I giorni dell'uomo sono come l'erba;
egli fiorisce come il fiore del campo;
se un vento gli passa sopra ei non è più,
e il luogo dov'era non lo riconosce più.
Or la nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe; e prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo.
E Giuseppe, suo marito, essendo uomo giusto e non volendo esporla ad infamia, si propose di lasciarla occultamente.
Ma mentre aveva queste cose nell'animo, ecco che un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prender con te Maria tua moglie; perché ciò che in lei è generato, è dallo Spirito Santo.
Ed ella partorirà un figlio, e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati.
Or tutto ciò avvenne, affinché si adempiesse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele, che, interpretato, vuol dire: «Iddio con noi».
SALMO 145
Io ti esalterò, o mio Dio, mio Re, e benedirò il tuo nome in eterno.
Ogni giorno ti benedirò e loderò il tuo nome per sempre.
L'Eterno è grande e degno di somma lode, e la sua grandezza non si può investigare.
Un'età dirà all'altra le lodi delle tue opere e farà conoscere le tue gesta.
Io mediterò sul glorioso splendore della tua maestà
GENESI 2
L’Eterno Iddio formò l'uomo dalla polvere della terra,
gli soffiò nelle narici un alito vitale e l'uomo divenne un'anima vivente
ISAIA 53
Egli è cresciuto davanti a lui come un germoglio, come una radice che esce da un arido suolo.
GIOVANNI 20
Allora Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre mi ha mandato, anch'io mando voi”.
Detto questo, soffiò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”.
PROVERBI 8
Quando egli disponeva i cieli io ero là; quando tracciava un cerchio sulla superficie dell'abisso,
quando condensava le nuvole in alto, quando rafforzava le fonti dell'abisso,
quando assegnava al mare il suo limite perché le acque non oltrepassassero il suo cenno, quando poneva i fondamenti della terra,
io ero presso di lui come un artefice, ero sempre esuberante di gioia, mi rallegravo in ogni tempo nel suo cospetto;
mi rallegravo nella parte abitabile della sua terra, e trovavo la mia gioia tra i figli degli uomini.
GENESI 2
E udirono la voce dell'Eterno Iddio, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l'uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza dell'Eterno Iddio fra gli alberi del giardino.
GIOVANNI 3
Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito figlio affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna.
1 CORINZI 15
Così anche sta scritto: «Il primo uomo, Adamo, divenne anima vivente»; l'ultimo Adamo è spirito vivificante”.
GENESI 3
E io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la sua progenie; questa ti schiaccerà il capo, e tu le ferirai il calcagno”.
ISAIA 7
Perciò il Signore stesso vi darà un segno: ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele.
GIOVANNI 12
“Se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo, ma, se muore, produce molto frutto" .
ESODO 3
E l'Eterno disse: “Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto, e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; perché conosco i suoi affanni;
e sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani.
ESODO 29
Sarà un olocausto perenne offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io vi incontrerò per parlare con te.
E là io mi troverò con i figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
E dimorerò in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per dimorare tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro
GIOVANNI 1
E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Quelli dunque i quali accettarono la sua parola furono battezzati; e in quel giorno furono aggiunte a loro circa tremila persone.
Ed erano perseveranti nell'attendere all'insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nel rompere il pane e nelle preghiere.
E ogni anima era presa da timore; e molti prodigi e segni eran fatti dagli apostoli.
E tutti quelli che credevano erano insieme, ed avevano ogni cosa in comune;
e vendevano le possessioni ed i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.
E tutti i giorni, essendo di pari consentimento assidui al tempio, e rompendo il pane nelle case, prendevano il loro cibo assieme con gioia e semplicità di cuore,
lodando Iddio, e avendo il favore di tutto il popolo. E il Signore aggiungeva ogni giorno alla loro comunità quelli che erano sulla via della salvezza.
ATTI 4
E la moltitudine di coloro che avevano creduto, era d'un sol cuore e d'un'anima sola; né v'era chi dicesse sua alcuna delle cose che possedeva, ma tutto era comune tra loro.
E gli apostoli con gran potenza rendevano testimonianza della risurrezione del Signor Gesù; e gran grazia era sopra tutti loro.
Poiché non v'era alcun bisognoso fra loro; perché tutti coloro che possedevano poderi o case li vendevano, portavano il prezzo delle cose vendute,
e lo mettevano ai piedi degli apostoli; poi, era distribuito a ciascuno, secondo il bisogno.
LUCA 2
Or in quella medesima contrada vi erano dei pastori che stavano nei campi e facevano di notte la guardia al loro gregge.
E un angelo del Signore si presentò ad essi e la gloria del Signore risplendé intorno a loro, e temettero di gran timore.
E l'angelo disse loro: Non temete, perché ecco, vi reco il buon annuncio di una grande gioia che tutto il popolo avrà:
Oggi, nella città di Davide, v'è nato un salvatore, che è Cristo, il Signore.
MATTEO 2
Or essendo Gesù nato in Betlemme di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
Dov'è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo veduto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo.
Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
E radunati tutti i capi sacerdoti, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
Ed essi gli dissero: In Betlemme di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
e mandandoli a Betlemme, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima gioia.
Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.
ATTI 8
Coloro dunque che erano stati dispersi se ne andarono di luogo in luogo, annunziando la Parola. E Filippo, disceso nella città di Samaria, vi predicò il Cristo.
E le folle di pari consentimento prestavano attenzione alle cose dette da Filippo, udendo e vedendo i miracoli che egli faceva.
Poiché gli spiriti immondi uscivano da molti che li avevano, gridando con gran voce; e molti paralitici e molti zoppi erano guariti.
E vi fu grande gioia in quella città.
ATTI 13
Ma Paolo e Barnaba dissero loro francamente: Era necessario che a voi per i primi si annunziasse la parola di Dio; ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco, noi ci volgiamo ai Gentili.
Perché così ci ha ordinato il Signore, dicendo: Io ti ho posto per esser luce dei Gentili, affinché tu sia strumento di salvezza fino alle estremità della terra.
E i Gentili, udendo queste cose, si rallegravano e glorificavano la parola di Dio; e tutti quelli che erano ordinati a vita eterna, credettero.
E la parola del Signore si spandeva per tutto il paese.
Ma i Giudei istigarono le donne pie e ragguardevoli e i principali uomini della città, e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba, e li scacciarono dai loro confini.
Ma essi, scossa la polvere dei loro piedi contro loro, se ne vennero ad Iconio.
E i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.
ROMANI 15
Or l'Iddio della pazienza e della consolazione vi dia d'avere fra voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù,
affinché di un solo animo e di una stessa bocca glorifichiate Iddio, il Padre del nostro Signor Gesù Cristo.
Perciò accoglietevi gli uni gli altri, siccome anche Cristo ha accolto noi per la gloria di Dio;
poiché io dico che Cristo è stato fatto ministro dei circoncisi, a dimostrazione della veracità di Dio, per confermare le promesse fatte ai padri;
mentre i Gentili hanno da glorificare Dio per la sua misericordia, secondo che è scritto: Per questo ti celebrerò fra i Gentili e salmeggerò al tuo nome.
Ed è detto ancora: Rallegratevi, o Gentili, col suo popolo.
E altrove: Gentili, lodate tutti il Signore, e tutti i popoli lo celebrino.
E di nuovo Isaia dice: Vi sarà la radice di Iesse, e Colui che sorgerà a governare i Gentili; in lui spereranno i Gentili.
Or l'Iddio della speranza vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nel vostro credere, onde abbondiate nella speranza, mediante la potenza dello Spirito Santo.
Soltanto, comportatevi in modo degno del vangelo di Cristo, affinché, sia che io venga a vedervi sia che io resti lontano, senta dire di voi che state fermi in uno stesso spirito, combattendo insieme con un medesimo animo per la fede del vangelo,
per nulla spaventati dagli avversari. Questo per loro è una prova evidente di perdizione; ma per voi di salvezza; e ciò da parte di Dio.
Perché vi è stata concessa la grazia, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui,
sostenendo voi pure la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e nella quale ora sentite dire che io mi trovo.
FILIPPESI, cap. 2
Se dunque v'è qualche incoraggiamento in Cristo, se vi è qualche conforto d'amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione,
rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento.
Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso,
cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri.
Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù,
il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente,
ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini;
trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce.
Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome,
affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra,
e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre.
Così, miei cari, voi che foste sempre ubbidienti, non solo come quando ero presente, ma molto più adesso che sono assente, adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore;
infatti è Dio che produce in voi il volere e l'agire, secondo il suo disegno benevolo.
Fate ogni cosa senza mormorii e senza dispute,
perché siate irreprensibili e integri, figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa, nella quale risplendete come astri nel mondo,
tenendo alta la parola di vita, in modo che nel giorno di Cristo io possa vantarmi di non aver corso invano, né invano faticato.
Ma se anche vengo offerto in libazione sul sacrificio e sul servizio della vostra fede, ne gioisco e me ne rallegro con tutti voi;
e nello stesso modo gioitene anche voi e rallegratevene con me.
Buona cosa è celebrare l'Eterno,
e salmeggiare al tuo nome, o Altissimo;
proclamare la mattina la tua benignità,
e la tua fedeltà ogni notte,
sul decacordo e sul saltèro,
con l'accordo solenne dell'arpa!
Poiché, o Eterno, tu m'hai rallegrato col tuo operare;
io celebro con giubilo le opere delle tue mani.
Come son grandi le tue opere, o Eterno!
I tuoi pensieri sono immensamente profondi.
L'uomo insensato non conosce
e il pazzo non intende questo:
che gli empi germoglian come l'erba
e gli operatori d'iniquità fioriscono,
per esser distrutti in perpetuo.
Ma tu, o Eterno, siedi per sempre in alto.
Poiché, ecco, i tuoi nemici, o Eterno,
ecco, i tuoi nemici periranno,
tutti gli operatori d'iniquità saranno dispersi.
Ma tu mi dai la forza del bufalo;
io son unto d'olio fresco.
L'occhio mio si compiace nel veder la sorte di quelli che m'insidiano,
le mie orecchie nell'udire quel che avviene ai malvagi che si levano contro di me.
Il giusto fiorirà come la palma,
crescerà come il cedro sul Libano.
Quelli che son piantati nella casa dell'Eterno
fioriranno nei cortili del nostro Dio.
Porteranno ancora del frutto nella vecchiaia;
saranno pieni di vigore e verdeggianti,
per annunziare che l'Eterno è giusto;
egli è la mia ròcca, e non v'è ingiustizia in lui.
Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno.
GENESI 6
Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo.
Il Signore si pentì d'aver fatto l'uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo.
E il Signore disse: «Io sterminerò dalla faccia della terra l'uomo che ho creato: dall'uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti».
Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore.
GENESI 12
Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
ESODO 3
Il Signore disse: «Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni.
Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei.
E ora, ecco, le grida dei figli d'Israele sono giunte a me; e ho anche visto l'oppressione con cui gli Egiziani li fanno soffrire.
Or dunque va'; io ti mando dal faraone perché tu faccia uscire dall'Egitto il mio popolo, i figli d'Israele».
ESODO 6
Il Signore disse a Mosè: «Ora vedrai quello che farò al faraone; perché, forzato da una mano potente, li lascerà andare: anzi, forzato da una mano potente, li scaccerà dal suo paese».
Dio parlò a Mosè e gli disse: «Io sono il Signore.
Io apparvi ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe, come il Dio onnipotente; ma non fui conosciuto da loro con il mio nome di Signore.
Stabilii pure il mio patto con loro, per dar loro il paese di Canaan, il paese nel quale soggiornavano come forestieri.
Ho anche udito i gemiti dei figli d'Israele che gli Egiziani tengono in schiavitù e mi sono ricordato del mio patto.
Perciò, di' ai figli d'Israele: "Io sono il Signore; quindi vi sottrarrò ai duri lavori di cui vi gravano gli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi salverò con braccio steso e con grandi atti di giudizio.
DEUTERONOMIO 8
Abbiate cura di mettere in pratica tutti i comandamenti che oggi vi do, affinché viviate, moltiplichiate ed entriate in possesso del paese che il Signore giurò di dare ai vostri padri.
Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, il tuo Dio, ti ha fatto fare in questi quarant'anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti.
Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per insegnarti che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che vive di tutto quello che procede dalla bocca del Signore.
Nel deserto ti ha nutrito di manna che i tuoi padri non avevano mai conosciuta, per umiliarti e per provarti, per farti, alla fine, del bene.
Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te,
poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato.
E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo.
Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare.
Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse.
Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola.
Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te;
poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato.
Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi;
e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro.
Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi.
Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta.
Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza.
Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno.
Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Santificali nella verità: la tua parola è verità.
Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo.
E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola:
che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno;
io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato;
ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.
ATTI 10
Voi sapete quello che è avvenuto per tutta la Giudea cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni:
vale a dire, la storia di Gesù di Nazaret; come Dio l'ha unto di Spirito Santo e di potenza; e come egli è andato attorno facendo del bene, e guarendo tutti coloro che erano sotto il dominio del diavolo, perché Dio era con lui.
E noi siamo testimoni di tutte le cose ch'egli ha fatte nel paese dei Giudei e in Gerusalemme; ed essi l'hanno ucciso, appendendolo ad un legno.
Esso ha Dio risuscitato il terzo giorno, e ha fatto sì ch'egli si manifestasse
non a tutto il popolo, ma ai testimoni che erano prima stati scelti da Dio; cioè a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.
Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te,
poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato.
E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo.
Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare.
Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse.
Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola.
Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te;
poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato.
Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi;
e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro.
Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi.
Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta.
Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza.
Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno.
Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Santificali nella verità: la tua parola è verità.
Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo.
E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola:
che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno;
io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato;
ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.
'Quanto a te, parla ai figli d'Israele e di' loro: Badate bene d'osservare i miei sabati, perché il sabato è un segno fra me e voi per tutte le vostre generazioni, affinché conosciate che io sono l'Eterno che vi santifica.
Osserverete dunque il sabato, perché è per voi un giorno santo; chi lo profanerà dovrà essere messo a morte; chiunque farà in esso qualche lavoro sarà sterminato di fra il suo popolo.
Si lavorerà sei giorni; ma il settimo giorno è un sabato di solenne riposo, sacro all'Eterno; chiunque farà qualche lavoro nel giorno del sabato dovrà esser messo a morte.
I figli d'Israele quindi osserveranno il sabato, celebrandolo di generazione in generazione come un patto perpetuo.
Esso è un segno perpetuo fra me e i figli d'Israele; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli e la terra, e il settimo giorno cessò di lavorare, e si riposò'.
Quando l'Eterno ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli dette le due tavole della testimonianza, tavole di pietra, scritte col dito di Dio.
Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
Abramo partì, come il Signore gli aveva detto, e Lot andò con lui. Abramo aveva settantacinque anni quando partì da Caran.
Abramo prese Sarai sua moglie e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che possedevano e le persone che avevano acquistate in Caran, e partirono verso il paese di Canaan.
Giunsero così nella terra di Canaan, e Abramo attraversò il paese fino alla località di Sichem, fino alla quercia di More. In quel tempo i Cananei erano nel paese.
Il Signore apparve ad Abramo e disse: «Io darò questo paese alla tua discendenza». Lì Abramo costruì un altare al Signore che gli era apparso.
Di là si spostò verso la montagna a oriente di Betel, e piantò le sue tende, avendo Betel a occidente e Ai ad oriente; lì costruì un altare al Signore e invocò il nome del Signore.
MARCO 10
Mentre Gesù usciva per la via, un tale accorse e, inginocchiatosi davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?»
Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio.
Tu sai i comandamenti: "Non uccidere; non commettere adulterio; non rubare; non dire falsa testimonianza; non frodare nessuno; onora tuo padre e tua madre"».
Ed egli rispose: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia gioventù».
Gesù, guardatolo, l'amò e gli disse: «Una cosa ti manca! Va', vendi tutto ciò che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi».
Ma egli, rattristato da quella parola, se ne andò dolente, perché aveva molti beni.
Gesù, guardatosi attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno delle ricchezze entreranno nel regno di Dio!»
I discepoli si stupirono di queste sue parole. E Gesù replicò loro: «Figlioli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!
È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio».
Ed essi sempre più stupiti dicevano tra di loro: «Chi dunque può essere salvato?»
Gesù fissò lo sguardo su di loro e disse: «Agli uomini è impossibile, ma non a Dio; perché ogni cosa è possibile a Dio».
Pietro gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito».
Gesù rispose: «In verità vi dico che non vi è nessuno che abbia lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi, per amor mio e per amor del vangelo,
il quale ora, in questo tempo, non ne riceva cento volte tanto: case, fratelli, sorelle, madri, figli, campi, insieme a persecuzioni e, nel secolo a venire, la vita eterna.
Ma molti primi saranno ultimi e molti ultimi primi».
PROVERBI 10
Quel che fa ricchi è la benedizione dell'Eterno e il tormento che uno si dà non le aggiunge nulla.
Allora alcuni degli scribi e dei Farisei presero a dirgli: Maestro, noi vorremmo vederti operare un segno.
Ma egli rispose loro: Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona.
Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così starà il Figliuol dell'uomo nel cuor della terra tre giorni e tre notti.
I Niniviti risorgeranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno, perché essi si ravvidero alla predicazione di Giona; ed ecco qui vi è più che Giona!
GIONA
Capitolo 1
La parola dell'Eterno fu rivolta a Giona, figliuolo di Amittai, in questi termini:
'Lèvati, va' a Ninive, la gran città, e predica contro di lei; perché la loro malvagità è salita nel mio cospetto'.
