shalom, 21 novembre 2023)
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Riprese di una videocamera mostrano un agricoltore che salva 120 persone il 7 ottobre
Oz Davidian, membro di un moshav locale, si è ripetutamente recato sul luogo dell'attacco per salvare i sopravvissuti.
di David Isaac
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Le corse di Oz Davidian verso il Nature Party, documentate da Channel 13. |
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Oz Davidian, un agricoltore del sud di Israele, ha salvato 120 giovani del festival musicale Supernova, il festival della natura che i terroristi di Hamas hanno invaso con sanguinaria ferocia il 7 ottobre, uccidendo circa 350 frequentatori disarmati del festival.
Il filmato della sua jeep ha ripreso ogni momento dei circa 20 viaggi che ha compiuto dal luogo del festival all'aperto fino al suo moshav Maslul e a un'altra comunità, il moshav Patish, per salvare i sopravvissuti e portarli in salvo.
Il filmato è stato diffuso da Channel 13 martedì scorso.
Davidian racconta che una giovane donna che aveva raccolto nella sua jeep gli chiese: "Dimmi, chi sei?". Lui rispose: "Sono solo un moshavnik che è venuto a liberarti".
"No, no, non può essere", disse lei, "Che persona speciale sei? Qualcuno dello Shin Bet?".
Quando lui le chiede perché lo dice, lei risponde: "Guardi, non c'è nessuno qui. Siamo bloccati qui da ore. Non c'è nessuno. Non può essere che non ci sia nessuno e che tu sia l'unico a venire".
Il tema delle vittime abbandonate a se stesse e dell'assenza dell'IDF e delle altre forze di sicurezza è un filo conduttore di tutte le storie di salvataggio e sopravvivenza di quel giorno.
"È difficile continuare a vederlo. Sono rimasti lì per ore. Ha salvato molte persone. “Ma non ci sono [forze di sicurezza", ha commentato il presentatore di Channel 13 dopo il servizio.
Secondo il servizio, Hamas ha controllato per sei ore la strada 232 e l'area rurale dove si stava svolgendo il festival musicale.
Yossi Eli, il giornalista di Canale 13 che ha realizzato il reportage, ha scritto su X, in precedenza Twitter: "Quello che posso dire dal filmato è che... anche quando la telecamera ha mostrato l'ora 12:30 - sei ore (!) - dopo l'invasione di Hamas, i maledetti terroristi erano da soli nella regione del Kibbutz Re'im e hanno fatto quello che volevano: Hanno violentato e ucciso donne (vi risparmio le immagini), saccheggiato i corpi dei soldati e nessuno li ha disturbati".
La videocamera dell'agricoltore lo riprende mentre guida accanto ad auto bruciate, cadaveri e terroristi. Davidian descrive come una volta abbia visto due uomini vicino al cadavere di un soldato. All'inizio ha pensato che fossero soldati israeliani, ma poi ha capito che potevano essere terroristi. Si ferma e chiede in arabo se il soldato è morto. Un terrorista risponde affermativamente.
"In quel momento abbiamo capito entrambi. Io ho capito che lui è un terrorista e lui ha capito che io sono ebreo", dice Davidian, accelera e parte. La telecamera di retromarcia della Jeep mostra i terroristi che si alzano e si girano verso il veicolo.
"Mentre fuggiamo, si sente che ci sparano addosso. Miracolosamente, i proiettili non hanno colpito l'auto", racconta Davidian.
Ha visto un terrorista violentare una donna mentre i suoi compagni stavano a guardare e sparavano. "Vedono come il loro amico violenta. Lo sorvegliano e continuano a sparare".
Si vedono mucchi di corpi, uno sopra l'altro...". Sembra che li abbiano massacrati e che siano caduti l'uno sull'altro in una pioggia di proiettili".
Vede i volti dei morti e si rattrista di non poter portare via i corpi da lì. "Perché ci sono feriti e sopravvissuti che si stanno ancora nascondendo, e i terroristi che continuano a sparare su di loro", dice.
Mentre lui svolgeva la sua missione di salvataggio autoimposta, la moglie e le quattro figlie si sono nascoste in una stanza sicura della loro casa.
"Sono preoccupate. Ci sono terroristi in tutto il quartiere. Sparano in tutte le direzioni. È inimmaginabile questa malvagità. Sparano a tutto ciò che si muove".
Davidian dice di essere stato aiutato dal fatto che conosceva la zona e sapeva "dove si trovavano tutte le fosse", in modo da poter guidare a tutta velocità. Ogni volta che si recava nell'area del Nature Party, prendeva una strada diversa.
Durante uno dei suoi viaggi, una delle sue figlie, Uriah, lo chiama. Le dice che al momento non può parlare perché sta "salvando le persone dalla festa e dal caos".
In un'intervista successiva, Uriah dice al giornalista, mentre abbraccia il padre: "È sempre stato il mio eroe".
Dal terribile attacco del primo sabato di ottobre, noto in Israele come "Black Sabbath", continuano a venire alla luce atti di coraggio.
All'inizio di questa settimana, un video del massacro del 7 ottobre ha mostrato l'ultimo atto eroico di un soldato fuori servizio, Aner Elyakim Shapiro, che ha protetto un rifugio pubblico affollato gettando via le granate di Hamas lanciate dai terroristi.
Il video, ripreso dalla videocamera di un'auto vicina e postato su Telegram dal gruppo South First Responders, mostra Shapiro che riesce a lanciare sette granate prima che l'ottava lo ferisca mortalmente.
Il rifugio era pieno di visitatori del festival musicale che avevano cercato protezione dal lancio di razzi della mattina dalla Striscia di Gaza.
(Israel Heute, 21 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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I 47 minuti di odio scientifico di Hamas
Il 7 ottobre è un giorno infinito, in cui i terroristi hanno agito con metodo e vogliono ripeterlo. Lo strazio delle vittime e la goduria dei carnefici.
di Micol Flammini
Il 6 ottobre non tornerà più. I 47 minuti cuciti insieme dall’esercito israeliano mostrano le scene di una caccia: i terroristi di Hamas entrano nello stato ebraico mentre i suoi cittadini sono ancora in dormiveglia. Si aggirano per i kibbutz che si trovano vicini alla Striscia di Gaza e corrono tra una casa e l’altra, vanno a caccia di civili, di persone disarmate, di famiglie al risveglio, inermi e fragili. Lo siamo tutti nelle prime ore del giorno, quando ancora non abbiamo cancellato il sonno dagli occhi, lo siamo ancora di più di fronte a gruppi di uomini armati che desiderano cagionare il dolore più profondo possibile. Non sono stati gli israeliani di Be’eri o di Kfar Aza ad andare incontro ai terroristi, sono stati i terroristi ad andarli a cercare, a cacciarli, mentre erano nelle loro case, sui divani, a caricare la lavatrice, con l’intenzione di sovvertire e cancellare la loro quotidianità. Tutte le immagini che ha raccolto l’esercito vengono dai cellulari dei miliziani di Hamas. Dalle telecamere che i miliziani avevano attaccate all’uniforme, oppure dalle telecamere a circuito chiuso nelle case degli israeliani o dai telefoni dei primi soccorritori. I video e le foto mostrano lo strazio delle vittime e la goduria dei carnefici. In 47 minuti la violenza si ripete, è ossessiva, è continua, non si ferma mai, sembra durare in eterno. Soprattutto è metodica, i terroristi sono entrati in Israele per fare esattamente quello che hanno fatto: uccidere, violentare, rapire, umiliare. Si beano di ogni gesto, entrano silenziosi nei kibbutz assonnati e rovinano tutto quello che incontrano, lo fanno in modo scientifico, seguendo le indicazioni precise dei loro comandanti. Uno degli ordini è: fate video e foto – si sente dire in una telefonata tra un capo di Hamas rimasto nella Striscia e uno dei miliziani presenti all’attacco – riprendete tutto mentre “giocate”. Sorridono come se quello che da Gaza hanno chiamato gioco sia qualcosa che li sta divertendo in modo atroce, obbligano le vittime a posare per delle foto, si accaniscono sui cadaveri, sulle vite martoriate e ormai finite in un giorno che Israele non dimenticherà mai. Giocano mentre con una vanga cercano di staccare la testa a un civile steso a terra; giocano mentre lanciano le granate in un rifugio in cui si sono rintanati un padre con due figli; giocano mentre entrano in una casa con due bambini spaventati che hanno appena perso un genitore e chiedono dell’acqua. In alcune immagini si sente un telefono che continua suonare, sono suonerie imperterrite e laceranti: dall’altro capo del telefono c’è chi ha saputo e cerca un segnale di vita che non arriva, aspetta di sentire una voce che non si sente, non sa cosa stia accadendo, sa soltanto che in Israele è accaduto qualcosa senza precedenti, che dei terroristi alle sei e trenta del mattino hanno varcato il confine per uccidere più ebrei possibile. Nei filmati i miliziani corrono per i kibbutz e si incitano l’un l’altro: ammazza, ammazza, ammazza. Chiamano nella Striscia e si sentono dire: uccidi, uccidi, uccidi. Appiccano il fuoco a case e macchine ed esultano: brucia, brucia, brucia. Corrono, sparano, picchiano e stuprano, non concedono tregue a nessuno.
Il 7 ottobre è un giorno che in Israele non è ancora finito, va avanti inflessibile, con gli archeologi che nei kibbutz colpiti cercano resti, non corpi, ma resti umani che raccontino la storia degli scomparsi. La lista degli ostaggi spesso si contrae di giorno in giorno e chi è vivo, chi è rimasto, chi può raccontare non sa cosa augurare a quei nomi che mancano all’appello. I video mostrano anche i miliziani caricare gli ostaggi a bordo di pick up, li ammassano, li buttano uno sull’altro, con particolare spregio per le donne e per i loro corpi, alcuni già abusati. Poi mostrano l’arrivo di alcuni prigionieri a Gaza, esibiti come trofei, come corna di cervo, portati in trionfo e offerti alla folla.
Non ci sarà più un 6 ottobre, Israele è cambiata per sempre e vive nella paura che invece un 7 ottobre possa ripresentarsi all’infinito, Hamas non ne ha fatto mistero, vuole rivederlo, vuole ripeterlo. Quel sabato mattina per lo stato ebraico non è mai finito.
Il Foglio, 21 novembre 2023)
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Sondaggio choc: il 46% degli studenti italiani equipara Israele ai nazisti
di Nathan Greppi
Per il 46,3%, pensano che il governo israeliano si comporti con i palestinesi come i nazisti si comportarono con gli ebrei; e tale percentuale sale al 59,7% per chi si colloca molto a sinistra e al 47,4% tra chi si colloca molto a destra (scendendo invece tra quelli di centrosinistra e centrodestra, rispettivamente al 45,5% e al 41,7%). Questo è solo uno dei risultati di un sondaggio condotto dall’Istituto Carlo Cattaneo, in merito a cosa pensano degli ebrei e di Israele gli studenti universitari del Nord Italia.
• Posizioni politiche
Nello specifico, il sondaggio è stato condotto dal 29 settembre al 31 ottobre, prendendo come campione 2.579 studenti iscritti a tre atenei: l’Università di Milano Bicocca, l’Università di Padova e l’Università di Bologna. I pregiudizi che riguardano Israele al momento sono quelli più diffusi: il 30,6% degli studenti pensa che gli ebrei approfittino dello sterminio nazista per giustificare le politiche d’Israele, e il 29,6% che gli ebrei si siano trasformati da vittime ad aggressori.
In generale, sulla base dell’orientamento politico, si possono dividere i vari pregiudizi e stereotipi in due macrogruppi: nel primo, l’odio verso Israele sembra aumentare all’estrema sinistra e all’estrema destra, mentre diminuisce andando verso il centro. Nel secondo, le accuse agli ebrei di “doppia lealtà” e le teorie complottiste sono più diffuse a destra: l’idea che gli ebrei siano più fedeli a Israele che al loro paese è condivisa dal 29,8% del totale, ma sale al 48,2% tra gli elettori di destra e al 34,3% nel centrodestra, e l’idea che gli ebrei non siano italiani fino in fondo sale dal 13,8% del totale al 38,1% a destra.
Anche per le teorie complottiste si verifica una parabola simile: l’idea che gli ebrei manipolino a proprio vantaggio la finanza globale è condivisa dal 16,9% degli studenti, ma sale al 35% tra quelli di destra; allo stesso modo, sale dal 14,1% al 26,4% l’idea che gli ebrei controllino i mezzi di comunicazione.
Nel sondaggio vengono però sottolineati anche dati positivi, soprattutto per quanto riguarda il contributo intellettuale e scientifico degli ebrei alla società: l’81% pensa che la scienza moderna non sarebbe quella che è senza il contributo degli scienziati ebrei, e il 62,6% che la cultura occidentale sia debitrice nei confronti della cultura ebraica.
Infine, emerge una correlazione tra un voto basso alla maturità e un leggero aumento del pregiudizio antisemita: dal 16,9%, la percentuale di chi pensa che gli ebrei tendano i fili della finanza globale aumenta al 20% tra coloro che hanno preso un voto che va da 60 a 79 alla maturità, mentre scende al 15,8% tra chi ha preso da 80 a 89 e al 14,4% tra chi ha preso da 90 a 100.
• Cambiamenti dal 7 ottobre
Il sondaggio analizza inoltre come siano cambiate queste posizioni nel corso del mese di ottobre: se prima del 7 ottobre quelli convinti che il governo israeliano si comportassero come i nazisti erano il 42%, nel periodo dal 17 al 31 ottobre erano saliti al 50%. Mentre quelli che dicono che gli ebrei siano passati da vittime ad aggressori, nello stesso arco di tempo sono passati dal 27,3% al 32,9%.
Come riportano i ricercatori che hanno scritto i risultati del sondaggio, è “l’affermazione che paragona il comportamento di Israele a quello della Germania nazista a mostrarsi maggiormente sensibile agli eventi e alla loro sequenza. La quota di chi concorda con questa similitudine cresce nei giorni immediatamente successivi alla strage terroristica, molto prima della risposta del governo israeliano. È una reazione a quell’evento, non agli eventi successivi”.
Se per Israele l’ostilità è aumentata, nel caso dei pregiudizi complottisti e dell’antisemitismo puro la realtà si fa più sfumata: quelli convinti che gli ebrei muovano la finanza globale erano il 20,3% prima del 7 ottobre, ma sono scesi al 13% dall’8 al 16 ottobre, per poi risalire al 16,3% nelle due settimane successive.
(Bet Magazine Mosaico, 21 novembre 2023)
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ISRAELE – Chi rispetta la vita vince
di Edna Angelica Calò Livne
Ci prepariamo a raggiungere la mensa comune e a cenare insieme ai 40 haverim [amici, ndr] che sono rimasti a Sasa per proteggere il kibbutz, cogliere le mele e lavorare nella fabbrica della difesa. Da fuori, attraverso i vetri, vediamo che solo la metà del Hadar HaHochel (la nostra mensa) è accesa e quasi tutti i tavoli sono vuoti. Appena entrati, però, un gorgoglio allegro e diamantino di bambini ci avvolge di sorpresa. Un brivido percorre il corpo: “Bambini a Sasa?” Una gioia immensa ci pervade: Nerià è venuta insieme ai suoi quattro bambini a trovare Natav suo marito, che è arruolato nel gruppo di protezione del kibbutz dal terribile 7 ottobre. È venuta solo per qualche ora. Siamo già al 43esimo giorno di guerra e da allora il kibbutz è stato evacuato. La voce dei quattro ragazzini che si rincorrono tra i tavoli e la gente divertita mi riempie di un’emozione incontenibile, di nostalgia e di vigore. Mi salgono le lacrime agli occhi e mi aggrego all’allegria con un grande abbraccio a ognuno dei piccoli. I bambini del kibbutz sono i figli di tutti noi, come i soldati d’Israele sono i figli di noi tutti, come le 240 anime rapite da Hamas sono figli e figlie di tutto il popolo d’Israele. Mangiamo poi torniamo a casa lungo le strade buie e deserte del kibbutz: buie perché è meglio che lì di fronte, da Marjajun o da Rmesh in Libano, a un chilometro e mezzo di distanza da noi, non ci vedano. Camminiamo in silenzio e penso al momento in cui tutto questo finirà e torneranno la luce, le grida allegre, la musica, il suono dei trattori e delle campanelle della scuola e del liceo. E penso al kibbutz Be’eri, a Nir Oz e Kfar Aza, preziose roccaforti di costruttori di pace, di sentinelle sui confini, di agricoltori, distrutte e ridotte a un cumulo di rovine, dove le grida di tanti bambini innocenti non si sentono più.
Ma anche stavolta non gliela daremo vinta: sarà più impegnativo di sempre ma riusciremo a scacciare l’oscurità con i mezzi più sofisticati che abbiamo elaborato nel corso dei secoli: resilienza, rispetto e amore per la vita, e determinazione!
(moked, 20 novembre 2023)
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Gli araldi della giudeofobia
di Davide Cavaliere
L’attacco terroristico di Hamas contro Israele e la guerra che ne è seguita, sia sul terreno che nei media, costituiscono uno spartiacque nella storia dell’Occidente. Alcuni dei problemi maggiormente gravi e profondi delle nostre società sono diventati più evidenti che mai. Benjamin Kerstein scrive di un «Asse dell’antisemitismo» emerso con prepotenza in questo mese. Questo nuovo Asse è composto, in gran parte, da musulmani radicali e da un notevole numero di progressisti, divenuti, per via del loro antisionismo rabbioso, dei veri e propri «neonazisti di Sinistra».
Sono finiti i giorni in cui personalità di Sinistra del calibro di Jean-Paul Sartre o Pier Paolo Pasolini possedevano la decenza e la coerenza intellettuale per riconoscere che gli ideali da loro professati implicavano la solidarietà con Israele. Ora, se qualcuno, a Sinistra, fosse solidale con Israele e gli ebrei verrebbe bollato come «fascista», «razzista» o, cosa ancor più ridicola, di «estrema destra».
Questa nuova guerra ha fatto emergere tutto l’antisemitismo che ancora cova in seno nostre società. I mass media, dominati dal «comunismo del XXI secolo», ossia l’ideologia «multiculturale» e post-identitaria, hanno una responsabilità enorme nell’ascesa della nuova giudeofobia.
Forse, l’esempio più lampante del pregiudizio anti-israeliano dei media, lo si può riscontrare nella copertura giornalista relativa alla famigerata esplosione nei pressi di un ospedale di Gaza. Giornali e televisioni hanno acriticamente diffuso una «menzogna del sangue», come l’ha definita Jonathan Greenblatt. Israele è stato immediatamente incolpato, prima ancora che fosse possibile accertare la sua responsabilità.
Viviamo in un Paese dove alcune pubblicazioni mainstream sostengono implicitamente il terrorismo. È arrivato il momento di chiederselo: fino a che punto, i «media di Sinistra» possono essere perdonati per i loro peccati intellettuali?
Invece di riconoscere che la violenza è causata dai seguaci di un’ideologia tanatofila e genocida, i nostri chiacchieroni «colti» danno per scontato che il vero colpevole sia Israele, oppure gli Stati Uniti. «Poiché ci odiano, devono avere ragione», ha scherzato una volta Pascal Bruckner, ma è proprio questo il retropensiero che guida tali individui. Molti occidentali incolpano sé stessi, ma più spesso Israele, per quanto di male avviene in Medio Oriente, quando dovrebbero prendersela con l’unico e autentico colpevole: l’ideologia islamista.
Degno di nota è anche lo spettacolo di alcuni ebrei, anche se in minoranza, che si schierano con i loro stessi assassini e contro lo Stato di Israele. Si tratta, perlopiù, di ebrei contigui agli ambienti della Sinistra accademica o «culturale», che desiderano essere accettati dai loro compagni di strada.
Insomma, ampie fazioni politiche in Europa e Nord America sono determinate ad arrendersi a coloro che cercano di distruggere la civiltà liberale. Gli islamisti, ovvero Hamas e Hezbollah, ma soprattutto il regime iraniano, sono decisi a sterminare gli ebrei. Gli jihadisti non fanno differenza tra ebrei «buoni» (antisionisti) o «cattivi» (sionisti). Alla fine, se non sei musulmano, o non sei un tipo specifico di musulmano, il loro obiettivo è ucciderti o almeno renderti un cittadino di seconda classe in uno stato di autentica «apartheid» religiosa.
Nelle parole di Yoni Asher, marito e padre di tre ostaggi rapiti da Hamas, questa non è, semplicemente, una «guerra israeliana». I volenterosi carnefici di Allah «stanno bussando alla tua porta. L’Occidente non è il prossimo, l’Occidente è adesso».
Il programma della Rivoluzione Islamica non mira a spazzare via solo Israele, ma tutta la civiltà occidentale di cui lo Stato ebraico è parte. Il paragone tra islamismo e comunismo è calzante. Per entrambi l’obiettivo è la rivoluzione mondiale. Le azioni ostili di Teheran, come quelle dell’Unione Sovietica, non sono il risultato di una qualche «provocazione», bensì il portato di un’ideologia messianica a vocazione globale.
Resistere ai terroristi e alle operazioni di propaganda dei loro simpatizzanti è vitale in questo frangente storico. Alcuni fatti indicano, seppure in modo vago e incerto, che la storia potrebbe non essere dalla parte dei fondamentalisti islamici. L’India è in crescita, il popolo iraniano è sempre più risentito nei confronti dei suoi governanti, gli Accordi di Abramo hanno rappresentato un passo senza precedenti verso la riconciliazione in Medio Oriente e l’alto tasso di natalità dello Stato d’Israele l’aveva avviato, prima di questa guerra, su un percorso di crescente influenza nella regione.
Un certo ottimismo può quindi essere giustificato. Tali barlumi di speranza, tuttavia, non provengono dalle nostre élite impotenti, dai volti noti dei media e dai rettori delle università, ma dalle persone comuni che ancora non si sono smarrite nei meandri delle ideologie del risentimento, i cui assiomi conducono, inevitabilmente, alla complicità morale con il genocidio e l’antisemitismo.
L’insidiosa alleanza tra Sinistra e islamisti comporta l’esportazione del terrorismo in tutto il mondo. Non possiamo né dobbiamo accettare quel futuro.
(L'informale, 21 novembre 2023)
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Spade di ferro - giorno 45. Il lager di Shifa e il negazionismo dell’autorità Palestinese
di Ugo Volli
• Gli ospedali di Gaza, centri di comando e di combattimento
Che Hamas, da quando è al potere (oltre quindici anni), avesse investito energie e somme immense per trasformare gli ospedali di Gaza in scudi di protezione per i suoi centri logistici e di comando, per le sue caserme, i suoi magazzini di armi e le sue carceri, scavando gallerie e intere fortificazioni sotterranee sotto le loro cantine, si sapeva da sempre. E infatti le battaglie più dure nell’operazione di Gaza si sono svolte e continuano ad aver luogo intorno a questi ospedali, una ventina in tutta la Striscia, e in particolare intorno all’ospedale principale della Città di Gaza, Al Shifa. Non certo per accanimento di Israele contro medici e malati, che anzi sono stati più volte soccorsi ed aiutati a evacuare le istallazioni, ma proprio perché la liquidazione della struttura di comando e di combattimento dei terroristi si può fare solamente penetrando in questi sotterranei, conquistandoli e distruggendoli.
• Gli orrori di Shifa
Ma c’è qualcosa di nuovo che è emerso negli ultimi giorni, quando le truppe israeliane sono riuscite a penetrare a Shifa, almeno alla sua parte di superficie. Si sono cioè trovate le prove che l’ospedale è stato anche il luogo in cui sono stati trasportati e assassinati almeno alcuni dei rapiti del 7 ottobre. Ieri il portavoce dell’esercito ha mostrato alla stampa un certo numero di filmati tratti dalle telecamere di sorveglianza di Al Shifa, in cui si vedono ostaggi trascinati a viva forza per le sale dell’ospedale, alcuni in barella ma altri ancora in piedi e dunque vivi e non bisognosi di soccorso medico: è la prova evidente dell’uso di quello che dovrebbe essere un luogo di cura in un centro di detenzione, di tortura e di esecuzione. A queste prove video si aggiungono le armi, che sono stati ripetutamente trovate nascoste in locali dell’ospedale e accumulate nei cortili. Sono state scoperte gallerie e i pozzi che vi davano accesso. Ieri per esempio ne è stato mostrato uno profondo dieci metri che dava accesso a un tunnel che le forze israeliane hanno percorso per una cinquantina di metri, fino a una fortificazione interna munita di feritoie da sparo. Sempre nei cortili dello Shifa sono state trovate alcune automobili rubate nei villaggi israeliani il 7 ottobre, inclusa la jeep già vista in video diffusi dai terroristi, in cui era stata trascinata, denudata, esibita e linciata una ragazza tedesca presa alla festa dove i terroristi hanno assassinato 350 ragazzi. In locali annessi all’ospedale sono state trovate anche delle salme di persone rapire durante l’incursione, come la soldatessa Noa Marciano di cui Hamas ha pubblicato il video di un interrogatorio, prima di ucciderla. Ci sono state anche testimonianze di medici stranieri che avevano fatto volontariato nell’ospedale e che erano stati ammoniti a non superare certe porte e a non andare nei sotterranei, a pena di morte. Insomma Israele non ha solo il diritto ma il dovere di entrare nei Lager che i terroristi. hanno tratto dagli ospedali e solo gli ipocriti possono scandalizzarsene o protestare.
• La negazione della memoria
Questi ipocriti abbondano in Occidente, dove si continuano a vedere filmati di persone “perbene”, magari funzionari pubblici, di “bravi ragazzi”, magari universitari impegnati, non solo di islamisti, che con l’aria di svolgere un dovere politico stracciano i manifesti attaccati ai muri dove sono stampate le fotografie degli assassinati e dei rapiti del 7 ottobre - una pratica che dovrebbe far riflettere coloro che promettono ogni 27 gennaio la memoria. Si tratta in fondo della stessa operazione che i nazisti tentarono alla fine della Shoà e che fu prolungata per decenni dai negazionisti.
• La complicità dell’Autorità Palestinese
L’ipocrisia, o peggio la complicità regna sovrana anche dentro i gruppi palestinesi diversi da Hamas, tanto che un sondaggio recente mostra che l’84% dei sudditi dell’Autorità Palestinese approva quel che è accaduto il 7 ottobre. Forse pensando a questa grande maggioranza filoterrorista dei palestinesi, ieri le brigate di Al Aqsa, cioè il braccio militare di Fatah, che è presieduto da quello che è anche il presidente dell’Autorità Palestinese, Abu Mazen, ha rivendicato di aver consegnato ad Hamas le persone che i suoi militanti avevano rapito il 7 ottobre: una doppia ammissione da parte dei “palestinesi buoni” di Fatah: di aver partecipato alla strage e rapito civili e di collaborare con Hamas, riconoscendone il controllo sulla gestione della guerra. Ma si tratta anche di posizioni ufficiali. L’altro ieri è uscito un comunicato del ministero degli esteri dell’Autorità Palestinese particolarmente scandaloso, in cui era scritto che sono stati gli elicotteri da combattimento delle forze armate israeliane e non i terroristi a uccidere i partecipanti al festival musicale Nova e la maggior parte delle vittime nei kibbutz al confine di Gaza. Vale la pena di riportare qui la replica che il primo ministro Benjamin Netanyahu ha ritenuto necessaria fare: ”Il Ministero degli Esteri palestinese ha pubblicato un messaggio scandaloso. Ha negato che Hamas abbia compiuto il terribile massacro di Reim e ne ha attribuito la colpa a Israele. Come se non bastasse che Abu Mazen, in 44 giorni, non abbia ancora condannato il terribile massacro, ora i suoi uomini negano questo massacro e lo attribuiscono a Israele. Il negazionista dell’Olocausto Abu Mazen ora nega il massacro di Hamas. Voglio essere molto chiaro: il giorno dopo lo sradicamento di Hamas, non permetteremo a coloro che negano il terrorismo, che sostengono il terrorismo, che finanziano il terrorismo ed educano i propri figli sul terrorismo e sulla distruzione dello Stato di Israele, di governare nella Striscia di Gaza. Non lo permetteremo”.
(Shalom, 20 novembre 2023)
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Uso cinico degli ospedali: ritrovate armi e munizioni in zone protette dal diritto internazionale
di Sofia Tranchina
Complessi ospedalieri di al-Shifa, Rantisi, Al-Quds, ma anche asili nidi e scuole elementari: a lungo Israele ha accusato Hamas di usare scudi umani per proteggersi, di nascondersi e stipare munizioni nei pressi di zone protette dal diritto internazionale, costringendo l’IDF ad arretrare, lasciando i terroristi liberi di operare indisturbati, o a prendere l’amara scelta di avanzare nonostante le inevitabili vittime collaterali.
Negli ultimi giorni, però, alle accuse sono seguite numerose prove, testimonianze e dichiarazioni, rilasciate dall’IDF e dai giornalisti che hanno ottenuto i permessi di recarsi nelle zone in cui il conflitto è più caldo con la protezione dell’esercito.
Sin dal trattato di pace tra Egitto e Israele del 1979, gli arabi palestinesi si sono adoperati per costruire la metropolitana di Gaza: una fitta rete di tunnel, inizialmente utilizzata per il contrabbando con l’Egitto di beni quali pesce e gas, poi di armi e droga, diventata dal 2007 «fonte vitale delle entrate di Hamas» (NatGeo), e infine utilizzata come sede centrale delle operazioni militari contro Israele.
Tunnel che diventarono fulcro del conflitto israelo-palestinese già nel giugno del 2006, quando un gruppo di terroristi palestinesi sbucò da sottoterra in territorio israeliano e rapì Gilat Shalit (soldato all’epoca diciannovenne), per la liberazione del quale, dopo 5 anni e 3 mesi di prigionia, Israele fu costretta a rilasciare mille prigionieri palestinesi, tra cui Yahya Sinwar, la mente dietro al pogrom dello scorso 7 ottobre.
Un mondo sotterraneo, concavo, esteso per 500km (o almeno così ha dichiarato Hamas nel 2021), sul quale fluttua la civiltà urbana di Gaza, con i suoi 5.749 abitanti per km2: basta questo per capire la difficoltà operativa di combattere i terroristi che vi si nascondono e che ne conoscono le insidie, nonostante la tecnologia certamente più avanzata di Israele.
È la difficoltà di un Paese democratico e moderno, legato a regole morali e leggi internazionali che impongono di evitare o quantomeno limitare al minimo le vittime civili: un Paese la cui sopravvivenza, ancora a 75 anni dalla sua fondazione, è legata al consenso dell’opinione pubblica. Un consenso da cui dipende anche l’incolumità dei milioni di ebrei della diaspora, come hanno dimostrato anche i recenti attacchi antisemiti in Europa.
Ed è per questo che, nel mezzo di una guerra difensiva scatenata dal genocidio degli ebrei del 7 ottobre 2023, in risposta al quale il governo israeliano ha promesso al proprio popolo di smantellare Hamas, l’IDF si impegna a rilasciare pubblicamente prove e resoconti delle proprie operazioni: deve dimostrare di agire all’interno del diritto internazionale.
La maggior parte degli sforzi comunicativi degli ultimi giorni sono stati rivolti nel dimostrare l’uso sistematico che Hamas fa delle infrastrutture protette (ospedali, asili e scuole): «un uso cinico degli ospedali», nelle parole di venerdì del generale maggiore Yaron Finkelman, capo del Comando Meridionale dell’IDF.
Secondo il Comitato Internazionale della Croce Rossa, il diritto internazionale dà agli ospedali una protezione speciale durante la guerra, ma questi possono perdere il loro status protetto se vengono usati per scopi militari – per nascondere combattenti o ostaggi o per immagazzinare armi – purché ai civili sia dato tempo per fuggire. «Vediamo la presenza di Hamas in tutti gli ospedali» ha aggiunto Finkelman.
Tra le varie prove non protette da censura (ovvero: prove la cui diffusione non inficia la capacità dell’esercito di rintracciare terroristi o ostaggi), è stato rilasciato un video in cui il contrammiraglio dell’IDF Daniel Hagari, parlando in inglese, ci guida all’interno dell’ospedale Rantisi e dei suoi seminterrati.
Lì, la 401ª Brigata Corrazzata e l’unità Shayetet 13 hanno trovato un ingresso ai tunnel, una moto con buchi di proiettile utilizzata il 7 ottobre per rapire gli ostaggi, biberon e pannolini che lasciano intuire che alcuni dei neonati rapiti fossero detenuti lì, un foglio con i turni di guardia dei terroristi e una lugubre corda legata alla gamba di una sedia.
Il video mostra anche bagni di fortuna, cucina e tubi di ventilazione: tutto il necessario per nascondersi sotto l’ospedale per lunghi periodi.
Ma il frame più controverso è quello in cui Hagari ci mostra, in quella che pare essere una stanza pediatrica con decorazioni infantili, giubbotti con bombe suicide, granate, fucili d’assalto AK-47, e vari ordigni esplosivi
Hagari, carismatico portavoce dell’esercito che ogni sera tiene conferenze televisive con le quali ha conquistato la fiducia degli israeliani, che lo hanno reso “più popolare di Netanyahu”, ha annunciato la scoperta di un tunnel terroristico di Hamas nel complesso ospedaliero di al-Shifa.
Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha affermato che lì sarebbero stati raggiunti risultati significativi: «l’operazione continua, e viene effettuata in modo preciso e selettivo», ha detto durante una visita al centro di comando della 36ª divisione.
L’IDF ha rilasciato diversi filmati con i ritrovamenti presso il complesso al-Shifa fatti dall’Unità d’élite Shaldag, dalla 7ª Brigata e da altre unità speciali.
Nel dipartimento MRI, dietro alle apparecchiature per le risonanze magnetiche, sono stati trovati: granate, dispositivi di protezione individuale con le insegne della brigata militare di Hamas, e Kalashnikov.
Nell’ospedale sono state trovate anche altre attrezzature militari e apparecchiature di comunicazione utilizzate dall’organizzazione terroristica, mentre fuori è stato trovato un camioncino con trappole esplosive, pieno di armi e munizioni.
Come ha scritto la giornalista della BBC Lucy Williamson, la presenza della stampa «appena un giorno dopo che Israele ha preso il controllo dell’ospedale, la dice lunga sulla necessità di Israele di mostrare al mondo perché sono qui».
Trovati anche un laptop che, dice il colonnello Jonathan Cornicus, contiene foto e video di ostaggi e filmati recenti degli interrogatori dei combattenti di Hamas arrestati dalla polizia israeliana, il che proverebbe la recente presenza di terroristi presso l’ospedale.
Ma questa è solo «la punta dell’iceberg», spiega Cornicus: «Hamas sapeva che stavamo arrivando. Questo è quello che sono stati costretti a lasciarsi alle spalle. La nostra valutazione è che ci sia molto di più». L’IDF, dunque, opera con la (prudente) assunzione che ci sia molta più infrastruttura terroristica nell’area di quella finora venuta allo scoperto.
Sempre nei pressi del complesso ospedaliero l’esercito ha recuperato i corpi senza vita di due degli ostaggi rapiti da Hamas il 7 ottobre, secondo l’intelligence entrambi uccisi dai terroristi durante la prigionia: Noa Marciano e Yehudit Weiss.
Una delle ragioni per questa operazione militare, ha detto il primo ministro Netanyahu in una conferenza giovedì, era proprio l’indicazione che rivelava che alcuni degli ostaggi sarebbero stati detenuti lì.
La prova più inconfutabile della presenza di Hamas ad al-Shifa è arrivata domenica, con la pubblicazione dei filmati delle videocamere di sicurezza che mostrano militanti armati di Hamas mentre trascinano a forza due ostaggi dentro l’ospedale stesso, tra le 10.42 e le 11.01 della mattina del 7 ottobre. Si tratta di un nepalese e un thailandese la cui identificazione non è stata ancora liberata dalla censura, che sono stati presi in ostaggio in Israele durante il pogrom del sabato nero.
Altre armi sono state trovate nell’ospedale Al-Quds dalle truppe della Brigata Paracadutisti, e Hagari ha alzato l’ipotesi che l’ospedale indonesiano di Beit Lahia (costruito nel 2015 a Gaza con finanziamenti indonesiani) si trovi sopra a una rete di tunnel di Hamas e vicino a una rampa di lancio di missili, ma il ministro degli Esteri indonesiano ha negato tali dichiarazioni.
Sorprende poco infatti la foto che ritrae (leader di Hamas, secondo da sinistra) con Yousef Abu Alrish, capo del ministero della sanità (secondo da destra).
E non solo ospedali: la 551ª Brigata di riserva ha scoperto razzi di Hamas immagazzinati nel letto di una giovane ragazza in una casa nella città di Beit Hanoun; le truppe della brigata Bislamach hanno localizzato una cache di mortai all’interno di un asilo nido nel Nord della Striscia di Gaza; e l’unità di ricognizione della Brigata Golani ha trovato armi da fuoco e attrezzature militari nella scuola elementare al-Karmel a Gaza City.
(Bet Magazine Mosaico, 20 novembre 2023)
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Un cessate il fuoco con Hamas sarebbe un errore
L'unico modo per vincere è quello di inchiodare Hamas e distruggerlo.
di Daniel Greenfield
Terroristi e ribelli hanno una strategia di difesa comune. Di fronte a forze superiori, si ritirano, si fondono con la popolazione civile e aspettano che uno Stato nazionale si esaurisca e si stanchi di dar loro la caccia.
Per eliminare un gruppo terroristico, bisogna agire rapidamente, essere agili, usare l'elemento sorpresa e bloccare le uscite dei terroristi.
Dopo un inizio piuttosto lento, Israele ha dimostrato di saper gestire bene la velocità e l'agilità degli attacchi di terra. Ha aggirato le zone di morte di Hamas e ha catturato infrastrutture chiave. Il problema, tuttavia, è che Hamas non è un esercito convenzionale e la cattura del territorio e delle infrastrutture conta molto solo se non viene utilizzata per limitare la libertà di movimento dei terroristi.
E poi bisogna finirli.
Il Qatar, sponsor statale di Hamas, sta spingendo per un "accordo di cessate il fuoco" in cui alcuni ostaggi (non tutti) verrebbero scambiati per un cessate il fuoco di alcuni giorni. I sostenitori di Hamas in tutto il mondo cantano freneticamente "cessate il fuoco".
L'obiettivo è lo stesso.
Perché Hamas vuole un cessate il fuoco? Ha bisogno di tempo e spazio per sfuggire alla trappola che Israele ha speso molto tempo e sangue per costruire.
Concedere questo spazio sarebbe un disastro strategico.
La lezione dell'ospedale Al-Shifa è che tentare un attacco umanitario non funziona. Se Israele spera di liberare militarmente gli ostaggi, non può avvicinarsi al suo obiettivo lentamente, facendo ogni sorta di concessione umanitaria. Israele deve colpire in modo rapido e inaspettato. Questo è già difficile da ottenere nella guerra urbana di terra.
Hamas conta di poter aspettare la risposta di Israele. Lo ha fatto in passato. Perché non farlo di nuovo?
L'amministrazione Biden vorrebbe un accordo sugli ostaggi e non ha paura di negoziare con i terroristi. Il Qatar ne sta approfittando. E il governo israeliano è diviso al suo interno. Benny Gantz ha sottolineato che la guerra continuerà finché "i nostri figli e le nostre figlie non torneranno a casa". Questo è uno scenario di salvataggio di ostaggi. Non l'obiettivo di Netanyahu di distruggere Hamas.
E abbiamo già visto nell'ospedale di Al-Shifa che Hamas ucciderà gli ostaggi se non può usarli come leva.
L'unico modo per giustificare questa operazione è arrestare e distruggere Hamas. In caso contrario, l'operazione si trascinerà fino a quando la pressione internazionale non la farà cessare. Le forze di Hamas si ritireranno, si riorganizzeranno e riprenderanno le loro operazioni.
E questo si tradurrebbe in una situazione di stallo nella migliore delle ipotesi, se non in una vittoria molto costosa per Hamas.
(Israel Heute, 20 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Cosa vogliono i palestinesi?
Gli occidentali pensano che i palestinesi cerchino un futuro di prosperità, libertà e pace perché è quello che aspirano a preservare per se stessi. Ma non è così.
di Caroline Glick
Per più di una generazione, la sinistra israeliana e i leader occidentali hanno insistito sul fatto che i palestinesi vogliono la pace. Vogliono uno Stato tutto loro. Vogliono che Israele lasci la Striscia di Gaza, la Giudea, la Samaria e Gerusalemme. Una volta ottenute queste cose, vivranno in pace con Israele. Le amministrazioni statunitensi che si sono succedute hanno modulato il loro sostegno a Israele in base alla percezione della disponibilità del governo israeliano a fare concessioni territoriali ai palestinesi. Sono state sostenute quelle che si ritenevano disposte a cedere Giudea, Samaria, Gaza (che Israele ha abbandonato nel 2005) e Gerusalemme all'Autorità Palestinese (A.P.). Quelli che venivano percepiti come non disposti a cedere la terra all'Autorità Palestinese venivano ostracizzati, condannati e sovvertiti. Nel corso degli anni, leader politici, militari, accademici e giornalisti israeliani hanno prodotto voluminosi rapporti che denunciavano il sostegno e il coinvolgimento della A.P. nel terrorismo. Hanno prodotto dossier lunghi come un'enciclopedia, documentari e rapporti di intelligence che espongono come il suo sistema educativo indottrini i bambini fin dalla nascita ad abbracciare la causa dell'annientamento di Israele e impregni l'intera società palestinese di una visione genocida e jihadista di stampo nazista che mira alla totale eliminazione dell'ebraismo e degli ebrei dalla faccia del pianeta. Al di là di alcune mezze condanne da parte di funzionari del Dipartimento di Stato americano nel corso degli anni - e di un paio di risatine ancora meno commosse da parte di funzionari delle Nazioni Unite e dell'Unione Europea - nessuno di questi rapporti, documentari o esposti ha modificato la dedizione dell'Occidente alla cosiddetta "soluzione dei due Stati", o la tendenza degli occidentali a dare la colpa dell'assenza di pace agli israeliani "di destra" o "di estrema destra" che rifiutano concessioni territoriali a una società e a un'autorità di governo che aspirano a cancellare Israele dalla mappa. Negli ultimi 30 anni, la sinistra israeliana qualche volta ha affrontato il problema a parole. Ma per una combinazione di interessi politici, fragilità ideologica e dipendenza dagli alleati occidentali, la maggior parte della sinistra israeliana si è rifiutata di accettare le implicazioni strategiche dell'assenza di una leadership palestinese - o di una società, se è per questo - disposta a riconoscere il diritto di Israele a esistere, con o senza Giudea e Samaria, con o senza Gerusalemme. Il 7 ottobre, il sadismo e la portata del massacro di Hamas hanno sconvolto l'intera società israeliana. I dati dei sondaggi indicano che c'è stato un cambiamento di opinione tra gli israeliani di sinistra riguardo alla possibilità di una coesistenza pacifica con i palestinesi. Lo stesso non si può dire dell'Occidente. Guidati dall'amministrazione Biden, i governi occidentali hanno insistito uniformemente sul fatto che Hamas non rappresenta i palestinesi. La maggior parte dei palestinesi, compresi quelli di Gaza, vogliono semplicemente fare una pace con Israele che includa uno Stato palestinese, dicono. Dall'8 ottobre, i funzionari statunitensi - e i loro omologhi dell'Unione Europea, delle Nazioni Unite e non solo - hanno insistito quasi ogni giorno sul fatto che se Israele colpisce troppo duramente a Gaza, se nega i cosiddetti "aiuti umanitari" alla popolazione di Gaza, allora attirerà questa povera gente verso Hamas, garantendo un'altra generazione di guerra. In altre parole, secondo questo racconto, fino a quando Israele non ha lanciato il suo contrattacco a Gaza, i palestinesi si sono opposti ad Hamas e ne sono stati vittime involontarie. Ma una volta che Israele ha dispiegato le sue forze di terra a Gaza, queste persone sono state spinte nelle braccia di Hamas. Come il Presidente Joe Biden e i suoi consiglieri hanno ripetutamente affermato, "Hamas non rappresenta il popolo palestinese. Non rappresenta la dignità dei palestinesi".
• I RISULTATI DI UN SONDAGGIO D'OPINIONI
Giovedì l'Università di Birzeit, vicino a Ramallah, ha pubblicato un sondaggio d'opinione palestinese che rispondeva a questa affermazione centrale dell'Occidente. I ricercatori di Birzeit hanno raccolto i dati attraverso interviste faccia a faccia con migliaia di palestinesi in tutta la Giudea e la Samaria e in tre punti nel sud di Gaza. Hanno anche parlato con i residenti del sud di Gaza e con gli sfollati dalle zone di combattimento nel nord di Gaza. Circa il 75% dei palestinesi sostiene il massacro del 7 ottobre guidato da Hamas. Un altro 11% non ha un'opinione. Sono neutrali sul fatto che sia una buona idea stuprare e torturare, decapitare, bruciare vivi e rapire donne, uomini, bambini e neonati. Tuttavia, tre quarti dei palestinesi pensano che sia un risultato straordinario. Allo stesso modo, il 75% dei palestinesi vuole l'annientamento di Israele. Vogliono una Palestina "dal fiume al mare". Questa posizione è distinta da quella di sostenere uno Stato arabo-ebraico dal fiume al mare, o la cosiddetta "soluzione a uno Stato", che solo il 5,4% dei palestinesi sostiene. Un altro 17,2% sostiene la soluzione dei due Stati (13,2% nelle aree controllate dalla A.P. in Giudea e Samaria e 22,7% a Gaza). Se Hamas non rappresenta i palestinesi, è difficile capire chi li rappresenti. Il 76% dei palestinesi sostiene Hamas. L'88% dei palestinesi in Giudea e Samaria sostiene Hamas e il 60% dei residenti di Gaza sostiene Hamas. La A.P. gode del sostegno di appena il 10% dei palestinesi. Gli unici gruppi che godono di un sostegno superiore a quello di Hamas sono i gruppi terroristici che non aspirano ad altro che a uccidere gli ebrei: il jihad islamico dell'Iran, le Brigate Al-Aqsa di Fatah e le cellule terroristiche di Hamas, le Brigate Izz al-Din al-Qassam, godono di livelli di sostegno addirittura superiori a quelli di Hamas stesso. I palestinesi ritengono che non vi sia alcun motivo credibile per sostenere Israele. Nella misura in cui Israele è sostenuto dalle nazioni occidentali, i palestinesi lo attribuiscono a teorie cospirative antisemite sul potere e sul denaro degli ebrei. Il 92% ritiene che dietro il sostegno occidentale a Israele ci sia la "lobby ebraica". Il 96% ritiene che il sostegno occidentale a Israele sia dovuto a interessi economici. Quanto agli occidentali che insistono sul fatto che i palestinesi sono pacifici, i palestinesi li odiano tanto quanto odiano Israele: il 98% dei palestinesi odia gli Stati Uniti e il 97% la Gran Bretagna. D'altra parte, i palestinesi sono fiduciosi. Il 78% dei palestinesi afferma che le manifestazioni pro-palestinesi che si svolgono sotto lo striscione "Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera" li riempiono di speranza per il futuro dell'umanità. In breve, i risultati del sondaggio di Birzeit non mostrano un popolo pacifico interessato alla coesistenza e alla pace. Presentano un ritratto chiaro e netto di una società genocida. Se c'è un raggio di speranza che emerge dai dati, è la disparità tra le posizioni dei palestinesi di Gaza e quelli di Giudea e Samaria. Mentre l'88% dei palestinesi di Giudea e Samaria sostiene Hamas, solo il 60% dei gazesi lo fa. Il motivo è senza dubbio l'operazione delle forze combinate delle Forze di Difesa Israeliane a Gaza. Il fatto di vedere le proprie case distrutte e di essere costretti ad evacuare smorza un po' il sostegno dei gazesi al genocidio e ai suoi autori. Le implicazioni operative e strategiche di questa disparità di vedute per oggi e per il futuro sono abbastanza ovvie. L'unico modo per scuotere i loro atteggiamenti genocidi è punirli. L'unico modo per smorzare il loro desiderio di annientare lo Stato ebraico è negare loro la speranza che il genocidio paghi. È questa consapevolezza che deve guidare la politica israeliana e la nostra società. L'87% dei palestinesi ha dichiarato che la propria fiducia nella coesistenza pacifica con Israele è diminuita dopo il 7 ottobre. Il 71% ha dichiarato che gli eventi di quel giorno hanno aumentato il loro sostegno per il totale annientamento di Israele e per una Palestina "dal fiume al mare". Il 98% ha dichiarato di essere orgoglioso di essere palestinese. Tutte le risposte indicano che l'Olocausto del 7 ottobre li ha convinti che stavano sconfiggendo Israele e che non avrebbero dovuto coesistere pacificamente con esso. Per cambiare questi atteggiamenti, la politica di Israele non dovrebbe essere orientata a dare loro la speranza di uno Stato, ma piuttosto a far loro temere la punizione. Questo, a ben vedere, è ciò che la tanto bistrattata destra israeliana ha sempre sostenuto. Ai palestinesi è stato chiesto quale fosse, secondo loro, la motivazione che spinge Hamas a invadere Israele e a compiere il suo sadico massacro. Le risposte sono notevoli. Una pluralità di palestinesi, il 35%, ha dichiarato che il motivo dell'attacco era "fermare le violazioni di Al-Aqsa". Un altro 29% ha detto che era per "liberare la Palestina". E il 21% ha detto che era per "rompere l'assedio di Gaza". "Fermare le violazioni della moschea di Al-Aqsa" sul Monte del Tempio a Gerusalemme è un altro modo per dire "jihad". Secondo l'Islam, l'interruzione di una jihad è giustificata solo temporaneamente. Una hudna temporanea di 10 anni, o cessate il fuoco, può essere raggiunta se le forze della jihad sono troppo deboli per portarla avanti. Il cessate il fuoco può essere esteso per altri decenni se la debolezza si protrae. Può essere violato in qualsiasi momento se i jihadisti raccolgono le forze necessarie per procedere. Quando gli occidentali si avvicinano ai palestinesi, lo fanno attraverso i prismi delle loro preferenze e dei loro valori, e con una goccia (o un oceano) di ostilità verso lo Stato ebraico. Gli occidentali presumono che i palestinesi cerchino un futuro di prosperità, libertà e pace perché è quello a cui aspirano per se stessi. Ma non è così, o almeno non nel modo in cui gli occidentali pensano. I palestinesi vogliono una vita migliore. Ma la loro concezione di vita migliore è una vita di jihad, di uccisione degli infedeli. Ciò che li motiva non è la prosperità, ma il genocidio. Ed è per questo che la loro speranza deve essere spenta. Il 7 ottobre gli israeliani hanno preso le misure ai palestinesi e le opinioni si sono spostate nettamente verso le posizioni che la destra israeliana ha sostenuto per più di una generazione. Il mondo intero farebbe bene a prendere le misure anche a loro. Le azioni non mentono, e nemmeno i dati. I palestinesi sono una società unificata dall'obiettivo comune di annientare Israele. Questo è ciò che sono. Questo è ciò che vogliono.
(JNS, 19 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Antisemitismo negli USA: democratici cancellano eventi “per sicurezza” in California
Dimostranti antisemiti che chiedono un cessate il fuoco nella guerra tra Israele e Hamas con slogan antisemiti e anti-israeliani hanno spinto i funzionari del Partito Democratico della California a cancellare gli eventi serali durante la loro convention statale “per la sicurezza dei nostri delegati”.
I Democratici della California si sono riuniti a Sacramento questo fine settimana per valutare l’appoggio dei candidati in vista delle primarie di marzo. Tra questi c’è la competitiva corsa al Senato degli Stati Uniti che vede la partecipazione di quattro democratici, tra cui tre membri in carica della Camera degli Stati Uniti.
La convention è stata interrotta più volte sabato pomeriggio da manifestanti filo-palestinesi che chiedevano il cessate il fuoco a Gaza. I funzionari del partito avevano aumentato la sicurezza per la convention del fine settimana, richiedendo ai partecipanti di essere scannerizzati e di far perquisire le loro borse prima di entrare nella sala della convention.
Dopo la sessione pomeridiana, una grande folla di manifestanti si è radunata nella sala. La polizia di Sacramento ha chiuso alcune strade nei pressi del centro congressi, ma le ha presto riaperte.
Poco dopo la fine delle votazioni per l’approvazione dei partiti, la portavoce del Partito Democratico Shery Yang ha dichiarato che gli eventi della serata erano stati annullati.
“A causa di circostanze al di fuori del nostro controllo e per la sicurezza dei nostri delegati e dei partecipanti alla convention, stiamo annullando le riunioni dei caucus, le suite di ospitalità e il VoteFest che si svolgeranno stasera al centro congressi”, ha dichiarato Yang.
(Rights Reporter, 19 novembre 2023)
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Da dove viene il diavolo?
Cammina come un leone ruggente cercando chi divorare: il diavolo, il serpente antico, il grande nemico dell'uomo. Ma da dove viene?
di Mark Hitchcock
Due passi essenziali nella Scrittura mostrano l'origine di Satana e l'inizio della guerra invisibile: Isaia 14:12-19 ed Ezechiele 28:12-19. Questi due testi raccontano la sua condizione originale in cielo, il suo peccato e la sua caduta. Descrivono ciò che potremmo chiamare la caduta cosmica dal cielo. Rendono chiara la creazione, la depravazione e la condanna del diavolo.
Non tutti sono dell'opinione che questi passaggi descrivano il diavolo. Tuttavia, se non lo si intende in questo modo, non abbiamo alcun resoconto biblico della sua caduta e della sua ribellione a Dio. Io credo che il diavolo sia il soggetto di questi due passaggi. Ezechiele 28:12-19 include l'ascesa e la caduta di una persona chiamata re di Tiro: «La parola del SIGNORE mi fu rivolta in questi termini:
- «Figlio d'uomo, pronuncia un lamento sul re di Tiro e digli: Così parla il Signore, DIO: 'Tu mettevi il sigillo alla perfezione,
- eri pieno di saggezza, di una bellezza perfetta; eri in Eden, il giardino di Dio; eri coperto di ogni tipo di pietre preziose: rubini, topazi, diamanti, crisoliti, onici, diaspri, zaffiri, carbonchi, smeraldi, oro; tamburi e flauti, erano al tuo servizio, preparati il giorno che fosti creato.
- Eri un cherubino dalle ali distese, un protettore. Io ti avevo stabilito, tu stavi sul monte santo di Dio, camminavi in mezzo a pietre di fuoco.
- Tu fosti perfetto nelle tue vie dal giorno che fosti creato, finché non si trovò in te la perversità:
- Per l'abbondanza del tuo commercio, tutto in te si è riempito di violenza, e tu hai peccato; perciò io ti caccio via, come un profano, dal monte di Dio e ti farò sparire, o cherubino protettore, di mezzo alle pietre di fuoco.
- Il tuo cuore si è insuperbito per la tua bellezza; tu hai corrotto la tua saggezza a causa del tuo splendore; io ti getto a terra, ti do in spettacolo ai re.
- Con la moltitudine delle tue iniquità, con la disonestà del tuo commercio tu hai profanato i tuoi santuari; perciò io faccio uscire in mezzo a te un fuoco che ti divori e ti riduco in cenere sulla terra, in presenza di tutti quelli che ti guardano.
- Tutti quelli che ti conoscevano fra i popoli restano stupefatti al vederti; tu sei diventato oggetto di terrore e non esisterai mai più».
Ezechiele scrisse queste parole nel VI secolo a.C. Durante i 70 anni di prigionia di Giuda a Babilonia. Le sue profezie possono essere divise in tre sezioni principali:
Ezechiele 1-24 : Giudizio di Giuda.
Ezechiele 25-32: I vicini di Giuda. Ezechiele 33-48: Restaurazione di Giuda e Israele.
Nel secondo di questi tre passaggi, Ezechiele racconta il giudizio imminente degli stati pagani vicini di Giuda e predice il caso del leader di Tiro (28:2). I commentatori della Bibbia concordano generalmente sul fatto che Ezechiele 28:2-10 parli del re fenicio Etbaal III, che regnava sulla fortezza di Tyrus in riva al mare. Fu un monarca presuntuoso e avaro, ed Ezechiele profetizzò il giudizio che non tardò a raggiungerlo dopo questa profezia. Ma in Ezechiele 28:12 notiamo un cambiamento improvviso in cui viene introdotto il re di Tiro. Non è la stessa persona descritta come leader di Tiro nel verso 2. Il leader in 28: 2-10 è indicato due volte come un uomo (v. 2.9), caratterizzato da una descrizione soprannaturale, mentre il re di Tiro, va ben oltre quello che si può dire di un uomo. Nessuna persona, soprattutto il malvagio leader di Tiro, potrebbe essere descritta con parole come "perfezione, pieno di saggezza e perfetta bellezza". Inoltre, il re è stato creato (v. 13,15), strana affermazione per un re umano, le persone nascono, non sono create. Sulla base di queste affermazioni e descrizioni, credo che questo testo parli del diavolo prima del suo declino. Menzionando prima il leader umano di Tiro (vv 2-10) e poi il re di Tiro (vv 12-19), Ezechiele sembra rivelare il potere soprannaturale che si muove dietro i leader umani, come negli ultimi tempi farà il diavolo che sarà la guida e il potere dietro l'Anticristo (Apocalisse 13:2-4).
Se questa comprensione del testo è giusta, il diavolo godeva di privilegi unici senza precedenti prima della sua caduta, era il più potente e maestoso di tutti gli angeli. Il "santo monte di Dio" nel versetto 14 potrebbe riferirsi al luogo che il diavolo aveva alla presenza di Dio prima della sua caduta. Ha goduto della vicinanza a Dio stesso, ed è anche chiamato "cherubino protettore" (v. 14,16 ). Gli angeli si dividono in due classi e i cherubini sono una classe speciale, responsabile della protezione della presenza e della santità di Dio. Le parole "tamburi" e "Flauti'' (v. 13) sostengono la nozione che Satana servisse come Sommo Sacerdote celeste e fosse il conduttore del culto di Dio in cielo. Il verso 18 parla dei suoi santuari. È impossibile essere completamente sicuri del pieno significato di tutte queste affermazioni, ma Donald Gray Barnhouse fornisce una spiegazione che riunisce le diverse parti:
"L’idea espressa nella parola è stata ampiamente discussa dai commentatori della Bibbia .... Qui lo vediamo nella sua funzione sacerdotale, in collaborazione con i cherubini che oggi conducono il culto in cielo (Apocalisse 4:9-10; 5:11-14) e lo vediamo vicino al trono di Dio. Il fatto che Lucifero avesse dei santuari indica adorazione e sacerdozio. Sembra che abbia ricevuto l'adorazione dell'universo sotto di lui e l'abbia portata al Creatore sopra di lui ....
Qui, alla presenza di Dio, Lucifero ha portato il culto di un universo pieno di creature e ha ricevuto i suoi ordini dall'Onnipotente, come profeta di Dio trasmettendola alla creazione adorante."
Prima della sua caduta, il diavolo era con ogni probabilità il custode della gloria di Dio, il sommo sacerdote celeste e il leader del culto. Ma il tragico punto di svolta è narrato nel verso 15: «Tu fosti perfetto nelle tue vie dal giorno che fosti creato, finché non si trovò in te la perversità». Da nessuna parte la Bibbia spiega l'origine del peccato più chiaramente. Satana era perfetto in tutti i suoi tratti e azioni fino al terribile momento in cui il peccato fu trovato in lui. Il diavolo fu il primo peccatore nell'universo. La caduta del diavolo è descritta nei versetti 16-19. In primo luogo, si afferma: «Per l'abbondanza, del tuo commercio, tutto in te si è riempito di violenza; e tu hai peccato».
Arnold Fruchtenbaum spiega che cosa significa:
''Questa affermazione si trova anche nel principe umano di Tiro nei versi 1-10. Per il principe di Tiro, ciò significava andare da un porto all'altro accumulando ricchezza (versetto 5). Per il Re di Tiro, il diavolo, significava andare di angelo in angelo calunniando Dio per ottenere la loro lealtà .... Le sue numerose transazioni commerciali lo hanno riempito di iniquità in riferimento al suo rapporto con gli angeli, conducendolo a bestemmiare contro Dio. Nella sua iniquità ha invocato in cielo una rivolta contro Dio”
Il diavolo iniziò una campagna diffamatoria andando da angelo ad angelo e facendo dispiacere Dio. Il verso 17 mostra che il peccato del diavolo, il primo peccato mai commesso, fu l'orgoglio: « ... il tuo cuore si è insuperbito per la tua bellezza; tu hai corrotto la tua saggezza a causa del tuo splendore; io ti getto a terra, ti do in spettacolo ai re». Questo peccato ha corrotto il diavolo.
Il secondo passaggio, che a mio parere descrive la caduta originale del diavolo, è Isaia 14:12-19. Qui una storia simile è raccontata, come in Ezechiele 12:
- “Come mai sei caduto dal cielo, astro mattutino, figlio dell'aurora? Come mai sei atterrato, tu che calpestavi le nazioni?
- Tu dicevi in cuor tuo: «Io salirò in cielo, innalzerò il mio trono al di sopra delle stelle di Dio; mi siederò sul monte dell'assemblea, nella parte estrema del settentrione;
- salirò sulle sommità delle nubi, sarò simile all'Altissimo».
- Invece ti hanno fatto discendere nel soggiorno dei morti, nelle profondità. della fossa!
- Coloro che ti vedono fissano in te lo sguardo, ti esaminano attentamente, e dicono: «È questo l'uomo che faceva tremare la terra, che agitava i regni,
- che riduceva il mondo in un deserto, ne distruggeva le città, e non rimandava mai liberi a casa i suoi prigionieri».
- Tutti i re delle nazioni, tutti quanti riposano gloriosi, ciascuno nella propria casa;
- ma tu sei stato gettato lontano dalla tua tomba come un rampollo abominevole coperto di uccisi trafitti con la spada, calati sotto i sassi della fossa, come un cadavere calpestato”.
I commentatori della Bibbia concordano sul fatto che Isaia 14:4-11 descriva il re terreno di Babilonia, ma come in Ezechiele 28 v'è disaccordo sul fatto che poi parli di un leader umano. lo penso che il termine "stella scintillante" nel versetto 12 si riferisca al diavolo prima della sua caduta. I versetti 12-14 citano i suoi peccati e i versi 15-19 descrivono il suo caso.
Isaia 14 è simile a Ezechiele 28 in almeno due punti. Primo, il diavolo è ritratto in entrambi i testi come il potere di un malvagio re umano. In Isaia 14 è il potere dietro il re di Babilonia mentre in Ezechiele 28 è il potere dietro il re di Tiro. Entrambi i passaggi mostrano che l'orgoglio è stato il peccato originale del diavolo. In Isaia 14:13-14 viene spesso definito L'"io voglio" del diavolo. Inspiegabilmente, ha posto la sua volontà al di sopra della volontà di Dio.
- Voglio
ascendere al cielo. Il diavolo voleva essere come il suo Creatore.
- Voglio
elevare il mio trono al di sopra stelle di Dio. Le stelle di Dio sono gli altri angeli. Il diavolo voleva stare al di sopra di tutta la creazione e ricevere la sua adorazione.
- Voglio
sistemarmi sul monte dell'assemblea a settentrione. La montagna di raccolta è di solito identificata con il luogo in cui Dio governa. Il diavolo voleva occupare l'apice dell'autorità.
- Voglio
ascendere all'altezza delle nuvole. Le nuvole spesso simboleggiano la gloria di Dio nella Scrittura. Il diavolo voleva la gloria che appartiene solo a Dio.
- Voglio
diventare uguale all'Altissimo!
Il diavolo voleva sostituirsi a Dio.
In breve, il diavolo voleva prendere possesso della creazione di Dio e avere da solo l'autorità su di essa. Ha cercato di arrivare in cima ma è stato abbattuto.
Il diavolo ha perso per sempre il suo posto in paradiso. Come osserva Erwin Lutzer: "Non c'è da meravigliarsi se il diavolo sia arrabbiato .... pensiamo a tutto ciò a cui ha rinunciato. Non può più essere un profeta che parla per Dio. Non può più essere un sacerdote che rende il culto a Dio. Lui, che voleva essere come Dio, divenne il più dissimile da lui, ha perso tutto."
Questo è l'opposto di ciò che ha fatto il Figlio di Dio. Ha lasciato il posto più alto dell'universo alla destra di Dio, si è umiliato ed è andato fino in fondo alla vergogna sulla croce. Pertanto, Dio l'ha esaltato sopra tutte le masse (Filippesi 2:5-11). Per Gesù c'è stato solo profitto senza nessuna perdita.
Se Isaia 14 ed Ezechiele 28 descrivono la caduta del diavolo, sappiamo che è un angelo caduto da questa posizione elevata.
Ma quando è successo tutto questo? Molti credono che il diavolo sia caduto prima di Genesi 3 quando indusse Adamo ed Eva a disobbedire a Dio, ma quando esattamente peccò e cadde prima di Genesi 3?
Ci sono due punti di vista fondamentali su questo argomento. Alcuni credono che sia avvenuto prima di Genesi 1:1 e Dio fece la creazione come palcoscenico per dimostrare chi avesse il diritto di governare. Altri dicono che sia caduto qualche tempo dopo la creazione dei cieli e della terra ma, in ogni caso, prima di Genesi 3, tra Genesi 1:31 e Genesi 3.1.
Non possiamo essere sicuri di questa affermazione, tuttavia, alcuni suggerimenti possono aiutarci a ricostruire i tempi. Cominciamo dal fatto che il diavolo fosse un angelo creato e apprendiamo in Giobbe 38:7 che gli angeli si rallegrarono del capolavoro travolgente di Dio quando creò l'universo. Ciò significa che Dio fece gli angeli prima della creazione dell'universo. E' anche chiaro che in questo momento nessun angelo era caduto e l'armonia prevaleva mentre si rallegravano insieme. Quindi, sappiamo che Dio ha giudicato il lavoro fatto nei sei giorni molto buono (Genesi 1:31). Anche questo dimostra che tutto fosse in ordine nel nuovo universo di Dio, cosa che è probabilmente incompatibile con l'esistenza di molte creature cadute.
Pertanto, è meglio per noi datare la caduta di Satana e del suo gregge dopo il settimo giorno, quando Dio si riposò e dichiarò ogni cosa buona (Genesi 1:31 ). Anche se non siamo sicuri, è plausibile che il diavolo, quando vide la sua condizione perfetta dopo il completamento della creazione, incluso Adamo ed Eva e la loro adorazione a Dio, divenne geloso e desiderò questa adorazione per se stesso. Come guardiano della gloria di Dio e leader del culto in cielo, desiderava ardentemente questo culto per sé. Il peccato è stato trovato in lui e il suo caso è stato definitivamente risolto da Dio.
(Chiamata di Mezzanotte, mar/apr 2019)
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Sondaggio palestinese: grande maggioranza a sostegno del massacro del 7 ottobre e contro l’esistenza di Israele
Il 75% degli intervistati è d’accordo con l’attacco di Hamas, il 74,7% vuole un unico stato palestinese “dal fiume al mare”
Secondo un sondaggio condotto il 14 novembre da Arab World for Research and Development con sede a Ramallah, la società palestinese a grande maggioranza sostiene il devastante attentato di Hamas del 7 ottobre e vuole uno stato unico palestinese “dal fiume al mare”.
Alla domanda principale del sondaggio: “Quanto sostenete l’operazione militare [sic] compiuta dalla resistenza palestinese guidata da Hamas il 7 ottobre?”, la stragrande maggioranza dei palestinesi che vivono in Cisgiordania (83,1%) ha risposto di sostenere l’attacco “estremamente” o “abbastanza”. Solo il 6,9% ha risposto di essere “estremamente” o “abbastanza” contrario, mentre l’8,4% dice di non avere alcuna opinione. I palestinesi che vivono nella striscia di Gaza mostrano un po’ meno consenso, ma in ogni caso la maggioranza assoluta vede con favore l’attacco: il 63,6% afferma di sostenerlo “estremamente” o “abbastanza”, mentre il 14,4% risponde di non essere né contrario né favorevole. Mostrando un disaccordo maggiore di quello registrato in Cisgiordania, il 20,9% dei palestinesi che vivono a Gaza si dichiara in varia misura contrario all’attacco.
Pochissime le differenze d’opinione tra donne e uomini palestinesi. Gli uomini che in varia misura sostengono l’attacco (75,2%) sono solo leggermente di più delle donne (74,9%).
Alla domanda: “Secondo te, qual è stato il motivo principale dell’operazione lanciata dalla resistenza palestinese il 7 ottobre?”, il 31,7% degli intervistati residenti in Cisgiordania e il 24,9% degli intervistati residenti a Gaza hanno detto che la ragione dell’attacco era “liberare la Palestina”. Il 23,3% degli intervistati in Cisgiordania e il 17,7% degli intervistati a Gaza hanno detto che il motivo dell’attacco era “rompere l’assedio sulla striscia di Gaza”. Un altro 35% del totale dei palestinesi intervistati ha detto che l’attacco mirava a “fermare le violazioni alla Aqsa”, in riferimento alla moschea al-Aqsa di Gerusalemme dove solo ai musulmani è consentito pregare nonostante sorga sul Monte del Tempio, uno dei luoghi più sacri per la tradizione ebraica (ma i musulmani considerano una violazione il mero fatto che dei pellegrini ebrei si rechino sulla spianata dove sorge la moschea). Solo lo 0,9% del totale degli intervistati ritiene che il motivo di Hamas per compiere l’attacco fosse quello di “fermare il processo di pace”. Un ulteriore 0,7% ha affermato di ritenere che la motivazione fosse quella di “fermare l’insediamento”. Tuttavia, un consistente 5,1% dei palestinesi intervistati pensa che l’attacco sia stato effettuato per “servire gli interessi dell’Iran”.
Alla domanda: “Sei favorevole alla soluzione di creare uno o due stati?”, una netta maggioranza degli intervistati (74,7%) ha risposto di sostenere un unico stato palestinese “dal fiume al mare”. Lo stato unico palestinese è sostenuto un po’ di più dai palestinesi che vivono in Cisgiordania (77,7%) rispetto a quelli che vivono a Gaza (70,4%). Solo il 17,2% dei palestinesi intervistati ha affermato di sostenere la soluzione “a due stati”: i palestinesi di Gaza sostengono questa soluzione in misura maggiore (22,7%) rispetto ai palestinesi che vivono in Cisgiordania (13,3%). Il 5,4% degli intervistati ha affermato che sosterrebbe la soluzione “uno stato per due popoli”.
Infine, alla domanda su chi siano le parti in guerra solo il 18,6% dei palestinesi intervistati ritiene che la guerra in corso sia tra Israele e l’organizzazione terroristica Hamas, mentre una maggioranza del 63,6% ritiene che si tratti di una guerra tra “Israele e i palestinesi in generale”, e un ulteriore 9,4% afferma di considerarla una guerra tra “il mondo occidentale e il mondo arabo”.
(Da: Jerusalem Post, 17.11.23)
(israele.net, 18 novembre 2023)
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“Hamas vuole distruggere Israele”. Parola della Nobel Elfriede Jelinek
Il gruppo terroristico è “come i nazisti durante l’invasione della Polonia”. È “massacro, stupro e tortura”, “una furia di distruzione incondizionata”.
di Giulio Meotti
Forse ha ragione Richard Millet e il Nobel per la letteratura “è diventato l’equivalente del vecchio Premio Stalin dell’Unione Sovietica”. E quando si tratta di Israele, l’unico blasone che si ricordi a sua difesa è Saul Bellow. Nel 2012 con una poesia intitolata “Quel che va detto”, uscita sui quotidiani tedeschi, spagnoli e italiani, Günter Grass spiegò che la potenza nucleare di Israele minacciava la fragile pace mondiale e che lo stato ebraico poteva cancellare il popolo iraniano. Eravamo al totale ribaltamento: non era più Teheran che minacciava Tel Aviv, ma Israele minaccia al popolo iraniano. Durante la Seconda intifada dei kamikaze, il Nobel portoghese José Saramago scrisse: “Ramallah è la Auschwitz di oggi”. Per non parlare di Dario Fo, il giullare di Soccorso Rosso. Dopo il 7 ottobre, nessun Nobel ha avuto il tempo di buttare giù qualche parola a sostegno di Israele. Ci ha pensato Elfriede Jelinek, che come Kraus si fregia di mettere a nudo le debolezze e i vizi sotto le apparenze perfette del paese dei valzer, del Danubio blu, delle operette e dei cavallini bianchi.
Come Grass, Fo e Saramago, Jelinek è di sinistra: impegnata contro l’estrema destra nel suo paese e a favore dei migranti, membro del Partito comunista fino al 1991, autrice di attacchi contro Donald Trump e le leggi russe anti Lgbt. Ma a differenza dei tre colleghi, Jelinek ha condannato sul suo sito web i “fanatici” dell’“organizzazione terroristica Hamas” che vogliono “annientare” Israele, “l’unico stato democratico della regione”. “Umanità, potrebbe farci comodo” scrive Jelinek. “Dopo l’attacco di Hamas, non so più di cosa si tratti. Diventa un pezzo di carta su cui sono state scritte tante cose buone e belle e poi date alle fiamme”. Jelinek spiega che “infuriano i fanatici, per i quali la vita non ha alcun valore, e la morte è qualcosa per cui vale la pena lottare, attraverso la quale si può diventare martiri”. Paragona quanto succede alla Guerra dei Trent’anni, “che quasi spopolò l’Europa e iniziò con fronti chiari, come guerra di religione e con la defenestrazione (più un atterraggio morbido su un mucchio di letame) a Praga, finché alla fine solo i predoni vagarono per la terra deserta”.