Ma Giona si levò per fuggirsene a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno; e scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarsis; e, pagato il prezzo del suo passaggio, s'imbarcò per andare con quei della nave a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno.
Ma l'Eterno scatenò un gran vento sul mare, e vi fu sul mare una forte tempesta, sì che la nave minacciava di sfasciarsi.
I marinai ebbero paura, e ognuno gridò al suo dio e gettarono a mare le mercanzie ch'erano a bordo, per alleggerire la nave; ma Giona era sceso nel fondo della nave, s'era coricato, e dormiva profondamente.
Il capitano gli si avvicinò, e gli disse: 'Che fai tu qui a dormire? Lèvati, invoca il tuo dio! Forse Dio si darà pensiero di noi, e non periremo'.
Poi dissero l'uno all'altro: 'Venite, tiriamo a sorte, per sapere a cagione di chi ci capita questa disgrazia'. Tirarono a sorte, e la sorte cadde su Giona.
Allora essi gli dissero: 'Dicci dunque a cagione di chi ci capita questa disgrazia! Qual è la tua occupazione? donde vieni? qual è il tuo paese? e a che popolo appartieni?'
Egli rispose loro: 'Sono Ebreo, e temo l'Eterno, l'Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra ferma'.
Allora quegli uomini furon presi da grande spavento, e gli dissero: 'Perché hai fatto questo?' Poiché quegli uomini sapevano ch'egli fuggiva lungi dal cospetto dell'Eterno, giacché egli avea dichiarato loro la cosa.
E quelli gli dissero: 'Che ti dobbiam fare perché il mare si calmi per noi?' Poiché il mare si faceva sempre più tempestoso.
Egli rispose loro: 'Pigliatemi e gettatemi in mare, e il mare si calmerà per voi; perché io so che questa forte tempesta vi piomba addosso per cagion mia'.
Nondimeno quegli uomini davan forte nei remi per ripigliar terra; ma non potevano, perché il mare si faceva sempre più tempestoso e minaccioso.
Allora gridarono all'Eterno, e dissero: 'Deh, o Eterno, non lasciar che periamo per risparmiar la vita di quest'uomo, e non ci mettere addosso del sangue innocente; perché tu, o Eterno, hai fatto quel che ti è piaciuto'.
Poi presero Giona e lo gettarono in mare; e la furia del mare si calmò.
E quegli uomini furon presi da un gran timore dell'Eterno; offrirono un sacrifizio all'Eterno, e fecero dei voti.
Capitolo 4
Ma Giona ne provò un gran dispiacere, e ne fu irritato; e pregò l'Eterno, dicendo:
'O Eterno, non è egli questo ch'io dicevo, mentr'ero ancora nel mio paese? Perciò m'affrettai a fuggirmene a Tarsis; perché sapevo che sei un Dio misericordioso, pietoso, lento all'ira, di gran benignità, e che ti penti del male minacciato.
Or dunque, o Eterno, ti prego, riprenditi la mia vita; poiché per me val meglio morire che vivere'.
E l'Eterno gli disse: 'Fai tu bene a irritarti così?'
Poi Giona uscì dalla città, e si mise a sedere a oriente della città; si fece quivi una capanna, e vi sedette sotto, all'ombra, stando a vedere quello che succederebbe alla città.
E Dio, l'Eterno, per guarirlo della sua irritazione, fece crescere un ricino, che montò su di sopra a Giona per fargli ombra al capo; e Giona provò una grandissima gioia a motivo di quel ricino.
Ma l'indomani, allo spuntar dell'alba, Iddio fece venire un verme, il quale attaccò il ricino, ed esso si seccò.
E come il sole fu levato, Iddio fece soffiare un vento soffocante d'oriente, e il sole picchiò sul capo di Giona, sì ch'egli venne meno, e chiese di morire, dicendo: 'Meglio è per me morire che vivere'.
E Dio disse a Giona: 'Fai tu bene a irritarti così a motivo del ricino?' Egli rispose: 'Sì, faccio bene a irritarmi fino alla morte'.
E l'Eterno disse: 'Tu hai pietà del ricino per il quale non hai faticato, e che non hai fatto crescere, che è nato in una notte e in una notte è perito:
e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e tanta quantità di bestiame?'
Il Signore è la mia luce e la mia salvezza; di chi temerò? Il Signore è il baluardo della mia vita; di chi avrò paura?
Quando i malvagi, che mi sono avversari e nemici, mi hanno assalito per divorarmi, essi stessi hanno vacillato e sono caduti.
Se un esercito si accampasse contro di me, il mio cuore non avrebbe paura; se infuriasse la battaglia contro di me, anche allora sarei fiducioso.
Una cosa ho chiesto al Signore, e quella ricerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore, e meditare nel suo tempio.
Poich'egli mi nasconderà nella sua tenda in giorno di sventura, mi custodirà nel luogo più segreto della sua dimora, mi porterà in alto sopra una roccia.
E ora la mia testa s'innalza sui miei nemici che mi circondano. Offrirò nella sua dimora sacrifici con gioia; canterò e salmeggerò al Signore.
O Signore, ascolta la mia voce quando t'invoco; abbi pietà di me, e rispondimi.
Il mio cuore mi dice da parte tua: «Cercate il mio volto!» Io cerco il tuo volto, o Signore.
Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo;tu sei stato il mio aiuto; non lasciarmi, non abbandonarmi, o Dio della mia salvezza!
Qualora mio padre e mia madre m'abbandonino, il Signore mi accoglierà.
O Signore, insegnami la tua via, guidami per un sentiero diritto, a causa dei miei nemici.
Non darmi in balìa dei miei nemici; perché sono sorti contro di me falsi testimoni, gente che respira violenza.
Ah, se non avessi avuto fede di veder la bontà del Signore sulla terra dei viventi!
Spera nel Signore! Sii forte, il tuo cuore si rinfranchi; sì, spera nel Signore!
Or essendo Gesù nato in Betleem di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
Dov'è il re de' Giudei che è nato? Poiché noi abbiam veduto la sua stella in Oriente e siam venuti per adorarlo.
Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
E radunati tutti i capi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
Ed essi gli dissero: In Betleem di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
E tu, Betleem, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
e mandandoli a Betleem, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima allegrezza.
Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.
GIOVANNI 18
Poi, da Caiàfa, menarono Gesù nel pretorio. Era mattina, ed essi non entrarono nel pretorio per non contaminarsi e così poter mangiare la pasqua.
Pilato dunque uscì fuori verso di loro, e domandò: Quale accusa portate contro quest'uomo?
Essi risposero e gli dissero: Se costui non fosse un malfattore, non te lo avremmo dato nelle mani.
Pilato quindi disse loro: Pigliatelo voi, e giudicatelo secondo la vostra legge. I Giudei gli dissero: A noi non è lecito far morire alcuno.
E ciò affinché si adempisse la parola che Gesù aveva detta, significando di qual morte doveva morire.
Pilato dunque rientrò nel pretorio; chiamò Gesù e gli disse: Sei tu il Re dei Giudei?
Gesù gli rispose: Dici tu questo di tuo, oppure altri te l'hanno detto di me?
Pilato gli rispose: Son io forse giudeo? La tua nazione e i capi sacerdoti t'hanno messo nelle mie mani; che hai fatto?
Gesù rispose: il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perch'io non fossi dato in mano dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui.
Allora Pilato gli disse: Ma dunque, sei tu re? Gesù rispose: Tu lo dici; io sono re; io sono nato per questo, e per questo son venuto nel mondo, per testimoniare della verità. Chiunque è per la verità ascolta la mia voce.
Pilato gli disse: Che cos'è verità? E detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei, e disse loro: Io non trovo alcuna colpa in lui.
Ma voi avete l'usanza ch'io vi liberi uno per la Pasqua; volete dunque che vi liberi il Re de' Giudei?
Allora gridaron di nuovo: Non costui, ma Barabba! Or Barabba era un ladrone.
Parole dell'Ecclesiaste, figlio di Davide, re di Gerusalemme.
Vanità delle vanità, dice l'Ecclesiaste, vanità delle vanità, tutto è vanità.
Che profitto ha l'uomo di tutta la fatica che sostiene sotto il sole?
Una generazione se ne va, un'altra viene, e la terra sussiste per sempre.
Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo.
Il vento soffia verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri.
Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre.
Ogni cosa è in travaglio, più di quanto l'uomo possa dire; l'occhio non si sazia mai di vedere e l'orecchio non è mai stanco di udire.
Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c'è nulla di nuovo sotto il sole.
C'è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questo è nuovo?» Quella cosa esisteva già nei secoli che ci hanno preceduto.
Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi.
Io, l'Ecclesiaste, sono stato re d'Israele a Gerusalemme,
e ho applicato il cuore a cercare e a investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo: occupazione penosa, che Dio ha data ai figli degli uomini perché vi si affatichino.
Io ho visto tutto ciò che si fa sotto il sole: ed ecco tutto è vanità, è un correre dietro al vento.
Ciò che è storto non può essere raddrizzato, ciò che manca non può essere contato.
Io ho detto, parlando in cuor mio: «Ecco io ho acquistato maggiore saggezza di tutti quelli che hanno regnato prima di me a Gerusalemme; sì, il mio cuore ha posseduto molta saggezza e molta scienza».
Ho applicato il cuore a conoscere la saggezza, e a conoscere la follia e la stoltezza; ho riconosciuto che anche questo è un correre dietro al vento.
Infatti, dov'è molta saggezza c'è molto affanno, e chi accresce la sua scienza accresce il suo dolore.
ECCLESIASTE 2
Io ho detto in cuor mio: «Andiamo! Ti voglio mettere alla prova con la gioia, e tu godrai il piacere!» Ed ecco che anche questo è vanità.
Io ho detto del riso: «É una follia»; e della gioia: «A che giova?»
Perciò ho odiato la vita, perché tutto quello che si fa sotto il sole mi è divenuto odioso, poiché tutto è vanità, un correre dietro al vento.
ECCLESIASTE 12
Ascoltiamo dunque la conclusione di tutto il discorso: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto dell'uomo.
1 PIETRO 1
E se invocate come Padre colui che giudica senza favoritismi, secondo l'opera di ciascuno, comportatevi con timore durante il tempo del vostro soggiorno terreno;
sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri,
ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia.
Già designato prima della creazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi;
per mezzo di lui credete in Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria affinché la vostra fede e la vostra speranza fossero in Dio.
Avendo purificato le anime vostre con l'ubbidienza alla verità per giungere a un sincero amor fraterno, amatevi intensamente a vicenda di vero cuore,
perché siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè mediante la parola vivente e permanente di Dio.
Infatti, «ogni carne è come l'erba, e ogni sua gloria come il fiore dell'erba. L'erba diventa secca e il fiore cade;
ma la parola del Signore rimane in eterno». E questa è la parola della buona notizia che vi è stata annunziata.
1 CORINZI 15
Quando poi questo corruttibile avrà rivestito incorruttibilità e questo mortale avrà rivestito immortalità, allora sarà adempiuta la parola che è scritta: «La morte è stata sommersa nella vittoria».
«O morte, dov'è la tua vittoria? O morte, dov'è il tuo dardo?»
Ora il dardo della morte è il peccato, e la forza del peccato è la legge;
ma ringraziato sia Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo.
Perciò, fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.
Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù che sono disperse nel mondo: salute.
Fratelli miei, considerate una grande gioia quando venite a trovarvi in prove svariate,
sapendo che la prova della vostra fede produce costanza.
E la costanza compia pienamente l'opera sua in voi, perché siate perfetti e completi, di nulla mancanti.
Se poi qualcuno di voi manca di saggezza, la chieda a Dio che dona a tutti generosamente senza rinfacciare, e gli sarà data.
Ma la chieda con fede, senza dubitare; perché chi dubita rassomiglia a un'onda del mare, agitata dal vento e spinta qua e là.
Un tale uomo non pensi di ricevere qualcosa dal Signore,
perché è di animo doppio, instabile in tutte le sue vie.
Il fratello di umile condizione sia fiero della sua elevazione;
e il ricco, della sua umiliazione, perché passerà come il fiore dell'erba.
Infatti il sole sorge con il suo calore ardente e fa seccare l'erba, e il suo fiore cade e la sua bella apparenza svanisce; anche il ricco appassirà così nelle sue imprese.
Beato l'uomo che sopporta la prova; perché, dopo averla superata, riceverà la corona della vita, che il Signore ha promessa a quelli che lo amano.
E venuta l'ora sesta, si fecero tenebre per tutto il paese, fino all'ora nona.
E all'ora nona, Gesù gridò con gran voce: Eloì, Eloì, lamà sabactanì? il che, interpretato, vuol dire: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
E alcuni degli astanti, udito ciò, dicevano: Ecco, chiama Elia!
E uno di loro corse, e inzuppata d'aceto una spugna, e postala in cima ad una canna, gli diè da bere dicendo: Aspettate, vediamo se Elia viene a trarlo giù.
E Gesù, gettato un gran grido, rendé lo spirito.
Ed essendo già sera (poiché era Preparazione, cioè la vigilia del sabato),
venne Giuseppe d'Arimatea, consigliere onorato, il quale aspettava anch'egli il Regno di Dio; e, preso ardire, si presentò a Pilato e domandò il corpo di Gesù.
Pilato si meravigliò ch'egli fosse già morto; e chiamato a sé il centurione, gli domandò se era morto da molto tempo;
e saputolo dal centurione, donò il corpo a Giuseppe.
E questi, comprato un panno lino e tratto Gesù giù di croce, l'involse nel panno e lo pose in una tomba scavata nella roccia, e rotolò una pietra contro l'apertura del sepolcro.
ATTI 1
Nel mio primo libro, o Teofilo, parlai di tutto quel che Gesù prese e a fare e ad insegnare,
fino al giorno che fu assunto in cielo, dopo aver dato per lo Spirito Santo dei comandamenti agli apostoli che avea scelto.
Ai quali anche, dopo ch'ebbe sofferto, si presentò vivente con molte prove, facendosi veder da loro per quaranta giorni, e ragionando delle cose relative al regno di Dio.
E trovandosi con essi, ordinò loro di non dipartirsi da Gerusalemme, ma di aspettarvi il compimento della promessa del Padre, la quale, egli disse, avete udita da me.
Poiché Giovanni Battista battezzò sì con acqua, ma voi sarete battezzati con lo Spirito Santo tra non molti giorni.
Quelli dunque che erano radunati, gli domandarono: Signore, è egli in questo tempo che ristabilirai il regno ad Israele?
Egli rispose loro: Non sta a voi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riserbato alla sua propria autorità.
Ma voi riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni e in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all'estremità della terra.
E dette queste cose, mentre essi guardavano, fu elevato; e una nuvola, accogliendolo, lo tolse d'innanzi agli occhi loro.
E come essi aveano gli occhi fissi in cielo, mentr'egli se ne andava, ecco che due uomini in vesti bianche si presentarono loro e dissero:
Uomini Galilei, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù che è stato tolto da voi ed assunto dal cielo, verrà nella medesima maniera che l'avete veduto andare in cielo.
Allora essi tornarono a Gerusalemme dal monte chiamato dell'Uliveto, il quale è vicino a Gerusalemme, non distandone che un cammin di sabato.
E come furono entrati, salirono nella sala di sopra ove solevano trattenersi Pietro e Giovanni e Giacomo e Andrea, Filippo e Toma, Bartolomeo e Matteo, Giacomo d'Alfeo, e Simone lo Zelota, e Giuda di Giacomo.
Tutti costoro perseveravano di pari consentimento nella preghiera, con le donne, e con Maria, madre di Gesù, e coi fratelli di lui.
Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c'era più.
E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere giù dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
E udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo (skene) di Dio con gli uomini! Egli abiterà (skenao) con loro, ed essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio."
Esodo 25
E mi facciano un santuario perch'io abiti (shachan) in mezzo a loro.
Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo (mishchan) e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti.
Esodo 29
Sarà un olocausto perpetuo offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io v'incontrerò per parlare qui con te.
E là io mi troverò coi figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figliuoli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
E abiterò (shachan) in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per abitare (shachan) tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro.
Giovanni 1
E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato (skenao) per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Luca 17
Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà:
"Eccolo qui", o "eccolo là"; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi.
Giovanni 1
Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l'ha conosciuto.
È venuto in casa sua, e i suoi non l'hanno ricevuto:
ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio; a quelli, cioè, che credono nel suo nome.
Matteo 18
Poiché dovunque due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.
1 Corinzi 3
Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?
Se uno guasta il tempio di Dio, Dio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi.
Giovanni 14
Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me!
Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che vado a prepararvi un luogo?
Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi".
Matteo 11:28-30
Venite a me, voi tutti
che siete travagliati ed aggravati,
e io vi darò riposo.
Prendete su voi il mio giogo
ed imparate da me,
perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
e voi troverete riposo alle anime vostre;
poiché il mio giogo è dolce
e il mio carico è leggero.
Or sappi questo: che negli ultimi giorni verranno dei tempi difficili;
perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, irreligiosi,
senza affezione naturale, mancatori di fede, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene,
traditori, temerari, gonfi, amanti del piacere anziché di Dio,
avendo le forme della pietà, ma avendone rinnegata la potenza.
Anche costoro schiva! Poiché del numero di costoro sono quelli che s'insinuano nelle case e cattivano donnicciuole cariche di peccati, e agitate da varie cupidigie,
che imparano sempre e non possono mai pervenire alla conoscenza della verità.
E come Jannè e Iambrè contrastarono a Mosè, così anche costoro contrastano alla verità: uomini corrotti di mente, riprovati quanto alla fede.
Ma non andranno più oltre, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quegli uomini.
Quanto a te, tu hai tenuto dietro al mio insegnamento, alla mia condotta, ai miei propositi, alla mia fede, alla mia pazienza, al mio amore, alla mia costanza,
alle mie persecuzioni, alle mie sofferenze, a quel che mi avvenne ad Antiochia, ad Iconio ed a Listra. Sai quali persecuzioni ho sopportato; e il Signore mi ha liberato da tutte.
E d'altronde tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati;
mentre i malvagi e gli impostori andranno di male in peggio, seducendo ed essendo sedotti.
Ma tu persevera nelle cose che hai imparate e delle quali sei stato accertato, sapendo da chi le hai imparate,
e che fin da fanciullo hai avuto conoscenza degli Scritti sacri, i quali possono renderti savio a salute mediante la fede che è in Cristo Gesù.
Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile ad insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia,
affinché l'uomo di Dio sia compiuto, appieno fornito per ogni opera buona.
Capitolo 4
Io te ne scongiuro nel cospetto di Dio e di Cristo Gesù che ha da giudicare i vivi e i morti, e per la sua apparizione e per il suo regno:
Predica la Parola, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, sgrida, esorta con grande pazienza e sempre istruendo.
Perché verrà il tempo che non sopporteranno la sana dottrina; ma per prurito d'udire si accumuleranno dottori secondo le loro proprie voglie
e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole.
Ma tu sii vigilante in ogni cosa, soffri afflizioni, fa' l'opera d'evangelista, compi tutti i doveri del tuo ministero.
La figura di Giobbe viene di solito messa in relazione con il problema della sofferenza. Dallo studio del libro su cui si basa la seguente predicazione emerge invece che langoscioso tormento in cui si dibatte Giobbe non è dovuto allinesplicabilità del problema della sofferenza, ma al crollo di un pilastro che aveva sostenuto fino a quel momento la sua vita: la fede nella giustizia di Dio. Le buone parole con cui i suoi amici cercano di metterlo sulla buona strada lo spingono sempre di più sul ciglio di un baratro in cui corre il rischio di cadere e perdersi definitivamente: il pensiero di essere più giusto di Dio.
Marcello Cicchese
novembre 2018
Testo delle letture
1.6 Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
7 E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal passeggiar per essa'.
8 E l'Eterno disse a Satana: 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male'.
9 E Satana rispose all'Eterno: 'È egli forse per nulla che Giobbe teme Iddio?
10 Non l'hai tu circondato d'un riparo, lui, la sua casa, e tutto quello che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani, e il suo bestiame ricopre tutto il paese.
11 Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
12 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene! tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona'. - E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno.
1.20 Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello e si rase il capo e si prostrò a terra e adorò e disse:
21 'Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno'.
22 In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di mal fatto.
2.E l'Eterno disse a Satana:
3 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità benché tu m'abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo'.
4 E Satana rispose all'Eterno: 'Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita;
5 ma stendi un po' la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
6 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene esso è in tuo potere; soltanto, rispetta la sua vita'.
7 E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno e colpì Giobbe d'un'ulcera maligna dalla pianta de' piedi al sommo del capo; e Giobbe prese un còccio per grattarsi, e stava seduto nella cenere.
8 E sua moglie gli disse: 'Ancora stai saldo nella tua integrità?
9 Ma lascia stare Iddio, e muori!'
10 E Giobbe a lei: 'Tu parli da donna insensata! Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo d'accettare il male?' - In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.
3.1 Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita.
2 E prese a dire così:
3 «Perisca il giorno ch'io nacqui e la notte che disse: 'È concepito un maschio!'
4 Quel giorno si converta in tenebre, non se ne curi Iddio dall'alto, né splenda sovr'esso raggio di luce!
5 Se lo riprendano le tenebre e l'ombra di morte, resti sovr'esso una fitta nuvola, le eclissi lo riempiano di paura!
3.11 Perché non morii nel seno di mia madre? Perché non spirai appena uscito dalle sue viscere?
12 Perché trovai delle ginocchia per ricevermi e delle mammelle da poppare?
20 Perché dar la luce all'infelice e la vita a chi ha l'anima nell'amarezza,
23 Perché dar vita a un uomo la cui via è oscura, e che Dio ha stretto in un cerchio?
9.20 Fossi pur giusto, la mia bocca stessa mi condannerebbe; fossi pure integro, essa mi farebbe dichiarar perverso.
21 Integro! Sì, lo sono! di me non mi preme, io disprezzo la vita!
22 Per me è tutt'uno! perciò dico: 'Egli distrugge ugualmente l'integro ed il malvagio.
23 Se un flagello, a un tratto, semina la morte, egli ride dello sgomento degli innocenti.
24 La terra è data in balìa dei malvagi; egli vela gli occhi ai giudici di essa; se non è lui, chi è dunque'?
19.5 Ma se proprio volete insuperbire contro di me e rimproverarmi la vergogna in cui mi trovo,
6 allora sappiatelo: chi m'ha fatto torto e m'ha avvolto nelle sue reti è Dio.
7 Ecco, io grido: 'Violenza!' e nessuno risponde; imploro aiuto, ma non c'è giustizia!
24.12 Sale dalle città il gemito dei morenti; l'anima de' feriti implora aiuto, e Dio non si cura di codeste infamie!
24.22 Iddio con la sua forza prolunga i giorni dei prepotenti, i quali risorgono, quand'ormai disperavano della vita.
24.25 Se così non è, chi mi smentirà, chi annienterà il mio dire?
27.5 Lungi da me l'idea di darvi ragione! Fino all'ultimo respiro non mi lascerò togliere la mia integrità.
6 Ho preso a difendere la mia giustizia e non cederò; il cuore non mi rimprovera uno solo dei miei giorni.
31.35 Oh, avessi pure chi m'ascoltasse!... ecco qua la mia firma! l'Onnipotente mi risponda! Scriva l'avversario mio la sua querela,
36 ed io la porterò attaccata alla mia spalla, me la cingerò come un diadema!
37 Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe!
1.6 Or avvenne un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
16.19 Già fin d'ora, ecco, il mio Testimonio è in cielo, il mio Garante è nei luoghi altissimi.
20 Gli amici mi deridono, ma a Dio si volgon piangenti gli occhi miei;
21 sostenga egli le ragioni dell'uomo presso Dio, le ragioni del figlio dell'uomo contro i suoi compagni!
19.25 Ma io so che il mio Vendicatore vive, e che alla fine si leverà sulla polvere.
26 E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Iddio.
27 Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno gli occhi miei, non quelli d'un altro... il cuore, dalla brama, mi si strugge in seno!
9.32 Dio non è un uomo come me, perch'io gli risponda e che possiam comparire in giudizio assieme.
33 Non c'è fra noi un arbitro, che posi la mano su tutti e due!
42.7 Dopo che ebbe rivolto questi discorsi a Giobbe, l'Eterno disse a Elifaz di Teman: 'L'ira mia è accesa contro te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe.
32.1 Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe perché egli si credeva giusto.
2 Allora l'ira di Elihu, figliuolo di Barakeel il Buzita, della tribù di Ram, s'accese:
3 s'accese contro Giobbe, perché riteneva giusto se stesso anziché Dio; s'accese anche contro i tre amici di lui perché non avean trovato che rispondere, sebbene condannassero Giobbe.
32.13 Non avete dunque ragione di dire: 'Abbiam trovato la sapienza! Dio soltanto lo farà cedere; non l'uomo!'
14 Egli non ha diretto i suoi discorsi contro a me, ed io non gli risponderò colle vostre parole.
33.1 Ma pure, ascolta, o Giobbe, il mio dire, porgi orecchio a tutte le mie parole!
2 Ecco, apro la bocca, la lingua parla sotto il mio palato.
3 Nelle mie parole è la rettitudine del mio cuore; e le mie labbra diran sinceramente quello che so.
4 Lo spirito di Dio mi ha creato, e il soffio dell'Onnipotente mi dà la vita.
5 Se puoi, rispondimi; prepara le tue ragioni, fatti avanti!
6 Ecco, io sono uguale a te davanti a Dio; anch'io, fui tratto dall'argilla.
7 Spavento di me non potrà quindi sgomentarti, e il peso della mia autorità non ti potrà schiacciare.
8 Davanti a me tu dunque hai detto (e ho bene udito il suono delle tue parole):
9 'Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c'è iniquità in me;
10 ma Dio trova contro me degli appigli ostili, mi tiene per suo nemico;
11 mi mette i piedi nei ceppi, spia tutti i miei movimenti'.
12 E io ti rispondo: In questo non hai ragione; giacché Dio è più grande dell'uomo.
13 Perché contendi con lui? poich'egli non rende conto d'alcuno dei suoi atti.
14 Iddio parla, bensì, una volta ed anche due, ma l'uomo non ci bada;
15 parla per via di sogni, di visioni notturne, quando un sonno profondo cade sui mortali, quando sui loro letti essi giacciono assopiti;
16 allora egli apre i loro orecchi e dà loro in segreto degli ammonimenti,
17 per distoglier l'uomo dal suo modo d'agire e tener lungi da lui la superbia;
18 per salvargli l'anima dalla fossa, la vita dal dardo mortale.
19 L'uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore, dall'agitazione incessante delle sue ossa;
20 quand'egli ha in avversione il pane, e l'anima sua schifa i cibi più squisiti;
21 la carne gli si consuma, e sparisce, mentre le ossa, prima invisibili, gli escon fuori,
22 l'anima sua si avvicina alla fossa, e la sua vita a quelli che danno la morte.
23 Ma se, presso a lui, v'è un angelo, un interprete, uno solo fra i mille, che mostri all'uomo il suo dovere,
24 Iddio ha pietà di lui e dice: 'Risparmialo, che non scenda nella fossa! Ho trovato il suo riscatto'.
25 Allora la sua carne divien fresca più di quella d'un bimbo; egli torna ai giorni della sua giovinezza;
26 implora Dio, e Dio gli è propizio; gli dà di contemplare il suo volto con giubilo, e lo considera di nuovo come giusto.
27 Ed egli va cantando fra la gente e dice: 'Avevo peccato, pervertito la giustizia, e non sono stato punito come meritavo.
28 Iddio ha riscattato l'anima mia, onde non scendesse nella fossa e la mia vita si schiude alla luce!'
29 Ecco, tutto questo Iddio lo fa due, tre volte, all'uomo,
30 per ritrarre l'anima di lui dalla fossa, perché su di lei splenda la luce della vita.
31 Sta' attento, Giobbe, dammi ascolto; taci, ed io parlerò.
32 Se hai qualcosa da dire, rispondi, parla, ché io vorrei poterti dar ragione. 33 Se no, tu dammi ascolto, taci, e t'insegnerò la saviezza».
34.29 Quando Iddio dà requie chi lo condannerà? Chi potrà contemplarlo quando nasconde il suo volto a una nazione ovvero a un individuo,
30 per impedire all'empio di regnare, per allontanar dal popolo le insidie?
31 Quell'empio ha egli detto a Dio: 'Io porto la mia pena, non farò più il male,
32 mostrami tu quel che non so vedere; se ho agito perversamente, non lo farò più'?
33 Dovrà forse Iddio render la giustizia a modo tuo, che tu lo critichi? Ti dirà forse: 'Scegli tu, non io, quello che sai, dillo'?
34 La gente assennata e ogni uomo savio che m'ascolta, mi diranno:
35 'Giobbe parla senza giudizio, le sue parole sono senza intendimento'.
36 Ebbene, sia Giobbe provato sino alla fine! poiché le sue risposte son quelle degli iniqui, 37 poiché aggiunge al peccato suo la ribellione, batte le mani in mezzo a noi, e moltiplica le sue parole contro Dio».
35.9 Si grida per le molte oppressioni, si levano lamenti per la violenza dei grandi;
10 ma nessuno dice: 'Dov'è Dio, il mio creatore, che nella notte concede canti di gioia,
11 che ci fa più intelligenti delle bestie de' campi e più savi degli uccelli del cielo?'
12 Si grida, sì, ma egli non risponde, a motivo della superbia dei malvagi.
13 Certo, Dio non dà ascolto a lamenti vani; l'Onnipotente non ne fa nessun conto.
14 E tu, quando dici che non lo scorgi, la causa tua gli sta dinanzi; sappilo aspettare!
15 Ma ora, perché la sua ira non punisce, perch'egli non prende rigorosa conoscenza delle trasgressioni,
16 Giobbe apre vanamente le labbra e accumula parole senza conoscimento».
36.8 Se gli uomini son talora stretti da catene, se son presi nei legami dell'afflizione,
9 Dio fa lor conoscere la lor condotta, le loro trasgressioni, giacché si sono insuperbiti;
10 egli apre così i loro orecchi a' suoi ammonimenti, e li esorta ad abbandonare il male.
11 Se l'ascoltano, se si sottomettono, finiscono i loro giorni nel benessere, e gli anni loro nella gioia;
12 ma, se non l'ascoltano, periscono trafitti da' suoi dardi, muoiono per mancanza d'intendimento.
13 Gli empi di cuore s'abbandonano alla collera, non implorano Iddio quand'egli li incatena;
14 così muoiono nel fiore degli anni, e la loro vita finisce come quella dei dissoluti;
15 ma Dio libera l'afflitto mediante l'afflizione, e gli apre gli orecchi mediante la sventura.
16 Te pure ti vuole trarre dalle fauci della distretta, al largo, dove non è più angustia, e coprire la tua mensa tranquilla di cibi succulenti.
17 Ma, se giudichi le vie di Dio come fanno gli empi, il giudizio e la sentenza di lui ti piomberanno addosso.
18 Bada che la collera non ti trasporti alla bestemmia, e la grandezza del riscatto non t'induca a fuorviare!
37.1 A tale spettacolo il cuor mi trema e balza fuor del suo luogo.
2 Udite, udite il fragore della sua voce, il rombo che esce dalla sua bocca!
3 Egli lo lancia sotto tutti i cieli e il suo lampo guizza fino ai lembi della terra.
4 Dopo il lampo, una voce rugge; egli tuona con la sua voce maestosa; e quando s'ode la voce, il fulmine non è già più nella sua mano.
5 Iddio tuona con la sua voce maravigliosamente; grandi cose egli fa che noi non intendiamo.
38.1 Allora l'Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
2 «Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?»
42.1 Allora Giobbe rispose all'Eterno e disse:
2 «Io riconosco che tu puoi tutto, e che nulla può impedirti d'eseguire un tuo disegno.
3 Chi è colui che senza intendimento offusca il tuo disegno?... Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo; son cose per me troppo maravigliose ed io non le conosco.
4 Deh, ascoltami, io parlerò; io ti farò delle domande e tu insegnami!
5 Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l'occhio mio t'ha veduto.
6 Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere».
42.12 E l'Eterno benedì gli ultimi anni di Giobbe più de' primi.
42.16 Giobbe, dopo questo, visse centoquarant'anni, e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione.
17 Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni.
Ed avvenne che, trovandosi egli in una di quelle città, ecco un uomo pieno di lebbra, il quale, veduto Gesù e gettatosi con la faccia a terra, lo pregò dicendo: Signore, se tu vuoi, tu puoi purificarmi.
Ed egli, stesa la mano, lo toccò dicendo: Lo voglio, sii purificato. E in quell'istante la lebbra sparì da lui.
E Gesù gli comandò di non dirlo a nessuno: Ma va', gli disse, mostrati al sacerdote ed offri per la tua purificazione quel che ha prescritto Mosè; e ciò serva loro di testimonianza.
Però la fama di lui si spandeva sempre più; e molte turbe si adunavano per udirlo ed essere guarite delle loro infermità.
Giovanni 14:27
Io vi lascio pace; vi do la mia pace.
Io non vi do come il mondo dà.
Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti.
Giovanni 16:33
Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me.
Nel mondo avrete tribolazione;
ma fatevi animo, io ho vinto il mondo.
Matteo 11:28-30
Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati,
e io vi darò riposo.
Prendete su voi il mio giogo ed imparate da me,
perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
e voi troverete riposo alle anime vostre;
poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero.
Solo in Dio l'anima mia s'acqueta;
da lui viene la mia salvezza.
Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza,
il mio alto ricetto; io non sarò grandemente smosso.
Fino a quando vi avventerete sopra un uomo
e cercherete tutti insieme di abbatterlo
come una parete che pende,
come un muricciuolo che cede?
Essi non pensano che a farlo cadere dalla sua altezza;
prendono piacere nella menzogna;
benedicono con la bocca,
ma internamente maledicono. Sela.
Anima mia, acquétati in Dio solo,
poiché da lui viene la mia speranza.
Egli solo è la mia ròcca e la mia salvezza;
egli è il mio alto ricetto; io non sarò smosso.
In Dio è la mia salvezza e la mia gloria;
la mia forte ròcca e il mio rifugio sono in Dio.
Confida in lui ogni tempo, o popolo;
espandi il tuo cuore nel suo cospetto;
Dio è il nostro rifugio. Sela.
Gli uomini del volgo non sono che vanità,
e i nobili non sono che menzogna;
messi sulla bilancia vanno su,
tutti assieme sono più leggeri della vanità.
Non confidate nell'oppressione,
e non mettete vane speranze nella rapina;
se le ricchezze abbondano, non vi mettete il cuore.
Dio ha parlato una volta,
due volte ho udito questo:
Che la potenza appartiene a Dio;
e a te pure, o Signore, appartiene la misericordia;
perché tu renderai a ciascuno secondo le sue opere.