Hamas, spiega la scrittrice, “non appartiene alla civiltà”, “pianifica” e ha “sempre pianificato” l’annientamento di Israele, spiega la scrittrice austriaca 77enne. “Come i nazisti durante l’invasione della Polonia”: così Jelinek su Hamas, “massacro, stupro e tortura”, “una furia di distruzione incondizionata” che suggella il loro destino. Denuncia anche “la presa in ostaggio di palestinesi innocenti” da parte di Hamas “sulla loro striscia di terra sovrappopolata” e le manifestazioni in Europa contro gli attacchi israeliani. Quanto più i manifestanti “affermano la legittimità e la giustezza della loro azione gridando e ingiuriando, ovunque, anche qui, davanti alla cattedrale di Santo Stefano a Vienna, tanto più si instaura il vuoto, un vuoto aspirante”, deplora l’autrice il cui padre fu perseguitato sotto il nazionalsocialismo a causa delle sue origini ebraiche. “Ogni scambio è ridotto in cenere. Vediamo solo il fumo nero che vola via e l’orrore che rimane”. Le macerie di Kfar Aza.
Il Foglio, 18 novembre 2023)
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Presentata denuncia contro Hamas per crimini contro l’umanità
di Sarah G. Frankl
Eyal Waldman, la cui figlia e il suo fidanzato sono stati uccisi da Hamas il 7 ottobre, e altri rappresentanti delle famiglie dei morti e delle persone prese in ostaggio, hanno appena presentato una denuncia alla Corte penale internazionale dell’Aia.
La denuncia sostiene che il 7 ottobre sono stati compiuti crimini contro l’umanità da parte di Hamas e di altri gazani, spiega Waldman a Channel 12.
La denuncia include prove di ciò che è accaduto quel giorno, dice Waldman.
Waldman sottolinea che i rappresentanti delle famiglie hanno anche chiesto alla corte di emettere mandati di arresto per i leader di Hamas, in modo da impedire loro di viaggiare, come la corte ha fatto a marzo nel caso del presidente russo Vladimir Putin, per crimini di guerra in Ucraina.
Waldman afferma che le famiglie sono state accolte “con grande professionalità” e cortesia dal procuratore capo del tribunale e dal suo team, che ha ascoltato attentamente la loro presentazione.
“Ha capito che sono stati commessi crimini contro l’umanità. Ha detto che era in corso un’indagine contro i capi di Hamas”, afferma Waldman, riferendosi apparentemente al procuratore della CPI Karim Khan.
Waldman afferma che la CPI ha chiesto a Israele di invitare la sua squadra a visitare il tribunale per far avanzare le indagini, ma osserva che non è chiaro se Israele accetterebbe di farlo perché “Israele non ha fiducia in questo tribunale internazionale”.
“Ma ciò che era importante era [presentare] la documentazione dei crimini commessi, dei crimini contro l’umanità e lo sforzo per ottenere mandati di arresto per i capi di Hamas”, dice Waldman.
(Rights Reporter, 17 novembre 2023)
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Incappucciati come i terroristi di Hamas bruciano la bandiera di Israele
Ieri in piazza Castello a Torino, un atto di violenza e odio razziale che evoca la "Notte di Cristalli"
di Marco Bardesono
La bandiera rappresenta l’anima e lo spirito di un popolo. Quella di Israele è stata bruciata ieri mattina nel cuore di Torino da tre, quattro incappucciati. Ieri, un giorno di novembre, un novembre nero come quello del 1938, quello della “notte dei cristalli”, data di inizio dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti. Vedere la bandiera israeliana che brucia, al di là dei distinguo del politicamente più o meno corretto, fa venire i brividi perché essa rappresenta un vessillo ebraico e incarna i segni e i colori dello Stato nella “terra promessa”. E ciò senza considerare che un simile atto configura uno o più reati che l’ordine costituito dovrebbe perseguire. Ma prima dell’aspetto giuridico, c’è da porsi un’altra domanda che va oltre il lecito e l’illecito del fatto in sé.
Sembra di avere a che fare con un’orda che non perde occasione per rovesciare il punto di vista del buon senso. E il buon senso è totalmente racchiuso in una data: quella dello scorso 7 ottobre. Le “Torri Gemelle” di Israele, l’attacco feroce del terrorismo più spietato che ha lasciato sul terreno oltre mille morti e ha preso in ostaggio centinaia di persone. Tra le vittime ci sono bambini, che sono stati sgozzati, ci sono donne, ci sono anziani. Questo è il fatto che giustifica pienamente la reazione di Tel Aviv. Non una reazione inaspettata, ma che Hamas aveva previsto e che ha ispirato la carneficina in terra di Israele. I terroristi sapevano che Israele avrebbe reagito e non hanno esitato a utilizzare altri bambini, altre donne e altri vecchi come scudi umani per proteggere il loro strisciare come vermi nei sotterranei di Gaza. Israele da vittima, nel pensiero degli emiri che comandano il gruppo terroristico (accostare il termine Hamas a quello del popolo palestinese oggi suona come una bestemmia per gli stessi palestinesi, o per molti di essi), sarebbe stato percepito come Stato carnefice, non solo tra i popoli arabi, ma anche nell’occidente moderno e progressista.
Una strategia puerile, ma che ha aperto una breccia specie in alcuni salotti europei e occidentali. Un tranello nel quale, però, non sembrano essere caduti i grandi pensatori del Novecento, come Jürgen Habermas che per quasi un secolo ha ispirato la sinistra europea e l’intero pensiero progressista internazionale. Ma nel trabocchetto ci stanno cadendo persone e gruppi senza memoria e storia, quelle masse (più o meno vaste), «senza cultura da cui deriva una relativa libertà e una società che, anche se fosse perfetta, sarebbe una giungla», scriveva Albert Camus. La giungla ieri la si è vista in piazza Castello, al termine di un corteo studentesco organizzato non si sa bene per cosa, quando gli incappucciati hanno bruciato la bandiera ebraica e israeliana. Un simile atto non può essere considerato la bravata di qualche giovinastro. E’ evidente che il falò di piazza Castello è stato l’atto simbolico dell’odio, quello che utilizza il fuoco per cancellare ciò che si vuole distruggere. Il fuoco lo hanno usato anche i nazisti 85 anni fa, nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1938. E quello fu l’inizio della fine.
(Torino Cronaca, 18 novembre 2023)
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“Percepiamo uno sdoganamento dell’antisemitismo”: i timori degli ebrei all’ombra del Colosseo
di Nathan Greppi
Nel corso dell’ultimo periodo, in molte capitali europee si sono moltiplicati gli episodi di antisemitismo, dopo i massacri compiuti da Hamas il 7 ottobre e la conseguente reazione israeliana. Sfortunatamente, Roma non fa eccezione a questa tendenza: oltre alle manifestazioni antisraeliane alla Sapienza e in altri atenei della Capitale, vi sono stati anche i casi delle pietre d’inciampo bruciate e delle svastiche equiparate al Magen David, dipinte appena fuori dalla zona del ghetto.
A riportare l’aria che si sta respirando lungo il Tevere, il Presidente della Comunità Ebraica di Roma Victor Fadlun, che racconta come gli ebrei romani si sentono questo periodo.
- Come stanno vivendo gli ebrei romani la situazione dopo il 7 ottobre? Con piena partecipazione e preoccupazione per le vicende accadute. Siamo di fronte a un grave pogrom, avvenuto con modalità inaudite. Compiuto in Israele, e documentato dai miliziani stessi. Questo pogrom è figlio di un profondo odio antiebraico. Anche la turpe circostanza che i sopravvissuti siano stati rapiti risponde ad una inedita modalità esecutiva degli attentati, che è tremenda.
- Cos’avete pensato nel vedere delle svastiche alle porte del quartiere ebraico? Associare la stella di Davide con la svastica nazista vuol dire apparentare le vittime ai carnefici; significa non riconoscere alle vittime alcuna dignità, e in definitiva disconoscere il diritto di Israele a esistere. Israele che è, va ricordato, l’unico baluardo di democrazia di tutto il Medioriente.
- Come è cambiata la percezione dell’antisemitismo a Roma nell’ultimo mese? Negli ultimi tempi sembra di percepire uno sdoganamento dell’antisemitismo. Alcuni concetti prima erano irriferibili, mentre oggi se ne fa largo e disinvolto uso. Esistono però dei limiti precisi a queste storture: nella definizione di antisemitismo approvata dall’IHRA, l’equiparazione di Israele al nazismo, così come negare il diritto all’autodeterminazione di Israele, sono definiti quali manifestazioni di oggettivo antisemitismo. Dobbiamo essere vigili e combattere questi fenomeni di rigurgito antisemita.
- Come giudicate l’approccio da parte dello Stato, delle istituzioni e della società civile? Abbiamo apprezzato e siamo stati confortati dalla ferma condanna dell’attacco disumano del 7 ottobre da parte della politica e della società civile italiana. Purtroppo, successivamente alla reazione militare di Israele, una parte rilevante dell’opinione pubblica e dei mezzi di comunicazione ha preso le parti di Hamas. Questo è assurdo e deprecabile, e ci lascia sgomenti: in Italia c’è chi si augura l’affermazione di un califfato medievale in Israele, a 3 ore di aereo da Roma. Così si stravolge la semplice verità: Israele sta reagendo per difendere la propria popolazione. Il suo obiettivo sono i terroristi di Hamas, mentre per questi ultimi l’obiettivo primario è quello di colpire i civili e assassinare quanti più ebrei e israeliani possibile.
- Il 25 ottobre avete accolto i familiari degli ostaggi al Tempio Maggiore. State preparando altre iniziative di solidarietà? L’accoglienza alle famiglie delle vittime e degli ostaggi israeliani del 7 ottobre è stata un momento di grande partecipazione e commozione per la nostra Comunità. Sono in programma a breve altre iniziative, e siamo molto attivi nel sostenere il punto di vista di Israele, il suo diritto all’autodeterminazione e a proteggere e tutelare i propri cittadini.
(Bet Magazine Mosaico, 17 novembre 2023)
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Spade di ferro - giorno 42. La pubblicità del terrorismo e i bambini
di Ugo Volli
• Una guerra di propaganda
Nelle guerre asimmetriche, come quella che il terrorismo palestinese pratica da almeno sessant’anni, ancor più della potenza militare che in partenza è molto squilibrata a sfavore dei terroristi (se no ci sarebbe una guerra convenzionale) conta la propaganda, il tentativo di attrarre nel campo degli attaccanti nuove forze e di mettere in crisi la volontà di resistenza dello stato attaccato e la sua reputazione internazionale. Gli stessi atti di terrorismo servono a questa “propaganda armata” (un’espressione delle Brigate Rosse, che furono alleate al terrorismo palestinese e in parte addestrate nei suoi campi in Libano), sono anche atti pubblicitari. L’eccidio del 7 ottobre ne è una prova: i terroristi non cercavano di sconfiggere l’esercito israeliano ma di spaventare e indebolire “gli ebrei” con la loro orribile crudeltà e di suscitare una rivolta araba in Giudea e Samaria e nei paesi vicini a Israele. Questi due obiettivi non sono riusciti, anzi. Ma la guerra di propaganda ha funzionato bene
• I sondaggi
I sondaggi mostrano chiaramente che non solo i palestinesi sostengono Hamas, esprimono anche un sostegno agli attacchi terroristici contro i civili in Israele. Mentre fino all’operazione “Pilastro di difesa” del 2012 sembrava che Fatah potesse prevalere anche a Gaza, negli ultimi sondaggi si può vedere chiaramente una tendenza che ha raggiunto il suo apice nel 2020, per cui Hamas è stabilmente l’organizzazione più popolare. L’ultimo sondaggio, condotto proprio alla vigilia del massacro, a fine settembre 2023, mostra che se ci fossero state allora delle elezioni Hamas avrebbe ottenuto il 44% dei voti, mentre a Fatah ne sarebbero rimasti il 32%. Un altro dato che illustra il sostegno della società palestinese al terrorismo si vede nella risposta alla domanda "Sostieni un attacco armato contro i civili all'interno di Israele?". I risultati delle inchieste svolte ogni trimestre da il “Centro Palestinese per la Politica e la Ricerca sulle Indagini” (PCPSR), guidato dal Prof. Khalil Shakaki, non lasciano dubbi: il tasso di sostegno al terrorismo è del 67%. Si può anche osservare una chiara tendenza negli ultimi anni al rialzo dei valori positivi. Chi sostiene che non bisogna confondere i palestinesi con Hamas, farebbe bene a tener conto di questi dati.
Inoltre, delle varie entità su cui il sondaggio richiede una valutazione, l’89% approva l’apparato militare di Hamas, le cosiddette brigate Al Qassam; l’84 per cento la Jihad islamica, l’80% le brigate Al Aqsa, che sono il ramo militare di Fatah, il 74% Hamas in generale conto solo il 14% a favore dell’Egitto e naturalmente 0% a favore di Usa e Israele. I palestinesi nella Striscia di Gaza dal 2001 – il periodo della seconda intifada – ad oggi hanno insomma sempre risposto ai sondaggi che la grande maggioranza di loro sostiene gli attacchi terroristici contro i civili all’interno di Israele. Non fa meraviglia che tanto fonti israeliane che di Hamas abbiano parlato della partecipazione di “civili” provenienti da Gaza agli atti più cruenti e orribili della strage.
• La propaganda sui bambini
Un tema della propaganda terrorista, largamente recepito non solo fra gli arabi ma anche in Occidente, è che Israele sarebbe ignobile perché ucciderebbe i bambini. Si tratta di una variazione di un vecchio tema antisemita, la cosiddetta calunnia del sangue, per cui gli ebrei catturerebbero dei bambini cristiani o musulmani e li sottoporrebbero alle stesse torture che avrebbe subito Gesù per vendicarsene di nuovo e usare il loro sangue nella confezione del pane azzimo della Pasqua ebraica. Centinaia di comunità, decine di migliaia di ebrei sono stati uccisi in tutta Europa e nel Medio Oriente (ma anche in Italia) dal primo caso di questa menzogna, a Norwich in Gran Bretagna nel 1144. Negli ultimi decenni essa è stata continuamente ripetuta contro Israele, ed è tornata attuale con la guerra. Israele ammazzerebbe continuamente i bambini palestinesi, chissà perché. La verità è esattamente opposta. Non sono stati i terroristi a uccidere con orribile crudeltà decine di bambini e neonati il 7 ottobre e a sequestrarne altrettanti, che tengono ancora prigionieri contro ogni moralità e legge internazionale. Il fatto è che essi stessi sfruttano i loro figli come scudi umani, mettono in mano loro le armi e li sottopongono ad addestramento militare quando sono ancora piccoli e li reclutano e usano in battaglia da adolescenti.
• Il lettino e il passeggino
Ieri l’esercito israeliano ha rivelato le prove di uno di questi episodi, particolarmente scandaloso. Nella casa di un terrorista perquisita a Beit Hanun i soldati della brigata 555 hanno trovato razzi nel letto di una bambina e un missile anticarro in una carrozzina. Non si tratta affatto di un caso, il portavoce dell’esercito ha messo a disposizione dei giornalisti una conversazione fra un terrorista e i suoi capi in cui si parlava di questo modo di nascondere le armi usando i bambini come una pratica normale. Si tratta dello stesso modo vile e illegale di combattere e nascondersi dietro persone deboli e protette che viene praticato sistematicamente con gli ospedali. E però di queste cose l’opinione pacifista non tiene conto: nessuno chiede a Hamas di uscire dagli ospedali, di smettere di usare i bambini come scudo, di rilasciare i civili, fra cui donne e bambini, che ha rapito, di smettere di bombardare le case della popolazione israeliana. Solo Israele deve smettere di combattere e lasciare che Hamas si riorganizzi. Da questo punto di vista, purtroppo, la pubblicità terrorista funziona benissimo.
(Shalom, 17 novembre 2023)
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Israele prepara la sua offensiva nel sud della Striscia di Gaza
di Pierre Haski
L’esercito israeliano ha di fatto assunto il controllo del nord della Striscia di Gaza. Buona parte della popolazione è stata spinta a rifugiarsi nel sud, mentre chi è rimasto si trova in una situazione drammatica: quasi tutti gli ospedali hanno smesso di funzionare e le operazioni militari sono incessanti.
Il 16 novembre Israele ha mostrato il primo segnale della volontà di estendere l’offensiva contro Hamas nel sud della Striscia. L’aviazione israeliana ha lanciato dei volantini su quattro località attorno al grande campo profughi di Khan Yunis, raccomandando agli abitanti di evacuare le loro abitazioni.
Ma dove dovrebbero andare queste persone? Già prima dell’invasione la Striscia di Gaza aveva una delle densità di popolazione più alte al mondo. Ora l’arrivo di centinaia di migliaia di sfollati dal nord, in un contesto di guerra e senza acqua, medicine e impianti sanitari, crea una situazione umanitaria disastrosa.
Israele ha preso di mira le strutture sanitarie, in particolare Al Shifa, la più importante della Striscia. Medici, pazienti e sfollati che si erano rifugiati lì sono stati costretti ad andarsene
Israele ipotizza la creazione di una “zona sicura” nella zona sudoccidentale della Striscia, lungo la costa del Mediterraneo. Tuttavia, il 16 novembre diverse agenzie delle Nazioni Unite, in un comunicato congiunto, hanno rifiutato questa proposta.
Le agenzie ritengono infatti che “nessuna zona sicura sia veramente sicura se è stabilita unilateralmente o se è imposta da una forza armata”, e sottolineano che una zona sicura andrebbe negoziata. L’Onu ha già perso più di cento dipendenti a causa dei bombardamenti israeliani.
Questo braccio di ferro tra istituzioni rispettate come l’Unicef o l’Oms e un esercito in guerra è fuori dalla norma e rivela la spaccatura sempre più grande creata dal tipo di guerra condotto da Israele.
Mercoledì Joe Biden ha dichiarato che non chiederà un cessate il fuoco fino a quando Israele non avrà neutralizzato la capacità militare di Hamas, ma allo stesso tempo continua a invitare l’esercito israeliano a non colpire i civili, cosa letteralmente impossibile in questo tipo di conflitto.
L’estensione della guerra nel sud di Gaza potrebbe creare un contrasto tra Israele e il suo alleato statunitense. Un funzionario israeliano ha sottolineato che lo stato ebraico ha tre settimane di tempo prima che le pressioni comincino a farsi sentire. Se l’esercito israeliano deciderà di avanzare verso sud, i tempi potrebbero accorciarsi.
Finora Israele ha condotto la sua guerra senza preoccuparsi minimamente delle reazioni internazionali, spinto da una popolazione unita dopo gli orrori del 7 ottobre. Tuttavia, un’incursione terrestre nel sud comporterebbe un rischio tanto politico quanto militare. Un’azione nel dedalo dei vicoli di Khan Yunis, sovraffollati a causa dell’arrivo degli sfollati del nord e in condizioni umanitarie sempre peggiori, incontrerebbe seri problemi, senza alcuna garanzia di distruggere davvero Hamas.
I volantini lanciati nel sud sembrano indicare che il governo israeliano abbia preso la sua decisione, mettendo gli alleati occidentali in una situazione che potrebbe diventare insostenibile. Sarà il momento della verità in una guerra che sta sconvolgendo il mondo intero.
(L'Unione Sarda, 17 novembre 2023)
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I più maliziosi…
Ci sono in questi giorni domande che restano inevase e lasciano perplessi i già perplessi.
Abbiamo appreso che secondo la normativa ONU, Israele non avrebbe la legittimità di fare guerra a Hamas, in quanto la formazione terrorista non è uno Stato, e la guerra può essere fatta solo da uno Stato aggredito nei confronti di un altro Stato.
Ci si chiede come mai, dunque, dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 organizzato da Al Qaeda nei confronti degli Stati Uniti, gli Stati Uniti ottennero dall’ONU una dispensa nell’ottemperare a questa norma per l’intervento che fecero in Afghanistan? I più maliziosi sospettano che l’ONU fu permissivo perché gli USA sono gli USA, e per Israele, in particolare, non può mai essere applicata alcuna eccezione ma anzi vengano applicati criteri mai applicati a nessun altro Stato.
Gli Stati Uniti, a Mosul nel 2017, ridussero praticamente l’intera città irachena a un ammasso fumante di rovine. I civili morti ufficiali furono undicimila, ma secondo altre stime più di trentamila. L’obbiettivo degli americani era analogo a quello israeliano: combattere una organizzazione terrorista islamica, sradicarla dalla città in cui si era insediata.
Non si ricorda una sola manifestazione in sostegno dei civili iracheni, soprattutto i bambini, che morivano sotto le bombe americane. Nessuna voce si levò dall’ONU contro il “genocidio” che stava avendo luogo. Perché? I più maliziosi sostengono che l’ISIS non veniva considerata una “avanguardia resistenziale” contro “l’occupante”, ma soprattutto che non fosse Israele a bombardare.
Secondo il Gruppo di azione per i palestinesi siriani, tra il 2011 e il 2016, durante il contesto della guerra in Siria, vennero uccisi 3414 arabi palestinesi mentre 456 morirono nel 2016 a causa delle torture inflitte dal regime di Assad. Secondo l’UNRWA, 280,000 arabi palestinesi vennero espulsi dal paese nel 2017. Nessuno né all’ONU né nelle piazze parlò di genocidio o di pulizia etnica. I più maliziosi ritengono che ciò sia dovuto al fatto che Assad non sia israeliano.
Tutte le volte che Israele è in guerra, gli viene chiesto di applicare il celebre e ineffabile “principio di proporzionalità”. Non risulta che a Mosul, giusto per citare il caso fatto, sia stato applicato scrupolosamente.
È indubbiamente interessante che tra gli invocatori del principio di proporzionalità siano gli Stati Uniti, il cui codice militare aggiornato al 2023 e di cui ha dato conto qui David Elber stabilisce l’impossibilità di istituire nel corso di un’azione militare un rapporto preciso tra costi e benefici.
Perché, ci si domanda, quello che vale per gli americani, la più grande democrazia del pianeta non può valere per l’unica democrazia mediorientale? I più maliziosi sostengono che nel caso di Israele essendo appunto Israele non si possono applicare i criteri della condotta richiesta dal codice militare americano.
Ci si chiede se, in questi e in altri casi i più maliziosi abbiano ragione.
(L'informale, 17 novembre 2023)
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Il crollo del fronte Sud e il "nazislamismo" di Hamas
Le brutali violenze contro civili inermi dimostrano quanto forte sia l'odio verso l'ebreo, una mala pianta da estirpare. Anche dove non immaginavamo potesse esistere ancora
di Claudio Vercelli
Chi leggerà queste note a seguire sarà forse già a conoscenza di sviluppi che, nel momento in cui vengono redatte, invece ancora non sono conosciuti. Ci stiamo riferendo al confronto tra Israele ed Hamas. Lo definiamo così, ben sapendo - tuttavia - che attori e interpreti di questo ennesimo scenario bellico, e non solo, sono molteplici. Dietro Hamas, infatti, c’è l'Iran e con quest'ultimo, tanto per dire, si trova, al momento attuale, la Russia. Inutile, in questo come in altri casi, lanciarsi in elucubrazioni geopolitiche che possono risultare, alla prova dei fatti, tanto fondate quanto inconsistenti. Semmai è meglio rifarsi al quadro dei dati che si possono conoscere per davvero, nella confusione generale che altrimenti drammaticamente regna dinanzi ad un campo di battaglia ancora aperto, tra morti, feriti, ostaggi. Soprattutto gli ultimi che, in prospettiva, sono destinati a pesare come dei macigni. Il passato, in fondo, ce lo insegna.
Veniamo quindi al dunque, facendo uno sforzo di comprensione.
Il primo elemento da cui partire è che la linea di divisione tra Gaza Strip (in arabo Qità Ghazza Ghazza; ovvero, in ebraico, Retzu'at 'Azza) e Medinat Israel è, quanto meno dal 2005 - data del totale ritiro della presenza israeliana da quei luoghi - uno dei "confini" più controllati e presidiati nel mondo. Per tutti i motivi che si potevano ben immaginare già prima del 7 ottobre 2023 e che ora, ancora di più, assumono una rilevanza pressoché imprescindibile. Detto questo, come è stato possibile che le difese nazionali, comunque attive anche durante una giornata festiva, abbiano ceduto con una tale flebilità? Non di meno, l'intelligence israeliana, celebrata un po' ovunque come un esempio di efficienza ed efficacia, perché non ha saputo quanto meno intuire l’evoluzione dello stato delle cose, fermo restando che era un segreto di Pulcinella il fatto che Hamas si stesse predisponendo ad un'aggressione su vasta scala?
Secondo passaggio, non meno importante. Le violenze degli islamisti si sono esercitate essenzialmente contro i civili. Non i militari - la cui risposta, in un primo momento, è stata straordinariamente debole - e neanche i «sionisti» o gli «israeliani» ( due parole di servizio, utilizzate solo come sinonimi di altri significati), bensì contro gli «ebrei». Nella dottrina di Hamas, e nelle liturgie di comportamento che ne derivano, sono infatti questi ultimi ad essere odiati. Pochi giri di parole, al riguardo. Israele, di per sé, è inteso solo come un recente prodotto "ebraico'' e non in quanto altro. Pertanto, quel che conta, è estirpare la "cattiva pianta" dell'ebraismo come tale. Soprattutto da Dar-al-Islam, la terra benedetta in quanto integralmente musulmana. Poiché da tutto ciò non potrà quindi derivare altro che non sia un'armonia universale, altrimenti inquinata - ed interrotta - dalla persistente presenza dei «giudei».
In tutta sincerità, è assai difficile non pensare che una tale impostazione mentale, prima ancora che ideologica, sia molto lontana da quella terrificante esperienza che, in Europa, e non solo, abbiamo conosciuto con il nome di «nazismo». Evitiamo le facili equiparazioni, le analogie di circostanza, le espressioni ad effetto. Non di meno, tuttavia, non esimiamoci dal bisogno di trovare un qualche precedente. Pertanto, il terrorismo islamista, in quanto movimento anche di massa, trova parte delle sue ispirazioni nel lascito, al medesimo tempo catacombale, demoniaco nonché messianico, del nazionalsocialismo. Molti riscontri, al riguardo, si potrebbero richiamare. In altra sede e in un diverso momento, probabilmente, lo faremo. Come dire, a tempo debito, non altrimenti pressati dalla rutilante premura della cronaca. Non trattandosi, infatti, di un'urgenza bensì di un riscontro di lungo periodo.
Terzo elemento: se le premesse sono queste, Hamas non esercita una "resistenza palestinese all'occupante sionista'' (così come altrimenti recita ad uso e consumo del pubblico non musulmano) bensì un Jihad, apertamente dichiarato nei confronti del resto del mondo: ovvero, un atto di purificazione, non troppo diverso, nella logica degli attuali protagonisti, da quello che animava coloro che intendevano, tra la fine degli anni Trenta e la prima metà degli anni Quaranta, mettere mano definitiva alla «soluzione della questione ebraica». Poiché il fondamentalismo, in questo caso islamista, non intende mai trovare una risposta politica (la mediazione) bensì una totale prevaricazione identitaria, quella che gli deriva dal potere esibire un trofeo, in questo caso la testa dei «sionisti-giudei». Chi non intende tutto ciò, chi non capisce che l'islamismo radicale costituisce l’omologo orientale di un'apocalittica idea delle relazioni umane, attardandosi semmai nella seduzione di oramai vuote categorie del Novecento (i «guerriglieri» dal basso, che lottano contro il «potere»), è solo un illuso o un colluso. Ce ne sono molti. D’ora innanzi, sarà necessario imparare a distinguere. Quanto meno, nella legittima critica dello stato di cose esistenti, per non accompagnarsi a scomodi e insinceri compagni di viaggio.
Infine, ulteriore passaggio da prendere in considerazione, per non risparmiare niente a nessuno. Il settimo governo Netanyahu, quello attualmente in carica, a dir poco si è fatto cogliere alla sprovvista dall’evoluzione degli eventi. A tale riguardo, meglio evitare altri ordini di pensieri, altrimenti assai più cinici, come quello che invece afferma, machiavellicamente, che proprio dinanzi agli evidenti segni di un collasso del confine meridionale, l’esecutivo avrebbe lasciato correre, così pensando di potere tacitare le corali manifestazioni di opposizione che, da gennaio di quest'anno civile, si susseguono nelle piazze e nelle strade d'Israele.
Nessuno di noi potrà mai dire compiutamente nulla al riguardo, se non con il trascorrere del tempo, quando saremo temporalmente distanti dalle urgenze di questa nuova guerra. Poiché di ciò si tratta. Posto che Hamas sta utilizzando gli abitanti di Gaza come scudo, schermo e alibi per le sue presenti e future azioni. Rimane il fatto, e su ciò concludiamo queste prime note, che nessun governo israeliano, d’ora innanzi, potrà fingere di considerare il futuro del palestinesi come una sorta di fastidioso elemento di corredo, al quale porre rimedio procrastinando un oramai improbabile status quo oppure risolvendo il tutto con un tratto di penna, come se l'esistenza di milioni di altre persone non lo chiamasse in causa.
(Bollettino Comunità Ebraica di Milano, novembre 2023)
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Israele: sondaggio politico in tempo di guerra. Vola Benny Gantz
Un sondaggio condotto dall’istituto Midgam e pubblicato giovedì su Channel 12 News mostra che, se le elezioni si tenessero oggi, il Partito di Unità Nazionale guidato da Benny Gantz conquisterebbe 36 seggi e il Likud ne otterrebbe 17.
Yesh Atid otterrebbe 15 seggi, Shas 10, Yisrael Beytenu 9, United Torah Judaism 7, Otzma Yehudit 7, Hadash-Ta’al 5, Ra’am 5, Meretz 5 e il Partito Sionista Religioso ne otterrebbe 4.
Il blocco degli oppositori di Netanyahu sale a 70 seggi rispetto al blocco composto dai partiti dell’attuale coalizione, che ottiene 45 seggi.
Ai partecipanti al sondaggio è stato chiesto come sarebbe la mappa politica se un partito di centro-destra, guidato dall’ex Primo Ministro Naftali Bennett, annunciasse una candidatura alle elezioni. Tale partito otterrebbe 17 seggi e sottrarrebbe principalmente una quota al Partito di Unità Nazionale, che scenderebbe a 25 seggi. Yesh Atid e Yisrael Beytenu perdono un seggio a favore di un tale partito.
(Rights Reporter, 17 novembre 2023)
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L’ex ambasciatore israeliano Danieli a Nova: “Situazione estremamente pericolosa in Medio Oriente”
Il diplomatico ha messo in guardia contro il rischio “di uno scontro regionale più ampio, soprattutto data la fragile situazione nel nord di Israele a causa di Hezbollah”
L’attacco terroristico “senza precedenti” da parte del movimento islamista palestinese Hamas perpetrato lo scorso 7 ottobre nel territorio israeliano ha creato una situazione “nuova, estremamente pericolosa e instabile nella regione del Medio Oriente”. Lo ha dichiarato l’ex ambasciatore d’Israele David Danieli in un’intervista ad “Agenzia Nova”, secondo il quale l’obiettivo di Hamas era “creare disordine e caos nella regione, coinvolgendo organizzazioni e milizie iraniane, dallo Yemen al Libano, Siria e Iraq, e i palestinesi in Cisgiordania”. Il diplomatico ha messo in guardia contro il rischio “di uno scontro regionale più ampio, soprattutto data la fragile situazione nel nord di Israele a causa di Hezbollah”. Il movimento libanese sciita compie infatti “atti di guerra” su base quotidiana, che prendono di mira gli insediamenti israeliani e le postazioni delle Forze di difesa israeliane (Idf), ricorda Danieli, secondo il quale non risulta finora un’espansione del conflitto nel nord che rischia arrivare a “coinvolgere direttamente l’Iran”. “Al momento non sembra così, considerati gli interessi iraniani e la presenza militare statunitense nella regione”, ha detto Danieli, spiegando che “con i continui successi militari israeliani contro Hamas a Gaza, la ‘strada’ araba resterà una sfida importante per i governanti dell’Egitto e soprattutto della Giordania”.
Secondo il diplomatico, l’obiettivo di Israele di eliminare completamente Hamas come organizzazione militare e politica “è fattibile e richiederà tempo, ma sarà necessario il controllo militare israeliano dell’intera Gaza fino a quando non sarà stabilito un governo civile alternativo, non israeliano”. “Analogamente all’eliminazione dello Stato islamico nella maggior parte dei territori che erano sotto il suo controllo”, ha precisato. Commentando le possibili sfide che Israele dovrà affrontare, Danieli ha ricordato che “Hamas controllava Gaza e l’ha trasforma in una base terroristica contro lo Stato di Israele”. In merito alla sicurezza dei confini di Israele con Gaza, Danieli ha spiegato che questa “può essere garantita solo con la presenza e il governo di un’entità civile a Gaza che non sia dedita al terrore e alla distruzione dello Stato di Israele”. Secondo il diplomatico saranno quindi necessarie “nuove ed efficace misure militari” lungo i confini “indipendentemente da qualsiasi valutazione militare o dell’intelligence”.
A proposito del processo di normalizzazione delle relazioni tra Israele e l’Arabia Saudita attualmente “congelato”, il diplomatico ha evidenziato i “molteplici interessi a lungo termine” di Riad che “non sono cambiati”. “Molto dipende dall’esito della guerra di Israele contro Hamas (…) e dalle implicazioni sulla questione palestinese nel suo insieme. I sauditi non possono resistere al sentimento popolare a favore dei palestinesi nella regione” ha detto l’ex ambasciatore, secondo il quale Riad “dovrà soppesare i pro e i contro di un ritorno sul percorso di normalizzazione con Israele rispetto a qualsiasi sviluppo che coinvolga Israele e i palestinesi nel futuro prossimo”.
Tuttavia, secondo l’ex ambasciatore i passi successivi al conflitto a Gaza per aprire la strada a una pace duratura “sono obiettivi lontani”. “Non c’è dubbio che un passo importante e significativo sarà l’avvio di un rinnovato processo politico tra Israele e la leadership palestinese con il sostegno dei paesi arabi moderati, degli Stati Uniti e dei partner europei”, ha detto Danieli, facendo riferimento alla soluzione dei due Stati che vivano fianco a fianco in pace e garantiscano i confini “come obiettivo a lungo termine”. “Al momento è prematuro valutare come verrà avviato un simile processo politico e sotto quale ‘ombrello’, dal momento che le leadership israeliane, palestinesi e statunitensi potrebbero vedere nuovi volti nel prossimo anno”, ha detto il diplomatico.
In merito a un possibile coinvolgimento dei Paesi arabi nel governo di Gaza per contribuire alla stabilità e agli sforzi di pace dopo la cessazione delle ostilità, Danieli ha evidenziato le criticità di questo scenario “dal momento che i popoli arabi chiedono il ritorno completo e immediato del dominio palestinese”. “La custodia araba di Gaza sarà rifiutata innanzitutto dagli stessi palestinesi, tradizionalmente molto sospettosi nei confronti delle preoccupazioni e dell’interesse arabi per la loro causa”, ha detto l’ex ambasciatore, secondo il quale “una forza di pace internazionale può incorporare alcuni contributi di Stati arabi o islamici, sotto la bandiera delle Nazioni Unite”.
(Nova News, 17 novembre 2023)
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Parashà di Toledòt: Due nazioni e due popoli
di Donato Grosser
Dopo vent’anni di matrimonio Rivkà, moglie di Yitzchàk, divenne incinta. La gravidanza era per lei penosa perché aspettava gemelli e nella Torà è scritto che “... i bambini si urtavano nel suo ventre; ed ella disse: Se così è, perché vivo? E andò a consultare l’Eterno. E l’Eterno le disse: Due nazioni sono nel tuo ventre, e due popoli separati usciranno dalle tue viscere. Uno dei due popoli sarà più forte dell’altro, e il maggiore servirà il minore” (Bereshìt, 25:22-23). R. ‘Ovadià Sforno (Cesena, 1475-1550, Bologna) commenta: “Il motivo del fatto che i bambini (Esau e Ya’akòv) si urtavano è che erano destinati a generare due nazioni con leggi e religioni opposte e due popoli con idee opposte nella conduzione dello stato”. Rashì (Troyes, 1040-1105) nel suo commento, fa notare che la parola “goyìm” (nazioni) invece di essere scritta in modo normale con le lettere ghimel, vav, yod e mem גוים, è scritta con due lettere yod, גיים. Poiché nella Torà ogni lettera ha un significato e ogni cambiamento ha un suo motivo, i Maestri hanno offerto diverse spiegazioni affermando che il cambiamento allude a qualche avvenimento futuro. Rashì cita un passo midrashico dal Talmud babilonese (‘Avodà Zarà, 11a) nel quale è scritto: “È scritto gheyìm (invece di goyìm.Gheyìm significa “sovrani”). Questa è un’allusione all’imperatore Antoninus e a Rabbi Yehudà ha-Nassì (capo del Sanhedrin) presso i quali non mancò mai ravanello e lattuga, né in estate né in inverno”. Quel poco che sappiamo della vita di Rabbi Yehudà ha-Nassì deriva dalle storie del Talmud e da midrashìm. Si diceva che fosse nato lo stesso giorno in cui Rabbi Akivà morì di morte violenta (intorno al 135 d.C.) per mano dei romani. Si racconta che il padre di Rabbi Yehudà, Rabbi Shim’on Ben Gamliel, lo circoncise nonostante un editto romano che vietava la pratica. Quando la notizia raggiunse le autorità romane, alla madre di Yehudà fu ordinato di comparire con il bambino. Una nobildonna romana che aveva appena partorito ebbe pietà di loro e accettò di scambiare il suo bambino con Yehudà. Il bambino romano crebbe fino a diventare l'imperatore Antonino, e lui e Rabbi Yehudà godettero di un'amicizia permanente. A quanto raccontato nel Talmud, si incontrarono in Galilea, dove si trovava il principale insediamento ebraico dopo la distruzione del Bet Ha-Mikdàsh. L’identità di questo imperatore non è nota anche perché vi furono sei imperatori con questo nome. Il professor Avi Yonà scrive che non poteva essere né Antonino Pio né Commodo, perché non visitarono mai Eretz Israel. I soli contemporanei furono Marco Aurelio e Caracalla figlio di Settimio Severo. Marco Aurelio disprezzava gli ebrei. Rimane quindi Caracalla il cui nome era Marcus Aurelius Antoninus, che fu nominato co-imperatore nel 198 e dopo la morte del padre regnò tra il 211 e 217 E.V. (È anche possibile che si tratti di Settimio Severo che pur non chiamandosi Antonino, quando assunse il manto dell’impero si adottò alla dinastia degli Antonini). R. David Meldola (Livorno, 1714-1818?, Amsterdam) nel suo commento Darkè David, cita altri midrashìm. Nel Midràsh Bereshìt Rabbà (63) è scritto: “Due popoli nel tuo ventre, sono due sovrani di nazioni; uno è sovrano del suo mondo e l’altro sovrano del suo regno. L’imperatore Adriano tra le nazioni e re Salomone in Israele”. R. Meldola suggerisce che i Maestri citarono Adriano perché fu durante il suo regno che Roma raggiunse il suo apice. Dopo di lui iniziò la decadenza dell’impero. Così pure re Salomone fu l’apice del regno d’Israele. Ed è anche possibile che i Maestri citarono Adriano perché fu lui che distrusse Betar, l’ultima fortezza durante la rivolta di Bar Kokhbà, e diede l’ordine di proibire la circoncisione, e fu seguito dalla dinastia degli Antonini.
(Shalom, 17 novembre 2023)
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Parashà della settimana: Toledot (Generazioni)
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Operazione spade di ferro giorno 41. Il passo lento della guerra e il fronte politico
di Ugo Volli
• Una guerra lunga
Le guerre in genere sono lunghe, ripetitive, confuse. Pochi, anche di quelli che vi partecipano, hanno uno sguardo complessivo su quel che accade davvero. Salvo la Guerra di Indipendenza, che durò un anno e mezzo, Israele nella sua storia si è abituato a guerre veloci e manovrate, a veloci avanzate e a battaglie fra carri e aerei che si risolvevano nel giro di qualche giorno o un paio di settimane. Ne ha dovuto fare tante nei suoi settantacinque anni di vita: quattro contro gli stati arabi, due maggiori in Libano, cinque operazioni a Gaza, almeno tre grandi campagne terroristiche (la “guerra d’attrito” fra il ’67 e il ’70, la cui base principale era proprio Gaza, governata allora dall’Egitto, e le due “intifade”). Molte sono state assai più costose dal punto della vita dei soldati, e dall’inizio più rischiose per l’esistenza stessa del Paese. Questa, arrivata ormai alla sesta settimana, è meno manovrata, più lenta nei suo sviluppo, condotta in maniera sistematica e progressiva. A differenza di tutti i conflitti sostenuti dopo la guerra del Kippur, essa si basa di nuovo su un’idea chiara di vittoria, cioè la liquidazione completa del terrorismo da Gaza, e non si limita alla “riaffermazione della deterrenza” che era la dottrina militare delle recenti operazioni di Gaza. I caduti sono parecchie decine, persone preziose che hanno sacrificato la vita per il loro Paese, di cui ciascuno ha una storia, lascia dei parenti affranti e un futuro spezzato, ma finora grazie alla tattica prudente e sistematica usata dall’esercito, per esempio grazie ai lunghi bombardamenti preventivi, essi sono relativamente pochi, meno di un decimo delle vittime della strage terrorista del 7 ottobre. E bisogna dire che anche le vittime civili di Gaza, coinvolte per la criminalità dei loro dirigenti terroristi in un conflitto che Israele non voleva e non prevedeva, sono relativamente poche per una guerra coinvolta in un ambiente urbano: dei circa 11 mila morti denunciati dal “ministero della salute” di Hamas, molto probabilmente fra i due terzi e i tre quarti sono terroristi.
• Ancora l’ospedale
Della ripetizione fa parte l’insistere sugli stessi punti nel lavoro di ricerca dei terroristi e delle loro strutture. Dopo essere entrati l’altro ieri in certi reparti dell’ospedale Shifa, reperendo un centro di comando e programmazione terrorista con armi e materiali militari vari, che sono stati mostrati ai giornalisti, e anche tracce dei rapiti ma purtroppo non loro stessi, nella notte scorsa i militari israeliani sono entrati dall’altro lato del complesso dell’ospedale, quello meridionale, fra l’altro accompagnati dai grandi bulldozer che hanno iniziato a scavare nei cortili alla ricerca delle gallerie dei terroristi. Durante le perquisizioni all'interno di uno dei reparti dell'ospedale, i militari israeliani hanno individuato una stanza contenente mezzi tecnologici unici, attrezzature da combattimento ed equipaggiamento militare utilizzati dall'organizzazione terroristica di Hamas. Probabilmente sentiremo parlare a lungo di questo ospedale, come degli altri, perché le strutture terroriste più importanti sono state criminalmente nascoste nel suo sottosuolo, e l’esercito deve scoprirle, conquistarlo o smantellarle.
• L’azione sul territorio
Continuano anche le ispezioni e lo smantellamento della struttura terroristica in varie località al nord della Striscia. La novità è che l’esercito ha iniziato a diffondere volantini nella parte orientale (verso il confine israeliano) della città meridionale di Khan Yunis, invitando gli abitanti ad abbandonare le loro case per la loro sicurezza e a rifugiarsi verso la grande tendopoli che ormai sorge a sudovest, fra il valico di Rafah (con l’Egitto) e il mare. Questo vuol dire che anche la zona sudorientale della Striscia, dove si trova la terza sezione della rete dei tunnel, sta per essere conquistata, per smantellarvi le strutture terroriste. Continuano anche occasionalmente, con il solito valore soprattutto simbolico, le azioni di disturbo provenienti dallo Yemen (tre salve di razzi abbattuti ieri) dal Libano e dalla Siria, come anche dalle città arabe di Giudea e Samaria. Contrariamente alle speranze dei terroristi, questa volta non si è aperto un fronte interno con gli arabi israeliani, forse anche perché pure alcuni di loro sono stati colpiti dai terroristi il 7 ottobre.
• Il fronte politico
I media e le manifestazioni “pacifiste” (alcune in sostanza filoterroriste) continuano a invocare il cessate il fuoco come soluzione della guerra e del problema degli ostaggi - il che alla luce dell’esperienza è del tutto irrealistico. Sulla stampa si susseguono notizie di “quasi accordi” per una tregua e contemporaneamente di dissensi fra Israele e il suo principale alleato, gli Usa. Ma probabilmente per il momento sono “fake news” più o meno interessate o in buona fede. Il cancelliere tedesco Scholz ha dichiarato ieri di non vedere l’opportunità di un cessate il fuoco in questo momento. E anche Biden ha fatto un’intervista che vale la pena di riportare largamente: "Hamas ha commesso crimini di guerra quando ha operato dall'ospedale, gli israeliani non sono entrati con grandi forze, abbiamo parlato con loro della necessità di prestare particolare attenzione. Hamas ha già detto pubblicamente che intende attaccare di nuovo come ha fatto, quando ha decapitato neonati e bruciato vivi bambini e donne - pensare che si fermeranno semplicemente e non faranno nulla è irrealistico, usano tunnel per entrare [...]". Al Presidente è stato chiesto quanto durerà la guerra e quando finirà. "Quando Hamas non avrà più la capacità di uccidere e fare cose orribili agli israeliani. [...] L’esercito israeliano capisce che è obbligato a stare attento [a evitare di colpire i civili], non è come i russi che sparano alla gente indiscriminatamente. Hamas sta pianificando un nuovo attacco ed è un terribile dilemma cosa fare in una situazione del genere. Israele corre il rischio che la sua gente venga uccisa in questa operazione. Ma una cosa è chiara: Hamas ha un Quartier Generale sotto l'ospedale".
(Shalom, 16 novembre 2023)
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Israele: Agenzie ONU "complici" dei crimini di guerra di Hamas
"Ora che vi abbiamo colto in flagrante, potete trovare la forza di condannare Hamas?", afferma un portavoce dell'Ufficio del Primo Ministro israeliano.
di David Isaac
Martedì Israele ha condannato duramente le organizzazioni internazionali per non aver agito nel corso degli anni mentre Hamas trasformava gli ospedali di Gaza in basi del terrore.
"Per troppo tempo le agenzie e i funzionari internazionali sono stati tacitamente complici dell'abuso degli ospedali di Hamas come scudi umani", ha dichiarato il portavoce dell'Ufficio del Primo Ministro Eylon Levy durante un briefing con la stampa.
Chiediamo a loro piena responsabilità". Cosa sapevate? Perché non avete detto nulla? Perché continuate a fare propaganda per Hamas invece di fare il vostro lavoro?", ha chiesto.
Il portavoce del PMO ha individuato Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), e il sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari e coordinatore degli aiuti di emergenza Martin Griffiths per una censura speciale.
I due hanno criticato le operazioni delle Forze di Difesa Israeliane nei pressi dell'ospedale di Al Shifa, a Gaza City, mercoledì: Ghebreyesus ha twittato che "le notizie di incursioni militari nell'ospedale di Al Shifa sono profondamente preoccupanti" e Griffiths ha scritto di essere "sconvolto dalle notizie di incursioni militari nell'ospedale di Al Shifa".
Levy ha ribattuto: "No, ciò che è preoccupante è che Hamas abbia messo il suo quartier generale nel seminterrato e che voi lo stiate coprendo. No, quello che è spaventoso è che Hamas ha dirottato istituzioni protette e le agenzie delle Nazioni Unite non hanno fatto nulla".
"Al polpettone di parole di agenzie internazionali complici dei crimini di guerra di Hamas diciamo: La vostra negligenza ha messo a rischio vite umane ed è costata vite innocenti. Ora che vi abbiamo colti in flagrante, potete trovare la forza di condannare Hamas? Dimenticatevi di noi: avete deluso il popolo palestinese. Avete deluso il mondo. Avete tutti fallito nel vostro lavoro", ha detto Levy.
Il ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen ha espresso il suo disappunto nei confronti di Ghebreyesus durante un incontro con il direttore dell'OMS a Ginevra, martedì. Ha detto che l'uso degli ospedali da parte di Hamas è stato "un clamoroso fallimento" per l'OMS e le altre organizzazioni delle Nazioni Unite.
"Sotto il naso di queste organizzazioni, è stata creata la più grande infrastruttura terroristica del mondo", ha detto Cohen. Ha chiesto che l'OMS segua l'Unione Europea nel riconoscere che Hamas usa gli ospedali e i civili come scudi umani.
Invece, mercoledì Ghebreyesus ha pubblicato un video su X, ex Twitter, in cui condannava l'operazione militare di Israele all'ospedale. "L'incursione militare di Israele nell'ospedale Al Shifa di Gaza è totalmente inaccettabile. Gli ospedali non sono campi di battaglia", ha dichiarato.
Il diritto internazionale non concede l'immunità totale ai terroristi solo perché si nascondono in mezzo a un ospedale, quando gli ospedali sono usati come basi per attività militari. Perdono il loro status di protezione dopo che è stato dato un avvertimento ed è stato ignorato".
Ha aggiunto: "Prendiamo [il diritto internazionale] molto seriamente, molto più seriamente di coloro che fingono che esso dia l'immunità ad Hamas perché non vogliono che Israele si difenda dalle menti genocide del 7 ottobre. Sappiamo cosa dice il diritto internazionale. Conosciamo i nostri obblighi e i nostri diritti".
Israele sostiene da tempo che Hamas abbia usato Al Shifa come centro di comando, sostenendo che il gruppo terroristico abbia scavato un vasto complesso di tunnel sotto il complesso dell'ospedale per fungere da quartier generale sotterraneo.
Martedì gli Stati Uniti hanno appoggiato la rivendicazione di Israele. Il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale, John Kirby, ha dichiarato che "una serie di metodi di intelligence" confermano che Hamas ha utilizzato gli ospedali di Gaza, tra cui Al Shifa, come centri di comando e depositi di munizioni.
Le unità dell'esercito israeliano che operano intorno ad Al Shifa hanno rivelato mercoledì di aver trovato armi, tecnologia militare e informazioni di intelligence nel complesso.
Il fatto che Hamas utilizzi Al Shifa per scopi terroristici potrebbe rivelarsi il segreto peggiore custodito nella Striscia di Gaza.
Dave Harden, ex direttore della missione dell'Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) in Cisgiordania e a Gaza, ha twittato mercoledì che "già nel 2014 si sospettava che Hamas usasse il complesso ospedaliero di Al Shifa come centro di comando e base operativa".
"Non ho avuto prove dirette, ma è stato riconosciuto sia da palestinesi che da israeliani fidati nella mia rete. Inoltre, Hamas usava le ambulanze per spostare la sua gente. Questo si basava sulle mie conversazioni con l'allora capo del @ICRC [Comitato Internazionale della Croce Rossa]", ha twittato.
Le agenzie ONU che operano a Gaza sono da tempo accusate di corruzione. L'UNRWA, l'Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l'Occupazione dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente, la più grande organizzazione dell'ONU nella Striscia di Gaza, ha un organico composto da lealisti di Hamas, secondo Kobi Michael, ricercatore senior presso l'Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale (INSS) di Tel Aviv.
Michael, coautore di un rapporto sull'UNRWA nel 2020, ha dichiarato a JNS: "L'UNRWA è un'organizzazione molto problematica. È completamente controllata da Hamas. Hamas utilizza le strutture dell'UNRWA per il deposito di armi e per il lancio di razzi. Tutti gli impiegati locali dell'UNRWA sono persone di Hamas. Nessuno può lavorare all'UNRWA senza il permesso di Hamas".
(Israel Today, 16 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Nel kibbutz di Sasa, dove si vive «in allerta»
Al confine con il Libano Solo 50 abitanti rimasti, tutti armati: «Pronti a difenderci».
SASA - Un uomo sui 65 anni con una mano tiene il fucile e con l'altra punta l'indice tracciando da lontano il percorso della technical fence, la recinzione elettrificata che lo separa dal Libano per un chilometro e duecento metri: «Ci è stato riferito che da cinque anni i miliziani hanno cominciato in segreto dall'altra parte a scavare dei tunnel per sbucare qui vicino. Noi ci addestriamo ormai quasi tutti i giorni, bisogna essere pronti», dice al cronista dell'ANSA.
Dal 7 ottobre il sud e il nord di Israele sono due poli che si attraggono, sempre più calamitati dalla paura di un nuovo attacco, stavolta dal confine col Libano, ma con gli stessi metodi usati dai terroristi quaranta giorni fa. È stato allora che venticinque membri del kibbutz di Sasa nell'area dell'Alta Galilea, zona settentrionale del Paese, hanno ricevuto la 'chiamata numero 8', una telefonata che segnala lo stato di emergenza per quei civili che improvvisamente, anche restando all'interno delle proprie case, diventano soldati.
«Qui vivevano cinquecento persone, ma sono state quasi tutte evacuate e ne sono rimaste una cinquantina, per presidiare il posto e portare avanti le nostre attività», racconta Yehuda Calò Lìvne, neo responsabile della sicurezza del luogo. Agli uomini i kalashnikov e alle donne la pistola, Ma sua moglie.Angelica Calò Livne di origini italiane, non nasconde comunque i timori: «La nostra è l'ultima casa tra le villette a schiera del kibbutz e la prima al confine con il Libano, saremmo i più esposti nel caso di un assalto», Come se non bastasse, tre dei suoi quattro figli maschi sono stati arruolati per la guerra a Gaza, Intanto sull'altura dell'ingresso del kibbutz gli uomini al cancello entrano ed escono dal gabbiotto impegnati dall'andirivieni dei trattori e camion carichi di mele e kiwi, perché il lavoro prosegue ma ormai le misure di controllo sono simili a quelle di un check point. Nel kibbutz, dopo essere stato in gran parte sfollato, c'è un via vai di militari dell'Idf, ospitati per i pasti nella mensa del villaggio e qualche momento di pausa. I 120 km della linea blu presidiata dall'Onu che si snodano lungo la frontiera sono violati continuamente, Lo testimonia il cielo sopra Sasa, che tuona anche senza nuvole: i detriti dei razzi lanciati da Hezbollah e intercettati dall'Iron dome israeliano piovono per tutta la giornata, per fortuna distanti, mentre nelle ultime ore Israele ha ricominciato a colpire le postazioni da cui arrivano i tiri.
(Gazzetta di Parma, 16 novembre 2023)
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Ci deve essere solo un obbiettivo per questa guerra
di Nave Dromi
Nell’aprile del 1920 nacque il terrorismo arabo palestinese. Lo stesso vale per la semplice formula, così efficace nel secolo successivo, di massacrare gli ebrei per poi trovare delle scuse.
In quell’anno, quando Pesach coincise con la festa musulmana di “Nabi Musa”, iniziata con i sanguinari sermoni religiosi di Haj Amin al-Husseini, decine di migliaia di arabi si ribellarono e massacrarono gli ebrei in tutta la Città Vecchia di Gerusalemme, mentre cantavano “La Palestina è la nostra terra, gli ebrei sono i nostri cani!” (Non erano ancora palestinesi omonimi, ma solo arabi che vivevano nella regione della Palestina così chiamata dai romani, altrimenti conosciuta come Siria meridionale.)
Piuttosto che attribuire la colpa del massacro agli arabi, il mondo cercò di trovare delle scuse e di placarli quando le potenze mandatarie britanniche nominarono al-Husseini Gran Mufti di Gerusalemme, nonostante fosse chiaramente e legalmente implicato nello spargimento di sangue.
Come è ormai noto, al-Husseini trascorse gran parte della Seconda Guerra Mondiale come fedele alleato di Hitler, dei nazisti e fu un sostenitore dello sterminio di sei milioni di ebrei.
Sfortunatamente, allora come oggi, il mondo sentì il bisogno di mitigare la violenza araba acquiescendo alle loro scuse e alle loro pretese di vittimismo.
Migliaia di ebrei sono stati brutalmente massacrati nel corso dell’ultimo secolo, ma la colpa è stata stranamente attribuita alle vittime.
In modo scandaloso, dopo il pogrom del 7 ottobre, quando oltre 1.400 israeliani sono stati brutalmente assassinati, i bambini bruciati, le donne mutilate e profanate e 240 brutalmente rapite, c’è ancora chi trova delle scuse per lo spargimento di sangue.
Anche se Israele stava ancora cercando disperatamente di identificare e seppellire i propri morti, il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres affermava che il festival dell’eccidio “non è avvenuto nel vuoto”.
Sfortunatamente, come quasi ogni persona che commenta il conflitto arabo israelo-palestinese, Guterres o ignora la sua storia o sta semplicemente cercando di trovare una giustificazione e di placare gli arabi.
A loro piace dare la colpa del terrorismo all'”occupazione”, alle politiche dello Stato di Israele nei confronti degli arabi palestinesi o a ciò che accade sul Monte del Tempio.
Nessuna di queste, e una miriade di altre scuse, resistono alla prova della logica, dei fatti o della storia.
Se il terrorismo fosse una reazione al controllo israeliano dei territori conquistati nel 1967, quale giustificazione c’era per l’attacco terroristico omicida dell’11 aprile 1956 a Shafrir (Kfar Chabad), quando tre bambini e un operatore giovanile furono uccisi e cinque feriti, quando i terroristi aprirono il fuoco su una sinagoga piena di bambini e di adolescenti?
Se il terrore è stato una reazione alle politiche dello Stato di Israele nei confronti dei palestinesi durante o dopo la Guerra d’Indipendenza del 1948, quale scusa c’era per il massacro di 67 ebrei a Hebron il 23 agosto 1929, mentre gli arabi massacravano i vicini ebrei con cui avevano avuto buoni rapporti, con le proprie mani?
L’elenco potrebbe continuare, ma il punto è chiaro.
Questo contesto non è ciò che presumibilmente avrebbe fomentato il terrorismo; sono tutte menzogne.
Il terrorismo arabo palestinese non è mai stato reattivo; è opportunistico.
Il contesto è che il violento rifiuto arabo-palestinese non ha confini, né ha un programma politico limitato, al di là dell’assassinio e del massacro di massa degli ebrei.
Potrebbe essere perpetrato solo dalla minoranza, ma è celebrato dalla maggioranza.
Mentre il focus della guerra attuale potrebbe essere Hamas, che ha perpetrato il massacro, la sua controparte, Fatah, il partito del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, ha fatto il tifo in prima linea.
Secondo Palestine Media Watch, i funzionari di Fatah il 7 ottobre si sono rivolti così ai propri seguaci: “Allahu akbar” (cioè “Allah è il più grande”), venite al jihad, venite al jihad. A tutti i nostri figli e fratelli delle forze di sicurezza palestinesi [AP] in tutta la “Cisgiordania”: oggi è il vostro giorno. Irrompere negli insediamenti, colpire i figli delle scimmie e dei maiali…massacrare tutti gli israeliani, per Allah, sono i più codardi tra gli uomini. Oggi è l’annuncio dei giorni della vittoria, se Allah vuole – perché questo è jihad, jihad, vittoria o martirio”.
Affinché Israele possa vincere questa guerra, non deve limitarsi a sconfiggere Hamas a Gaza, ma deve distruggere una volta per tutte il violento rifiuto arabo palestinese. È alla base di tutta la violenza, gli spargimenti di sangue e il terrorismo da oltre un secolo.
Da al-Husseini, passando per Yasser Arafat, fino a Khaled Meshaal e Mahmoud Abbas, tutti hanno trasmesso lo stesso messaggio anche se confezionato in modo diverso.
L’Occidente è impegnato a preparare la strada affinché Abbas possa prendere il controllo di Gaza dopo che Hamas è stato rovesciato, ma ciò significherà semplicemente sostituire il simile con il simile.
Abbas incita costantemente gli arabi palestinesi all’odio e all’omicidio, paga i terroristi in base al numero di ebrei che uccidono e commemora gli assassini di massa come eroi per la prossima generazione. Abbas non è la soluzione, ma è in gran parte parte dello stesso problema.
- Affinché Israele possa dichiarare vittoria, deve sradicare e avere tolleranza zero nei confronti del violento ripudio arabo-palestinese.
- Deve sconfiggere tutti i gruppi terroristici, qualunque sia il loro nome.
- Israele dovrebbe spezzare la volontà dei leader arabi palestinesi affinché abbandonino il loro Jihad, attraverso mezzi militari, economici, politici o diplomatici.
- Devono essere costretti ad accettare la permanenza dello Stato ebraico nella sua patria ancestrale e indigena.
Questo è l’unico modo per seppellire finalmente il violento rifiuto arabo palestinese e porre fine una volta per tutte al conflitto che dura da oltre 100 anni.
Questo dovrebbe essere il vero obiettivo di questa guerra.
(L'informale, 16 novembre 2023)
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La leadership saudita. I paesi arabi sono più interessati a Israele che alla questione palestinese
La proposta dell’Iran di imporre un embargo petrolifero allo Stato ebraico ha trovato scarso appoggio politico: dal Nord Africa al Golfo, gli antisionisti hanno scoperto di essere in minoranza, a conferma di una frattura radicale nel mondo islamico voluta da Ryad (che è ben contenta della sconfitta di Hamas).
di Carlo Panella
Embargo contro Israele. Cinquant’anni fa, di questi giorni, i Paesi arabi – nel pieno della guerra del Kippur di Egitto e Siria contro Israele, quando questi stava per vincere e travolgerli – sganciarono la “bomba atomica nera”, chiusero i pozzi di petrolio e lasciarono il pianeta a secco. Uno choc epocale: il Brent passò da due a undici dollari al barile. Un aumento di più del cinquecento per cento. Ariél Sharon, che era con le sue colonne di carri armati alle porte del Cairo, indifeso, si dovette fermare e fu costretto a tornare indietro. La solidarietà araba si impose su un Occidente attonito e a piedi, con i serbatoi a secco. Israele, a un passo da una vittoria epocale, definitiva, si dovette ritirare. Il pianeta scoprì la forza di una solidarietà araba che aveva strozzato la sua giugulare energetica, il petrolio.
Sabato scorso, a Ryad, nella riunione di tutti i Paesi islamici e arabi – un inedito di valenza storica – più della metà dei Paesi arabi si è unita all’Iran degli ayatollah per ritentare il colpo, in piccolo, in molto piccolo: un embargo petrolifero e energetico contro Israele. Dunque, la fine della collaborazione metanifera tra Il Cairo e Gerusalemme. Questi Paesi arabi oltranzisti – tutti, non a caso filorussi, Algeria e Siria in testa – hanno anche chiesto la rottura dei rapporti diplomatici con Gerusalemme dei sei Paesi arabi che hanno riconosciuto il diritto a esistere della “entità sionista”.
Nulla di fatto, i Paesi arabi e islamici oltranzisti, sono finiti in minoranza. L’aria è cambiata. Il blocco di alleanze di Paesi intenzionati a non rompere affatto con Israele, costruito dall’Arabia Saudita, si è imposto nel consesso internazionale più ostile allo Stato degli ebrei che si possa immaginare.
Seguendo una tipica tradizione araba, la prima “storica” riunione tra Lega Araba e Organizzazione della Cooperazione Islamica, si è limitata quindi a una più che virulenta sequenza di invettive contro «i crimini di guerra israeliani», a un mafioso «baciamo le mani ad Hamas» del presidente iraniano Ebrahim Raisi, e a un sostanziale nulla di fatto quanto a ritorsioni. Il tutto si è risolto con un embargo delle armi dai Paesi arabi a Israele – ma in realtà è Israele che le vende a loro, non il contrario – e una platonica richiesta alla Corte Penale Internazionale a sanzionare i crimini israeliani.
Nel consesso ha dominato l’evidente disinteresse arabo sostanziale nei confronti della questione palestinese sulla quale non si è neanche trovato un accordo di facciata. La riunione sul tema si è spaccata in tre. Ebrahim Raisi ha caldeggiato la «scomparsa di Israele dalla faccia della terra». I sei Paesi arabi che hanno riconosciuto Israele non hanno nessuna intenzione di tornare indietro, anche se hanno rivolto accuse feroci per i crimini di guerra compiuti a Gaza e infine gli altri Paesi attendono di capire la posizione dell’Arabia Saudita. Posizione che è emersa con chiarezza, seppure in sottofondo.
Mohammed bin Salman è di fatto ben contento della piena sconfitta di Hamas a Gaza, attende compiaciuto che Israele faccia il lavoro sporco, e aspetta che passi la tempesta per riprendere e concludere la trattativa per l’accordo triangolare strategico con gli Stati Uniti e Gerusalemme che la crisi di Gaza ha solo sospeso.
Ennesima conferma di una frattura radicale nel mondo islamico e di una polarizzazione antagonista assoluta tra le strategie di Ryad e quelle di Teheran. Il tutto, però, in un contesto inedito, segnato dall’emergere del ruolo primario e assolutamente innovativo acquisito da Mohammed bin Salman. Ha avuto infatti pieno riscontro e successo la sua nuova strategia “di Westfalia”: la ricerca di soluzioni algebriche, ricomponibili con le trattative, e non jihadiste alle fortissime tensioni con l’Iran.
Con la riunione di Ryad, Mohammed bin Salman ha dunque inaugurato un tavolo comune, un luogo, una istituzione in cui, se possibile, stemperare le tensioni inter-islamiche e inter-arabe. Una novità di assoluto rilievo dopo più di dieci anni di guerre per interposta persona sui vari scacchieri tra Arabia Saudita e Iran. Il Medio Oriente è cambiato.
(LINKIESTA, 16 novembre 2023)
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Il filosofo Habermas prende posizione a favore di Israele: “Reazione giustificata”
La breve dichiarazione richiama già nel titolo un principio sacro su cui per anni, secondo il filosofo della Scuola di Francoforte, rischiò di infrangersi l’Europa: “Fondamenti di solidarietà”.
di Tonia Mastrobuoni
BERLINO — «Le azioni di Israele non giustificano in alcun modo reazioni antisemite, e tanto meno in Germania». Sull’infuocato dibattito scoppiato nel Paese che si macchiò ottant’anni fa della Shoah è intervenuto adesso il più grande filosofo vivente,
Juergen Habermas
. L’allievo di Adorno e Gadamer che criticò ripetutamente Angela Merkel per l’austerità inflitta alla Grecia ha firmato una lettera con i politologi Nicole Deitelhoff e Rainer Forst e il giurista Klaus Guenther. La breve dichiarazione richiama già nel titolo un principio sacro su cui per anni, secondo il filosofo della Scuola di Francoforte, rischiò di infrangersi l’Europa: “Fondamenti di solidarietà”.
Scopo della lettera, apparsa sul sito del centro di ricerca francofortese Normative Orders, è esprimere solidarietà a Israele e affermare che alcuni principi «non dovrebbero essere in discussione». Il massacro di Hamas del 7 ottobre, definito «di una crudeltà insuperabile», e «volto esplicitamente a cancellare la vita ebraica in generale», ha scatenato una reazione israeliana che gli autori ritengono «giustificata, in principio».
Certo, preoccupa il massacro incessante di civili a Gaza, e bisognerebbe costruire «una prospettiva di pace». Ma qualsiasi riflessione sul conflitto a Gaza non dovrebbe mai sfociare in uno «slittamento della misura del giudizio» tale da indurre a pensare che Israele intenda compiere contro i civili palestinesi un genocidio. Le due cose, ossia l’eccidio di
Hamas
e i massacri a Gaza, sostiene
Habermas
, non sono paragonabili, perché la reazione israeliana non è uno sterminio intenzionale.
Com’era avvenuto nelle scorse settimane con l’intervento fondamentale del vicecancelliere verde
Robert Habeck
, che aveva espresso la sua vicinanza a Israele rivolgendosi soprattutto alla sinistra e ai tedeschi, anche Habermas sembra guardare soprattutto alla Germania e ai veleni che stanno tornando a inquinare la vita pubblica tedesca. Niente può giustificare reazioni antisemite, si legge nella lettera, «tanto meno in Germania. È insopportabile che gli ebrei siano di nuovo esposti a minacce fisiche e che debbano avere paura di essere aggrediti per le strade. Alla coscienza democratica e imperniata sul rispetto dei diritti umani che fonda la Repubblica federale si lega una cultura politica che alla luce dei crimini di massa del nazismo riconosce alla sopravvivenza degli ebrei e all’esistenza di Israele un valore centrale e da proteggere in modo particolare. Il sostegno a questi principi è fondamentale per la convivenza politica».
(la Repubblica, 15 novembre 2023)
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La documentazione americana. L’ospedale Shifa è una base terrorista
di Ugo Volli
La battaglia degli ospedali è entrata nel vivo. Ieri l’amministrazione americana aveva confermato con una conferenza stampa che anche l’intelligence Usa ha le prove che sotto il principale ospedale della città di Gaza, lo Shifa, vi è il centro di comando militare di Hamas, con depositi d’armi, caserme, centri di comunicazione, residenze dei leader, tutti scavati profondamente sotto l’ospedale, in modo da usare medici e pazienti come scudi umani e mimetizzare l’attività militare nell’ospedale, un’istituzione che per il suo carattere sanitario è oggetto di protezione particolare in ogni conflitto armato. Bisogna ricordare che questo comportamento è di per sé un crimine di guerra, che di conseguenza, secondo la legge internazionale, toglie all’ospedale la sua intangibilità, trasformandolo in un obiettivo militare legittimo. Del resto vi è abbondante documentazione che da sempre i gruppi terroristici palestinesi sfruttano la protezione medica, usando le ambulanze come trasporto di truppe e armi e travestendo i singoli terroristi, che in genere non portano divisa e si mescolano in mezzo alla popolazione civile, da medici o infermieri.
• Shifa circondata
Ieri i carristi israeliani hanno circondato il complesso dell’ospedale Shifa, che è piuttosto vasto; avevano già offerto alla direzione dell’ospedale dei rifornimenti di carburante per far funzionare i generatori elettrici necessari per far funzionare gli apparati medici, ma questa proposta è stata rifiutata per ordine di Hamas. Hanno anche indicato di nuovo delle vie di fuga per mettere in salvo medici e i pazienti in grado di muoversi o essere trasportati, e anche questo provvedimento umanitario si è realizzato solo in parte, perché ostacolato dei terroristi, che traggono utilità dagli scudi umani sia per rendere più difficoltose le operazioni dell’esercito, sia come strumento propagandistico per poter incolpare Israele. Le forze israeliane sono riuscite comunque a recapitare all’ospedale attrezzature e materiali medici.
• L’ingresso dei militari nell’ospedale
Infine nella notte scorsa forze militari israeliane sono entrate in una parte dell’ospedale, dove informazioni di intelligence avevano rivelato la presenza anche in superficie di forze terroriste, con cui c’è stato uno scontro a fuoco. Un avviso dell’operazione era stato anche dato alla direzione dell’ospedale, per garantire l’incolumità di sanitari e malati, anche a costo di allarmare i terroristi e di perdere il fattore sorpresa, mettendo assai più a rischio i soldati. Le forze militari includono squadre mediche e persone di lingua araba, che hanno seguito una formazione specifica per prepararsi a questo ambiente complesso e sensibile, con l'intento che non venga causato alcun danno ai civili utilizzati da Hamas come scudi umani. Come ha informato una fonte locale legata alla Federazione delle Associazioni Italia Israele, i militari israeliani hanno diffuso un ultimatum ad arrendersi per i terroristi presenti nell’ospedale: la resa dei terroristi è ormai diffusa, soprattutto perché sono stati eliminati i loro comandanti. Durante gli scontri sono stati liquidati cinque terroristi in armi. L’operazione prosegue anche nella giornata di oggi. Si tratta di un momento cruciale della guerra, proprio perché sotto gli ospedali vi è il nucleo direttivo dell’apparato terrorista.
• La battaglia sotterranea è solo agli inizi
Non bisogna pensare che la conquista della superficie dell’ospedale comporti la presa di questo nodo centrale della “metropolitana” terrorista di Hamas, fornito di collegamenti e pozzi di uscita distanti anche diversi chilometri dal centro. Anche al nord della striscia, che ormai Israele ha conquistato in superficie e dove sono stati distrutti circa 200 pozzi che portavano alle istallazioni sotterranee, danneggiando buona parte delle relative gallerie, continuano a emergere gruppi di terroristi che cercano di prendere i soldati alle spalle. Nella notte, militari della brigata Nahal hanno fatto irruzione nella base di Kashrut di Hamas (il loro centro di addestramento) dove hanno trovato tunnel, armi e mezzi bellici di vario tipo, tra cui razzi e mezzi di intelligence. Inoltre, un aereo di sorveglianza ha identificato alcuni terroristi che uscivano da una base di lancio anticarro nascosta in una casa, sempre nel nord di Gaza che portavano borse esplosive in direzione delle forze israeliane. L'aereo ha seguito i terroristi e ne ha eliminati due.