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Perché te ne stai lontano, senza soccorrermi,
senza dare ascolto alle parole del mio gemito?
Dio mio, io grido di giorno, e tu non rispondi;
di notte ancora, e non ho posa alcuna.
Eppure tu sei il Santo,
che siedi circondato dalle lodi d'Israele.
I nostri padri confidarono in te;
e tu li liberasti.
Gridarono a te, e furono salvati;
confidarono in te, e non furono confusi.
Ma io sono un verme e non un uomo;
il vituperio degli uomini, e lo sprezzato dal popolo.
Chiunque mi vede si fa beffe di me;
allunga il labbro, scuote il capo, dicendo:
Ei si rimette nell'Eterno; lo liberi dunque;
lo salvi, poiché lo gradisce!
Sì, tu sei quello che m'hai tratto dal seno materno;
m'hai fatto riposar fidente sulle mammelle di mia madre.
A te fui affidato fin dalla mia nascita,
tu sei il mio Dio fin dal seno di mia madre.
Non t'allontanare da me, perché l'angoscia è vicina,
e non v'è alcuno che m'aiuti.
Grandi tori m'han circondato;
potenti tori di Basan m'hanno attorniato;
apron la loro gola contro a me,
come un leone rapace e ruggente.
Io son come acqua che si sparge,
e tutte le mie ossa si sconnettono;
il mio cuore è come la cera,
si strugge in mezzo alle mie viscere.
Il mio vigore s'inaridisce come terra cotta,
e la lingua mi s'attacca al palato;
tu m'hai posto nella polvere della morte.
Poiché cani m'han circondato;
uno stuolo di malfattori m'ha attorniato;
m'hanno forato le mani e i piedi.
Posso contare tutte le mie ossa.
Essi mi guardano e m'osservano;
spartiscon fra loro i miei vestimenti
e tirano a sorte la mia veste.
Tu dunque, o Eterno, non allontanarti,
tu che sei la mia forza, t'affretta a soccorrermi.
Libera l'anima mia dalla spada,
l'unica mia, dalla zampa del cane;
salvami dalla gola del leone.
Tu mi risponderai liberandomi dalle corna dei bufali.
Io annunzierò il tuo nome ai miei fratelli,
ti loderò in mezzo all'assemblea.
O voi che temete l'Eterno, lodatelo!
Glorificatelo voi, tutta la progenie di Giacobbe,
e voi tutta la progenie d'Israele, abbiate timor di lui!
Poich'egli non ha sprezzata
né disdegnata l'afflizione dell'afflitto,
e non ha nascosta la sua faccia da lui;
ma quand'ha gridato a lui, ei l'ha esaudito.
Tu sei l'argomento della mia lode nella grande assemblea;
io adempirò i miei voti in presenza di quelli che ti temono.
Gli umili mangeranno e saranno saziati;
quei che cercano l'Eterno lo loderanno;
il loro cuore vivrà in perpetuo.
Tutte le estremità della terra si ricorderan dell'Eterno
e si convertiranno a lui;
e tutte le famiglie delle nazioni adoreranno nel tuo cospetto.
Poiché all'Eterno appartiene il regno,
ed egli signoreggia sulle nazioni.
Tutti gli opulenti della terra mangeranno e adoreranno;
tutti quelli che scendon nella polvere
e non posson mantenersi in vita s'inginocchieranno dinanzi a lui.
La posterità lo servirà;
si parlerà del Signore alla ventura generazione.
31 Essi verranno e proclameranno la sua giustizia,
e al popolo che nascerà diranno come egli ha operato.
E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
'E tu, figlio d'uomo, così parla il Signore, l'Eterno, riguardo al paese d'Israele: La fine! la fine viene sulle quattro estremità del paese!
Ora ti sovrasta la fine, e io manderò contro di te la mia ira, ti giudicherò secondo la tua condotta, e ti farò ricadere addosso tutte le tue abominazioni.
E l'occhio mio non ti risparmierà, io sarò senza pietà, ti farò ricadere addosso tutta la tua condotta e le tue abominazioni saranno in mezzo a te; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
Ezechiele 8:1-13
E il sesto anno, il quinto giorno del sesto mese, avvenne che, come io stavo seduto in casa mia e gli anziani di Giuda erano seduti in mia presenza, la mano del Signore, dell'Eterno, cadde quivi su me.
Io guardai, ed ecco una figura d'uomo, che aveva l'aspetto del fuoco; dai fianchi in giù pareva di fuoco; e dai fianchi in su aveva un aspetto risplendente, come di terso rame.
Egli stese una forma di mano, e mi prese per una ciocca de' miei capelli; e lo spirito mi sollevò fra terra e cielo, e mi trasportò in visioni divine a Gerusalemme, all'ingresso della porta interna che guarda verso il settentrione, dov'era posto l'idolo della gelosia, che eccita a gelosia.
Ed ecco che quivi era la gloria dell'Iddio d'Israele, come nella visione che avevo avuta nella valle.
Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, alza ora gli occhi verso il settentrione'. Ed io alzai gli occhi verso il settentrione, ed ecco che al settentrione della porta dell'altare, all'ingresso, stava quell'idolo della gelosia.
Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, vedi tu quello che costoro fanno? le grandi abominazioni che la casa d'Israele commette qui, perché io m'allontani dal mio santuario? Ma tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni'.
Ed egli mi condusse all'ingresso del cortile. Io guardai, ed ecco un buco nel muro.
Allora egli mi disse: 'Figlio d'uomo, adesso fora il muro'. E quand'io ebbi forato il muro, ecco una porta.
Ed egli mi disse: 'Entra, e guarda le scellerate abominazioni che costoro commettono qui'.
Io entrai, e guardai: ed ecco ogni sorta di figure di rettili e di bestie abominevoli, e tutti gl'idoli della casa d'Israele dipinti sul muro attorno;
e settanta fra gli anziani della casa d'Israele, in mezzo ai quali era Jaazania, figlio di Shafan, stavano in piedi davanti a quelli, avendo ciascuno un turibolo in mano, dal quale saliva il profumo d'una nuvola d'incenso.
Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, hai tu visto quello che gli anziani della casa d'Israele fanno nelle tenebre, ciascuno nelle camere riservate alle sue immagini? poiché dicono: - L'Eterno non ci vede, l'Eterno ha abbandonato il paese'.
Poi mi disse: 'Tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni che costoro commettono'.
Ezechiele 14:1-11
Or vennero a me alcuni degli anziani d'Israele, e si sedettero davanti a me.
E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
'Figlio d'uomo, questi uomini hanno innalzato i loro idoli nel loro cuore, e si sono messi davanti l'intoppo che li fa cadere nella loro iniquità; come potrei io esser consultato da costoro?
Perciò parla e di' loro: Così dice il Signore, l'Eterno: Chiunque della casa d'Israele innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità, e poi viene al profeta, io, l'Eterno, gli risponderò come si merita per la moltitudine dei suoi idoli,
affin di prendere per il loro cuore quelli della casa d'Israele che si sono alienati da me tutti quanti per i loro idoli.
Perciò di' alla casa d'Israele: Così parla il Signore, l'Eterno: Tornate, ritraetevi dai vostri idoli, stornate le vostre facce da tutte le vostre abominazioni.
Poiché, a chiunque della casa d'Israele o degli stranieri che soggiornano in Israele si separa da me, innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità e poi viene al profeta per consultarmi per suo mezzo, risponderò io, l'Eterno, da me stesso.
Io volgerò la mia faccia contro a quell'uomo, ne farò un segno e un proverbio, e lo sterminerò di mezzo al mio popolo; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
E se il profeta si lascia sedurre e dice qualche parola, io, l'Eterno, sono quegli che avrò sedotto il profeta; e stenderò la mia mano contro di lui, e lo distruggerò di mezzo al mio popolo d'Israele.
E ambedue porteranno la pena della loro iniquità: la pena del profeta sarà pari alla pena di colui che lo consulta,
affinché quelli della casa d'Israele non vadano più errando lungi da me, e non si contaminino più con tutte le loro trasgressioni, e siano invece mio popolo, e io sia il loro Dio, dice il Signore, l'Eterno'.
La pazienza di Dio e la nostra speranza
Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, noi l'aspettiamo con pazienza
(Romani 8.25).
Egli mi fa giacere in verdeggianti paschi, mi guida lungo le acque chete.
Egli mi ristora l'anima, mi conduce per sentieri di giustizia, per amore del suo nome.
Quand'anche camminassi nella valle dell'ombra della morte, io non temerei male alcuno, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga sono quelli che mi consolano.
Tu apparecchi davanti a me la mensa al cospetto dei miei nemici; tu ungi il mio capo con olio; la mia coppa trabocca.
Certo, beni e benignità m'accompagneranno tutti i giorni della mia vita; ed io abiterò nella casa dell'Eterno per lunghi giorni.
Il corpo della nostra umiliazione Siate miei imitatori, fratelli, e riguardate a coloro che camminano secondo l'esempio che avete in noi. Perché molti camminano (ve l'ho detto spesso e ve lo dico anche ora piangendo), da nemici della croce di Cristo; la fine dei quali è la perdizione, il cui dio è il ventre, e la cui gloria è in quel che torna a loro vergogna; gente che ha l'animo alle cose della terra. Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove anche aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, in virtù della potenza per la quale egli può anche sottoporsi ogni cosa.
Filippesi 3:17-21
Il rinnovamento della mente Vi esorto dunque, fratelli, per le compassioni di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, accettevole a Dio, il che è il vostro culto spirituale. e non vi conformate a questo secolo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza qual sia la volontà di Dio, la buona, accettevole e perfetta volontà.
Romani 12:1-2
Preghiera di Mosè, uomo di Dio.
O Signore, tu sei stato per noi un rifugio
di generazione in generazione.
Prima che i monti fossero nati
e che tu avessi formato la terra e il mondo,
da eternità a eternità tu sei Dio.
Tu fai tornare i mortali in polvere
e dici: Ritornate, o figli degli uomini.
Perché mille anni, agli occhi tuoi,
sono come il giorno d'ieri quand'è passato,
e come una veglia nella notte.
Tu li porti via come una piena; sono come un sogno.
Son come l'erba che verdeggia la mattina;
la mattina essa fiorisce e verdeggia,
la sera è segata e si secca.
Poiché noi siamo consumati dalla tua ira,
e siamo atterriti per il tuo sdegno.
Tu metti le nostre iniquità davanti a te,
e i nostri peccati occulti, alla luce della tua faccia.
Tutti i nostri giorni spariscono per il tuo sdegno;
noi finiamo gli anni nostri come un soffio.
I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni;
o, per i più forti, a ottant'anni;
e quel che ne fa l'orgoglio, non è che travaglio e vanità;
perché passa presto, e noi ce ne voliamo via.
Chi conosce la forza della tua ira
e il tuo sdegno secondo il timore che t'è dovuto?
Insegnaci dunque a così contare i nostri giorni,
che acquistiamo un cuore saggio.
Ritorna, o Eterno; fino a quando?
e muoviti a pietà dei tuoi servitori.
Saziaci al mattino della tua benignità,
e noi giubileremo, ci rallegreremo tutti i giorni nostri.
Rallegraci in proporzione dei giorni che ci hai afflitti,
e degli anni che abbiamo sentito il male.
Apparisca l'opera tua a pro dei tuoi servitori,
e la tua gloria sui loro figli.
La grazia del Signore Dio nostro sia sopra noi,
e rendi stabile l'opera delle nostre mani;
sì, l'opera delle nostre mani rendila stabile.
Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa' in essi ogni opera tua; ma il settimo giorno è giorno di riposo, sacro all'Eterno, che è l'Iddio tuo; non fare in esso lavoro alcuno, né tu, né il tuo figlio, né la tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro alle tue porte; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò l'Eterno ha benedetto il giorno del riposo e l'ha santificato.
Nessuno può servire a due padroni; perché o odierà l'uno ed amerà l'altro, o si atterrà all'uno e sprezzerà l'altro. Voi non potete servire a Dio ed a Mammona.
Perciò vi dico: Non siate con ansiosi per la vita vostra di quel che mangerete o di quel che berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito?
Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutrisce. Non siete voi assai più di loro?
E chi di voi può con la sua sollecitudine aggiungere alla sua statura anche un cubito?
E intorno al vestire, perché siete con ansietà solleciti? Considerate come crescono i gigli della campagna; essi non faticano e non filano;
eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro.
Or se Dio riveste in questa maniera l'erba de' campi che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà Egli molto più voi, o gente di poca fede?
Non siate dunque con ansiosi, dicendo: Che mangeremo? che berremo? o di che ci vestiremo?
Poiché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; e il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose.
Ma cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte. 34 Non siate dunque con ansietà solleciti del domani; perché il domani sarà sollecito di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.
Marcello Cicchese
dicembre 2015
Antisemitismo evangelico
Questo articolo è stato scritto dieci anni fa ed è presente da allora sul nostro sito nella rubrica “Approfondimenti”. Lo riproponiamo adesso per mostrare che l’«antisemitismo quiescente» di cui allora si parlava ora si è svegliato, e dopo il 5 ottobre è diventato addirittura assordante. Ripresentiamo l’articolo così com’era, con la sola aggiunta del risalto in colore.
di Marcello Cicchese
«Antisemita io? Ma per carità! Ci mancherebbe.» Di questo tipo è spesso la reazione di chi si sente dire che forse il suo atteggiamento verso gli ebrei assomiglia molto a quello degli antisemiti. Chi reagisce così di solito ha in mente un antisemitismo dichiarato, esplicito, attivo, nel quale naturalmente non si riconosce. Ma accanto a un antisemitismo militante, facilmente riconoscibile, esiste un antisemitismo quiescente che può restare in stand by per molto tempo e, purtroppo, attivarsi nei momenti critici meno adatti. Del resto, per diventare o rimanere antisemiti non ci vuole molto: basta non fare niente. In questo modo, senza neanche accorgersene, si viene tranquillamente trasportati dal main stream, la principale corrente di questo mondo che segue gli impulsi del principe di questo mondo, che detesta e tenta continuamente di distruggere il popolo che Dio si è scelto. E' un antisemitismo per default, cioè in assenza di... In assenza di interesse e conoscenza si rimane, rispetto a Israele, indifferenti e ignoranti. L'antisemita per default "non ce l'ha" con gli ebrei e con Israele per il semplice fatto che di loro non si interessa: i suoi problemi sono altri. Fosse per lui, non ne parlerebbe proprio. Ma per sua sventura gli ebrei ci sono, Israele esiste e il mondo ne parla. Quindi, prima o poi anche lui è costretto a parlarne, e quando lo fa quasi sempre dice qualcosa di sbagliato. Naturalmente però non se ne accorge, a causa della sua ignoranza, e si sorprende se gli si fa notare che sta semplicemente ripetendo quello che tanti antisemiti dicono. La cosa è particolarmente grave quando l'antisemita per default è un cristiano evangelico, che in quanto tale dovrebbe avere la Bibbia come fondamento della sua fede e delle sue convinzioni. Perché è un fatto indiscutibile che nella Bibbia di Israele si parla dappertutto. Dicendo allora qualcosa di sbagliato su questo argomento si rischia di cadere nell'eresia; il che è grave, perché si può non essere d'accordo con molti, anche con gli ebrei, anche con Israele, ma non essere d'accordo con Dio è rischioso, perché si finisce per essere d'accordo con il suo nemico, che è Satana. In molti casi però l'eresia non si esprime con formulazioni di dottrine sbagliate, ma con l'assenza di dottrine giuste. E' un'eresia di omissione. Come ci sono i peccati di omissione, ci sono anche le eresie di omissione. Questo avviene quando un aspetto importante della rivelazione biblica, che compare più volte in tutte le parti della Scrittura, viene sistematicamente negletto e trascurato. E' il caso della dottrina su Israele. Qualche anno fa è comparso in Italia un "Dizionario di teologia evangelica" di più di 800 pagine. Ebbene, tra le oltre 700 voci elencate nel dizionario non si trova il termine "Israele". Non c'è. Non è strano? Non è significativa un'omissione come questa? E non è strano che certe parti della Bibbia vengano sistematicamente escluse dall'insegnamento nelle chiese? Ad un qualsiasi evangelico si potrebbe chiedere: quante volte nella tua chiesa hai sentito predicare sul libro di Ezechiele? E in particolare sugli ultimi nove capitoli che parlano del nuovo Tempio a Gerusalemme? E quante volte hai sentito un'istruzione ordinata sul concetto di "Regno di Dio" nei Vangeli? Riflettendoci su con calma, potremmo arrivare alla conclusione che la Bibbia per noi è come certi grossi programmi del computer: la usiamo sì e no al 30 per cento. Non potrebbe trovarsi in quel residuo 70 per cento l'eresia di omissione che riguarda la dottrina di Israele? La questione dunque è grave e non può essere trattata in poche battute, ma qui si vuole sottolineare che il tema Israele non è un'appendice della dottrina cristiana, ma sta al centro del messaggio evangelico, perché sta lì dove Gesù stesso sta. Il tentativo sempre ripetuto nella storia di staccare Gesù da Israele e Israele da Gesù è di natura diabolica, perché corrisponde all'interesse storico di Satana. E' triste doverlo riconoscere, ma in questa trappola diabolica sono caduti nel passato e cadono ancora oggi molti cristiani autentici, anche evangelici, anche nati di nuovo. Lo scandaloso caso di Lutero dovrebbe far capire che l'autenticità della fede personale in Gesù, se non è accompagnata da una dipendenza reale dallo Spirito Santo e dalla Parola di Dio nel preciso momento storico in cui si vive, non è una garanzia contro la possibilità di cadere in un autentico antisemitismo evangelico. Il quale - ed è una cosa grave - fa diventare anche i credenti in Gesù strumenti di Satana nel suo tentativo di disonorare prima e distruggere poi il popolo ebraico e, oggi, lo Stato d'Israele. Come l'acqua, che in natura si presenta in diversi stati ma ha sempre la stessa struttura molecolare, così l'antisemitismo si presenta nella storia in diverse forme ma ha sempre la stessa struttura spirituale: l'odio per gli ebrei. Si parla di "struttura spirituale" perché l'odio che si manifesta è espressione dell'intima ribellione a Dio dell'uomo peccatore. L'antisemitismo è un frutto della carne: una carnalità che ha l'aggravante pericoloso di non essere quasi mai riconosciuta come tale. Anzi, in molti casi si presenta come anelito ad una superiore virtù. Nel periodo storico in cui viviamo la carnalità dell'antisemitismo assume due forme tra loro collegate: una anti e una filo. C'è l'antisionismo e il filopalestinismo. Il primo è più esteso, il secondo più ristretto, ma entrambi sono presenti negli ambienti evangelici, e in questo caso meritano il nome di antisemitismo evangelico perché le sue motivazioni pretendono di essere tratte dalla Scrittura. E questo ne aumenta la gravità. Qualcuno sarà sconcertato da affermazioni così forti, altri saranno in netto disaccordo, altri ancora chiederanno di avere argomenti a sostegno di quanto si dice. Gli argomenti ci sono: chi è interessato può cercarli in questa rivista o in altri libri che possono essere indicati a chi lo desideri, ma qui è importante sottolineare ancora una volta che il tema Israele non può essere accantonato, perché è di enorme gravità spirituale. La preannunciata biblica apostasia degli ultimi tempi si sta avvicinando a grandi passi ed è penetrata anche in chiese evangeliche che un tempo si distinguevano per la loro fedeltà alla Scrittura. Una delle forme più gravi che questa apostasia sta assumendo è la conformazione al mondo nell'odio verso il popolo che Dio si è scelto per il suo piano di salvezza. Gli eventi incalzano e il tempo stringe: su Israele ciascuno ha il dovere di chiarirsi le idee e fare la sua propria scelta. Sulla sua responsabilità davanti a Dio.