• Le trattative per gli ostaggi
Anche ieri si sono diffuse voci che danno per fatto lo scambio fra Israele e terroristi. Hamas rilascerebbe un centinaio di bambini e donne che ha rapito e continua a detenere (orribile crimine di guerra, bisogna ribadire, che i terroristi ammettono per lo stesso fatto di intavolare la trattativa sulla loro liberazione e che i loro sostenitori e in genere i “pacifisti” in occidente ignorano). In cambio vuole altrettanti terroristi, che però non sono stati rapiti ma regolarmente arrestati e condannati da tribunali e in più pretende una tregua sul terreno di cinque giorni. Israele considera la liberazione dei rapiti un obiettivo importantissimo e continua a ricercarli in ogni modo, offrendo ricompense, usando mezzo di intelligence umana e tecnologica. Ma interrompere l’operazione per alcuni giorni (e poi non poterla probabilmente riprendere) assicurerebbe l’impunità dell’apparato centrale dei terroristi e dunque la sopravvivenza di Hamas. Quella in corso è una guerra asimmetrica: per Israele la vittoria è assicurare la pace dei suoi cittadini, in particolare quelli intorno alla Striscia, e dunque l’eliminazione totale dei terroristi; per Hamas, Jihad Islamica e altri movimenti terroristici, la semplice sopravvivenza di nuclei delle organizzazioni è la vittoria, perché consentirebbe loro di riorganizzarsi e ripetere il 7 ottobre, come hanno molte volte pubblicamente ribadito. Per capire questa strana trattativa sempre annunciata da fonte vicine ai terroristi e mai conclusa, bisogna tener presente questa fondamentale asimmetria.
(Shalom, 15 novembre 2023)
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Perché Hamas non ha trasferito l’ospedale di Gaza
Israele è in guerra. L’Occidente (o quel che ne rimane) è sotto attacco, ma questa guerra non la vuole fare. Ha paura. Dei tagliagole e dell’opinione pubblica. Certo: il 12 settembre eravamo tutti pronti ad invadere l’Iraq e l’8 gennaio eravamo tutti Charlie Hebdo. Ma questa volta è diverso: questa volta ci sono ‘gli ebrei’ che, ancora oggi, “un po’ se la sono cercata”. Lo ha detto, del resto, anche Guterres. E poi c’è la propaganda: le vittime innocenti! Ed il ritorno di un grande classico: l’ospedale! E poco importa che tutti sappiano, da almeno un decennio, che sotto quell’ospedale c’è il cuore della struttura di comando militare di Hamas.
Nessun giornale che l’ha sbattuto in prima pagina, quell’ospedale (Al-Shifa Hospital a Gaza, ndr), ha avuto la decenza, o forse il coraggio, non tanto di snocciolare tediose e cavillose norme del diritto internazionale sulla definizione, la natura, l’ubicazione e la destinazione di un obiettivo che credo chiunque faticherebbe a non definire militare, ma di osservare una banale evidenza: ogni singolo paziente, ogni singolo medico, ogni singola infermiera ed ogni singolo macchinario in quell’edificio, avrebbe potuto essere trasferito senza alcuna fatica e, ne sono sicuro, senza alcun impedimento da parte di Israele.
Qualunque ospedale nel mondo ha un piano di evacuazione. Esistono le catastrofi naturali, gli incidenti, gli imprevisti. Sarebbe potuto arrivare un terremoto, un’inondazione, un’alluvione. Quella struttura doveva essere in grado di essere trasferita. Senza troppi problemi, mi auguro, considerati i miliardi di dollari che sono piovuti su Gaza, ben prima dell’artiglieria israeliana.
Sono passati 34 giorni. Sono state firmate petizioni per boicottare le istituzioni accademiche Israeliane. In tanti, troppi, hanno preferito accodarsi alla, assurdamente, comoda propaganda di Hamas che ostendeva le incubatrici senza corrente di fronte ai “reporter” (che poi, spesso, si è scoperto essere molto, troppo, vicini alla ‘causa’) e nessuno si è domandato come mai la rete elettrica fosse fuori uso per le incubatrici, ma perfettamente operativa nei bunker di Hamas. Ma del resto, questa volta, si tratta ‘degli ebrei’.
(l'Opinione, 15 novembre 2023)
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Ospedale Gaza, cosa ha trovato Israele: dal centro di comando di Hamas al covo per gli ostaggi
L’esercito dello Stato ebraico mostra le immagini dei sotterranei del nosocomio pediatrico Rantisi di Gaza: "Qui i terroristi nascondevano anche i rapiti"
di Silvia Sfregola
«Sotto l'ospedale pediatrico di Gaza abbiamo trovato un centro di controllo e comando di Hamas». Le forze di Difesa israeliane (Idf) entrano nel nosocomio pediatrico Rantisi, a Gaza, dopo l'evacuazione e, in un video, mostrano le prove di quello che sostengono ormai da giorni: nei sotterranei del presidio ospedaliero c'è una base dei miliziani palestinesi e, proprio là sotto, sarebbero stati nascosti gli ostaggi rapiti il 7 ottobre scorso. «Nei sotterranei abbiamo trovato un comando dei terroristi, giubbotti esplosivi, granate, fucili d'assalto Ak-47, esplosivi, Rpg e altri armi», ha spiegato il portavoce delle forze armate Daniel Hagari nel filmato diffuso dalle Idf. «Abbiamo anche trovato segni indicanti che Hamas ha tenuto ostaggi qui, segnali sui quali si sta indagando», ha aggiunto Hagari. Al 39esimo giorno di guerra a Gaza la situazione è, intanto, sempre più insostenibile attorno all’ospedale di Al-Shifa, che si trova nel centro della città ed è il principale ospedale della Striscia.
Da una parte i medici che denunciano di una «situazione catastrofica» con cure sospese a decine di pazienti e vittime anche tra i sanitari e neonati prematuri fuori dalle incubatrici, dall’altra Israele che ribadisce che Hamas ha all’interno dell’ospedale il suo quartier generale e usa civili come scudi umani.
• La base di Hamas nei sotterranei
«Abbiamo trovato prove che i terroristi di Hamas sono tornati in questo ospedale dopo il massacro del 7 ottobre, dopo aver massacrato gli israeliani nelle loro case. Hamas si nasconde negli ospedali. Oggi le mostriamo al mondo», ha affermato Hagari mostrando una moto, con fori di proiettili, probabilmente usata nell'assalto del 7 ottobre. In una stanza, una sedia con delle corde e abiti femminili a terra. Nel sotterraneo, anche docce e un bagno. Lì vicino pannolini e un biberon. In un'altra stanza, divani e poltrone. Nessuna finestra ma tende ai muri: «Una stanza usata per registrare video», ha spiegato Hagari, mostrando anche un foglio che conterrebbe i turni di guardia dei terroristi. Mentre i combattimenti a Gaza si intensificano e la trattativa per un cessate il fuoco appare sempre più lontana, Israele viene pesantemente criticata per l'assedio al complesso ospedaliero di Al-Shifa. Secondo Tel Aviv Hamas lo starebbe usando come nascondiglio e centro operativo ma le Nazioni Unite hanno ricordato a Israele che questo non li esime dall'obbligo di risparmiare i civili. Gli attacchi contro gli ospedali rappresentano un punto critico del conflitto fino a far rischiare a Tel Aviv di perdere il sostegno internazionale. Dagli Stati Uniti il presidente Joe Biden è tornato a invocare protezione per l'ospedale al-Shifa: «È mio auspicio che vi siano azioni meno intrusive nell'ospedale. L'ospedale deve essere protetto», ha detto ieri il presidente ai giornalisti riuniti nella Sala Ovale.
• La guerra intorno all'ospedale di Al-Shifa e le immagini diffuse dall'Idf
Israele sostiene da tempo che Hamas utilizza case, ospedali e scuole come scudi per i combattenti, in parte perché «il massacro dei civili crea proseliti nel movimento di liberazione palestinese e, poi perché suscita attenzione a livello internazionale» evidenzia la rivista americana Newsweek. «Tuttavia - evidenzia - Tel Aviv avrebbe fornito poche prove a sostegno di una base sotto l'ospedale e sia Hamas che il direttore dell'ospedale Shifa Mohammed Abu Selmia continuano a smentire l'esistenza di un centro di comando sotterraneo».
«Se vediamo i terroristi di Hamas sparare dagli ospedali, faremo quello che dobbiamo fare», ha dichiarato all'Associated Press il portavoce dell'esercito israeliano, il tenente colonnello Richard Hecht. L'elettricità è stata interrotta all'ospedale, secondo il portavoce del ministero della Sanità di Gaza, Ashraf Al-Qidra, che ha spiegato a Reuters che molti pazienti, compresi i neonati, sono morti. Il New York Times ha riferito che migliaia di persone sono fuggite da Al-Shifa durante il fine settimana, e l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato ieri che la situazione è ormai «terribile e pericolosa» per chi è all'interno del nosocomio.
(Il Gazzettino, 14 novembre 2023)
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Hamas ha fatto male i calcoli sul dopo. I documenti
Il piano di Hamas per il dopo non era suicida, era meticoloso e prevedeva di “purificare la storia” dagli ebrei.
di Cecilia Sala
Dopo cinque settimane e mezzo di guerra, dopo che i documenti addosso ai terroristi autori del massacro sono stati analizzati, dopo che decine di miliziani sono stati catturati e interrogati e dopo che i soldati israeliani hanno ispezionato le “sedi istituzionali” di Gaza City, è più chiaro cosa avesse in testa Hamas il 7 ottobre. E che il gruppo avesse sbagliato i calcoli. Quella mattina il capo militare di Hamas a Gaza, Mohammed Deif, disse “il giorno è arrivato”, appellandosi al Libano, allo Yemen, alla Siria, a un pezzo di Iraq, ai palestinesi con la carta d’identità israeliana e a quelli della Cisgiordania. Il pogrom nel sud di Israele doveva provocare, nel giro di poco, una guerra sufficientemente grande da rendere impossibile per Israele difendersi o concentrare le proprie forze nella distruzione di Hamas. E gli Stati Uniti dovevano essere colti di sorpresa.
Il Washington Post ha avuto accesso in esclusiva a una serie di documenti raccolti sul campo e ha scritto che “le prove, secondo funzionari dell’intelligence di quattro paesi sia occidentali sia mediorientali, rivelano che gli ideatori dell’attacco volevano sferrare un colpo storico e contavano su una reazione spropositata israeliana”, che avrebbe dovuto funzionare per infiammare subito gli alleati di Hamas nella regione. La consapevolezza che Israele avrebbe cominciato a bombardare la Striscia con un’intensità senza precedenti non era considerata un limite ma un passaggio indispensabile per arrivare alla distruzione del nemico, una fase successiva della guerra che non si è realizzata e che il 7 ottobre Deif aveva auspicato come “il momento in cui la Storia apre le sue pagine più pure”. I combattenti di Hamas che a centinaia hanno sfondato le recinzioni di Gaza all’alba avevano con sé provviste di cibo e munizioni sufficienti per resistere molti giorni. Un gruppo cospicuo si è staccato dagli altri, indaffarati a uccidere e a rapire, raggiungendo Ofakim, cioè avanzando di venticinque chilometri, coprendo una distanza superiore al diametro di Roma e arrivando a metà strada tra Gaza e la Cisgiordania. Loro marciavano verso i palestinesi governati da Abu Mazen augurandosi che sarebbero insorti vedendoli arrivare, e a giudicare dalle provviste che si trascinavano dietro contavano di riuscire a proseguire verso la Cisgiordania. Quello di Hamas non era un piano suicida, ma studiato per oltre un anno e basato sulla consapevolezza che gli israeliani fossero molto deboli oltre il confine est della Striscia – come effettivamente erano, anche se meno deboli di quanto sperasse Hamas. I morti a Gaza dovevano servire come movente per portare i partner a entrare in guerra. Contemporaneamente gli avanzamenti di Hamas sul terreno dovevano dimostrare alle milizie amiche che Israele era più fragile del previsto e battibile militarmente, a patto di restare tutti uniti.
La segretezza che imponevano i preparativi del 7 ottobre ha, da un lato, permesso a Hamas di sferrare un attacco senza precedenti evitando fughe di notizie che avrebbero allertato lo Shin Bet; dall’altro lato ha reso i capi di Gaza talmente isolati da indurli in errore rispetto a quella che sarebbe stata la reazione del resto del mondo e dei loro stessi alleati. Un analista che conosce molto bene Hamas come Michael Horowitz ha scritto che probabilmente neppure i leader del gruppo all’estero, come Ismail Haniyeh che vive in Qatar, conoscevano il quando e il come dell’attacco. Perché c’è una frattura tra le guide di Gaza (il capo Yahya Sinwar e la mente militare Deif) e i vertici in esilio. I primi, che hanno vissuto in prigione e rischiano le bombe, considerano i secondi utili a reperire risorse ma corrotti e poco affidabili, perché subiscono le pressioni delle autorità nei paesi che li ospitano e li proteggono. Se neppure Haniyeh conosceva il piano, è ancora meno credibile che lo conoscessero in Libano o a Teheran. Se Sinwar e Deif avessero testato prima i propri alleati, forse avrebbero potuto fare previsioni più esatte sul dopo. Teheran oggi fa la faccia feroce ma parla con gli americani attraverso il Qatar mettendo in chiaro che non ha intenzione di morire per Hamas. Hassan Nasrallah ha pronunciato quello che gli esperti hanno definito il discorso meno infuocato nella sua storia di oratore nonostante questi bombardamenti su Gaza siano i più spietati di sempre. Quando lunedì una delle teste di Hamas in Libano ha detto che “se Hamas sarà completamente distrutto, allora Hezbollah entrerà in guerra”, l’intenzione era formulare una minaccia ma la lettura più diffusa è stata: è l’ammissione disperata, da parte di Hamas, che Hezbollah non abbia intenzione di salvarli.
Il Foglio, 15 novembre 2023)
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L'arma segreta dei terroristi: la comunità internazionale
I terroristi palestinesi possono contare sul fatto che la turpitudine morale dell’Occidente li proteggerà dai colpi più pesanti che potrebbero arrivare da Israele.
di Ryan Jones
GERUSALEMME - All'inizio Israele era contento del sostegno incondizionato dei leader occidentali, ma tale sostegno si è rapidamente trasformato in pressioni che potrebbero salvare Hamas.
Alla comunità internazionale piace salvare i terroristi palestinesi.
Lo fa da più di cinquant’anni.
All'inizio degli anni '70, l'OLP di Yasser Arafat si stava affermando come la principale organizzazione terroristica del mondo. Aveva una portata globale e faceva cose che nessun altro gruppo aveva fatto prima, come dirottare aerei e compiere un attentato ai Giochi Olimpici. Tutto al servizio della causa palestinese. E come reagì il mondo? Nel 1974, Arafat fu invitato a parlare all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite e a dire al mondo ciò che voleva.
Con una pistola nella cintura, Arafat si presentò davanti ai rappresentanti della comunità internazionale riuniti e disse loro di accettare il ramoscello d'ulivo che offriva o di affrontare ulteriori violenze terroristiche.
Era lì, armato, e minacciava il mondo con il terrorismo. Avrebbe dovuto essere arrestato all'istante.
Ma il mondo ama troppo un terrorista palestinese per arrestarlo nel suo momento migliore.
Il mondo non è stato in grado di dare ad Arafat ciò che voleva e così ha continuato a distruggere il Libano. Più tardi, dopo che Israele lo ha cacciato da Beirut, Arafat è riuscito a scatenare una rivolta tra gli arabi in Giudea e Samaria. E ancora una volta, invece di porre fine a questa minaccia terroristica, il mondo decise di negoziare con Arafat e di nominarlo presidente!
Riuscite a immaginare un dramma simile nel caso di Osama bin Laden e Al-Qaeda? No, certo che no. Nel momento in cui Al Qaeda è diventata una seria minaccia terroristica con le mani sporche di sangue, c'è stato un solo obiettivo e un solo risultato accettabile: la sua sconfitta ed eliminazione.
Ma i terroristi palestinesi sono qualcosa di speciale, di privilegiato. Proprio come i rifugiati palestinesi, che sono gli unici tra i vari gruppi di rifugiati del mondo ad avere una propria agenzia delle Nazioni Unite.
Nonostante il successo della campagna di pubbliche relazioni che equipara Hamas all'ISIS e ai nazisti, il gruppo rimane fiducioso che la pressione internazionale si concretizzerà prima o poi e li salverà dall'estinzione.
Sebbene gli Stati occidentali si siano espressi a parole sulla necessità di distruggere Hamas, è altamente improbabile che sostengano questa missione fino in fondo.
Il ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen ha dichiarato ieri che le forze israeliane hanno due o tre settimane per raggiungere gli obiettivi principali della loro guerra a Gaza prima che Gerusalemme subisca un'intensa pressione internazionale per accettare un cessate il fuoco.
Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden è passato da una "pausa umanitaria" a un "cessate il fuoco" quasi dall'inizio della guerra di terra.
Hamas deve solo resistere abbastanza a lungo.
Ma questa volta c'è qualcosa di diverso. In Israele c'è qualcosa di diverso. Il Paese è unito e determinato. Il 7 ottobre ha rotto il solito ciclo e ha risvegliato nella psiche israeliana qualcosa che era rimasto sopito fin dai primi decenni della lotta per la sopravvivenza dello Stato ebraico.
Bisogna esserci stati per capire la profondità di questo sentimento. Ma anche da una prospettiva politica superficiale, gli israeliani non accetteranno più di vivere con una minaccia così barbara alle porte di casa o con ostaggi nelle mani del nemico. E qualsiasi governo in una situazione del genere commetterebbe un suicidio politico.
Tutto sommato, è improbabile che tra due o tre settimane, quando il mondo eserciterà la sua forte pressione diplomatica, Israele sarà lo stesso fragile bastone su cui i venti dell'opinione pubblica internazionale soffieranno facilmente.
(Israel Heute, 14 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Perché Israele
Intervento al convegno “Davide doveva farsi uccidere da Golia”. Latina
di Dario Petti
All’indomani del 7 ottobre, quando in Israele furono trucidate in modo orrendo 1.200
persone colpevoli solo di essere ebrei, ho visto immediatamente scendere il gelo
attorno al popolo ebraico e allo Stato di Israele. Ancor prima che vi fosse l’ovvia
reazione della parte offesa ho visto innalzarsi vessilli palestinesi senza una parola di
solidarietà e pietà per quelle povere vittime. Mi sono chiesto come fosse possibile.
Credo convergano oggi tre filoni, quello dell’antisemitismo “storico”, vecchissimo,
fatto di pregiudizi duri a morire, che talvolta vedi riaffiorare sulle labbra di persone
qualsiasi, durante una discussione, in modo sorprendente. Quello dell’ “antipolitica”,
di coloro che abbracciano sempre posizioni avverse a priori a qualsiasi potere o
istituzione “ufficiale”, il neoqualunquismo dove nascono le teorie complottiste. Infine
quello più nutrito, che riempie le piazze, quello ideologico dell’antioccidentalismo, di
chi accusa le “ricche” democrazie occidentali di ogni male contro il “povero” terzo
mondo, esentando gli stati asiatici e africani da qualsiasi responsabilità per la loro
condizione, una semplificazione che spinge verso polarizzazioni molto accese. Si
assiste così a un “corto circuito valoriale” che vede i figli bene dell’Occidente, dove
godono di libertà e diritti senza precedenti, solidarizzare con la “resistenza
palestinese” guidata strumentalmente da Hamas che di quei diritti e libertà è il più
feroce negatore.
Mi sono immedesimato subito con i cittadini italiani di fede ebraica, con l’incubo
delle leggi razziali del 1938, quando nostri connazionali collaborarono nel mandare
nei campi di concentramento nazisti 7.000 uomini, donne e bambini, in cambio di
5.000 lire. Le bandiere di Israele bruciate, gli slogan sugli ebrei da uccidere, lo
strappo dei manifesti coi volti degli ostaggi di Hamas, il danneggiamento delle pietre
di inciampo, sono segnali di un rinascente fanatismo antisemita che dovrebbe indurre
tutti a una seria riflessione. Noi partecipanti a questo convegno veniamo da storie
politiche differenti, è una ricchezza e un fatto importante, quello che possiamo e
dobbiamo fare sul nostro territorio è tenere i fanatismi e la connessa violenza lontani,
mantenere aperto il dialogo con i giovani, fare leva sulla cultura, letteraria,
cinematografica, per tenere vivo e sviluppare il senso critico. Si deve essere in grado
di ascoltare un’opinione diversa senza schiumare di rabbia, invocare censure e
scomuniche. Hamas teorizza e pratica l’eliminazione fisica degli ebrei in linea di
continuità con il Gran Mufti di Gerusalemme Amin al-Husseini, sostenitore di Hitler
e dello sterminio della Shoah quando non esisteva nessuno stato di Israele. Oggi vi è
una guerra, dove si contrappongono lo stato israeliano, con i suoi valori democratici,
certo contestabilissimo, ma dall’altra vi è il fanatismo religioso, oscurantista e
sanguinario di Hamas. Non è indifferente chi prevalga tra i due, non lo è per il Medio
Oriente, per l’Europa e nemmeno per la giusta causa palestinese, perché mai uno
Stato potrà sorgere sotto l’egida di Hamas.
(Fatto a Latina, 14 novembre 2023)
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Boicottaggio di Israele, la deriva anti-ebraica dei professori italiani
L’appello di 4mila docenti a non «collaborare» con nessuna università dello Stato ebraico
L’appello dei 4mila professori universitari italiani a boicottare le istituzioni accademiche israeliane sembra partorito da un tink tank di Hezbollah ma avrebbe messo di buon umore anche Joseph Goebbels.
«Interrompere ogni collaborazione», scrivono gli invasati ai ministri Tajani e Bernini e alla Conferenza dei rettori in un crescendo rossiniano che accusa lo Stato ebraico di «segregazione razziale» e «genocidio» da «oltre 75 anni». Oltre 75 anni vuol dire l’intero arco di vita dello Stato ebraico che nacque, ricordiamolo, in seguito alla risoluzione 181 delle Nazioni Unite e non per arbitrio divino.
Al di là della conoscenza sommaria e parziale – o forse soltanto in malafede - della storia (nel ’48, nel ’67 e nel ’73 Israele è stato attaccato dai paesi arabi confinanti che volevano cancellarlo dalla faccia della Terra), quel che colpisce e avvilisce è il bersaglio individuato dai nostri professori.
Non il governo Netanyahu e la sua destra messianica, non l’industria delle armi e il suo indotto miliardario, non la macchina della propaganda bellica, a finire nel mirino sfocato di questa ciurma farisaica è il mondo della cultura, dello studio, della ricerca, dell’incontro tra idee, ossia uno degli spazi più liberi e pluralisti della società israeliana, naturalmente e storicamente contrapposto al fanatismo dei nazionalisti e da sempre favorevole alla soluzione “due popoli due Stati”.
È nelle aule degli atenei di Tel Aviv, Gerusalemme e Haifa che lo scorso anno è nato il movimento che, per interi mesi, ha contestato nelle piazze il premier e i suoi ministri, manifestando contro la riforma della Corte suprema ma anche contro l’espansione degli insediamenti illegali in Cisgiordania e per i diritti della popolazione palestinese. Cosa c’entrano mai i dipartimenti e le facoltà universitarie israeliane con i bombardamenti sulla Striscia Gaza e con la morte dei civili innocenti? La risposta data da Pierluigi Musarò, professore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università di Bologna al Corriere della sera è di quelle che fanno cadere letteralmente le braccia: «I miei colleghi non possono più collaborare con le università di Gaza rase al suolo in queste settimane. Il boicottaggio è uno strumento pacifico, non violento di pressione. Non ne abbiamo altri».
Come spesso accade, chi è accecato dall’ideologia oltre alla ragionevolezza e alla logica smarrisce anche il senso del ridicolo inciampando nei paradossi più fastidiosi; e così i firmatari, prima di lanciare il boicottaggio dei loro colleghi ebrei, ribadiscono quanto per loro sia importante «l’impegno per la libertà di parola e il diritto degli studenti e delle studenti al dibattito». Libertà di parola sì, ma non per gli universitari israeliani, meritevoli di isolamento come degli appestati che capolavoro di ipocrisia!
Altri docenti italiani hanno provato a lanciare un contro-appello in cui accusano i boicottatori di «pregiudizio antisemita», e soprattutto di «non rappresentare il pensiero di tutti gli accademici». Questo è sicuro, ma le adesioni al contro-appello sono state fino ad ora decisamente meno numerose, confermando che nelle nostre università abbiamo un problema grande come una casa.
(Il Dubbio, 14 novembre 2023)
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Spade di ferro - giorno 39. La battaglia degli ospedali
di Ugo Volli
• Hamas non è più padrone di Gaza
Israele è ormai entrato nei luoghi simbolici del potere a Gaza. Ci sono foto che ritraggono i soldati della divisione di fanteria d’eccellenza Golani nella sede del comitato legislativo dove i capi di Hamas tenevano le loro riunioni pubbliche; altri sono entrati nella sede del governatore della città; i carri armati stazionano sulla “piazza del milite ignoto”, dove si tenevano le manifestazioni di massa del terrorismo. Buona parte della popolazione della città è sfollata verso il sud della Striscia ed è in difficoltà per le piogge abbondanti. Ci sono stati scontri fra la folla che cercava di ottenere il cibo dei soccorsi e i miliziani di Hamas che cercavano di sottrarglieli e impadronirsene. Sono stati anche riferiti saccheggi delle sedi dei movimenti terroristi e altri luoghi del potere di Gaza. Il problema è che tutti i paesi che esprimono solidarietà per i palestinesi non vogliono affatto accogliere i fuggitivi. Non intende farlo l’Egitto, che dall’inizio delle operazioni ha chiuso il valico di Rafah, lasciando passare solo in certi momenti i feriti e gli abitanti forniti di passaporto straniero. Esclude l’accoglienza anche l’altro paese che confina con Israele, dove sarebbe possibile portare facilmente i rifugiati, la Giordania, che ha parlato della possibilità che essi arrivino sul suo territorio come di una “linea rossa”. Nessuno fra gli stati arabi e musulmani che hanno fatto l’altro ieri grandi discorsi sul loro appoggio a Gaza ha offerto ospitalità. Questa situazione è un problema ora e lo sarà ancor di più in futuro, perché in mezzo alle famiglie normali vi sono terroristi e una maggioranza di loro sostenitori, che rendono pericolose queste folle.
• La battaglia degli ospedali
Seppure i punti strategici del suolo di Gaza sono in mano ai soldati israeliani, la guerra non è affatto finita. I terroristi sono ancora in grado di sparare grosse salve di missili su Israele come hanno fatto anche ieri sulla zona centrale del paese, colpendo anche direttamente una casa a Petah Tikvah. La fase molto delicata che è in corso ora è una battaglia sugli ospedali, dove è sempre più chiaro che i terroristi avevano stabilito i loro centri logistici, di comando, e perfino di prigionia. Il portavoce dell’esercito israeliano ha mostrato alla stampa le prove del fatto che nell’ospedale pediatrico Rantisi erano detenuti dei rapiti fra cui bambini: una motocicletta con la fascia di uno dei rapiti, biberon, corde con cui i rapiti erano legati alle sedie. Vi sono anche foto che mostrano nello stesso ospedale un luogo di tortura, fra cui una sedia attrezzata a questo scopo. Nell’ospedale Shifa è emersa una sala riunioni dei terroristi; dallo stesso ospedale è uscita ieri una squadra di terroristi che ha ingaggiato uno scontro a fuoco coi militari israeliani. Le forze israeliane si trovano a dover conquistare questi ospedali, che sono anche caserme e prigioni, cercando di non danneggiare i malati. C’è stato per esempio un trasferimento di incubatori da Israele a Gaza per utilizzarli a favore dei neonati di Gaza. La propaganda antisraeliana tratta questa battaglia degli ospedali come un esempio di crudeltà. Ma in effetti crudele e criminale secondo la legge internazionale è usare gli ospedali come istallazioni militari; il fatto che lo siano li rende obiettivi legittimi dell’azione bellica. Israele non vuole coinvolgere i malati, si dà da fare per aiutarne lo sfollamento; ma deve entrare in questi complessi che ancora nascondono sottoterra le principali istallazioni terroriste.
• La trattativa sugli ostaggi
Questa guerra, come ho spesso detto, è anche una corsa contro il tempo. Israele deve smantellare l’apparato terrorista prima che le crescenti pressioni internazionali lo mettano in difficoltà. E i terroristi cercano di comprare tempo con gli ostaggi. Ieri è emersa l’offerta di liberare 50 bambini rapiti in cambio della scarcerazione di donne arrestate e condannate e soprattutto di una pausa di cinque giorni nell’offensiva israeliana. Israele ha rifiutato, consapevole che una pausa del genere probabilmente significherebbe la fine della campagna. Oggi è chiaro che la liberazione degli ostaggi si può ottenere solamente aumentando la pressione su Hamas e non sospendendola. Le trattative comunque continuano in maniera riservata, probabilmente attraverso il Qatar.
• Gli scontri al confine settentrionale
Sono continuati e aumentati anche i combattimenti al confine settentrionale con Hezbollah, che si basano sul concetto di rappresaglia: Hamas attacca postazioni militari ma anche case civili di Israele soprattutto con razzi anticarro, provocando anche delle vittime. Israele risponde al fuoco con l’artiglieria e gli aerei, anche in profondità (ieri si sono visti bombardieri israeliani sopra Beirut). Hezbollah si vendica sparando di nuovo verso Israele e il ciclo continua, aumentando di intensità e di ritmo. Ci si chiede se non possa partire anche una battaglia in quella zona per eliminare la minaccia che incombe sui villaggi della Galilea, ormai sotto tiro da un mese. Un’operazione come quella del 7 ottobre ripetuta al Nord avrebbe effetti ancora più devastanti, perché Hezbollah è assai più forte di Hamas e ha la geografia in suo favore, partendo dalle alture. Ma è chiaro che uno scontro del genere rischierebbe di provocare una guerra regionale.
(Shalom, 14 novembre 2023)
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Gli arabi si identificano con Israele molto più fortemente di prima
L'attacco terroristico del 7 ottobre e la reazione di Israele stanno anche cambiando l'opinione della popolazione sullo Stato. Gli arabi sentono un legame più forte con Israele.
GERUSALEMME - Dall'inizio della guerra di Gaza, il 7 ottobre, la solidarietà degli arabi israeliani con lo Stato di Israele è aumentata in modo significativo. Secondo un sondaggio dell'Israel Democracy Institute, il 70% degli arabi ha dichiarato di sentirsi parte di Israele e dei suoi problemi. Si tratta del dato più alto degli ultimi 20 anni. Nel giugno scorso, la percentuale era del 48%.
Anche gli ebrei in Israele stanno mostrando una crescente solidarietà con Israele: la percentuale è stata del 94%, un livello raggiunto l'ultima volta nel 2003 durante la seconda "intifada". Dopo un minimo nel 2014 (78%), i sondaggi dal 2015 mostrano un valore medio dell'85%.
L'Istituto per la Democrazia chiede regolarmente anche il desiderio di rimanere in Israele. Tra gli ebrei, la percentuale è scesa al 62% a giugno, probabilmente sotto l'effetto della riforma giudiziaria. All'epoca, il dato era persino inferiore a quello degli arabi (70%). A novembre, tuttavia, l'80,5% degli ebrei ha dichiarato di voler rimanere in Israele, rispetto al 59% degli arabi.
• Visione divisa del futuro
Il sondaggio ha anche rivelato che l'attuale approccio del governo alla questione degli ostaggi è in linea con l'opinione della maggioranza: il 38% degli israeliani è favorevole ai negoziati per il rilascio degli ostaggi mentre i combattimenti continuano. Circa il 22% è a favore di nessun negoziato, mentre il 21% è favorevole ai negoziati, anche se richiedono la sospensione delle ostilità. Circa il 10% è favorevole ai negoziati solo dopo la fine della guerra.
Per quanto riguarda il futuro dello Stato di Israele, ebrei e arabi hanno opinioni diverse: il 72% degli ebrei è ottimista su questo tema, rispetto al 52% di giugno. Solo il 27% degli arabi vede un buon futuro per Israele, rispetto al 40% di giugno.
(Israelnetz, 14 novembre 2023)
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I prof si ribellano ai boicottaggi. «Israele non è uno Stato canaglia»
Contromobilitazione di alcuni docenti in risposta ai colleghi che chiedono di interrompere i rapporti con gli atenei ebraici: «Criticare Gerusalemme è legittimo, ma senza bugie: lì non c'è alcuna apartheid».
di Francesco Bonazzi
Le università dovrebbero essere il tempio della ricerca, del sapere, della serietà e dell'inclusione.
Anche in tempo di guerra. Invece, nei giorni scorsi, circa quattromila membri delle università italiane hanno firmato un appello per interrompere ogni forma di collaborazione con gli atenei israeliani come forma di presunta solidarietà con la popolazione di Gaza. Da domenica, con 2.500 adesioni in poche ore, è partita la risposta di chi trova questo boicottaggio «ingiusto e dannoso». Un contro-appello per nulla dogmatico, nel quale si respinge duramente «l'identificazione de facto tra critica alle azioni del governo Netanyahu - legittima e condivisibile - e rifiuto delle istituzioni culturali e accademiche israeliane che operano in piena autonomia dalla politica».
L'Appello contro il boicottaggio delle università italiane», già in rete sulla piattaforma di change.org, vede come primi firmatari Lucia Corso (Università Kore di Enna), Mathew Diamond (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, Sissa, Trieste), Alessandro Silva (Sissa), Raffaella Rumiati (Sissa) e Cosimo Nicolini Coen (Università Bar Ilan, Ramat Gan, Israele). Il documento si preoccupa innanzitutto di confutare alcune tesi assai discutibili contenute nella «Richiesta urgente» di sabato scorso, con cui alcuni docenti si sono rivolti, tra gli altri, al ministro dell'Università, Anna Maria Bernini e alla Crui, la conferenza dei rettori .
La prima affermazione nel mirino è quella secondo la quale in Israele vi sarebbe un «illegale regime di oppressione militare e apartheid». Il contro-appello parla di «lettura distorta, univoca e semplificata», facendo notare che invece «la società israeliana è secolare e rigorosamente multietnica, essendo il prodotto dell'incontro tra individui e gruppi dalle più disparate origini». E ricorda che i cittadini arabi sono il 20%, «sono parte integrante della vita del Paese, partecipano alla vita culturale e istituzionale, siedono nelle medesime università e nei medesimi uffici e giocano nelle stesse squadre di sport». Poi il documento non si sottrae al tema spinoso dei coloni e afferma: «La politica degli insediamenti e la presenza militare in Cisgiordania, passibile di aspre critiche anche all'interno di Israele, non può non essere letta alla luce del contesto geopolitico, fra cui il naufragio degli sporadici tentativi di pace (Accordi di Oslo I e II) per responsabilità condivise e della spirale di violenza che affligge l'area innescata e sostenuta da tutti i soggetti coinvolti».
La seconda tesi che non va giù agli estensori del contromanifesto è quella di definire l'attacco di Hamas del 7 ottobre scorso una risposta quasi giustificabile a un'asserita oppressione coloniale. Qui, nel documento si ricordano vari accordi internazionali e poi si legge: «L'operazione di Hamas non è il gesto improvvisato di una vittima che ha subito vessazioni, ma il risultato di anni di pianificazione e di investimenti milionari. Hamas le ha dato un nome, come se fosse un'operazione militare legittima: Al-Aqsa Flood. Per esser sicuri di avere potere negoziale i terroristi hanno poi rapito più di 200 ostaggi, di cui 33 bambini». «Nulla giustifica gli atti orripilanti che sono stati commessi», continua il contro-appello, e qui c'è davvero poco da dire.
L'ultima argomentazione della «Richiesta urgente» che non è andata giù a molti professori e ricercatori italiani è quella che caratterizza la risposta militare israeliana come «punizione collettiva», una rappresaglia o una vendetta, con lo stereotipo antisemita dell'occhio per occhio sullo sfondo. Nel contro-appello, si parla invece di «operazione militare volta a neutralizzare la possibilità che vengano inferti ulteriori attacchi da parte di Hamas». Ipotesi non remota, perché «non solo i leader di Hamas hanno ribadito la volontà di espellere tutti gli ebrei dall'area, ma anche altri attori internazionali, come Hezbollah, Iran, Yemen e Siria, non perdono occasione per negare il diritto all'esistenza di Israele».
Rimessi in chiaro i termini del conflitto in corso, i redattori dell'appello pro Israele denunciano una situazione allarmante. Il boicottaggio proposto odora lontano un miglio di antisemitismo («in costante aumento anche all'interno delle nostre universìtà») perché un'iniziativa simile non è mai stata proposta «nei confronti di università di Paesi con politiche brutali e ciniche, come l'Iran e Siria». E ancora, «criticare Israele e le azioni di un suo governo è legittimo, dipingerlo ideologicamente come stato canaglia no».
Poi, c'è la profonda tristezza che suscita l'idea che in una nazione che ha avuto le leggi razziali si stia lì a discutere di boicottaggi, chiusure e rinunce a scambi, ricerca e maggior cultura. Con l'aggravante che l'idea di oggi nasce direttamente in qualche ateneo. Per il resto, giusto concludere con le parole dedicate dal contro appello alla guerra in corso: «Noi firmatari condividiamo l'angoscia e il dolore per l'immensa tragedia che sta colpendo la popolazione di Gaza ed esprimiamo l'auspicio per un'immediata e incondizionata liberazione degli ostaggi e conclusione del conflitto».
(La Verità, 14 novembre 2023)
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Il meritorio, ma patetico, stupore dei maître à penser di sinistra israeliani
Per decenni hanno contribuito a diffondere una visione distorta e demonizzate di Israele, ora si stupiscono della condiscendenza verso i tagliagole terroristi e i loro sostenitori.
dii Ben-Dror Yemini
Si tratta di un fenomeno notevole, allarmante e inquietante. Social network e canali tv mostrano ripetutamente brevi videoclip di giovani e studenti che strappano le foto coi volti degli ostaggi israeliani. Il gesto è diventato di tendenza, e non si limita agli studenti palestinesi o di origine mediorientale. Studenti provenienti da contesti e background diversi prendono parte alla nuova moda con aperto divertimento. Una giovane ragazza sorride intenzionalmente, alla ricerca del sostegno internazionale per la sua “liberazione”, mentre vengono strappate con derisione le immagini con quei volti.
Non si tratta di schierarsi con Hamas. Il 90% di costoro non ha idea di chi o cosa sia Hamas. È la fissazione woke per cui il soggetto percepito come “debole” ha sempre ragione, anche se è uno spietato assassino, e quello percepito come “forte” è sempre un cattivo malvagio. Non importa che Hamas persegua l’annientamento degli ebrei, dei cristiani e il dominio sul mondo. Per costoro, Hamas rappresenta “i palestinesi”, che sono diventati gli oppressi per eccellenza, e Israele, dopo anni di indottrinamento, è ormai etichettato come uno stato “colonialista di apartheid” (benché non sia né l’una né l’altra cosa).
Nelle ultime settimane, anche la sinistra israeliana si ritrova costernata per questa celebrazione dell’odio. Molti dei suoi esponenti condividono articoli in cui dicono addio alla sinistra globale, che ignora le atrocità e talvolta le giustifica. Meritano un applauso. Capiscono che qualcosa è andato molto storto nell’elaborazione del pensiero all’interno degli ambienti progressisti di sinistra, alcuni dei quali insistono nel sostenere o difendere Hamas con le ben note scusanti menzognere come “il loro diritto di reagire”, “Gaza è la più grande prigione del mondo”, “è colpa dell’oppressione e dell’occupazione” e altri slogan dello stesso campionario.
Alcuni giorni fa, questi nuovi dissidenti della sinistra hanno sottoscritto una dichiarazione in cui prendono le distanze dalla sinistra globale. Dunque meritano l’applauso, ma anche un po’ di introspezione. Come mai solo adesso? Per decenni hanno dipinto Israele come un mostro, diffondendo bugie sul paese. Per decenni hanno etichettato la “nakba” come uno dei crimini più gravi della storia, benché siano decine di milioni le persone nel mondo che hanno subito lo sfollamento come conseguenza della creazione di stati nazionali. Per decenni hanno ignorato la “nakba” ebraica (dai paesi arabi), che non è stata meno dura di quella palestinese. Per decenni hanno chiuso gli occhi davanti al rifiuto arabo di qualsiasi proposta di spartizione e all’invasione di Israele mirata alla sua distruzione. Per decenni hanno ignorato il rifiuto palestinese di accettare qualsiasi soluzione a due stati. Per decenni hanno ignorato i proclami dei capi di Hamas sull’annientamento degli ebrei. Per decenni hanno fornito giustificazioni al terrorismo palestinese. E ora si stupiscono? La conseguenza ovvia di quel lavaggio del cervello è strappare i manifesti che raffigurano i volti degli ostaggi. Che diamine, le vittime sono i palestinesi!
“Molti intellettuali ebrei sono segnati dalla macchia del peccato antisemita, come Peter Beinart, Noam Chomsky, Judith Butler, Avi Shlaim, Shlomo Sand”, lamentava la professoressa Eva Illouz esattamente undici anni fa. Ma predicava dall’interno, e non si è mai fermata un attimo. Ha condotto una straordinaria campagna, parte della quale è apparsa sulle pagine del francese Le Monde, per denunciare presunte ingiustizie di Israele. In uno dei suoi articoli, “47 anni schiavo”, Illouz spiegava che bisognava cambiare approccio: non le bastava più l’accusa di “apartheid”. Ora è “schiavitù”, nientemeno. L’articolo che scrisse allora era talmente pieno di imbarazzanti distorsioni che anche un quotidiano di sinistra come Ha’aretz dovette pubblicare una rettifica.
Il professor Oren Yiftachel dell’Università Ben-Gurion è, insieme a Illouz, uno dei firmatari della recente dichiarazione. Davvero notevole, giacché Yiftachel è uno dei capiscuola della teoria che dipinge il sionismo come “colonialismo”. Oltre due decenni fa, quando un suo articolo su una rivista accademica venne rifiutato solo perché lui è israeliano, accettò di apportare modifiche equiparando Israele al Sud Africa. Successivamente, guidò la campagna per definire Israele come uno stato di apartheid. Nel 2009, durante l’operazione anti-terrorismo Piombo Fuso, andò oltre e pubblicò un articolo in cui suggeriva di interpretare gli attacchi missilistici di Hamas come “un tentativo di ricordare al mondo, e a Israele, ma anche alla leadership palestinese, che la questione dei profughi è viva e vegeta”. È un’affermazione così strampalata e stupida da meritare un posto nel Guinness dei primati. Decine di milioni di persone in Europa sono diventate profughi. Quasi ogni ebreo in questo paese discende da profughi delle persecuzioni in Europa orientale o nei paesi arabi. Dunque anche loro hanno il diritto di lanciare razzi sulla gente dei paesi da cui sono fuggiti o da cui sono stati espulsi per “ricordare la questione dei profughi”? La seconda guerra mondiale potrebbe rivelarsi solo un gioco da ragazzi, se si adottasse a livello globale il principio morale con cui Yiftachel giustificava la violenza. E se questa non è giustificazione del terrorismo, allora non si capisce cos’è.
(israelnet.it, 14 novembre 2023)
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Perché Israele è odiato: intervista a Ugo Volli
In attesa del prossimo libro di Ugo Volli, “La Shoà e le sue radici”, (Marcianum Press) abbiamo voluto intervistarlo a proposito della attuale guerra in corso, della quale, quotidianamente, rende conto con i suoi nitidi e preziosi bollettini su Shalom.
di Niram Ferretti
- Il 7 ottobre scorso, l’eccidio perpetrato da Hamas di sorpresa in Israele, di un solo colpo ha manifestato una inattesa vulnerabilità dello Stato e ha mostrato al mondo come, dopo la Shoà, si venga ancora uccisi in massa in quanto ebrei e con una ferocia inimmaginabile. A un po’ più di un mese di distanza quali sono le tue considerazioni su quello che è accaduto? La strage del 7 ottobre è colpa dei terroristi e non certo di Israele. Ma non è stata adeguatamente contrastata. Vi sono stati numerosi errori tattici: c’era troppa fiducia nei sistemi di allarme elettronico, i sistemi di comunicazione e di guardia erano vulnerabili, non vi era difesa autonoma delle comunità di frontiera, mancava una riserva militare di pronto intervento, si è consentita una festa con migliaia di ragazzi vicina al confine. Insomma il paese era vulnerabile. Ma ciò deriva da un atteggiamento di “whishful thinking” diffuso negli apparati politici, militari e informativi. Si è creduto davvero che Hamas fosse interessato alla pace e alla prosperità di Gaza, perché Israele vuole la prosperità e la pace. Un giusto calcolo strategico fatto vent’anni fa (è meglio un nemico diviso in fazioni contrapposti che unito e compatto) si è trasformato, soprattutto ad opera di certi settori politici e militari, nell’idea che l’esistenza del regime di Hamas potesse essere compatibile con la pace e dunque migliore per Israele della sua eliminazione.
- Prima dell’7 di ottobre Israele è stato attraversato da una profonda lacerazione interna. Per quasi un anno ci sono state imponenti manifestazioni di piazza contro la riforma della giustizia. Si è accusato Netanyahu di volere condurre il paese verso il baratro, si è incoraggiata la diserzione. Quanto può avere influito secondo te questo stato di cose sulla decisione di Hamas di colpire Israele? Ci sono state più che manifestazioni di piazza. C’è stato un tentativo, per dirla con Shmuel Trigano, di colpo di stato postmoderno, che aveva l’obiettivo di sottrarre la sovranità all’elettorato e al parlamento per riportarlo in mano alle élites economiche politiche e burocratiche di sinistra che l’hanno in sostanza detenuto dalla fondazione di Israele e che ora sentivano il rischio di doverlo cedere a un elettorato orientato a destra. C’è chi fra loro ha minacciato la “guerra civile”, chi ha lavorato con successo per indurre i settori più tecnologici (e dunque più elitari) dell’esercito alla diserzione (almeno dei riservisti) e al rifiuto della leva. Fra costoro vi erano anche gli ideologi del “campo della pace”, che vi vedevano la possibilità di una rivincita per le loro politiche fallimentari di appeasement con i terroristi. La colpa della strage, lo ripeto, è tutta dei terroristi. Ma i settori che hanno promosso, massicciamente finanziato, sostenuto e organizzato il tentativo di colpo di stato contro il governo Netanyahu hanno gravi responsabilità. Vale la pena di ribadirlo, perché molto probabilmente la pacificazione interna di Israele in seguito all’eccidio è provvisoria e il rischio di nuove scissioni ed eversioni si rinnoverà appena conclusa la fase bellica.
- C’è, in corso da cinquanta anni un dispositivo ricorrente tutte le volte che Israele si difende da una aggressione, gli viene chiesto di rispondere “proporzionalmente”, di non esagerare, per poi subito evidenziare che le sue azioni belliche sono criminali, abnormi, ecc. Lo vediamo in questi giorni. Quali sono, a tuo avviso, i fattori principali che attivano questo dispositivo? “Proporzionalità” in guerra è un’espressione insensata, perché l’obiettivo di ogni guerra è l’esercizio di una forza superiore al nemico, tale da costringerlo a rinunciare ai suoi progetti politici e ad adeguarsi a quelli del vincitore. Fin che le forze sono proporzionali, come sanno gli strateghi, la guerra continua. Di più, questa guerra è stata provocata da una serie di eventi criminali senza precedenti: non solo assassinii, ma stupri, mutilazioni, persone bruciate vive, torture di bambini e di anziani, veri e propri squartamenti. Dovrebbe Israele essere proporzionale ripetendo questi crimini sulla popolazione di Gaza? Naturalmente no. La richiesta che si fa a Israele è in realtà quella di non vincere: o di perdere (e allora ci sarà la soddisfazione del compianto rituale della memoria, che già si esercita il 27 gennaio) o al massimo di pareggiare, che significa continuare a subire stragi e distruzioni. Ciò deriva dalla vigliaccheria morale dell’Occidente, che ormai ha paura di affermare la propria identità e le proprie ragioni – e per questo quasi sempre le élites culturali e mediatiche occidentali in caso di conflitto si schierano col nemico, per barbaro che sia. Israele è odiato perché è l’avanguardia dell’Occidente da molti punti di vista, ma non si arrende. E poi vi è il marchio specifico dell’antisemitismo, figlio dell’antigiudaismo cristiano. Per esso i soli ebrei accettabili sono quelli sconfitti, dolenti, sofferenti, perché essi sono affetti dal marchio indelebile costituito dalla loro esistenza “abusiva”. Essi dovrebbero essere scomparsi da tempo, essersi fusi nella maggioranza cristiana, musulmana, comunista, postmoderna. Non lo hanno fatto e che allora paghino con la più crudele abiezione. Magari anche con le stragi più efferate compiute da terroristi che sono apprezzati nonostante le loro azioni, perché nemici degli ebrei.
- La cosa sorprendente ma non per chi conosce a fondo la storia di Israele e i fatti, è l’esorbitante livello di mistificazione della realtà. Si è giunti progressivamente dopo la Guerra dei sei giorni, nel corso di due generazioni, a trasformare gli aggressori, gli arabi, in vittime, e gli aggrediti, gli israeliani in oppressori. Vorresti evidenziare cosa ha determinato questa narrativa egemone? Gli arabi sono nemici di Israele. Israele è il male. Lo è perché è rinato nonostante l’interdetto teologico cristiano, perché è uno stato liberale e capitalistico di successo, perché non si è piegato ai diktat sovietici prima, del politically correct poi. Israele è il male soprattutto perché è lo stato degli ebrei liberi e vivi, e gli ebrei vanno bene solo prigionieri e morti. Vivo e prospero è l’ebreo degli stati, che va rimesso al suo posto. Gli arabi sono nemici degli ebrei e dunque buoni, anche perché hanno il petrolio. Magari sono governati da super-ricchi reazionari e sono loro stessi portatori di un modo di vita incompatibile con la modernità e il progresso. Ma i palestinesi sono speciali. Perché solo sì arabi, ma non hanno altre caratteristiche storico-sociali se non l’opposizione a Israele. Non c’erano prima degli anni Sessanta, sono stati inventati (come popolo, naturalmente non come individui) dai servizi segreti sovietici che avevano bisogno di un’etichetta per mettere in difficoltà l’Occidente in Medio Oriente. Non hanno un passato, non hanno una cultura, non hanno neppure un lingua; ma sono i nemici di Israele che gli contendono la terra e la legittimità. L’URSS non c’è più, ma l’influsso velenoso dell’ideologia sovietica ancora domina la politica, le università e i media occidentali.
- Gli ebrei sono sempre la pietra di inciampo. Oggi, come duemila anni fa. Per secoli sono stati il capro espiatorio, il popolo su cui, più di ogni altro, si sono proiettati fantasmi, demoni, paranoie. Inevitabilmente questo ruolo spetta oggi a Israele. Cosa hai da dire in proposito? Visto da dentro, il popolo ebraico non ha nulla di tutto ciò. E’ il popolo che ha portato al mondo la morale dei diritti e dei doveri uguali per tutti (sintetizzati dai dieci comandamenti), che sempre “sceglie la vita”, che è fedele a se stesso e ai suoi valori tanto da essere sopravvissuto ai suoi potentissimi oppressori politici: gli egizi, i babilonesi, i romani, la Chiesa, l’Islam, il socialismo reale, oggi il relativismo postmoderno. Forse per questa incredibile capacità di resistenza identitaria è odiato. Ma proprio grazie ad essa gli ebrei non odiano il mondo circostante, cercano buoni rapporti, voglio contribuire e collaborare, spesso si innamorano dei loro ospiti, che siano la Spagna, la Germania, il mondo arabo, Venezia: tutte piccole patrie rimpiante e desiderate. Verrà il giorno, speriamo, che questo amore non sarà ricambiato con l’odio.
- L’obbiettivo di Israele è di sradicare Hamas dalla Striscia. Gli Stati Uniti vorrebbero che una volta che Israele sarà in grado di farlo, il governo di Gaza passi sotto la tutela dell’Autorità Palestinese. Netanyahu ha detto chiaramente che questo non succederà. Quale dovrebbe essere per te il futuro della Striscia? Domanda molto difficile. L’Autorità Palestinese non è in grado di controllare neanche le città che oggi nominalmente ne dipendono, come Jenin. Se Muhamed Abbas è ancora presidente lo deve a Israele che ha scongiurato i tentativi di eliminarlo. Non può certo governare Gaza al posto dei terroristi, anche perché i suoi uomini hanno partecipato a tutta la recente ondata terrorista, incluso il 7 ottobre. Non credo a un governo dell’Onu o di altre agenzie internazionali, che sarebbe solo lo schermo dei terroristi. L’ideale sarebbe che l’Egitto si riprendesse la Striscia, che era sua fino al ‘67. Ma non lo farà, perché sarebbe solo una fonte di guai. Uno degli aspetti più tristi della situazione del campo palestinese è che non esistono neppure in esilio delle personalità non compromesse col terrorismo. Ce n’erano in Italia e in Germania durante il nazifascismo, c’erano nei paesi dell’Est europeo (non in URSS), Ci sono in Cina, ma non fra i palestinesi. Non conosco la soluzione. Ci potrebbero essere amministrazioni locali su base tribale, come propone Mordechai Kedar (ma a Gaza la popolazione è molto mescolata). E’ chiaro comunque che Israele dovrà essere presente e intervenire sul piano della sicurezza, perché anche sconfitte le organizzazioni terroriste, resteranno i loro vecchi membri e almeno parte dell’appoggio della popolazione.
- Due popoli, due Stati. Questo assunto fu alla base della Commissione Peel nel 1937, quando tradendo lo spirito del Mandato britannico per la Palestina del 1922 che assegnava all’abitabilità ebraica tutti i territori a occidente del Giordano, gli inglesi proposero agli arabi l’80% del territorio. Dissero di no allora. Dissero di no al piano di partizione dell’ONU del 1947, e da allora non hanno mai smesso. Eppure si continua a insistere. Perché? I due stati per due popoli ci sono già. Uno è Israele, l’altro è la Giordania che fu ritagliata dagli inglesi nel 1922 dal mandato britannico di Palestina come emirato di Transgiordania comprendendo l’80% circa del territorio, proprio per fornire uno stato agli arabi del Mandato. Oggi tre quarti della popolazione della Giordania ha origini o legami al di là del Giordano, compresa la regina. Chi vuole oggi dividere Israele in due stati, lo sappia o no, sta solo cercando di applicare la strategia del salame immaginata da Arafat: mangiare Israele una fetta per volta.
- La domanda più difficile, forse. Come vedi il futuro di Israele dopo questa guerra? Lo vedo come oggi: uno stato dinamico, conflittuale, difficile, orgoglioso, radicato nel territorio e nella cultura, inventivo, multiforme, sentimentale ma lucido, religioso ma scientifico, vecchio-nuovo, come diceva Hertzl, pieno di memorie pesanti. Cui si è aggiunto il 7 ottobre.
(L'informale, 13 novembre 2023)
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La Biennale di Gerusalemme
di Antonietta Pasanisi
Continua a battere il cuore d’arte della Biennale di Gerusalemme a Casale Monferrato in Italia e in altre parti del mondo come New York e Buenos Aires.
La manifestazione, giunta alla 6a; edizione, avrebbe dovuto iniziare il 9 novembre in Israele con 35 mostre e con 220 artisti in 22 sedi. A causa del conflitto Israele-Hamas è stata rinviata alla primavera 2024. Come gesto di solidarietà e sostegno a Israele, molti artisti e curatori hanno deciso di allestire lo stesso alcune delle mostre della Biennale in programma a livello internazionale nelle proprie città di origine.
“La Biennale di Gerusalemme è diventata come un impulso che batte costantemente ogni due anni – ha dichiarato Rami Ozeri, fondatore e direttore creativo della Biennale di Gerusalemme – dal 2013, senza eccezioni e nonostante le numerose sfide”.
“Adesso – ha proseguito – è come se il cuore avesse perso un battito. Ma anche adesso, dopo il dolore indicibile del 7 ottobre, abbiamo assistito a un’enorme manifestazione di solidarietà da tutto il mondo. In poche settimane, i nostri amici e partner sono riusciti a allestire nelle loro città le mostre che erano state create per la Biennale di Gerusalemme. E nei prossimi mesi è prevista l’apertura di altre in tutto il mondo. Continueremo a coltivare i legami di arte e cultura tra Gerusalemme e il mondo oggi più che mai. Questo cuore continuerà a battere sempre”.
La Biennale di Gerusalemme è dedicata all’esplorazione degli spazi in cui si intersecano l’arte contemporanea e le tematiche del mondo ebraico. La sua missione è stata quella di permettere a molteplici forze creative di manifestarsi nell’ambito dell’arte ebraica contemporanea. Un’importante vetrina per molti artisti e curatori professionisti che direttamente e indirettamente hanno attivato una nuova discorsività sull’Ebraismo attraverso il pensiero e lo spirito.
Il tema centrale di questa edizione 2023 è Iron Flock, traduzione letterale della frase ebraica Tzon Barzel. Un viaggio tra i fondamenti della cultura contemporanea. Sguardi di artisti provenienti dall’intero pianeta che attraverso le loro opere hanno rappresentato movimenti, idee, persone che il tempo ha reso beni culturali invendibili.
(Valigiamo, 14 novembre 2023)
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Spade di ferro - giorno 38. Il nuovo antisemitismo
di Ugo Volli
• Le due guerre
Ci sono due guerre in corso in questo momento fra Israele e Hamas. Una è quella sul terreno, che a sua volta ha vari aspetti: la guerra sul terreno e quella aerea, il conflitto al nord e le operazioni antiterrorismo che si svolgono soprattutto in Giudea e Samaria per prevenire l’apertura di un fronte di attentati, l’aggressione di missili e droni dallo Yemen, che data la distanza e i mezzi degli islamisti yemeniti è ininfluente sul piano militare, ma se non è attentamente monitorata e contrastata dalle tecnologie antimissile israeliane (e anche dall’azione di Usa, Arabia Saudita ed Egitto che abbattono i proiettili sul loro territorio e sul Mar Rosso), potrebbe colpire i civili israeliani. Questa guerra sta procedendo in maniera assai migliore di quel che ci si potesse aspettare. Gli attacchi da nord si intensificano ma finora restano più segnali politici da parte di Hezbollah e della Siria che tentativi di aprire davvero il secondo fronte.
• Il fronte di terra
La maggior parte del territorio di Gaza è ormai sotto controllo israeliano, i militari caduti nell’operazione sono alcune decine - perdite dolorosissime ma limitate rispetto all’aspettativa. Anche i civili palestinesi, che Israele cerca per quanto è possibile di non colpire, sono stati coinvolti nelle operazioni assai meno di quel che poteva accadere in una guerra condotta con bombardamenti e combattimenti fra le case. Dei morti di Gaza, che il ministero della sanità di Hamas, dunque una fonte interessata, stima intorno ai 12 mila, probabilmente i due terzi sono terroristi inquadrati nelle unità di Hamas. Gli altri sono rimasti intrappolati nei combattimenti perché non hanno voluto seguire le indicazioni di fuga diffuse dall’esercito israeliano, o perché Hamas glielo ha impedito, per usarli come scudi umani. Altri sono vittime collaterali dell’eliminazione mirata dei capi terroristi, che si trovavano accanto a loro.
• Le perquisizioni della grande caserma
Le forze armate israeliane ora stanno svolgendo il compito molto lungo e difficile di andare di casa in casa nelle zone conquistate alla ricerca di terroristi, depositi d’armi, ingressi di tunnel. Per ora il combattimento sotterraneo è raro: si preferisce far saltare le imboccature dei pozzi che portano alle gallerie, o magari tutto il tratto che è possibile raggiungere dalla superficie, per sigillarle. I tunnel distrutti in questa maniera sono finora un paio di centinaia. Sono per il momento istallazioni periferiche, progettate come strumenti d’attacco contro i soldati. Sarà più difficile fare altrettanto con le grandi basi sotterranee, dove è certo ci siano i comandanti del terrore e soprattutto i rapiti del 7 ottobre. In questa capillare perquisizione che è iniziata dal lato settentrionale della Striscia sono emerse molte armi, apparecchi di trasmissione, materiali militari, esplosivi, piani di battaglia, ma anche un’edizione del “Mein Kampf” di Hitler fittamente sottolineata e annotata, che il presidente israeliano Yitzhak Herzog ha mostrato alla stampa internazionale. Insomma, si conferma che tutta la striscia di Gaza, per i suoi 40 chilometri di lunghezza è stata trasformata da Hamas in una caserma e in una roccaforte terrorista.
• La guerra della politica
L’altra guerra si svolge dentro l’opinione pubblica e ha per teatro soprattutto le piazze occidentali. È chiaro che i terroristi stanno perdendo e continueranno a perdere la guerra sul terreno, se essa continuerà. La sola loro speranza è che la campagna israeliana sia interrotta per ragioni politiche, come furono interrotte prima della conclusione le sei campagne precedenti (2006, 2008, 2009, 2012, 2014, 2021) provocate dai bombardamenti missilistici che venivano da Gaza. Se così accadesse anche questa volta, se Israele dovesse ritirarsi senza aver sradicato Hamas, i terroristi avrebbero in sostanza vinto e si potrebbero preparare alla prossima campagna. Il loro terreno di scontro è dunque l’opinione pubblica occidentale. I paesi dell’area, al di là delle parole, si dividono fra alleati e nemici dell’Iran e della fratellanza Islamica di cui i terroristi di Gaza sono espressione. Ai loro nemici, come Egitto, Arabia, paesi del Golfo, non dispiace che i terroristi siano sconfitti. L’appoggio di Russia e Cina è un cinico tentativo di mettere in difficoltà l’Occidente, con altre mire (Ucraina, Taiwan).
• Il nuovo antisemitismo nelle piazze occidentali
Dove l’opinione pubblica si divide è dunque l’Europa e gli Usa. Qui sono favorevoli ad Hamas buona parte degli immigrati islamici, che in certi paesi sono tantissimi, e la sinistra ideologizzata, che vede Israele come un paese “bianco” e capitalista, espressione di quella democrazia occidentale che essi detestano. Ma soprattutto in questa sinistra e nell’estrema destra extraparlamentare che li fiancheggia, riemergono le vecchie pulsioni antisemite, l’odio per gli ebrei in quanto tali. Accade così che anche in sede europea i governi più di sinistra (come la Spagna, il Belgio o l’Irlanda) siano i più nemici di Israele, che ci sia per esempio un parlamentare dell’estrema sinistra francese David Guirad di “La France Insoumise” (“La Francia ribelle”) che ha il funebre coraggio di andare in giro a dire che l’uccisione dei bambini ebrei e lo sventramento delle donne ebree del 7 ottobre sarebbe opera dell’esercito israeliano. Gira un appello nelle università italiane, firmato dai docenti di estrema sinistra, in cui sotto un sottile velo di equidistanza si attribuisce al “colonialismo” israeliano la responsabilità di quel che è accaduto: un colonialismo che risalirebbe a “75 anni” fa, cioè alla fondazione dello Stato di Israele, che quindi meriterebbe di essere distrutto con le buone o con le cattive, come cerca di fare Hamas. Dappertutto non solo gli immigrati islamizzati, ma anche studenti ideologizzati fanno manifestazioni massicce e strappano perfino i manifestini in cui vengono ricordati nome e facce dei morti e rapiti del 7 ottobre: il contrario esatto della memoria che viene esaltata il 27 gennaio. Lo scopo di questa guerra delle piazze e dei manifesti è far pressione sui governi occidentali perché costringano Israele a interrompere l’operazione e a lasciare in piedi Hamas, con tutte le nuove stragi di ebrei che questa sopravvivenza del terrorismo implica per il futuro. Ma quando si obietta che queste posizioni sono antisemite, la risposta sdegnata è che “i genocidi” ora sono gli israeliani e che altra cosa è opporsi al governo israeliano e altra onorare i morti provocati dal nazismo. Insomma, a questo nuovo antisemitismo gli ebrei piacciono solo da morti.
(Shalom, 13 novembre 2023)
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Quando si urlano slogan contro gli ebrei, la civiltà è in pericolo
Scene identiche in città europee come Parigi, Copenaghen, Roma e Stoccolma, così come nelle città e nei campus del Nord America. Articolo del Jerusalem Post
Sono scene che stanno diventando familiari quanto le immagini della guerra stessa. In tutto il mondo, centinaia di migliaia di manifestanti pro-palestinesi sfilano nelle strade delle principali città gridando slogan che, nella migliore delle ipotesi, chiedono un immediato cessate il fuoco senza condizioni da parte di Israele, e molto spesso aggiungono il mantra palestinese "Palestina libera dal fiume al mare", più un assortimento di slogan antisemiti.
Membri della sinistra liberal spesso si uniscono a queste manifestazioni, sventolando bandiere palestinesi e avvolgendosi nella kefiah. Pensano di essere i custodi dei valori democratici e umani, ma in realtà sono gli utili idioti di oggi. Queste manifestazioni di massa non chiedono mai a Hamas di smettere di lanciare razzi contro gli israeliani e non reclamano il rilascio immediato degli ostaggi rapiti da Hamas e deportati a Gaza: due cose che Hamas potrebbe e dovrebbe fare immediatamente per ottenere un cessate il fuoco.
Ciò che fanno è invocare la distruzione dello stato ebraico, dello stato d’Israele. Non urlano contro l’inesistente genocidio di Gaza: urlano a favore del genocidio degli ebrei d’Israele. Queste manifestazioni di massa ricordano quelle che si videro nel 2014, quando Israele combatteva l’aggressione di Hamas da Gaza. Fu allora che per la prima volta da parte israeliana venne fatto il paragone tra Hamas e Isis. Ma il mondo non riuscì a vedere il nesso. Nel 2023 non ci sono più scuse. La barbarie assoluta dell’invasione di Hamas nel sud di Israele del 7 ottobre ha dimostrato che l’organizzazione terroristica islamista con sede a Gaza ha imparato dalle atrocità dell’Isis, e le ha portate a un livello ancora peggiore. Intere famiglie sono state legate e date alle fiamme, persone sono state decapitate, donne violentate e ci sono i segni e i video di orrende torture e mutilazioni.
La libertà di espressione e la libertà di manifestare sono valori che ci stanno a cuore, valori che non esistono sotto Hamas e che ora vengono sfruttati. In nome della libertà di parola, sarebbe stata consentita in quelle stesse strade una protesta di migliaia di persone a sostegno dell’Isis? La situazione è chiaramente fuori controllo. In nome della libertà di espressione di coloro che sostengono un regime islamista totalitario e sanguinario, agli ebrei viene negata non solo la libertà di movimento, ma un basilare diritto al senso di sicurezza. A una recente manifestazione pro-palestinese a Londra hanno partecipato 100.000 persone, molte delle quali hanno scandito analoghe oscenità e minacce antisemite. Scene identiche si sono viste in altre città europee come Parigi, Copenaghen, Roma e Stoccolma, così come nelle città e nei campus del Nord America. Siamo nell’anno 2023 e in tutto il mondo gli ebrei si chiedono se sono al sicuro. E questo è il segnale d’allarme che tutti i governi occidentali dovrebbero comprendere e affrontare. L’Occidente, è stato sottolineato, si trova ad affrontare ‘una crisi di civiltà.
Il Foglio, 13 novembre 2023)
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La Francia s’è desta: ondata di manifestazioni contro l’antisemitismo
di Anna Balestrieri
Le piazze francesi si sono popolate di manifestanti domenica 12 ottobre. Da Marsiglia a Tours, da Strasburgo a Nantes più di 182,000 persone hanno voluto manifestare in piazza la propria solidarietà con il popolo ebraico: 105,000 solo a Parigi. Una “marcia transpartigiana” secondo Le Figaro, che ha voluto sottolineare la presenza nelle piazze di giovani musulmani “indignati per ciò che succede agli ebrei”.
Nel mese successivo all’attacco terroristico del 7 ottobre, il mondo ebraico ha dovuto fare i conti con un aggressivo movimento pro-palestinese ed antiebraico nelle piazze europee ed americane. Al grido dello slogan “dal fiume (Giordano) al mare (Mediterraneo), la Palestina sarà libera”, le manifestazioni in supporto della popolazione civile a Gaza si sono trasformate in spazi in cui è negato ad Israele di esistere. Nell’omertoso silenzio di istituzioni governative ed accademiche, in particolare a sinistra. La Francia è stata tra i paesi più colpiti dalla recrudescenza di antisemitismo dell’ultimo mese
La marcia contro l’antisemitismo ha avuto enorme impatto mediatico in Francia, dove le maggiori testate giornalistiche hanno seguito le manifestazioni con dei live. Tra le fila dei manifestanti, gli ex presidenti Hollande e Sarkozy.
Non sono mancate le polemiche per la presenza nelle piazze del RN, il Rassemblement National guidato da Marine Le Pen, erede imbellettato di un Front National a storica connotazione razzista ed antisemita. Il collettivo ebraico contro l’antisemitismo Golem ha cercato di opporsi alla partecipazione del RN, accusando Le Pen di strumentalizzare la manifestazione. Fatta eccezione per la protesta di Golem, non si sono registrati altri incidenti.
(Bet Magazine Mosaico, 13 novembre 2023)
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Chi sono i palestinesi?
Golda Meir, ex Primo Ministro di Israele, si divertiva con i suoi visitatori a mostrare la sua carta di identità palestinese, datale dal Mandato Britannico, e a chiedere ad Arafat di fare altrettanto...
La Palestina è comparsa nella storia moderna nel 1919 con la creazione da parte della Lega delle Nazioni (il precursore delle Nazioni Unite) del Mandato Britannico sulla Palestina al fine di trasformarla in "un focolare nazionale per il popolo ebraico". Prima era un territorio diviso in tre province o Vilayet dell'Impero Ottomano. La sua popolazione era composta da arabi musulmani, arabi cristiani, beduini, drusi, circassi, armeni greco ortodossi, e ebrei.
Per decisione degli inglesi il nome del territorio da loro amministrato era Palestina, poiché il termine Giudea, suo nome storico, aveva connotazioni troppo ebraiche e d'altra parte non c'era a disposizione nessun nome arabo per indicare quel luogo.
Per gli arabi la terra che divenne nota come Palestina faceva parte della Siria, e comprendeva il Libano e Giordania di oggi. Così, fino al 1917 niente distingueva la Palestina dalla Siria: né bandiera, né nomi, né lingua, né etnia, né altro. Fino al 1948 gli arabi rifiutavano il nome Palestina, perché per loro simboleggiava il Mandato Britannico, e quindi il "focolare nazionale ebraico". Sfido chiunque a trovarmi un solo gruppo politico arabo che abbia nella sua denominazione la parola "Palestina" prima del 1948.
E' soltanto dopo il 1948, quando Ben Gurion scelse per lo Stato ebraico il nome "Israele" (non scelse il nome "Giudea" perché Ben Gurion era profondamente laico e socialista, e non mantenne il nome "Palestina" perché non è un termine ebraico ed è il nome di una provincia romana), che gli arabi di Palestina si impossessarono di questo nome che era stato lasciato libero. I palestinesi sono arabi di Palestina che appartengono alla nazione araba e sognano una Palestina araba che sia l'avanguardia di una totalità che riunisca l'intera nazione araba.
Il termine Palestina non è una parola araba, non appartiene agli arabi e non è un brevetto arabo. Gli arabi di Palestina non hanno alcun diritto di pretendere di essere i soli palestinesi e di accaparrarsi questa parola e questa denominazione.
Arafat, che era un arabo nato in Egitto, si sentiva solidale con la causa degli arabi palestinesi pur non essendo nato in Palestina... Questo non è mai stato un problema per gli arabi di Palestina: non fanno infatti tutti parte dello stesso popolo arabo che si estende dall'Oceano Indiano all'Atlantico?
(da una lettera scritta a "Le Monde" - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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I palestinesi vittime sacrificali dell’islam
Lo scontro con gli israeliani non è motivato dalla politica, ma dalla religione. E per l'Iran, arcinemico di Gerusalemme, potrà risolversi solo con lo sterminio degli ebrei. Il popolo di Gaza diventa così una pedina che serve a raggiungere lo scopo.
di Silvana De Mari
Nel 2011 l'ajatollah Khatami, che se non ricordo male è quello moderato, ha detto che quando l'islam avrà la bomba atomica il problema palestinese sarà risolto: l'eufemismo vuol dire che gli israeliani saranno sterminati in un olocausto nucleare. Aggiunge Khatami: è questo che vuol dire essere una cultura di morte, gli israeliani risponderanno con le loro testate nucleari e ci faranno qualche milione di morti: siamo un miliardo e duecento milioni di persone, ce lo possiamo permettere. Khatami parla di un miliardo e duecento milioni di persone: il noi non indica gli iraniani, indica tutto l'islam che è compatto contro Israele e che è disposto a morire e a far morire i propri bambini pur di distruggerlo.
Questa è la differenza; quando ci fu la crisi di Cuba, l'ambasciatore sovietico e lo stesso Krusciov dissero: non siamo pazzi, non vogliamo morire. Al contrario, «perché non dovremmo voler morire?», chiede Khatami: chi muore per uccidere i nemici dell'islam va in paradiso. Le sue affermazioni non sono isolate esternazioni. Sono le affermazioni del capo spirituale dell'Iran, confermate l'anno successivo dal capo politico Mahmoud Ahmadinejad che espresse il desiderio di far «svanire dalle pagine del tempo il regime che occupa Gerusalemme». In un discorso del maggio 2012 tenuto ad un raduno della Difesa a Teheran, il capo di Stato maggiore delle forze armate dell'Iran ha dichiarato: «La nazione iraniana è nella posizione permanente della sua causa e questa è il completo annientamento di Israele». Il generale di brigata Gholam Reza Jalali, a capo dell'Organizzazione di difesa passiva dell'Iran, ha affermato nel 2013 che Israele deve essere distrutto. Il generale Mohammad Ali Jafari, il comandante del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica, disse che alla fine sarebbe scoppiata una guerra con Israele, durante la quale l'Iran avrebbe sradicato quello che definiva un «tumore canceroso». Il 2 ottobre del 2012 Hojjath al-Eslam Ali Shirazi, il rappresentante della Guida suprema dell'Iran l'Ayatollah Ali Khamenei, ha affermato che l'Iran ha richiesto solo «24 ore e una scusa» per sradicare Israele.
L'Iran e Israele non hanno nemmeno una frontiera in comune, le due nazioni erano cordialmente amiche fino a quando è stato al potere lo Scià Reza Pahlavi. Le dichiarazioni ripetute di olocausto nucleare dell'Iran sono sempre state considerate assolutamente lecite e non hanno scandalizzato nessuno. Benny Morris scriveva qualche anno fa: «Il secondo Olocausto sarà diverso. Un bel giorno, magari nel pieno di una crisi regionale, o quando meno ce lo aspetteremo, i mullah di Qom convocheranno una seduta segreta, sulla quale campeggerà il ritratto di Khomeini, con i suoi occhi di ghiaccio, per dare il placet. I missili Shihab-g e 4 saranno lanciati verso Tel Aviv, Beersheba, Haifa, Gerusalemme. Qualche missile sarà dotato di testata nucleare. Per un Paese delle dimensioni e la conformazione di Israele, quattro o cinque lanci saranno sufficienti. E addio Israele. Nessun iraniano vedrà né toccherà alcun israeliano. Tutto si svolgerà in modo molto impersonale». Aggiungo che l'olocausto nucleare prospettato per Israele includerà anche i palestinesi che l'islam considera carne da macello, e Gerusalemme, che l'islam è serenamente disposto a distruggere. L'Iran ha serenamente minacciato la morte di g milioni di persone, 7 milioni di ebrei e due milioni di arabi, senza che nessun attivista o intellettuale lo trovasse sconveniente.
Israele e Iran non confinano. L'Iran non ha mai avuto nessun torto da Israele. Ha anche avuto qualche aiuto, all' epoca della guerra con l'Iraq, le fogne di Teheran sono state fatte dagli israeliani. C'è tuttora un notevole commercio grazie alla triangolazione di Paesi terzi tra Iran e Israele: l'Iran vende pistacchi e marmo e ottiene fertilizzanti e semi. L'Iran interviene per motivi religiosi. Che il popolo ebraico sia riuscito a riscattare la sua primitiva patria dall’occupazione islamica è un insulto all'islam. L'islam domina e non può essere dominato. Nel mondo ci sono state negli ultimi 75 anni miriadi di guerre e milioni di profughi. Alla fine le guerre finiscono e i profughi trovano una sistemazione nel mondo, spesso con dolore e sofferenza, almeno per la prima generazione, ma la trovano. I loro figli non sono più profughi. Fa eccezione il popolo cosiddetto palestinese. Il fatto di essere gli unici profughi che ricevono un tributo, gli unici che hanno un'agenzia dell'Onu espressamente a loro dedicata, ha fatto sì che la situazione di profugo diventasse per loro uno status pagato ed ereditario, che ora è arrivato alla terza generazione. Il fiume di denaro che i palestinesi ricevono ha permesso di selezionare una classe politica particolarmente corrotta e feroce che vede nella pace la fine del proprio potere e ha tutto l'interesse a non raggiungerla mai. Il popolo palestinese diventa la vittima sacrificale dell'islam, disposto a finanziarlo e a farne la sua bandiera, ma solo se resta in guerra.
Quindi piantiamola di parlare del problema Israele/palestinesi. Il problema e Israele/islam. La questione è irrisolvibile perché è una questione religiosa. Non può essere risolta dalla vecchia fallimentare teoria dello Stato palestinese. Può essere risolta solo con la distruzione di Israele. La notizia è che Israele il «problema palestinese» è già in grado di risolverlo, per usare l'eufemismo di Khatami, visto che ha un'aviazione militare e che i palestinesi non hanno una contraerea. Israele ha anche l'atomica? Fino ad oggi lo sapevano anche i sassi, ma non era ufficiale. Ha ufficializzato l'informazione Il ministro israeliano Amihai Eliyahu, affermando che l'uso dell'atomica su Gaza è un'opzione. Il governo ha sconfessato il ministro, ha affermato che l'opzione nucleare è qualcosa che non rientra tra le opzioni prese in considerazione dalle forze armate israeliane, e il ministro è stato invitato a dimettersi. Le sue parole hanno destato scandalo. Eppure quando le stesse cose le minacciano i capi religiosi, politici e militari dell'Iran, nessuno si scandalizza. Le parole di Amihai Eliyahu hanno avuto l'effetto di circoscrivere il conflitto. Né Hezbollah né la Cisgiordania interverranno. Il veri destinatari del messaggio però sono gli iraniani. Il popolo iraniano che è già da mesi in una situazione di rivolta, non ha nessuna intenzione di essere coinvolto in un conflitto che potrebbe essere mondiale e nucleare. Dopo le parole di Amihai Eliyahu l'astio degli iraniani per il loro governo è ulteriormente aumentato.
La situazione al momento non ha soluzione. È a dir poco velleitaria l'idea di uno Stato palestinese affidato alla corrotta Autorità palestinese che non ha né la volontà, né la capacità di fermare il terrorismo e il lancio di missili. L'odio ha raggiunto vertici mai raggiunti prima. Il crollo del turismo di Israele e della Cisgiordania è irreversibile. L'economia israeliana è in ginocchio, quella della Cisgiordania anche. L'aumento della disoccupazione palestinese, e di conseguenza la dipendenza delle persone dall'unica fonte di ricchezza, i finanziamenti all'Autorità palestinese, peggioreranno tutto il tessuto sociale. E interessante come nessuno noti che i palestinesi non hanno mai fatto nulla per ottenere la pace. Non hanno mai usato cultura, arte, diplomazia per creare un fronte di vero pacifismo e affermare i propri diritti. Il loro essere vittima è fondamentale, come ha spiegato lo stesso capo di Hamas. Il sangue delle donne e dei bambini palestinesi deve essere sempre di più perché è il motore della macchina che prima distruggerà Israele e poi attaccherà militarmente l'Occidente. Abbiamo nelle nostre strade un esercito islamico pronto a mobilitarsi: lo abbiamo visto in questi giorni urlare morte a Israele. Fino a quando Israele resiste, l'attacco all'Occidente non può essere attuato. Il conflitto è in questo momento delimitato e il disastro rimandato. Paradossalmente le parole di Amihai Eliyahu sono state l'unica azione che ha limitato la guerra.
(La Verità, 13 novembre 2023)
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Il paradosso dell’Europa che (con gli USA) ha fornito a Kiev le armi ora utilizzate da HAMAS
E deve mandarne altre per ordine di Zelensky
Le forze armate israeliane durante le operazioni militari nella striscia di Gaza hanno rinvenuto numerose armi di fabbricazione europea e statunitense che probabilmente fanno parte delle forniture occidentali inviate a Kiev, scrive il sito algerino Menadefense.net.
Secondo quanto affermato dal sito algerino i militari israeliani avrebbero rinvenuto numerose armi di fabbricazione occidentale tra le quali 4, lanciarazzi NLAW presumibilmente originari dell’Ucraina. Le armi sarebbero arrivate nelle mani di Hamas ed Hezbollah dal 2022 attraverso una linea di approvvigionamento clandestina dall’Ucraina al Libano, all’Iraq e presumibilmente alla Siria. Le armi sarebbero uscite dai magazzini militari ucraini situati nelle regioni di Leopoli, Odessa, Mykolaiv, Khmelnytskyi e Chernihiv.
Questa linea di approvvigionamento è operativa dal 2022. Nell’ultimo anno grazie a questa linea di rifornimento HAMAS ha ottenuto un numero non identificato di mitragliatrici MG3, lanciagranate M72 LAW, almeno 50 unità di Javelin FGM-148 ATGM, diverse dozzine di MILAN ATGM, 20 unità di Stinger FIM-92 MANPADS, 20 unità di obici trainati L118, 30 unità di droni Switchblade, circa 100 di Phoenix Ghost Drones e circa 50 droni da ricognizione Black Hornet Nano.
Tutte le transazioni sono passate attraverso diversi terminali DarkNet non divulgati. Fonti locali ritengono che la linea di fornitura illegale di armi operi sotto la gestione di due vice ministri del MOD dell’Ucraina tra cui spicca il – neo nominato Yuriy Dzhygyr (ex vice ministro delle finanze) e Dmytro Klimenkov (ex vice capo del Fondo statale per la proprietà dell’Ucraina) per il coordinamento degli affari finanziari e degli appalti. La linea di approvvigionamento sarebbe organizzata con l’assistenza di società di comodo gestite dall’ex capo della regione di Odessa Maksym Marchenko e supervisionata dagli operatori della Direzione dell’intelligence militare ucraina sotto il comando di Kyrylo Budanov.
Da tempo viene denunciato il fiorente mercato nero di armi provenienti dall’Ucraina in vendita nel dark web, di cui ho parlato in varie occasioni. Negli articoli che documentavano questo fiorente commercio avevo sottolineato che prima o poi tutte queste armi sarebbero state usate da qualcuno: ecco chi era uno dei clienti di questo traffico. Era ovvio che Hamas non potesse produrre da solo tutte le armi che sono usate nel conflitto.
La rivelazione del sito algerino conferma anche una sensazione che avevo avuto. Pensavo da varie settimane dove Hamas avesse reperito le armi che sta usando e molto semplicemente avevo concluso che arrivassero dall’Ucraina. Ipotesi la mia però non suffragata da nessuna fonte. Ecco quindi la spiegazione: in Occidente non si poteva ammettere che le armi con cui Hamas ed Hezbollah stanno combattendo fossero di provenienza ucraina altrimenti la figuraccia sarebbe stata colossale.
Una domanda: perché nessuno parla delle armi usate da Hamas ed Hezbollah? Semplicemente perché arrivavano dall’Ucraina attraverso i canali del mercato nero, più volte denunciato. Insomma grazie alle armi consegnate a Zelensky e soci oggi Hamas ed Hezbollah combattono contro Israele. Tutto combacia alla perfezione.
Non solo: Bloomberg riferisce che l’Unione Europea non sarà in grado di fornire nei tempi stabiliti un milione di munizioni per l’artiglieria a Kiev dato che a metà del termine stabilito da Bruxelles sono arrivate a Kiev solamente il 30 per cento di quanto promesso.
L’agenzia, citando persone informate sui fatti, ha riferito che Bruxelles non sarà in grado di fornire a Kiev il milione di munizioni per l’artiglieria promesse, infatti attualmente sono state consegnate solamente il 30 per cento delle munizioni stimate. L’Unione Europea aveva promesso che la fornitura di tutte le munizioni richieste sarebbe avvenuta entro la fine di marzo 2024.
Le fonti hanno indicato che il Servizio europeo di azione esterna, il braccio della politica estera dell’UE, ha riferito questa settimana ai diplomatici dell’UE che il blocco probabilmente non avrebbe raggiunto l’obiettivo di consegnare il numero specificato di proiettili prima di marzo 2024.
“La fornitura di munizioni all’Ucraina diventa ancora più urgente dato che la Russia è stata in grado di aumentare la propria produzione”, scrive Bloomberg.
Recentemente, il ministro delle industrie strategiche dell’Ucraina, Alexander Kamyshin, ha detto che “la capacità di produzione di armi del mondo non è sufficiente” per sconfiggere la Russia.
A Kiev però questo ritardo non va giù, infatti il capo dell’ufficio presidenziale dell’Ucraina, Andrei Yermak, ha avuto una conversazione telefonica con il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, a cui ha chiesto di accelerare le forniture di armi e munizioni a Kiev, riferisce sabato il sito web della presidenza ucraina. Allo stesso modo, Yermak ha informato Sullivan della situazione attuale sul fronte delle operazioni, e ha affrontato con lui le possibilità di attuare la cosiddetta “formula di pace” del presidente ucraino Vladimir Zelenski.
(Faro di Roma, 12 novembre 2023)
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Armi che arrivano all'Ucraina per la difesa della "libertà" del mondo occidentale e arrivano nelle mani di Hamas per la distruzione di Israele da parte dell'Islam. Dal che si vede il vantaggio che ha tratto Israele dalla causa provocata ad arte della "libertà in Ucraina". La causa israeliana è ben distinta dalla causa americana. Le cose si stanno vedendo sempre meglio. M.C.
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Il mistero esclusivo di Cristo
La posizione speciale dell'apostolo Paolo
di Norbert Lieth
In Efesini 3:1-12, l'apostolo Paolo scrive:
«Per questo motivo io, Paolo, il prigioniero di Cristo Gesù per voi stranieri... Senza dubbio avete udito parlare della dispensazione della grazia di Dio affidatami per voi; come per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero, di cui più sopra vi ho scritto in poche parole. Leggendo, potrete capire la conoscenza che io ho del mistero di Cristo. Nelle altre epoche non fu concesso ai figli degli uomini di conoscere questo mistero, così come ora, per mezzo dello Spirito, è stato rivelato ai santi apostoli e profeti di lui; vale a dire che gli stranieri sono eredi con noi, membra con noi di un medesimo corpo e con noi partecipi della promessa fatta in Cristo Gesù mediante il vangelo, di cui io sono diventato servitore secondo il dono della grazia di Dio a me concessa in virtù della sua potenza. A me, dico, che sono il minimo fra tutti i santi, è stata data questa grazia di annunciare agli stranieri le insondabili ricchezze di Cristo e di manifestare a tutti quale sia il piano seguito da Dio riguardo al mistero che è stato fin dalle più remote età nascosto in Dio, il Creatore di tutte le cose; affinché i principati e le potenze nei luoghi celesti conoscano oggi, per mezzo della chiesa, la infinitamente varia sapienza di Dio, secondo il disegno eterno che egli ha attuato mediante il nostro Signore, Cristo Gesù; nel quale abbiamo la libertà di accostarci a Dio, con piena fiducia, mediante la fede in lui.»
La gestione implica il compito di gestire, pianificare, organizzare e dirigere una famiglia. L'amministrazione o il governo della casa a cui Paolo fa riferimento riguarda la Chiesa. In questo passaggio emerge chiaramente l'importante compito dell'apostolo. Svela diverse informazioni sul mistero che egli affronta e al quale fa anche riferimento: «il mistero di Cristo!»
- 1 . Il mistero del corpo di Cristo è stato svelato esclusivamente all'apostolo Paolo. Tre volte nel testo sopra citato Paolo parla di un «mistero» (vv. 3.4.9), e dice: «avete udito parlare della dispensazione della grazia di Dio affidatami per voi» (v. 2).
Se non comprendiamo questa speciale rivelazione dell'apostolo Paolo sulla Chiesa, non potremo comprendere l'intero insegnamento del Nuovo Testamento su questo argomento e non capiremo i Vangeli. Infatti, se si ritiene che l'insegnamento di Paolo sulla Chiesa fosse già stato rivelato nei Vangeli, ciò implica che non era più un segreto nelle sue lettere e che le affermazioni dell'apostolo non sono affatto corrette. Inoltre, se si identifica la 'Chiesa come il corpo di Cristo ovunque nei Vangeli, anche se questo non è stato ancora menzionato, inevitabilmente si confondono molte cose, come ad esempio Israele, i discepoli, la chiesa giudaica, e si cade involontariamente preda della sostituzione teologica.
- 2. Già nel paragrafo precedente Paolo scrive riguardo al mistero della Chiesa: «mi è stato fatto conoscere il mistero, di cui più sopra vi ho scritto» (v. 3). Si tratta dell'unico corpo come nuovo corpo in un solo spirito, composto da ebrei e gentili.
- 3. Questo mistero non è stato rivelato alle altre generazioni e ai figli degli uomini prima della Pentecoste. Esso era nascosto in Dio, nascosto per tutti i secoli (vv. 5,9; cfr. Colossesi 1:26). Non se ne è mai parlato, mai è stato menzionato. Quindi, anche Gesù non ha mai parlato di questo mistero, neanche in Matteo 16:18. Al contrario, ha sempre distinto gli ebrei dai gentili. (Matteo 10,5-15; 15,24-26). In Matteo 16:18, il Signore Gesù parlò di una futura chiesa, anche se giudaica, come appare anche in Atti 1-10. Ha parlato anche dell'importanza di essere in Lui e che Lui è nei suoi (Giovanni 14,20; 15,1ss). All'inizio si riferiva solo ai suoi discepoli e ha anche chiarito, e ne parla già l'Antico Testamento (Isaia 65,1; Romani 10,20), che le persone delle altre nazioni possono essere salvate (Giovanni 12:20 ss.). Ma della rivelazione che il Signore diede poi a Paolo, Cristo non parlò nei vangeli. Questo era chiaramente un segreto nascosto in Dio fin dalle più remote età (Efesini 3:9). Nel passo parallelo dei Colossesi si legge: «il mistero che è stato nascosto per tutti i secoli e per tutte le generazioni, ma che ora è stato manifestato ai suoi santi» (Colossesi 1,26).
- 4. Questo mistero è stato rivelato solo «ora», «per mezzo dello Spirito, è stato rivelato ai santi apostoli e profeti» ( Efesini 3,5). Ciò significa in questo momento per lo Spirito e non nei Vangeli!
Il Signore lo rivelò per primo dal cielo tramite Paolo. In merito a questa verità, ci sono tre eventi evidenti nella storia biblica:
- Pietro fu il primo a riconoscere che Dio non fa più differenza tra ebrei e gentili (Atti 10). Dio glielo rivelò attraverso la visione del drappo con gli animali puri e impuri che scendevano dal cielo (Atti 10,11-16.44-48; 15,8-9).
- Come risultato della conversione di Cornelio, gli apostoli e i fratelli che erano in Giudea furono i successivi a constatare questa verità (Atti 11:1,18; Atti 15:9).
- Paolo ricevette una visione più profonda rispetto a quella che avevano ricevuto gli altri apostoli, ma che il Signore gli aveva dato separatamente: il mistero dell'unico corpo spirituale. Solo lui ha ricevuto questa rivelazione. Non si tratta del compimento delle promesse dell'Antico Testamento per il popolo ebraico, ma di qualcosa di completamente nuovo, ossia che attraverso Cristo Gesù «in un solo Spirito abbiamo accesso al Padre» (Efesini 2,18).
- 5. Si tratta del mistero in cui i Gentili sono incorporati nella parte ebraica credente e non vi è più alcuna differenza: «vale a dire che gli stranieri sono eredi con noi, membra con noi di un medesimo corpo e con noi partecipi della promessa fatta in Cristo Gesù mediante il vangelo» (vv. 3,6).
Una corporazione in cui tutti hanno uguale importanza, in cui Israele non ha più alcuna prerogativa né alcuna esclusività al di sopra delle nazioni.
Nel Vangelo secondo Matteo 15,24 leggiamo: «Io non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d'Israele».
- 6. L'apostolo Paolo è amministratore di questo mistero e ministro degli incorporati: «del quale io sono stato fatto ministro» (Efesini 3,7), «senza dubbio avete udito di quale grazia Iddio m'abbia fatto dispensatore per voi» (v. 2), «di manifestare a tutti quale sia il piano seguito da Dio riguardo al mistero» (v. 9).
- 7. Mediante la rivelazione di questo mistero la multiforme sapienza di Dio è resa nota e dichiarata ai principati e alle autorità nei luoghi celesti, «secondo il disegno eterno che egli ha attuato mediante il nostro Signore, Cristo Gesù» (Efesini 3,11). Possiamo gioire ed essere grati di far parte di questo mistero. Tuttavia, dovremmo tenere presenti queste verità anche durante i nostri studi biblici, in modo da restare sulla retta via e non smarrirci.
(Chiamata di Mezzanotte, set/ott 2023)
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Cancellato il 7 ottobre in tv
Il giornalismo “indipendente” che demonizza Israele e il suo diritto all’autodifesa fa il gioco di Hamas
di Claudio Cerasa
Giornalisti complici: ma in che senso? L’organizzazione non governativa israeliana HonestReporting, due giorni fa, ha diffuso una notizia che ha suscitato una certa curiosità nelle redazioni di tutto il mondo. Secondo HonestReporting, il 7 ottobre i terroristi di Hamas non sono stati gli unici a documentare, con le loro telecamere, i crimini di guerra commessi nel sud di Israele, in quanto alcune di quelle atrocità sono state documentate da alcuni fotoreporter con base a Gaza, la cui presenza mattutina nell’area di confine violata, scrive la ong, “solleva serie questioni etiche” e spinge a porsi una serie di domande.
Per esempio. I fotoreporter convocati sul campo che informazioni avevano avuto? I fotoreporter si sono mossi coordinandosi con Hamas? È verosimile pensare che i fotoreporter convocati la sera prima dello sterminio degli ebrei fossero convinti che l’operazione segnalata da documentare fosse una raccolta di margherite in un kibbutz di Israele? A giudicare dalle immagini del linciaggio, del rapimento e dell’assalto al kibbutz israeliano, scrive la ong, sembra che il 7 ottobre il confine sia stato violato non solo fisicamente, ma anche giornalisticamente.
La vicenda dei fotoreporter andrà naturalmente approfondita, studiata e verificata. Ma nell’attesa di capire qualcosa di più su questa storia si può tentare di mettere a fuoco un tema speculare, che riguarda un’altra forma di giornalismo che senza aver neppure bisogno di lavorare embedded con i terroristi ha scelto di raccontare la guerra in medio oriente utilizzando un’inquadratura non troppo diversa da quella che utilizzerebbe Hamas per raccontare la sua “resistenza” contro Israele. In attesa di saperne di più dei fotoreporter convinti certamente di essere stati convocati da Hamas il 7 ottobre per documentare una manifestazione pacifica di fronte al kibbutz di Kfar Aza, è sufficiente collegarsi con una qualsiasi trasmissione tv, in Italia e fuori dall’Italia, per rendersi conto di un fenomeno crescente: il tentativo quotidiano, da parte dell’informazione libera, indipendente e a schiena dritta, di trasformare Israele nell’aggressore, non più nell’aggredito, cancellando progressivamente il 7 ottobre e facendo di ogni programma televisivo, tranne rare eccezioni, un processo a senso unico contro chi un mese fa ha subìto rastrellamenti simili a quelli che l’umanità ha visto durante la stagione della Germania nazista.
Il giornalismo complice della propaganda di Hamas è quello che usa con cautela la parola “terroristi”. È quello che usa a sproposito la parola “proporzionalità”. È quello che usa le dichiarazioni di Hamas come fonti ufficiali. È quello che accusa Israele di genocidio, di pulizia etnica, dimenticando che differenza c’è fra una tragedia e un genocidio, dimenticando chi è che in questa guerra usa i civili come scudi umani, dimenticando di ricordare che le vittime sono tutte uguali ma la mano di chi spara no e dimenticando di ricordare che i vigliacchi di Hamas non hanno aggredito soldati nelle caserme ma hanno ucciso donne, bambini, neonati, sopravvissuti alla Shoah, bruciando vive intere famiglie, cavando gli occhi a padri, tagliando i seni a madri, mutilando volontariamente bambini di 6-8 anni prima di ucciderli.
Giovedì pomeriggio, 750 giornalisti americani hanno firmato una lettera aperta per criticare la copertura della guerra da parte dei media occidentali, per invitare i colleghi a usare “termini precisi ben definiti dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani”, come l’Onu, tra cui “apartheid”, “pulizia etnica” e “genocidio”. Nelle stesse ore in cui l’appello veniva pubblicato, il Washington Post ha scelto di rimuovere una vignetta, disegnata da un premio Pulitzer, che raffigurava un leader di Hamas mentre usa civili come scudi umani, in quanto “troppo razzista”. Il cerchio si chiude. Il popolo aggredito diventa il popolo aggressore, il 7 ottobre è cancellato e l’unico giornalismo indipendente è quello che demonizza Israele e il suo diritto all’autodifesa. Da Hamas24news è tutto, a voi studio.
(Il Foglio, 11 novembre 2023)
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È bravo Hamas a disinformare o i nostri media sono in malafede?
di Franco Londei
In un articolo di qualche giorno fa chiedevo quanti fossero in realtà i morti nella Striscia di Gaza, chi ne tenesse conto e come facevano ad averne i numeri in pochi minuti.
Naturalmente le mie erano domande provocatorie perché tutti sappiamo che quei dati vengono forniti da Hamas, cioè da quel gruppo terrorista responsabile del massacro del 7 ottobre, e dalla UNRWA, cioè da quella organizzazione ONU specifica per i palestinesi, amministrata dai palestinesi e che fino ad oggi ha avuto solo due compiti, portati pienamente a compimento, quello di moltiplicare il numero dei cosiddetti “profughi palestinesi” e quello di fomentare odio verso gli ebrei nelle sue scuole.
Ebbene, tutto quello che trasmettono Hamas e la UNRWA, viene preso dai media occidentali come oro colato, come se dietro al fantomatico “Ministero della sanità di Gaza” ci fosse una equipe medica e non un gruppo di tagliagole, o come se dietro alla UNRWA ci fosse davvero una agenzia ONU imparziale.
È deontologicamente serio? Direi di no. È deontologicamente serio sbattere ai quattro venti la notizia che Israele aveva sparato un missile su un ospedale a Gaza facendo un migliaio di morti, in maggioranza donne e bambini (perché è importante ripetere all’infinito questa equazione) quando poi si è scoperto che il missile era un razzo difettoso della Jihad Islamica caduto sul parcheggio di un ospedale per un totale di qualche decina di morti? Ditemi voi se lo è.
Eppure nessuno in quei momenti ha avuto il minimo dubbio. Ha preso le parole di Hamas per oro colato. TV di tutto il globo hanno trasmesso per ore la stessa falsa notizia mentre in tutto il mondo i musulmani insorgevano contro il “mostro ebreo”. Nessuno di loro ha chiesto scusa, salvo il New York Times che però continua imperterrito a pubblicare le veline di Hamas.
Sono bravi quelli di Hamas a disinformare o i giornalisti occidentali sono cialtroni o, peggio, sono in malafede? Impossibile che ci siano così tanti cialtroni, quindi sono propenso a credere che siano in malafede.
La cosa è quindi gravissima, perché in qualche modo la cialtronaggine sarebbe scusabile, la disinformazione involontaria per scarsa conoscenza dell’argomento. Ma la disinformazione volontaria, il trasmettere una notizia sapendo che nel migliore delle ipotesi arriva da fonti dubbie e nella peggiore è falsa, beh quella si chiama malafede o, nel caso specifico, antisemitismo.
Perché fanno ridere i vari Cip e Ciop dei talk show nostrani che si offendono se gli dai dell’antisemita quando fanno deliberatamente disinformazione o vanno in TV a chiedere una tregua a Israele sapendo che tutto ciò favorirebbe Hamas. O quelli che nemmeno menzionano le parole di Khaled Mesh’al che senza tanti giri di parole ha ordinato ai cittadini di Gaza, vecchi, donne e bambini, di fare da scudi umani. Ho scritto “ordinato” perché quello era un ordine, fatto puntualmente rispettare dai suoi tagliagole.
Ma il mostro è Israele. Quelli di Hamas hanno spazzato via un intero asilo nido, decapitato bambini, aperto il ventre di una madre incinta, messo un bambino a cuocere in un forno a legna davanti a sua madre (testimonianza dopo aver visto video, foto e documenti dell’Assistente del Segretario di Stato, Barbara A. Leaf, e dell’Assistente del Segretario alla Difesa, Dana Stroul, di fronte alla Commissione Affari Esteri della Camera sul sostegno degli Stati Uniti a Israele), ammazzato senza pietà 1400 israeliani, ma il mostro è sempre Israele. Perché? Perché quei cialtroni antisemiti dei giornalisti (sic) occidentali diffondono quotidianamente le veline di Hamas.
Alla fine i tagliagole sembrano le vittime e le vittime sembrano i tagliagole. Ma sbaglia chi pensa che sia bravo Hamas a disinformare. Certo, i terroristi se ne inventano ogni giorno una nuova, ma i veri responsabili sono dall’altra parte, quelli che all’ombra di giornali di importanza mondiale continuano a diffondere le veline di Hamas e a istigare volontariamente odio contro gli ebrei e contro Israele.
(Rights Reporter, 11 novembre 2023)
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Prosor ai cristiani: possiamo contare su di voi
L'ambasciatore israeliano in Germania Ron Prosor ringrazia i cristiani per il loro sostegno. E sottolinea gli obiettivi della guerra contro Hamas.
di Martin Schlorke
BERLINO - L'ambasciatore di Israele in Germania, Ron Prosor, ha ringraziato i cristiani per la loro solidarietà di fronte al terrore di Hamas. "Possiamo contare su di voi", ha detto Prosor venerdì a Berlino. Lo hanno dimostrato nel recente passato. Perché i veri amici si riconoscono nel momento del bisogno.
L'attacco terroristico è un attacco ai valori che ebraismo e cristianesimo condividono, "al nostro modo di vivere". Coloro che non hanno ancora capito nulla non possono essere aiutati.
Per quanto riguarda i rappresentanti delle varie comunità religiose, Prosor ha affermato che coloro che non condannano il massacro di Hamas "non sono e non saranno mai nostri amici o partner".
Prosor è intervenuto al Summit su Israele dell'organizzazione Christen an der Seite Israels (Cristiani dalla parte di Israele).
• La lotta contro Hamas continuerà
Per quanto riguarda l'offensiva di terra, il diplomatico ha sottolineato che "ogni vita a Gaza conta". Questo non deve essere perso di vista. Tuttavia, Hamas è l'unico responsabile della situazione a Gaza. Offre ai palestinesi solo povertà e sofferenza.
Israele continuerà la sua azione militare e si fermerà solo quando Hamas e le sue infrastrutture saranno state distrutte. Prosor ha citato l'azione contro lo Stato Islamico (IS) come giustificazione della necessità di questo obiettivo. L'ideologia dell'IS è ancora presente, ma non ha più i mezzi per metterla in pratica e massacrare cristiani, ebrei e altri.
• Responsabilità dei media
Prosor ha invitato i media e la società a esercitare pressioni sulla Croce Rossa. L'organizzazione umanitaria internazionale deve fare di più per il benessere degli ostaggi, ma "non vediamo e non sentiamo nulla dalla Croce Rossa", ha detto l'ambasciatore.
(Israelnetz, 10 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Spade di ferro - giorno 36. Le pause umanitarie e gli ospedali
di Ugo Volli
• Perché il cessate il fuoco non è possibile
I sostenitori dell’islamismo in tutto il mondo, seguiti dai “pacifisti” più o meno sinceri, continuano a richiedere un “cessate il fuoco” che poi rapidamente diventerebbe una tregua a tempo indeterminato: esattamente lo stato che vigeva prima del 7 ottobre e che ha permesso la preparazione della strage. Hamas, colpita duramente ma non annullata, riprenderebbe il potere su Gaza, userebbe gli aiuti internazionali (non solo quelli dell’Iran da cui dipende e del Qatar e della Turchia che la appoggiano per solidarietà ideologica) non per dare sollievo alla popolazione ma per ricostruire il proprio arsenale. L’ha dichiarato con molta franchezza in un’intervista ai giornali occidentali l’altro ieri Khalil al-Hayya, vice leader di Hamas nella Striscia di Gaza: "L'obiettivo di Hamas non è governare la Striscia di Gaza e fornirle acqua ed elettricità, né migliorare la sua situazione. Questa battaglia non è avvenuta perché avevamo bisogno di carburante o di manodopera", ha aggiunto. “Il nostro scopo non è di migliorare la situazione nella Striscia di Gaza. Questa battaglia mira a cambiare completamente la situazione". Secondo al-Hayya, i leader di Hamas pensano che la questione palestinese sia stata relegata in secondo piano e che solo un'azione decisiva possa "ravvivarla [... in maniera tale che] ora nessuno nella regione avrà la pace”. Questa è la vera posta in gioco. I terroristi non vogliono “la pace”, anzi la detestano; quel che progettano è “rifare una, due, tre volte il 7 ottobre e poi ancora, fino alla distruzione di Israele”, come hanno dichiarato in un’altra occasione. Per tale ragione, come ha spiegato ieri Netanyahu in un’intervista, ma pensano tutti i dirigenti israeliani. il cessate il fuoco sarebbe “una resa a Hamas”. Lo stesso Biden, interrogato dai giornalisti in merito ha detto: “una tregua oggi non è possibile”.
• Le pause umanitarie
Tutt’altra cosa sono le “pause umanitarie” che l’esercito israeliano pratica ormai da qualche giorno, in tempi determinati (di solito dalle 12 alle 16) e in luoghi precisi (il grande asse stradale Al-saledin che congiunge l’estremità settentrionale e quella meridionale di Gaza). Si tratta qui di permettere alla popolazione civile di uscire dal teatro principale della battaglia, che comprende la parte settentrionale e centrale della Striscia. Israele non vuole colpire i civili. Essi non sono, come si dice, “innocenti”: hanno votato in grande maggioranza per Hamas nelle uniche elezioni tenute dall’Autorità Palestinese nel 2006, hanno continuato a sostenerlo nei sondaggi, hanno partecipato in massa alle sue manifestazioni e ai suoi festeggiamenti per gli attentati, inclusi quelli del 7 ottobre. È ormai chiaro che un certo numero di persone non inquadrate nei gruppi terroristi, cioè “civili” hanno partecipato a questa strage, compiendo alcuni fra i crimini più terribili che vi sono avvenuti.
• Svuotare la vasca
Ma la responsabilità è individuale e Israele non sta cercando né vendette né punizioni collettive. Semplicemente Hamas applica da sempre la teoria maoista della “guerra di popolo”, mescolandosi e mimetizzandosi nella popolazione civile “come pesci nell’acqua”, non indossando uniformi, mettendo le armi in case d’abitazione, scuole, moschee, ospedali - cose che sono crimini di guerra per la legge internazionale. In questa maniera i civili sono usati come scudi umani, imponendo un terribile dilemma: se Israele esclude ogni azione che li metta a rischio, i terroristi sono protetti e possono continuare a compiere i loro crimini; se invece li colpisce si attira odio e criminalizzazione. Contro la strategia dei “pesci nell’acqua” funziona solo la contro-strategia di “svuotare la vasca”: mandare via i civili in luoghi dove possono stare al sicuro e costringere i terroristi a combattere a viso aperto. È quello che fa Israele in questi giorni, col doppio obiettivo di salvare i civili e di eliminare i terroristi.
• Vicini al centro della ragnatela
Le truppe israeliane hanno da tempo circondato la città di Gaza, hanno eliminato decine di centri fortificati in Gaza, liquidando molti terroristi e i loro capi. Hanno investito i dintorni dell’ospedale Rantisi, come tutti gli ospedali usato da Hamas nei sotterranei come centro di comando, magazzino d’armi e caserma. Sono arrivati al complesso di Ansar a Gaza City, il luogo in cui si trovano tutti i quartier generali di tutti i meccanismi di sicurezza di Hamas nella Striscia di Gaza, compresi gli uffici del Ministero degli Interni. Vi sono stati attacchi israeliani anche al complesso dell’”ospedale indonesiano” nel nord della Striscia e al Rantisi nel centro. I soldati di Israele sono ormai ad alcune centinaia di metri dall’ospedale centrale della città di Gaza, il Shifa. Questa scelta di obiettivi non è casuale né naturalmente deriva da un’avversione di Israele all’attività medica (è vero il contrario, come tutti sanno). Il problema è la scelta criminale dei terroristi di nascondere le loro principali istallazioni proprio sotto gli ospedali, per sottrarli ai bombardamenti. Shifa non è solo l’ospedale più grande di Gaza, ma la sede sotterranea dei comandi generali di Hamas, come Israele ha abbondantemente documentato e abbiamo riportato anche su Shalom. Il fatto di essere arrivati vicini “nel cuore della città di Gaza” dove Israele non era entrato da decenni, è un progresso importante. Ma non bisogna farsi illusioni: se il combattimento al suolo procede bene, più velocemente e con meno perdite del previsto, c’è ancora la battaglia sotterranea, quella decisiva. Ci sono tre livelli di tunnel, a quanto pare, a 20 metri sotto il suolo (il livello operativo), a 40 (il livello dei magazzini delle armi) e a 70, dove stanno i capi e i centri operativi. Venti metri d’altezza è come una casa di sei piani; settanta metri, la dimensione di un palazzo di venti: tutto fortificato e pieno di trappole. Ma non sono palazzi bensì gallerie, labirinti, la famosa “metropolitana di Gaza”, che i terroristi sperano sia imprendibile, ma si sbagliano.
• L’uso degli ostaggi
Ieri la Jihad Islamica ha imitato Hamas nel tentativo di usare gli ostaggi per la guerra psicologica: ha fatto pronunciare ieri in video a una donna anziana e a un bambino frasi di accusa contro il governo israeliano e Netanyahu e l’hanno diffuso in rete. Poi i terroristi hanno dichiarato che intendono liberarli. Nel frattempo il capo del Mossad e quella della CIA si sono incontrati in Qatar con esponenti del governo locale, che è fra i grandi protettori di Hamas e anche l’editore del network televisivo filoterrorista di Al Jazeera. Ma non bisogna farsi illusioni: la liberazione vera degli ostaggi non si può fare con uno scambio di prigionieri o una tregua, che darebbero la vittoria ai terroristi, ma solo con la loro completa sconfitta.
(Shalom, 10 novembre 2023)
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Stai dalla parte di Hamas? O sei antisemita o sei idiota. O entrambe le cose
Lo scrittore israeliano Jonathan Yavin: “Ci siamo stancati di spiegare. Se il mondo non ci ascolta, perché dovremmo ascoltarlo noi?”
di Jonathan Yavin
Dopo l’orrendo massacro del 7 ottobre, i traumatizzati israeliani stanno facendo del loro meglio, a partire dai social network, per far capire al mondo il loro orrore. Vogliamo che il mondo sappia, vogliamo che il mondo si convinca, vogliamo che il mondo sia dalla nostra parte – una volta tanto. Perché non è stato così negli ultimi… beh, non saprei: duemila anni?
L’antisemitismo non tocca il culmine quando viene sbandierato apertamente da qualche naziskin che sventola bandiere con la svastica, ma quando viene furbamente spacciato da studiosi in cerca di notorietà sotto forma di una bugiarda campagna “per la libertà”, fatta propria e divulgata da celebrità alla moda, che non sanno un cavolo, affinché venga abbracciata da moltitudini di studenti sprovveduti e facilmente influenzabili.
Quando i puri malvagi vengono fatti passare per poveri derelitti, allora l’antisemitismo si presenta nella sua forma più contagiosa e pericolosa. Si appiccica in modo astuto e molto persuasivo agli ingenui e agli ignoranti, che ben presto si rifiutano di prendere atto di qualsiasi fatto che metta in discussione la loro “narrazione”. E alla fine si trasformano in ipocriti compiacenti, sempre alla ricerca dell’opinione “giusta” da esibire.
Abbiamo provato di tutto, con questa gente, senza alcun risultato. Abbiamo fatto vedere filmati orribili (cosa che Israele finora non aveva mai fatto, per rispetto delle vittime ndr). Abbiamo fatto sentire le vane, strazianti suppliche di genitori che imploravano di risparmiare la vita dei loro figli. Abbiamo mostrato lo spietato sadismo di Hamas nella sua forma più cruda e atroce. Eppure, in qualche modo, i “cattivi” in questa storia siamo ancora noi.
Bene, ecco una piccola notizia per queste persone: ne abbiamo abbastanza di spiegare. Tutto si è ribaltato. Tutto si è ribaltato in quelle case devastate dei kibbutz aggrediti, e tutto si è ribaltato in ogni altro senso. In Israele, praticamente tutti coloro che tendevano la mano in segno di pace ora stringono i pugni. Abbiamo perso ogni speranza di vivere in pace accanto ai nostri vicini palestinesi. E sicuramente non ci importa niente di quello che Greta Turnberg dice di noi ai suoi amici super-fighi: non quando sono in ballo le nostre vite e, a quanto pare, la nostra morte.
La parte giusta, nelle atrocità del 7 ottobre, è quella israeliana. Lo capisce chiunque sia sano di mente. Decapitare neonati, stuprare centinaia di donne, bruciare intere famiglie, rapire bambini e anziani sopravvissuti alla Shoà e persone disabili sono tutte cose che non possono trovare nessuna giustificazione in nessun contesto. Questi non sono atti di poveri derelitti, questi sono atti di despoti sanguinari.
Ma è come parlare a un muro, è assolutamente inutile. E se nessuno ascolta, perché dovremmo ascoltare noi? Quindi non diteci di fermare la guerra a Gaza: non accadrà.
Francamente, non abbiamo più bisogno del vostro permesso o della vostra approvazione. Se non andiamo a salvare i nostri cari, che genere di ebrei saremmo? Che genere di israeliani? Che genere di esseri umani? E segnatevi questo: se non scoveremo e non sradicheremo questi psicopatici, loro continueranno a uccidere noi e se stessi, e alla fine verranno anche da voi. Datevi un’occhiata attorno, lì in Europa.
Vivo nel centro di Israele, nell’area metropolitana di Tel Aviv, non in qualche sperduto insediamento nei territori occupati. Oggi ho portato la mia famiglia nel rifugio tre volte perché venivano lanciati missili contro la nostra città. Due anni fa un missile distrusse la clinica del nostro pediatra: per fortuna era chiusa, l’unico che rimase ucciso fu un senzatetto. Sbaglio, dovrei dire che la sua anima è stata liberata dal corpo grazie a Hamas. Ho dovuto spiegarlo in qualche modo ai miei figli, che da più di un mese non frequentano una giornata di scuola regolare. Ora devo spiegare loro perché un neonato di 9 mesi è tenuto prigioniero da un mese nelle segrete sotterranee di Hamas.
Ma a coloro che ancora stanno dalla parte di Hamas non sento il bisogno di spiegare niente. Non più. Per quanto mi riguarda, o sono antisemiti o sono idioti. E molto probabilmente sono entrambe le cose.
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da YnetNews, 5.11.23
(israele.net, 10 novembre 2023)
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Hamas: vogliamo una guerra permanente con Israele
"L'obiettivo di Hamas non è amministrare la Striscia di Gaza e portarle acqua, elettricità e così via", ma "ribaltare completamente la situazione".
di Joshua Marks
Hamas non è interessato a governare Gaza ma vuole una guerra infinita con Israele, hanno dichiarato i membri del gruppo terroristico in un articolo del New York Times pubblicato mercoledì.
Secondo i leader di Hamas, questo era uno degli obiettivi principali dell'invasione del 7 ottobre del Negev nord-occidentale, durante la quale migliaia di terroristi armati hanno massacrato 1.400 persone, per lo più civili, ne hanno ferite più di 5.000 e hanno portato più di 200 ostaggi a Gaza.
"Spero che lo stato di guerra con Israele diventi permanente su tutti i confini e che il mondo arabo si schieri con noi", ha dichiarato Taher el-Nounou, consigliere di Hamas per i media, al quotidiano statunitense.
Khalil al-Hayya, membro del politburo del gruppo terroristico in Qatar, ha dichiarato che l'attacco del 7 ottobre è stato pianificato per "cambiare l'intera equazione e non solo per avere uno scontro", aggiungendo che "siamo riusciti a riportare la questione palestinese all'ordine del giorno e ora nessuno nella regione è tranquillo".
"L'obiettivo di Hamas non è governare la Striscia di Gaza e fornirle acqua, elettricità e così via", ha detto al-Hayya. "Hamas, Qassam e la resistenza hanno svegliato il mondo dal suo sonno profondo e hanno dimostrato che questo problema deve rimanere all'ordine del giorno".
Ha aggiunto: "Questa lotta non ha avuto luogo perché volevamo carburante o lavoratori. Non si trattava di migliorare la situazione a Gaza. Questa lotta vuole ribaltare completamente la situazione".
Il 24 ottobre, l'alto funzionario di Hamas Ghazi Hamad ha dichiarato all'emittente televisiva libanese LBC TV che il gruppo terroristico continuerà a compiere massacri come quello commesso nel sud di Israele il 7 ottobre fino a quando lo Stato ebraico non sarà distrutto.
"Israele è uno Stato che non ha posto sulla nostra terra. Dobbiamo eliminare questo Paese perché è un disastro politico, militare e di sicurezza per la nazione araba e islamica e deve finire", ha detto Hamad, secondo una traduzione dell'intervista fatta dal Middle East Media Research Institute.
"Non ci vergogniamo di dirlo con fermezza", ha aggiunto.
L'esistenza di Israele è "illogica", ha detto, aggiungendo: "L'esistenza di Israele è la ragione di tutto il dolore, il sangue e le lacrime".
"Il 'diluvio di Al-Aqsa' [termine con cui Hamas indica l'attacco terroristico del 7 ottobre] è solo la prima volta, e ce ne sarà una seconda, una terza e una quarta, perché abbiamo la determinazione, la risolutezza e le capacità per combattere", ha detto Hamad.
(Israel Heute, 10 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Sei ragioni per cui Israele non può concedere una tregua
Ron Ben-Yishai scrivendo su Yediot Ahronoth argomenta con estrema precisione e semplicità le sei ragioni per cui Israele non può concedere un cessate il fuoco.
Ron Ben-Yishai sostiene che Israele può accettare al massimo una “pausa” umanitaria di 4-5 ore. Questo è il tempo necessario per fornire ai residenti civili di Gaza gli aiuti umanitari di cui hanno bisogno per migliorare le condizioni degli sfollati, dei feriti e dei malati. In generale, Gaza è un’area piccola e anche chi si sposta a piedi dal nord alle aree di rifugio nel sud, può farlo in quattro ore o meno. Non c’è bisogno di più per i camion carichi di cibo, acqua e medicine che si dirigono da Rafah all’ospedale Shifa alla periferia del quartiere di Jabalia, nel nord di Gaza.
Se si considera la questione in tutti i modi possibili, si capisce perché Hamas insiste tanto per avere un “cessate il fuoco” di due o tre giorni. Questo gli darà vantaggi significativi senza che sia costretto a dare quasi nulla in cambio, se non qualche rapito con cittadinanza straniera o doppia cittadinanza tra i circa 240 ostaggi. Ecco sei motivi per cui Israele non deve accettare:
- Dal punto di vista logistico, i combattenti di Hamas e la leadership che si trovano nei tunnel otterranno quasi tutto ciò di cui hanno bisogno per rifornirsi sottoterra. Sarebbero in grado di saccheggiare le strutture dell’UNRWA e i magazzini di cibo e carburante di Gaza, prolungando così la loro capacità di rimanere sottoterra per molti altri giorni.
- Il cessate il fuoco consentirà ad Hamas di ripristinare le linee di comunicazione che sono state danneggiate tra i suoi vari compound sopra e sotto la superficie. All’interno dei tunnel corrono molte linee di comunicazione che permettono alla leadership di trasmettere ordini agli avamposti che stanno ancora combattendo. Un cessate il fuoco permetterebbe di farle funzionare di nuovo e forse anche di liberare i passaggi nei tunnel che sono stati bloccati dalle bombe dell’aviazione o dall’attività dell’IDF sul terreno.
- Dal punto di vista operativo, il cessate il fuoco permetterà ad Hamas di riorganizzarsi e di armarsi per continuare i combattimenti. Ad esempio, i terroristi potranno ricaricare i lanciarazzi situati vicino alle aree in cui si combatte. Questi lanciatori vengono svuotati dopo aver sparato i razzi o le bombe di mortaio, e la sospensione dei combattimenti ne consentirà l’accesso. Ciò significa che un cessate il fuoco di alcuni giorni permetterà un drastico aumento dei lanci verso Israele.
- Hamas potrà anche riorganizzare le sue forze e rafforzare gli avamposti isolati. La sua rete di tunnel da combattimento non è continua, e anche le parti che lo sono sono state danneggiate e tagliate dagli attacchi dell’aviazione. Per questo negli ultimi giorni i terroristi hanno avuto difficoltà a muoversi e a rinforzare i settori raggiunti dall’IDF. Un cessate il fuoco consentirà ai terroristi di scendere a terra, o di sfondare i passaggi tra i tunnel, e di trasportare truppe, missili anticarro e ordigni esplosivi improvvisati.
- Come abbiamo visto durante l’operazione “Protective Edge”, il cessate il fuoco è solo una raccomandazione per Hamas, mentre l’IDF si considera obbligato a mantenerlo. In qualsiasi scenario, è probabile che la storia si ripeta. All’epoca, quando i terroristi di Hamas uscivano dai pozzi e uccidevano i soldati nelle vicinanze, ciò accadeva o perché erano scollegati dalla leadership di Hamas, o semplicemente perché i terroristi non obbediscono sempre agli ordini. Non rischieremo né l’uno né l’altro.
- Ma la conseguenza più grave è quella di mettere a rischio la possibilità di liberare gli ostaggi. Un cessate il fuoco di qualche giorno permetterà ad Hamas di spostarli, danneggiando così gli sforzi dell’intelligence israeliana e vanificando la possibilità di liberarli attraverso un’azione militare. Inoltre, il tempo a disposizione permetterà ad Hamas di raccogliere gli ostaggi che sono nelle mani di altre parti a Gaza, aumentando così il suo potere contrattuale.
La linea di fondo è chiara: Israele non ha nulla da guadagnare da un cessate il fuoco, se non qualche punto di approvazione da parte dell’opinione pubblica internazionale, che svanisce piuttosto rapidamente come abbiamo visto dall’esperienza passata. D’altro canto, un cessate il fuoco pregiudica la possibilità di liberare gli ostaggi, ritarda il processo di smascheramento e distruzione dei tunnel del terrore, consente ai terroristi di Hamas di migliorare le loro posizioni e di trasportare le attrezzature, oltre a prolungare il loro tempo potenziale sottoterra. Dal punto di vista di Israele, tutto ciò è inaccettabile. Il massimo che Israele può concedere sono pause umanitarie di poche ore e solo alla luce del giorno. In questo modo si soddisfano le richieste dell’amministrazione Biden e della comunità internazionale di aiuti umanitari alla popolazione civile.
(Rights Reporter, 10 novembre 2023)
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Lo scandalo dei fiancheggiatori dei jihadisti
di Giovanni Sallusti
Ti imbatti nell’assurdo così, di primo pomeriggio, scorrendo meccanicamente l’IPhone, come mille altre volte. «Reporter al seguito di Hamas». Il dito si arresta da solo, la mente si rifiuta. «Reporter al seguito di Hamas il 7 ottobre». È come scrivere reporter al seguito delle Ss negli anni della soluzione finale, reporter al seguito dei khmer rossi durante il genocidio cambogiano, reporter al seguito dell’Isis sulla spiaggia delle decapitazioni. Professionisti dell’informazione a braccetto coi professionisti dell’orrore, a documentare l’Inumano mentre accade, il tutto restando umani (come vuole un noto slogan progressista), senza mostrare il minimo turbamento, il minimo cenno di disapprovazione. O, peggio, condividendo la macelleria, forse conoscendola già da prima, perché pedine consapevoli del piano. Sono le terrificanti domande sollevate da Honest Reporting, ong che si occupa di “combattere i pregiudizi ideologici” contro Israele, quotidianità nel circo mediatico. Quel che è stato documentato ieri, però, va oltre. Quattro nomi, e una dose non banale di riscontri fattuali. I nomi sono Hassan Eslaiah, Yousef Masoud, Ali Mahmud e Hatem Ali, quattro fotoreporter freelance di origine araba che lavorano per colossi dell’informazione globale (parliamo di Associated press, Reuters, Cnn, New York Times).
• Sul luogo della mattanza
Ebbene, costoro in quella dannata mattina del pogrom erano lì, sul luogo della mattanza, l’hanno raccontata in diretta, tramite scatti, video, post che hanno fatto il giro del mondo. Come nota il report di Honest, e come risulta autoevidente a chiunque abbia conservato un grammo di lucidità, «la loro presenza in quel luogo» solleva una montagna di “questioni etiche”. Inezie come: «La loro attività era stata coordinata con Hamas? Questi freelance hanno informato le loro testate?». Questi «giornalisti» si sono alzati quel mattino sapendo che si andava allegramente a sgozzare bambini, seviziare donne, bruciare i figli davanti ai padri e viceversa? Sono giornalisti o nazisti del nuovo millennio?
Non sono iperboli: una fotografia segnalata da Hosting Reporter mostra uno dei cosiddetti “reporter”, Hassan Eslaiah, felicemente abbracciato a Yahya Sinwar, semplicemente il leader di Hamas a Gaza, il tagliagole in capo che ha organizzato il pogrom, addirittura intento a schioccare un bacio sulla guancia a quello che è evidentemente un amico. Lo stesso Eslaiah ha postato (e poi cancellato, coda di paglia abbastanza dilettantesca per un reporter) su X un video dove si lo vede di fianco a un carro armato israeliano in fiamme, senza nessun elemento che lo identifichi come “stampa”, mentre ci informa che “tutti i soldati sono stati rapiti dalle Brigate Al Qassam”. Anche Masoud era presente sulla scena. Sempre in diretta, sempre così segugi da essere allo stesso tempo così bravi e così fortunati?
L’ufficio stampa del governo israeliano ha chiesto spiegazioni ai network internazionali su un coinvolgimento che chiaramente supererebbe «ogni linea rossa, professionale e morale» (ma anche umana, quando il coltello affonda nella culla la persona non può non prevalere sul “reporter”). Associated press ha dichiarato di «non essere a conoscenza degli attacchi del 7 ottobre prima che avvenissero», ma di aver comunque chiuso la collaborazione “occasionale” con Eslaiah. Anche Reuters «nega categoricamente di essere stata a conoscenza dell’attacco», e afferma di aver «acquisito le fotografie di due fotografi freelance con sede a Gaza che si trovavano al confine la mattina del 7 ottobre» (e non quella del 6 o dell’8, costellazione favorevole). Secondo Ynet News, la Cnn «ha deciso di sospendere il rapporto con Eslaiah nonostante non abbia trovato alcun motivo per dubitare dell’accuratezza giornalistica del lavoro che ha svolto» (forse fin eccessiva). Intanto, “reporter” e “Hamas” diventano un unico sintagma, un’unica tendenza social. Il non-senso a portata di polpastrello, in questo scampolo psicotico di Novecento.
Libero, 10 novembre 2023)
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Espulsione dal Gush Katif - Cento giorni dopo
Diciotto anni fa Israele ha sgomberato Gaza. Il mondo ha lodato Ariel Sharon, perché effettivamente soltanto lui poteva riuscire a far ingoiare agli israeliani un boccone così amaro. Soldati israeliani costretti a far uscire con la forza altri israeliani dalle loro case, dalle loro fattorie, dalle loro aziende a cui avevano lavorato con cura. A stretto malincuore gli ebrei di Gaza si sono lasciati espellere e per diversi mesi sono vissuti come profughi nel resto di Israele. Abituati alle fughe, i profughi di Gaza in Israele si sono riadattati e adesso non se ne parla più. Bisognerebbe invece ripensarci e riparlarne. Un sito come “Notizie su Israele” si presta bene a ritrovare tracce di quella inutile violenza che Israele ha imposto a se stesso con il plauso del resto del mondo. Ripresentiamo un articolo del dicembre 2005. E’ una “profuga di Gaza” che parla.
Sono un'espulsa dal Gush Katif e devo dirvi che, nonostante tutto quello che i media vi vogliono far credere, il mio mondo è crollato! La nostra vita trascorreva serena, per quello che era possibile, mio marito ed io lavoravamo e guadagnavamo per mantenerci. Non eravamo ricchi, ma vivevamo senza dover chiedere niente a nessuno. Eravamo anche riusciti a risparmiare un po' di denaro e ad acquistare una bella casetta. Non era lussuosa ma ci stavamo bene, vi abbiamo cresciuto dei bambini felici, e tutti eravamo contenti di quello che eravamo riusciti a fare. Nel Gush non c'era disoccupazione, e adesso siamo senza lavoro ed abbiamo finito i nostri risparmi. Una volta eravamo noi a dare offerte fisse per i bisognosi e all'improvviso siamo noi che dobbiamo vivere della carità altrui per comprarci da mangiare, che vergogna!
All'inizio ho continuato a lavorare per qualche ora nel mio posto di lavoro, ma non ho resistito alle lunghe ore di viaggio per attraversare quasi tutto il paese e poi il viaggio mi mangiava quasi tutto quello che percepivo. Noi viviamo con le valigie pronte per partire. Questo, dove stiamo adesso, è il quinto albergo "maledetto da quando siamo stati espulsi. Stiamo tutti quanti in due piccole stanze. Debbo però confessare che ci sono persone che stanno peggio. Ci sono espulsi che vivono nella stessa camera con la nonna mentre altri hanno figli e figlie grandi che vivono nella stessa stanza, ed altri che vivono in stanze contigue ma non comunicanti. Vari giovani si sono sposati per scappare da una situazione così deprimente e certuni hanno anche abbandonato il paese visto che non lo ritengono più la loro patria. Non è bello parlare così degli alberghi, ma li odio! Che punizione! A che misera esistenza siamo stati ridotti! Non c'è neanche la spazzola per pulire il gabinetto. Non ci è consentito l'uso del telefono ed il conto dei telefonini cellulari è salito alle stelle. Non abbiamo la cucina, il cibo è stantio ed avariato. A pranzo e cena c'è carne ed i nostri bambini, che non ci sono abituati, stanno a digiuno, ed anche noi ci siamo stancati. è naturale che non possiamo ricevere ospiti, è impossibile invitare la mia vecchia madre, che il Signore Le conceda una lunga e sana esistenza, e come faremo a festeggiare il bat-mizwa di nostra figlia?! E, la cosa peggiore, siamo costretti a pagare le lunghe ore noiose che trascorriamo in questo albergo "maledetto”. Il prezzo ci viene dedotto dal già misero indennizzo. La convivenza con mio marito è diventata impossibile, litighiamo tutto il tempo, mio marito da calmo e tranquillo che era è diventato triste, nervoso, ansioso e pieno di paure. Ha incominciato ad andare dallo psicologo e a spendere perciò soldi che non abbiamo. Molte mie amiche non hanno retto al cambiamento ed hanno divorziato. Mio figlio maggiore è diventato aggressivo ed è arrabbiato col mondo intero: col governo, con lo Stato, con l'esercito, con i Rabbini, con tutti, anche con noi. Ha smesso di andare a scuola come molti altri ragazzi. Vari suoi amici, che erano nel Gush ottimi studenti, oggi sono svogliati. Ragazzi abituati ad un'intensa vita sociale sono diventati dei "lupi solitari". La figlia che abbiamo messo in una scuola a tempo pieno, perché farla andare avanti-indietro era impossibile, piange tutto il tempo che vuole tornare a casa. Anche questa scuola ci costa caro, ma almeno è in buona compagnia. Ma non me la posso prendere più di tanto, perché tra i miei amici ci sono ragazzi che non hanno retto a questa situazione traumatica ed hanno incominciato a bere e a drogarsi, altri hanno addirittura tentato di suicidarsi! Oltre a tutto ciò la burocrazia sta facendo di tutto per darci il "colpo di grazia". "Ah volete ricevere gli indennizzi!?" "Dovete innanzi tutto dimostrare che siete stati realmente abitanti del Gush.... la carta d'identità non basta... ci si può far scrivere quello che si vuole... dimostrate di aver comprato la casa... portate l'atto di acquisto... portate la dichiarazione del catasto di Beer Sheva... questo non basta, dimostrate di averci abitato... portate le bollette della luce e la dichiarazione della Società Elettrica di Beer Sheva che avete sempre pagato.... adesso occorre il certificato del Ministero dell'Educazione che i vostri figli hanno studiato nel Gush, anche questo non basta, forse il certificato è falso, dovete portare le pagelle delle classi prima, seconda... i documenti sono nel container? La cosa non ci riguarda!"
Diteci, ci volete uccidere? Dopo averci espulso ci volete anche ammazzare! Non sappiamo dove sia il nostro container in mezzo a tutti gli altri, non per colpa nostra ma perché gli impiegati del governo non hanno fatto una lista ordinata.
Oh quanto dolore ci ha causato tale container. Mentre lo preparavano, molti oggetti di valore come il computer sono spariti come cari ricordi di famiglia. Ancora non riesco a capire perché tale container lo dobbiamo pagare di più di uno preso sul mercato!
Al contrario, quando si tratta di prenderci i soldi tutto fila liscio come l'olio: noi continuiamo a pagare alla banca il prestito per una casa che non esiste più, a pagare l'assicurazione su una casa dalla quale siamo stati espulsi, ed anche a pagare la società elettrica per averci tolto la corrente!
Ma gli uffici governativi ci trattano come fossimo dei bugiardi e noi dobbiamo impazzire per dimostrare il contrario. Mi spediscono dal nord del paese sino a Beer Sheva per portare un certificato della Società Elettrica quando con il computer possono ottenere tutte le informazioni che desiderano su di noi!
È chiaro che ciò non è disordine amministrativo, ciò è stato predisposto, ci vogliono vedere distrutti! Ciò avviene con tutti, anche con quelli che si erano accordati con l'amministrazione dell'espulsione e se ne erano andati anzi tempo. Quanto sono senza cuore, o lo hanno di pietra, coloro che hanno mandato in malora le nostre vite e ancora continuano a ripetere nei mezzi di comunicazione che tutto va per il meglio. "C'è una soluzione per ogni evacuato!" così proclamarono e continuano a proclamare: bugiardi sfacciati!
Se osiamo parlare siamo accusati di essere dei piagnucoloni, degli imbroglioni, degli approfittatori, dei "ruba" indennizzi! Così osano chiamare noi, che abbiamo trasformato una zona desertica nel giardino di D.o sotto il fuoco nemico! Ed ora ci dicono che dobbiamo dimenticare quello che ci hanno fatto e perdonare quello che ci stanno facendo. Questo è l'ottantunesimo colpo!
Questa espressione, per chi non lo sapesse, fu coniata da un superstite della Shoah, che testimoniò al processo Eichmann, che disse di aver ricevuto 80 frustate, e, quando qualcuno gli chiese se ne era certo, rispose: questa è l'ottantunesima! Ma, nonostante tutto, non li odio perché ciò non è da me! Non sono abituata ad odiare, non mi piace odiare! Mi piace amare, ballare ed essere felice di ciò che ho anche in tempi difficili come questo. Ho la fortuna di avere fatto nuovi amici, tutti volontari dal cuore d'oro contenti di aiutarci. Ci offrono denaro, tempo, consigli amministrativi e legali, appoggio morale, assistenza medica, ci aiutano con i bambini, fanno il bucato e le pulizie e moltissime altre cose. Grazie infinite carissimi amici, quando vi penso resto commossa e mi viene da piangere. Non so ancora quale sarà il mio futuro in questo paese ingrato, ma, nonostante tutto, continuo ad amarlo e mi faccio coraggio. È tutto assai difficile ma cerco di riprendermi e tirare avanti. Pensavo che avevamo finito con la diaspora millenaria, ma non è così! Perché essa è rimasta dentro di noi e sembra che non basti un giorno per liberarsene. Essa trova nuovi modi per colpirci e perciò sono felice per ogni giorno che resisto e riesco a vivere in Haaretz! In "Mesilath iesharim" è scritto che la vita è piena di prove e difficoltà, non è facile vivere senza certezze materiali ma quelle spirituali ci aiutano a resistere. La vita è diventata più difficile materialmente ma ho scoperto dentro di me vitalità e forze nuove. In questo mare in tempesta che è la vita nazionale ho dei punti di appoggio. Il Rav Kook disse che senza punti di appoggio l'uomo non può vivere. Anche nella diaspora più nera il Popolo d'Israele continuò a vivere con indomito coraggio perché possedeva degli ideali. Che cosa mi dà la forza di tirare avanti ? Ciò che è nel mio "cassiere" e nessuno mi può togliere! Come ad esempio l' "Unione" (Iacad). Il rapporto tra noi profughi, non sono riusciti a spezzarlo! Ho infinite discussioni sia in famiglia che con le altre espulse a causa di tutti i disagi e le privazioni a cui ci sottopongono, ma conserviamo l' "Unione"! Una grande regola nell' "Unione" è che non siamo obbligati ad avere le stesse opinioni. Quello che abbiamo in comune sono il ricordo del Gush e la mancanza di certezze per il futuro, perciò non importa se la pensiamo differentemente, è come in yeshiva dove le discussioni sono serrate ma tutti si rispettano. I nostri ragazzi sono diventati degli esperti nelle discussioni: amano mettere tutto in dubbio! Qualsiasi cosa dico loro lo discutono. Io non mi arrabbio, non mi impongo con autorità, anzi sono contenta di avere dei figli che ancora si interessano a ciò che accade intorno a loro perché ciò significa che hanno un futuro. C'incolpano di tutto. Ma ho imparato a non prendermela troppo e a non sentirmi offesa, ma a cercare ciò in cui andiamo d'accordo e a rafforzare in loro i buoni sentimenti, faccio comunque di tutto per non essere la loro psicologa ma di restare semplicemente la loro madre. Il mio bambino di due anni è tornato a farsela addosso e ha paura di ogni cosa. Anche la mia bambina un po’ più grandicella ha gli stessi sintomi dovuti allo shok subito: io li prendo tra le braccia, li coccolo e gioco con loro e ciò dà a loro un po' di fiducia e di coraggio. Mio figlio che studia in terza elementare è diventato assai aggressivo, usa espressioni come: io lo ammazzo! non mi spavento perché sono sicura che non ucciderà nessuno, e non lo zittisco perché se no avrà paura di esprimere i propri sentimenti e presso di me esistono la libertà di parola e quella di pensiero.
Non so perché vi stia annoiando con cose così personali, ma sembra che anch'io mi debba sfogare! Tutto il tempo debbo rispondere ai miei figli piccoli che chiedono: "Mamma, questo soldato è buono e ci protegge o è un soldato cattivo che ci viene a buttare fuori di casa?" Sono ancora spaventati e perciò cerco di dare a loro tutto il mio affetto e protezione e cerco di ricreare intorno a loro quello che era il nostro ambiente domestico. Non mi nascondo che ciò sia impresa improba e che il futuro ci riservi molte incognite ma, con l'aiuto di D.o, spero di riuscire ad affrontarle e superarle nei migliori dei modi. Sappiate, figli adorati, che qualsiasi cosa ci capiterà resterò sempre al vostro fianco per affrontarlo insieme. Maritino mio, sappi che ti resterò sempre vicino per aiutarti e sostenerti, molte cose del nostro mondo sono andate in frantumi, ma io non ho ceduto perché so che il Signore non ci ha abbandonato, ho la certezza che è Lui che ci ha fatto tornare in Patria e tutto quello che stiamo affrontando sono esami con i quali ci sta mettendo alla prova per renderci partecipi dell'avvento dell'era messianica.
(Rav Shlomo Aviner, "Olami lo carav" (Il mio mondo non è crollato!), BEAVAH UVEHEMUNAH n. 542, 9/12/05, pp. 6-8; liberamente tratto e tradotto dall'ebraico da Eleazar Ben Yair)
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Dal 7 di ottobre metà degli israeliani si è dedicato al volontariato
Durante le prime due settimane della guerra di ottobre, innescata dai brutali attacchi terroristici contro uomini, donne e bambini israeliani, sono emerse più di 1.000 iniziative civili in tutto Israele e il 48,6% della popolazione israeliana si è impegnata nel volontariato, secondo un rapporto dell’Istituto per la Studio sulla società civile e la filantropia in Israele presso l’Università Ebraica.
“L’impegno della società civile in Israele durante l’operazione Spade di ferro: tendenze emergenti e approfondimenti preliminari” offre un’analisi approfondita del massiccio sforzo di mobilitazione della società civile sotto lo slogan “Difendere la nostra casa”.
Mettendo da parte le recenti divisioni sociali che alcuni temevano avrebbero portato a una guerra civile, gli israeliani si sono uniti per effettuare operazioni di salvataggio, evacuazioni, fornitura di alloggi temporanei, distribuzione di cibo vitale e forniture mediche, sostegno psicologico ai sopravvissuti e alle famiglie in lutto e altro ancora.
I ricercatori hanno riscontrato un notevole aumento del volontariato rispetto al tasso osservato durante la crisi del Covid-19 (33%) e hanno notato che il volontariato è trasversale a tutte le fasce di età, genere e affiliazione religiosa. A differenza del volontariato prevalentemente giovanile osservato durante la pandemia, il 46% di quelli di età compresa tra 18 e 35 anni, il 52% di quelli di età compresa tra 35 e 55 anni e il 52% di quelli sopra i 55 anni si sono impegnati nel volontariato durante le prime due settimane di guerra.
Il tasso di volontariato tra la popolazione arabo-israeliana durante la guerra ha raggiunto il 29%, rispetto al 19% registrato durante il Covid-19.
Il rapporto rivela inoltre che il 28% dei volontari durante le prime due settimane di guerra non avevano mai fatto volontariato prima. Questi nuovi arrivati sono prevalentemente laici e con redditi superiori alla media.
Le attività di volontariato più importanti includono la raccolta, l’imballaggio e la distribuzione di cibo e attrezzature; trasporto di persone, cibo e attrezzature; assistere le forze di sicurezza; partecipazione ad attività di sensibilizzazione attraverso i social network; e offrire aiuti essenziali agli sfollati.
Secondo il rapporto, molti volontari hanno integrato il proprio impegno con contributi economici, partecipando ad iniziative volontarie e campagne di crowdfunding.
Inoltre, “l’uso della tecnologia per il volontariato digitale ha esteso la portata alle popolazioni remote e con mobilità limitata, sottolineando l’adattabilità e l’inclusività di questi sforzi di volontariato”, hanno scritto i ricercatori. “Il rapporto sottolinea l’importanza di un coordinamento efficace tra le organizzazioni civili e gli enti governativi per garantire una risposta unitaria ai bisogni urgenti. Suggerisce inoltre che le organizzazioni civili possono evolversi in una preziosa forza di supporto per le attività governative durante le operazioni di combattimento in corso”.
(Bet Magazine Mosaico, 10 novembre 2023)
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Palestina libera!
di Niram Ferretti
“Liberare la Palestina”, da cosa? Non ci vuole molta fantasia, dagli israeliani, quella “specie” di ebrei che, dal 1948 in poi invece di farsi condurre come pecore al macello, combatterono contro gli Stati arabi che volevano portare a compimento l’opera di annichilimento ebraico che Hitler aveva perseguito in Europa.
Se Montgomery non avesse fermato l’avanzata di Rommel in Nord Africa, la distruzione dello Yishuv, la comunità ebraica costituitosi in Palestina, difficilmente si sarebbe potuta evitare.
Come sottolinea Matthias Küntzel nel suo ultimo libro: “Era la volontà esplicita di Hitler di espandere il programma di assassinio di massa conosciuto come ‘soluzione finale’ ai circa 700,000 ebrei del Nord Africa e del Medio Oriente”.
Quello che non fu in grado di fare Hitler in Medio Oriente, cercarono di eseguirlo gli eserciti arabi appena Israele dichiarò la propria indipendenza, e poi di nuovo cercarono di farlo nel 1967 e poi di nuovo nel 1973.
Ciò nonostante, nel 1967, la Giordania, quando occupò i territori della Giudea e Samaria che il Mandato Britannico per la Palestina aveva assegnato agli ebrei nel 1922, si sbrigò a renderlo judenfrei, e la stessa cosa fece a Gerusalemme est. Ebrei cacciati, sinagoghe distrutte, al cui posto furono messe delle latrine, l’importante era liberare.
Fallito il compito di “liberare” la Palestina in virtù degli eserciti si pensò quindi di riconvertire l’opera attraverso varie sigle terroristiche, tra cui l’OLP diventò quella dominante, fino a quando, con la crescita di Hamas, l’organizzazione terrorista di Arafat dovette contendere il basto del comando con la formazione integralista jihadista fondata dal pio Ahmed Yassin.
Il pregio di Hamas rispetto all’OLP è l’intenzionalità programmatica esplicita. La “liberazione” della Palestina è intesa in senso hitleriano come liberazione territoriale dagli ebrei, come recita senza fronzoli lo Statuto del 1988, documento politico-teologico mai abrogato, in cui viene citato un celebre hadit di Maometto, in base al quale, in una prospettiva escatologica, non potrà darsi Giorno del Giudizio se prima gli ebrei non verranno eliminati.
“Dal fiume al mare Palestina libera” recita lo slogan tanto in voga nei cortei pro-palestinesi, zeppi di utili idioti, di antisemiti coriacei e di musulmani pro Hamas, libera dagli ebrei, ovviamente, e da chi se no?
Sentiamo ripetere spesso in questi giorni che, come da copione, la reazione di Israele a Gaza è eccessiva, sproporzionata, criminale, il solito ineffabile Antonio Guterres ci informa per sua bocca o bocca a cui vengono fornite le parole più di effetto, che Gaza è “un cimitero di bambini”.
Le cifre relative ai morti civili a Gaza le fornisce doviziosamente Hamas, lo stesso che ci informò che l’ospedale Al Shifa era stato bombardato dagli israeliani e che erano morte 500 persone.
Ma ammettiamo pure che le cifre fornite da Hamas siano vicine alla verità. Sicuramente sono parecchie le migliaia di vittime civili, e sicuramente molte di esse sono bambini. Non esistono guerre in cui i bambini non muoiano, non si tratta di una affermazione cinica, si tratta di una constatazione ovvia. Se non si vuole che in guerra muoiano i bambini c’è solo un modo per evitarlo, non farla.