Lo scorso luglio, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu voleva visitare Praga e Budapest sulla strada per gli Stati Uniti, dove avrebbe parlato per la quarta volta Congresso, un onore concesso soltanto a Winston Churchill. Ma alla fine, Netanyahu ha rinunciato: niente sosta europea per i timori che la Corte dell’Aia spiccasse un mandato di arresto. “Bibi” non mette piede in Europa dal 7 ottobre.
A quasi un anno dal conflitto più difficile di Israele dalla guerra d’indipendenza del 1948, una cosa è sempre più chiara. Che lo si stimi o lo si detesti, Netanyahu ha imposto la sua volontà sui grandi eventi del suo tempo. Tutti lo davano per spacciato l’8 ottobre. Ma nonostante le sue vulnerabilità politiche in patria e l’isolamento israeliano internazionale, Netanyahu ha mantenuto i fili del potere nelle sue mani molto più a lungo e con un’efficacia molto maggiore di quanto tutti si aspettassero dopo l’eccidio di Hamas.
“Un robot giapponese programmato da allenatori americani”. Così il commentatore politico più famoso d’Israele, Nahum Barnea, definì Netanyahu nel 1996, quando vinse le prime elezioni e l’Economist gli dedicò una copertina su cui campeggiava il titolo: “Il grande sbruffone”.
Una carriera in una Sayeret Matkal dell’esercito, inglese perfetto, due lauree prese in quelle università americane che oggi paragona a quelle naziste, bugiardo politico di talento, sempre pronto a prendersi il merito e mai la responsabilità, Netanyahu è forte di un eloquio televisivo sensazionale, iniziato come vice ambasciatore in America e poi come capo della delegazione israeliana all’Onu. Era la prima guerra del Golfo e Bibi, indossando la maschera antigas in diretta tv, diventò il preferito della Cnn, per l’America l’espressione più autentica del sabra emancipato. Da allora, parte dell’istinto di sopravvivenza di Netanyahu è dimostrare di poter tenere testa all’America.
Oggi Bibi guida un paese profondamente polarizzato. I casi penali contro di lui stanno macinando nei tribunali. Migliaia di israeliani scendono regolarmente in piazza per chiederne le dimissioni. L’establishment militare israeliano è in aperta rivolta. La Corte suprema lo considera una minaccia costituzionale. Ex premier e suoi ex alleati, come l’intelligenza egolatrica fatta persona di Ehud Barak, invocano apertamente la sedizione contro Netanyahu, la cui politica è riassumibile con una parola yiddish: “chutzpah”. Vuol dire sfacciataggine, quella determinazione insieme sentimentale e ideologica, oggi così poco occidentale, di non arrendersi e di eliminare il nemico che vuole distruggerti e che Netanyahu ha preso dal padre, il durissimo Benzion, che nella casa del quartiere di Katamon, un modesto quartiere di Gerusalemme, fino a 102 anni ha seguitato a scrivere libri sulle infinite persecuzioni degli ebrei. Quando Benzion è morto, nel 2012, Netanyahu si rivolse direttamente a suo padre: “Mi hai sempre detto che una componente necessaria per qualsiasi corpo vivente, e una nazione è un corpo vivente, è la capacità di identificare un pericolo in tempo, una qualità che è andata perduta per il nostro popolo in esilio”. Chissà cosa avrebbe detto il padre il 7 ottobre.
La guerra di Gaza è iniziata con Hamas che ha esposto i catastrofici fallimenti strategici dello stato ebraico. Ci vorranno anni per attribuire una responsabilità precisa per la serie di errori di intelligence, politici e militari che hanno lasciato così tanti israeliani vulnerabili alla barbarie dei terroristi, ma i fallimenti chiave si sono verificati sotto Bibi, che aveva promesso due cose agli israeliani: “Sicurezza e un’economia forte”. L’idea di fortificare tutti i confini dello stato ebraico è di Netanyahu. La dottrina di Bibi è sempre stata pessimista: Israele deve chiudersi nei confini, come in un gigantesco vallo di Adriano, sviluppando i rapporti economici e diplomatici con il resto del mondo arabo che odia Teheran. Dopo il 7 ottobre, la dottrina ha mostrato lacune drammatiche. Ora si scopre che seimila palestinesi da Gaza sono entrati in Israele quella mattina di festa.
Il 7 ottobre cambia anche la politica di Netanyahu. Consapevole che la sicurezza di Israele richiede l’annientamento militare di Hamas, Bibi, finora così restio ad azzardi bellici su vasta scala, lancia una lunga guerra impopolare a livello internazionale e interno, per il suo rifiuto di anteporre il ritorno degli ostaggi alla vittoria militare che ha mobilitato l’opposizione interna, consapevole che, in caso di uno sciagurato accordo al ribasso, Israele diventerebbe “debole come la tela del ragno”, come disse Hassan Nasrallah in un famoso discorso quando Israele si ritirò dal sud del Libano nel 2000 per opera del suo rivale politico, Ehud Barak. Yahiya Sinwar, il brillante diavolo di Hamas, conosce gli ebrei e sa che il moderno stato costituzionale occidentale non è in grado di sostenere per sempre le guerre nel deserto: anche il paese più potente della terra si è ritirato dall’Iraq e dall’Afghanistan.
Michael Oren, ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti sotto Netanyahu, ha affermato che il primo ministro è arrivato a pensare che la sopravvivenza di Israele sia intrinsecamente legata alla sua. “Questa convinzione gli consente di resistere a una pressione tremenda”. E da quante parti gli arriva: la destra radicale partner di governo, l’establishment militare nella persona del ministro della Difesa Yoav Gallant, gli Stati Uniti di Joe Biden, i famigliari degli ostaggi che lo accusano della morte dei loro cari, Hamas, l’Onu, gli alleati occidentali che devono gestire elettoralmente l’appoggio precario a Israele. E se non bastassero le decine di filmati in cui Hamas costringe i rapiti israeliani ad attaccare Bibi e chiederne la resa, ora ci si mettono anche i sindacati a paralizzare il paese. Forse non dimenticano le politiche thatcheriane con cui Netanyahu da ministro delle Finanze di Ariel Sharon li rimise al loro posto.
Netanyahu è diventato la bestia nera dell’intellighenzia internazionale e il capro espiatorio della stampa mondiale, che lo accusa di tenere in ostaggio i rapiti da Hamas e di voler continuare la guerra per motivi politici. Mentre l’antisemitismo si diffonde nel mondo, è Netanyahu che scatena l’odio. C’è chi lo paragona a Sinwar, che sa come stremare gli ebrei, ricattarli e metterli gli uni contro gli altri. Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi, ha condiviso un post su X che accosta un’immagine di Hitler, celebrato da una folla acclamante con saluti nazisti, a una di Netanyahu accolto da membri del Congresso degli Stati Uniti. Bibi è diventato Hitler nelle piazze di Londra, nei proclami di Erdogan, negli editoriali dei giornali scandinavi. Il mondo intero, l’esercito israeliano, le istituzioni politiche e intellettuali, l’Amministrazione Biden, hanno cercato di spezzare la sua presa sul potere o almeno di costringerlo a cambiare direzione. Ma per ora hanno tutti fallito. Bibi rimane al timone ed è già da tempo il più longevo primo ministro della storia israeliana, anche più di David Ben Gurion.
Nicolas Sarkozy: “Netanyahu? Non posso vederlo”. Replica Barack Obama: “Tu sei stufo, io devo trattare con lui tutti i giorni”. Così un famoso fuorionda al G20 di Cannes. Sarkozy oggi è l’ombra di quello che era, Obama è impegnato nell’elezione di Kamala Harris e Netanyahu è ancora al potere. “A pain in the ass”, ebbe a definirlo Obama. Un dito al culo. E Biden, “a bad fucking guy”. Un esasperato Bill Clinton disse in privato, dopo il suo primo incontro con Netanyahu nel 1996: “Chi cazzo si crede di essere? Chi è la fottuta superpotenza qui?”. Nonostante la straziante tragedia degli ostaggi e delle loro famiglie, Netanyahu ha resistito alla richiesta di consentire ad Hamas di trarre profitto da stupri, rapimenti e torture facendo pagare a Israele un prezzo impossibile per il loro rilascio. Netanyahu ha superato in astuzia Biden, rifiutandosi di lasciare che una politica americana confusa in medio oriente dettasse l’agenda di Israele in una guerra esistenziale come non se ne vedevano dal 1948. E oggi Netanyahu è l’unico ostacolo sulla strada di Hamas, che chiede che Israele abbandoni il corridoio Filadelfi, la fondamentale striscia di terra al confine tra Gaza e l’Egitto sotto la quale Hamas fa passare armi ed equipaggiamento; che interrompa la guerra e assicuri di non uccidere Sinwar. In altre parole, vittoria per Hamas e resa di Israele.
Fu Netanyahu primo ministro nel 2011 a volere il rilascio di mille terroristi palestinesi, tra cui Sinwar, in cambio di un solo soldato israeliano, Gilad Shalit. Il prezzo per la sua liberazione fu di 1.027 terroristi responsabili della morte di 569 israeliani. E dal primo giorno del rapimento, la stampa come Haaretz incolpava Netanyahu di non volere lo scambio con Hamas. Corsi e ricorsi storici.
I terroristi palestinesi hanno appena ucciso sei ostaggi israeliani, tra cui un americano con doppia cittadinanza, e il colpevole è comunque Netanyahu. Non importa che il governo israeliano abbia inviato una delegazione dopo l’altra per negoziare con Hamas. Non importa che sia Hamas, non Netanyahu, a rifiutare qualsiasi accordo. Sfumature: è Bibi che ha abbandonato Ori Danino, Carmel Gat, Hersh Goldberg-Polin, Alexader Lobanov, Almog Sarusi ed Eden Yerushalmi. Bibi deve accettare qualsiasi accordo, subito, e riportare a casa il resto degli ostaggi, a qualunque costo. E poi dovrà dimettersi. Magari andarsene in esilio in Florida assieme a Ron Dermer, il cui padre e fratello sono stati entrambi sindaci di Miami Beach.
La reazione della Casa Bianca, del governo britannico, della stampa occidentale e di parti di Israele è stata di dare la colpa al premier. Biden ha accusato Bibi di non aver “fatto abbastanza” per garantire un accordo sugli ostaggi. Il nuovo governo laburista britannico ha scelto il giorno del ritrovamento dei cadaveri dei sei per annunciare la fine di trenta licenze di esportazione di armi verso Israele. La spiegazione è che c’è un “rischio” che le armi possano essere utilizzate in violazione delle leggi umanitarie. Il governo di Keir Starmer intende le violazioni di Hamas che spara alla testa a degli innocenti?
L’opposizione americana ha tenuto Israele fuori da Rafah, dove Hamas ha tenuto i sei prima di ucciderli, per tre mesi. Kamala Harris aveva detto che un’invasione di Rafah avrebbe condannato i suoi civili. “Ho studiato le mappe, non c’è nessun posto dove quella gente possa andare”, disse Harris. Bibi ha dimostrato che si sbagliava, evacuando un milione di abitanti in due settimane.
Ora anche la marea politica sembra nuovamente essere girata a favore di Bibi. Per la prima volta dal 7 ottobre, i sondaggi lo danno in vantaggio sul suo principale rivale, l’ex capo di stato maggiore il centrista Benny Gantz, figlio di sopravvissuti all’Olocausto, alto, laconico e che trasuda pragmatismo. Ma nel caso di elezioni anticipate nessuna coalizione naturale avrebbero i 63 seggi per governare.
Hezbollah e l’Iran sembrano scoraggiati dalla risposta militare israeliana, con gli strike di Gerusalemme sul Libano e l’eliminazione a Teheran del capo di Hamas, Ismail Haniyeh. Ma tutti sanno che per sferrare un colpo efficace ai suoi nemici a nord, Israele dovrà non solo assassinare i capi del terrore, ma anche tornare a nord del fiume Litani e creare vaste zone cuscinetto.
La sopravvivenza dello stato ebraico rimane un immenso work in progress e il conflitto con l’Iran resta irrisolto. Eppure, una cosa è chiara. Netanyahu sta lasciando impronte profonde nella storia e nella storia del popolo ebraico. Quanto alle piazze e ai media, Bibi taglia corto: “Preferisco avere cattiva pubblicità che un buon necrologio”.
E in fondo subito dopo la fondazione di Israele, quando gli fu posta l’attenzione sulla probabile reazione negativa delle Nazioni Unite, anche David Ben Gurion sbottò: “E’ stata l’audacia degli ebrei a fondare lo stato, non una decisione di quell’Um Shmum”. Um Shmum si riferisce all’Onu (“Um” in ebraico) abbinandogli il prefisso “Shm” con cui si prende in giro. Tradotto: chi se ne frega dell’Onu? Israele è nato contro il parere del resto del mondo. Sopravviverà anche senza.
«Blogger» presso Il Sole 24 ore, Ugo Tramballi è specializzato nel diffondere la peggior propaganda palestinese, che cerca di spacciare sotto forma di analisi «imparziali». Il giornalista, infatti, è uno di quelli che ama celarr la propria avversione per Israele dietro a un discorso anti-Netanyahu e, più in generale, «antifascista».
Come tutti i conformisti di sinistra rimpiange Yitzhak Rabin, trasformato in santo laico dopo l’omicidio, dimenticando che i suoi compagni e amici progressisti, forse lui stesso, ma non lo sappiamo, non mancarono di accusare anche il leader laburista di «fascismo», soprattutto in relazione alla frase sulla necessità di rompere le braccia ai palestinesi che tiravano pietre durante la prima Intifada.
Tramballi è ossessionato dalla destra israeliana. Non esiste, praticamente, suo articolo che non contenga un riferimento a un presunto «messianismo ebraico» o alle «destre nazional-religiose». Si è convinto che Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir siano la versione ebraica di Hamas e che vogliano realizzare il progetto della «Grande Israele». Si tratta del riciclo della menzogna fabbricata, negli anni Trenta, da Amin Al-Husseini, il Muftì filonazista di Gerusalemme, secondo cui i sionisti volevano impadronirsi di tutte le terre arabe e radere al suolo la moschea di al-Aqsa.
In realtà, Ben-Gvir e Smotrich, sono solo due ebrei israeliani fieri di esserlo, che non intendono continuare a fare da bersaglio ai terroristi di Hamas per soddisfare i sogni irenici e ingenui di gente come Tramballi. Mentre compila i suoi trafiletti per Il Sole 24 ore su come faccia fatica ad accettare un governo «nazional-religioso», gli israeliani, soprattutto se residenti in Giudea e Samaria, cercano di non farsi sparare lungo la strada che li riporta a casa o di evitare che le loro auto di seconda mano vengano rubate e portate nel territorio controllato dalla «Autorità Palestinese».
I cosiddetti «coloni», che il nostro dipinge come subumani «razzisti», sono persone normali che ogni giorno si battono per vivere in una terra nella quale hanno diritto di risiedere.