Gli Stati Uniti, assai sensibili alle vittime civili, e continuamente prodighi di esortazioni nei confronti di Israele a ridurne il numero e a concedere pause umanitarie, sono gli stessi che a Mosul, nel 2017, per distruggere l’Isis che ne aveva fatto una sua roccaforte diedero vita a una delle più brutali guerre urbane della storia contemporanea, bombardando a ritmo serrato la citta e distruggendo uno dopo l’altro gli edifici. Il numero preciso di morti civili, tra cui bambini, non si conosce con esattezza, né, con ogni probabilità, si conoscerà mai. La stima dell’Associated Press è tra i 5000 e gli 11,000, quella dei Servizi curdi, la innalza a 40,000.
Non si ricordano pressanti esortazioni sugli americani per aprire corridoi umanitari e nemmeno affermazioni da parte di Guterres su Mosul, cimitero di bambini.
L’obbiettivo americano era di distruggere l’ISIS, e per raggiungerlo era legittimo, secondo loro, radere Mosul al suolo, ma per Israele, si sa, valgono criteri difformi, anche se il suo obbiettivo è il medesimo che gli Stati Uniti si erano dati nel 2017, distruggere una formazione terroristica islamica che, quanto a radicalismo e a capacità di efferatezze, il 7 ottobre scorso ha superato l’ISIS.
Concludiamo, dedicandoci a un altro refrain, quello dell'”innocenza” dei gazawi, ovvero, della non colpevolezza dei civili per le atrocità commesse da Hamas, nei confronti del quale nessuno dei due milioni e mezzo di abitanti della Striscia si è mai ribellato dal 2007 a oggi.
L'”innocenza” dei civili, della popolazione, relativamente ai regimi dispotici che hanno permesso venissero in essere, e contro i quali non si sono mai ribellati, (come è avvenuto più volte in Iran, per esempio, con, purtroppo, scarso successo), è una questione scabrosa. Con il medesimo criterio bisognerà sostenere che fossero innocenti anche i sessanta milioni di tedeschi che negli anni ’40 fecero del Führer il loro incontrastato beniamino (con una parentesi per i bambini, loro sì, vittime innocenti di un clima culturale nutrito di odio).
Impossibile separare i fiancheggiatori e i sostenitori dagli avversatori e dai ribelli, il criterio, a Gaza manca.
In una guerra, come in quella attuale di Israele a Gaza, e come fu per gli Stati Uniti a Mosul, la morte dei civili, uomini, donne, bambini, diventa, come in ogni guerra, il corollario inevitabile dell’obbiettivo che ci si è posti, distruggere il nemico.
(L'informale, 10 novembre 2023)
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Parashà di Chayè Sarà: L’ospitalità della famiglia di Avraham
di Donato Grosser
In questa parashà viene raccontato che Avraham incaricò il suo fedelissimo servitore, manager dei suoi possedimenti, di andare a Charàn, la città del padre Nachòr, dove aveva origine la sua famiglia, a cercare una moglie per il figlio Yitzchàk. Data l’importanza del compito, Avraham gli fece giurare di non prendere per Yitzchàk una delle figlie dei Cananei, ma di andare “al mio paese e al mio parentado, e vi prenderai una moglie per il mio figlio Yitzchàk” (Bereshìt, 24:4).
R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (p. 167) chiede “Per quale motivo Avraham insisteva che il figlio sposasse una ragazza della sua famiglia?“. Egli risponde dicendo che poiché l’Eterno aveva scelto proprio lui dalla famiglia di Nachòr, ci doveva essere qualcosa di buono e di speciale in quella famiglia. La virtù che li distingueva era il chèssed, la benevolenza, che veniva espressa nell’ospitalità. Avraham si distingueva per questa mitzvà. L’ospitalità richiede non solo chèssed, ma anche pazienza. A differenza di altri atti di benevolenza, l’ospitalità richiede pazienza e perseveranza. La pazienza costituisce uno dei tredici attributi divini, erekh appàim. L’Eterno ha pazienza e attende che il peccatore faccia teshuvà. L’ospitalità non è sempre piacevole. Uno straniero entra a casa nostra, talvolta non è raffinato, ha strane opinioni e disturba la nostra privacy. Avraham sacrificò tante cose per accogliere ospiti, senza verificare se fossero raffinati o volgari. Inoltre l’esperienza centrale della vita di Avraham era l’esilio. Questa esperienza insegnò ad Avraham a sentire le sofferenze del prossimo. Per questo voleva alleviare le sofferenza degli altri per quanto gli era possibile.
Anche Lot, nipote di Avraham, si distingueva per questa mitzvà. Quando i malakhìm, gli angeli in sembianza umana, vennero a Sodoma, “Lot che stava alla porta della città, come li vide si alzò incontro a loro e si prostrò con la faccia a terra. E disse: signori miei, deviate verso la casa del vostro servo, passate la notte, lavatevi i piedi e domani mattina riprenderete il viaggio” (Bereshìt, 19:1-2).
Quando il servitore di Avraham arrivò a Charàn e incontrò Rivkà alla fonte, voleva accertarsi della sincerità delle sue azioni. Erano motivate da nobiltà e generosità spirituale o solo dall’etichetta? Le richieste del servitore erano esagerate. Perché lasciò che una giovinetta di quattordici anni, come affermano alcuni dei nostri maestri (r. Shemuel Chassid Shapira, citato in Tosefòt, Yevamòt 61b) andasse multiple volte alla fonte per abbeverare i suoi dieci cammelli? Non poteva farlo fare ai suoi uomini? Ma il servitore voleva esaminare la pazienza di Rivkà. Ed ella diede prova di saper essere ospitale anche se la richiesta era stata esagerata.
R. Israel Belsky (New York, 1937-2015) in Einei Isroel (p. 141) afferma che perfino Lavan, fratello maggiore di Rivkà, che anni dopo si comportò da furfante con Ya’akòv, figlio di Yitzchàk e Rivkà, in questa circostanza appare come un perfetto galantuomo. Invitò il servitore e i suoi uomini con queste parole: “E disse: Entra, benedetto dall’Eterno! perché stai fuori? Io ho preparato la casa e un luogo per i cammelli” (Bereshìt, 24:31). Rivkà non fu influenzata dalla malvagità di Lavàn proprio grazie al fatto che Lavàn si comportava da galantuomo. Nella sua giovane età, Rivkà, giovane e idealista, non si poteva rendere conto del secondo aspetto del fratello maggiore. Assorbì tuttavia l’impressione del comportamento da galantuomo di Lavàn. Aveva quindi le doti necessarie per diventare moglie del figlio di Avraham.
(Shalom, 10 novembre 2023)
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Parashà della settimana: Chaye Sarah (Vita di Sara)
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Giornalisti al seguito di Hamas nel massacro del 7 ottobre. Complici o testimoni?
di Ugo Volli
• Giornalisti coinvolti nel massacro
C’erano giornalisti, in particolare fotografi “indipendenti” ma sotto contratto per alcune delle principali testate internazionali fra le squadre di terroristi che hanno invaso Israele e praticato il più orribile massacro antisemita dopo la Shoah. Il sito americano “Honest Reporting” ha rivelato ieri questo fatto inquietante, che è stato ripreso poi da diversi autorevoli giornali internazionali, fra cui il “Washington Post”. È emerso in rete anche il filmato di uno di loro, Hassan Eslaiah, collaboratore della “CNN” e del “New York Times” che era una sorta di telecronaca fra i terroristi che esultano vicino a un carro armato; c’è anche - a testimoniare il suo ruolo- una foto precedente che lo ritrae abbracciato al leader di Gaza di Hamas Yahya Sinwar. Ma soprattutto sono emerse immagini di fotogiornalisti che riprendono tranquillamente il rapimento terrorista di una donna del Kibbutz Kfar Aza. È una notizia inquietante che suggerisce diverse considerazioni.
• Terroristi che documentano il massacro e giornalisti che sapevano
La prima è ovviamente il fatto che i terroristi volevano che il loro sadismo fosse documentato e diffuso, per restare nella storia o per infiammare così degli imitatori. Nelle scorse settimane si sono visti molti filmati dell’eccidio, riprese degli stessi massacratori sui loro cellulari o anche su quelli delle loro vittime. Stando a quanto emerso nei media, la novità è che si sono portati al seguito anche giornalisti accreditati di testate importantissime. Questo implica che questi giornalisti sapessero in anticipo che qualcosa di grosso stava per avvenire, e soprattutto che assistessero senza reagire alle più terribili atrocità del massacro. Vi è in sostanza una complicità di questi fotografi con la strage, molto probabilmente non solo professionale ma ideologica. Non è una novità: la stampa internazionale si avvale spesso nei territori dominati dai terroristi palestinesi di informatori locali (detti “stringers”) che nel caso di Gaza e dei territori controllati dall’Autorità Palestinese sono scelti dalle autorità locali per la loro fedeltà come strumento di controllo. Ma accade anche che le agenzie di stampa internazionali svolgano una funzione attiva di censura di immagini e notizie a favore dei terroristi. Vi sono articoli che documentano per esempio come la “Reuters” una decina di anni fa tagliò le immagini degli scontri sulla nave “Mavi Marmara” della flottiglia per Gaza, in maniera tale da nascondere le armi dei terroristi. Ancora oggi, Hassan Esleiah ha pubblicato su X-twitter un post minaccioso per i suoi datori di lavoro: “C’è molto incitamento contro di me sui media israeliani in seguito alla mia copertura della guerra di Gaza. Chiedo alle parti rilevanti di prendersi la loro responsabilità”. Le “parti rilevanti” sono evidentemente i giornali per cui lavora, che in effetti hanno tolto il riferimento all’autore dalle foto pubblicate. Ma forse le “responsabilità” della CNN e del New York Times non sono solo queste, forse le redazioni erano state avvertite in anticipo e hanno ritenuto di tacere, privilegiando l’agibilità professionale a Gaza sulla possibilità di prevenire una strage. Sono scenari sconvolgenti, che quanto meno testimoniano di un accomodamento della stampa internazionale col terrorismo, al limite della complicità.
• Le operazioni sul terreno
Nel frattempo la guerra va avanti col passo lento del combattimento. L’esercito israeliano ha conquistato l’”Avamposto 17” una posizione militare importante di Hamas a Jabalyia nel nord della Striscia, scoprendo e distruggendo numerosi tunnel. Lì vicino hanno anche individuato e smantellato una fabbrica di droni, sistemata in un asilo infantile. Si sono aperti anche dei fronti di combattimento significativi nella parte meridionale di Gaza, vicino a Kahan Younis. Un civile israeliano è stato ucciso da un razzo anticarro di Hezbollah a Kiriat Shmonah. Al confine con la Siria vi sono stati scontri più importanti del solito, che hanno ucciso una decina di militari siriani. Si è risvegliato anche il teatro di Giudea e Samaria, dove ci sono stati diversi tentativi di attentato.
• Il coinvolgimento americano
Continuano gli attentati contro gli americani per il loro appoggio a Israele. Gli Houthi yemeniti hanno rivendicato l’abbattimento di un drone da ricognizione americano che volava sopra le acque internazionali del Mar Rosso. Per rappresaglia degli attacchi alle loro basi in Iraq e Siria dei giorni scorsi, gli americani hanno bombardato un deposito di armi dei terroristi iracheni, provocando una decina di morti. Questi hanno reagito promettendo nuovi attacchi. Anche se la proposta americana di un cessate il fuoco “umanitario” è stata respinta da Netanyahu (“niente cessate il fuoco fin che vi sono persone rapite nelle mani di Hamas”) la presidenza americana continua a esprimere un forte appoggio politico a Israele. In risposta a una domanda provocatoria di un giornalista di sinistra, che in una conferenza stampa chiedeva che cosa gli Usa intendevano fare per bloccare il genocidio israeliano, il portavoce della presidenza ha dato la risposta più giusta: “Il solo genocidio oggi in Medio Oriente è quello di Hamas”.
(Shalom, 9 novembre 2023)
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Fatti e Misfatti
Fondamenta dei diritti legali internazionali del popolo ebraico e dello Stato di Israele
PREFAZIONE
Fino a una decina di anni fa la dizione territori occupati riferita alle zone amministrate dall'Autorità Palestinese era usata soltanto dagli estremisti arabi ed era fermamente rifiutata dai governanti israeliani. Col passar del tempo la dizione è diventata talmente comune, ovvia accettata internazionalmente da non sembrare più bisognosa di alcuna
spiegazione o precisazione. L'attenzione si è concentrata tutta sul comportamento dello Stato d'Israele, accusato di non volere ritirarsi da territori che non sono suoi.
Purtroppo, nella battaglia contro questa falsa accusa, i sostenitori di Israele in gran parte hanno sbagliato strategia perché hanno collocato la linea del fronte a una distanza troppo vicina ai fatti attuali. Si parla di sicurezza militare o di mancati accordi di equo scambio fra i contendenti, ma non si va alle radici originarie del problema.
Il presente estratto del lavoro di Cynthia Wallace, Foundations of the International Legal Rights of the Jewish People and the State of Israel, indica invece il luogo dove dovrebbe essere posta la linea di difesa dello Stato d'Israele: quello del diritto internazionale, secondo cui tutti i cosiddetti territori occupati appartengono di diritto allo Stato d'Israele. Se si vuol dire che sono territori occupati, bisogna aggiungere che sono stati illegalmente occupati, prima da Egitto e Giordania, poi da Fatah e Hamas con il consenso di quelle Nazioni Unite che sono state le prime ad agire illegalmente sul piano internazionale negando a Israele il diritto di esercitare la totale sovranità su quella striscia di terra che le potenze vincitrici della Guerra Mondiale avevano ritagliato all'interno dello sconfitto Impero Turco all'unico scopo di dare agli ebrei la possibilità di ricostituire la loro nazione in quel paese, come dichiara testualmente il documento costitutivo del Mandato per la Palestina, redatto nella Conferenza di Sanremo del 24 aprile 1920 e approvato dal Consiglio della Società delle Nazioni il 24 luglio 1922.
Marcello Cicchese
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POSTFAZIONE
del benedire e maledire Israele
Leggendo questo elaborato si comprende quanto importante sia stata la Dichiarazione di Sanremo dell'aprile 1920 e quanto tragiche siano state le conseguenze, ma ancora oggi riscontrabili, riguardo la sua mancata applicazione.
Tale adempimento verso una risoluzione chiaramente e dettagliatamente indicata, conferma inoltre il giudizio divino sulle nazioni coinvolte (Gioele 3:2).
Non solo le nazioni firmatarie (Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone) sono state coinvolte in questo giudizio storico, ma anche singoli personaggi che in misura diversa hanno ostacolato o reso difficile la risoluzione della dichiarazione, hanno sperimentato vere tragedie personali.
Tutto ciò è evidente; partendo dal ruolo poco chiaro dello sceicco Faysal interessato all'area ad est del confine con la Palestina, che morì improvvisamente nel 1933 [solo un anno dopo della partecipazione dell'Irak alla Società delle Nazioni]; arrivando alla sorte del figlio che morì in un incidente d'auto nel 1939. Il suo successore, nipote di Faysal, venne ucciso nel 1958 nel corso di un colpo di stato. Nel 1935 Thomas Edward Lawrence, (Lawrence d'Arabia) perse la vita in un incidente di moto. Anche Gertrude Bell, archeologa faccendiera vicina a Faysal e allo spionaggio britannico, si suicidò nel 1926.
Il diplomatico britannico Arnold Wilson, che si dimise poco dopo per lavorare con l'Anglo-Persian Oil [la scoperta del petrolio fu una delle concause che mandò a monte la Dichiarazione di Sanremo], cadde in combattimento mentre era in servizio come mitragliere su un aereo in volo sopra Dunkerque.
Anche sul fronte francese possiamo ricordare la decadenza della carriera diplomatica di Picot che lo portò a ritirarsi dal servizio diplomatico francese nel 1932 scomparendo dalla Storia.
Sia la Gran Bretagna che la Francia pagarono un prezzo molto elevato per il ruolo da loro svolto negli accordi di pace in Medio Oriente.
Per le altre due nazioni presenti a Sanremo il 25 aprile 1920 è sufficiente considerare la storia recente: l'Italia con il fascismo, le leggi razziali e la tragedia della II Guerra Mondiale mentre il Giappone con i bombardamenti atomici di Hyroshima e Nagasaki.
La profezia di Gioele 3:2 non stonerebbe titolando qualche attuale commento giornalistico sulla politica estera in Medio Oriente:
[ ... ] le chiamerò in giudizio a proposito della mia eredità, il popolo d'Israele che esse hanno disperso tra le nazioni, che hanno spartito fra di loro.
Conseguente al Mandato Britannico per la Palestina risulta evidente che la vicenda dello Stato di Israele è stata caratterizzata da fatti più o meno ingarbugliati e misfatti senz'altro più evidenti.
Tutto questo ci ricorda un eloquente passo della Bibbia:
Quale può essere il compito di quanti hanno a cuore Israele e il suo popolo in un tempo come questo?
Una metafora ostetrica può aiutarci a capire meglio il nostro ruolo. Israele è stato concepito nel grembo della storia il 25 aprile 1920 con la Dichiarazione di Sanremo. Si è verificata poi una tremenda minaccia d'aborto con la Shoà. Scampato il pericolo, l'inizio delle doglie corrisponde al 29 novembre 1947 con la risoluzione 181 all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite per poi nascere il 14 maggio del 1948.
Ma Israele nacque con il forcipe della storia e come spesso succede in questi casi è nato lesionato e mutilato di gran parte del suo territorio. Da allora c'è un processo di riabilitazione e di recupero ... recupero di tutti i territori biblici di cui si vuole disconoscere l'ebraicità in primis Giudea e Samaria impropriamente chiamate West Bank.
Ecco noi dovremo essere i tecnici di riabilitazione e recupero per riportare Israele nello stato territoriale delle decisioni di Diritto Internazionale sostenendo tutte le iniziative con questa finalità.
Ivan Basana
(Notizie su Israele, 9 novembre 2023)
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"Israele: serviamo la verità sulla Palestina"
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Israele, il comandante Nethanel (un insegnante): «Richiamato per guidare carri armati». Ecco cosa succede nella base prima dell'attacco
Il carrista: «Non è facile combattere di fronte a civili usati come scudi da Hamas»
SDEROT - Il centro di comando sud dell’esercito israeliano è immenso, una base militare grande come una città. È da qui che si gestisce la missione che sta circondando la città di Gaza. Siamo in mezzo al deserto, in una località che per ragioni di sicurezza non si può rivelare. L’area dove vengono stipati i blindati è enorme, carri armati a perdita d’occhio. Alla 14° brigata viene concesso di parlare con i giornalisti «seguendo le indicazioni dei superiori». C’è un comandante che parla italiano, si chiama Nethanel e mentre passeggia tra le macchine da guerra racconta la sua storia: «Nella vita normale faccio l’insegnante ma sono stato richiamato per guidare uno di questi». Un professore su un carro armato, è questa la realtà oggi in Israele. Nethanel schiva con la testa il cannone di un Merkava: «Vecchia roba, questa, è un seconda serie. Io sono stato al comando di un "quarta generazione", altra storia».
Il carrista non è ancora stato impiegato per le operazioni nella Striscia, ma è in contatto con gli amici al fronte: «Non è facile combattere una guerra quando ti trovi davanti i civili, Hamas li usa come scudi umani. La differenza tra Israele e Hamas è che noi proteggiamo i civili, loro li usano per proteggersi».
Nella base è in corso una dimostrazione delle manovre di primo soccorso. John - medico di brigata - mostra come applicare un tourniquet (laccio emostatico, ndr) in caso di ferite gravi. «Il nostro battaglione di carristi e la nostra fanteria sono a Gaza. Portare via i feriti è molto pericoloso ma è il mio lavoro». Tante le storie dei suoi uomini caduti in battaglia, ma tra queste ce n’è una che non riesce a rimuovere dalla mente: «Uno dei nostri è stato colpito alla clavicola da un cecchino, ci abbiamo messo meno di un minuto per intervenire. Abbiamo provato a fare tutto il possibile per salvarlo ma purtroppo non c’è l’ha fatta. Non lo conoscevo ma è come se mi fosse morto mio figlio». Un medico salva le vite tutti i giorni, anche in guerra e anche quelle del nemico: «Se incontriamo un ferito dobbiamo curarlo. Non importa che sia un civile o un combattente di Hamas, i nostri medici devono fare tutto il possibile per salvarlo. Io stesso ho curato dei terroristi in passato, inclusi dei kamikaze che hanno cercato di farsi saltare in aria».
In Israele la leva è obbligatoria per tutti, tre anni per gli uomini e due per le donne. Tanti sono i giovani che si ritrovano con un’arma in mano pronti a difendere il proprio paese, con tutti i rischi che comporta: «Serve disciplina, è fondamentale indirizzare i novizi. Noi siamo uomini adulti con esperienza, con le famiglie a casa che ci aspettano, non siamo diciottenni appena arruolati - spiega il tenente colonnello Daniel Helob Arama -. I rischi maggiori per i nostri soldati a Gaza sono i razzi anticarro dei terroristi e le mine. A questi si aggiungono i fucili AK-47 molto in voga tra i combattenti di Hamas. Sono minacce importanti ma non fermeranno la nostra missione, abbiamo tecnologie di difesa molto avanzate in grado di proteggere i nostri ragazzi». La logistica è un aspetto fondamentale per combattere una guerra. «Mi occupo di fornire alle nostre forze in prima linea tutto quello di cui hanno bisogno», spiega Ram, un soldato riservista che il 7 ottobre si è presentato al centro di comando pronto a dare il suo contributo: «Dopo aver realizzato cosa stava accadendo ho preparato il mio zaino e ho detto a mia moglie “non tornerò a casa finché non avrò finito la mia missione. Ci sono persone da salvare e non posso lasciare che questo accada di nuovo”».
• VITE SOSPESE
Vite sospese, famiglie spezzate. Ram ha una bambina di 3 anni: «Mi manda video tutti i giorni, mi chiede quanto tornerò». Ma come fa un padre di famiglia a vivere con il rimorso di aver ucciso degli innocenti? «Lo scopo di tutto questo non è uccidere più palestinesi possibile. Noi stiamo soffrendo per via di Hamas, i palestinesi hanno lo stesso problema: Hamas li sta costringendo a rimanere a Gaza con la forza, dobbiamo fermarli». Kim è una giovane soldatessa che imbraccia orgogliosa il suo fucile d’assalto di ultima generazione, un Tar-21. Non può essere impiegata a Gaza per via della poca esperienza, però è determinata: «Non avrei paura di andare al fronte. Israele è la mia patria è farò qualsiasi cosa per difenderla. Lo devo ai caduti, al mio comandante che è morto in battaglia». Proviamo a chiederle cosa pensa quando vede le immagini di feriti e morti civili di Gaza che corrono sui social ma veniamo interrotti da un superiore: «Non è una domanda a cui lei è autorizzata a rispondere».
(Il Messaggero, 9 novembre 2023)
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Israele ripete a Biden: nessun cessate il fuoco per Gaza!
Israele non rischierà che Hamas si riorganizzi e certamente non farà concessioni finché gli israeliani saranno tenuti prigionieri a Gaza.
L'amministrazione Biden continua a fare pressione su Israele per una "pausa umanitaria", se non per un cessate il fuoco completo, nella sua offensiva contro le forze di Hamas a Gaza. Questo nonostante la Casa Bianca affermi di sostenere pienamente gli sforzi di Israele per sradicare la minaccia di Hamas che ha portato tanta morte e distruzione nel sud di Israele il 7 ottobre e ha scatenato l'attuale guerra.
Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha confermato martedì che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha respinto la sua ulteriore richiesta di una pausa nei combattimenti a Gaza.
"Gli ho chiesto una pausa. Ha rifiutato", ha detto Biden rispondendo alla domanda di un giornalista durante un evento alla Casa Bianca a Washington. "Sto ancora aspettando altre cose".
Durante una telefonata di lunedì, i due leader hanno discusso "la possibilità di pause tattiche" per consentire ai residenti di Gaza "di uscire in sicurezza dalle aree in cui sono in corso i combattimenti, per garantire che gli aiuti raggiungano i civili che ne hanno bisogno e per consentire l'eventuale rilascio di ostaggi", secondo un rapporto della Casa Bianca.
Netanyahu ha ribadito lunedì in un'intervista con ABC News che "non ci sarà alcun cessate il fuoco a Gaza senza il rilascio dei nostri ostaggi".
Una simile pausa, ha detto Netanyahu, "ostacolerebbe lo sforzo bellico. Ostacolerebbe i nostri sforzi per liberare gli ostaggi. L'unica cosa che funzionerà su questi criminali di Hamas è la pressione militare che eserciteremo", ha spiegato.
Le forze israeliane hanno aperto ogni giorno da sabato un corridoio umanitario nella Striscia di Gaza per consentire ai residenti del nord di Gaza di evacuare attraverso Wadi Gaza verso la zona sicura a sud, nonostante il fuoco dei terroristi di Hamas.
Avichay Adraee, il portavoce di lingua araba delle Forze di Difesa Israeliane, ha pubblicato martedì un video di un convoglio di centinaia di residenti di Gaza che camminavano verso sud lungo il percorso di Salah al-Din. Alcuni di loro sembravano alzare le mani e altri portavano bandiere bianche.
• Herzog a Harris: nessun cessate il fuoco fino alla restituzione degli ostaggi
Il presidente israeliano Isaac Herzog ha detto martedì alla vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris che non ci sarà alcun cessate il fuoco nella lotta contro Hamas finché il gruppo terroristico palestinese non rilascerà gli oltre 240 ostaggi detenuti nella Striscia di Gaza.
Harris ha chiamato Herzog per esprimere la sua solidarietà allo Stato ebraico mentre il Paese osservava una giornata di commemorazione un mese dopo l'invasione di Hamas del 7 ottobre e il massacro di 1.400 persone.
Herzog "ha ribadito l'apprezzamento del popolo israeliano per l'incrollabile sostegno del presidente Biden e della sua amministrazione e "ha ribadito la dichiarazione del Primo Ministro Netanyahu che non ci può essere cessate il fuoco senza il rilascio degli ostaggi detenuti da Hamas, che includono donne, uomini, anziani, bambini e neonati di soli 10 mesi", si legge nel comunicato.
Harris "ha espresso il suo sostegno al diritto di Israele all'autodifesa e ha sottolineato l'importanza del benessere della popolazione civile e della situazione umanitaria a Gaza".
Nella sua risposta, Herzog ha sottolineato che Gerusalemme sta rispettando il diritto umanitario internazionale, continuando a difendersi e a distruggere le infrastrutture terroristiche di Hamas radicate nella popolazione civile della Striscia di Gaza.
Il Presidente ha anche fatto riferimento al "continuo impegno di Israele nella consegna di aiuti umanitari a Gaza, che sono aumentati in modo significativo negli ultimi giorni, anche se agli ostaggi israeliani è stato negato l'accesso alla Croce Rossa Internazionale e non è stata data alcuna informazione sul loro benessere", si legge nel comunicato.
Infine, i due leader hanno parlato della loro comune preoccupazione per il drammatico aumento dell'antisemitismo nel mondo, con Herzog che ha espresso la sua preoccupazione per la morte di un sostenitore di Israele a seguito di una manifestazione pro-Hamas negli Stati Uniti.
(Israel Heute, 9 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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L’innocenza dei civili e l’ipocrisia americana
Sentiamo ripetere spesso in questi giorni che, come da copione, la reazione di Israele a Gaza è eccessiva, sproporzionata, criminale, il solito ineffabile Antonio Guterres ci informa per sua bocca o bocca a cui vengono fornite le parole più di effetto, che Gaza è “un cimitero di bambini”.
Le cifre relative ai morti civili a Gaza le fornisce doviziosamente Hamas, lo stesso che ci informò che l’ospedale Al Shifa era stato bombardato dagli israeliani e che erano morte 500 persone.
Ma ammettiamo pure che le cifre fornite da Hamas siano vicine alla verità. Sicuramente sono parecchie le migliaia di vittime civili, e sicuramente molte di esse sono bambini. Non esistono guerre in cui i bambini non muoiano, non si tratta di una affermazione cinica, si tratta di una constatazione ovvia. Se non si vuole che in guerra muoiano i bambini c’è solo un modo per evitarlo, non farla.
Gli Stati Uniti, assai sensibili alle vittime civili, e continuamente prodighi di esortazioni nei confronti di Israele a ridurne il numero e a concedere pause umanitarie, sono gli stessi che a Mosul, nel 2017, per distruggere l’Isis che ne aveva fatto una sua roccaforte diedero vita a una delle più brutali guerre urbane della storia contemporanea, bombardando a ritmo serrato la citta e distruggendo uno dopo l’altro gli edifici. Il numero preciso di morti civili, tra cui bambini, non si conosce con esattezza, né, con ogni probabilità, si conoscerà mai. La stima dell’Associated Press è tra i 5000 e gli 11,000, quella dei Servizi curdi, la innalza a 40,000.
Non si ricordano pressanti esortazioni sugli americani per aprire corridoi umanitari e nemmeno affermazioni da parte di Guterres su Mosul, cimitero di bambini.
L’obbiettivo americano era di distruggere l’ISIS, e per raggiungerlo era legittimo, secondo loro, radere Mosul al suolo, ma per Israele, si sa, valgono criteri difformi, anche se il suo obbiettivo è il medesimo che gli Stati Uniti si erano dati nel 2017, distruggere una formazione terroristica islamica che, quanto a radicalismo e a capacità di efferatezze, il 7 ottobre scorso ha superato l’ISIS.
Concludiamo, dedicandoci a un altro refrain, quello dell'”innocenza” dei gazawi, ovvero, della non colpevolezza dei civili per le atrocità commesse da Hamas, nei confronti del quale nessuno dei due milioni e mezzo di abitanti della Striscia si è mai ribellato dal 2007 a oggi.
L'”innocenza” dei civili, della popolazione, relativamente ai regimi dispotici che hanno permesso venissero in essere, e contro i quali non si sono mai ribellati, (come è avvenuto più volte in Iran, per esempio, con, purtroppo, scarso successo), è una questione scabrosa. Con il medesimo criterio bisognerà sostenere che fossero innocenti anche i sessanta milioni di tedeschi che negli anni ’40 fecero del Führer il loro incontrastato beniamino (con una parentesi per i bambini, loro sì, vittime innocenti di un clima culturale nutrito di odio).
Impossibile separare i fiancheggiatori e i sostenitori dagli avversatori e dai ribelli, il criterio, a Gaza manca.
In una guerra, come in quella attuale di Israele a Gaza, e come fu per gli Stati Uniti a Mosul, la morte dei civili, uomini, donne, bambini, diventa, come in ogni guerra, il corollario inevitabile dell’obbiettivo che ci si è posti, distruggere il nemico.
(L'informale, 9 novembre 2023)
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Il vento dell’odio sul Regno Unito. Parla l’esperto Michael Whine
di Nathan Greppi
Da quando si sono verificati gli attacchi di Hamas del 7 ottobre e la conseguente reazione israeliana contro il gruppo terroristico a Gaza, nel Regno Unito, così come in molti altri paesi europei, si sono moltiplicati esponenzialmente gli episodi di antisemitismo e le manifestazioni contro Israele. Un clima che ha portato anche a faide interne al Partito Laburista, dove l’attuale leader Keir Starmer dal 2020 cerca di ripulire il partito dagli elementi antisemiti che proliferavano sotto la guida del suo predecessore Jeremy Corbyn.
A fare il punto della situazione con Mosaico, forte di una pluridecennale esperienza in merito, è il ricercatore Michael Whine: co-fondatore del Community Security Trust (CST), la più importante organizzazione britannica per la lotta all’antisemitismo, vi ha lavorato per 35 anni, ricoprendo nell’ultimo periodo il ruolo di Direttore per il Governo e gli Affari Internazionali. Negli anni è stato consulente per il contrasto dei crimini d’odio per diverse istituzioni, tra le quali il World Jewish Congress, il Ministero della Giustizia britannico e il Crown Prosecution Service (il pubblico ministero inglese per i procedimenti penali). Ha scritto decine di saggi e articoli per riviste scientifiche in merito ai temi dell’antisemitismo, del terrorismo e degli estremismi politici e religiosi.
- Nelle ultime settimane, abbiamo visto molte proteste antisraeliane nel Regno Unito, e persino persone che strappavano i manifesti degli israeliani rapiti. Quanto è diffuso l’odio antisraeliano e antiebraico nel paese?
L’antisemitismo è aumentato drammaticamente dall’inizio delle ostilità il 7 ottobre. Secondo il CST, 1019 episodi gli sono stati riportati negli ultimi 28 giorni, il più alto tasso mai registrato in un tale periodo di tempo. Questo numero è probabilmente destinato ad aumentare intanto che si indaga su ulteriori rapporti, ma già adesso includono 47 aggressioni, 67 casi di danni e vandalismi a proprietà ebraiche, 102 minacce rivolte direttamente ai singoli e altro ancora. Si è verificato anche un aumento considerevole della propaganda antisraeliana, in alcuni casi sanzionabile secondo il diritto penale. La settimana scorsa, il Crown Prosecution Service ha annunciato che due persone verranno indagate per materiali antisemiti che hanno esposto ad una manifestazione antisraeliana.
- Dopo che è emerso come Israele non c’entrava con il razzo caduto vicino all’ospedale, la BBC si è dovuta scusare per aver dato credito alla versione di Hamas. Nei media inglesi vi è un forte pregiudizio nei confronti d’Israele?
Generalmente i media cartacei inglesi sono neutrali, e molti dei più importanti quotidiani nazionali sono filoisraeliani e riconoscono l’antisemitismo delle organizzazioni palestinesi. La stampa periodica di solito è pro-Israele, anche se propensa a pubblicare titoli beceri in prima pagina per attirare i lettori.
I problemi sorgono con le principali emittenti televisive e radiofoniche. La BBC, che sarebbe tenuta ad adottare una posizione neutrale, nell’ultimo mese ha licenziato o sospeso molti dei suoi corrispondenti dal Medio Oriente a causa di discorsi antisraeliani. All’interno della comunità ebraica e del Parlamento, vi è una critica diffusa verso la BBC per aver considerato la propaganda di Hamas come una fonte veritiera senza aver prima verificato i fatti, e per aver chiamato quelli di Hamas “miliziani” invece che “terroristi”.
Personalmente, già 25 anni fa ho partecipato ad incontri con i piani alti della loro redazione, per esprimere la nostra preoccupazione in merito alle loro trasmissioni antisraeliane. In passato hanno nominato una figura chiave per monitorare il loro lavoro, ma pare che siano ritornati alle vecchie abitudini. Le emittenti commerciali, quali l’ITN, Sky e i canali locali, sono più attente al riguardo.
Quello che invece accomuna tutti i media è la preoccupazione per i civili palestinesi ritrovatisi in mezzo al fuoco incrociato, anche se in pochi fanno notare che è l’Egitto a rifiutarsi di far passare i profughi.
- Vi è una divisione interna ai laburisti tra le posizioni di Starmer e gli elettori filopalestinesi. Il partito è cambiato dopo che Corbyn ha perso la leadership, o hanno ancora problemi di antisemitismo?
Il Partito Laburista sta ancora attraversando una fase dei cambiamenti imposti da Keir Starmer e dai suoi alleati politicamente moderati, ma rimane ancora molto lavoro da fare. In anni recenti, il Labour si è presentato come la scelta naturale per gli elettori musulmani, e ciò si riflette nelle loro critiche nei confronti di Starmer degli ultimi giorni. Molti musulmani eletti in cariche pubbliche si sono dimessi in seguito al suo rifiuto di chiedere a Israele un cessate il fuoco nell’offensiva contro i terroristi.
- Il Primo Ministro scozzese Humza Yousaf si è mostrato più critico verso Israele, soprattutto perché aveva i suoceri nella Striscia di Gaza (riusciti a uscirne assieme ad altri cittadini britannici, ndr). Tra le opinioni pubbliche inglese e scozzese, vi sono delle differenze per quanto riguarda Israele e l’antisemitismo?
La Scozia è tradizionalmente filosemita e filoisraeliana. Il governo scozzese mantiene buone relazioni con il Comitato Scozzese delle Comunità Ebraiche. Nell’ultimo lavoro di cui mi sono occupato prima della pandemia da Covid, trascorsi una giornata ad Edimburgo con alti rappresentanti della polizia scozzese e del governo, negoziando per l’organizzazione di attività di addestramento congiunte che erano vicine ad essere istituite.
- Ritiene che nel Regno Unito vi sia il rischio di attentati terroristici contro la comunità ebraica? Nel caso, crede che il governo sia abbastanza consapevole del rischio oppure no?
Il rischio c’è, e proviene dai gruppi jihadisti come Hamas, così come dai terroristi di estrema destra. Il governo britannico e la polizia sono consci della minaccia, e hanno dimostrato le loro preoccupazioni finanziando i servizi di sicurezza per tutte le scuole ebraiche, aumentando i pattugliamenti e incontrandosi regolarmente con il CST. Proprio il CST, alcuni anni fa, istituì un incontro per valutare la minaccia terroristica al quale parteciparono ufficiali di polizia provenienti da tutta la Gran Bretagna.
(Bet Magazine Mosaico, 9 novembre 2023)
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Spade di ferro - giorno 32. La guerra aerea e quella di terra
di Ugo Volli
• La situazione di Gaza prima della guerra
Vale la pena di ripetere un dato su quel che succede in Israele e dintorni, che sempre è ignorato dalla propaganda “pacifista”: non si tratta di un’operazione di Israele, ma di una guerra. Le guerre cominciano di solito da una parte sola e vanno avanti con scambi fra le due parti, fino a che una cede e smette. Così è stato per questo conflitto. Esso è nato in una situazione di calma abbastanza buona, in relazione alle abitudini della regione. Israele lasciava passare dal valico con Gaza tutte le merci che servivano alla popolazione, perfino quelle di cui si sapeva che avessero un possibile uso “doppio” (civile e militare), come i tubi metallici per l’acqua che Hamas ha trasformato poi spesso in razzi; permetteva che il Qatar passasse all’amministrazione di Gaza (cioè a Hamas) molti milioni di dollari ogni mese, trasportati in contanti dai suoi inviati; ammetteva migliaia di lavoratori ogni giorno a lavorare in Israele. Di recente su proposta del comando militare incaricato dell’amministrazione dei palestinesi, questi permessi di lavoro ai frontalieri erano cresciuti fino a quasi ventimila ingressi al giorno (e oggi ci si chiede tristemente quanti di essi fossero terroristi che in questa maniera potevano ispezionare il territorio, una conoscenza che poi sarebbe stata sfruttata per la strage). C’erano ogni tanto manifestazioni sotto la barriera di sicurezza: i responsabili della sicurezza israeliana pensavano che fossero gesti simbolici per mantenere la presa sugli “estremisti” e invece erano prove e preparativi per l’invasione. Insomma, non c’era scontro, a Gaza i beni anche di lusso non mancavano, c’erano alberghi a quattro stelle, saloni con automobili costosissime, iPhone dell’ultima generazione, mercati riforniti con cibi raffinati. C’erano anche poveri, naturalmente, ma non mancava una classe media e soprattutto un certo numero di super-ricchi, di solito appartenenti alla dirigenza di Hamas o a essa vicini. Tutt’altro che una “prigione a cielo aperto”, come ripetono i pappagalli della propaganda anti-israeliana; anche perché era aperta la frontiera con l’Egitto. L’idea di Israele era che fosse bene far crescere questo benessere, che avrebbe convinto la gente sui vantaggi della convivenza.
(Notizie su Israele, 9 novembre 2023)
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• La guerra nei cieli
Invece il 7 ottobre, senza pretesti, di sorpresa, i terroristi hanno iniziato una guerra, mandando 3000 terroristi a compiere la strage di civili israeliani e sparando migliaia di missili su Israele. Israele ha risposto, ha respinto i terroristi, ha iniziato a smantellare con i bombardamenti aerei le strutture di Hamas, infine è entrato a Gaza. Questa è una guerra provocata da Hamas (e dei suoi soci, da non dimenticare mai: Jihad Islamica e Brigate dei Martiri di Al Aqsa, affiliata a Fatah). È importante considerare che il conflitto ha continuato e continua a essere una guerra che ha due lati (anzi quattro o cinque, perché bisogna considerare gli alleati di Hamas in Libano, Siria, Yemen e in Giudea e Samaria, che sono intervenuti nel conflitto). Infatti ancora i terroristi sparano su Israele, non solo dentro Gaza, dove essi ogni giorno attaccano in forze i soldati israeliani quando possono, ma pure sullo stesso territorio israeliano. Anche ieri ci sono stati dei lanci di missili da Gaza diretti a Tel Aviv e dintorni, che per fortuna per lo più sono finiti in mare; altri missili continuano ad arrivare dal nord e dal nord-est in quantità crescenti, e perfino dallo Yemen, a 1600 chilometri di distanza. Si calcola che ci siano stati finora circa 10.000 missili lanciati su Israele, ciascuno con un carico esplosivo capace di distruggere una casa e di uccidere decine di persone. La guerra missilistica, tutta diretta a obiettivi civili, sulle città e non sulle basi militari (il che è un crimine di guerra) non ha provocato le terribili stragi cui mirava solo perché Israele ha investito moltissimo sulla difesa contro questi attacchi: quasi ogni casa, asilo, scuola, ufficio ha un rifugio o almeno una stanza blindata in cui gli abitanti minacciati possono rifugiarsi. E soprattutto c’è una difesa di missili antimissile in tre strati: la “Cupola di Ferro” per i lanci da vicino, che in questa guerra ha ottenuto circa l’88% di abbattimenti fra missili e droni; la “Fionda di Davide” per missili di portata intermedia (intorno alle centinaia di chilometri) che ha eliminato tutte le 60 minacce di questo tipo (100% di successi) e “Freccia 7” per i missili balistici, sperimentata per prima volta, che ha fatto esplodere fuori dall’atmosfera entrambi i missili di portata intercontinentale lanciati dallo Yemen, in quella che è forse la prima battaglia spaziale della storia. Contro i missili da crociera dello Yemen (un proiettile che viaggia piuttosto lentamente ma su lunghe distanze, anche raso al suolo e con capacità di manovra diversiva), sono intervenuti con successo gli aerei F35. Anche questa è una novità assoluta.
• L’operazione di terra
Nel frattempo continua l’operazione di terra, che serve a distruggere l’apparato di Hamas e degli altri gruppi, ma mira anche a impedire i lanci di razzi, che continuano, distruggendo i lanciarazzi che sono stati trovati anche dentro scuole e moschee, sotto parchi giochi e nelle case. Ma uno scopo importantissimo dell’offensiva di terra è la liberazione degli ostaggi, di cui purtroppo non si hanno notizie. Sarebbe sbagliato contrapporre questi obiettivi. I terroristi come insegna il caso Shalit, non liberano spontaneamente le persone che hanno rapito, ma cercano di farne oggetto di un infame commercio. Solo la pressione militare può salvare gli ostaggi.
(Shalom, 8 novembre 2023)
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Israele: ucciso il capo del progetto missilistico di Hamas
Nella notte compiute altre importanti missioni
di Sarah G. Frankl
GERUSALEMME – Le forze di difesa di Israele (IDF) hanno reso noto che questa notte è stato ucciso Muhsin Abu Zina, uno dei più importanti esperti di produzione di missili e razzi di Hamas, considerato dallo Shin Bet il capo del progetto missilistico del gruppo terrorista palestinese che da decenni tiene in ostaggio la Striscia di Gaza.
Per il servizio segreto dell’esercito Muhsin Abu Zina era invece il capo della divisione “industrie e armamenti” del gruppo terroristico.
In ogni caso questa notte è stata decapitata un’altra testa dell’Idra del terrore.
In operazioni sul terreno l’IDF ha eliminato una squadra di terroristi in possesso di micidiali armi anticarro mentre un attacco aereo ha eliminato una intera cellula di terroristi che si apprestava al lancio di missili e razzi contro il territorio israeliano.
Il Ministro della difesa israeliano, Yoav Gallant, ha detto che l’IDF sta ora operando “nel cuore” di Gaza City e sta “stringendo il cappio” attorno ad Hamas.
Nel frattempo il Primo Ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, ha esortato la Croce Rossa Internazionale a chiedere accesso agli ostaggi per verificare le loro condizioni.
Netanyahu ha anche detto che l’IDF sta entrando in profondità a Gaza in un modo che “Hamas non se lo sarebbe mai aspettato”.
In merito alla possibile apertura del fronte nord, Netanyahu ha invitato Hezbollah a “non commettere il più grande errore della sua vita” entrando in guerra con Israele.
(Rights Reporter, 8 novembre 2023)
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Le gallerie sventrate di Hamas. A Gaza prime bandiere bianche
di Fiamma Nirenstein
Dalla nuvola di sabbia che avvolge Gaza in queste ore, si disegna un'immagine fatale: una processione di centinaia di persone che camminano con energia su una strada principale, forse la famosa Salahadin che taglia tutta la striscia da Nord a Sud. Fuggono verso il sud e portano bene in alto, che si vedano, delle bandiere bianche. Stavolta non sembra, come si è visto in altri filmati, che Hamas fermi la loro marcia sparando per non permettere che si sguarnisca nel nord assediato da Tzahal il suo scudo umano. Stavolta Hamas ha solo cercato invano di far sparire il film dai social, ma sono rimaste le immagini che significano resa. Il simbolo è pesante per Hamas, il Medio Oriente odia i perdenti, e anche l’Iran e gli Hezbollah lo vedono. Se l’episodio non significa ancora che la guerra sia prossima a concludersi, tuttavia c’è la sensazione che la strada sia segnata: l’esercito affronta con risultati impressionanti il difficilissimo terreno della città di Gaza, una fortezza costruita negli anni, dallo sgombero del 2005, per gli scopi bellici del regime.
La sua maggiore caratteristica è l'incredibile rete di gallerie: gallerie piccole e grandi, orizzontali e verticali, non sono costruite sotto la città: è la città che è costruita sulle gallerie. Sono fatte per dirigere la guerra, entrare in Israele da sotto terra, ammassare missili, armi automatiche, congegni di alta tecnologia e droni, per accumulare cibo, acqua, benzina. Nei tunnel c’è tutto quello che serve ai terroristi, e per proteggere nel luogo più profondo e organizzato il comando di Yehia Sinwar e di Mohammed Deif. La struttura che Hamas ha costruito misura, dicono loro stessi, 500 chilometri e da un paio di giorni Israele ha cominciato a distruggerla, a esploderne gli ingressi, a farne crollare le strutture con grandi caterpillar spesso dopo che una bomba di profondità ha aperto la strada.
Nel regno delle tenebre però prima di tutto si cercano gli ostaggi. Gallerie armate sono state trovate sotto le moschee, accanto a scuole, presso una piscina per bambini. Dalle gallerie assediate spesso gruppi di assalto saltano fuori all’improvviso, i giovani israeliani affrontano pericoli terribili con una continua dimostrazione di valore e di unità, nonostante le perdite. Il sancta sanctorum delle gallerie è sotto gli ospedali, tutta Gaza lo sa, il bunker di Sinwar è probabilmente sotto l’ospedale Shifa dentro Gaza per approfittare dello scudo umano. L’avanzata è lenta, da ogni buco in terra possono saltare fuori armati di Hamas, ogni centimetro della città di Gaza è minata, ovunque. Israele ha fatto 6 milioni di telefonate e ha lanciato un milione e mezzo di volantini per indurre lo spostamento al sud. Difficile la guerra quando il nemico vuole anche il sangue dei suoi, ma Netanyahu ha ripetuto a tarda sera: solo in cambio dei nostri rapiti ci sarà la tregua umanitaria.
(il Giornale, 8 novembre 2023)
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Hamas rappresenta una parte molto ampia del popolo palestinese
Il massacro è stato sostenuto a gran voce dalla maggior parte dei musulmani di tutto il mondo, comprese le città più popolose dell'Occidente.
di Yossi Kuperwasser
Generale di Brigata
GERUSALEMME - Continuiamo a sentir dire da importanti politici occidentali, tra cui il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che Hamas non rappresenta il popolo palestinese. Non sono d'accordo. C'è un'ampia fetta del popolo palestinese che vede Hamas come suo rappresentante, non solo nella Striscia di Gaza, ma anche in Giudea e Samaria. Hamas rappresenta una parte molto importante del popolo palestinese e questo dovrebbe essere tenuto presente quando si parla del "giorno dopo la guerra". Molti civili di Gaza hanno seguito i militanti di Hamas in Israele per saccheggiare e uccidere, mentre nelle strade di Gaza gli attacchi venivano festeggiati.
Per questi motivi, Fatah - il partito al potere dell'Autorità Palestinese - ha evitato le elezioni negli ultimi 18 anni, ritenendo che Hamas avrebbe vinto. L'età avanzata del leader palestinese Mahmoud Abbas, 87 anni (ne compirà 88 la prossima settimana), rende il suo governo fragile e precario. Ha già perso il controllo della Samaria e Hamas gode del sostegno dei sindacati studenteschi delle principali università palestinesi. Dopo il massacro del 7 ottobre, il sostegno ad Hamas in Cisgiordania è passato dal 44% al 58%.
Nei social media arabi, gli attacchi terroristici di ottobre sono stati visti come una vittoria storica per l'Islam. Per anni, sia il nazionalista e "laico" Fatah che l'islamista Hamas dei Fratelli Musulmani hanno usato una simile retorica antiebraica basata sul Corano. Il defunto leader religioso di Hamas, lo sceicco Yousef Kardawi, invitava ad atti di terrorismo contro gli ebrei in Israele, come gli attentati suicidi. L'odio verso Israele e gli ebrei ha mantenuto Hamas popolare nonostante la corruzione e l'oppressione dei suoi cittadini.
Sia Hamas che Fatah hanno la stessa narrazione: la negazione dell'identità ebraica e il rifiuto del sionismo - o della sovranità ebraica sotto forma di Stato nazionale. Vedono gli ebrei in una luce negativa e sperano di sostituire completamente Israele. L'aggressiva interpretazione islamista dell'Islam da parte di Hamas glorifica l'omicidio e la crudeltà verso coloro che considera nemici dell'Islam.
La vittoria israeliana su Hamas rappresenta anche una sfida teologica, poiché viene percepita come un'umiliazione dell'Islam e rafforza l'odio verso Israele. Il massacro è stato sostenuto a gran voce dalla maggior parte dei musulmani di tutto il mondo, anche nelle città più popolose dell'Occidente. I musulmani che si oppongono ad Hamas corrono il rischio di essere visti come traditori dai loro correligionari e quindi rimangono in silenzio.
Il leader di Hamas Khaled Mashaal ha recentemente dichiarato che la sofferenza, la devastazione e la distruzione della Striscia di Gaza sono sacrifici necessari per vincere la guerra contro gli ebrei.
Parallelamente a questa retorica aggressiva, Hamas e l'Autorità Palestinese stanno commercializzando una componente del vittimismo palestinese che demonizza gli israeliani sia in pubblico che in Occidente.
L'Occidente e la comunità internazionale ignorano deliberatamente il fatto che Hamas rappresenta una larga parte della popolazione palestinese e che l'ideologia di Fatah è simile a quella di Hamas. Ammettere questo significherebbe per l'Occidente accettare le affermazioni di Israele sulla difficoltà di fare la pace con i palestinesi. L'Occidente preferisce credere che una sconfitta di Hamas lascerebbe una popolazione cooperativa che accoglierebbe una leadership moderata.
Chi sono i potenziali leader palestinesi dopo l'operazione delle Forze di Difesa Israeliane e dopo Abbas? Non ci sono candidati promettenti. L'ex leader chiave dell'OLP Muhammad Dahlan, originario di Gaza e ora residente ad Abu Dhabi, è un convinto oppositore di Israele, come il suo corrotto e doppiogiochista mentore Yasser Arafat. Salam Fayyad è un'altra opzione di leadership, ma è considerato troppo debole per porre fine al terrore a Gaza. Entrambi sono legati alla narrativa anti-israeliana.
Interverranno altri arabi? È improbabile che gli Stati del Golfo intervengano politicamente, ma probabilmente sosterranno Gaza economicamente. L'Autorità Palestinese, attraverso il suo Primo Ministro Mohamed Shtayyeh, ha dichiarato che l'OLP non è interessata a un ritorno a Gaza a meno che non significhi la creazione di uno Stato palestinese permanente, che comporterebbe un miglioramento nella comunità internazionale.
Senza chiedere ai palestinesi di cambiare la rappresentazione negativa di Israele, la prevista vittoria di Israele a Gaza avrà uno scarso impatto politico. Una leadership imposta a Gaza è destinata a fallire, come è accaduto durante il periodo di Oslo e il disimpegno da Gaza.
Cambiare una narrazione richiede molti anni, almeno una generazione. La ricostruzione della Striscia di Gaza non riguarda solo la costruzione di edifici o infrastrutture, ma anche le narrazioni palestinesi che devono essere cambiate e ricostruite. Questo include l'indottrinamento anti-israeliano nel sistema educativo e l'incitamento al terrore, compresi i pagamenti alle famiglie dei terroristi. Se questo cambiamento fondamentale non sarà una priorità assoluta, Israele dovrà governare Gaza involontariamente per molto tempo.
(Israel Heute, 7 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Una modesta proposta
di Davide Cavaliere
Il tredici settembre di quest’anno gli Accordi di Oslo hanno compiuto trent’anni. Con quella firma, Yasser Arafat, a nome della cosiddetta «Organizzazione per la Liberazione della Palestina», s’impegnava, e con lui il suo «popolo», a una risoluzione pacifica del conflitto arabo-israeliano in Medio Oriente.
Da allora, l’Autorità Nazionale Palestinese, istituita per volontà dell’OLP, ha violato e disatteso ogni singola clausola di quell’intesa. Arafat e i suoi gangster hanno, in primo luogo, usato l’Accordo come mezzo per ottenere il controllo su parte della Cisgiordania e della Striscia di Gaza; successivamente hanno convertito tutto il territorio da loro controllato in basi per lanciare aggressioni terroristiche contro Israele.
I leader arabi palestinesi non hanno mai smesso di ripetere che il loro obiettivo è la sparizione di Israele e una Palestina judenfrei. In questo senso, si pongono in diretta continuità con il nazi-islamista Amin al-Husseini, propugnatore di una «soluzione finale» al «problema sionista» in Palestina.
I mass media controllati dall’Autorità sono stati completamente «nazificati» dopo gli Accordi di Oslo. Le oscenità antisemite trasmesse dalle televisioni dall’ANP superano in sadismo e grottesco la propaganda nazista degli anni Trenta. La Striscia di Gaza, come vediamo anche in questi giorni, è stata pesantemente fortificata e militarizzata.
È in corso un crescente dibattito su come Israele dovrebbe rispondere al comportamento degli arabi palestinesi. Israele dovrebbe, innanzitutto, prendere atto dell’impossibilità di creare uno Stato palestinese indipendente. La controproducente quanto inutile «soluzione dei sue Stati» dev’essere dimenticata.
Non solo gli arabi palestinesi non hanno mai avuto alcun diritto legittimo a uno Stato; anche se, in cambio della pace, Israele si è dimostrato disposto a trascurare questo fatto, ma hanno perso qualunque possibilità di ottenerne uno a causa del comportamento adottato negli ultimi decenni, caratterizzato da una brutalità omicida e stragista con ben pochi precedenti.
L’inganno palestinese deve cessare. Basta fingere che esista una «popolo palestinese» nativo avente diritto a una qualche statualità. I palestinesi sono arabi, e gli arabi hanno già 22 stati. Non ne otterranno un altro nelle terre che spettano, storicamente e giuridicamente, a Israele. Qualsiasi arabo palestinese che desideri godere di una sovranità nazionale è libero di spostarsi in uno di questi 22 Stati, ma non può pretendere alcuna sovranità in territorio israeliano, vale a dire nelle terre tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo.
Lo Stato d’Israele deve risolvere la «questione palestinese» in modo unilaterale, chiarendo che Gaza e la Cisgiordania gli appartengono. Nel territorio compreso tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo non dovrà essere consentita alcuna forma di sovranità non israeliana. In particolar modo, dovrà anche essere ribadito che la Cisgiordania, ossia la Giudea e Samaria, fanno da sempre parte della patria nazionale ebraica.
Gli arabo palestinesi che vivono in Giudea e Samaria, in seguito a una definitiva annessione da parte dello Stato d’Israele, non dovranno ricevere mai la cittadinanza israeliana. Coloro che non desidereranno vivere sotto la sovranità israeliana saranno liberi di andarsene. Israele potrebbe, persino, prendere in considerazione la possibilità di fornire sostegno finanziario e incentivi a coloro che lo faranno.
Gli arabi palestinesi avranno lo stesso status dei «meteci» dell’antica Grecia: stranieri residenti privi dei diritti politici. Molti di loro hanno ancora passaporti e cittadinanza della Giordania, dunque saranno considerati giordani residenti.
I villaggi e le città a maggioranza arabe dovranno essere inseriti in due liste: una lista bianca e una lista nera. Essi verranno assegnati alle due liste basandosi interamente su un unico fattore: la violenza. Le zone in cui si verificheranno atti di violenza, compresi i lanci di pietre, verranno inserite nella lista nera. Le aree in cui la violenza è assente saranno, invece, inserite nella lista bianca.
Quelli nella lista bianca gestiranno i propri affari senza interferenze da parte delle autorità israeliane. I residenti delle città della lista bianca potranno svolgere lavori pendolari nelle città israeliane. Gli altri saranno posti sotto stretta sorveglianza militare e verrà loro impedita la libera circolazione.
Solo adottando misure simili, Israele potrà garantire ai suoi cittadini sicurezza e pace, ulteriori concessioni, territoriali e politiche, agli arabi palestinesi non farebbero altro che perpetuare il conflitto.
(L'informale, 8 novembre 2023)
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Israele è la mia gente e il coltello di nonno
Intervento al convegno “Davide doveva farsi uccidere da Golia”. Latina
di Lidano Grassucci
Direttore di Fatto a Latina
Non vi parlerò oggi di ragione, di ragioni, di storia, di geopolitica. Elementi che pure ci sono e mi portarono ad innamorarmi della storia del medioriente durante il periodo universitario, ci sarà chi meglio di me potrà farlo. Io vi parlerò di suggestioni, di sensazioni, di cose che mi vengono da dentro.
Premetto che sono socialista non pacifista, che la pace se ingiusta non è, non sarà, una mia meta. Sono per la giustizia e contro l’ingiusto rivendico il diritto di resistenza. Mio nonno Lidano mi insegnò che il coltello serve a tagliare il pane, a sbucciare la mela, ma anche a riparare il torto e lo devi sempre avere. Ho pietà per i pacifisti come per i baciapile, non mi lego a questa ipocrita schiera e riparo il torto non perdono.
Detto questo entro nelle mie suggestioni. Ogni volta che vado nel ghetto di Roma, ogni volta che studio o mi occupo di storia, trovo nomi del mio posto: Sermoneta, Piperno, Sonnino, Terracina, Fondi, Di Segni, Di Veroli. Sono cognomi che raccontano di quando vivevamo insieme nelle nostre citta. Insieme. Poi rammento quella bellissima armonia che trovammo con il carciofo: i miei contadini lo sapevano coltivare come nessuno, ma i fratelli maggiori ebrei lo sapevano cucinare oltre ogni umana possibilità. Sono la mia gente da secoli e noi siamo questa gente.
Poi vi racconto di un uomo Quirino Ricci, detto Cucchiarone, che aveva già 5 figli, viveva a Bocca di Fiume, da Sezze vennero due amici ebrei a chiedergli di tenere i loro figli per salvarli. Quirino doveva scegliere tra mettere a rischio certo i suoi figli o restare indifferente rispetto a quei due bimbi. Non ci penso molto: lassatei atecco. Chiamò i suoi figli di sangue e gli disse “da oi, quischi su frachi vostri”. Naturalmente, allora come ora, ci sono baciapile, benpensanti, anime pie che non amano bontà ed ebrei che andarono dai fascisti e dai tedeschi a segnalare i troppi figli di Cucchiarone.
Si presentarono in forze: “sono tutti figli tuoi?”. Cucciarone non mostrò incertezza: “Tutti”. Chiesero ai bambini: “sono tutti fratelli vostri”. I sette bimbi, tutti e sette, dissero “siamo tuchi frachi”. Senza possibilità di dubbio, netti. I tedeschi dovettero desistere dal loro intendimento. Salvò tutti e sette i suoi figli.
Quando lo chiamavano nelle scuole a raccontare questa storia c’era sempre un bimbo, o una bimba, più vivace che chiedeva “Sì, ma lei ha detto una bugia”. Cucchiarone premetteva: “i non dico le bucie”. Il bimbo curioso: “Ma non erano figli suoi”…. “no erano ditto la verità, erano frachi e tucchi figli me perchè tuchi i mammocci degli munno quando stato agli munno so figli a mi”.
Per questo sto con Israele, anche se dentro ho secoli di cristiane persecuzioni. Mia nonna, donna piissima, sentì una omelia bellissima di don Renato Di Veroli. La ascoltò con Tetta, la vicina di casa perpetua di un anziano prete di cui non ricordo il nome, che commentò: “che bella predica, ha fatto”. Nonna annuì e commentò “Mbè ma sempre giudio è”. La famiglia di quel sacerdote si era convertita 4 secoli prima. L’antisemitismo è anche in me, come la stragrande maggioranza degli italiani stettero con le leggi razziali e non con il “rispetto dei fratelli maggiori”. Siamo stati complici o indifferenti, qualcuno giusto.
Questa è la mia coscienza, questa la storia che ho dentro. Il 7 ottobre ho rivisto la caccia all’ebreo, la caccia a negare le differenze, il ritorno al noi contro chi osa…
Gli ebrei nella prima metà del secolo scorso non si difesero, andarono in pace nei campi di concentramento, ne abbiamo uccisi sei milioni, sei milioni. Oggi gli ebrei si difendono in armi, da chi come Hamas e non solo, vogliono cancellarli dalla faccia della terra.
Termino segnalando l’infamia della mia parte politica, la sinistra italiana, ogni 25 aprile la bandiera della brigata ebraica che ha combattuto per liberare l’Italia da fascisti, nazisti, viene fischiata da ragazzini che sventolano la bandiera palestinese, ignorando che il Gran Mufti di Gerusalemme stava con Hitler e non con la libertà.
Ciascuno di noi deve rispondere alla sua coscienza, io rivendico la mia, nonna mi autorizzerà a chiedere Grazia del suo pregiudizio e a nonno dico grazie per avermi spiegato con un coltello il diritto a resistere.
(Fatto a Latina, 8 novembre 2023)
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Oltre 2000 persone alla Sinagoga Centrale per Israele, la liberazione degli ostaggi e la celebrazione della vita
Sono 2000 le persone che hanno riempito la sinagoga centrale di Milano – mentre altre 350 sono rimaste fuori – martedì 7 novembre per l’evento organizzato dalla Comunità ebraica di Milano a sostegno di Israele e per la liberazione degli ostaggi prigionieri a Gaza dal 7 di ottobre. Esattamente un mese dopo i tragici fatti, molti membri della comunità ma anche tanti amici si sono raccolti per ricordare le vittime e chiedere la liberazione degli ostaggi, di cui scorrevano in loop alcune immagini. Fuori dalla sinagoga, alcuni passeggini vuoti, in memoria dei bambini rapiti.
Molte le personalità istituzionali che sono intervenute durante la serata, moderata dal vicepresidente della Comunità Ilan Boni. Presente anche la senatrice Liliana Segre, che ad alcuni giornalisti ha dichiarato: “Se sono qui è perché la ritengo una serata importante. Non mi sento di parlare di questo argomento perché sennò mi sembra di avere vissuto invano»....
(Bet Magazine Mosaico, 8 novembre 2023)
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Spade di ferro giorno 31. Un bilancio, a un mese di distanza
di Ugo Volli
• Memoria di un mese
È passato un mese. Il 7 ottobre scorso, poco prima dell’alba, una pioggia di missili partiva da Gaza in direzione di Israele. In una ventina di punti la barriera di sicurezza (che marca un confine internazionalmente riconosciuto, ricordiamolo) veniva abbattuta con esplosivi e bulldozer e circa 3000 terroristi di Hamas, Jihad Islamica e anche del braccio militare di Fatah, le “brigate di Al Aqsa”, montati su motociclette e jeep, invadevano il territorio israeliano assalendo i kibbutz, i villaggi e le cittadine vicine al confine, devastando il prato dove si svolgeva una festa musicale, torturando, violentando, mutilando, ammazzando tutti quelli che trovavano (ebrei israeliani in grande maggioranza, ma anche beduini musulmani, lavoratori thailandesi, turisti che si trovavano lì). Alla fine il bilancio sarà di oltre 1400 morti, 240 rapiti, molte migliaia di feriti. Sicuramente la più grande azione terroristica dopo le Twin Towers, e altrettanto certamente la più crudele della storia: neonati arrostiti nel forno di cucina, donne incinte col ventre squartato e il feto fatto a pezzi davanti ai loro occhi prima di essere ammazzate, bambini decapitati, adulti mutilati, ragazze e vecchie esposte nude al ludibrio e alle percosse della folla prima di essere finite… Non bastano le parole a raccontare la crudeltà di questo massacro terrorista.
• Gli errori di Israele
Israele è stata colta gravemente impreparata. L’eccidio non sarebbe dovuto succedere, avrebbe dovuto essere preavvisato dai servizi di informazione e prevenuto dall’esercito; la politica di appeasement di Hamas era profondamente sbagliata e così la strategia di contenimento basata solo su mezzi elettronici e in genere l’ottimismo sulla convivenza. Ci sarà tempo dopo la fine della guerra per esaminare le responsabilità individuali e per attuare i cambiamenti di politica e di personale necessari: Israele ha sempre indagato sui risultati delle sue azioni e imparato dai fallimenti. Ma la colpa vera, naturalmente, è dei terroristi, non di chi è stato troppo ottimista o inaccurato nel campo israeliano.
• Il progetto terrorista
I terroristi avevano diversi obiettivi. Il primo dal punto di vista ideologico e psicologico era quello di umiliare gli ebrei, di sterminarli almeno per quel tanto che era possibile, di mostrare superiorità, disprezzo, ferocia, secondo la dottrina tradizionale dell’Islam, di indurre terrore in Israele. Questa è la ragione per cui i terroristi si sono attardati a compiere le loro sevizie su anziani, bambini e ragazzini invece di cercare degli obiettivi militari “duri”, dove avrebbero potuto fare dei danni strutturale anche più gravi. La seconda ragione era far partire una guerra vera e propria con Israele, nell’illusione di mobilitare tutto il mondo islamico o almeno la regione circostante. La terza ragione era il tentativo di sabotare la pace fra Israele e Paesi arabi, innanzitutto l’Arabia saudita, vista come un pericolo gravissimo dai loro mandanti dell’Iran e da loro stessi, che vivono di guerra e di violenza.
• I risultati
Tutti e tre questi progetti sono falliti. Israele non si è fatto terrorizzare, anzi ha superato le sue divisioni e ha ritrovato uno spirito combattivo unitario che da tempo non si vedeva; il mondo civile ha mostrato orrore per il sadismo dei terroristi e solidarietà per Israele. La guerra si è rivelata perdente e anche gli alleati dei terroristi se ne sono tenuti lontani, pur facendo discorsi bellicosi e realizzando qualche attacco propagandistico, badando però bene a non offrire a Israele un casus belli. Gli accordi di Abramo hanno tenuto, sia pur con qualche concessione di forma da parte dei governanti arabi alla propaganda panarabista. È probabile che alla fine della guerra il processo di pace possa ricominciare da dove era rimasto, anzi rafforzato dalla dimostrazione di forza di Israele.
• Vincere la guerra
Ma per questo, per mostrare la criminale inutilità della strage, Israele deve vincere la guerra, che continua: ogni giorno vi sono lanci di razzi su Israele da Gaza, Libano, Siria, Yemen. Israele deve vincere, non limitarsi a “contenere” Hamas, come in fondo ha già fatto. Deve eliminare la struttura tecnica, ma soprattutto liquidare quella umana di Hamas: neutralizzare o imprigionare e sottoporre a processo i grandi capi, i quadri intermedi, anche i terroristi semplici. Mettere Gaza in una condizione che non possa mai più essere l’isola franca del palestinismo, in cui non ci siano più fabbriche d’armi, campi di addestramento, lanciarazzi, tunnel d’assalto. Bisognerà vedere come fare, con che struttura di governo, ma l’obiettivo è questo. Se non ci riuscisse, in breve, al massimo nel giro di qualche anno, con l’aiuto dei Paesi filoterroristi, Iran in testa, il terrorismo riemergerebbe daccapo, con le stesse modalità. E come l’Europa non ha potuto ricominciare dopo la Shoah senza l’eliminazione completa del nazismo, la resa senza condizioni della Germania e il processo di Norimberga, così è per il Medio Oriente di oggi. Per questo chi vuole “cessate il fuoco” e “tregue umanitarie” provvisorie (che poi diventano definitive), salvacondotti per i capi terroristi e cose del genere, non lavora solo per salvare Hamas, ma anche per far continuare la guerra. Un mese è passato, ne dovranno passare altri, finché il lavoro di pulizia, per difficile e sanguinoso che sia, non sarà terminato.
(Shalom, 7 novembre 2023)
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Una "pausa umanitaria" per salvare Hamas?!
Qualsiasi cessazione della guerra contro Hamas, anche se temporanea, sarebbe vista come una vittoria per il gruppo terroristico e i suoi sostenitori.
di Bassam Tawil
L'amministrazione Biden ha esercitato pressioni su Israele affinché accettasse "pause umanitarie" nella guerra contro il gruppo terroristico Hamas, sostenuto dall'Iran, i cui membri hanno compiuto il massacro del 7 ottobre in cui sono stati uccisi 1.400 israeliani e feriti altre migliaia. Hamas ha anche rapito più di 240 israeliani nella Striscia di Gaza, tra cui bambini, donne e anziani.
Chiedendo una "pausa umanitaria" nella guerra, l'amministrazione Biden sta offrendo ad Hamas un'ancora di salvezza. Una pausa o un cessate il fuoco permetterebbe ad Hamas di riorganizzarsi e preparare nuovi attacchi contro gli israeliani.
Il 4 novembre, tuttavia, il Segretario di Stato americano Antony Blinken - a suo merito e a quello dell'amministrazione Biden - ha respinto le richieste di un cessate il fuoco, in quanto "tale pausa permetterebbe al gruppo militante palestinese Hamas solo di riorganizzarsi e attaccare nuovamente Israele". Il giorno successivo, tuttavia, Blinken ha continuato a chiedere "pause umanitarie", che Hamas avrebbe utilizzato per preparare nuovi attacchi. Per Hamas, ogni pausa o cessate il fuoco è un'ancora di salvezza che lo aiuta a lanciare attacchi.
"C'è stato un cessate il fuoco. Era prima del 7 ottobre", ha detto il nuovo presidente della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti Mike Johnson, "e Hamas l'ha infranto".
David Friedman, ex ambasciatore statunitense in Israele, ha recentemente osservato su Fox News che i bombardamenti non sono continui e che Israele ha sempre facilitato la consegna di aiuti umanitari nel sud di Gaza. Ha riferito che Hamas ha allestito un grande schermo nel nord di Gaza per proiettare un film di "greatest hits" di Hamas la scorsa settimana, al quale hanno assistito circa 1.000 gazesi - quindi c'è ovviamente molta energia.
Il 4 novembre, Hamas ha approfittato di una finestra di opportunità umanitaria concessa da Israele ai residenti di Gaza e ha attaccato gli israeliani con colpi di mortaio e missili anticarro. "Mentre l'IDF apriva una strada umanitaria per i residenti di Gaza diretti a sud, i terroristi dell'organizzazione terroristica di Hamas hanno attaccato le forze coinvolte nell'apertura", ha dichiarato l'IDF.
I leader di Hamas, nascosti in una rete di tunnel, chiaramente non si preoccupano del benessere o della sicurezza dei palestinesi nella Striscia di Gaza. Hamas ha stabilito le sue basi militari, i lanciarazzi, i depositi di munizioni e i posti di comando all'interno, sotto o vicino a infrastrutture civili come scuole, ospedali, parchi giochi per bambini, case e moschee.
Hamas ha anche impedito ai civili di fuggire verso zone sicure nel sud della Striscia di Gaza. I cecchini di Hamas avrebbero ucciso decine di bambini e donne che cercavano di raggiungerle. Questo avviene dopo che Israele ha ripetutamente avvertito i residenti di Gaza di utilizzare corridoi sicuri per raggiungere il sud della Striscia di Gaza.
La settimana scorsa, Hamas ha approfittato di una "pausa umanitaria" introdotta da Israele su pressione degli Stati Uniti per cercare di far entrare clandestinamente in Egitto i terroristi feriti con il pretesto di evacuare i civili feriti. Le bugie e gli inganni di Hamas sono consistenti. Un alto funzionario statunitense ha rivelato che Hamas ha tentato di far uscire di nascosto alcuni suoi membri da Gaza in ambulanze attraverso il valico di Rafah verso l'Egitto.
Una "pausa umanitaria" significherebbe anche consegnare centinaia di migliaia di litri di carburante per i generatori di Hamas utilizzati per fornire aria pulita ed elettricità alla sua rete sotterranea di tunnel, che il funzionario di Hamas Mousa Abu Marzouk ha detto essere stati costruiti per i terroristi di Hamas e non per i civili. Secondo funzionari statunitensi, Hamas ha già una scorta di oltre 200.000 litri di carburante per i suoi tunnel. La settimana scorsa, l'IDF ha pubblicato una registrazione audio di una conversazione tra un comandante di Hamas e il direttore dell'ospedale indonesiano di Gaza, in cui il comandante affermava che Hamas stava prendendo il carburante dalle scorte dell'ospedale.
L'amministrazione Biden dovrebbe condannare Hamas per aver costretto i palestinesi - a cui tiene così tanto da sparare contro di loro per impedire che si mettano in salvo - a morire come scudi umani nella sua guerra per massacrare gli israeliani e distruggere Israele.
L'amministrazione Biden dovrebbe continuare a chiedere il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi detenuti da Hamas, come ha già fatto. Inoltre, l'amministrazione Biden potrebbe anche invitare i palestinesi di Gaza a sollevarsi contro il gruppo terroristico di Hamas, che tiene in ostaggio praticamente due milioni di palestinesi.
Alle vittime israeliane del massacro di Hamas del 7 ottobre non è stata data la possibilità di fuggire attraverso un corridoio sicuro. Nessuno ha chiesto ad Hamas di accettare una "pausa umanitaria" quando i suoi terroristi hanno compiuto atrocità contro gli israeliani nelle città e nei villaggi vicino a Gaza quel giorno. I terroristi hanno invaso Israele per un solo scopo: uccidere, stuprare e rapire quanti più ebrei possibile.
Hamas ha fatto una "pausa umanitaria" prima di massacrare centinaia di israeliani a un festival musicale? Hamas ha fatto una "pausa" prima di stuprare le donne? Hamas ha fatto una "pausa" prima di decapitare, smembrare e cuocere i bambini nei forni?
L'avvocato internazionale per i diritti umani Arsen Ostrovsky ha chiesto:
"Per curiosità, Hamas ha fatto una "pausa umanitaria" quando è entrato nelle nostre case e ha ucciso i nostri bambini, decapitato i neonati, violentato le donne, bruciato vive intere famiglie e preso in ostaggio oltre 240 persone, compresi neonati e anziani?".
Come mai gli Stati Uniti non hanno preso in considerazione una "pausa umanitaria" durante la loro guerra contro Al-Qaeda e lo Stato Islamico? Perché agli Stati Uniti è stato permesso di condurre una guerra implacabile contro i terroristi di Al-Qaeda e dell'ISIS mentre Israele è chiamato a fornire aiuti umanitari e carburante allo stesso gruppo responsabile del peggior massacro di ebrei dopo l'Olocausto? Quali sono le possibilità che gli aiuti umanitari e il carburante vadano effettivamente ai civili di Gaza - ai quali i leader di Hamas tengono così tanto da costringerli a morire come scudi umani - e non ai leader di Hamas per i loro scagnozzi?
Qualsiasi cessazione della guerra contro Hamas, anche temporanea, sarebbe vista come una vittoria del gruppo terroristico e dei suoi sostenitori. Hamas e i suoi patroni in Iran sarebbero felici di vedere un cessate il fuoco a Gaza per poter dire che la pressione internazionale ha costretto Israele a fermare la sua guerra. Una "pausa umanitaria" dovrebbe iniziare solo quando tutti gli ostaggi saranno stati rilasciati e tutti i terroristi di Hamas si saranno arresi o saranno stati uccisi.
(Israel Heute, 7 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Sinistra solidale con gli assassini dell'Occidente
di Daniele Dell'Orco.
Durante gli 8 anni alla guida della Comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello, che ha recentemente passato il testimone a Victor Fadlun, è stata al vertice di un vero e proprio osservatorio sull’odio antiebraico. Dalla Capitale al resto d'Italia e in generale nel Vecchio Continente, con la guerra in Israele il clima si sta surriscaldando. E lei se n'è accorta.
- Come sta vivendo queste settimane così delicate? «L’aggettivo delicato mi sembra persino riduttivo. Vivo con sconcerto e preoccupazione ciò che vedo, ciò che sento e ciò che avverto direttamente nei confronti degli ebrei che vivono in Italia e in Europa».
- A cosa si riferisce? «Dopo il 7 ottobre, ovverosia il giorno in cui si è dato sfogo all’espressione più bieca possibile di antisemitismo, con gli atti di violenza e i massacri che Hamas ha eseguito contro civili ebrei in Israele, ci sono state ripercussioni un po’ in tutto Occidente, dov'è riaffiorato un odio culturale e viscerale. Stavolta con l'aggravante che Hamas lo sponsorizza e lo fomenta incoraggiando la distruzione dell'ebreo ben oltre ciò che professa nel suo statuto (il rifiuto di “qualsiasi alternativa alla piena e completa liberazione della Palestina, dal fiume al mare”, quindi dal Mediterraneo al Giordano, NdR). Ciò produce la comparsa di una nuova serie di atti antisemiti».
- Dal clima tossico si è già passati ai fatti? «In generale vale la pena di ricordare che gli atti antisemiti non sono affatto isolati: in qualsiasi momento in questi decenni abbiamo riscontrato atti di vandalismo nei confronti di cimiteri, scritte antiebraiche, cori negli stadi. Certo, in un momento così particolare questi episodi stanno progressivamente aumentando di intensità: dalla brutalizzazione delle pietre d'inciampo a Roma fino a gravi fatti di cronaca come le svastiche di Parigi e l'accoltellamento di una donna ebrea a Lione. Non sappiamo se e come possano moltiplicarsi, ma l'aria che si respira di certo sta facendo emergere tutti gli istinti più beceri».
- Negli ambienti cospirazionisti la “minaccia ebraica” è dipinta come una mano invisibile e potente. Non teme possa esserci il rischio che il “colpevole ebreo” possa assumere una consistenza fisica e quindi diventare un bersaglio chiaro e definito? «Sì, in parte. Il fenomeno della “colpa ebraica tout court” lo abbiamo visto anche durante la pandemia, quando ci accusavano prima di aver rilasciato il virus poi di aver usato i vaccini per controllare il mondo; ma anche con la guerra Ucraina e le dure dichiarazioni della Russia. Certo, oggi per colpa di Hamas sta passando il messaggio che sia legittimo “colpire l'ebreo in quanto ebreo” come fosse una missione sociale, ma non dobbiamo dimenticare che anche ciò che stiamo vivendo non è una novità».
- Ci spieghi meglio. «Be’ io ricordo benissimo nel 1982 che nelle settimane che precedettero l’attacco alla Sinagoga di Roma (morì un bambino di 2 anni, NdR) si era innescato un processo di colpevolizzazione di tutto il popolo ebraico (erano i mesi dell’invasione israeliana del Libano meridionale, NdR) fino a ritenerci “stranieri” nelle nostre stesse città lontane ad attaccare fisicamente il Paese dei Cedri. Storia già vissuta. Peraltro anche quell'attentato, di cui non sono mai stati individuati i responsabili, era di matrice palestinese».
- E ricorda anche che pochi giorni prima venne posta una bara proprio lì davanti. «Come dimenticare, fu durante un raduno della Cgil».
- Anche in questo caso la storia si sta ripentendo, con la sinistra che solidarizza in piazza con Hamas... «Purtroppo. Non possiamo nasconderci di fronte all’evidenza. Le piazze in democrazia sono sempre legittime, ma queste sono evidentemente vittime di un cortocircuito. E mi trovo d'accordo con quando affermato da Edith Bruck nella sua intervista al vostro giornale. La sinistra sostiene di voler tutelare i diritti, ma non ricordo di averla vista scendere in piazza con la stessa intensità di oggi ad esempio per condannare i massacri in Siria, per solidarizzare con le ragazze iraniane, per difendere i gay e le donne palestinesi che rivendicano il diritto a potersi esprimere anche in Palestina. Stavolta, invece, si identificano addirittura con Hamas, gli assassini dell’Occidente».
- Dell’Occidente dice? «Certo, cosa pensa vogliano fare quelli di Hamas? Oggi vogliono distruggere noi, domani vorranno fare la stessa cosa con l'Occidente tutto. La cosa più terribile che si possa fare in questo momento è solidarizzare con degli assassini. Quello che dovrebbe fare la sinistra è scendere in piazza per chiedere il rilascio degli ostaggi, di donne, anziani e bambini».
- Ha provato a darsi una spiegazione logica del motivo per cui ciò non avviene? «Non c’è, non me la voglio dare. So però che c'è una narrazione storica che una parte della sinistra ha sposato dal 1967, abbracciando in toto la causa palestinese. Ma badi bene, sposare la causa palestinese non è ciò che fa Hamas. Non è l'Islam moderato, di cui ho grande rispetto, anche se per la verità lo vedo molto assente. Hamas vuole uccidere, smantellare, sottomettere».
- Magari la prossimità tra Hamas e sinistra sta proprio nell'odio comune nei confronti dell'Occidente? «È un’ipotesi verosimile, ma sarebbe improvvida, irresponsabile e incivile. Solidarizzare con movimenti del genere vuol dire odiare se stessi, e addirittura offrire uno scudo di legittimità alle azioni condotte e a quelle che potrebbero condurre in futuro».
- A proposito di “scudi”: molti, anche a sinistra, sostengono di non essere antisemiti e preferiscono definirsi antisionisti. C'è differenza secondo lei? «No, è un alibi, costruito ad arte per chi vuole nascondere l'antisemitismo. Io mi rivedo nella definizione dell’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance, NdR) che spiega che la critica nei confronti dello Stato di Israele ad esistere diventa negazione del diritto degli stessi ebrei ad esistere».
- C'è qualcosa che si sente di rimproverare al governo israeliano per le azioni di questo mese? «Non ho il privilegio, da cittadina italiana, di poter esprimere giudizi come lo hanno i cittadini israeliani. Spero però che questa guerra finisca presto, che gli ostaggi vengano restituiti alle loro famiglie e che il popolo palestinese possa avere dei rappresentanti che lo tuteli in modo degno».
Libero, 7 novembre 2023)
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Gli ebrei in Europa hanno di nuovo paura”: l’UE condanna il crescente antisemitismo
L’organo esecutivo dell’Unione Europea ha condannato apertamente il crescente antisemitismo in tutto il continente, dichiarando che l’odio verso gli ebrei “va contro tutto ciò che l’Europa rappresenta”.
In una dichiarazione rilasciata domenica 5 novembre, la Commissione europea – insieme al Consiglio europeo, il ramo esecutivo dell’UE – ha osservato che il picco dell’antisemitismo “ha raggiunto livelli straordinari negli ultimi giorni, che ricordano alcuni dei momenti più bui della storia”. “Oggi gli ebrei europei vivono ancora una volta nella paura”, si legge nella dichiarazione, che cita alcuni delle migliaia di incidenti che hanno preso di mira gli ebrei negli Stati membri dell’UE. “Cocktail lanciati contro una sinagoga in Germania, stelle di David spruzzate su edifici residenziali in Francia, un cimitero ebraico profanato in Austria, negozi e sinagoghe ebraiche attaccati in Spagna, manifestanti che scandiscono slogan odiosi contro gli ebrei”, si legge nella nota.
Forte dunque la condanna: “In questi tempi difficili l’UE è al fianco delle sue comunità ebraiche. Condanniamo questi atti spregevoli nei termini più forti possibili. Vanno contro tutto ciò che l’Europa rappresenta. Contro i nostri valori fondamentali e il nostro modo di vivere. Contro il modello di società che rappresentiamo: basato sull’uguaglianza, l’inclusione e il pieno rispetto dei diritti umani. Ebreo, musulmano, cristiano: nessuno dovrebbe vivere nella paura della discriminazione o della violenza a causa della propria religione o della propria identità”.
Dal 2021, l’Unione Europea ha messo in atto la sua prima strategia globale sulla lotta all’antisemitismo e sulla promozione della vita ebraica, nonché dal 2020 un piano d’azione dell’UE contro il razzismo.
“In collaborazione con gli Stati membri, continueremo a rafforzare le misure di sicurezza – continua la nota -. Abbiamo già aumentato i finanziamenti dell’UE per proteggere i luoghi di culto e altri locali e stiamo lavorando per rendere disponibile maggiore sostegno. Parallelamente, stiamo intensificando l’applicazione della legislazione pertinente per garantire che le piattaforme online reagiscano in modo rapido ed efficace ai contenuti antisemiti o anti-musulmani online, siano essi contenuti terroristici, incitamento all’odio o disinformazione”.
(Bet Magazine Mosaico, 7 novembre 2023)
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L’ipotesi dei due Stati è fantasia, il 7 ottobre ha cambiato la storia
Il sangue ha svegliato gli ebrei dal sogno del dialogo. Nessun Paese armato nascerà al confine. E non ci saranno altre Shoah.
di Jonathan Pacifici
Presidente del Jewish Economic Forum
Mentre l'esercito israeliano ha iniziato la bonifica totale di Gaza, nelle cancellerie occidentali ci si comincia a interrogare sul futuro della Striscia e più in generale dei palestinesi e di ciò che resta degli Accordi di Oslo. Molti si sono sbrigati a rispolverare il mantra «due popoli, due Stati», senza rendersi conto di cosa abbia rappresentato per Israele il 7 ottobre.
Ci sono già due popoli e due Stati: l'Israele e gli israeliani prima del 7 ottobre e l'Israele e gli israeliani dopo il 7 ottobre. Questa data segna uno spartiacque storico che cambia tutto in Medio Oriente perché cambia fondamentalmente la percezione di sé che hanno gli israeliani. È stato un orribile reality check che ha svegliato in un istante un Paese. Israele ha capito in maniera inequivocabile che non solo dall'altra parte non c'è un partner, come ormai si dice da anni, ma non esistono e non esisteranno i presupposti identitari per un accordo politico. Gli israeliani hanno capito improvvisamente che non c'è nessuna questione territoriale nel conflitto, nessuna rivendicazione politica, nessun elemento che in qualsiasi altro contesto sarebbe gestibile con gli strumenti del dialogo, della diplomazia o della politica. L'Israele laica dei kibutzim e del processo di pace a tutti i costi si è svegliata nel sangue del 7 ottobre e ha dovuto accettare obtorto collo la dura realtà intuita ormai da anni da molte altre anime del Paese. Ci siamo ritrovati con gli orrori della Shoah dentro i più pastorali dei kibutzim. Il conflitto è esistenziale e fonda le sue radici sul più profondo antisemitismo. Non ci vogliono qui, dove qui è inteso come pianeta terra.
E allora cosa ne sarà di Gaza, dei palestinesi? Difficile dirlo oggi. Certo nell'Israele del dopo 7 ottobre, si può già dire cosa non sarà. Gli israeliani non consentiranno mai più a nessun governo di tollerare a pochi metri dai propri bambini entità straniere armate. Mai più. Ogni singolo centimetro di territorio dal quale Israele si sia ritirata nella sua storia è diventato più prima che poi una base terroristica. Quand'anche questo è stato fatto lasciando spazio a entità apparentemente «moderate» come la Anp, in breve tempo ci siamo ritrovati con attentati suicidi, cecchini, accoltellatori nel migliore dei casi, e con un vero e proprio stato del terrore, come Gaza, nel peggiore. Gaza, liberata completamente dalla presenza israeliana (compreso il dissotterramento dei morti ebrei dai cimiteri) e diventata Hamastan, è quindi l'archetipo di ciò che succede quando Israele si ritira: una Shoah sui nostri figli che nessuno in Israele tollererà mai più. Questo preclude definitivamente ogni Stato palestinese, con buona pace delle cancellerie occidentali.
L'antisemitismo è la causa scatenante. Non ci vogliono qui, inteso come pianeta
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L'unico interesse degli israeliani da ora in poi sarà solo ed esclusivamente quello della propria sicurezza. E’ per questo che interessa molto poco in Israele ciò che sarà dei palestinesi. Chiunque incontri per strada ti dirà che la qualità della loro vita sarà inversamente proporzionale al rischio che rappresentano per l'incolumità dei nostri figli. Gaza verrà demilitarizzata e messa in condizione di non nuocere. Non entrerà mai più un solo lavoratore dentro Israele. Vogliono farci uno Stato demilitarizzato, facciano pure, ma Israele continuerà a monitorare attentamente ciò che avviene ai confini. Come si può chiedere a Israele di fidarsi del controllo egiziano che ha permesso l'ingresso di decine di migliaia di missili, bombe ed esplosivi di tutti i tipi? È tutto materiale passato sotto i tunnel di Rafah con la connivenza del Cairo. Ci sarà probabilmente un cuscinetto di qualche chilometro e una separazione totale tra Gaza e Israele. Dubito che qualcuno voglia continuare a fornire gratis acqua ed elettricità al popolo del 7 ottobre. E nei territori? In Giudea e Samaria, finite le ostilità a Gaza, sarà necessaria una bonifica delle sacche terroristiche nei principali centri per evitare che il 7 ottobre si ripresenti in altre aree del Paese.
La geografia, per chi la conosce (quindi non per la gran parte dei politici occidentali), rende impossibile qualsiasi spartizione territoriale. E’ semplicemente impossibile. Quando le cancellerie capiranno ciò pur di ottenere qualche risultato torneranno a chiedere accordi ad interim, una Anp maggiorata e altre formule che possono funzionare solo su qualche mappa nelle capitali europee. «Pensano che abbiamo a che fare con gli svizzeri o i finlandesi», mi confidava esasperato un politico di vecchia data. L'unica vera cosa che avrebbe un senso per migliorare la vita dei palestinesi, mi disse una volta un leader arabo a Hebron, sarebbe estendere lo status dei residenti arabi di Gerusalemme Est su tutti i territori. Diritti civili, ma non politici, come un qualsiasi europeo residente in un altro Stato membro. Possibilità di lavoro, previdenza sociale, libertà di spostamenti e pieni diritti in tutti i sensi, ma non il voto. Non, quindi, l'unica cosa che purtroppo interessa alla maggior parte di loro: la distruzione di Israele tramite la creazione di un altro Stato fallimentare come il Libano o la Siria. Questo gli israeliani del post 7 ottobre non lo permetteranno mai.
(La Verità, 7 novembre 2023)
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"L'Israele laica dei kibutzim e del processo di pace a tutti i costi si è svegliata nel sangue del 7 ottobre e ha dovuto accettare obtorto collo la dura realtà intuita ormai da anni da molte altre anime del Paese." Questa per Israele potrebbe essere la fine dell'illusione di farsi proteggere da un Occidente che oggi proclama "Israele siamo noi". Come gli ebrei fino alla fine dell'Ottocento pensavano di aver trovato ciascuno la sua "patria" nella nazione in cui erano stati accolti come cittadini, così l'ebreo nazionale dal nome Israele ha pensato di aver trovato la sua "patria" nel "mondo" che lo aveva accolto come nazione. Certo, non tutti i membri nazionali del pianeta "mondo" hanno mostrato di accogliere con gradimento questo strano nuovo cittadino, che ad ogni passo sembra aggiungere nuovi guai alla "comunità internazionale", ma l'Israele laicista e democraticista ha pensato di poter essere difeso da quella parte laica e democratica del mondo chiamata Occidente. Il risveglio è stato brusco, non solo perché Israele ha toccato con mano che una parte del mondo non occidentale non solo ha in antipatia Israele, ma semplicemente vuole che sia tolto il disturbo provocato dalla sua presenza sulla terra, ma ha dovuto anche constatare che l'altra parte del mondo, quella buona, quella che dice che Israele ha diritto di esistere, ha fatto anche capire che Israele non ha diritto di difendersi. L'ebreo-nazione laicista e democraticista di Occidente è diventato ormai uno straniero in patria. M.C,
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Attentato a Gerusalemme: due agenti di frontiera feriti, terrorista ucciso
di Sarah Tagliacozzo
Questa mattina due agenti della polizia di frontiera israeliana sono rimasti gravemente feriti in un attentato terroristico alla Erode, una delle entrate alla Città Vecchia di Gerusalemme.
Entrambi sono stati accoltellati da un terrorista di 16 anni residente a Gerusalemme Est, nel quartiere di Issawiya. L’attentato si è verificato non lontano dalla stazione della polizia Shalem. Il terrorista è stato ucciso e un secondo individuo, sospettato di essere suo complice, è stato arrestato. I due agenti sono stati soccorsi dal Magen David Adom, prima di essere portati al Hadassah University Medical Center di Gerusalemme. Una di loro, una donna ventenne, è gravemente ferita.
«Quando siamo arrivati sulla scena, abbiamo visto una giovane donna, sui vent’anni, priva di conoscenze ed un uomo, sempre ventenne, in piedi. Abbiamo prestato il primo soccorso sul posto prima di evacuarli al Mount Scopus Hospital. Le condizioni della giovane donna sono critiche» ha spiegato Nadav Taieb, un soccorritore del Magen David Adom.
(Shalom, 6 novembre 2023)
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Spade di ferro - giorno 30. La guerra nei tunnel
di Ugo Volli
• La nuova fase della guerra
Terminato l’accerchiamento della città di Gaza, colpiti i principali edifici che contenevano centri logistici, di comunicazione, di comando, le fabbriche e le abitazioni dei capi terroristi, resta ora all’esercito israeliano il compito più difficile: stanare i terroristi, eliminare la loro infrastruttura, catturare o uccidere le loro truppe e soprattutto i loro capi. La guerra di Israele per la distruzione di Hamas e degli altri gruppi terroristi di Gaza non potrà essere vinta se non si raggiungono questi obiettivi, con il consenso della “comunità internazionale” o senza di esso. Se Israele accettasse di fermarsi prima, questo significherebbe la sopravvivenza di Hamas e dei suoi complici, in prospettiva una riedificazione delle sue strutture militari e del suo dominio su Gaza, grazie all’aiuto di Iran, Qatar, Turchia, e quindi la certezza che prima o poi il massacro del 7 ottobre si potrebbe ripetere in una forma o nell’altra, come gli stessi capi di Hamas hanno minacciato. Tutti i sacrifici sarebbero stati allora vani o quasi.
• Il combattimento urbano
Per liquidare definitivamente il terrorismo a Gaza, Israele deve prendere il controllo delle città e mantenerlo per il tempo sufficiente a eliminare tutti i residui di resistenza. Questo significa affrontare le strade e le case da dove i terroristi nascosti (che sono ancora molto numerosi, almeno i tre quarti degli effettivi di Hamas) tentano di uccidere i soldati e distruggere i loro mezzi. Ma le case sono vulnerabili all’aviazione e all’artiglieria. Vi è ormai un coordinamento stretto delle forze israeliane per cui si può essere sicuri che gli edifici da dove i terroristi spareranno saranno presto distrutti. Ciò naturalmente comporta una grave devastazione dell’ambiente urbano, ma la responsabilità non è dell’esercito israeliano bensì dei terroristi che usano le strutture civili come fortificazione militari, il che è un crimine di guerra. In sostanza la sofferenza dei civili deriva dalla scelta dei terroristi di non combattere in campo aperto, di mescolarsi alla popolazione senza indossare uniformi, spesso usando ambulanze, ospedali, scuole e moschee per nascondersi.
• La “metropolitana di Gaza”
Se gli edifici usati come base del combattimento terrorista possono essere conquistati o distrutti con l’aiuto dell’aviazione e dell’artiglieria (ma certamente non senza perdite), molto più problematico è il caso delle gallerie, che sono la vera base d’azione e il rifugio dei terroristi e delle loro armi. Si tratta letteralmente di centinaia di chilometri di tunnel, costruiti nel corso degli anni a diversi livelli e con percorsi tortuosi, in tre grandi gruppi: al nord sotto agli insediamenti di Beit Hanoun e Jabalia; al centro sotto la città di Gaza, al sud sotto Kahan Jounis. I centri di snodo di questa “metropolitana di Gaza” sta sotto i principali ospedali: lì vi sono i magazzini di armi e viveri e carburanti, centri di comunicazione e comando, probabilmente anche i luoghi dove vivono i capi più importanti e le celle dove sono tenuti gli ostaggi.
• La difficoltà di eliminare i tunnel
Il primo problema per Israele è che di queste gallerie si ha una conoscenza molto approssimativa. La rilevazione radar è difficile, lenta e imprecisa. I radar a banda ultra larga (da 300 a 3000 Mhertz) penetrano solo fino a 30 metri e hanno una risoluzione molto bassa. Inoltre funzionano con macchine pesanti montate su carrelli, che è difficile usare in guerra. Allagare i tunnel, o riempirli di gas è tecnicamente complicato, perché certamente vi sono paratie e punti di sfogo; molti sono stati bombardati, cercando di farli crollare, ma riuscirci è difficile, perché molti sono profondi e costruiti tenendo conto di questa possibilità e bisogna anche tener conto del fatto che al loro interno vi sono gli ostaggi, che fungono da scudi umani. In questi ultimi giorni Israele ha iniziato a usare “bombe sismiche” o antibunker, che non esplodono in superficie ma sottoterra (fino a 30 metri di profondità) provocando una sorta di piccolo terremoto capace di far collassare grotte e gallerie: efficaci, ma con raggio limitato. Entrare a esplorarli significa correre forti rischi. I droni aerei e anche i robot terrestri (che esistono e sono capaci di superare ostacoli notevoli) sono difficili da usare, perché il segnale radio non passa facilmente gli angoli dei tunnel. In questo momento Israele sta usando cani appositamente addestrati che portano piccole telecamere e rilevatori; ma anche questi risentono della difficoltà di trasmissione delle onde elettromagnetiche. Anche i visori notturni, che sono molto utili all’esterno perché amplificano quel minimo di luce che esiste sempre, nelle gallerie non funzionano, perché il buio è facilmente totale. Vi sono dei visori termici, che rilevano i raggi infrarossi emessi con diversa intensità dai vari materiali; ma essi possono essere facilmente confusi con l’uso di diverse forme di calore.
• Il combattimento sotterraneo
In definitiva saranno dei soldati a dover affrontare i pericoli delle gallerie: bombe nascoste, frane artificiali, agguati da feritoie e botole, le fiamme o la mancanza di ossigeno: ogni forma di minaccia prima del combattimento fisico. Israele ha sviluppato un’arma speciale per l’uso nelle gallerie, delle “bombe-spugna” che emettono una specie di gel che si solidifica rapidamente bloccando molte aggressioni; ma si tratta di strumenti di uso difficoltoso, che possono colpire anche chi li maneggia. Resta comunque il grande vantaggio, dentro il tortuoso labirinto delle gallerie, di chi le ha progettate, le conosce e ne detiene le mappe. Ma i valorosi soldati israeliani delle squadre speciali che svolgeranno questo compito si sono addestrati a lungo per riuscirci e hanno certamente l’appoggio di tecnologie che non sono pubbliche come quelle di cui finora ha parlato questo articolo. A loro, soprattutto è affidata la difficile sfida col terrorismo che Israele è stato costretto ad affrontare dai crimini del 7 ottobre.
(Shalom, 6 novembre 2023)
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La "soluzione a due Stati" per l'assassinio degli ebrei
L'idea che Abbas o qualsiasi altro leader palestinese possa domare Hamas in "Cisgiordania" è falsa e pericolosa.
di Bassam Tawil
Dal massacro di Hamas del 7 ottobre, migliaia di palestinesi della cosiddetta "Cisgiordania" sono scesi in piazza quasi ogni giorno per mostrare il loro sostegno al gruppo terroristico sostenuto dall'Iran.
Si tratta della stessa Cisgiordania che l'amministrazione Biden e molti in Occidente sperano possa far parte di un futuro Stato palestinese accanto a Israele. Coloro che continuano a promuovere la pericolosa idea di una "soluzione a due Stati" ignorano il fatto che Hamas è presente non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania.
Stranamente, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden e alcuni politici occidentali continuano a parlare della necessità di creare uno Stato palestinese sovrano e indipendente anche dopo le atrocità di Hamas. In realtà stanno dicendo che: Dopo che Hamas ha usato la Striscia di Gaza per invadere Israele e massacrare gli ebrei, dovremmo lasciare che questo gruppo terroristico islamico abbia la Cisgiordania, in modo che possa usarla a sua volta per massacrare gli ebrei.
Le manifestazioni a favore di Hamas dimostrano che il gruppo terroristico è popolare tra i palestinesi, compresi quelli che vivono in Cisgiordania. Le manifestazioni ricordano anche che un gran numero di palestinesi sostiene il terrorismo contro Israele, compresi crimini efferati come lo stupro, la decapitazione, la tortura e il bruciare vivi donne e bambini.
Recenti sondaggi d'opinione condotti dal Palestinian Centre for Policy and Survey Research (PSR) hanno dimostrato che la maggior parte dei palestinesi sostiene Hamas e la "lotta armata" (omicidio) contro Israele. Ogni bambino palestinese sa che se si tenessero oggi le elezioni presidenziali, Hamas vincerebbe. L'ultimo sondaggio PSR, pubblicato un mese prima del massacro di Hamas, ha rilevato che il 58% dei palestinesi voterebbe per il leader di Hamas Ismail Haniyeh, rispetto al 37% per il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas. Il sondaggio ha anche rilevato che il 58% dell'opinione pubblica palestinese sostiene "gli scontri armati e l'intifada" contro Israele.
Le manifestazioni pro-Hamas si sono svolte principalmente nelle aree della Cisgiordania controllate dall'Autorità Palestinese sotto la guida di Abbas. Sebbene Abbas e altri alti dirigenti dell'Autorità Palestinese detestino Hamas, non fanno nulla per impedire ai palestinesi che vivono sotto il loro governo di scendere in strada per celebrare l'uccisione di 1.400 israeliani e il ferimento di oltre 5.000 altri durante il massacro del 7 ottobre.
Vale la pena ricordare che Hamas ha espulso l'Autorità Palestinese dalla Striscia di Gaza nel 2007 dopo aver ucciso centinaia di lealisti di Abbas, alcuni dei quali sono stati trascinati per le strade e linciati, mentre altri sono stati gettati dai tetti di alti edifici.
Non riuscendo a frenare le manifestazioni a favore di Hamas, l'Autorità Palestinese non solo è complice dell'incitamento all'omicidio degli ebrei, ma agisce anche contro i propri interessi, incoraggiando i rivali di Hamas. Uno dei motivi per cui l'Autorità Palestinese non interviene per fermare le manifestazioni pro-Hamas è che i suoi leader sono essi stessi coinvolti nella campagna di incitamento contro Israele.
In effetti, la retorica anti-Israele e antisemita di Abbas sembra talvolta superare quella dei suoi rivali di Hamas. Un mese prima del massacro di Hamas, Abbas ha ripetuto una serie di slogan antisemiti che ha pronunciato nel corso degli anni, tra cui l'affermazione che il dittatore nazista Adolf Hitler avrebbe fatto massacrare gli ebrei per il loro "ruolo sociale" di usurai.
In un discorso trasmesso dalla televisione palestinese il 3 settembre, Abbas ha detto ai leader del suo partito di governo Fatah durante una riunione a Ramallah:
"Voi dite che Hitler ha ucciso gli ebrei perché erano ebrei e che l'Europa odiava gli ebrei perché erano ebrei. Questo non è vero. È stato detto chiaramente che [gli europei] hanno combattuto gli ebrei per il loro ruolo sociale e non per la loro religione... Gli [europei] hanno combattuto queste persone per il loro ruolo nella società, che aveva a che fare con l'usura, il denaro e così via".
Vale anche la pena notare che è stato Abbas a dare il via alla campagna di incitamento contro Israele per quanto riguarda le visite di individui e gruppi ebraici al Monte del Tempio di Gerusalemme, il cui Muro Occidentale è tutto ciò che rimane dei templi ebraici (distrutti nel 586 a.C. e nel 70 d.C.) e che è il luogo più sacro dell'ebraismo.
In un famigerato discorso del 2015, Abbas ha falsamente accusato gli ebrei che visitano il loro santo Monte del Tempio di profanare la Moschea di Al-Aqsa sul Monte del Tempio:
"Accogliamo con favore ogni goccia di sangue versata per amore di Gerusalemme. Questo sangue è sangue pulito, puro, versato per amore di Allah... Ogni martire entrerà in paradiso e tutti i feriti saranno ricompensati da Allah... La Moschea Al-Aqsa e la Chiesa del Santo Sepolcro sono nostre. Sono tutte nostre e loro [gli ebrei] non hanno il diritto di profanarle con i loro piedi sporchi".
Il discorso di sangue di Abbas è stato interpretato da molti palestinesi come una licenza all'omicidio. In effetti, poco dopo l'accusa di Abbas nel 2015, i palestinesi hanno iniziato una serie di attacchi terroristici in cui decine di ebrei sono stati uccisi con accoltellamenti e attentati.
Abbas e l'Autorità Palestinese hanno dimostrato più volte di odiare Israele quanto, se non più, di Hamas.
La leadership dell'Autorità Palestinese conduce una campagna incessante per diffamare Israele e demonizzare gli ebrei, soprattutto sulla scena internazionale. La leadership palestinese ha ripetutamente accusato Israele di "genocidio", "crimini di guerra", "pulizia etnica" e "apartheid". Ha anche ripetutamente minacciato di portare le accuse di "crimini di guerra" contro gli israeliani davanti alla Corte penale internazionale.
Per decenni, Abbas ha usato ogni piattaforma disponibile, compresa l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per diffondere messaggi di odio e bugie contro Israele. Il suo obiettivo finale è quello di minare e delegittimare Israele fino a isolarlo completamente sulla scena internazionale. Il suo incitamento quotidiano contro Israele non solo ha rafforzato Hamas, ma ha anche alimentato l'antisemitismo nel mondo.
Dopo il pogrom di Hamas del mese scorso, Abbas si è astenuto dal condannare il gruppo terroristico. Ha invece scelto di incolpare Israele per la guerra che ne è seguita. In sostanza, Abbas sta dicendo che Israele non ha il diritto di difendersi di fronte alle atrocità di Hamas. Sta anche suggerendo che non vede alcun problema nel fatto che Hamas invii migliaia di terroristi a invadere Israele e a uccidere brutalmente civili israeliani innocenti.
L'idea che Abbas o qualsiasi altro leader palestinese voglia mettere sotto controllo Hamas in Cisgiordania è falsa e pericolosa. Abbas non ha alcun problema con Hamas che opera in Cisgiordania, purché il gruppo terroristico attacchi Israele e non lui o la leadership dell'AP. Per questo ha permesso ai sostenitori di Hamas di marciare per le strade di Ramallah, Nablus, Jenin e altre città della Cisgiordania, scandendo slogan a sostegno di Hamas.
Il 29 ottobre, decine di scolaresche hanno marciato a Jenin, scandendo "Siamo la figlia di [Muhammad] Deif, l'arci-terrorista di Hamas", "Vogliamo la jihad [guerra santa], vogliamo morire in nome di Allah" e "Vogliamo far saltare la testa dei sionisti". In altre manifestazioni di sostenitori di Hamas, alcune delle quali si sono svolte non lontano dall'ufficio di Abbas, i palestinesi hanno scandito: "Chiunque abbia una pistola dovrebbe sparare a un ebreo o darla a Hamas".
L'idea di creare uno Stato palestinese in Cisgiordania significa trasformare quest'area in un'altra rampa di lancio per attacchi contro Israele e per il massacro di uomini, donne e bambini ebrei. Il Presidente Biden e il Segretario di Stato americano Antony Blinken possono sostenere quanto vogliono che Hamas non rappresenta i palestinesi, ma chiunque viva in Cisgiordania e a Gaza sa che questa è una bugia mortale. Ogni palestinese conosce e ammira le manifestazioni pro-Hamas che si sono svolte in Cisgiordania dal 7 ottobre.
Ogni palestinese vede e spesso ammira i gruppi armati affiliati a Hamas che sono emersi in Cisgiordania negli ultimi due anni. Ogni palestinese ha anche visto come Hamas ha vinto le elezioni dei consigli studenteschi nelle principali università della Cisgiordania, tra cui l'Università Birzeit e l'Università An-Najah. Ogni palestinese vede anche che l'Autorità Palestinese non è pronta a combattere Hamas e gli altri gruppi terroristici in Cisgiordania.
Ciò che sembra sfuggire a molti in Occidente è che è la sicurezza e la presenza civile di Israele in Cisgiordania a impedire ad Hamas o a gruppi come Al-Qaeda o lo Stato Islamico di prendere il controllo dell'area. Non sembrano nemmeno rendersi conto che Abbas è al potere in Cisgiordania solo grazie alla presenza israeliana. Senza questa presenza, Hamas avrebbe preso il controllo della Cisgiordania molto tempo fa. La creazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania significherebbe trasformarla in un'altra base a guida iraniana per la jihad contro gli ebrei.
È ora che Biden e altri politici occidentali smettano di propagandare idee deliranti che porteranno rapidamente a una ripetizione del massacro del 7 ottobre. Ci si chiede quanti bambini ebrei dovranno essere decapitati o bruciati vivi perché si rendano conto che i leader palestinesi hanno radicalizzato il loro popolo contro Israele fino al punto di vantarsi di massacrare gli ebrei con le loro stesse mani.
(Israel Heute, 3 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Medio Oriente, nessuno crede più alla fiaba dei due popoli in due Stati
di Eugenio Capuozzi
"Due popoli in due Stati" è il mantra diplomatico per la soluzione del conflitto in Medio Oriente. Dare uno Stato agli ebrei e uno agli arabi fu proposto per la prima volta nel 1947. Gli arabi rifiutarono. E da quel rifiuto, che tuttora persiste, derivò tutto il resto. Ora anche papa Francesco, nell'intervista rilasciata il 1° novembre al direttore del TG1, ha indicato l'obiettivo dei “due popoli, due Stati” come l'unica possibile soluzione al conflitto arabo-israeliano. Ma il pontefice è soltanto l'ultimo di una lunga, anzi interminabile serie. Ogni volta che la violenza in Medio Oriente torna ad esplodere, la gran parte dei leader politici mondiali, compresi quelli occidentali, torna a invocare la nascita di uno Stato nazionale palestinese che conviva con quello ebraico. Ma quella formula viene utilizzata prevalentemente senza specificare le modalità attraverso le quali l'obiettivo potrebbe essere concretamente raggiunto, né i motivi a causa dei quali non è stato raggiunto fino ad ora. Essa viene ripetuta come un mantra, quasi fosse un talismano, perché utile a cavare momentaneamente d'impaccio chi la pronuncia rispetto agli enormi problemi di politica internazionale, di sicurezza, di convivenza civile che si pongono a qualsiasi governo o paese sia costretto a mettere le mani dentro questo inestricabile e avvelenato ginepraio. In ogni caso, sempre più nel tempo essa è andata perdendo riferimenti di contenuto, ed è diventata sostanzialmente un puro artificio retorico. Nessuno degli attori politici che ad essa ricorrono, e nessuna delle parti direttamente o indirettamente in causa nel conflitto alle quali essa è rivolta, crede nella sua effettiva realizzabilità. In realtà si può dire che la soluzione dei due popoli e due Stati rappresentò storicamente non la soluzione, ma la premessa del conflitto arabo-israeliano. Infatti quando l'Assemblea generale dell'Onu nel 1947 votò a larga maggioranza la Risoluzione 181 per la suddivisione della regione denominata Palestina, sottoposta dopo la fine dell'Impero Ottomano al mandato britannico, tra uno Stato arabo e uno ebraico - cercando di porre fine a una lunga disputa resa ancor più drammatica dallo sterminio nazista degli ebrei europei e dall'appoggio del Gran Muftì di Gerusalemme al-Husseini a Hitler - quella risoluzione venne respinta dai paesi arabi sotto la spinta del montante nazionalismo panarabo. E quando nel maggio 1948 fu proclamata la nascita di Israele, quest'ultimo venne attaccato militarmente da quei paesi, che intendevano cancellarlo e cacciare via gli ebrei immigrati. La storia della cosiddetta “questione palestinese” è innanzitutto, per molti decenni, la storia del rifiuto ostinato da parte araba di riconoscere l'esistenza legittima di Israele. Fu quel rifiuto a ispirare, per calcolo politico, la scelta di Giordania ed Egitto di non assimilare gli arabi cacciati o fuggiti da Israele dopo la prima guerra, ma di mantenerli nella condizione di profughi. Ed è su quel rifiuto che fu fondata l'Organizzazione per la liberazione della Palestina, e fu “inventato” ex post un “popolo palestinese” (arabo) che precedentemente non aveva mai avuto un'identità nazionale specifica. Soltanto dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, con la bruciante vittoria preventiva degli israeliani e l'occupazione di Cisgiordania, Gaza e Sinai, e poi dopo la guerra del Kippur del 1973 si cominciò a parlare in sede internazionale – con il consenso di alcuni settori della classe politica israeliana e araba – di un possibile scambio “pace contro territori”, e quindi di un possibile spiraglio per uno Stato arabo palestinese proprio in Cisgiordania e Gaza, che convivesse con quello ebraico. Dopo estenuanti vicende e trattative, quello spiraglio fu alla base degli Accordi di Oslo del 1993 tra Rabin e Arafat, e poi della proposta degli israeliani a Camp David nel 2000 di uno Stato palestinese sull'85% dei territori stessi. Ma quella proposta – questo è il punto fondamentale – fu rifiutata proprio da Arafat, mentre l'Olp era ormai incalzata da posizioni ben più radicali ispirate non più al nazionalismo arabo ma al fondamentalismo/integralismo islamico, come quelle della Jihad islamica e di Hamas, aizzate da poteri destabilizzanti come il regime integralista degli ayatollah iraniani. Il successivo, estremo tentativo di incanalare di nuovo una possibile trattativa sul binario dei “due popoli, due Stati” fu intrapreso dal 2002 per iniziativa di George W. Bush (desideroso di spegnere il conflitto nell'area nel momento della ben più ampia contrapposizione con l'integralismo islamico seguita agli attacchi dell'11 settembre) con la Road Map for Peace, sostenuta dal “quartetto” formato da Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Onu. E fu nello spirito di questo tentativo di conciliazione, oltre che di una crescente convergenza con Egitto e Giordania, che nel 2005 il primo ministro Sharon decise unilateralmente di ritirare le truppe israeliane da Gaza. Purtroppo, come è noto, quel ritiro non fu la premessa dell'evoluzione dell'Autorità palestinese verso una democrazia animata da volontà di convivenza con lo Stato ebraico, ma al contrario l'inizio della presa di potere di Hamas (il cui statuto prevede l'obiettivo primario e non negoziabile della distruzione di Israele) con un consenso elettorale largamente maggioritario, e del regolamento di conti armato tra gli estremisti fondamentalisti e Fatah. Oggi è proprio la prevalenza di Hamas e delle forze islamiste che puntano alla destabilizzazione di tutta l'area – enormemente incrementate nell'ultimo ventennio – ad aver reso del tutto impraticabile la soluzione dei “due popoli due Stati”. È logicamente impossibile la convivenza tra due Stati nazionali vicini quando la corrente decisamente prevalente nella politica e nell'opinione pubblica di quello che dovrebbe essere uno dei due, sostenuta da una rilevante parte dell'opinione pubblica nei paesi islamici, ritiene che il vicino non debba esistere, e appena ne ha la possibilità pratica cerca di distruggerlo. I tragici eventi del 7 ottobre scorso non sono un incidente ma la conseguenza inevitabile di questa situazione. Finché Hamas e altri gruppi dalla simile impostazione esisteranno, finché esisteranno i regimi islamisti come l'Iran che se ne servono, finché Giordania ed Egitto (ed Arabia Saudita) non si assumeranno la responsabilità politica effettiva dei territori, garantendo la convivenza con Israele, parlare di “due popoli due Stati” è soltanto un inconcludente flatus vocis. Ammesso pure che la diplomazia internazionale riuscisse, miracolosamente, a farlo nascere, l'eventuale Stato arabo palestinese sarebbe solo una versione più ampia di ciò che oggi è Gaza, o il Sud Libano controllato da Hezbollah: una enorme base terroristica sempre pronta a infiammare tutto il Medio Oriente e a destabilizzare il mondo.
(La Nuova Bussola Quotidiana, 4 novembre 2023)
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Il tormento di una madre nel silenzio del kibbutz
Siamo rimasti pochi a Sasa. Non ci dà pace il pensiero dei nostri figli andati a stanare le belve che hanno raso il suolo i villaggi della cooperazione, bruciato neonati, violentato donne, rapito anziani. Belve che si fanno scudo con bambini inermi.
di Angelica Calò Livnè*
2 novembre 2023. La sala da pranzo di Sasa, 600 posti a sedere, è silenziosa. Siamo solo in 40: i bambini prima di tutti, poi il resto del kibbuz è stato evacuato. Ognuno prende il suo vassoio, lo riempie senza curarsi di cosa sia entrato nel piatto e quando lo sguardo incontra un altro sguardo dice sommessamente “Shalom” e ritorna nel proprio silenzio. Le immagini del massacro non ci danno pace, il pensiero dei nostri figli che combattono strenuamente all’inseguimento delle belve ci attanaglia il cuore e i cerchi grigi sotto agli occhi denunciano le notti insonni di padri, madri, figli e mogli che hanno trascorso un’altra notte tormentata. È trascorso quasi un mese, quanti anni dovranno passare prima che i bambini ai quali hanno trucidato i genitori davanti agli occhi potranno riprendersi? Prima che quegli uomini ai quali hanno violentato la donna amata davanti agli occhi potranno riprendersi, prima che tutti noi in prima linea e il resto del mondo potremo risvegliarci da questa angoscia?
• Genitori in guerra e kibbutz della pace rasi al suolo Un esercito di psicologi, assistenti sociali accompagnano la popolazione israeliana. Un bambino che parla, a due anni, già capisce cosa sta succedendo intorno a lui. La televisione, i social continuano a mostrare attività, giochi, video di cartoni animati che rassicurano, rasserenano, divertono i bambini che non capiscono perché il papà o la mamma non sono in casa da più di tre settimane. Perché si sono vestiti da soldati? A noi non piacciono le guerre, perché hanno ritirato fuori il fucile che era da tempo nascosto nell’armadio? Perché ci sono i cattivi al mondo? Perché non c’è nessuna fata che ci riporta la nonna, lo zio o la fidanzata del fratello? L’università riaprirà il 5 novembre, no, il 15, no, forse il 3 dicembre, forse solo via zoom o forse quest’anno non aprirà perché docenti e studenti sono al fronte, o sono tra i rapiti, o forse non ci sono più.
E i corsi che erano pronti, strutturati, ricchi come al solito sono diventati irrilevanti: ora si deve parlare di resilienza, del “senso della vita”, di speranza. Di ricostruzione. Nel frattempo cogliamo le mele al frutteto. Insieme ai nostri vicini, amici dei villaggi arabi circostanti, abbiamo già salvato un terzo del raccolto. Raccogliamo indumenti per le famiglie che alle 6.30 del mattino sono riuscite a scappare, ancora in pigiama e che della propria casa non è rimasto che un cumulo di macerie. E sto parlando di Israele, sto parlando dei kibbuzim e dei villaggi, più di 40, rasi al suolo. Villaggi dove abitavano attivisti per la pace, quelli che da sempre combattono e manifestano per la cooperazione con i palestinesi, quelli che davano loro lavoro, quelli che ogni giorno andavano volontari a trasportarli con la loro auto a fare la chemio o la dialisi negli ospedali israeliani.
• Hamas, bestie immonde Sto parlando dell’Israele più progressista. Più splendente di luce, l’Israele della multi cultura, del rispetto per ogni fede e per ogni essere umano. Quegli esseri immondi che hanno varcato il confine cercando di distruggere ogni speranza di vita insieme a noi, sono stati capaci di entrare all’alba in una casa, in cento case, di mettere il neonato di tre mesi nel forno dove si fanno le torte, violentare la madre davanti al figlio, spaccargli la testa e portare via il padre in ostaggio. E ora il mondo deplora Israele perché li sta stanando nelle loro tane? Coperti e protetti da un muro di bambini palestinesi inermi?
Non è Angelica quella che scrive… è una donna, una madre disperata che continua a credere con tutta se stessa che c’è ancora speranza, ma che il male si deve estirpare, e che D. protegga i rapiti, i combattenti con la stella di David, eroi che vogliono solo continuare a curare questo giardino meraviglioso che abbiamo coltivato, piantato e risvegliato alla vita. -------
* Angelica Calò Livnè, autrice di questa lettera, è educatrice, regista e scrittrice ebrea italo-israeliana. Vive nel kibbutz Sasa, in Alta Galilea, dove ha creato la Fondazione Beresheet LaShalom – Un inizio per la pace. In collaborazione con Tempi ha scritto il libro Un sì, un inizio, una speranza (2002).
(Tempi, 4 novembre 2023)
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La storia di Benedetto. Metzadà shenìt lo tippòl
Intervento al convegno “Davide doveva farsi uccidere da Golia” tenuto il 30 ottobre a Latina.
di Daniel Sermoneta
Vorrei raccontarvi la storia di un uomo e della sua famiglia. Una mattina, una mattina come tante di quel periodo orribile – era il 23 marzo del 1943 – un uomo di 39 anni usciva di casa per andare a lavoro; doveva sfamare la sua famiglia, composta da moglie e 5 figli.
Una spiata, poche migliaia di lire – tanto valeva la vita di un italiano ebreo – e tutto cambia; quell’uomo (un civile in abiti da lavoro, non un soldato in divisa) viene arrestato dagli uomini dell’Aussenkommando, agli ordini di Herbert Kappler. Il giorno seguente sarà trucidato alle Fosse Ardeatine insieme ad altri 334 martiri: 10 per ogni tedesco ucciso, questa era la “rappresaglia” per l’attentato di via Rasella.
Quell’uomo, ripeto, aveva cinque figli: i più piccoli erano due gemelli, avevano appena due anni e non ricorderanno mai il proprio padre; uno di quei due gemelli è mio padre, quell’uomo trucidato alle Fosse Ardeatine era mio nonno: il suo nome era ed è Benedetto Sermoneta.
Questo succedeva qui, in Italia, a casa nostra, 80 anni fa. Quando si parla di nazifascismo, spesso, lo si fa come se si parlasse delle Guerre Puniche, di Leonida e dei suoi 300 alle Termopili: invece succedeva l’altro ieri, in casa nostra, a mio nonno.
C’erano i tedeschi, i nazisti, e c’erano gli italiani, i fascisti. Purtroppo molti dei nostri connazionali sono stati protagonisti attivi di quelle atrocità: è un fatto storico con cui bisogna far pace. Ci sono stati Italiani Giusti (e oggi sono tra i giusti di Israele), ci sono stati italiani squadristi e ci sono stati italiani – i più – che hanno voltato il capo dall’altra parte.
Noi ebrei siamo abituati a difenderci, lo siamo da 5784 anni: è vero, siamo sempre all’erta e attenti ad ogni parola, ad ogni sfumatura di significato: sapete perché? Perché siamo da sempre costretti a difenderci.
E’ paradossale che oggi, nel 2023, debba esistere un osservatorio sull’antisemitismo ed è terribile che i fatti di Israele del 7 ottobre scorso abbiano consentito a tanti, troppi, di dissimulare il proprio antisemitismo, spesso presentato subdolamente come antisionismo.
Godiamo della simpatia altrui (nel senso etimologico del sun-pathos, ovvero della cum-passione) quando siamo perseguitati, trucidati, ghettizzati o nel migliore dei casi ostracizzati e derisi. Ma quando ci difendiamo – perché abbiamo imparato bene a farlo – diventiamo indigesti, la stella gialla e il naso aquilino si riaffacciano alla mente dei più: gli ebrei tornano ad essere i giudei, quelli da contenere e da cui tenersi alla larga; quelli da mettere all’indice, quelli pericolosi, diversi…
Ma noi ebrei, come detto, siamo abituati a difenderci¸ siamo un popolo pieno di orgoglio. Molti di voi conosceranno la storia di Masada. Una roccaforte che sorgeva in mezzo al deserto di Israele e che, intorno al 70 d.C., fu assediata dai Romani. Gli ingegneri furono costretti a costruire una vera e propria rampa, una sorta di sopraelevata, con la quale riuscirono ad entrare nella fortezza dopo un lungo assedio; tuttavia non trovarono nessuno, perché gli abitanti si erano uccisi l’un l’altro (e gli ultimi suicidati) pur di non essere tradotti come schiavi.
E sapete dove vanno a giurare le giovani reclute dell’esercito israeliano? Proprio a Masada, al grido Metzadà shenìt lo tippòl (“Mai più Masada cadrà!”).
Le persone che durante la giornata della Memoria mi inviavano messaggi di affetto e vicinanza sono le stesse che oggi, sulle piattaforme social, espongono la bandiera palestinese: questo è un vero e proprio cortocircuito logico, secondo me.
Il 7 ottobre c’è stato un attacco terroristico nei confronti di civili inermi in quanto ebrei: gli “esseri viventi” che hanno compiuto quegli atti (non riesco a chiamarli “persone”) non gridavano contro Israele, contro i coloni, contro i soldati: gridavano “morte agli ebrei”. Non c’entra la Palestina, non c’entrano i confini, non c’entrano i territori e non c’entra la bandiera della Palestina: c’entra solo l’odio religioso.
Però si condanna Israele, come se il diritto, o meglio il dovere di uno Stato non sia quello di difendere i propri cittadini dagli attacchi esterni, in primis quelli terroristici; questa mattina ho letto una riflessione che mi ha colpito: quando gli Alleati bombardarono Dresda, nel 1945, c’erano 600.000 abitanti. Ne morirono 40.000, certamente non tutti erano nazisti: qualcuno ha mai sostenuto che i bombardamenti alleati fossero crimini di guerra?
E perché, oggi, nei confronti di Israele, dovremmo usare un altro metro di giudizio? Forse proprio perché è
Israele.
(Fatto a Latina, 5 novembre 2023)
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È iniziata la grande apostasia?
Ci sono sempre stati appassionati predicatori che hanno messo in guardia sull'approssimarsi degli eventi descritti nell'Apocalisse e hanno denunciato la corruzione della società. Cosa c'è di diverso oggi?
di Stephan Beitze
La Bibbia parla spesso di "apostasia" che significa ribellione o allontanamento da qualcosa in cui si crede. Nell'Antico Testamento concetti come "apostasia", "deviare", "allontanare" e altri termini simili appaiono spesso (Geremia 2:19; 5:6; 8:5; 14:7; Osea 11:7). Quando si arrivò all'apostasia in Israele, fu un allontanamento dalla Parola di Dio, dalla sua volontà e dalla sua presenza. Questo è sempre avvenuto in concomitanza con l'idolatria, l'immoralità, l'ingiustizia sociale e l'egoismo che hanno condotto l'uomo inevitabilmente a subire il giudizio di Dio. Tra le altre cose, Daniele usa questa parola per il tempo dell'Anticristo:
"Egli corromperà con lusinghe quelli che tradiscono il patto; ma il popolo di quelli che conoscono il loro Dio mostrerà fermezza e agirà." (Daniele 11:32).
Nel Nuovo Testamento troviamo diverse citazioni sull'argomento apostasia. Il primo a parlare di apostasia fu il Signore Gesù stesso, il quale profetizzò che in un momento di tribolazione sarebbe stato visto in modo speciale:
''Allora molti si svieranno, si tradiranno e si odieranno a vicenda. Molti falsi profeti sorgeranno e sedurranno molti." (Matteo 24:10-11 ).
La stessa parola viene usata nella parabola del seminatore riguardo al seme che cade nei quattro posti diversi. Del seme, che cade sotto le rocce, si dice," ... però non ha radice in sé ed è di corta durata; e quando giunge la tribolazione o persecuzione a motivo della parola, è subito sviato." (Matteo 13:21 ).
Anche se la parola di Dio ha agito in loro, appena nascono dei problemi o delle difficoltà si allontanano da essa.
Il Signore Gesù chiamò la seduzione uno dei più importanti segni del tempo della fine prima della Sua venuta. È l'unico sostantivo che viene ripetuto tre volte in Matteo 24 (24:4,5,11,23-26). E sebbene il culmine della seduzione arriverà nell'ultima grande tribolazione, già oggi vediamo l'avanguardia di ciò che sarà.
In 2 Tessalonicesi 2:3 l'apostolo Paolo scrisse a coloro che pensavano che la venuta del Signore ci fosse già stata:
"Nessuno vi inganni in alcun modo; poiché quel giorno non verrà se prima non sia venuta l'apostasia e non sia stato manifestato l'uomo del peccato, il figlio della perdizione".
In un altro passo, Paolo dice:
''Ma lo Spirito dice esplicitamente che nei tempi futuri alcuni apostateranno dalla fede, dando retta a spiriti seduttori e a dottrine di demòni".
(I Timoteo 4:1)
Oppure:
"Badate, fratelli, che non ci sia in nessuno di voi un cuore malvagio e incredulo, che vi allontani dal Dio vivente;" (Ebrei 3:12).
E in 2 Timoteo 4:4, nel contesto degli avvertimenti sulla fine dei tempi, Paolo dice: "e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole. "
Queste scritture mostrano che più ci avviciniamo alla fine dei tempi e all'apparizione dell'Anticristo, più la spazzatura aumenterà. Ma perché ci sia apostasia, deve esserci prima qualcosa da cui le persone possano "cadere" qualcosa che li influenzi. Se cerchiamo qualcosa nel nostro mondo occidentale che ha influenzato i grandi settori della società per lungo tempo, non possiamo evitare di nominare la parola cristianesimo.
Il cristianesimo nel suo complesso non include più "solo" i veri credenti in Gesù Cristo, ma tutti coloro che si definiscono culturalmente cristiani, anche se non hanno fatto un'esperienza reale di conversione. L'intero Occidente e molte altre parti del mondo sono state influenzate dal cristianesimo e dalla Bibbia. Lo vediamo nella storia, nella letteratura, nelle leggi, nelle abitudini, nell'educazione, nei valori, nelle tradizioni, nell'arte e in molte altre cose ... persino negli eventi storici adoperiamo la dicitura prima di Cristo e dopo Cristo.
È disarmante appurare quanto sia andato perduto negli ultimi decenni. I valori cristiani sono diventati uno "scandalo", un motivo di scherno, disprezzo e persino persecuzione. Purtroppo, anche i veri credenti possono essere influenzati da queste tendenze. Soprattutto nel contesto di 2 Timoteo, Paolo mette in guardia contro un tempo molto pericoloso. Se vogliamo sapere se la venuta del Signore sia vicina, ciò che dobbiamo fare è leggere le ultime parole dell'apostolo Paolo. Nella seconda epistola a Timoteo, che potrebbe anche essere stata scritta per sua volontà, l'apostolo mostra le caratteristiche degli uomini nei tempi della fine. Introduce l'argomento con un serio avvertimento:
Le caratteristiche che l'apostolo menziona non sono molto diverse da quelle di Romani 1, dove vengono generalmente descritte le persone che non vogliono sapere nulla di Dio. Perché, quindi, quest'altro serio avvertimento?
Perché il pericolo degli "ultimi giorni" non proviene da persone che sono lontane da Dio, ma queste caratteristiche sono visibili in molti che si considerano cristiani.
In generale, tutto l'Occidente (Europa, Americhe, Australia e parte dell'Asia e dell'Africa) fin dalla sua cristianizzazione è stato caratterizzato, fino alla metà del 20° secolo, da un certo timore di Dio. La legislazione, i valori morali e la comprensione di come dovrebbe essere una vita sana sono stati plasmati dagli standard nella Parola di Dio. Ovviamente ciò non significa che tutte le persone abbiano creduto, ma il peccato non era considerato una virtù. Questo atteggiamento è cambiato drasticamente dagli anni '60. La rivoluzione sessuale e quella femminista, fatte di fornicazione e infedeltà, sono diventati valori per cui vale la pena lottare, espressione di autenticità e di vero amore.
Sempre più "cristiani" si sono affannati nella ricerca e l'interesse per le religioni orientali e demoniache e anche la teoria dell'evoluzione ha soppiantato nell'insegnamento il creazionismo riducendolo a una favola per bambini o a uomini che credono alle favole.
Il declino del pensiero etico ha sviluppato conseguenze di vasta portata nel comportamento morale di molti. L'uso di droghe è fuori controllo. Il Satanismo è diventato qualcosa che si fa per gioco o noia: "In fondo, non crediamo veramente nell'esistenza del diavolo". Tutto ciò ha pervertito il cristianesimo come mai prima d'ora. Gli effetti di questa apostasia su larga scala possono essere notati in 2 Timoteo 3. Quando Paolo parla degli "ultimi giorni", intende già il tempo di Timoteo (versetto 5). Ma è evidente che la caduta ha raggiunto oggi un livello senza precedenti.
Paolo inizia con "egoista". Le persone della fine dei tempi sono egocentriche, egoiste e vanitose. Questa è l'essenza del peccato. Il centro di queste persone che amano smisuratamente se stessi è il regno dell'"ego" e quando l'ego governa, non c'è spazio per gli altri. Tutto è concentrato su di sé, sulla scoperta di sé, sulla "mia identità". «Io voglio dire», «Io penso», «Io voglio» e Io sono più importante della volontà di Dio, non c'è tempo per Dio.
Al massimo gli diamo ciò che avanza dopo che l'Io si è realizzato. Una prova profana di questo sviluppo è l'auto-rappresentazione su Internet. Siamo diventati una società di selfie in cui il grande ego appare sempre per primo nella foto.
Questo amor proprio si esprime anche in un amore sovradimensionato per il proprio corpo. Chiunque non si senta a suo agio con il proprio corpo, oggi, nella migliore delle ipotesi, lo ritrae modificato, si sottopone a interventi di chirurgia estetica o, nella peggiore delle ipotesi, cambia il proprio sesso.
Questo culto di sé, in cui l'uomo si trova da solo al centro e dà vita alla massima autorità del cielo e della terra, si è da tempo infiltrato nelle comunità. Il vangelo della prosperità dei nostri tempi dice: "Dio vuole che tu ti senta bene. Fai solo ciò che ti fa sentire bene. Deve essere giusto per te. Sentiti libero di fare qualsiasi cosa che porti appagamento, gioia o piacere". Se sia secondo con la Parola di Dio non è più fondamentale. Principi biblici come la consacrazione (Romani 12:1) o l’autocontrollo (Galati 5:22) non sono più moderni e si ascoltano sempre più raramente dai pulpiti.
L’altro aspetto malvagio nella lista che considereremo è "avido" o "amante del denaro".
Questo aspetto è strettamente correlato al precedente. Se ti ami, ti servono più soldi per poter soddisfare te stesso sempre di più. L'auto-amante raccoglie denaro e beni e non c'è nulla, o comunque poco, che resta per gli altri. Non si rende conto di quanto il suo egoistico amore per il denaro influenzi tutte le sfere della sua vita: personale, familiare e sociale.
Il nostro Signore Gesù ci ha messo in guardia contro questo in Luca 12:34, "Perché dov'è il vostro tesoro, lì sarà anche il tuo cuore. " Ha anche detto che l'amore per il denaro è un idolo di questo mondo:
''Nessuno può servire due padroni; perché o odierà l'uno e amerà l'altro, o avrà riguardo per l'uno e disprezzo per l'altro. Voi non potete servire Dio e Mammona." (Matteo 6:24).
Sfortunatamente, molti cristiani cadono vittime di questa trappola. Vivono solo per le cose materiali e danno al Signore solo ciò che avanza. Vola in tutto il mondo per le vacanze, ma non ha tempo per la missione in tutto il mondo. Spende molto per se stesso, ma il lavoro per il Signore si blocca perché mancano i mezzi.
Successivamente, Paolo nomina i "vanagloriosi". Se stai cercando te stesso e hai un sacco di soldi, devi affermarlo. Coloro che amano soldi si vantano della loro auto nuova, dell'ultimo modello di cellulare, dei vestiti firmati, delle ultime vacanze che hanno passato, di quello che hanno o non hanno fatto. E chi non riesce a stare al passo con gli altri allo stesso modo, si riempie di debiti, per poter, anche lui, rappresentare qualcosa.
Sfortunatamente, questo tipo di atteggiamento non è assente nelle nostre comunità. Alcuni riescono persino a vantarsi di cose simili nel servizio che danno per il Signore.
Segue l'essere "superbo" nei confronti degli altri. I sostenitori egoisti e amanti del denaro dei tempi finali sono arroganti. Sgomitano l'uno contro l'altro. Uno dei valori più importanti del cristianesimo è l'umiltà, ma anche questo modo di essere ha perso il suo valore, l'umiltà è considerata una debolezza. Anche i cristiani possono essere accecati dai titoli, dal rispetto dovuto, dal riconoscimento delle persone e dalla condiscendenza. Non c'è più molto spazio per l'umiltà.
Paolo continua con i "bestemmiatori".
Si tratta di degradare Dio e gli altri. Tutti possono dire cose di ogni genere su Gesù, Dio, la Bibbia e i cristiani. Credo che il cristianesimo sia la religione che più di ogni altra insulti la propria fede. Per le altre religioni, Cristo è ancora un grande maestro o profeta, ma purtroppo è bestemmiato dagli stessi cristiani. I servizi ecclesiastici diventano uno spettacolo e gli editori si rifiutano di parlare della giustizia di Dio, del peccato, della croce, del sangue di Gesù o della confessione dei peccati.
Gli attacchi più pericolosi sulla Bibbia non provengono dall'esterno ma dall'interno, dai teologi liberali che mettono in discussione il soprannaturale e addirittura negano la risurrezione di Gesù. Sebbene si definiscano cristiani, negano i principi basilari del cristianesimo.
La caratteristica successiva menzionata da Paolo è, "disobbedienti ai genitori", non sarebbe neanche necessario menzionarla. L'educazione anti-autoritaria è "in". Ma se i bambini non imparano ad obbedire ai genitori - che è un comandamento - non lo faranno né a Dio, né ad altre autorità.
Paolo continua con "ingrati". Questo va a braccetto con il precedente. Se non rispetti i tuoi genitori, non sarai neanche grato. Questo principio si applica a tutti i casi in cui qualcuno ci fa del bene - soprattutto Dio stesso - e non lo apprezziamo. Non vi capita, nelle comunità che frequentiamo, di trovare più critiche che parole di ringraziamento. Dopo l'ingratitudine, Paolo menziona "irreligiosi" - eroe essere "lontani da Dio". Colui che è ingrato non ha bisogno di Dio. Un adolescente a cui fu offerto un Nuovo Testamento dai Gedeoni disse: "Non ne ho bisogno. Ho tutto".
Ma l'ateismo è più di una vita lontana da Dio; è una vita che agisce concretamente contro di lui. Le leggi che un tempo difendevano i valori cristiani sono gettate in mare e invece i matrimoni omosessuali, l'aborto, l'eutanasia sono legalizzati e proclamati come libertà dell'uomo.
Nel versetto 3, l'apostolo aggiunge "insensibili". Ciò significa trascurare o persino attaccare coloro che sono più vicini a te. Quanti dimenticano i loro genitori nelle case di riposo! In tutto il mondo vengono eseguiti annualmente 56 milioni di aborti. La prostituzione infantile e la pedofilia sono in aumento. Ciò che l'uomo dovrebbe proteggere naturalmente.vìene trascurato, tormentato o persino ucciso.
"Sleali" è la prossima triste caratteristica. Gli inconciliabili litigano su tutto ciò che è possibile e non si uniscono più. Lo vediamo nei matrimoni, ma anche a livello sociale in manifestazioni grandi e violente e nel crescente irrigidimento delle ideologie di destra o di sinistra dello scenario politico. I programmi di notizie e intrattenimento sono pieni di ostilità e problemi irrisolvibili.
Segue "calunniatori". Questa è una delle caratteristiche del diavolo in persona. Per i detrattori, non importa se qualcosa sia vero o no, la cosa principale, è mettere l'altro in cattiva luce. Più volte sentiamo che viviamo oggi nel tempo della post-verità. Non sembra importante se i media dicano la verità. La cosa importante è che si adatti al mio concetto di "verità".
Questo si nota soprattutto nella battaglia politica di oggi.
Anche in questo caso, molti cristiani prestano le loro lingue al diavolo per calunniare gli altri. Si inizia con il vicino e non ci si ferma davanti al fratello nella comunità.
Un'altra caratteristica è "intemperanti", è l'opposto della moderazione. L'uomo infedele vive secondo i suoi impulsi e questo porta all'illegalità, all’immoralità che vediamo nel nostro mondo. Tutto è non solo permesso ma addirittura promosso dai media e dalla legislazione. L'autocontrollo diventa il messaggio che si deve criticare e ridicolizzare. Come conseguenza, difficilmente vediamo famiglie sane, ormai l'uomo - inteso come genere umano uomo e donna - vive solo. I divorzi, che solo pochi anni fa erano considerati una catastrofe, oggi sono normali, anzi l'anormalità diventa un matrimonio che dura da decenni, a volte, ci si sente · chiedere: "sposato sempre con la stessa donna?"
Si, essere sposati con la stessa donna da venti, trenta o quarant'anni non è normale. La parola d'ordine è: "se non funziona più, cerca un nuovo compagno e rifatti una vita". La pornografia e la pedofilia sono dilaganti e sempre più tollerati
Chi difende l'autocontrollo oggi?
Un altro termine, che Paolo nomina è "spietati". Questo potrebbe anche essere tradotto in "brutale", "assetato di sangue" o "crudele".
Tra le altre cose, si tratta di persone che amano la violenza fine a se stessa e questo i media moderni lo sanno bene. Sentiamo sempre più, notizie di stupri e molestie sessuali, purtroppo anche di responsabili del cosiddetto mondo cristiano. Vediamo anche la crescente crudeltà nei campi di calcio, per strada e, purtroppo, spesso nelle famiglie.
Un altro punto è: "senza amore per il bene". E' il contrario di gentilezza, misericordia e altri valori cristiani. Lo vediamo di nuovo nei media, nelle leggi, nelle lezioni scolastiche, ecc.
Il versetto 4 continua con "traditori". Gli infedeli sono disposti a tradire, lasciare e trattare ingiustamente il coniuge, l'amico, la famiglia o chiunque possa averli aiutati. La promessa "Finché morte non vi separi" spesso non viene menzionata ai matrimoni o liquidata come frase divertente. Quante promesse quotidiane non vengono mantenute? E chi spera ancora che un politico mantenga le promesse fatte in campagna elettorale?
Naturalmente, la fedeltà alla Parola di Dio è anche tra le motivazioni di persecuzione che arriva, ancora oggi, a costare la vita a molti nostri fratelli. Ecco perché i veri cristiani ovunque sono sempre più nei guai. Questo infatti dice l'Apostolo nel versetto 12: ''Del resto, tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati”. Ci saranno sempre più persone ostili al Vangelo e al Vero Cristiano.
L'apostolo Paolo continua con "sconsiderati". Quanti, soprattutto giovani, mettono a rischio la propria vita in modo sconsiderato facendo cose pericolose per il semplice gusto di farlo o per noia, oppure solo per poter postare su YouTube o Facebook le loro bravate. Più audaci e pericolose sono, più sembrano essere obbligati a farle e va a finire che il bungee jumping diventi solo un gioco per ragazzi.
La prossima caratteristica malvagia che Paolo menziona è "gonfi ". Questi sono quelli che non prendono in considerazione nient'altro o nessun altro se non se stessi e le loro opinioni. Questo assume il suo apogeo a livello politico, dobbiamo però considerare che anche l'ambiente cristiano non è immune, anzi...
E ora Paolo menziona una caratteristica che è ben nota a tutti noi: "amanti del piacere anziché di Dio". Viviamo in un mondo in cui hobby, divertimento e svago sono diventate le cose più importanti. A tutto viene dato un valore e una priorità più alta rispetto a Dio. Una volta, prima dell'inizio del culto, chiesi a una donna sposata da poco se suo marito fosse rimasto a casa perché aveva problemi di salute. Lei rispose: "È rimasto a casa a guardare un film".
Molti godimenti passano su tutto. L'uomo fa ciò che gli piace, ciò che lo diverte o ciò che ha voglia di fare, tutto il resto non conta nulla. Anche a questo i cristiani non sono esenti. Se manca la motivazione, la Bibbia semplicemente non sarà letta, non si pregherà, non si andrà alle riunioni, non si servirà il Signore. I nostri desideri vanno oltre i chiari ordinamenti biblici, e se non ne abbiamo voglia, sentiamo che abbiamo anche il diritto di disobbedire a Dio. Una delle più grandi industrie del nostro tempo è quella dell'intrattenimento, a cui il cristiano sfortunatamente regala molto tempo. Attenzione, non significa che non possiamo godere di qualcosa di bello, ma non deve essere in conflitto con Dio, con la sua parola, con il nostro ministero e con le priorità, che restano sempre quelle di mettere Dio al primo posto.
Quando c’è dipendenza, molti piaceri spesso sono terreno fertile per un atteggiamento frivolo e superficiale verso l'immoralità. Alcuni cercano di vivere un po' per Dio, e un po' cedere alle concupiscenze mondane, ma Dio e la Sua opera non sono negoziabili e non ammettono secondi posti o posti che sono in concomitanza con ciò che è la loro antitesi. E se ci affidiamo all'apostolo Giacomo, allora il linguaggio è ancora più pesante:
"O gente adultera, non sapete voi che l'amicizia del mondo è inimicizia contro Dio? Chi dunque vuol essere amico del mondo si rende nemico di Dio." (Giacomo 4:4).
Nel versetto 5, Paolo nomina la caratteristica che sintetizza tutte le precedenti: “aventi le forme della pietà , ma avendone rinnegata la potenza”. Le caratteristiche negative menzionate degli uomini dei tempi della fine cresceranno sempre più e si troveranno anche nella cristianità e nella chiesa, fino a giungere al compimento totale di ciò che Gesù disse riguardo al tempo dell'Anticristo:
''perché sorgeranno falsi cristi e falsi profeti, e faranno gran segni e prodigi da sedurre, se fosse possibile, anche gli eletti." (Matteo 24:24).
Gesù dirà in Luca 18:8: "Quando verrà il Figlio dell'uomo, troverà la fede sulla terra?"
Sarà una società segnata da ipocrisia religiosa. Come si sta verificando già oggi, esternamente, queste persone agiscono come cristiani, ma internamente sono lontani da Cristo.