Tramballi, sebbene ami sfoggiare il suo curriculum di giornalista, non ha compreso nulla della realtà israeliana e della mentalità islamica, ancorato com’è a idee e concetti sconfessati dalla realtà. Il jihad condotto da Hamas e da Hezbollah col supporto dell’Iran non è la reazione violenta a una disputa territoriale. Gli arabi-palestinesi non combattono una guerra per la terra, bensì una guerra ideologica, «santa», volta a sterminare i circa sette milioni e mezzo di ebrei che vivono nei confini dello Stato d’Israele.
A questi fanatici, Tramballi vorrebbe regalare uno stato, anzi, a suo dire lo vorrebbero tutti: «lo stato palestinese che invocano l’amministrazione Biden, cinesi, russi, europei, Sud globale, arabi buoni e cattivi. Tutto il mondo, tranne Israele». Viene da chiedergli: dove dovrebbe sorgere questo «Stato palestinese»? Sui monti della Giudea così che i cecchini arabi possano mirare più facilmente agli israeliani? Oppure in una Gaza nuovamente retta da un gruppo jihadista?
Israele è un Paese piccolo e stretto, circondato da grandi e instabili Stati arabo-musulmani. Sottrargli altro territorio equivarrebbe a condannarlo a morte. Inoltre, come ha chiarito Yoram Ettinger proprio su queste pagine: «Uno stato palestinese significherebbe una base navale o aera russa al suo interno, e possibilmente una base militare iraniana che sconvolgerebbe drammaticamente il corrente equilibrio dei poteri nel Mediterraneo, già il ventre molle dell’Europa. Comporterebbe anche la devastazione di ciò che resta dei centri cristiani di Giudea e Samaria. Betlemme e Bet Jalla una volta erano centri a maggioranza cristiana fino agli Accordi di Oslo del 1993».
Sono queste, però, considerazioni strategiche e politiche che non interessano a Tramballi, troppo impegnato a sfoggiare i suoi buoni sentimenti e a coccolare il «Sud globale», gli arabi «buoni» e soprattutto quelli «cattivi», che difende con un ardore sospetto. Non si stanca mai, infatti, di ripetere che «Hamas non può essere sconfitto». Nel ’39 avrebbe detto che Hitler non poteva essere sconfitto (e avrebbe avuto ben più ragioni per pensarlo).
Secondo lui, Netanyahu dovrebbe accettare un accordo con Hamas, ossia con macellai imbottiti di Captagon, per far cessare una guerra che, a suo dire, non può essere vinta. In altri termini: vuole preservare il dominio di Hamas nella Striscia, così che in futuro possa esserci un nuovo 7 ottobre.
Tramballi, come direbbe John Bolton, è uno che fa della diplomazia un fine quando è solo un mezzo. Decenni di accomodamenti con Hamas non hanno prodotto nessuna pace, perché adesso dovrebbe essere diverso? Dubitiamo abbia una risposta razionale. I suoi articoli trasudano una pelosa indignazione, ma non forniscono nessuna soluzione concreta. Si limita a evocare idee platoniche e concetti puri: «Pace» e «Democrazia».
Non si capisce mai se sia un collaborazionista del jihad o un ingenuo utopista. Forse, la seconda ipotesi è la più probabile. Il conflitto israelo-palestinese gli permette di sfoggiare la sua «umanità». Leggere Tramballi è il miglior modo per continuare a non capire nulla del Medio Oriente, in compenso aiuta a farsi un’idea delle dimensioni del suo ego.
Engagé a metà. L’ottusità degli attori di Hollywood nel chiedere a Biden il cessate il fuoco di Israele
La gente del cinema che ha scritto al presidente americano per proporgli una «immediata de-escalation» ha dimenticato di citare i massacri di Hamas, il 7 ottobre e gli sfollati interni causati dai missili di Hezbollah. Sarà stato per questioni di spazio.
La bella gente di Hollywood che l’altro giorno scriveva al presidente Joe Biden chiedendogli di impegnarsi per una «immediata de-escalation» non ha dimenticato nulla dei numeri che raccontano la tragedia di Gaza: i «più di quarantamila uccisi negli ultimi undici mesi, e i più di novantaduemila feriti». «Crediamo», hanno aggiunto, che «ogni vita è sacra, a prescindere dalla fede o dall’etnia e condanniamo l’uccisione dei civili palestinesi e israeliani». Equanimi, quindi.
E sicuramente, dunque, erano le ristrettezze di spazio a precludere a quelle decine di artisti di menzionare i numeri del carico residuo, cioè quelli degli ebrei ammazzati il 7 ottobre, quelli degli ostaggi trattenuti e assassinati a grappoli dall’innominabile Hamas, quelli degli israeliani – un settantamila – profughi in terra propria perché l’innominabile Hezbollah ha incenerito la Galilea.
Nel reclamare il “cessate il fuoco”, la brochure delle celebrities engagé du côté de chez Intifada ricorda doverosamente che «più dei due terzi» dei residenti di Gaza «sono rifugiati e i loro discendenti sono stati obbligati ad abbandonare le loro case». Ancora ragioni di spazio impedivano agli artisti firmatari di ricordare che gli israeliani – non due terzi: tutti – sono rifugiati e discendenti di rifugiati. E che, se fosse per quelli che gli attori e i registi di “Artist4Ceasefire” non nominano, sarebbero alternativamente ammazzati o ributtati in mare.
Vogliono «la fine del bombardamento di Gaza», gli attori, come Laura Boldrini, Andrea Orlando, Angelo Bonelli, Alessandro Zan e soci quando, imbandierati di arcobaleno, mostravano cartelli con la scritta “Ceasefire on Gaza now”. Ceasefire from Gaza, from Lebanon, from Yemen e from Iran la prossima volta.
«Salvare vite», scrivono, «è un imperativo morale». Quanta giustizia nell’apoftegma. Avrebbero potuto rivolgerlo – quanto meno anche – agli innominabili che rivendicano di usare i bambini palestinesi «come attrezzi contro Israele». Ma la scelta avrebbe deturpato il nitore di quella deplorazione umanitaria. Una che non ha firmato è Gwyneth Paltrow. Sarà perché è un’ebrea non meritevole, come Ben Stiller e – figurarsi – Gal Gadot. Sinwar non ha firmato perché non lo sapeva.
Verso quale società ci stiamo dirigendo se oggi, annus Domini 2024 siamo costretti ad assistere attoniti a cittadini inglesi di religione ebraica felici perché il Sindaco di Londra Khan ha riservato loro degli autobus che potranno assicurarne in sicurezza gli spostamenti?
A quale livello è giunto l’antisemitismo violento che costringe cittadini ebrei a mutare le proprie abitudini fino alla gioiosa autoghettizzazione per motivi di sicurezza e tutela dell’incolumità?
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A quale vette di insulsa viltà morale è pervenuta la nostra società se asseconda tale assurdità che tanto assurda non pare visti i tempi che corrono?
Sembra un mondo al contrario, una fotografia mossa degli anni 30 del secolo scorso, con la differenza che, adesso, il condizionamento mentale imposto con la violenza dagli estremisti opera a priori, spinge all’autoesclusione per stanchezza, distrugge dall’interno la voglia di combattere per qualcosa che è semplice e banale e che sta diventando invece una chimerica utopia: viaggiare in sicurezza.
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Il sindaco londinese riferisce che molti ebrei gli hanno confessato che «Le famiglie [ebree], quando cambiavano autobus da Stamford Hill a Golders Green a Finsbury Park, erano spaventate dagli abusi subiti» e da qui la richiesta di viaggiare separati
Una forma di apartheid autoinvocata. La vita che muore nella morte della libertà! Si possono biasimare gli ebrei londinesi che vogliono viaggiare in pace e sicurezza? No e il paradosso è proprio questo.
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Perché la decisione del sindaco di Londra offre lo spaccato di un mondo che sta rapidamente cambiando ed involvendo avvitandosi in spire antiche che conducono alla paralisi della ragione e alla morte dello spirito
La vittima anticipa il carnefice, esce dal gioco, sacrifica la libertà per la sicurezza. Segno evidente della crisi profonda in cui versa la nostra democrazia occidentale, che proprio sulla libertà si era fondata e che, incapace di offrire sicurezza, si appresta ad essere surclassata da nuove forti identità che della libertà non sanno proprio che farsene.
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Le istituzioni occidentali non possono altro che assecondare queste spinte uguali e contrarie
Da un lato la violenza aggressiva di chi con le proprie minacce vorrebbe imporre nuovi paradigmi e dall’altra la vittima che si fa prona per salvare il salvabile. La dinamica del servo-padrone di hegeliana memoria risplende in tutta la sua fulgida dinamica paradossale lasciando inerte chi invece, sulle macerie del 900, avrebbe dovuto costruire una nuova società fondata su una “identità democratica” che facendo i conti con la propria storia, dimostrasse che “mai più” era davvero “mai più”.
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In questo la società occidentale ha fallito clamorosamente
Non c’è via di ritorno Quel che resta da decidere sono i tempi in cui questo fallimento si rivelerà patente agli occhi degli stolti che ancora non vedono quanto sia ormai troppo tardi. Quanto ormai a forza di giocare con il fuoco, ci si sia scottati. Quanto si sia varcata la triste soglia del non ritorno!
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Ci sono singoli che possono integrarsi, ma certe culture no
Oggi no. Tramonta l’idea progressista del multiculturalismo frizzante. E al contrario, si staglia all’orizzonte (invero forse ci siamo già immersi) uno scontro di civiltà che non fa prigionieri. Che non lascia spazio a compromessi. Che invita ciascuno di noi a una precisa scelta di campo. O di qua o di là. O con la cultura della vita, o con quella della morte.
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E‘ chiara la visione in chi, con occhio disincantato, osserva la realtà attuale e di cui le scelte londinesi sono una cartina di tornasole perfetta
Una realtà ampiamente preannunciata da Oriana Fallaci più di vent’anni fa, ma volutamente sottovalutata perché non in linea.
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Oggi farebbe bene rileggere La “Rabbia e l’Orgoglio”
Libro profetico al pari di Orwell e Huxley. E come questi, frainteso e emarginato. L’Occidente sta abdicando al proprio ruolo, vacilla con gambe malferme su una identità vista come un nemico da autoabbattere.
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Un’identità che viene fieramente negata dall’imperante cultura mainstream, censurata in un falso senso di colpa che assurge a parametro di interpretazione della storia e a strumento per rimodellare il futuro
E quindi, il cambiamento della cornice di riferimento occidentale, la caduta degli dei ci rende permeabili a una forma di invasione senza armi (ma all’occorrenza ci sono pure quelle), per contaminazione.
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L’Europa si fa vuoto, e il vuoto viene riempito da altri
Non c’è spazio per nessuna resistenza non dico militare, ma nemmeno culturale, a fronte di questa colonizzazione mentale di cui l’Occidente è vittima anestetizzata. Una forma di sindrome di Stoccolma si dipana nelle mente delle masse informi annichilite dal buonismo progressista; e i pochi che riescono a scorgere il disegno che si cela dietro fatti apparentemente scollegati, a individuare una direzione, a ammonire sul futuro, vengono tacciati di fascisti e messi a tacere.
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L’Europa muore nel silenzio dei più
I valori che ne hanno costruito l’essenza e l’esistenza sono prostituiti in vista di nuove sorti magnifiche e progressive. L’Europa si trasforma in Eurabia per dirla con le parole di Bat Ye’Or intellettuale di riferimento di Oriana Fallaci. Gente visionaria e perciò da mettere a tacere.
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Gente coraggiosa e perciò da silenziare
Gente libera, e quindi pericolosa.
Ecco, oggi mancano i visionari. Oggi quello di cui avremmo bisogno e che non esiste è una classe intellettuale coraggiosa che si rifiuti di affogare nelle sabbie mobili del perbenismo suicida e che, al contrario, denunci la vergognosa deriva che l’Occidente sta prendendo.
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Che ci rende morti prima ancora di essere uccisi
Quello di cui avremmo bisogno è di qualcuno che si alzi e dica NO! Io non voglio un autobus per me. Io voglio viaggiare con gli altri. Perché l’essenza della libertà è non farsi condizionare, non subire il ricatto morale e materiale degli antisemiti, degli islamisti, dei violenti e dei loro corifei buonisti.
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A tutto questo dico no!
E questo manca. E certo, non è colpa degli ebrei.
La truffa del multiculturalismo, l’ideologia europea che ci porta alla sottomissione
Parla l’autrice di “Eurabia”, Bat Ye’or. Una dottrina, oggi nel Dna dell’Unione europea, veicolo politico dell’immigrazione di massa che in pochi decenni ha trasformato l’Europa.
di Davide Cavaliere
Bat Ye’or, ovvero “Figlia del Nilo”, è autrice di studi pionieristici sulla condizione sociale delle minoranze religiose nel mondo islamico. È lei ad aver introdotto i termini “Dhimmitudine” ed “Eurabia” nel dibattito pubblico. Con lucida precisione e competenza storica, in questa intervista affronta temi cruciali per il futuro dell’Europa. • COME NASCE IL MULTICULTURALISMO
DAVIDE CAVALIERE: Vorrei cominciare da quanto è avvenuto nel Regno Unito, dove comuni cittadini e militanti identitari si sono scontrati con bande di musulmani e gruppi filo-palestinesi. Il multiculturalismo, inteso come pacifica convivenza tra gruppi etnici e religiosi differenti, è fallito? BAT YE’OR: È chiaro che il multiculturalismo, oggi, appare come una truffa su vasta scala. Il suo obiettivo proclamato è la coesistenza pacifica tra le culture, dove il termine cultura è qui usato, in senso lato, per mascherare il termine religione. Perché questa omissione? Esistono religioni nemiche? Il presidente Barack Obama ha detto che tutte le religioni predicano l’amore e la pace, ma no! Le religioni non sono identiche, alcune sono intolleranti e dominatrici e hanno provocato guerre. Facciamo attenzione all’irenismo. Possiamo stabilire una coesistenza pacifica tra le culture se le religioni che ne plasmano le espressioni e i valori predicano la nostra distruzione? Il multiculturalismo è un’ideologia politica di origine europea, che sostiene la coesistenza pacifica tra diversi gruppi etno-religiosi. Questa dottrina è stata creata dal Consiglio europeo, il massimo organo dell’Unione europea, che rappresenta i capi di Stato degli Stati membri. È stata espressa per la prima volta in Europa negli anni ’70 da storici e arabisti filo-islamici. Essa sottolineava la benefica tolleranza della dominazione araba nei confronti delle “minoranze” ebraiche e cristiane, in particolare in Andalusia e nell’Impero Ottomano. Un flusso di pubblicazioni di eminenti storici in tutti i campi ha inondato il pubblico per decenni. Esaltavano la tolleranza del governo islamico e la sua superiorità rispetto al cristianesimo arretrato e bigotto. Questo indottrinamento accompagnava la politica di massiccia immigrazione islamica in Europa e mirava ad abbattere i freni nazionalisti che ostacolavano la fusione intraeuropea dell’Unione. Jacques Berque, uno dei suoi più attivi sostenitori in Francia, voleva vedere diverse “Andalusie”, cioè Stati musulmani, sparsi per l’Europa. Oltre all’Andalusia, i militanti del multiculturalismo portavano il Libano come esempio di meravigliosa coesistenza multiculturale islamo-cristiana e accusavano Israele, uno Stato nazionale, di volerlo distruggere per gelosia. Il multiculturalismo promuoveva un’Europa senza confini, sottomessa all’Islam, come in Andalusia, e fortemente ostile al sionismo e allo Stato di Israele, accusato, per la sua sola esistenza, di essere la causa degli attuali conflitti islamico-europei. Se solo Israele scomparisse, la convivenza euro-islamica tornerebbe ad essere idilliaca. Il multiculturalismo è un movimento consensuale saldamente radicato nell’Unione europea, nel cuore dei settori educativo, sociale e politico. È rappresentato ai massimi livelli da vaste reti di lobby, comitati, associazioni e progetti, a cui si aggiungono organi di censura per neutralizzare e sopprimere qualsiasi opinione contrastante. Possiamo ora chiederci se questo multiculturalismo benevolo e felice sia davvero esistito nelle relazioni tra musulmani e cristiani. Forse nell’impero Judenrein del Terzo Reich tra il 1940 e il 1945, dove c’era una vera e propria fraternizzazione tra gli europei nazisti e i loro colleghi musulmani nelle SS e nella Wehrmacht. Numerosi libri hanno recentemente sfondato il muro della censura per denunciare le falsificazioni storiche del mito andaluso. Se questo paradiso di ebrei e cristiani governato dalla sharia non è mai esistito, a cosa è servita la costruzione di quell’immensa macchina politica transnazionale che è il multiculturalismo? Non è riuscito nemmeno a salvare il Libano dal caos. Questa dottrina, che oggi costituisce il Dna dell’Unione europea, è stata il veicolo politico dell’immigrazione di massa che ha trasformato l’Europa nel giro di pochi decenni. Dietro la sua facciata umanista si nascondevano questioni strategiche ed economiche transcontinentali. Sembra quindi che la violenza che ha lacerato la società britannica, nota per la sua tolleranza, sia un sintomo del caos e della destabilizzazione nazionale causati dalla collisione dei costumi stranieri importati e imposti alla Gran Bretagna. È il confronto tra la dottrina irenica e immaginaria del multiculturalismo, che predica l’amore e la pace sociale attraverso la mescolanza delle culture e, dall’altra parte, la violenza di una realtà vissuta dal popolo e negata dalle élites al potere, pronte a punire il proprio popolo se si ribella alla loro dottrina.