Quanti oggi si autodefiniscono cristiani, ma non vivono secondo la volontà di Dio?
Quanti hanno una vita religiosa, ma nessuna vera relazione interiore con Lui? In questo modo si aprono a tutti i tipi di influenze oscure.
L'apostolo li aveva già avvertiti in 1 Timoteo 4:1: "Ma lo Spirito dice espressamente che nei tempi a venire alcuni apostateranno dalla fede, dando retta a spiriti seduttori, e a dottrine di demoni".
La seduzione raggiunge e si installa nelle nostre comunità.
In 2 Timoteo 4:3-4, l'apostolo elenca ancora una proprietà che sarà in mostra nella direzione indicata dalla società dei rifiuti: "Infatti verrà il tempo che non sopporteranno più la sana dottrina, ma, per prurito di udire, si cercheranno maestri in gran numero secondo le proprie voglie, e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole. "
Questa è una tendenza pericolosa che può essere vista nei circoli evangelici, dove echeggia ancora una volta l'argomento: "Dobbiamo dare ai credenti ciò che li soddisfa o che li fa stare bene".
Tale atteggiamento influenzerà la profondità e la serietà dell'interpretazione delle Scritture e della comprensione del peccato. Le comunità diventano club cristiani, dove si partecipa a ciò che è divertente o piacevole. I cristiani che resistono sono etichettati come legalisti, conservatori, fanatici o ultimo attributo in senso dispregiativo, fondamentalisti al pari dei fondamentalisti islamici. La Bibbia viene sempre più messa da parte da molti cristiani e chiese locali considerandola un libro a volte importante ma antiquato, non al passo con i tempi, un libro che va adattato alle circostanze e al periodo. Sono necessarie nuove mode, tendenze o insegnamenti. È più interessante seguire un uomo che parla bene che la parola di Dio. A ogni nuova ondata o moda che arriva dal web si apre con entusiasmo la porta, senza misurarla con la Bibbia, e visto che tutti lo fanno, sicuramente sarà buono. In ogni caso sarà «in».
Sfortunatamente, questi falsi fratelli stazionano anche nelle chiese locali e noi dobbiamo allontanarci da loro. La Parola di Dio è esplicita a questo proposito:
''Perciò uscite di mezzo a loro e separatevene, dice il Signore, e non toccate nulla d'immondo; ed io vi accoglierò” (2 Corinzi 6:17).
Tutto questo non sarà senza la sua giusta punizione,
''Anche costoro schiva! Poiché del numero di costoro son quelli che s'insinuano nelle case e cattivano donnicciuole cariche di peccati, agitate da varie cupidigie, che imparano sempre e non possono mai pervenire alla conoscenza della verità. E come Jannè e Iambrè contrastarono a Mosè, così anche costoro contrastano alla verità: uomini corrotti di mente, riprovati quanto alla fede." (2 Timoteo 3:6-8).
Cadranno preda delle proprie passioni e correranno dietro a ogni nuova ondata religiosa senza mai essere veramente soddisfatti. Quando le loro vite o dottrine sono testate da Dio, risultano inutili: 'Ma non andranno più oltre, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quegli uomini." (versetto 9). I loro rifiuti diventano sempre più distruttivi: "mentre i malvagi e gli impostori andranno di male in peggio, seducendo ed essendo sedotti" (v. 13).
Dopotutto, credono alle loro stesse bugie. Non dovremmo sorprenderci se la nostra società si ammalerà mentalmente sempre più. La cosa peggiore è che questo produrrà il giudizio di Dio che è già alla porta.
A quattro delle chiese a cui l'apostolo Giovanni scrive in Apocalisse per ordine del Signore, troviamo questa accusa:
"Ma ho alcune poche cose contro di te: cioè, che tu hai quivi di quelli che professano la dottrina di Balaam, il quale insegnava a Balac a porre un intoppo davanti ai figli d'Israele, inducendoli a mangiare delle cose sacrificate agli idoli e a fornicare. Così hai anche tu di quelli che in simil guisa professano la dottrina dei Nicolaiti." (Apocalisse 2:14-15).
Nella comunità di Tiatiri, una donna di nome Jezebel cerca di sedurre i membri nell'immoralità ed è tollerata (Apocalisse 2:20-21).
Nella comunità di Sardi sono rimasti solo pochi che non hanno contaminato le loro vesti, cioè le loro vite (Apocalisse 3:4).
E a Laodicea troviamo tiepidezza, compiacimento, materialismo e la mancanza della presenza del Signore. L'unica cosa che fermerebbe il giudizio di Dio è il profondo e sincero pentimento (Apocalisse 2:16,21,22; 3:19).
Da un lato, quando questi attributi sono evidenti nell'intera società, che si definisce cristiana e si riversa nelle chiese, è un segno che Gesù sta arrivando e possiamo confortarci e gioire per questo. D'altra parte, questo è anche un serio avvertimento per noi. Perché se scopriamo di avere tali caratteristiche presenti nelle nostre vite, è arrivato il momento di pentirci e tornare a Dio.
Per grazia sua, ci ha dato molte cose che possono salvarci dalla frode, dalla contraffazione e dalle pericolose influenze della spazzatura. L'apostolo Paolo stesso indica la madre e la nonna di Timoteo come modello:
"Quanto a te, tu hai tenuto dietro al mio insegnamento, alla mia condotta, a' miei propositi, alla mia fede, alla mia pazienza, al mio amore, alla mia costanza, alle mie persecuzioni, alle mie sofferenze, a quel che mi avvenne ad Antiochia, a Iconio e a Listra. Sai quali persecuzioni ho sopportato; e il Signore mi ha liberato da tutte .... Ma tu persevera nelle cose che hai imparate e delle quali sei stato accertato, sapendo da chi le hai imparate" (2Timoteo 3:10-11,14).
Certamente anche noi abbiamo - oltre a quelli menzionati nella bibbia - esempi simili intorno a noi: fratelli nel Signore, che costantemente percorrono la via con Lui e che il Signore usa in modo meraviglioso. Conoscete qualcuno che è un modello attraverso la sua testimonianza, la sua famiglia e il suo ministero? Imitatelo! Solo i cristiani fedeli hanno il coraggio di nuotare contro corrente. Ce ne sono pochi, ma esistono ancora. Al capitolo 3, versetto 1 Giovanni ci ammonisce:
"Chiunque rimane in lui non persiste nel peccare; chiunque persiste nel peccare non l'ha visto, né conosciuto."
Lo scrittore agli Ebrei ci porta con il seguente avviso: ''Ma noi non siamo di quelli che si traggono indietro a loro perdizione, ma di quelli che hanno fede per salvar l'anima." (Ebrei 10:39). E dopo che l'autore elenca la fedeltà degli eroi della fede, nonostante le loro lotte, difficoltà e persino il loro martirio, pronuncia la seguente dichiarazione: '
'Anche noi, dunque, poiché siamo circondati da una così grande schiera di testimoni, deponiamo ogni peso e il peccato che così facilmente ci avvolge, e corriamo con perseveranza la gara che ci è proposta, fissando lo sguardo su Gesù, colui che crea la fede e la rende perfetta. Per la gioia che gli era posta dinanzi egli sopportò la croce, disprezzando l'infamia, e si è seduto alla destra del trono di Dio" (Ebrei 12:1-2).
Per nessuno di questi eroi d'onore è stato facile rimanere fedele. Anche al Signore Gesù costò pesanti combattimenti, lacrime e sudore di sangue nel Getsemani, a cui seguì la sua sofferenza e morte sul Golgota. Ma questa fermezza ha portato la pienezza delle benedizioni. Vale la pena seguire questi esempi! Paolo incoraggia Timoteo: '
'Studiati di presentar te stesso approvato dinanzi a Dio: operaio che non abbia ad esser confuso, che tagli rettamente la parola della verità." ... e che fin da bambino hai avuto conoscenza delle sacre Scritture, le quali possono darti la sapienza che conduce alla salvezza mediante la fede in Cristo Gesù. Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona" ( 2 Timoteo 3:15-17).
Perché dovremmo prestare attenzione a fonti dubbie se troviamo nella Bibbia la sicurezza, le benedizioni e tutto ciò di cui abbiamo bisogno per una sana maturità? Dio per la nostra generazione parla nello stesso identico modo con cui ha parlato al suo popolo:
«Il mio popolo infatti ha commesso due mali: ha abbandonato me, la sorgente d'acqua viva, e si è scavato delle cisterne, delle cisterne screpolate, che non tengono l’acqua» (Geremia 2:13).
Dobbiamo rinnovare i nostri pensieri, allinearci a Dio e alla Sua Parola e non lasciarci riempire di principi mondani.
''Se dunque siete stati risuscitati con Cristo, cercate le cose di lassù dove Cristo è seduto alla destra di Dio. Aspirate alle cose di lassù, non a quelle che sono sulla terra". (Colossesi 3:1-2).
Per cosa usiamo o sprechiamo il nostro tempo libero? Cosa succede nei nostri pensieri? Quali sono le nostre azioni? Se nei nostri pensieri c'è molta mondanità, allora agiremo in modo simile al mondo. Ma se i nostri pensieri sono pieni di Cristo, della Sua Parola e della Sua Presenza, allora agiremo come Cristo e diventeremo sempre più simili a Lui. Pertanto lasciate che "la parola di Cristo abiti in voi abbondantemente, ammaestrandovi ed esortandovi gli uni gli altri con ogni sapienza" (Colossesi 3:16).
Nel capitolo 4 di 2 Timoteo, l'apostolo ha un'altra forma di protezione dai rifiuti:
''Io te ne scongiuro nel cospetto di Dio e di Cristo Gesù che ha da giudicare i vivi e i morti, e per la sua apparizione e per il suo regno: Predica la Parola, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, sgrida, esorta con grande pazienza e sempre istruendo .... Ma tu sii vigilante in ogni cosa, soffri afflizioni, fa' l'opera d'evangelista, compi tutti i doveri del tuo ministerio." (2 Timoteo 4, 1-2,5).
Questa esortazione apostolica a Timoteo ci mostra quanto sia importante portare a termine la missione che Dio ci ha affidato e per la quale ci ha preparato (Efesini 2:10). Invece di perdere tempo, investire nel mondo o aprire le orecchie alla sua seduzione, serviamo il Signore fedelmente nel posto che ci ha dato, e facciamo le opere che Egli ha preparato per noi. Se lo facciamo, non avremo tempo perso e non sprecheremo risorse importanti in questi giorni "cattivi" (Efesini 5:16).
Data la crescente apostasia e le parole dell'apostolo Paolo, potremmo chiederci se davvero paga essere fedeli al Signore e alla Sua Parola. Pertanto, Paolo chiude questa triste lettera con alcune parole di gioia, conforto, speranza e incoraggiamento per il futuro.
Una delle più grandi gioie del cristiano è sapere che ha adempiuto al suo compito. L'apostolo Paolo testimonia la sua vita:
''Io ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho serbato la fede" (2 Timoteo 4:7).
C'è qualcosa di più grande che essere in grado di testimoniare, alla fine della nostra vita qui sulla terra, che siamo stati fedeli e abbiamo realizzato le opere per le quali Dio ha creato e ci ha promesso? Se il Signore ci chiamasse a casa oggi, potremmo dare la stessa testimonianza dell'apostolo?
E se questo può sembrare poco, all'apostolo è concesso dallo Spirito di Dio uno sguardo al momento dopo il rapimento della chiesa: "del rimanente mi è riservata la corona di giustizia che il Signore, il giusto giudice, mi assegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti quelli che avranno amato la sua apparizione." (v. 8). Il Signore esaminerà il nostro ministero e le nostre vite e di conseguenza ci ricompenserà. Se teniamo questo a mente, vale davvero la pena lottare, investendo sull'eternità e compiere fedelmente il nostro ministero! E questa ricompensa è legata alla costante aspettativa della venuta del Signore.
Non sappiamo quanto tempo sia rimasto fino alla venuta del Signore. L'opposizione è grande, la lotta è brutale e l'influenza è enorme. A volte ci sentiamo come l'apostolo, soli senza nessuno al nostro fianco (v 16 ), ma nello stesso tempo, dice con sicurezza una verità che deve valere anche per noi oggi:
‘’Il Signore però mi ha assistito e mi ha reso forte, affinché per mezzo mio il messaggio fosse proclamato e lo ascoltassero tutti i pagani; e sono stato liberato dalle fauci del leone. Il Signore mi libererà da ogni azione malvagia e mi salverà nel suo regno celeste. A lui sia la gloria nei secoli dei secoli. Amen." (v. 17-18).
Quindi termineremo coraggiosamente e con sicurezza il corso "fissando lo sguardo su Gesù, colui che crea la fede e la rende perfetta" (Ebrei 12: 2).
(Chiamata di Mezzanotte, marzo/aprile 2018)
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Ingresso vietato agli ebrei": è escalation antisemita in Francia
di Filippo Jacopo Carpani
Continuano gli episodi antisemiti in Francia, Paese che si sta configurando come centro dell’odio anti-ebraico. A Parigi, sono comparse le scritte “fuori gli ebrei” e “ingresso vietato agli ebrei” fuori da un negozio nella rue de Cilchy, nel 17esimo arrondissement. È evidente il richiamo al periodo nazista, in cui agli Juden era vietato entrare in molti esercizi commerciali in Germania e nei territori occupati dal Terzo Reich.
Questo avvenimento è solo l’ultimo segnale d’allarme per la comunità ebraica francese, vittima di una recrudescenza di un odio riesploso in concomitanza con l’inizio del conflitto tra Israele e Hamas. Dal 7 ottobre, sono 817 gli episodi di antisemitismo segnalati alle autorità d’Oltralpe, più di quanti se ne sono verificati nell’intero 2022. Tra questi, vi sono offese verbali, graffiti, aggressioni fisiche e minacce di morte. Il caso più eclatante, comparso sui quotidiani di tutto il mondo, è quello delle stelle di David e di scritte antisemite dipinte sui muri di negozi e palazzi nel 14esimo arrondissement della capitale e in tre comuni nell’hinterland parigino. Il fatto risale a martedì 31 ottobre e la preoccupazione della comunità ebraica francese continua ad aumentare.
“Nascondere la propria religione non protegge più”, racconta il 20enne David a France24 dopo una cerimonia in una sinagoga presidiata dalle forze armate. “Per questo gli ebrei si stanno sempre più ritirando all’interno delle proprie comunità. Vi è il desiderio di restare con persone che affrontano i tuoi stessi problemi”. Il giovane parla anche di un episodio accaduto ad alcuni suoi amici, seguiti e minacciati da un gruppetto di ragazzi.
L’emittente francese raccoglie altre testimonianze di ebrei che denunciano un cambiamento nelle loro vite a causa di questa situazione. “Dal 7 ottobre ho paura ad andare in quartieri o mercati arabi e musulmani. Prima non era così”, afferma un disegnatore di fumetti 36enne, rimasto anonimo. “Spesso parlo in ebraico al telefono, ascolto musica ebraica, scrivo in ebraico. Temo che mi si possa sentire o vedere mentre sono distratto e che questo porti ad attacchi fisici o verbali”. Una libera professionista di 47 anni, invece, si dice quasi spaventata dal fatto che “nel mio contesto lavorativo e sociale, semplicemente non si parla della guerra. E questo nonostante il fatto che nel mio gruppo di conoscenze si discuta spesso di politica. Sembra di essere in una realtà parallela”.
Ci sono anche coloro che rifiutano di cedere alla paura e continuano a vivere senza nascondere la propria appartenenza religiosa. Joelle Lezmi, 70enne ex presidente dell’associazione sionista femminile Wizo e residente a Creil, ricorda il periodo della seconda Intifada (2000-2005): “Qui abitavano 400 famiglie di ebrei. Ora sono 35. Gli altri sono emigrati in parti diverse della Francia. Io mi rifiuto di avere paura e continuerò a vivere qui”.
(il Giornale, 4 novembre 2023)
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Se non è amore, prima o poi diventa odio
Il sito “Notizie su Israele” è presente in rete da più di vent’anni. La pagina più consultata è certamente quella iniziale, dove compaiono notizie attuali e loro commenti, ma chi è interessato al tema Israele potrebbe trarre beneficio anche da quello che si trova in altre rubriche, elencate nella colonna di sinistra. In una di queste, titolata “Riflessioni”, si possono trovare considerazioni varie; tra queste ne segnalo una inserita diversi anni fa che qui riporto in forma grafica più incisiva:
Nei confronti del popolo ebraico si possono avere tre tipi di sentimenti:
  Nei momenti critici, l’indifferenza si trasforma in odio.
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Oggi è uno di questi momenti critici. M.C.
(Notizie su Israele, 4 novembre 2023)
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Il manuale militare americano e la condotta di Israele
di David Elber
Da quando è iniziata l’operazione militare israeliana nella striscia di Gaza, contestualmente ha avuto avvio, da parte americana ed europea una poderosa campagna politica e mediatica di avvertimenti, relativi al rispetto del diritto internazionale umanitario, e su come condurre le operazioni militari. Tutti i solidali con Israele si sono mostrati fin da subito concordi nel ritenere legittimo il suo diritto a difendersi, ma poi è sempre seguita la clausola “nel rispetto del diritto internazionale” senza mai specificare cosa preveda in caso di guerra. Perché questa voluta omissione nello specificare le regole di ingaggio di un esercito previste dal diritto internazionale? Perché si ha il chiaro intento di stigmatizzare moralmente Israele qualsiasi azione militare intraprenda. Di fatto, questo equivale a impedirgli di difendersi adeguatamente. Sta qui tutta l’ipocrisia dei solidali. Da un lato affermano il suo diritto a difendersi, dall’altro intendono limitarlo nei fatti, adducendo motivazioni “umanitarie” mai ben specificate nel diritto internazionale. In questo modo, Israele, ogni volta che compie un’azione militare, viene subito accusato di violare una imprecisata “norma umanitaria”. Prenderemo come esempio di condotta militare rispettosa del diritto internazionale umanitario, il Manuale delle Leggi di Guerra in dotazione all’esercito americano nella sua versione aggiornata al luglio 2023. Arduo mettere in dubbio che la più grande democrazia del mondo, possa avere un manuale militare difforme delle regole del diritto internazionale umanitario. Il corposo e strutturato testo, di oltre 1.200 pagine, recepisce le leggi di guerra internazionali (Convenzione dell’Aia del 1907, le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 con i Protocolli aggiuntivi del 1977 e il diritto consuetudinario come pratica generale accettata come diritto) fatte proprie dagli Stati Uniti, normate in questo manuale di comportamento, e ritenute lecite per le proprie forze armate. In rapporto al tipo di guerra che sta svolgendosi a Gaza e alle raccomandazioni americane rivolte a Israele, esamineremo come il manuale sulle leggi di guerra degli USA affronta due aspetti importanti: l’assedio e la cosiddetta proporzionalità. Il tema dell’assedio e del relativo comportamento da tenere in questi casi da parte delle forze militari impegnate ad effettuarlo, sono descritti nel manuale al punto 5.19 di pagina 320. Qui se ne riportano degli estratti salienti:
“È lecito assediare le forze nemiche, cioè accerchiarle con l’obiettivo di indurle alla resa tagliando loro i rinforzi, i rifornimenti e le comunicazioni con il mondo esterno. In particolare, è lecito cercare di ridurre le forze nemiche alla fame e alla sottomissione. […].Il comandante di una forza di accerchiamento non è tenuto ad acconsentire al passaggio di personale medico o religioso, di rifornimenti e di equipaggiamenti se ha legittime ragioni militari per negare tali richieste (ad esempio, se il rifiuto del passaggio può aumentare la probabilità di resa delle forze nemiche nell’area accerchiata). Ciononostante, i comandanti devono compiere sforzi ragionevoli e in buona fede per farlo, quando possibile. […] I comandanti devono prendere accordi per consentire il libero passaggio di alcune spedizioni: Tutti gli invii di forniture mediche e ospedaliere e di oggetti necessari al culto religioso destinati esclusivamente ai civili; e tutte le spedizioni di generi alimentari essenziali, indumenti e tonici (cioè medicinali) destinati ai bambini sotto i 15 anni, alle madri in attesa e ai casi di maternità. Tuttavia, la parte che controlla l’area non è tenuta a consentire il passaggio di questi beni, a meno che non sia convinta che non vi siano serie ragioni per temere che: le spedizioni possano essere deviate dalla loro destinazione; il controllo non sia efficace; oppure rappresenti un sicuro vantaggio per gli sforzi militari o l’economia del nemico.
Come si può desumere dalle “tecniche” di assedio contemplate e ritenute lecite, Israele non è tenuto a fornire elettricità né acqua come i solidali vogliono che faccia, ma semplicemente deve permettere il transito di beni essenziali a ben precise condizioni, cosa che, infatti, fa. In merito alla “proporzionalità”, il manuale fornisce informazioni interessanti. A livello generale il tema è affrontato da pagina 60 al punto: 2.40 Proporzionalità. A pagina 61, al punto 2.4.1.2 si trova la definizione di eccessiva o irragionevole proporzionalità:
“La proporzionalità in genere soppesa la giustificazione dell’azione rispetto ai danni attesi per determinare se questi ultimi sono sproporzionati rispetto ai primi. In guerra, i danni accidentali alla popolazione civile e agli oggetti civili sono spiacevoli e tragici, ma inevitabili. Pertanto, l’applicazione del principio di proporzionalità nella conduzione degli attacchi non richiede che nessun danno accidentale derivi dagli attacchi. Piuttosto, questo principio crea l’obbligo di astenersi da attacchi in cui i danni previsti, conseguenti a tali attacchi, sarebbero eccessivi rispetto al vantaggio militare concreto e diretto che si prevede di ottenere e di prendere precauzioni fattibili nella pianificazione e nella conduzione degli attacchi per ridurre il rischio di danni ai civili e ad altre persone e oggetti protetti dall’essere oggetto di attacco. Nelle leggi di guerra, i giudizi di proporzionalità spesso implicano confronti difficili e soggettivi. Riconoscendo queste difficoltà, gli Stati hanno rifiutato di usare il termine “proporzionalità” nei trattati relativi alle leggi di guerra [il grassetto è dell’Autore] perché potrebbe implicare erroneamente un equilibrio tra le considerazioni o suggerire che sia possibile un confronto preciso tra di esse.
Ovvero, non si può istituire un rapporto tra costi/benefici, tra una azione militare e i danni collaterali da essa prodotta. Più avanti il testo, fornisce altre indicazioni: 5.10 Proporzionalità nel condurre gli attacchi (da pagina 249).
“I combattenti devono prendere precauzioni fattibili nella pianificazione e nella conduzione degli attacchi per ridurre rischio di danni ai civili e ad altre persone e oggetti protetti dall’essere oggetto di attacco. […] I combattenti devono astenersi da attacchi in cui la perdita prevista di vite civili, le ferite ai civili e i danni agli oggetti civili, dovuti all’attacco, sarebbero eccessivi [grassetto dell’Autore] rispetto al vantaggio militare concreto e diretto che ci si aspetta di ottenere. Poco oltre si legge: Questo principio non impone obblighi volti a ridurre il rischio di danni agli obiettivi militari. Appare evidente che il danno che si può causare agli obiettivi militari è prevalente sui danni collaterali inflitti ai civili”.
In pratica, il principio di proporzionalità richiede semplicemente che i danni ai civili non siano “eccessivi” rispetto al vantaggio militare previsto da un’azione bellica. Tale concetto, come recita il manuale, è del tutto soggettivo e pertanto non quantificabile. Si possono fare degli esempi. Se Hamas utilizza una moschea per lanciare dei razzi contro la popolazione civile israeliana, questa diventa ipso facto un legittimo obiettivo militare. Se Hamas utilizza dei piani di un ospedale o le sue parti interrate come centri di comando, l’ospedale stesso diventa un obiettivo militare legittimo. Questo avviene perché il principio di distinzione (tra combattenti e non combattenti) ben disciplinato nel diritto internazionale è stato deliberatamente obliterato da Hamas. Cosa afferma il principio di distinzione? Che un obiettivo militare deve essere tenuto ben separato e riconoscibile dalle strutture civili, così come, che i combattenti devono essere ben riconoscibili e non mischiati alla popolazione civile. Tutto questo a Gaza è venuto meno, per una chiara volontà di Hamas di utilizzare le strutture civili e la popolazione civile come copertura per le proprie attività militari. Ne consegue che chi accusa Israele di uso “eccessivo” o “sproporzionato” della forza lo fa per ignoranza o per malafede o per entrambe. L’auspicio sarebbe che il Segretario di Stato, Antony Blinken, la prossima volta che si recherà in Israele, lo faccia portandosi appresso il manuale militare americano per chiedere che l’esercito israeliano lo rispetti pedissequamente.
(L'informale, 4 novembre 2023)
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Poiché Biden si mette contro Israele, Netanyahu deve farsi valere
Se Netanyahu non si oppone agli Stati Uniti, se cede, la pressione di Washington non si fermerà.
di Caroline Glinck
Domenica il presidente americano Joe Biden, il segretario di Stato Antony Blinken e il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan hanno annunciato che gli Stati Uniti si aspettano che Israele permetta l'ingresso di "aiuti umanitari" a Gaza.
Le implicazioni di questa posizione sono devastanti per Israele. Secondo quanto riportato, ci sono "centinaia di camion" in fila al confine con l'Egitto per entrare nella Striscia di Gaza trasportando i cosiddetti "aiuti umanitari". Questi camion, se autorizzati a entrare, non saranno ispezionati in alcun modo significativo. Non c'è motivo di credere che stiano trasportando latte artificiale e generi alimentari che saranno consegnati ai bisognosi. C'è ogni ragione di credere che stiano trasportando materiale bellico e combattenti jihadisti che sono arrivati per aumentare Hamas.
Se anche c'è del cibo nei camion, chi sfamerà? Gli ostaggi? Gli infermi? A chi saranno consegnate le medicine? Agli ostaggi? Il carburante dei camion sarà usato nei frigoriferi per nutrire gli israeliani prigionieri?
Ovviamente no.
Hamas è Gaza. Tutti i "ministeri" di Gaza sono di Hamas. Tutti gli ospedali sono di Hamas. Il quartier generale militare di Hamas si trova sotto l'ospedale Shifa.
Quindi, qualunque cosa e chiunque si trovi nei camion che trasportano "aiuti umanitari", tutti saranno consegnati ad Hamas e saranno distribuiti a beneficio di Hamas.
L’idea che possa essere altrimenti è assurda. E il fatto che l'amministrazione Biden sostenga questa assurdità è un oltraggio.
Anche se le "centinaia di camion" fossero completamente vuoti - e chiaramente non lo sono - i camion stessi sono strumenti di guerra. La loro presenza a Gaza farà avanzare lo sforzo militare di Hamas contro Israele. Aumenteranno la capacità di Hamas di uccidere e ferire un numero incalcolabile di soldati dell'IDF che ora si trovano al confine in attesa che il governo Netanyahu ordini loro di entrare a Gaza.
Biden, Blinken e Sullivan, come i loro omologhi in Europa e nelle Nazioni Unite, sostengono di voler dare ad Hamas i camion per evitare un disastro umanitario a Gaza. Ma la loro posizione è in realtà devastante per i civili di Gaza.
Impedendo ai civili di fuggire da Gaza verso il proprio territorio, anche per transitare verso Paesi terzi, l'Egitto collabora con lo sforzo bellico di Hamas. Consentendo all'Egitto di mantenere la sua posizione e chiedendo a Israele di permettere a Hamas di rifornirsi, chiamando tali rifornimenti "aiuti umanitari", l'amministrazione Biden sta intrappolando i civili di Gaza che dice di voler proteggere. Rimarranno sotto lo zoccolo duro di Hamas. Rimarranno i suoi scudi umani e la sua carne da cannone.
Allo stesso modo, gli Stati Uniti stanno fornendo sostegno materiale alla campagna di propaganda di Hamas che incolpa Israele per la carneficina di cui Hamas è l'unico autore, sia in Israele che a Gaza.
Gli Stati Uniti agiscono anche in violazione del diritto internazionale vincolante. Come ha spiegato il professor Avi Bell della Bar Ilan University e dell'Università di San Diego in un'intervista al "The Caroline Glick Show" di domenica, mentre Biden e i suoi collaboratori hanno insistito ripetutamente sul fatto che si aspettano che Israele rispetti le leggi internazionali di guerra nel perseguire il suo sforzo bellico contro Hamas, le posizioni dell'amministrazione in relazione a tale guerra sono illegali.
In seguito agli attacchi jihadisti dell'11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione 1373 ai sensi del Capitolo 7 della Carta delle Nazioni Unite. Le risoluzioni del Capitolo 7, a differenza di altre, sono vincolanti per tutti i Paesi membri delle Nazioni Unite.
La risoluzione 1373 stabilisce che tutti i Paesi membri delle Nazioni Unite devono "astenersi dal fornire qualsiasi forma di sostegno, attivo o passivo, a entità o persone coinvolte in atti terroristici".
Qualsiasi fornitura di aiuti a Gaza, che è completamente controllata da Hamas, è ovviamente assistenza "attiva o passiva" ad Hamas, e quindi illegale.
La Risoluzione 1373 richiede inoltre a tutti gli Stati membri dell'ONU di "negare un rifugio sicuro a coloro che finanziano, pianificano, sostengono o commettono atti terroristici, o forniscono rifugi sicuri".
Dopo la visita in Israele di giovedì scorso, Blinken si è recato in Qatar. Il Qatar ospita i principali responsabili del terrorismo di Hamas. Hanno pianificato le loro atrocità dal Qatar. Il denaro e le armi dell'Iran vengono convogliati ad Hamas attraverso il Qatar. Il canale satellitare Al Jazeera del Qatar è una componente integrale della macchina del terrore di Hamas. Lunedì mattina, l'IDF ha annunciato che i giornalisti di Al Jazeera stanno trasferendo ad Hamas informazioni sul posizionamento e sul numero delle truppe dell'IDF, sia direttamente che attraverso le loro trasmissioni.
Il Qatar è Hamas.
Invece di designare ufficialmente il Qatar come Stato sponsor del terrorismo, venerdì scorso Blinken ha accolto il Ministro degli Esteri del Qatar Mohammed bin Abdulrahman bin Jassin Al Thani come un alleato. E questo ha senso perché, dal punto di vista dell'amministrazione, l'ospite di Hamas è un alleato degli Stati Uniti. Poco dopo essere entrata in carica, l'amministrazione Biden ha designato il Qatar come uno dei principali alleati non appartenenti alla NATO, la stessa designazione di cui gode Israele.
Accogliendo il Qatar come alleato invece di punirlo per il suo ruolo centrale a tutti i livelli dell'infrastruttura terroristica di Hamas, l'amministrazione sta violando il diritto internazionale, ancora una volta. Sta anche tradendo Israele.
Nell'intervista rilasciata a 60 Minutes, Biden ha affermato che gli Stati Uniti si oppongono all'obiettivo bellico di Israele di annientare Hamas e distruggere la sua capacità di governare in qualsiasi modo a Gaza. Invece, Biden ha tracciato una distinzione oscena e immaginaria tra Hamas e "elementi estremi di Hamas".
Biden ha anche appoggiato l'idea che Israele dovrebbe abbattere Hamas di qualche gradino, ma non conquistare Gaza. Ha invece lasciato intendere che l'Autorità Palestinese controllata dall'OLP, che sostiene Hamas e che funge da ministero degli Esteri alle Nazioni Unite e nelle capitali mondiali, dovrebbe governare Gaza.
In quanto superpotenza, gli Stati Uniti sono nella posizione di schierarsi contemporaneamente con Israele e con Hamas. E questa è chiaramente la politica attuale dell'amministrazione Biden. L'obiettivo dell'amministrazione, a quanto pare, è quello di impedire a Israele di vincere e di costringerlo a combattere fino al pareggio, nel migliore dei casi. Questo è perfetto per Hamas, che sopravvivrebbe e, con i suoi amici negli Stati Uniti, nelle Nazioni Unite, in Iran, in Qatar e in tutto il mondo arabo e occidentale, si ricostruirebbe più forte che mai.
Per Israele sarebbe una calamità di proporzioni bibliche. Solo al mondo, e trattato in modo infame dal suo apparente alleato statunitense, Israele uscirebbe dalla guerra con la sua posizione regionale a pezzi. La pace con Egitto e Giordania probabilmente non sopravvivrebbe a lungo. Gli Accordi di Abramo verrebbero annullati. E l'idea stessa di normalizzare i legami con l'Arabia Saudita verrebbe spinta nel buco della memoria. L'Iran si ergerebbe a superpotenza regionale e nel giro di pochi mesi potrebbe testare un'arma nucleare. Il futuro di Israele, in breve, sarebbe desolante.
A ben vedere, con l'opinione pubblica israeliana ormai unita dietro l'obiettivo di sradicare Hamas, la posizione dell'amministrazione dovrebbe essere impossibile da vendere al popolo di Israele. Apparentemente riconoscendo questo stato di cose, durante la sua breve visita in Israele il 12 ottobre, Blinken ha incontrato l'organizzazione paramilitare Brothers in Arms. Fino alla guerra, Brothers in Arms era una forza d'urto che costituiva la spina dorsale delle rivolte antigovernative. I suoi membri aggredivano abitualmente ministri del governo e membri della Knesset della coalizione di governo di Netanyahu, nonché accademici, uomini d'affari e giornalisti che sostenevano il governo Netanyahu. Brothers in Arms ha lavorato per minare la prontezza dell'IDF, chiedendo ai membri delle unità di riserva chiave, in primo luogo ai piloti dell'Aeronautica, di rifiutarsi di prestare servizio sotto il governo Netanyahu.
Dopo le atrocità del 7 ottobre, con il sostegno dei suoi finanziatori miliardari, Brothers in Arms ha lanciato una straordinaria e massiccia campagna di assistenza civile per il sud, seconda a nessuna nello sforzo bellico nazionale. La sua operazione ha ottenuto il legittimo plauso di tutti i settori della società israeliana.
Tuttavia, la visita di Blinken alla loro operazione di assistenza è stata un segnale per Netanyahu. Lo stesso vale per la sua decisione di incontrare il leader dell'opposizione Yair Lapid durante la sua visita di lunedì. Se Netanyahu non si piegherà alle pressioni dell'amministrazione per salvare Hamas, l'amministrazione si rivolgerà a personaggi come Brothers in Arms e Lapid per minare ancora una volta la stabilità e la coesione interna della società israeliana, questa volta al culmine dell'operazione di terra a Gaza.
Netanyahu, indebolito politicamente dall'aggressione, potrebbe vivere i suoi ultimi giorni da leader nazionale. Persino molti dei suoi più ferventi sostenitori stanno suggerendo che potrebbe essere costretto a dimettersi una volta terminata la guerra. Sia che Netanyahu veda la fine davanti a sé, sia che creda di poter rimanere al potere una volta terminata la guerra, il suo futuro e la sua eredità sono ora in gioco.
Se Netanyahu si oppone agli Stati Uniti, potrebbe trovarsi di fronte a una ripresa delle violente proteste contro di lui e il suo governo. Se ciò accadrà, l'obiettivo degli operatori che organizzano le proteste sarà quello di minare il morale in un periodo di guerra. A giudicare dalla copertura mediatica fino ad oggi, i rivoltosi saranno sostenuti da quasi tutti gli organi di informazione del Paese.
D'altra parte, se si opporrà a Biden, Netanyahu darà ai soldati e ai comandanti dell'IDF l'opportunità di combattere questa guerra fino alla vittoria e di proteggere Israele per i prossimi anni.
Se Netanyahu non si oppone agli Stati Uniti, se si piega, la pressione di Washington non si fermerà. Cedendo, non farà altro che stuzzicare l'appetito di personaggi come l'inviato americano in Palestina Hady Amr, che ha un curriculum pubblico di sostegno ad Hamas (e ha lavorato a Doha, in Qatar, durante gli anni di Trump). Amr e i suoi colleghi intascheranno la prima concessione di Israele e ne chiederanno altre, e altre ancora, in coordinamento con Hamas, l'OLP, il Qatar e l'Egitto.
Dopo la guerra, Netanyahu sarà cacciato dall'incarico e la sua eredità sarà ridotta a brandelli per sempre. L'Israele che lascerà sarà quello in cui la sovranità ebraica sarà messa in dubbio per la prima volta in 75 anni. Non è il momento di vacillare.
(JNS, 4 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Si conferma che gli Stati Uniti sono per l’Israele di oggi quello che l’Egitto è stato per l’Israele di ieri: “Un sostegno di canna rotta che penetra nella mano di chi vi si appoggia e gliela fora” (2 Re 18:21).
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Israele schiera l'unità cinofila Oketz: la carta per la guerra dei tunnel a Gaza
di Valerio Chiapparino
Il pesante bilancio della strage compiuta da Hamas il 7 ottobre avrebbe potuto essere ancora più grave se nelle prime ore dell’assalto dei militanti islamisti ai soldati e ai civili inermi nel sud d’Israele non fosse intervenuta anche una delle unità speciali dell’Israel Defence Force (Idf): la squadra Oketz. Oggi quello stesso team di difesa dello Stato ebraico composto dai cani e dai loro accompagnatori è impegnato nell’operazione di terra nella Striscia di Gaza.
L’unità Oketz è stata tra le prime forze militari ad accorrere nei kibbutz assaltati da circa 3mila militanti islamisti all’alba della strage del sukkot. Nel villaggio di Be’eri il team cinofilo ha permesso di mettere in sicurezza 200 israeliani e di neutralizzare una decina di miliziani. A Kfar Aza un cane della squadra, Nauru, impiegato nella ricerca dei terroristi e delle loro armi è caduto sotto i colpi degli integralisti.
“Il prossimo passo è entrare a Gaza. La missione è uccidere tutti i terroristi che incontreremo. Siamo veri, siamo forti, siamo uniti e vinceremo”. Così si era espresso il comandante dell’unità Oketz - "pungere" in ebraico - alla vigilia dell’operazione lanciata dalle forze di Tsahal il 27 ottobre per sradicare l'organizzazione che controlla la Striscia dal 2007. I militari, in divisa e senza, si sono addestrati insieme agli uomini del team Samur in un complesso di tunnel ricreato nel deserto del Negev per prepararsi alla sfida più difficile: uscire vivi dalla metro di Gaza.
Il vasto complesso sotterraneo costruito da Hamas si estende per 500 chilometri sino ad una profondità di circa 80 metri ed espone l’esercito israeliano ad una "guerra tridimensionale". Anche per affrontare una sfida senza precedenti in queste ore i cani dell’Oketz, in prevalenza pastori tedeschi, belgi e olandesi, vengono mandati in avanscoperta nell’enclave palestinese per cercare i punti di accesso ai cunicoli, le trappole esplosive disseminate nel dedalo di tunnel e per attaccare i fedayin in agguato.
La squadra cinofila è stata costituita nel 1974 – era inizialmente composta da appena 11 soldati -, all’indomani di un’ondata di attacchi terroristici contro Israele, ma per almeno 14 anni ha operato nella più totale segretezza. È in occasione di un’operazione in Libano negli anni Ottanta che la sua esistenza è stata svelata al pubblico.
Il contributo di questi animali alla sicurezza nazionale risale però a ben prima della nascita dello Stato ebraico. L’Haganah, un'organizzazione paramilitare sionista attiva in Palestina durante il mandato britannico, impiegava già a partire dal 1939 un’unità cinofila a difesa dei villaggi, una squadra che verrà integrata nell’Idf dopo il 1948 per essere smantellata qualche anno più tardi.
Secondo l’addestratore Yaviv Stern "solo i migliori cani vengono selezionati” per entrare a far parte dell’Oketz aggiungendo che quelli “troppo apatici o troppo sensibili al cibo e a rincorrere i gatti” vengono scartati. Anche gli accompagnatori vengono sottoposti ad uno screening rigoroso prima di essere assegnati a cani con cui poi dovranno stringere un forte ed indissolubile legame. Al termine di un servizio di sette anni durante i quali sono considerati sacrificabili in missioni ad alto rischio, questi animali infatti rimangono assieme al militare accanto al quale hanno prestato servizio.
I soldati scelti sono consapevoli della possibile perdita dei loro cani sul campo di battaglia ma come dichiara in forma anonima al Jerusalem Post un membro dell’Oketz “il loro scopo è fornire un beneficio all’uomo e non il contrario. Esiste una separazione assoluta tra l’essere umano e gli animali e ogni militare ne è consapevole”. Al di là di riflessioni etiche, come sottolinea comunque il quotidiano israeliano “i cani possono essere il migliore amico dell’uomo ed il peggiore nemico dei terroristi”.
(il Giornale, 4 novembre 2023)
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Spade di ferro - giorno 27. La città di Gaza è circondata
di Ugo Volli
• Il fronte di Gaza
L’accerchiamento della città di Gaza, roccaforte di Hamas, è completo. La Striscia è divisa in due parti. La porzione settentrionale è tagliata fuori da quella meridionale. In mezzo c’è una zona fittamente urbanizzata, da cui l’esercito israeliano ha cercato di far sfollare la popolazione civile per non danneggiarla, riuscendoci però solo in parte perché Hamas ha cercato di impedire in tutti i modi l’evacuazione, per usare i civili come scudo umano. Al centro di questa zona c’è l’ospedale principale di Shifa, sotto il quale si nasconde lo stato maggiore dei terroristi, coi loro centri di comando e di controllo. Questo è l’obiettivo che l’esercito israeliano dovrà raggiungere per decapitare Hamas; ma arrivarci non sarà facile perché si tratta prima di conquistare la città. Nella nottata aerei ed elicotteri da combattimento e artiglieria, diretti dalle forze di fanteria della Brigata Nahal, hanno colpito e ucciso diversi terroristi di Hamas. Sono stati eliminati diversi comandanti terroristi. L’esercito ha comunicato che quattro soldati sono caduti in questi combattimenti.
• L’attività umanitaria e gli Usa
Intorno a Gaza vi è anche una notevole attività umanitaria, accettata e in parte gestita da Israele. Circa 620 cittadini stranieri si preparano a lasciare oggi la Striscia di Gaza attraverso il valico di Rafah. 367 di loro sono cittadini americani. Fonti arabe riferiscono che cinquanta camion di soccorsi alimentari e medici si stanno dirigendo per essere ispezionati al valico di Nitsana, in preparazione al loro ingresso nella Striscia di Gaza attraverso il valico di Rafah. Israele ha anche fatto rientrare nella Striscia attraverso il valico di Kerem Shalom, nel sud, degli abitanti di Gaza catturati in Cisgiordania e in Israele, risultati estranei al massacro terrorista del 7 ottobre e in genere al terrorismo. Fonti americane riferiscono che vi è stata una fitta attività di droni sulla parte meridionale della Striscia, nel tentativo di localizzare gli ostaggi. Sempre dagli Stati Uniti arrivano espressioni concrete di appoggio a Israele. La vicepresidente Kamala Harris ha pubblicato una dichiarazione in cui dice che l’attuale amministrazione sostiene pienamente l’azione israeliana e la Camera dei rappresentanti ha approvato un finanziamento di 14,3 miliardi di dollari per lo Stato ebraico. Il segretario di Stato americano Anthony Blinken è sbarcato in Israele. Sono previste trattative molto difficili per la richiesta americana di consentire l’invio di carburante a Gaza.
• La situazione in Giudea e Samaria
Una delle attese strategiche di Hamas è l’apertura di un fronte a est del territorio israeliano, in particolare nelle zone di Giudea e Samaria sotto il controllo (reale o nominale) dell’Autorità Palestinese, in cui nell’ultimo anno è emersa una sorta di guerriglia a bassa intensità, in particolare in luoghi come Jenin Nablus (in ebraico Shechem), Huwarra. Le forze di sicurezza israeliane hanno lavorato duramente in queste settimane per prevenire questo rischio. Anche ieri notte sono intervenute massicciamente: i palestinesi riferiscono di cinque terroristi morti a Jenin, due a Hebron, uno nel campo profughi di Qalandiya e un altro morto a Nablus. Le forze israeliane hanno operato tutta la notte a Jenin e nel “campo profughi” della città (che in sostanza è da decenni un suo quartiere molto popolato, senza le caratteristiche provvisorie di un “campo”) per distruggere le infrastrutture terroristiche ed effettuare arresti. Diversi attacchi aerei sono stati effettuati a Jenin e i bulldozer dell'IDF hanno lavorato particolarmente duramente per "radere le strade" cioè per eliminare le bombe nascoste sotto l’asfalto per attaccare i veicoli militari. Nel “campo profughi Askar” (anch’esso un quartiere e non un campo) di Nablus è stata fatta saltare in aria la casa del terrorista Khaled Kharosha, per il suo coinvolgimento nell'attentato in cui sono morti i fratelli Yaniv a Hawara.
• Il conflitto con Hezbollah
Il fronte settentrionale, nel frattempo, lentamente si sta scaldando. Ieri sera, le forze israeliane hanno eliminato una cellula terroristica nel complesso dell'organizzazione terroristica di Hezbollah in territorio libanese e hanno colpito l’infrastruttura dell’organizzazione, in risposta alla sparatoria effettuata dal territorio libanese al territorio israeliano. Sempre nella notte, un carro armato Merkavà ha attaccato una cellula terroristica che cercava di lanciare missili anticarro dal territorio libanese verso quello israeliano nella zona del Monte Dov in Golan. Si parla con insistenza della consegna a Hezbollah da parte del gruppo Wagner (interamente controllato da Putin) del nuovo sistema antiaereo russo SA22, che sarebbe una seria minaccia per gli aerei israeliani. Vi è molta attesa per un discorso teletrasmesso molto preannunciato del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah che sarà tenuto questo pomeriggio. Alcuni credono che potrebbe annunciare l’intenzione di entrare in guerra contro Israele al fianco di Hamas, il che sarebbe uno sviluppo importante della guerra. Il leader libanese cristiano Geagea l’ha ammonito a non farlo, per evitare la distruzione del paese. Dato che ha poco senso militare oggi dichiarare una guerra in diretta televisiva, molti pensano che Nasrallah farà dichiarazioni roboanti, ma senza sviluppi concreti.
(Shalom, 3 novembre 2023)
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Perché si negano le atrocità del 7 ottobre?
Se gli ebrei sono i cattivi, allora è morale odiarli. È morale stare dalla parte di Hamas. Ed è immorale sostenere gli ebrei e lo Stato di Israele.
di Caroline Glick
GERUSALEMME - Di per sé, la negazione dell'Olocausto non ha senso. Le prove fisiche del genocidio esistono. Esistono le testimonianze dei sopravvissuti, dei nazisti e dei loro collaboratori. E sono tutte inconfutabili.
Inoltre, i nazisti erano orgogliosi di aver ucciso 6 milioni di ebrei. Negando l'Olocausto, i nazisti contemporanei e i loro fan sembrano sminuire i loro eroi. Perché dovrebbero farlo?
Il mistero della negazione dell'Olocausto non è un semplice rompicapo di un passato lontano. Comprendere il suo scopo è essenziale per affrontare la nostra situazione attuale. Subito dopo la diffusione della notizia del sadico massacro di oltre 1.400 uomini, donne e bambini israeliani da parte di Hamas il 7 ottobre, i sostenitori di Hamas in tutto il mondo hanno lanciato uno sforzo concertato per negare che sia successo qualcosa.
Proprio come i neonazisti celebrano l'Olocausto e allo stesso tempo lo negano, così coloro che hanno accolto con entusiasmo le storie di bambini e uomini ebrei massacrati e decapitati e di donne e ragazze ebree stuprate e smembrate, insistono sul fatto che Hamas non ha commesso nessuno di questi crimini.
Un aspetto notevole delle atrocità è che gli assassini di massa di Hamas non hanno cercato di nasconderle. Al contrario, le hanno trasmesse in tutto il mondo mentre le compivano. Armati di videocamere GoPro e dei cellulari delle loro vittime, i terroristi palestinesi nel sud di Israele hanno filmato lo stupro, lo smembramento, la tortura e l'esecuzione delle loro vittime sui loro stessi telefoni, postandoli nei gruppi WhatsApp e nelle pagine Facebook delle loro famiglie mentre li compivano. Hanno fatto lo stesso con le loro piattaforme social-media. Non c'è stato bisogno di ricercatori per setacciare gli archivi di Hamas. Le indicazioni per il massacro sono state trovate nei documenti che i terroristi hanno portato con sé in Israele.
Allora perché i sostenitori di Hamas strappano i manifesti dei bambini, delle donne e degli uomini israeliani rapiti e tenuti in ostaggio nella Striscia di Gaza? Eppure celebrano la presa di ostaggi nei loro post sui social media. Perché insistono con i loro compagni di università o con i passeggeri della metropolitana di New York e Johannesburg che non ci sono ostaggi a Gaza e che si tratta di una cospirazione sionista?
Per capire cosa sta succedendo e cosa rappresenta, dobbiamo guardare alla forma più popolare e potente di negazione dell'Olocausto oggi. Come Izabella Tabarovsky ha meticolosamente dimostrato in un articolo della rivista Tablet dello scorso gennaio, questa forma di negazione dell'Olocausto è stata coniata dai sovietici. È stata resa popolare da un terrorista palestinese di una certa fama: Il presidente dell'Autorità Palestinese e capo dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina Mahmoud Abbas.
Nel 1982, Abbas ha scritto una tesi di dottorato presso l'Istituto di Studi Orientali del KGB, che ha poi trasformato in un libro di successo. La sua tesi, intitolata "Il rapporto tra sionisti e nazisti, 1933-1945", è la base dell'educazione all'Olocausto nelle scuole palestinesi.
Abbas ha affermato che i sionisti erano nazisti. Ha insistito sul fatto che proprio come i nazisti si definivano suprematisti razziali ariani, i sionisti si definivano suprematisti razziali ebrei. Abbas ha sostenuto che l'Olocausto è stato uno sforzo di collaborazione tra i nazisti e la leadership sionista in terra d'Israele. David Ben-Gurion, ha scritto, aveva agenti in Europa che collaboravano con i nazisti. Il loro obiettivo, ha detto Abbas, era quello di sostenere il genocidio degli ebrei europei al fine di conquistare la simpatia internazionale per lo sforzo sionista di stabilire uno Stato suprematista ebraico nella terra di Israele, alias "Palestina".
Come ha spiegato Tabarovsky, il fascino delle affermazioni di Abbas per gli odiatori degli ebrei palestinesi e per i sovietici è evidente. In primo luogo, permette loro di evitare di rendere conto del ruolo che hanno avuto nell'assassinio di 6 milioni di ebrei. È stato il leader arabo palestinese Haj Amin al-Husseini - non Ben-Gurion o qualsiasi altro ebreo, sionista o meno - a collaborare con Hitler per annientare gli ebrei in Europa e nel mondo. E fu l'Unione Sovietica, non la leadership sionista, a firmare un patto di non aggressione con i nazisti. Insistendo sul fatto che sono stati gli ebrei a collaborare alla loro distruzione, sia i sovietici che i palestinesi sono stati in grado di proiettare la propria colpevolezza sul loro nemico: gli ebrei. Sono stati anche in grado di negare agli ebrei la legittimità morale di vittime.
Dopotutto, se gli ebrei si erano fatti da soli, nessun altro aveva nulla da rimproverarsi. E soprattutto, la presunta venalità degli ebrei significava che i nazisti avevano ragione. Gli ebrei sono malvagi e meritano di essere cancellati dalla carta geografica.
• Setacciando le ceneri
La stessa logica malevola e favorevole al genocidio guida oggi i sostenitori di Hamas in tutto il mondo.
Negli ultimi giorni sono emerse sempre più informazioni su come le vittime delle atrocità di Hamas siano state uccise e torturate con un sadismo inconcepibile fino al 7 ottobre. Mentre queste informazioni vengono diffuse, gli sforzi dei sostenitori di Hamas per demonizzare coloro che le diffondono si sono moltiplicati in modo esponenziale.
Consideriamo solo un esempio. Durante il fine settimana, Eli Beer, capo dell'organizzazione di soccorso United Hatzalah, ha raccontato a un pubblico ebraico americano la storia di un bambino di Kfar Aza. Il bambino, ha detto, è stato messo in un forno e bruciato vivo. In seguito è stato riferito che il padre del bambino è stato ucciso e lasciato morire dissanguato mentre la moglie veniva violentata in gruppo e giustiziata e il bambino bruciato vivo.
Ho pubblicato la storia sul mio account X-platform (ex Twitter). In poche ore il post è diventato virale. Mercoledì mattina era stato visualizzato da oltre 2,5 milioni di persone. Migliaia di persone lo avevano ripostato e altre migliaia avevano risposto.
Lunedì pomeriggio mi sono reso conto che la maggior parte dei repost e dei commenti erano a favore di Hamas. Molti facevano battute sull'atrocità. Ma la maggior parte dei post era una pura e semplice negazione del fatto che il crimine avesse avuto luogo. I post mi demonizzavano come "nazista sionista" che diffonde bugie. Alcuni post pro-Hamas hanno creato meme che mi dichiaravano bugiardo.
Una volta capito cosa stava succedendo, ho chiesto conferme a più persone, che ho ricevuto direttamente e indirettamente dalle Forze di Difesa Israeliane, dal governo israeliano, dal governo americano, dalla ZAKA (la società di recupero dei corpi e, in questo caso, delle parti del corpo) e da altre fonti. Ho anche appreso che il caso rivelato da Beer non era un evento isolato. Sono stati trovati diversi corpi di bambini con segni di griglia, che indicano che sono stati bruciati vivi nei forni.
Il professor Chen Kugel, capo dell'Istituto nazionale israeliano di medicina legale, supervisiona il processo di identificazione dei corpi delle vittime. Nelle apparizioni sui media dal 7 ottobre, Kugel ha ripetutamente descritto i cadaveri delle vittime bruciate vive. Si possono distinguere dalle vittime i cui corpi sono stati bruciati dopo l'esecuzione per la presenza di fuliggine nei polmoni. La fuliggine indica che le vittime respiravano mentre bruciavano.
Il processo di identificazione delle vittime è lungo perché Hamas ha ordinato ai suoi assassini di bruciare i corpi delle loro vittime. Kugel e altri hanno descritto i resti di molti corpi come quelli che si vedono in un forno crematorio. Avigail Gimpel, una volontaria della società di sepoltura ebraica Chevra Kadisha che ha preparato decine di corpi delle vittime per la sepoltura, ha raccontato che molti dei corpi che lei e i suoi colleghi hanno ricevuto erano palle di carbone. Gli archeologi dell'Autorità israeliana per le antichità sono stati chiamati a setacciare le ceneri delle case bruciate per separare i resti umani dai mobili e dai muri bruciati.
Nonostante le crescenti prove forensi e testimoniali, le negazioni continuano e si espandono. Se viste nel contesto della negazione dell'Olocausto da parte dei palestinesi, possono essere intese come funzionali a tre obiettivi correlati.
In primo luogo, le negazioni consentono alle persone abituate a sostenere i palestinesi, ma che amano essere considerate sincere, di sentirsi a proprio agio nel mettere in dubbio la verità. Per esempio, Eric Levitz, uno scrittore progressista del New York Magazine, ha pubblicato quanto segue su X il 22 ottobre:
"Ieri sera ho affermato che questo rapporto [relativo al massacro del 7 ottobre] indicava che erano stati decapitati dei bambini. È stata un'affermazione eccessiva. Avrei dovuto dire che il rapporto stabiliva che i bambini erano stati trovati senza testa, un fatto che rende plausibili le affermazioni sulla decapitazione, ma che non le prova".
Questa settimana, lo Yale Daily News ha pubblicato una correzione altrettanto depravata di un articolo di opinione che si riferiva al fatto che i terroristi di Hamas decapitavano e violentavano le loro vittime. Il giornale studentesco di Yale ha insistito sul fatto che le accuse non erano state provate.
Il secondo scopo della negazione dei sostenitori di Hamas è quello di criminalizzare Israele. Se Hamas non è colpevole, ovviamente lo è Israele. Abbas ha accusato gli ebrei di essere responsabili dell'Olocausto per rifiutare la legittimità morale dello Stato di Israele. Lo ha fatto anche per evitare di affrontare la colpevolezza palestinese per il genocidio, nonostante il ruolo di Husseini nel bloccare l'emigrazione ebraica nell'Israele pre-statale e il suo ruolo diretto nella realizzazione dell'Olocausto. Proprio così, i sostenitori di Hamas accusano ora Israele di aver ucciso il proprio popolo o di aver inventato la loro vittimizzazione per mano dell'organizzazione terroristica, al fine di costruire un caso in cui Israele sia il cattivo di questa storia. Questo permette agli odiatori degli ebrei di tutto il mondo di sentirsi a proprio agio nell'esprimere la loro avversione per gli ebrei. Se gli ebrei sono i cattivi, allora è morale odiarli. È morale stare dalla parte di Hamas. Ed è immorale sostenere gli ebrei e lo Stato di Israele.
Infine, una volta che la verità viene messa in dubbio e Israele viene incolpato come il cattivo, le negazioni dei crimini di Hamas facilitano la continuazione e l'espansione di tali crimini. L'obiettivo dichiarato di Hamas, come il partito Fatah di Abbas, è l'eliminazione dello Stato ebraico. Ovvero, il suo obiettivo è quello di mettere in atto un altro Olocausto. Dopo che Israele è stato incolpato di essere un bugiardo e un cattivo, il passo successivo è quello di spazzarlo via.
Agli ebrei e ai loro sostenitori, gli apologeti di Hamas che ora terrorizzano gli ebrei nei campus universitari e nelle città degli Stati Uniti e dell'Europa, e che si scatenano sulle piattaforme dei social media, sembrano pazzi. Come possono negare l'innegabile colpevolezza di Hamas?
Ma i sostenitori di Hamas non sono degli illusi. Sanno esattamente cosa stanno facendo.
Stanno conducendo una guerra psicologica contro i governi e le opinioni pubbliche occidentali. Il loro scopo è quello di gassare centinaia di milioni di persone, di indurle a mettere in discussione la loro presa sulla realtà e di intimidirle per farle tacere. Allo stesso tempo, cercano di incoraggiare i loro alleati e compagni di viaggio a schierarsi apertamente con Hamas, dimostrando che non hanno nulla da perdere nel farlo.
Se avranno successo, i loro sforzi produrranno un clima internazionale favorevole al raggiungimento del loro obiettivo comune di sradicare il popolo e lo Stato ebraico. Se avranno un successo parziale, lo sforzo bellico di Israele sarà minato e le aggressioni agli ebrei in tutto il mondo aumenteranno.
(Israel Heute, 3 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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La simmetria tra il nazismo e chi usa l'islamismo come causa per sterminare il popolo ebraico
di Claudio Cerasa
Il rappresentante permanente di Israele presso le Nazioni Unite, Gilad Erdan, tre giorni fa ha ricordato che le parole sono importanti e ha spiegato con un linguaggio asciutto e chiaro perché la comunità internazionale avrebbe il dovere storico, morale e politico di chiamare le cose con il loro nome e di ricordare ogni giorno che il nemico che Israele sta combattendo non è un solo gruppo di terroristi ma è la manifestazione più prossima a un male che il mondo libero ha già cercato di combattere con tutte le sue forze: il nazismo . I terroristi di Hamas, ha ricordato Erdan, sono “i nazisti dei nostri giorni”. E ancora: “Chi pensa che Hamas stia cercando una soluzione al conflitto sbaglia, perché l’unica soluzione a cui Hamas è interessato è quella finale: l’annientamento del popolo ebraico”.
A prima vista, il paragone tra l’islamismo fondamentalista di cui è espressione Hamas e le tesi naziste che hanno promosso lo sterminio degli ebrei in Europa durante l’Olocausto potrebbe apparire come una forzatura di Israele. La storia, come diceva Karl Marx, non si ripete. E se si ripete, al massimo, si ripete in farsa. Purtroppo, per quanto riguarda Hamas, le cose non stanno così. Due giorni fa, il settimanale francese Point ha ricordato la ragione per cui la storia di Hamas è inesorabilmente legata alla proliferazione delle teorie antisemite. Nel 1988, quando il gruppo terroristico presentò il suo primo “patto fondativo”, il popolo ebraico, all’articolo 7 della Carta, venne descritto come un nemico da abbattere, da annientare e da eliminare. E per giustificare questo obiettivo si scelse di fare leva sulle radici più estremiste dell’islamismo, evidenziando il modo in cui fu proprio Maometto a promuovere la caccia all’ebreo: “Il Movimento di resistenza islamico ha sempre cercato di corrispondere alle promesse di Allah, senza chiedersi quanto tempo ci sarebbe voluto. Il Profeta dichiarò: ‘L’ultimo giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l’albero diranno: O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me – vieni e uccidilo’”. La storia di Hamas, da questo punto di vista, è dunque esemplare di un fenomeno che ancora oggi, a un mese dall’attacco a Israele, appare sfumato nella narrazione quotidiana di ciò che è stato il 7 ottobre per il popolo ebraico. Al contrario di quello che spesso si sostiene, l’esplosione della violenza non è stata “provocata” dalle malefatte di Israele. Ma è stata provocata da un’ideologia che è il vero motore dell’azione degli islamisti. Il Point ricorda altri due episodi significativi. Il primo episodio riguarda la storia del collaboratore nazista Haj Amin al Husseini (noto anche come il “Mufti”), uno degli eroi di Hamas. Al Husseini, che incarna l’antisemitismo islamico contemporaneo e il rifiuto arabo di scendere a compromessi con la presenza di Israele, incontrò Hitler nel dicembre del 1942, lavorò con l’intelligence tedesca, contribuì a stabilire la divisione musulmana del SS in Yugoslavia e nel 1941 in Germania fu ospitato da Hitler. In quell’occasione, disse al ministro degli Esteri tedesco Joachim von Ribbentrop che gli arabi palestinesi da lui rappresentati erano “amici naturali della Germania perché entrambi sono impegnati nella lotta contro i loro tre nemici comuni: gli inglesi, gli ebrei e il bolscevismo”.
Il secondo episodio ricordato dal Poin riguarda uno studio interessante e recente realizzato da Meir Litvak, presidente del Dipartimento di studi mediorientali e africani dell’Università di Tel Aviv. Lo studio sottolinea un dato che spesso sfugge a molti osservatori contemporanei: la causa promossa da Hamas è una causa essenzialmente islamica e in quanto tale la lotta descritta dagli stessi terroristi è “come una dicotomia incolmabile tra due assoluti: una guerra di religione e di fede, tra islam ed ebraismo e tra musulmani ed ebrei, e non una guerra tra palestinesi e israeliani o sionisti”. Il Corano, in verità, come sanno i molti cristiani trucidati dagli islamisti integralisti, suggerisce una caccia generica agli infedeli, e non solo agli ebrei (“Combattete per la causa di Allah coloro che vi combattono, uccideteli ovunque li incontriate, scacciateli. Combatteteli finché il culto sia reso solo ad Allah”: sura 2, 190-193). Ma non capire che la guerra del terrore promossa da Hamas è una guerra al centro della quale vi è l’esistenza stessa del popolo ebraico significa non aver capito la portata di ciò per cui sta combattendo Israele. “Se tutti gli ebrei si riunissero in Israele – disse anni fa Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, che oggi si esprimerà su Israele – ci toglierebbero il disturbo di andarli a prendere in giro per il mondo”. Due popoli, uno stato [?!]. E chissà se è davvero una eresia sostenere che oggi l’ideologia più vicina al nazismo è quella veicolata da chi come Hamas sceglie di mettere l’islamismo fondamentalista al servizio di una propria causa: l’eliminazione del popolo ebraico.
Il Foglio, 3 novembre 2023)
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Del tutto condivisibile l'analisi della causa islamica e antiebraica di Hamas, ma che significa quell'inciso "Due popoli, uno stato"? Una proposta? un ideale? un pericolo da scongiurare? Serve chiarezza. Da approfondire anche l'equiparazione tra Hamas e nazismo come un male "che il mondo libero ha già cercato di combattere con tutte le sue forze". Poiché come "mondo libero" un foglio come "Il Foglio" dà per scontato che si debba intendere il mondo occidentale, bisogna ricordare che per combattere il male del nazismo il "mondo libero" west-europeo ha avuto bisogno del "mondo non libero" est-europeo russo". Se il nuovo nazismo è l'islamismo di Hamas, non sarebbe stato meglio trovare un accordo tra i due "mondi" contro il nazistico male di Hamas-islam? Ed ecco invece che il "mondo libero" a trazione anglo-americana si mette contro il "mondo non libero" russo. Perché? Ah già, per salvare la libertà. E poiché "Israele siamo noi", è inevitabile che anche Israele debba essere associato nella campagna per il salvataggio della libertà del mondo libero.
Solo che Israele non combatte per la libertà, ma per l'esistenza. Si è rimarcata la differenza? Gli Usa, che non hanno problemi di esistenza, vogliono conservare la libertà. Cioè la loro libertà di poter disporre, come nuovo popolo eletto, dei beni di tutto il mondo per il benessere di tutti. A questo scopo hanno ritenuto utile avere una politica morbida con l'Iran e una durissima con la Russia. Quindi hanno proclamato la difesa a oltranza dell'Ucraina, fino all'ultimo ucraino, perché i morti ucraini sarebbero morti per una grande causa: la libertà del mondo libero. I morti israeliani invece non sono morti per la libertà, ma per l'esistenza. Quelli massacrati nel sud di Israele perché gli islamici di Hamas hanno voluto che la loro esistenza fosse cancellata, quelli che ora muoiono in battaglia a Gaza perché gli israeliani vogliono che la loro esistenza sia mantenuta. Ecco perché se agli israeliani noi occidentali diciamo "Israele siamo noi", loro avrebbero buoni motivi per preoccuparsi. Agli israeliani dobbiamo dire "Israele siete voi", perché siete voi che vogliamo difendere, voi nella vostra esistenza, non noi nella nostra mistificata libertà. M.C.
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Ghazi Hamad (Hamas): “Ripeteremo il 7 ottobre fino a quando Israele non sarà annientato”
Ghazi Hamad, dell’ufficio politico di Hamas ha dichiarato in una trasmissione del 24 ottobre 2023 su LBC TV (Libano) che l’attacco del 7 ottobre contro Israele è stato solo l’inizio, promettendo di lanciare “un secondo, un terzo, un quarto” attacco finché il paese non sarà “annientato”. Ghazi Hamad – i cui commenti sono stati trascritti dal Middle East Media Research Institute (MEMRI), un think tank con sede a Washington – ha aggiunto nell’intervista alla LBC che “Israele non ha posto nella nostra terra. Dobbiamo rimuovere il Paese perché costituisce una catastrofe militare, politica e per la sicurezza”. Per quanto riguarda gli attacchi del 7 ottobre – che hanno provocato il massacro di oltre 1.300 israeliani nel sud e centinaia trascinati nella Striscia di Gaza – Hamad ha dichiarato che “dobbiamo dare una lezione a Israele, e lo faremo ancora e ancora”. Sull’uccisione su larga scala di civili, aggiunge: “Hamas non voleva danneggiare i civili, ma ci sono state complicazioni sul terreno. Tutto ciò che facciamo è giustificato”.
(Bet Magazine Mosaico, 2 novembre 2023)
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Pio IX e l’ambiguo dogma dell’Immacolata Concezione
La vecchia, “buona”, “sana” dottrina della chiesa cattolica romana di un tempo a cui molti cattolici scandalizzati dal mondanismo bergogliano vorrebbero tornare, in realtà non è affatto sempre buona e sana rispetto ai testi biblici, ma anzi contiene gravi eresie che non sono diventate più onorevoli col passar del tempo. Tra queste c’è il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria, inventato di sana pianta nel XIX secolo. Siamo grati al fratello in fede che ha scritto e ci ha segnalato la pubblicazione del seguente articolo. NsI
di Tommaso Todaro
Il 13 maggio del 1792 nasceva a Sinigaglia, piccola città delle Marche che affaccia sull’adriatico, dal conte Girolamo Mastai Ferretti e dalla contessa Caterina Solazzi, un figlio cui posero il nome di Giovanni-Maria, il futuro Papa Pio IX.
Eletto Papa dal conclave la sera del 16 giugno del 1846 al quarto scrutinio, dopo appena 48 ore dall’apertura dei lavori, fu incoronato nella Basilica di S. Pietro in Vaticano, il successivo 21 giugno.
«Gran rumore si mena da per ogni dove della liberale tendenza che manifestasi dal Papa Pio IX. Il grido universale lo saluta come l’astro foriero di libertà d’Italia» scriveva Camillo Mapei, ex prete cattolico e rifugiato politico a Londra, in un periodico mensile misconosciuto, quanto gagliardamente avversato dal Vaticano, dal titolo L’eco di Savonarola.
Il periodico, a tiratura mensile, diffuso prevalentemente tra gli evangelici italiani residenti nel Regno Unito, che spesso versavano in condizioni di indigenza, aveva una tiratura molto limitata e si reggeva unicamente sulla contribuzione di coloro che potevano pagare l’abbonamento e sul lavoro gratuito del redattore.
La rivista pubblicava gli articoli scritti da personaggi accomunati dalla fedeltà al Vangelo e dall’amor di patria, per lo più esuli perseguitati, tra cui spiccavano le firme di Salvatore Ferretti, dello stesso Mapei, di Gabriele Rossetti e di tantissimi altri....
(Nuovo Monitore Napoletano, settembre 2023)
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Parashà di Vayerà: Il passato era perduto; il futuro, un’illusione
di Donato Grosser
Alla fine della parashà, la Torà ci racconta quella che fu la decima ed ultima prova del patriarca Avraham, con queste parole: ”Dopo queste cose, avvenne che Iddio mise alla prova Avraham, e gli disse: Avraham! Ed egli rispose: Eccomi. E Dio disse: Prendi ora tuo figlio, il tuo unico, colui che ami, Yitzchàk, e vattene (lekh lekhà) nel paese di Morià, e offrilo lì in olocausto sopra uno dei monti che ti dirò”(Bereshìt, 22: 1-2). Nell’introduzione al volume di Bereshìt di Mesoras Harav, l’opera nella quale furono raccolti alcuni insegnamenti sulla Torà di r. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston), il suo discepolo r. Menachem Genack (USA, 1949- ) direttore generale della casherut della Orthodox Union e della casa editoriale dell’organizzazione, trattò l’argomento della “‘akedàt Yitzchàk”, il legamento di Yitzchàk all’altare per essere sacrificato. In questa introduzione r. Genack scrisse che l’espressione “lekh lekhà” (vattene) appare solo due volte nella Torà. La prima volta fu quando l’Eterno disse ad Avraham: “Vattene dal tuo paese e dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre, nel paese che ti mostrerò” (ibid., 12:1). La seconda volta appare in questa parashànella quale l’Eterno comanda ad Avraham di sacrificare il figlio. Entrambi i comandamenti furono parte delle prove di Avraham. Nel primo caso l’Eterno disse ad Avraham di rinunciare al suo passato; nel secondo caso di rinunciare al suo futuro. Il primo lekh lekhà era un ordine di formare un nuovo popolo con il supporto divino. Avraham doveva creare una nazione senza il beneficio di un storia nazionale; creare una cultura senza una ricca tradizione; formare una società senza una massa critica di amici e parenti. Il secondo lekh lekhà era il decreto divino che il futuro di Avraham era un’illusione. Qualunque fossero i sogni e le aspirazioni di Avraham, sarebbero stati distrutti in modo permanente. Le promesse di diventare un grande popolo sarebbero svanite con la morte di Yitzchàk. Solo la suprema fede di Avraham gli diede la forze di perseverare e di seguire il comando divino in ognuno dei due lekh lekhà. R. Soloveitchik in Mesoras Harav (p.148) commenta che quando Avraham arrivò al monte Morià, il sacrificio era un fait accompli . Nella mente di Avraham, Yitzchàk non c’era più. Nella sua mente il sacrificio di suo figlio era già stato consumato. Non c’era più bisogno di un sacrificio fisico perché Avraham aveva soddisfatto il comando divino ancora prima di arrivare al monte Morià. Tutto quello che l’Eterno richiedeva ora da Avraham, era un sacrificio sostitutivo: “E Avraham alzò gli occhi, guardò, ed ecco dietro a sé un montone, preso per le corna in un cespuglio. E Avraham andò, prese il montone, e l’offerse in olocausto invece di suo figlio” (ibid. 13). Il nonno omonimo di r. Soloveitchik (Russia, 1820-1892), noto per la sua opera Bet Ha-Levi, commentò che quando Avraham disse all’Eterno: “Io sono polvere e cenere” (‘afar ve-efer) (ibid, 18:27), Avraham voleva dire che senza l’aiuto divino non aveva né un passato né un futuro. La polvere, la terra, non ha passato ma ha un futuro; ha un potenziale se viene coltivata. La cenere invece è ciò che rimane dalla vitalità passata e nulla può più crescere dalla cenere. La cenere ha un passato ma non ha futuro.