• L’ALLINEAMENTO EURO-ARABO
- DC: Ogniqualvolta gli europei manifestano la loro contrarietà all’immigrazione o denunciano l’eccessiva tolleranza delle autorità verso l’Islam, le classi dirigenti dell’Occidente parlano di “rigurgiti” di fascismo e di “fake news” russe. Da dove deriva questa incapacità di comprendere le cause della rabbia e del malessere dei popoli? BYO: Il rifiuto di comprendere l’opposizione nazionalista all’immigrazione islamica di massa non deriva da una mancanza di informazione da parte delle élites al potere, ma dall’inesorabile rifiuto di rompere gli accordi e gli impegni assunti dai Paesi dell’Ue negli ultimi quattro decenni con i Paesi arabi e musulmani. I due Paesi in prima linea in questa politica, Francia e Gran Bretagna, hanno promosso una politica di associazione tra gli Stati della Comunità europea e i Paesi musulmani, soprattutto quelli produttori di petrolio, sin dalla fine del 1969. In quel periodo, i Paesi arabi si stavano unendo sotto la bandiera del nazionalismo arabo modellato sulla jihad. Il riavvicinamento euro-arabo degli anni Sessanta e Settanta ha proseguito l’alleanza stretta dagli Stati fascisti e nazisti con i movimenti antisemiti arabi e musulmani degli anni Trenta e Quaranta. Le Camicie Verdi in Egitto, che negli anni Trenta riunirono decine di migliaia di giovani, e il Movimento Popolare Siriano di Antoun Saadé si ispirarono apertamente a questi movimenti. Questi gruppi propugnavano lo sterminio degli ebrei e l’eliminazione del sionismo. All’interno di questa convergenza nazista euro-islamica, una corrente cristiana ostile alla civiltà giudaico-cristiana esprimeva la sua ammirazione per l’Islam. Pertanto, accusare oggi i movimenti nazionali dell’Ue di essere nazisti e fascisti quando combattono l’islamizzazione dei loro Paesi è un sovvertimento della storia e una negazione della realtà.
• L’INFLUENZA DEL JIHAD
- DC: Cosa ci può dire dell’allenza tra estrema sinistra e Islam? BYO: L’alleanza tra i movimenti marxisti e terzomondisti e l’Islam è stata oggetto di numerosi studi. Ma qui mi concentrerò su un argomento tabù: l’influenza del movimento jihadista sull’Ue e sulla politica internazionale. Come ho detto, il multiculturalismo, che è in realtà il desiderio irriducibile di legare l’Europa all’Islam, è nel Dna dell’Unione europea, che nel 1957 ha eletto Walter Hallstein come primo presidente della Commissione europea per dieci anni. Hallstein era stato un ufficiale nazista molto favorevole all’Islam, proprio come i suoi colleghi collaborazionisti dell’epoca. Tutti i principali testi internazionali a partire dagli anni Settanta, siano essi politici, strategici o culturali, sottolineano questo desiderio occidentale di legarsi all’Islam. Lo si vede chiaramente nei testi dell’Alleanza delle Civiltà creata nel 2005. Si tratta di una forte tendenza che risale agli anni Venti, basata sulla lotta comune euro-islamica contro il sionismo e contro il Trattato di Losanna del 1923, che confermava la legittimità di uno Stato ebraico nella sua patria. Questa lotta ha portato alla Shoah nei territori del Terzo Reich, ai raid contro gli ebrei nei Paesi arabi, alla loro espulsione e, a partire dal 1947-48, alle guerre di sterminio contro lo Stato di Israele. Questo movimento euro-arabo e cristiano-islamico è durato per tutto il XX secolo. L’emigrazione in Egitto e in Siria, durante il periodo nasseriano, di criminali nazisti convertiti all’Islam gli diede una struttura. Essi assunsero posizioni di rilievo nel governo egiziano in relazione alla guerra contro lo Stato ebraico e fornirono istruttori militari all’OLP e nella propaganda. Fu questa collaborazione con Amin al-Husseini, in particolare, a dare origine al movimento del jihad nazificato, che è ancora vivo oggi ed è stato studiato dagli specialisti nell’ultimo decennio. Mi riferisco al “palestinismo” nato dalla fusione dei fondamenti teologici della jihad con le tematiche antisemite naziste. È qui che l’odio antiebraico cristiano e musulmano si fondono. L’Unione europea non cambierà strada. Sta brandendo sanzioni e minacce contro l’Ungheria ribelle e ha bloccato i popoli europei in una rete di leggi che li paralizzano. È chiaro che questa politica rifiuta il giudeo-cristianesimo proprio come il nazismo. Infatti, i nazisti disprezzavano le origini ebraiche del cristianesimo e si rammaricavano che l’Europa non fosse stata islamizzata nel 732 a Poitiers. D’altra parte, non dobbiamo minimizzare le pressioni esercitate sulla Ue dai Paesi della Lega Araba e dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OIC), che riunisce 56 Paesi musulmani o a maggioranza musulmana. Come dimostrano i numerosi testi che ho pubblicato, questa pressione mirava a mantenere aperta l’immigrazione islamica, a promuovere l’entrisme, la discriminazione positiva (favoritismo verso i musulmani), la mescolanza e a incoraggiare lo sviluppo di costumi e leggi islamiste nell’istruzione e nella cultura. Ciò ha portato allo sviluppo di quello che è noto come il “nuovo antisemitismo”, che non è altro che la giudeofobia manifesta, rivendicata e comune nei Paesi musulmani e familiare agli ebrei di quei Paesi. - DC: All’Università di Torino, durante le proteste anti-Israele degli ultimi mesi, un imam è stato invitato dagli studenti filopalestinesi a tenere un sermone. Le foto dell’evento mostrano gli studenti maschi separati dalle loro colleghe. Come è stato possibile che studenti universitari occidentali, benpensanti e progressisti, simpatizzino per l’Islam e per organizzazioni come Hamas? BYO: Credo che dalla guerra del petrolio dell’ottobre 1973 stiamo vivendo un periodo di jihad in Occidente e soprattutto in Europa. La jihad è un tipo particolare di guerra che non si limita a dispute territoriali come altri conflitti che si concludono con trattati di pace. L’obiettivo della jihad è islamizzare il pianeta e sradicare la miscredenza. È una guerra di civiltà con codici militari propri e principi giuridici religiosi ben sviluppati. Secondo questa ideologia, fermare l’immigrazione musulmana potrebbe essere considerato un casus belli per lanciare la jihad. Le continue vessazioni di Hamas e Hezbollah ai confini di Israele sono una tattica jihadista tradizionale. Gaza è stata trasformata, sotto gli occhi e con l’approvazione dell’Ue, in una roccaforte sotterranea del terrorismo, ossia in un ribat, una di quelle fortezze militari che, per oltre un millennio, hanno riunito i jihadisti per razziare, uccidere, bruciare e rapire ostaggi nelle terre di confine cristiane.
• OCCIDENTALI ISLAMIZZATI
Il comportamento degli studenti a cui lei fa riferimento è quello di persone ormai profondamente islamiche, che aderiscono ai criteri religiosi della separazione dei sessi e della guerra contro i miscredenti ebrei e cristiani, perché le due cose sono inscindibili. Questo comportamento è perfettamente normale in qualsiasi società islamica. Se cambiate la parola progressista con islamista, avrete la risposta alla vostra domanda. In un’atmosfera islamista si può essere progressisti e continuare a sostenere la guerra di sterminio del popolo ebraico da parte di Hamas, che è l’incarnazione della fede jihadista contro l’Occidente miscredente. Non vogliamo vedere che questi occidentali sono stati islamizzati perché crediamo che tutti gli occidentali condividano i nostri valori. Ma è chiaro che l’Occidente ha addestrato degli islamisti all’odio verso il modello giudaico-cristiano. Si può anche sostenere il piano palestinese di sterminio degli ebrei pur essendo cristiani, per odio verso gli ebrei. Abbiamo una lunga storia di questo tipo. La sua domanda pone quindi un problema fondamentale: i nostri leader hanno tollerato l’importazione e la riproduzione nei Paesi dell’Ue dei modelli educativi, religiosi e sociali dei Paesi musulmani? La risposta è chiaramente sì, perché i risultati di quarant’anni di politica sono sotto i nostri occhi. Se avessimo avuto una politica diversa, non avremmo avuto questi risultati. Sono le conseguenze delle decisioni prese e della loro attuazione. Non appaiono all’improvviso. Dobbiamo avere il coraggio di uscire dalla negazione e imparare a vedere e affermare l’ovvio.
• UNA DOTTRINA EUROPEA
La seconda domanda è: perché? La mia risposta è: perché era esattamente quello che volevano questi capi di Stato. In tre libri ho studiato l’introduzione nei Paesi membri dell’Ue delle decisioni che hanno portato alle conseguenze che vediamo oggi. Si tratta di Eurabia (Lindau, 2007), Verso il Califfato Universale (Lindau, 2008) e Comprendere Eurabia (Lindau 2015). Contro i miei libri è stata condotta una campagna diffamatoria di criminalizzazione nelle principali università britanniche e statunitensi, sulla stampa internazionale e su Wikipedia. La dottrina europea del multiculturalismo nasconde e nega totalmente la realtà storica della jihad e quella della dhimmitudine, ovvero lo studio dello status giuridico di ebrei e cristiani e di altri popoli non musulmani che vivono sotto la sharia. Il multiculturalismo – che non parla di jihad – elogia la tolleranza dell’Islam e incolpa l’Occidente per le crociate e per la colonizzazione, per Israele e per il sionismo. Tuttavia, solo la conoscenza dei concetti storici fondamentali dell’ideologia del jihad e dei principi teologici e giuridici della dhimmitudine può permetterci di comprendere la continuità e il significato degli eventi contemporanei. È importante sottolineare che né tutti gli attuali capi di Stato musulmani né tutti i musulmani aderiscono all’ideologia jihadista. Tuttavia, avremmo voluto sentire la voce forte di un Islam moderno che rifiuta i principi di sterminio della jihad.
Un anno dal 7 ottobre: la normalizzazione dell’odio
di Ariela Piattelli
Potrebbe essere una vignetta ma purtroppo non lo è. È la fotografia della realtà. Al netto della sua drammaticità, vista anche la tragedia sfiorata, è di grande impatto l’immagine del responsabile dell’attentato alla sinagoga Beth Yaakov di La Grande – Motte, un algerino di 33 anni, che si allontana con una kefiah in testa, armato di ascia e pistola, con due bottiglie di liquido esplosivo in mano e avvolto dalla bandiera palestinese. Un’immagine alla quale un bravo disegnatore potrebbe ispirarsi perché racchiude, evidenzia e riassume ogni singolo elemento del male, vecchio e nuovo, (ri)emerso con forza nel giro di uno schiocco di dita dal pogrom jihadista del 7 ottobre. Abbraccia tutti gli ingredienti dell’odio e della violenza antiebraica con le sue bugie: il terrore, le armi, le bombe e la maschera di chi ce l’ha con gli ebrei perché, a suo dire, gli rubano la terra. E sullo sfondo il disegnatore potrebbe aggiungere l’immagine (anche questa reale) della statua di Anna Frank deturpata ad Amsterdam con le scritte su Gaza. Ci sarebbe davvero tutto per tentare di sensibilizzare qualche coscienza. Non servirebbe neanche una parola e, senza ironia, stupisce davvero che i vignettisti, almeno tanti di quelli italiani, che si sono sbizzarriti in questi mesi in interpretazioni allusive e temerarie del conflitto Israele-Gaza, rispolverando simboli, fantomatici deicidi e pregiudizi vari, come tanti nostri colleghi, non abbiano colto questa occasione.
Non servono maestri del disegno satirico e dissacrante per descrivere, enfatizzare e denunciare l’onda lunga di antisemitismo e violenza che gli ebrei stanno vivendo in Israele, in Europa e in tanti altri paesi del mondo: ogni fotogramma della storia di questo ultimo anno è un evidenziatore di un dato di realtà, una denuncia di fatti talmente eloquenti che se ci si volta altrove per non guardare, se ne vedono altri pullulare come in un moltiplicatore. Eppure l’attentato terroristico del 24 agosto in Francia (dove anche prima del 7 ottobre si uccidevano gli ebrei e si scaraventavano dalla finestra), nella cittadina turistica vicino a Montpellier, che per miracolo non ha lasciato a terra decine di vittime, ha avuto nei giornali italiani, tranne rare eccezioni, lo spazio di una notizietta che non merita più di 20 righe.
Ci si abitua a tutto, purtroppo, ma ad essere sinceri bisogna riconoscere che al ribaltamento della realtà, all’antisemitismo, alla barbarie che ha colpito e colpisce Israele, ci si è forse abituati un po’ di più e in tempi rapidissimi. Gli ebrei e gli israeliani no, loro naturalmente non si sono abituati e considerano ancora insostenibile l’idea un bambino che ha compiuto un anno nelle mani dei terroristi di Hamas, delle donne da loro stuprate, dei centinaia di israeliani rapiti o uccisi nella strage di un anno fa, poi negli attentati, delle migliaia di sfollati cacciati dalle loro case dai missili di Hezbollah che ammazza i ragazzini mentre giocano a calcio, del numero impressionante dei giovani soldati dell’IDF rimasti uccisi o mutilati in una guerra contro il male che Israele non ha mai cercato. Degli ostaggi qui in Italia non se ne parla più, se non come “posta” sul tavolo delle trattative che per volontà dei terroristi, oramai promossi al rango di credibili interlocutori, falliscono miseramente da mesi. Ormai è tutto normale, come essere in una lista di proscrizione antisemita, una specie di odioso menu che offre i nomi di ebrei e cosiddetti “sionisti” per circoscriverli, puntarli ed invitare a colpirli.
“Questa normalizzazione è spaventosa perché porta all’indifferenza, noi sappiamo cosa significa”, mi confessa una voce italiana da Gerusalemme. È un grave e preoccupante segno del nostro tempo, un altro effetto dell’accelerazione, di quella miccia antisemita innescata di nuovo un anno fa con la strage del 7 ottobre.
Allora ripenso ad un amico israeliano che andò qualche anno fa in Polonia a girare un film sulla Shoah: la sua famiglia veniva proprio da lì e aveva vissuto le persecuzioni. Al suo arrivo, travolto dalla profonda emozione, spinto dal bisogno di condividere con qualcuno le ragioni di quel viaggio e finalmente di riconciliarsi con la storia, iniziò a parlare con l’anziano tassista: lui da bambino viveva accanto ad una famiglia di ebrei, poi un giorno li portarono via. Dopo ne portarono via altri ed altri ancora. E a lui non gli venne proprio da pensare a dove fossero finiti. In fondo era normale che gli ebrei sparissero nel nulla, accadeva così spesso a quei tempi da lasciare tutti gli altri indifferenti. E anche lui si era abituato in fretta.
Ecco come Hamas vuole prolungare i colloqui per mettere pressione a Israele
Da rabbrividire, un documento rinvenuto dalla Bild rivela la tattica di Hamas per garantirsi la sopravvivenza militare attraverso una forza araba di interposizione, il tutto ignorando completamente la popolazione di Gaza
Un documento di Hamas appena rivelato indica che la principale preoccupazione del gruppo terroristico nei negoziati per il cessate il fuoco con Israele è quella di riabilitare le sue capacità militari, e non di alleviare le sofferenze della popolazione civile di Gaza. Lo ha riferito venerdì il quotidiano tedesco Bild. Il documento della primavera 2024, che Bild ha dichiarato di aver ottenuto in esclusiva, senza offrire ulteriori dettagli, sarebbe stato trovato su un computer a Gaza appartenente al leader di Hamas Yahya Sinwar. Il documento illustra le strategie e gli obiettivi di Hamas nei negoziati con Israele su un potenziale accordo che vedrebbe il rilascio di ostaggi in cambio di un cessate il fuoco e della liberazione dei prigionieri palestinesi detenuti da Israele. Secondo il rapporto, Hamas è indifferente al fatto che la guerra in corso finisca rapidamente, dando invece priorità al mantenimento delle capacità militari del gruppo terroristico, allo “sfinimento” degli apparati militari e politici di Israele e all’aumento della pressione internazionale su Israele. Sebbene il gruppo terroristico ammetta nel documento che la guerra, giunta al 12° mese, ha diminuito le sue capacità militari, Hamas cerca ancora di “migliorare importanti clausole dell’accordo, anche se i negoziati continueranno per un periodo prolungato”. In particolare, il documento non menziona le vittime civili palestinesi. Il rapporto dice anche che Hamas ha definito una strategia di guerra psicologica attraverso gli ostaggi, chiedendo di “continuare a esercitare una pressione psicologica sulle famiglie degli [ostaggi], sia ora che nella prima fase [del cessate il fuoco], in modo da aumentare la pressione pubblica sul governo nemico”. Questa strategia è stata dimostrata dalla pubblicazione periodica da parte di Hamas di video di ostaggi che implorano il loro rilascio. Nell’ultima settimana, Hamas ha pubblicato tali video con ostaggi i cui corpi sono stati recentemente recuperati a Gaza, pochi giorni dopo la loro esecuzione da parte del gruppo terroristico. Nel documento, Hamas pianifica anche punti di discussione, incolpando “la testardaggine di Israele” di ritardare un accordo. Secondo quanto riferito, il documento elenca anche i principali obiettivi di Hamas in un accordo. Uno è garantire il rilascio di 100 prigionieri palestinesi detenuti da Israele e condannati all’ergastolo, di solito per omicidio. Un altro presunto obiettivo di Hamas è che le forze dei Paesi arabi stazionino lungo il confine tra Israele e Gaza come parte di un cessate il fuoco più permanente, per fare da cuscinetto tra Israele e Hamas, consentendo così a Hamas di recuperare e riorganizzarsi sotto la protezione di queste forze. In particolare, Israele avrebbe anche suggerito che una coalizione di forze arabe amministri l’enclave in futuro. A differenza della proposta di Hamas, il piano israeliano prevede che le forze arabe assicurino che Hamas non riabiliti le sue capacità militari. Va inoltre notato che il documento non menziona il Corridoio di Filadelfia, nonostante la striscia di terra al confine tra Gaza e l’Egitto sia diventata di recente un punto critico nei negoziati. Questo potrebbe essere attribuito al momento in cui il documento è stato scritto, dato che Israele ha preso il controllo del Corridoio di Filadelfia solo a maggio. Si ritiene che 97 ostaggi rimangano a Gaza, compresi i corpi di almeno 33 morti confermati dall’IDF. Hamas ha rilasciato 105 civili durante una tregua di una settimana alla fine di novembre, e quattro ostaggi sono stati rilasciati prima.