(Shalom, 3 novembre 2023)
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Parashà della settimana: Vayerà (Apparve)
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Spade di ferro - giorno 26. Lo scontro urbano
di Ugo Volli
Circa venti soldati israeliani sono caduti in combattimento negli ultimi due giorni. Una decina di loro, militari della brigata di fanteria Givati, sono stati colpiti assieme, su un veicolo blindato di trasporto truppe centrato da un razzo anticarro. Purtroppo queste dolorosissime perdite sono quasi inevitabili nonostante la superiorità militare israeliana e sono destinate ad aumentare col procedere dell’operazione. I terroristi si affacciano dai loro nascondigli nelle case e soprattutto da botole di uscita dei tunnel sotterranei e sparano i proiettili anticarro (detti RPG). I più moderni in mano ad Hamas sono i Kornet a guida laser progettati dai russi e oggi fabbricati in Iran. Solo ieri vi sono stati centinaia di attacchi con questi mezzi. I nuovi veicoli che usa l'esercito, preceduti da droni per scoprire le trappole, sono potentemente corazzati (difesa passiva), usano fumogeni per nascondersi al tiro e hanno anche contromisure elettroniche di difesa attiva: quasi sempre riescono a evitare di essere colpiti e a neutralizzare i terroristi. Ma purtroppo in questo ambito non esiste la certezza assoluta. Il lavoro di ripulitura degli apparati terroristi procede in mezzo a questi ostacoli. Ieri c’è stata di nuovo un’importante battaglia a Jabalyia, al nord di Gaza, dove sono stati eliminati molte decine di terroristi ed è stato conquistato un punto fortificato. Il portavoce dell’esercito ha dichiarato ieri sera che “l 'operazione di terra sta procedendo come previsto. Grazie a una pianificazione anticipata, a informazioni precise e ad attacchi combinati, le nostre forze hanno sfondato la prima linea di difesa dell'organizzazione terroristica di Hamas nel nord della Striscia di Gaza.”
• Il problema del combattimento urbano
Siamo insomma ormai entrati nella fase più difficile della guerra di Gaza, quella del combattimento urbano, che Hamas aspettava dall’inizio come occasione per imboscate e bombe trappola, progettate per infliggere perdite pesanti a Israele. Per capire le difficoltà che deve affrontare l’esercito, è utile citare l’opinione di due esperti militari americani, il colonnello Laem Collins e il maggiore Spencer che hanno scritto un libro sull’argomento e sono stati intervistati dall’agenzia ‘Infos Israel News’: “Nell’ambiente urbano l'esercito israeliano non può usare un vantaggio importante come la capacità di colpire prima di avvicinarsi al nemico. Esso vi perde anche la possibilità di effettuare manovre combinate, cioè aggirare il nemico e circondarlo. In città, il nemico ha molte opportunità per nascondersi e non farsi notare dalla ricognizione terrestre o aerea dei droni. A Gaza tutto ciò è ancora più pericoloso a causa dei tunnel attraverso i quali manovra il nemico. I terroristi di Hamas possono muoversi per linee interne di edificio in edificio, abbattendo i muri tra le case. È difficile distruggerli lì, fra i civili ed altri edifici. In un ambiente del genere bombe e missili sono meno efficaci. Hamas gioca per guadagnare tempo, perché il tempo è suo alleato: la pressione su Israele aumenterà a causa delle inevitabili perdite civili. Il loro obiettivo non è distruggere l’esercito israeliano. Non possono farlo. L’obiettivo è risparmiare tempo”, dicono gli esperti. Essi ritengono che “il principale vantaggio israeliano in questo ambiente risieda nell'uso di grandi bulldozer militari. Non devono temere gli attacchi dei razzi anticarro e possono distruggere gli edifici dove i terroristi si annidano. Un altro vantaggio che l'IDF cercherà di sfruttare è la capacità di condurre combattimenti notturni.”
• Che cosa fa l’esercito israeliano per contrastare la minaccia
Vi è da parte israeliana una stretta censura sui movimenti delle truppe per evitare che Hamas possa reagire in tempo. L’asimmetria informativa è uno dei vantaggi di Israele. sappiamo comunque che oggi l’operazione è concentrata nel Nord, nei due angoli settentrionali della Striscia e subito a sud di Gaza, dove essa è quasi tagliata trasversalmente dalle forze israeliane. I bulldozer D9 vengono utilizzati per rimuovere trappole esplosive e mine e altri ostacoli prima che i soldati avanzino. La forza aerea, in particolare i droni, e anche l’artiglieria e i carri armati vengono ampiamente utilizzati insieme alle forze di terra per colpire i terroristi, che sono costretti a uscire dai loro nascondigli per contrastare le forze di terra. Anche quando sparano rivelano la loro posizione e sono attaccati.
• Le sfide future
Nonostante tutti i successi, Israele riesce a eliminare al massimo qualche decina di terroristi alla volta, mentre vi sono molte migliaia o anche ad alcune decine di migliaia di terroristi che attendono nei loro nascondigli l’ordine di entrare in combattimento, quando vi saranno più forze israeliane in gioco. La battaglia principale non è ancora iniziata. L’esercito non ha ancora tentato di penetrare nell'ospedale di Shifa o in altre aree critiche dove si nascondono i capi di Hamas. Nonostante il salvataggio di un ostaggio avvenuto l’altro ieri, la stragrande maggioranza dei 230 ostaggi sono ancora nelle mani dei terroristi. Si pensa che Hamas tiene molti ostaggi in aree sensibili per dissuadere Israele dall'attaccare quelle aree, soprattutto nei confronti dei massimi leader di Hamas. Israele è molto preoccupato per le reazioni internazionali via via più negative, ma non sono riusciti a elaborare una strategia migliore per raggiungere gli obiettivi di guerra più rapidamente senza perdere più soldati e uccidere più civili. Alla battaglia sul terreno si affianca sempre più la resistenza diplomatica per permettere all’esercito di eliminare totalmente i terroristi. Entrambe saranno molto dure e rischiano di durare mesi.
(Shalom, 2 novembre 2023)
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Israele piange i caduti della Givati. Pedaya, Lavi e gli altri giovani eroi
Il figlio di un rabbino ucciso. Il ventenne e la ragazza che lo aspetta.
di Fiamma Nirenstein
«Forza bambino, ringraziamo il cielo, sei forte ce la farai». Invece lui tutto pesto, con un occhio gonfio, piange senza rumore, è ancora piccolo nel luglio 2016, si appoggia al fratello che arriva di corsa sulla strada su cui di traverso si vede la macchina del padre. Il piccolo si chiama Pedaya Mark, figlio del rabbino Miky, appena ucciso sulla strada vicino a Hebron. La madre giace gravemente ferita e anche la sorella Teillah appena più grande di lui, sanguina. Lui le ha parlato per tenerla in vita finché sono arrivati i soccorsi; sempre lui, ha trovato il telefono e chiamato l'ambulanza. Un bambino dolce e diretto, appena ieri un bel ragazzo di 22 anni, con i riccioli laterali e una continua propensione al sorriso, è stato ucciso a Gaza con altri 15 ragazzi, per la maggior parte del suo gruppo, i mitologici Givati. Era il secondo luogotenente del battaglione. Pedaya ha vissuto sempre nel vento di tempesta dello scontro con i terroristi. Suo zio Elhanan è stato ucciso correndo a battersi il 7 ottobre. Una famiglia di eroi d'Israele, caduto perché il suo mezzo corazzato, un Namer (tigre), avventuratosi fra gli edifici nelle vicinanze di Gaza city è stato colpito da un proiettile antitank.
I soldati uccisi ieri sono stati 16, un numero che testimonia la difficoltà dell'avanzare delle truppe israeliane nella trappola di Gaza, un meandro urbano costruito solo per fare la guerra, in cui ogni casa, ospedale, scuola, ospita le armi e gli uomini di Hamas, ogni cittadino al piano inferiore o superiore è uno scudo umano. I genitori dei ragazzi in guerra, in questo Paese postmoderno, in cui per legge si attraversa per la mano fino all'età di nove anni e i bambini sono principi, dal momento i figli che partono non vivono più, ogni macchina che arriva di fronte alla loro porta, ogni campanello che suona, la tensione raggiunge il diapason.
E tuttavia prevale la sicurezza, più di sempre, che questa guerra è necessaria, che le belve non devono restare sulle porte del Paese perché possa vivere, che i cittadini sfollati devono tornare a casa. La concordia è forte, non c'è posto per il pacifismo. Nella battaglia sul campo, i terroristi, i missili, sono in agguato, i terroristi preparano lo scontro dal 2005. I Givati sono incredibili combattenti, fanteria di prima classe, che conosce il terreno di Gaza metro per metro. Pedaya nel 2022 aveva detto che da quando suo padre era stato ucciso aveva capito quanto fosse importante essere un combattente. E così è stato fino all'ultimo: sul blindato con altri sei. Si deve immaginare un territorio semicostruito, in ogni costruzione può nascondersi un lanciamissili, sotto ogni edificio può sboccare la rete che i terroristi stessi hanno descritto, un meandro di 500 chilometri, un groviglio di trappole, armi, esplosivi, celle per gli ostaggi.
Due altri soldati sono stati uccisi raggiunti da un missile mentre perquisivano un edificio, altri col tank su una bomba anticarro. Ognuno dei 16 ha una storia di ragazzo, di sogni, musica, scienza, tecnologia. L'inizio della vita.Sul primo, forse, a morire, Lavi Lipshitz, 20 anni, anche lui un Givati, bello come un attore, circola un video per una ragazza incontrata per caso: riassume l'incontro casuale rimasto nel cuore, alla fine si butta: «Are you free thursday night?». Sei libera giovedì sera? scrive. Tutta Israele sa che Lavi non ha potuto andare all'appuntamento. Ma questa guerra segue l'inferno nazista del 7 ottobre, la gente d'Israele cerca di consolarsi: i soldati hanno verificato le abitazioni di una grande zona, hanno ripulito Jabalia da 500 terroristi, hanno identificato le posizioni militari da cui sparano, hanno compiuto «incontrando significativa resistenza» operazioni in cui gli scambi a fuoco hanno dato loro un netto vantaggio. Hanno catturato o eliminato molti responsabili del 7 ottobre. Di Sinwar, l'inventore del sabato nero, si dice che si aggiri come Hitler nel bunker, disegnando morte prima di tutto per il suo popolo.
(il Giornale, 2 novembre 2023)
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Antisemitismo, la mappa dell’odio in Europa
Dalla Francia all’Austria alla Germania, un rigurgito che toglie il sonno al Vecchio Continente, preoccupato dal ritorno di uno dei periodi più bui del secolo scorso,
di Danilo Ceccarelli
PARIGI. In Europa il fantasma dell’antisemitismo torna a far paura, soprattutto dopo lo scoppio dell’ultima crisi tra Israele e Hamas. Negli ultimi giorni in diversi Paesi del Vecchio Continente si sono verificati una serie di episodi di odio e intolleranza contro le comunità ebraiche che hanno portato le autorità ad innalzare i livelli di sicurezza. Come quelli registrati in queste ultime ore nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove sono state annerite ben quattro pietre di inciampo, dedicate ad Aurelio Spagnoletto e a Giacomo, Eugenio e Michele Ezio Spizzichino, deportati nei campi di concentramento di Mauthausen e Auschwitz tra il 1944 e il 1945.
A Vienna, invece, questa notte la sezione ebraica del cimitero centrale è stata incendiata, mentre sui muri esterni sono state ritrovate delle svastiche. Sul caso è stata aperta un’inchiesta, mentre il cancelliere austriaco Karl Nehammer, ha condannato “con fermezza l’attacco”, sottolineando che “l’antisemitismo non ha posto” nella società austriaca. Un caso che non sembra essere isolato: “Il numero di incidenti antisemiti in Austria è considerevolmente aumentato in queste ultime settimane. Deve finire!”, ha scritto su X (ex Twitter) il presidente Alexander Van der Bellen.
Una tendenza che si registra anche in Francia, almeno stando ai dati diffusi lunedì dal ministro dell’Interno Gerald Darmanin, che ha annunciato 819 atti antisemiti e 414 fermi avvenuti dal 7 ottobre, data dell’attacco di Hamas a Israele, ad oggi. “Ai francesi di confessione ebraica” voglio dire che “sono protetti dalla Repubblica”, ha spiegato il ministro, ricordando che 11mila agenti sono stati impiegati su tutto il territorio. Ma la tensione resta alta, soprattutto dopo le stelle di David rinvenute sui muri di diversi quartieri di Parigi e in alcuni comuni della banlieue negli ultimi giorni. Secondo quanto riferisce “BfmTv”, una coppia moldava presente irregolarmente in Francia è stata fermata il 27 ottobre perché sospettata di aver disegnato una quindicina di stelle di David. Gli autori, però, sono tanti, almeno stando alle tipologie di graffiti. La Francia tiene quindi gli occhi aperti, come dimostra l’inchiesta aperta dalla Prefettura della polizia di Parigi dopo che sui social è circolato un video raffigurante un gruppo di persone scandire canti antisemiti e nazisti nella metropolitana.
La tensione resta alta anche dall’altra parte della Manica: solamente ad ottobre a Londra sono stati recensiti 408 atti antisemiti, contro i 28 riscontrati lo stesso mese del 2022. Atti isolati ma comunque preoccupanti, come quello dell’uomo che lo scorso fine settimana è stato arrestato nella capitale britannica per aver urlato “Che dio maledica gli ebrei!”.
In Germania il direttore dell’intelligence interna Thomas Haldenwang ha dichiarato allo Spiegel che, sempre dal 7 ottobre, si sono verificati 1.800 reati di carattere antisemita. Tra quelli più gravi c’è la molotov lanciata recentemente contro una sinagoga a Berlino.
Un rigurgito che toglie il sonno al Vecchio Continente, preoccupato dal ritorno di uno dei periodi più bui del secolo scorso.
(La Stampa, 2 novembre 2023)
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Esiste una società, una “cultura” che ha la volontà di sopprimere gli ebrei, dissacrarli, disumanizzarli
di Paolo Salom
Scrivere dal lontano Occidente è sempre più doloroso. Le immagini del brutale attacco dei terroristi di Hamas contro i civili israeliani saranno impossibili da dimenticare ed entreranno anzi nella tragica memoria collettiva al fianco di quelle che speravamo consegnate alla Storia, ovvero le testimonianze visive della Shoah.
È bene non farsi illusioni, perché la verità nuda e cruda è emersa in tutta la sua insopportabile violenza. Esiste una società, una cultura che ha nell’animo la volontà di sopprimere gli ebrei, ucciderli, dissacrarli, disumanizzarli. C’è chi lo dichiara da anni impunemente, ovvero chi si riconosce nell’organizzazione islamista Hamas; e chi ricopre questi desideri di false dichiarazioni “di pace e convivenza” una volta che Israele si sarà ritirato da Giudea, Samaria e Gerusalemme Est, ovvero i sostenitori di Abu Mazen e del Fatah. Ma sappiamo che, potendo scegliere, si accoderebbero ai metodi di Hamas. Lo provano del resto le scene di giubilo nelle piazze delle città palestinesi ogni volta che un “ebreo” viene trucidato.
È ora di raccontare, dunque, prima di tutto a noi stessi, come stanno le cose, perché anche molti di noi continuano a covare l’illusione di “due Stati per due popoli”, un’espressione ripetuta come un mantra da decenni a questa parte. La triste realtà è che tutto questo è una menzogna smentita a ogni tragedia annunciata. Io non ho ricette, non ho certezze, non ho una soluzione. Ma so che, prima di capire come risolvere un problema, per quanto grave, è indispensabile accettarne l’esistenza. Può essere molto doloroso farlo. E può anche darsi che non tutto sia compreso. Ma è impossibile affrontare sfide come quelle che si trova di fronte Israele (e con Israele tutti gli ebrei del mondo, sia chiaro) senza la piena consapevolezza che il domani non sarà mai come viene descritto nei simposi internazionali (o sui media), ma prenderà la forma che noi vorremo dargli.
Un esempio per chiarire che cosa intendo. Se Israele è stato colto di sorpresa (e non c’è dubbio che sia avvenuto) la colpa immediata può essere di chi in quelle ore era distratto, certamente. Ma il processo mentale che ha consentito questa distrazione arriva da lontano. È stato nutrito dalle divisioni interne al Paese da una parte e dall’idea, derivata da una concezione della società democratica e aperta, che tutto può avere una soluzione e che, dunque, l’altra parte – il mondo arabo-palestinese – avrebbe bisogno soltanto di tempo per “diventare come noi”. Non è così. E il lontano Occidente comincia a capirlo, anche se con grande difficoltà, questa “resistenza” ai valori del mondo occidentale – per valori intendo: democrazia, uguaglianza, libertà – è una febbre che travalica confini e spinge le nazioni a combattersi.
Ora, non ha importanza sapere se le azioni di Hamas sono state decise a Teheran o a Mosca. Perché comunque hanno trovato nei terroristi di Gaza orecchie più che pronte ad accoglierle. Ed è questo che, ora, deve interessare gli israeliani e i loro fratelli della Diaspora, cioè noi. Si può scendere a patti con chi ti vuole distruggere? No, non si può. La scelta non è più tra noi e un “loro in futuro” (non dobbiamo essere troppo duri perché siamo destinati a convivere).
Non ci sarà convivenza perché, molto semplicemente, i nostri nemici sono votati alla totale distruzione dello Stato di Israele, un pezzo alla volta. Chiunque sarà alla guida del magnifico frutteto ricostruito nella terra dei nostri Padri e delle nostre Madri avrà il compito arduo, ma non impossibile, di correggere gli errori fatti (in buona fede) finora per garantire un futuro a tutti gli ebrei. Perché, sia chiaro, il nostro destino, quello della Diaspora e dello Stato ebraico, è legato e indissolubile, ora più che mai. Am Israel Chai.
(Bet Magazine Mosaico, 2 novembre 2023)
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Date la colpa a Hamas per le sofferenze della popolazione civile nella Striscia di Gaza
Hamas ha la possibilità di porre fine alle attuali sofferenze di Gaza quasi immediatamente, rilasciando tutti gli ostaggi e offrendo una resa incondizionata.
di Noah Beeck
Quando le immagini orribili delle sofferenze dei civili a Gaza inondano i media e infiammano le emozioni al di là di ogni analisi razionale, la sfida è quella di mantenere la lucidità su chi sia responsabile degli orrori che si stanno verificando.
Date dunque a Hamas la colpa per tutte le sofferenze patite dalla popolazione di Gaza dopo il 7 ottobre, perché il 6 ottobre non c'era motivo per Israele di rivolgere la sua forza militare contro Gaza. In effetti, il massacro del 7 ottobre è stato possibile in parte perché Israele è stato indotto a credere che Hamas fosse interessato alla prosperità economica.
Ma il 7 ottobre Hamas ha invaso il territorio israeliano, ha rapito oltre 230 israeliani e ha massacrato 1.400 persone, il che equivale a quasi 52.000 morti negli Stati Uniti - circa diciassette 11 settembre in un giorno - e circa 8.500 americani presi in ostaggio. E l'orribile ferocia di questi omicidi e rapimenti, anche se in numero molto inferiore, probabilmente indurrebbe la maggior parte dei militari del mondo ad agire in modo molto più aggressivo e deciso di quanto abbia fatto finora Israele. In effetti, con un solo 11 settembre, gli Stati Uniti hanno lanciato guerre massicce contro due Paesi dall'altra parte del pianeta, causando centinaia di migliaia di morti tra i civili. Quindi una risposta militare devastante alle atrocità di massa di Hamas era del tutto prevedibile, lasciando Hamas come unico responsabile dell'attuale conflitto. Dal punto di vista legale, Hamas è stato la «causa prima» dell'attuale guerra: se non ci fosse stato nessun massacro di Hamas il 7 ottobre, non ci sarebbe stata nessuna "Operazione Spade di Ferro" da parte dell'esercito israeliano in seguito.
Sarebbe stato colpevole da parte di qualsiasi governo israeliano non perseguire la completa eradicazione di Hamas dopo il massacro del 7 ottobre, che ha reso innegabile l’intento omicida dell'organizzazione terroristica. Lo statuto di Hamas dichiara apertamente l'obiettivo di uccidere tutti gli ebrei, ma questo obiettivo non è mai stato perseguito su una scala così schiacciante e con atrocità così feroci orgogliosamente registrate e diffuse da Hamas. Inoltre, la grande quantità di armi, cibo e rifornimenti trovati addosso agli attentatori dimostra che Hamas intendeva attaccare diverse grandi città israeliane in un periodo di diverse settimane e che voleva massimizzare le uccisioni di israeliani, come dimostrano le istruzioni trovate per la fabbricazione di un'arma chimica al cianuro. Non c'è quindi più alcun dubbio sulle intenzioni di Hamas, né ci si può illudere che Israele possa in qualche modo imparare a convivere con un simile vicino, o che ci sia una qualche speranza di coesistenza pacifica con i palestinesi dentro o fuori Gaza finché Hamas sopravvive.
Quindi, incolpate Hamas per aver iniziato l'attuale guerra, e incolpatelo per ogni giorno in cui questa guerra continua, con tutte le morti civili che ne derivano, i danni alle proprietà, le crisi umanitarie e la miseria generale. Esaminando i tre principali cicli di violenza tra Hamas e Israele, emerge uno schema evidente: più a lungo dura il conflitto, più morte e distruzione ci sono, fino al giorno in cui Hamas è abbastanza sottomesso da accettare un cessate il fuoco. Le stime delle vittime riportate di seguito includono sia i morti tra i combattenti che tra i civili in ciascuna delle principali operazioni israeliane a Gaza:
Si noti che ognuna delle suddette operazioni è stata provocata da attacchi missilistici di Hamas contro i civili israeliani, quindi Hamas è anche responsabile di tutte le perdite di vite e proprietà a Gaza in ognuna di queste guerre. In media, a Gaza sono morte circa 34 persone al giorno, ma poiché Israele sta combattendo questa volta per eliminare una minaccia esistenziale una volta per tutte, il bilancio giornaliero delle vittime è già molto più alto e potrebbe rapidamente aumentare.
Hamas, tuttavia, ha la possibilità di porre fine alle attuali sofferenze di Gaza quasi immediatamente, rilasciando tutti gli ostaggi e offrendo una resa incondizionata, che spingerebbe l'esercito israeliano a cessare l'assalto una volta confermata la resa di Hamas.
Proprio come Hamas sapeva che il suo massacro avrebbe provocato una massiccia azione militare israeliana, sa anche che alla fine perderà l'attuale guerra a causa della schiacciante superiorità militare e del morale inarrestabile di Israele, poiché gli israeliani sono ora più che mai convinti che Hamas minacci la loro esistenza.
Quindi Hamas e Gaza non usciranno da questo ciclo di violenza meglio di quelli precedenti, ma la durata dei danni di questa guerra dipende interamente da Hamas. Dopo il massacro del 7 ottobre, tutti sanno che l'operazione militare di Israele non può fermarsi fino a quando la minaccia genocida di Hamas per i civili non sarà eliminata. In effetti, gli Stati Uniti hanno condotto una guerra per decenni per eliminare la minaccia rappresentata dai gruppi terroristici islamici. Quindi l'unica domanda da porsi è quanta morte e distruzione Hamas voglia infliggere alla popolazione civile di Gaza prima di smettere di combattere. Pertanto, la comunità internazionale dovrebbe fare ciò che non ha mai fatto prima ed esercitare pressioni su Hamas affinché accetti la sua sconfitta "in anticipo" e si arrenda senza condizioni, al fine di risparmiare alla popolazione civile di Gaza ulteriori morti e devastazioni.
In realtà, la colpa della miseria di Gaza è anche della comunità internazionale, che ha ripetutamente permesso ad Hamas di continuare il suo distruttivo regno del terrore facendo pressione su Israele per ottenere un cessate il fuoco dopo ogni serie di violenze provocate da Hamas. Se i media e i leader mondiali sostenessero invece una vittoria militare finale di Israele, libererebbero la popolazione di Gaza dai tirannici governanti di Hamas e ispirerebbero finalmente la speranza di pace e di un futuro migliore a Gaza.
Ma finché si permetterà ad Hamas di sopravvivere, la popolazione di Gaza soffrirà, perché Hamas ha dimostrato più volte di odiare gli israeliani più di quanto gli importi della popolazione di Gaza. Infatti, Hamas è responsabile di aver trasformato Gaza in uno Stato terroristico fallito che ha costantemente bisogno di aiuti umanitari e che dirotta il denaro degli aiuti per comprare armi e costruire tunnel del terrore.
Quando si vedono immagini orribili di morte e distruzione di civili all'interno o vicino a strutture mediche, moschee o scuole a Gaza, la colpa è di Hamas. Il gruppo terroristico usa i tunnel sotto gli ospedali per trasportare armi ed esplosivi perché Hamas presume che Israele non attaccherà tali strutture. In realtà, Hamas ha usato ospedali, moschee e scuole per scopi militari nella guerra del 2014 contro Israele. Quindi, prendendo di mira i civili israeliani e nascondendosi dietro i civili gazani che fungono da scudi umani, Hamas sta commettendo un doppio crimine di guerra.
Hamas è responsabile dell'attuale crisi umanitaria a Gaza, dove il carburante e altre forniture essenziali sono diventate pericolosamente scarse. Come riporta il New York Times, Hamas ha accumulato per anni carburante, cibo e medicine, oltre a munizioni e armi, nei chilometri di tunnel che ha scavato sotto Gaza. Perché la comunità internazionale non chiede ad Hamas di consegnare alla popolazione civile di Gaza le forniture di cui ha disperatamente bisogno?
Infine, i media dovrebbero essere biasimati per non aver incolpato Hamas quando trasmettono immagini infinite delle sofferenze della popolazione civile di Gaza. L'indignazione globale che ne deriva è esponenzialmente maggiore di quella per i civili feriti in Siria (oltre 300.000 morti), Armenia (circa 120.000 sfollati), Etiopia (circa 600.000 morti) e in innumerevoli altre zone di conflitto. Nel frattempo, la compassione per i civili israeliani vittime del massacro del 7 ottobre che ha dato inizio a questa guerra è quasi scomparsa.
(Israel Heute, 2 novembre 2023 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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La perenne attualità del Lupo
di Niram Ferretti
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Vladimir, Ze’ev Jabotinsky |
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Vladimir, Ze’ev Jabotinsky morì improvvisamente nel 1940, a causa di un infarto. Non fece in tempo a vedere la nascita di Israele. Così come Mosè non riuscì entrare nella terra promessa vedendola solo da lontano, Jabotinsky non riuscì entrare nello Stato ebraico quando venne proclamato. Ci sarebbe entrato da morto solo nel 1964 grazie all’allora Primo Ministro di Israele, Levi Eshkol, che permise quello che David Ben Gurion non aveva mai permesso.
La storia non si fa con i se. Ma Jabotinsky non avrebbe sicuramente accettato il piano di partizione del 1947 approvato dalle Nazioni Unite con la Risoluzione 181 e che defraudava ulteriormente il popolo ebraico concedendo agli arabi Giudea e Samaria.
Come avrebbe potuto Jabotinsky accettare un simile obbrobrio che violava lo stesso Articolo 80 dello Statuto della allora Società delle Nazioni che legittimava il Mandato Britannico per Palestina del 1922 il quale stabiliva inequivocabilmente che gli ebrei avevano il diritto di risiedere in tutti i territori a occidente del Giordano, e smembrava ulteriormente queste terre?
La Risoluzione 181, nonostante questo ulteriore impoverimento del territorio concesso agli ebrei, venne accettata dall’Agenzia ebraica e respinta dagli arabi.
Terra in cambio di pace. Una pace che non è mai arrivata e che Jabotinsky, con l’estrema lucidità che lo connotava, sapeva che non sarebbe mai arrivata se gli arabi non fossero stati costretti ad ammettere che Israele non poteva essere annientato.
In uno dei suoi articoli più famosi, Il Muro di Ferro, pubblicato il 4 novembre del 1923 scriveva:
“E inutile sperare, in alcun modo, in un accordo tra noi e gli arabi accettato volentieri, né adesso né in un futuro prevedibile…Messi da parte i ciechi dalla nascita, tutti i sionisti moderati hanno capito che non c’è la minima speranza di ottenere l’accordo degli arabi di Palestina per trasformare questa ‘Palestina’ in uno Stato in cui gli ebrei sarebbero maggioranza…La mia intenzione non è quella di affermare che un qualsiasi accordo con gli arabi palestinesi sia assolutamente fuori questione. Fino a quando sussiste, nello spirito degli arabi, la minima scintilla di speranza di potersi un giorno disfarsi di noi, nessuna buona parola, nessuna promessa attraente indurrà gli arabi a rinunciare a questo spirito”.
Quello che è accaduto il 7 ottobre è il pegno più alto pagato da Israele per avere negato questa verità. Da ex militare e da realista senza cedimenti, Jabotinsky sapeva che solo la determinazione risoluta della forza poteva e può indurre un nemico intenzionato a distruggerti, a negarti il diritto all’esistenza, a recedere dai suoi propositi.
Hamas non ha mai fatto alcun mistero della sua volontà di distruggere Israele, è tutto scritto nero su bianco nel suo Statuto del 1988, un manifesto intriso di antisemitismo e la cui volontà programmatica eliminazionista, fa apparire le pagine del Mein Kampf, carezzevoli.
Ciò nonostante, con Hamas si è voluto “negoziare”, gli si è permesso di consolidarsi nella Striscia, di affinare le sue tecniche, di prepararsi allo sterminio di ebrei. Si è applicato il metodo fallimentare del “teniamoli buoni”.
È il metodo delle concessioni, quello che Israele ha sempre applicato, quello che gli Stati Uniti lo hanno fortemente spinto ad accettare per non inimicarsi il mondo arabo. È il metodo della rinuncia alla determinazione, l’esatto contrario di quello che Jabotinsky, esattamente cento anni fa, con lucidità presciente, chiedeva di applicare.
Ora, dopo l’eccidio, ci si accinge a fare quello che andava fatto molto tempo fa, e che va fatto sempre ogniqualvolta il nemico non cede e non concede, metterlo nella condizione di dovere rinunciare definitivamente ai suoi propositi distruttivi.
Un nemico come Hamas si elimina, in modo che anche Fatah, e il suo “moderato” capobastone di Ramallah, capisca che non andrà mai da nessuna parte strizzando l’occhio agli estremisti, e fingendo che sia Israele a non volere trovare un accordo pacificatore.
La necessità di Israele di vincere questa guerra, a stabilire il primato della forza, prerequisito indispensabile a ogni possibile accordo col nemico, è una vittoria postuma di Jabotinsky, di chi aveva capito tutto prima degli altri, e che mai una sola volta, i fatti hanno smentito.
(L'informale, 2 novembre 2023)
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Sondaggio: Israele è davvero cambiato?
di Daniel Pipes
Una palese svolta radicale ha avuto luogo all’indomani del 7 ottobre scorso, giorno in cui Hamas ha massacrato circa 1.400 israeliani. L’idea che Israele ottenga la vittoria sui palestinesi da marginale è diventata dominante e ha raccolto consensi. Sia i politici che i sondaggi sono favorevoli a tale idea. Gli israeliani sembrano essere una popolazione trasformata. È davvero così? Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha fatto della vittoria la sua costante esortazione: “La vittoria richiederà tempo. (…) ma per ora siamo concentrati su un unico obiettivo, che è quello di unire le nostre forze e correre verso la vittoria”. E ha detto ai soldati: “L’intero popolo di Israele è al vostro fianco e assesteremo un duro colpo ai nostri nemici per ottenere la vittoria”. E ancora: “Ne usciremo vittoriosi”. Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha dichiarato di aver informato il presidente Joe Biden che la vittoria di Israele “è essenziale per noi e per gli Stati Uniti”. Gallant ha detto ai suoi soldati: “Sono responsabile di portare la vittoria”. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha annunciato la sospensione di “tutte le spese di bilancio per indirizzarle verso un unico obiettivo: la vittoria di Israele”. E ha definito l’obiettivo della guerra di Israele contro Hamas “una vittoria schiacciante”. Benny Gantz, membro del Gabinetto di Guerra, ha parlato di “momento della resilienza e della vittoria”. Ma questi uomini politici rappresentano quello che è ampiamente definito “il governo più di Destra nella storia di Israele”. E gli altri nel Paese? Molti altri concordano effettivamente sul fatto che Hamas debba essere eliminato:
- Naftali Bennett, ex primo ministro: “È arrivato il momento di distruggere Hamas”.
- Amir Avivi, generale in pensione: “Dobbiamo distruggere Hamas. Dobbiamo privarli completamente delle loro capacità”.
- Chuck Freilich, ex vice-consigliere per la Sicurezza nazionale (su Ha’aretz): “Ora Israele deve infliggere a Hamas una sconfitta inequivocabile”.
- Tamir Heyman, ex capo dell’intelligence dell’Idf: “Dobbiamo vincere”.
- David Horovitz, direttore di Times of Israel: “C’è una guerra da vincere”.
- Yaakov Amidror, ex consigliere per la sicurezza nazionale: “Hamas dovrebbe essere uccisa e distrutta”.
- Meir Ben Shabbat, ex consigliere per la sicurezza nazionale: “Israele dovrebbe distruggere tutto ciò che è connesso ad Hamas”.
E la popolazione israeliana cosa ne pensa? Per scoprirlo, il 17 ottobre il Middle East Forum ha commissionato un sondaggio tra 1.086 israeliani adulti, ne è emerso uno straordinario consenso a favore dell’obiettivo di distruggere Hamas; di un’operazione di terra finalizzata a raggiungere questo obiettivo e a non fare concessioni in cambio di rapporti formali con l’Arabia Saudita (Il sondaggio è stato realizzato da Shlomo Filber e Zuriel Sharon di Direct Polls Ltd e ha un errore di campionamento statistico del 4 per cento). Alla domanda “Quale dovrebbe essere l’obiettivo primario di Israele” nella guerra attuale, il 70 per cento dell’opinione pubblica ha risposto: “Eliminare Hamas”. Per contro, soltanto il 15 per cento ha risposto “garantire il rilascio incondizionato dei prigionieri tenuti in ostaggio da Hamas” e il 13 per cento “disarmare completamente Hamas”. Sorprendentemente, il 54 per cento degli arabi israeliani (o più tecnicamente, gli elettori della Lista Araba Unita, un partito arabo radicale anti-sionista), ha fatto della “eliminazione di Hamas” il suo obiettivo preferito. Di fronte alle due opzioni: condurre un’operazione di terra a Gaza per sradicare Hamas o evitare un’operazione di terra a favore di un altro modo di far fronte ad Hamas, il 68 per cento ha scelto la prima opzione e il 25 per cento la seconda. Questa volta, il 52 per cento degli arabi israeliani è d’accordo con la maggioranza. Il 72 per cento degli intervistati si è detto contrario a fare “rilevanti concessioni all’Autorità Palestinese” come prezzo da pagare per rapporti formali, con solo il 21 per cento a favore, e 62 arabi israeliani che si sono espressi come la maggioranza degli intervistati. In breve, un clima fortemente contrario ad Hamas e all’Autorità Palestinese domina la politica israeliana, con solo i due partiti di Sinistra (Laburista e Meretz) in opposizione. Anche la maggioranza degli arabi israeliani riconosce il pericolo che Hamas e l’Autorità Palestinese rappresentano per la loro sicurezza e incolumità. La vera domanda quindi è: tale veemenza denota un radicale cambiamento di prospettiva tra gli ebrei e gli arabi israeliani o è soltanto un impeto emotivo? Come osservatore di lunga data e come storico del conflitto israelo-palestinese, tendo a ritenere più probabile la seconda ipotesi. Dal 1882 ad oggi, le due parti in lotta si sono comportate in modo decisamente sterile. I palestinesi hanno una mentalità di rifiuto (non accettare mai e poi mai tutto ciò che è ebraico e israeliano), mentre i sionisti si attengono alla conciliazione (accettateci e noi vi arricchiremo). Le due parti continuano a girare in tondo, senza cambiare e senza fare progressi. Di conseguenza, mi aspetto che l’infiammato stato d’animo israeliano del momento probabilmente svanirà col tempo, man mano che i vecchi modelli si riaffermeranno e ritornerà lo stato normale.
(Gatestone Institute, 1 novembre 2023 - trad. di Angelita La Spada)
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Ebrei progressisti e sinistra radicale globale: una spaccatura nel contesto del conflitto in Medio Oriente
di Marina Gersony
Nel contesto recente del conflitto in Medio Oriente, gli ultimi sondaggi rivelano una crescente divisione all’interno della sinistra globale. Questa divisione si sta amplificando tra le fazioni democratiche, liberali e socialiste da un lato e la sinistra radicale, terzomondista e anti-occidentale dall’altro, con impatti evidenti nei partiti e tra gli intellettuali di sinistra, spesso in nome di una pace generica. Questa spaccatura crea una situazione divisiva e complessa, coinvolgendo anche la comunità ebraica e mettendo a dura prova coloro che cercano di sostenere Israele pur restando fedeli alla propria ideologia di sinistra.
Dopo l’attacco terroristico del 7 ottobre, molti ebrei progressisti si sono infatti sentiti abbandonati da quegli amici della sinistra globale che hanno espresso poca simpatia, empatia e solidarietà per gli israeliani e i loro correligionari uccisi, concentrandosi invece sulla difficile situazione dei palestinesi: un dolore che si somma a quello dell’ignobile massacro perpetrato da Hamas.
Questa divisione rappresenta una frattura significativa e lacerante all’interno della coalizione liberale americana, tradizionalmente legata al Partito Democratico che rischia di alimentare tifoserie e polarizzazioni. Gli ebrei progressisti, che hanno sostenuto a lungo cause di sinistra come l’equità razziale, i diritti LGBTQ+, il diritto all’aborto e l’opposizione alle politiche israeliane a Gaza e in Cisgiordania, si sentono ora traditi dai loro stessi alleati.
• Le tensioni in America tra gli ebrei, Università e social media La tensione all’interno della comunità ebraica americana si è accentuata soprattutto nei campus universitari e sui social media, dove le dichiarazioni di organizzazioni minori hanno ottenuto ampia visibilità. Secondo diversi analisti, c’è preoccupazione che questa frattura possa rappresentare un cambiamento più duraturo e insidioso nella posizione degli ebrei nella società americana, soprattutto in un momento di conflitto globale. Nel frattempo, il dibattito sul mantra «con Israele o con la Palestina» continua a infiammarsi o ad essere affrontato con toni moderati, a seconda dei casi.
Ha fatto molto parlare in questi giorni la lettera aperta firmata di recente da eminenti personalità della cultura, tra cui David Grossman, nonché l’attacco polemico su X (ex Twitter) dell’ex premier israeliano Yair Lapid alla «sinistra radicale globale», colpevole, a suo avviso, di mancanza di solidarietà ed empatia: «Quanti ebrei devono morire prima che smettiate di incolparci per qualunque cosa accada? Quel sabato buio ne sono stati uccisi 1.400. Di quanti altri avete bisogno? Diecimila? 6 milioni?». Nel suo blog di qualche giorno fa sul Times of Israel, l’attuale leader dell’opposizione israeliana, che non ha voluto entrare nel governo di emergenza nazionale dopo il 7 ottobre, va dritto al punto ponendo alcuni quesiti, a partire dal paradosso della comunità Lgbtq che, nelle manifestazioni organizzate in numerose città europee e americane, sostiene «l’autodeterminazione» della Palestina senza rendersi conto di appoggiare chi vorrebbe la sua eliminazione.
• La lettera aperta degli intellettuali israeliani
«Noi, accademici con sede in Israele, leader di pensiero e attivisti progressisti impegnati per la pace, l’uguaglianza, la giustizia, e dei diritti umani, siamo profondamente addolorati e scioccati dai recenti eventi verificatisi nella nostra regione. Siamo anche profondamente preoccupati per la risposta inadeguata di alcuni progressisti americani ed europei riguardo all’attacco ai civili israeliani da parte di Hamas, una risposta che riflette una tendenza preoccupante nella cultura politica della sinistra globale».
A scendere in campo anche lo storico israeliano Yuval Noah Harari – autore di bestseller tra cui Sapiens e Homo Deus – anche lui firmatario della suddetta lettera aperta in cui esprime la sua preoccupazione per alcuni elementi all’interno della sinistra globale; una sinistra che in passato considerava un alleato politico ma che adesso ha giustificato le azioni di Hamas in più occasioni. In una recente intervista al Guardian, Harari ha spiegato di aver preso questa posizione dopo aver parlato con attivisti pacifisti nel suo paese d’origine, che si sentivano completamente devastati e abbandonati, traditi dai loro alleati presumibili nei loro sforzi per la pace. Lo scrittore ha inoltre ricordato come i suoi zii sono riusciti a sopravvivere a un attacco di Hamas nel loro kibbutz durante gli attacchi del 7 ottobre, nascondendosi mentre uomini armati andavano da una casa all’altra uccidendo i loro vicini. Infine, durante una visita a Londra, Harari è rimasto sconvolto nel sentire alcune risposte provenienti da alcune fazioni della sinistra negli Stati Uniti e in Europa, che non solo hanno evitato di condannare Hamas ma hanno anche attribuito l’intera responsabilità ad Israele, mostrando una mancanza di solidarietà verso i terribili attacchi contro i civili israeliani.
Sono le risposte di una sinistra radicale condivisa anche da attivisti e studiosi ebrei che vedono Israele come un oppressore dei palestinesi. Una prospettiva manifestata da alcuni di loro in un sit-in a sostegno del cessate il fuoco, tra cui quello organizzato dal gruppo di sinistra Jewish Voice for Peace, che ha denunciato anche le violazioni dei diritti umani subite dai palestinesi nel corso degli anni.
• La sinistra europea si perde tra distinguo e divisioni interne Il tema delle risposte politiche al conflitto tra Israele e Hamas e delle divisioni all’interno dei partiti in vari Paesi europei riguardo alla loro posizione sul conflitto è di fatto sempre più presente nei media. Il focus principale è sulla difficoltà di alcune fazioni politiche e leader di sinistra nel mantenere una risposta unificata alla situazione, il che porta a tensioni interne e disaccordi sull’argomento.
Nel Regno Unito, il Partito Laburista affronta sfide nel gestire il conflitto, con il suo leader, Keir Starmer, che deve bilanciare le crescenti critiche provenienti dalla sinistra e dai politici e sostenitori musulmani del partito. In particolare, alcune delle sue dichiarazioni e il mancato sostegno a un cessate il fuoco hanno provocato divisioni all’interno del partito: la posizione ufficiale del Labour viene infatti vista da molti esponenti del partito come troppo allineata a quella del governo conservatore.
Lacerata anche la sinistra in Francia, dopo al rifiuto di France insoumise (Lfi), il principale gruppo politico di sinistra, di qualificare Hamas come gruppo terroristico, dopo l’attacco lanciato il 7 ottobre contro Israele. Il suo leader Jean-Luc Mélenchon ha infatti adottato una posizione di condanna dei «crimini di guerra» e descritto Hamas come un «gruppo politico islamico» che «resiste a un’occupazione» per la «liberazione della Palestina», dichiarazioni che hanno profondamente diviso la coalizione Nupes mettendo a rischio la coalizione delle sinistre (socialista, comunista, ecologista).
In Spagna, il governo ha condannato l’attacco di Hamas, ma alcuni ministri ad interim di partiti di estrema sinistra hanno suggerito che Israele stia infrangendo il diritto internazionale. Ciò ha portato a tensioni con l’ambasciata israeliana a Madrid e ha messo in discussione l’unità all’interno del governo spagnolo.
In Germania, c’è un ampio consenso politico a favore di Israele, con il cancelliere Olaf Scholz che ha sottolineato il supporto della Germania alla sicurezza di Israele. Questo posiziona la Germania in modo diverso rispetto ad altri Paesi europei.
E l’Italia? Con Israele o con la Palestina? La posizione della sinistra riguardo a Israele e alla Palestina nel nostro Paese è storicamente contraddittoria e profondamente complessa. In particolare, alcune correnti della sinistra italiana cercano di sostenere Israele ma evitano di condannare esplicitamente Hamas, in sintonia con quella che è stata definita la «sinistra radicale globale», il più delle volte carente di solidarietà ed empatia verso Israele e il popolo ebraico. Una prospettiva che contrasta con quella di chi all’interno della sinistra cerca di sostenere Israele «senza se e senza ma», mantenendo tuttavia salda l’ideologia di sinistra.
Per concludere, in Europa – e in Occidente in generale – il versante politico di sinistra sta attraversando una fase di profonda instabilità strutturale, come evidenziato da numerosi esperti politici. Questa crisi non può essere ricondotta esclusivamente al contesto drammatico segnato dal caos dell’attuale conflitto in Medio Oriente, ma rappresenta una sfida fondamentale per la ridefinizione del concetto stesso di “sinistra” e dei suoi ruoli in questo secolo e all’interno dei sistemi democratici. Ma questa è un’altra storia.
(Bet Magazine Mosaico, 1 novembre 2023)
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Spade di ferro, giorno 25. Minaccia dal Mar Rosso
di Ugo Volli
• La dichiarazione di guerra degli Houti
La notizia più significativa dell’ultima giornata in termini strategici è la vera e propria dichiarazione di guerra che il portavoce del movimento terrorista yemenita degli Houti, Yahya Sarie, ha pronunciato contro Israele, accompagnata dal lancio di un certo numero di missili. Houti è il nome di una tribù in Yemen che è la base del movimento terrorista, il cui vero nome in realtà è “Ansar Allah”. Bisogna sapere in primo luogo che lo Yemen dista da Israele circa 1600 chilometri, come la Finlandia da Roma, e dunque non vi è ovviamente contenzioso territoriale fra i due Paesi e non vi può essere minaccia da terra (in mezzo c’è l’Arabia Saudita). Ma lo Yemen è un punto strategico non solo per Israele, bensì per l’Egitto e l’Europa, perché controlla lo stretto di Bab el Mandeb, con una larghezza utilizzabile di solo una ventina di chilometri, che consente l’accesso al Mar Rosso e di qui al Canale di Suez. L’altro lato è Gibuti. Tutti i rifornimenti petroliferi e le merci provenienti dall’Estremo Oriente passano con centinaia di navi ogni giorno da queste acque che possono facilmente essere minacciate e bloccate. Lo Yemen ha sofferto per decenni di divisioni e guerre civili. Negli ultimi dieci anni circa il potere è stato preso dal movimento islamista degli Houti, con l’appoggio determinante dell’Iran. Esso ha sviluppato un esercito piuttosto forte e anche un’industria bellica. Ha fatto guerra all’Arabia Saudita, mettendola in difficoltà con lanci di razzi e droni sulla città di Ryad e sui più importanti pozzi petroliferi. Poi c’è stata una tregua che ha tenuto fino a qualche giorno fa, quando gli Houti hanno di nuovo aggredito l’esercito arabo alla frontiera, provocando alcuni morti.
• Una maldestra mossa iraniana
Ora Ansar Allah minaccia Israele e insieme l’Arabia coi suoi missili. Qualche giorno fa alcuni di questi proiettili sono stati abbattuti da navi americane nel Mar Rosso, dall’Arabia e dall’Egitto; i missili di ieri sono stati fermati dai sistemi israeliani. Israele ha anche spostato alcune unità navali con capacità missilistica nel Mar Rosso; minaccia implicita di una rappresaglia che potrebbe essere anche sostenuta dall’aviazione. La mossa degli Houti apre il quinto fronte di guerra dopo Gaza, Libano, Siria, Cisgiordania. È evidentemente una mossa iraniana che prova a mettere in difficoltà Israele e anche a dare l’impressione di una solidarietà bellica fattiva con Hamas che i terroristi si attendevano e che finora è per fortuna mancata: l’Iran stesso ha dichiarato ieri di non voler farsi coinvolgere in scontri diretti fuori dai suoi confini, per cui fida nei suoi “alleati”, mentre le sue forze armate si concentrano sulla difesa del territorio nazionale. Ma è probabilmente una mossa maldestra, perché essa ha rafforzato l’asse difensivo fra Israele, Arabia e Egitto, che è il grande incubo strategico dell’Iran, e ha anche esposto che la pericolosità del terrorismo non si limita a Israele, ma colpisce molti paesi fra cui l’Europa.
• La situazione a Gaza
L’aviazione israeliana annuncia di aver colpito finora oltre undicimila obiettivi terroristi. L’operazione di terra procede. Oltre alla manovra per tagliare Gaza City dalla parte settentrionale della Striscia, è in corso un analogo “taglio” di Gaza a sud della città: tre diversi territori dovrebbero essere isolati e progressivamente attaccati dall’esercito israeliano, in modo da eliminare completamente Hamas. Le operazioni urbane sono in corso soprattutto al nord, dove le forze di Israele hanno iniziato a conquistare le roccaforti terroriste. Purtroppo questa fase della guerra è la più difficile e sanguinosa anche per i soldati israeliani. Sono stati annunciati ieri prima due, poi altre nove caduti e molti feriti. Con la mediazione del Qatar e l’assenso di Israele l’Egitto ha evacuato nell’ospedale da campo costruito dalla sua parte del valico di Rafah un centinaio di feriti civili palestinesi. Nel frattempo però è stato annunciato che Hamas ha bloccato anche l’uscita dalla Striscia degli arabi con doppia cittadinanza (molti americani, ma parecchi anche con altri passaporti, fra cui una decina di italiani). Non sono prigionieri rapiti come gli israeliani (secondo gli ultimi calcoli 240) sequestrati il 7 ottobre, ma anche loro, in un certo senso, sono ostaggi. Hamas e gli altri movimenti islamisti considerano infatti gli Usa e molti paesi europei come nemici, per aver espresso solidarietà a Israele dopo il massacro del 7 ottobre. Per quanto ci riguarda, fra l’altro sono comparsi manifesti minacciosi anche contro l’Italia e il primo ministro Meloni ha ricevuto molti messaggi di minaccia.
• Gli altri fronti
Vi è stata anche una seconda grande incursione a Jenin, in Cisgiordania, dove fra l’altro è stato catturato Ata Abu Armila, il boss locale di Fatah, il partito di Abu Mazen dittatore dell’Autorità Palestinese. È una novità significativa che mostra quanto sia illusorio il tentativo di isolare Hamas dall’attività terroristica comune a tutti i movimenti palestinisti. Non basterà distruggere Hamas, occorre sconfiggere tutto il terrorismo palestinista. Al Nord è continuata la guerra a bassa intensità tanto con scambi di colpi tanto con Hezbollah in Libano, quanto con la Siria. Sono stati colpiti in particolare i paesi dei drusi, alleati di Israele, come al sud di Israele dei villaggi beduini, anch’essi in buoni rapporti con lo Stato ebraico. Israele ha risposto colpendo le fonti del fuoco. I terroristi di Hezbollah uccisi sono ormai una sessantina. Da Gaza sono partiti ancora molti missili, che hanno anche prodotto danni in diverse città del centro. Ma naturalmente nessuno dei “pacifisti” che chiedono a Israele di cessare la sua azione di autodifesa ha invitato Hamas a smettere di provare a uccidere coi suoi razzi la popolazione civile delle città israeliane.
(Shalom, 1 novembre 2023)
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I trumpiani vogliono sfaldare la politica di Biden a favore di Israele e dell'Ucraina
di Paola Peduzzi
Al nuovo speaker del Congresso americano, Mike Johnson, l’articolo di copertina della rivista Time sul presidente ucraino Volodymyr Zelensky deve aver fatto un gran piacere: eletto la settimana scorsa dopo che molti altri candidati sono stati bocciati, Johnson, deputato conservatore della Louisiana, ha annunciato di voler introdurre questa settimana una proposta di legge per stanziare gli aiuti a Israele ma non all’Ucraina. Lo speaker non condivide la strategia del presidente Joe Biden, che ha chiesto al Congresso l’approvazione “urgente” di un pacchetto di aiuti di 105 miliardi di dollari per Israele e per l’Ucraina e per Gaza – tra cui: 14,9 miliardi di aiuti militari al governo israeliano; 61,4 miliardi di aiuti militari e finanziari all’Ucraina; 9 miliardi di aiuti umanitari per Israele, Gaza e l’Ucraina; i fondi restanti sono destinati al contenimento della Cina in particolare verso Taiwan e alla sicurezza dei confini americani.
Per Biden si combatte su più fronti la stessa battaglia, per Johnson e l’ala trumpiana del Partito repubblicano la difesa dell’Ucraina è una fissazione del presidente, non una necessità per la sicurezza globale. Alla divisione politica si aggiunge la retorica del pessimismo che ha travolto Kyiv di cui l’articolo di Time è l’espressione più visibile di questi giorni. Simon Shuster, giornalista russo con base a New York che ha passato molto tempo in Ucraina nell’ultimo decennio, ha raccontato “la battaglia solitaria” di Zelensky in cui questa solitudine riguarda praticamente tutto: il presidente ucraino ha perso sorriso e ironia, scrive Shuster, la parola che lo definisce è “arrabbiato”, si sente abbandonato dagli alleati internazionali esausti e insofferenti, ma anche da molti suoi collaboratori che ha smesso di ascoltare soprattutto quando gli ripetono che bisogna cambiare strategia, ma lui ostinato non ne vuole sapere, dice che “nessuno crede nella vittoria quanto me, nessuno” (che è anche il titolone sulla copertina di Time), e tira dritto. Ci sono dei particolari mortificanti che hanno fatto reagire molti ucraini: questo racconto non rappresenta noi né chi guida il nostro paese, hanno detto. Una fonte anonima – tranne Zelensky e Andriy Yermak – dice riguardo al fronte: “Non ci muoviamo in avanti”.
Shuster prosegue: “Alcuni comandanti hanno iniziato a non eseguire gli ordini di muoversi in avanti, anche quando tali ordini arrivano direttamente dall’ufficio presidenziale. Vogliono soltanto starsene seduti in trincea e mantenere il fronte”, dice, “ma così non si può vincere la guerra”. Nella parte finale, un “collaboratore stretto” di Zelensky dice che anche se gli Stati Uniti e gli altri alleati consegnassero tutte le armi che hanno promesso, “non abbiamo gli uomini per utilizzarle”. Shuster si dilunga sulla corruzione nell’arruolamento e poi sulla corruzione e sulla burocrazia scrive: “Viste le enormi pressioni per sradicare la corruzione ho pensato, forse ingenuamente, che i funzionari ci avrebbero pensato due volte prima di prendere bustarelle o intascarsi i soldi dello stato. Ma quando ho detto questa cosa a un alto consigliere del presidente a inizio ottobre, mi ha chiesto di spegnere il registratore per parlare più liberamente: ‘Simon, ti sbagli’, ha detto, ‘la gente ruba come se non ci fosse un domani’”. Considerando che proprio la destinazione degli aiuti internazionali è un tema molto sentito nei parlamenti occidentali, considerando che la settimana prossima la Commissione europea deve dare il suo parere sui progressi fatti dall’Ucraina per iniziare i colloqui dell’allargamento e la lotta alla corruzione è cruciale, considerando che il costo umano pagato dagli ucraini in questa difesa dall’aggressione russa – un costo che è unicamente dell’Ucraina – queste citazioni sono oltremodo insultanti, oltre che un alibi perfetto per chi vuole diminuire se non sospendere gli aiuti a Kyiv: se nemmeno gli ucraini vogliono combattere, se nessuno si fida più di Zelensky nemmeno tra i suoi, perché dovremmo farlo noi?
In audizione al Senato ieri, il segretario di stato Antony Blinken e il capo del Pentagono Llyod Austin hanno dato una risposta a questa domanda: senza il sostegno americano, Vladimir Putin vincerà la guerra in Ucraina. “Prima o poi – ha detto Austin – Putin sfiderà la Nato e ci ritroveremo in guerra aperta”. L’audizione è stata interrotta da una protesta del gruppo femminista Code Pink che ha gridato: “State finanziando il genocidio, cessate il fuoco subito, lasciate vivere Gaza” e ha alzato le mani colorate di rosso sangue. Blinken ha ribadito che Israele deve essere messo in grado di difendersi nel rispetto delle leggi internazionali. Alla festa di Halloween alla Casa Bianca, il segretario di stato ha portato i suoi figli: uno era vestito come Zelensky, l’altra aveva un vestito dei colori dell’Ucraina.
Il Foglio, 1 novembre 2023)
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Ucraina o Israele? Si deve scegliere
di Marcello Cicchese
L’alternativa è cominciata a porsi al Congresso americano: a chi dobbiamo dare i soldi? all’Ucraina o a Israele? Non hanno detto proprio così, naturalmente, ma è un segnale che impone la scelta tra i due soggetti in guerra, che ad alcuni appaiono entrambi come baluardi in difesa della civiltà occidentale.
La scelta s’impone, ma non per le questioni dette nell’articolo precedente. L’Ucraina è stata - e rischia di non rimanere più - un baluardo a difesa degli interessi di supremazia americani, non della libertà. Ed è stata una difesa a spese di chiunque risultasse utile, soprattutto a spese dell’Europa, quindi anche a spese dell’Italia. Secondo la narrazione a stelle e strisce, nella difesa dell’Ucraina il mondo civile doveva vedere la difesa dall’irruzione in Europa della barbarie russa, impersonata dal mostro Putin. E qui è partita una serie di menzogne inanellate una dopo l’altra con scientifica perizia. Sì, scientifica, perché l’arte della menzogna non è una disciplina alla portata di tutti, e in questo gli americani sembrano aver superato perfino i sovietici del recente passato.
La menzogna ha preso slancio con la falsificazione delle cause che hanno portato alla guerra ed è proseguita con la descrizione nei media di raccapriccianti scene di guerra confermanti la malvagità dei russi e il desiderio di libertà degli occidentali condotti dalla Nato.
Questa guerra avrebbe anche potuto arrestarsi abbastanza presto con un accordo tra le parti, ma questo non è stato possibile perché gli anglo-americani (modo di esprimersi volutamente popolare) si sono opposti. Per gli obiettivi che si erano dati, a loro interessava la prosecuzione della guerra, e di questo portano in ogni caso la responsabilità, quali che siano le cause che l’hanno fatta nascere.
Il fatto interessante è che in questa occasione Israele è apparso per un momento in veste di mediatore tra le forze in gioco. Bennett, a quel tempo premier di Israele, ha parlato direttamente anche con Putin, e in un video che ha pubblicato in seguito ha dichiarato che si stava arrivando ad un accordo, ma che la cosa non è stata possibile per l’indisponibilità degli anglo-americani.
L’interesse di Israele in quel momento sarebbe stato avere un arresto delle ostilità, per motivi generali e per il comprensibilissimo motivo di non far nascere un contrasto con i russi, con cui avevano un tacito accordo di comune interesse.
Qui comincia a sorgere un contrasto tra Ucraina e Israele. La prima chiede alla seconda una posizione forte a suo favore, e armi. Ma non ottiene in misura giudicata consona né una cosa né l’altra. Zelensky si lamenta e accusa Israele di mancata solidarietà. Si è parlato perfino di mettere in discussione la scorta di armi che Israele riceveva dagli Usa come riserva in caso di aggressione. Israele avrebbe dovuto privarsi di armi per darle all’Ucraina, dunque a difesa della civiltà occidentale. Israele non l’ha fatto e Zelensky si è arrabbiato. Come in questo momento sta facendo con tutti. Ma forse adesso non con Israele, a cui adesso non potrebbe certo chiedere di dargli delle armi.
Conclusione: la politica degli Usa ha danneggiato tutti, compresi gli americani. Si sono serviti dell’Ucraina e dei paesi europei per mandare avanti i loro interessi di supremazia presentata come difesa della civiltà occidentale. Adesso rimane un’Ucraina devastata come nazione e come popolo, un’Europa disunita e impoverita, un Israele di cui gli Usa sono considerati protettori, ma che in realtà offrono i loro aiuti politici e militari solo nella misura in cui contribuiscono ai loro non sempre leciti interessi. Dire, come fa Biden, che l’obiettivo da raggiungere è la coesistenza di due stati per due popoli significa precisamente difendere tutto ciò che ha portato alla situazione di oggi.
Ai difensori della civiltà occidentale minacciata nella stessa misura dall’Islam e dalla Russia, si deve dire che è indecente scorgere una somiglianza tra il contrasto Ucraina-Russia e Israele-Hamas. Gli ebrei dovrebbero essere i primi a indignarsi per questo paragone. A un Israele che ha sperimentato sulla sua pelle la libidinosa voglia dei loro nemici di cacciare gli ebrei da quella terra massacrandoli nella misura in cui è stato possibile, venire a dire che deve stare attento a non uccidere troppi civili palestinesi, significa voler mettere una briglia all’impeto dell’ira israeliana. In quella mattinata di vomitevoli massacri, l’opinione pubblica internazionale (e quella americana non ha fatto eccezione) non è stata capace di vedere un chiaro segno: il segno che al mondo c’è qualcuno che vuole accanitamente far sparire gli ebrei dalla faccia terra, cominciando dalla terra che gli ebrei considerano loro.
E il mondo adesso sta a guardare compiaciuto, come volesse dire: sì, cominciate voi, poi continueremo noi tutti insieme, piano piano, nella misura in cui sarà possibile. Se questo è il segno, se è questo che gli ebrei israeliani avvertono sulla loro pelle, allora si capisce che Israele non abbia alcuna intenzione di fermarsi e sia deciso ad andare avanti fino a che non sarà riuscito a lasciare intorno a sé un segno contrario: prima sulla pelle di quelli che li hanno colpiti, poi sulla coscienza di quelli che hanno osservato e adesso applaudono. Un segno che significa: noi vogliamo vivere. Am Israel chai.
(Notizie su Israele, 1 novembre 2023)
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Operazione dello Shin Bet a Jenin. Arrestato leader di Al Fatah
di ì Sarah G. Frankl
Forze di polizia in incognito e dello Shin Bet sono entrate ieri sera a Jenin per arrestare Atta Abu Rumaila, 63 anni, segretario generale di Fatah nella città settentrionale della Cisgiordania.
Fonti militari affermano che non c’è stata resistenza durante l’arresto di Abu Rumaila, che è stato trattenuto insieme al figlio.
Le Forze di Difesa Israeliane e l’agenzia di sicurezza Shin Bet hanno dichiarato che negli ultimi mesi Abu Rumaila ha “fatto progredire le attività terroristiche con finanziamenti di decine di migliaia di shekel e ha aiutato ricercati e operatori terroristici”.
La dichiarazione congiunta ha affermato che Abu Rumaila “ha avuto un ruolo significativo nell’inasprire la situazione della sicurezza nella regione” e che suo figlio era un agente terroristico locale.
Successivamente, le truppe israeliane sono entrate nuovamente a Jenin per “rendere innocue le infrastrutture del terrore”, ha dichiarato l’IDF.
Le truppe hanno trovato e distrutto ordigni esplosivi piazzati nelle strade e un tunnel sotterraneo usato dagli uomini armati. È stata anche confiscata un’auto con munizioni ed equipaggiamento militare.
Durante l’operazione, le truppe si sono scontrate con uomini armati palestinesi. L’IDF ha effettuato un attacco con un drone contro alcuni uomini armati durante lo scontro a fuoco. Secondo fonti palestinesi quattro terroristi sarebbero stati uccisi.
Non ci sono notizie immediate da parte dell’IDF su quanto accaduto a Tulkarem.
Dall’inizio della guerra nella Striscia di Gaza, il 7 ottobre, si sono verificati frequenti scontri in Cisgiordania e le truppe hanno arrestato più di 1.000 palestinesi, circa 700 dei quali affiliati al gruppo terroristico di Hamas.
(Rights Reporter, 1 novembre 2023)
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Israele, Palestina e Gaza Una striscia di sangue lunga un secolo
Ottimo articolo sintetico ed equilibrato nella descrizione dei fatti. Apprezzabile, e “coraggiosa” dati i tempi, la presa di posizione finale. NsI
di Edoardo Bernkopf
La comprensione dei tragici fatti che insanguinano il Medio Oriente e mettono a rischio la pace mondiale, non può prescindere dalla conoscenza della storia di quelle terre.
Le origini del moderno stato di Israele risalgono alla sconfitta e alla disgregazione dell'Impero Ottomano (nessuno ha mai criticato la secolare disastrosa amministrazione imperiale dei turchi, che oggi appoggiano Hamas) all'indomani della prima Guerra mondiale. Come poi a Yalta, i vincitori si erano espressi sull'assetto geopolitico del futuro dopoguerra, e l'Inghilterra aveva proposto la dichiarazione di Balfour, in cui si propugnava la fondazione di una "dimora nazionale per il popolo ebraico". Va ricordato che la Legione Ebraica diede un contributo significativo alla liberazione di tutto il Medio Oriente dai turchi. La disgregazione di tutti gli imperi (compreso recentemente quello sovietico) ha disegnato confini a tratti artificiali (così succederà anche fra arabi ed arabi: in questo di certo gli inglesi sono stati maestri) ma sul momento il problema fu rimandato: tra il 20 e il 22 all'Inghilterra venne conferito il mandato anche sulla Palestina, dove vivevano senza particolari conflittualità sia ebrei che arabi. La spartizione e l'assegnazione di un territorio agli ebrei sulla base della dichiarazione Balfour era pienamente giustificata, stante che si erano insediati in quelle terre da più di tremila anni, duemila prima dell'arrivo degli arabi.
Durante la seconda guerra mondiale, mentre gli ebrei, sempre con la Legione Ebraica in uniforme inglese, diedero un significativo contributo militare, è noto che gli arabi attendessero con sostanziale favore l'arrivo degli italotedeschi.
Il Gran Mufti di Gerusalemme Amin al-Husseini sosteneva esplicitamente la comunanza di intenti fra musulmani e nazisti. A guerra finita, nel '48 scadeva in Palestina il mandato britannico, e nel ’47 la risoluzione 181 dell'Onu, con voto favorevole anche di Usa e Urss, e con l'astensione dell'Inghilterra, decretava la spartizione della Palestina fra arabi ed ebrei. Il territorio riconosciuto a questi ultimi era di molto inferiore ai confini attuali, e comprendeva aree abitate in maggioranza da ebrei. Gli arabi dichiararono apertamente di non accettare la risoluzione dell'Onu, rifiutata peraltro anche dalle componenti estremistiche ebraiche, il che fece scoppiare una sanguinosa guerra civile.
Il 4 maggio '48, alla scadenza del mandato inglese, Ben Gurion proclamò la nascita dello Stato di Israele. Forti del numero, Egitto, Siria, Transgiordania (la Giordania non esisteva ancora), Iraq e Libano attaccarono il neonato stato da tutti i lati. Con la guerra iniziò la fuga dei palestinesi dai teatri di guerra, in parte esortati anche con la forza a sloggiare dalle formazioni paramilitari terroristiche ebraiche. Non solo non tornarono più alle loro case, ma furono traditi dai fratelli arabi che, a fronte delle promesse, li segregarono in campi profughi nei quali vivono oggi i loro nipoti. In quella guerra si dimentica spesso che la striscia di Gaza fu occupata dall'Egitto, e la Cisgiordania fu conquistata dall'emirato di Transgiordania e quindi annessa, assieme a Gerusalemme Est, al neo costituito regno Hashemita di Giordania.
La Legione Araba, l'unità scelta transgiordana, addestrata dal generale inglese John Bagot Glubb, meglio noto come Glubb Pascià, impose la totale "pulizia etnica" in tutte le aree conquistate: a nessuno ebreo venne permesso di rimanere, neanche a quelli le cui famiglie avevano vissuto nella regione per secoli. Nelle case così svuotate, la Giordania insediò alcune famiglie di profughi palestinesi. La Cisgiordania vide una progressiva infiltrazione di profughi, ma vi si infiltrarono anche molti guerriglieri, che tentarono di destabilizzare la situazione tramando contro la monarchia. Gli arabi, perduta la prima, scatenarono, dopo il 48, altre due guerre: quella dei sei giorni (1967) e quella del Kippur (1973). Le persero tutte, consentendo, come in tutte le guerre perse, ai vincitori di estendere progressivamente i propri confini (ne sappiamo qualcosa anche noi, con la particolarità che l'Italia, ha ceduto territorio nazionale a nazioni confinanti non già vittoriose, ma altrettanto sconfitte, vale a dire quella Slovenia e soprattutto quella Croazia alleate in guerra con l'asse, e in gran parte più naziste dei nazisti, vedasi Ustascia, Belagardisti e Domobranzi).
Con la Guerra dei sei giorni del 1967, Israele aveva occupato la Cisgiordania ad est, le alture di Golan a nord e il Sinai e Gaza a sud. Successivamente l'Egitto riottenne il Sinai, in cambio della pace, che regge tuttora. In Giordania era forte e bellicosa la presenza palestinese organizzata nell'Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) fondata nel 1964 con l'obiettivo della "liberazione della Palestina" attraverso la lotta armata. Guidata da Yasser Arafat costituiva una fronda politica ostile alla monarchia all'interno, e una organizzazione terroristica internazionale in Israele e nel mondo: fu l'epoca dei dirottamenti aerei.
Nel settembre 1970 Il re hashemita Husseyn di Giordania, che era scampato a vari attentati, represse con le fedeli truppe di etnia beduina-transgiordana il tentativo delle organizzazioni palestinesi di rovesciarlo. L'attacco, che viene chiamato "il settembre nero" provocò pesanti perdite anche fra i civili palestinesi. I miliziani dell'Olp, cacciati dall'esercito giordano, si rifugiarono in Libano, paese economicamente florido, che si reggeva però su un fragile equilibrio pattuito fra le diverse religioni: presidente cristiano maronita, primo ministro musulmano sunnita, presidente del parlamento musulmano sciita, comandante delle forze armate cristiano maronita e altri alti funzionari greco-ortodossi o drusi. L'arrivo dei palestinesi cisgiordani, che si aggiungevano a quelli sconfinati in Libano nel '48 e nel '67, destabilizzò il paese, portandolo alla guerra civile, che finì per renderlo un protettorato siriano e una base per le organizzazioni terroristiche Hezbollah e Amai, che, come Hamas, vengono erroneamente assimilati alla causa del popolo palestinese, mentre ne sono i tiranni.
Nel 1988, la Giordania ritirò tutte le pretese sulla Cisgiordania, consegnandone la sovranità all'Olp.
A seguito degli Accordi di Oslo del '93-94 l'Olp, pur non cancellando il progetto finale di eliminazione dello Stato di Israele, lo riconosceva interlocutore dei negoziati di pace. Ai leader palestinesi fu permesso il rientro in Palestina da Tunisi dove il quartier generale dell'Olp si era trasferito, cacciato da Beirut a seguito dell'occupazione israeliana del Libano nel 1982: l'Olp si insediò così a Ramallah. In cambio delle concessioni palestinesi (rinuncia al terrorismo, accettazione, non proprio esplicita, dell'esistenza di uno stato ebraico e politica del negoziato), Israele ha allentato la sua presenza militare, e con la creazione nel 1995 dell'Autorità Nazionale Palestinese, la Cisgiordania, ormai denominata Palestina, è stata divisa in tre aree con amministrazione e controllo militare misti israeliano e palestinese, in attesa di un accordo definitivo che stenta però a realizzarsi, perché anche in Palestina è forte e minacciosa la presenza di Hamas: il mandato del presidente Mahmud Abbàs è scaduto nel 2009, ma rimane in carica perché non vi si tengono elezioni, nel timore che anche lì le vinca Hamas, istituendo un nuovo stato canaglia. Anche la striscia di Gaza è stata ceduta da Israele ai palestinesi della Autorità Nazionale Palestinese (Anp), costituitasi a seguito degli Accordi di Oslo del 1994. Ci furono nel 1996 le prime elezioni, che videro la vittoria di Fatah guidata da Arafat.
Dal 2007, però, Gaza è governata direttamente dall'organizzazione terroristica Hamas, che ha vinto le elezioni del 2006, come le vinsero i fascisti nel '24 e i nazisti nel '33. Ha espulso con la violenza Fatah e l'Autorità palestinese, anche ammazzandone vari dirigenti: di fatto Gaza/Hamas è uno stato canaglia, i cui cittadini, sulla cui sorte si piange, sono di fatto prigionieri non di Israele, ma di Hamas, che, come Hetzbollah, Jihad e Amai andrebbero ben distinte dalla causa palestinese.
Con i fiumi di denaro che da tutto il mondo affluiscono a Gaza, se invece di missili da lanciare sulle città israeliane si realizzassero servizi per i cittadini, Gaza sarebbe in una situazione sociale ben diversa. Riassumendo, la Cisgiordania e Gaza, occupate anzitutto da eserciti arabi durante la guerra del '48 da questi scatenata, successivamente sono state occupate da Israele in due guerre subite e vinte. Lo Stato Ebraico però le ha rimesse, per la prima volta nella loro storia, sotto la sovranità palestinese, ma il risultato è stato quello di trovarsi a Gaza un governo di terroristi, e di rischiare di averne un altro in Cisgiordania.
Quale scopo avrebbero le migliaia di missili lanciati da Hamas, Hezbollah e Amai sulle città israeliane? Non sono certo azioni militari, ma crimini premeditati contro la popolazione, che rispondono ad una strategia politica che chi oggi manifesta per la causa palestinese dimentica, cioè l'eliminazione delle Stato di Israele, obiettivo esplicitato fin nei loro atti costitutivi, che rende perfettamente coerenti le migliaia di missili lanciati contro le città israeliane e le recenti efferate stragi nei kibbutz.
Questi crimini provocano le inevitabili e prevedibili odierne reazioni israeliane rivolte ad eliminare le installazioni e i terroristi di Hamas, con inevitabili danni collaterali, giacché questi si insediano in mezzo alla popolazione civile per farsene scudo, addirittura nei sotterranei di un grande ospedale, e impediscono ai civili di spostarsi e di mettersi in salvo al sud. Si piangono le tragedie che ne conseguono, e ci si indigna, ma sono un ottimo strumento di propaganda anti-israeliana, che risulta efficace: addirittura l'Onu invita al cessate il fuoco, ma nell'ultima risoluzione non condanna Hamas e non chiede nemmeno l'immediato rilascio degli ostaggi. Un emendamento canadese in tal senso è stato respinto. L'ennesima prova dell'inutilità dell'Onu, dove le vere democrazie sono una sparuta minoranza.
(Gazzetta di Parma, 1 novembre 2023)
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