Sinwar pronto a fuggire con gli ostaggi: il ruolo chiave del corridoio di Filadelfia
di Luca Spizzichino
Secondo fonti dell’intelligence israeliana riportate dal Jewish Chronicle, il leader di Hamas Yahya Sinwar starebbe pianificando di utilizzare il corridoio di Filadelfia per fuggire con i leader rimanenti dell’organizzazione e con gli ostaggi israeliani verso il Sinai, per poi essere trasferiti in Iran. Queste informazioni sono state ottenute dall’interrogatorio di un alto funzionario di Hamas catturato e dall’analisi di documenti sequestrati dopo il recupero dei corpi di sei ostaggi il 29 agosto.
Sinwar sembra ormai consapevole che la guerra è persa per Hamas e che la sua unica via di salvezza è la fuga. Il capo dell’organizzazione terroristica palestinese vede un’unica soluzione per sopravvivere: abbandonare Gaza e cercare rifugio fuori dai confini. In quest’ottica, il controllo del corridoio di Filadelfia diventa cruciale per attuare il suo piano.
Tuttavia, Israele si è fermamente opposta a cedere il corridoio, ritenendo che farlo rappresenterebbe un grave rischio per la sicurezza nazionale. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, durante una conferenza stampa, ha spiegato che il corridoio di Filadelfia è la “linfa vitale” che ha permesso ad Hamas di rafforzarsi negli anni grazie al contrabbando di armi e rifornimenti. Cedere questo passaggio, secondo Netanyahu, significherebbe permettere a Hamas di continuare le proprie operazioni militari, e una volta perso il controllo, Israele non sarebbe in grado di riappropriarsene a causa delle inevitabili pressioni internazionali.
Nonostante il Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant abbia proposto di concedere temporaneamente il controllo del corridoio per facilitare il rilascio di 33 ostaggi, Netanyahu rimane categoricamente contrario. Secondo il Primo Ministro, una concessione temporanea rischierebbe di trasformarsi in una perdita definitiva, compromettendo la sicurezza di Israele e rafforzando ulteriormente Hamas.
il messaggio pubblicato dalla Associazione dei Giovani Palestinesi d’Italia che si configura come reato di apologia di delitti di terrorismo, punito dall’art. 414 del Codice Penale
L’Associazione Italia-Israele di Milano denuncia con ferma condanna l’iniziativa di “giovani palestinesi” che il 5 ottobre prossimo a Roma intendono promuovere una manifestazione, che in modo blasfemo esalta come “rivoluzione” l’esecrando genocidio perpetrato da Hamas in Israele al confine con Gaza nel Pogrom del 7 ottobre 2023. Proporre e diffondere l’odio, il genocidio, la violenza e il terrorismo, come strumenti per annientare l’avversario, è contrario alla nostra Carta costituzionale che esalta i valori della pace, della convivenza e del dialogo civile. Inoltre, definire – come i promotori – lo Stato d’Israele (membro dell’ONU) “invasore e Stato coloniale” senza neppure nominarlo, è contrario ai diritti dell’autodeterminazione dei popoli, internazionalmente riconosciuti dalle Nazioni Unite. Desiderosi di un costruttivo confronto nella verità e nella giustizia, anche per la dignità e la difesa dei legittimi diritti palestinesi, facciamo appello, pertanto, al Signor Ministro degli Interni, perché manifestazioni simili alla suddetta del 5 ottobre vengano severamente vietate. Associazione Italia-Israele di Milano Email: itaisraele.milano@gmail.com Milano, 4 settembre 2024(Bet Magazine Mosaico, 6 settembre 2024)
Nei giorni scorsi il sindaco di Londra, Sadiq Khan, ha comunicato con entusiasmo la sperimentazione di una nuova linea di autobus che collegherà direttamente, per la prima volta, due zone della città densamente abitate da ebrei. Un provvedimento per rendere più spedito lo spostamento da un punto all’altro? Macché. Serve invece a limitare il pericolo che, lungo le tappe del tragitto, i passeggeri ebrei siano esposti ad aggressioni, aumentate a livelli mai registrati prima. Le comunità ebraiche interessate hanno accolto con favore l’iniziativa, e si può capire. Dovrebbe tuttavia far riflettere e suscitare qualche trasalimento il fatto che nel 2024, in una città europea, ci si costringa a organizzare linee di trasporto riservate agli ebrei perché altrimenti c’è caso che li accoppino. Quelli, d’accordo, preferiscono così, e appunto c’è da capirli: perché se devi scegliere tra il ghetto ambulante e le botte o le coltellate, beh, per evitare queste scegli quello e tanti saluti. Ma la società costretta a presidiare sé stessa perché, se lasciata libera si sfogherebbe violentemente su una minoranza, è in buona salute? E gli amministratori costretti a separare quella minoranza dal resto della società che minaccia di aggredirla, preservandone l’incolumità al prezzo di incapsularla in una riserva semovente, possono ritenersi soddisfatti? Non si dice che quel sindaco avrebbe dovuto rinunciare a fare qualsiasi pubblicità dell’iniziativa, questo magari no. Ma farne sfoggio tutto contento, come lui ha creduto di fare, significa non accorgersi del doppio scandalo che una simile vicenda drammaticamente denuncia: lo scandalo di una situazione in cui gli ebrei devono temere per la propria incolumità, e lo scandalo di una società che per proteggerli deve ricorrere a un regime speciale loro dedicato. Se il discorso pubblico europeo non fosse ormai destituito di qualsiasi tempra civile, se non fosse ormai completamente ottuso nella propria capacità di intelligenza delle cose, qualcuno con influenza e voce in capitolo avrebbe identificato e denunciato in quella “piccola” vicenda londinese l’enorme spettro di una trafila speculare. Non è successo. Ma non accorgersi di quanto sia grave dover ricorrere a uno statuto speciale per “proteggere” gli ebrei, sia pur solo relativo a un po’ di fermate di bus, significa non accorgersi che i lombi della società sono maturi per dare fuori materia di segno esattamente opposto. Il ghetto faceva due cose. Disegnava il perimetro di qualche guarentigia. Circoscriveva l’ambito del pogrom.
La costruzione del primo computer nello Stato ebraico è iniziata circa 70 anni fa. Il WEIZAC rimase in funzione fino al 1963. Einstein era ancora scettico.
Nel 1955, il WEIZAC (Weizmann Automatic Calculator) fu il primo computer ad entrare in funzione in Israele. Era anche uno dei primi grandi calcolatori al mondo e il prodotto di alcuni rinomati scienziati ebrei emigrati.
Anche Albert Einstein faceva parte del comitato che doveva decidere sulla realizzazione del progetto. Era scettico, e si chiedeva se avesse senso costruire computer costosi. Il gruppo comprendeva anche John von Neumann, sulla cui idea si basò il primo computer di Israele e, in ultima analisi, del mondo intero. Nato nel 1903, il figlio di un banchiere ebreo di Budapest emigrò negli Stati Uniti nel 1933 ed è tuttora considerato uno dei più grandi matematici del XX secolo.
L'iniziatore del progetto fu il fisico e matematico Chaim L. Pekeris, trasferitosi in Israele dagli Stati Uniti nel 1948. Einstein gli chiese perché il piccolo e povero Paese di Israele avesse bisogno di un computer. Von Neumann rispose: “Non si preoccupi di questo problema. Se nessun altro usa il computer, Pekeris lo userà sempre!”.
Il “Weizmann Automatic Calculator”, in breve WEIZAC, fu costruito presso il Weizmann Institute tra il 1954 e il 1955. Eseguì i primi calcoli nell'ottobre 1955. Il WEIZAC gettò le basi dell'industria informatica e tecnologica israeliana. Per sei anni è stato l'unico computer in funzione in Israele.
Per l'input e l'output si usava il nastro perforato e successivamente il nastro magnetico. Il WEIZAC era costantemente occupato. Gli utenti (soprattutto di altre istituzioni) erano desiderosi di tempo di calcolo e chiedevano che venissero messi a disposizione altri computer.
• Calcolo di maree e atomi
Il WEIZAC fu utilizzato per la ricerca matematica, ad esempio per risolvere problemi legati al calcolo delle maree oceaniche. Ciò richiedeva calcoli complessi che non potevano essere eseguiti manualmente in modo significativo.
I calcoli con WEIZAC richiedevano centinaia di ore. Hanno permesso agli scienziati di creare mappe che riflettevano in modo molto accurato le fluttuazioni delle alte e basse maree in tutto il mondo. Di conseguenza, i ricercatori del Weizmann hanno previsto la posizione esatta di un punto dell'Atlantico meridionale in cui non si verificano mai alte e basse maree. Le misurazioni effettuate nel corso della scoperta hanno confermato l'esistenza e la posizione di questo punto.
In un'altra ricerca, gli scienziati hanno utilizzato WEIZAC per calcolare lo spettro di un atomo di elio - che consiste di tre particelle: il nucleo atomico e i due elettroni che si muovono intorno ad esso. Ancora oggi, risolvere le relazioni dinamiche tra tre corpi è considerato un compito matematico molto complesso. Tuttavia, il problema dell'atomo di elio è stato completamente risolto e ha fornito risultati confermati sperimentalmente dal Brookhaven National Laboratory negli Stati Uniti.
In altri progetti, WEIZAC è stato utilizzato per calcoli volti a studiare diversi modelli teorici della struttura interna della Terra, tenendo conto dei suoi diversi strati. Questi studi si basavano sui calcoli della propagazione delle onde d'urto attraverso i diversi strati; dopo il verificarsi di diversi terremoti in tutto il mondo, sono stati effettuati confronti con le misurazioni reali.
• Il progetto consumava un quinto del budget dell'Istituto Weizmann
Chaim Weizmann nacque nel 1874 nell'attuale Bielorussia e inizialmente era un chimico. Weizmann, che in precedenza aveva insegnato a Manchester, divenne direttore dell'Istituto di ricerca Daniel Sieff, fondato a Rechovot nel 1934. Fu anche attivo politicamente e si impegnò per la creazione di uno Stato ebraico; nel 1949, Weizmann divenne il primo presidente israeliano. Tuttavia, continuò a vivere a Rechovot e a occuparsi dell'istituto di ricerca, che prese il suo nome.
Per la costruzione del primo computer in Israele, Weizmann mise a disposizione 50.000 dollari USA, che rappresentavano un quinto del budget totale dell'Istituto Weizmann. Oggi l'importo corrisponderebbe a un valore di circa 680.000 dollari USA.
L'ingegnere americano Gerald Estrin fu responsabile della costruzione del WEIZAC. Tra gli altri, reclutò Aviezri Fraenkel, un matematico ebreo di Monaco emigrato in Israele nel 1939, per unirsi al suo team. Weizmann stesso non visse abbastanza per vedere il completamento del computer; morì il 9 novembre 1952.
Il WEIZAC rimase in funzione fino al 29 dicembre 1963. Ancora oggi si trova presso l'Istituto Weizmann e può essere visitato. Il suo successore fu inizialmente chiamato “WEIZAC 2”, ma su consiglio dello studioso di cabala Gershom Scholem gli fu dato il nome di “Golem”. Si trattava di un'allusione al Golem di Praga, che secondo una leggenda medievale era una creatura di argilla che prendeva vita.
Il primo computer al mondo è considerato lo “Z3”, costruito nel 1941 dal tedesco Konrad Zuse. Egli costruì il primo computer controllato da un programma durante il tumulto della Seconda Guerra Mondiale, completamente da solo. La sua presentazione nel suo laboratorio di Berlino attirò poca attenzione all'epoca.
(Israelnetz, 6 settembre 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Parashà di Shofetim: Cosa succede dove non ci sono giudici
di Donato Grosser
La parashà inizia con queste parole: “Porrai su di te dei giudici (shofetìm) e dei ufficiali (shotrìm) in tutte le città che l’Eterno, il tuo Dio, ti dà, tribù per tribù; ed essi giudicheranno il popolo con giusti giudizi (Devarìm, 16:18). Rashì (Troyes, 1040- 1104) commenta questo versetto nel modo seguente: “I shofetìm sono i giudici che decidono la legge; i shotrìm sono gli ufficiali che governano il popolo seguendo gli ordini dei giudici…” e quindi usano anche metodi coercitivi affinché le decisioni dei giudici vengano obbedite. R. Yaakov Yosef Hakohen di Polnoye (Ucraina, 1710-1783), che fu il principale discepolo del Ba’al Shem Tov, compose un’opera dal titolo Toledot Ya’akov Yosef che fu pubblicata nel 1780 a Koretz in Ucraina. È un libro molto prezioso perché fu il primo libro di Chassidismo ad andare in stampa. In quest’opera che comprende commenti alla Torà, r. Ya’akov Yosef citò centinaia di volte gli insegnamenti del Ba’al Shem Tov. In questa parashà, r. Ya’akov Yosef si sofferma sulla parola “Porrai su di te”. Egli afferma che questo significa che devi giudicare te stesso nello stesso modo in cui tu giudichi il tuo prossimo. Inoltre r. Ya’akov Yosef aggiunge che da questo versetto si può imparare come resistere alle tentazioni dello yetzer hara’, dell’istinto naturale. L’uomo è come una piccola città e lo yetzer hara’ è paragonato a un Re che la mette d’assedio. L’uomo deve quindi proteggere le sette “porte” della sua città che sono i due occhi, le due orecchie, le due narici e la bocca. La bocca è la “porta” più importante e richiede maggiore protezione. Infatti nei Pirkè Avòt (Massime dei Padri, 1: 16) r. Shim’on ben Gamliel disse: “Ho trascorso la mia vita tra i maestri e non ho riscontrato nulla di meglio per l’uomo che il silenzio, e non è la sola teoria quel che conta, ma la teoria vissuta e praticata, e chiunque si prolunga in discorsi inutili porta il peccato”. Così pure nel vedere e nel sentire, afferma r. Ya’akov Yosef, bisogna saper avere giudizio su cosa guardare e su cosa sentire. R. Avraham Kroll (Lodz, 1912-1983, Gerusalemme) in Bepikudekha Asicha (p.372) cita i Proverbi di Salomone (6:6-8) dove è scritto: “Và, pigro, alla formica; considera come si comporta, e diventa savio! Essa non ha né capo, né ufficiale, né governante; prepara il suo cibo nell’estate, e raduna il suo mangiare durante la raccolta”. Nel Midràsh (Devarìm Rabbà, 5:2) i maestri si soffermano sull’espressione “considera come si comporta e diventa savio”. Viene citato r. Shim’on figlio di Chalaftà il quale racconta che una volta una formica aveva fatto cadere un chicco di grano. Le altre formiche si avvicinavano per annusarlo e nessuna glielo portava via. Per questo nel Talmud (‘Eruvìn, 100b) è detto che se non ci fosse stata data la Torà avremmo potuto imparare le leggi del furto dalla formica. Nel versetto succitato dei Proverbi è anche scritto che la formica “non ha né capo, né ufficiale, né governante”. Rashì spiega: “Che non la ammonisca e le faccia restituire quello che ha rubato dalla sua compagna”. Questa affermazione è problematica perché appare contraddire quello che disse r. Shim’on ben Chalaftà che le formiche non portarono via il chicco di grano caduto da una loro compagna. Ma nello stesso midràsh viene citato Shim’on figlio di Yochay che dice che nel nascondiglio di una formica trovarono una quantità enorme di grano. E se le formiche stanno attente a non rubare da dove veniva questa enorme quantità di grano? Rav Kroll conclude che è per questo che re Salomone sottolinea che se non c’è un capo, un ufficiale e un governante, si può stare attenti a non toccare un chicco di grano che non ti appartiene e d’altra parte rubare in grande scala.
Un rapporto svela la strategia di Hamas per nascondere le perdite di combattenti a Gaza
In un rapporto citato dal quotidiano Haaretz e riportato dal Times of Israel, una fonte ha spiegato che per Hamas la guerra con Israele non si limita al campo di battaglia, ma include anche la battaglia per preservare la propria immagine globale. Nascondendo le informazioni sui combattenti uccisi e concentrandosi solo sulle perdite civili, Hamas spera di ottenere maggiore sostegno internazionale nella sua lotta contro Israele. Tuttavia, a Gaza, la segretezza con cui Hamas gestisce le proprie operazioni contrasta nettamente con la trasparenza che lo stesso gruppo mostra in Cisgiordania. In quest’ultima area, non esita infatti a rivelare i nomi dei combattenti uccisi dall’esercito israeliano e li svela pure con orgoglio. Hezbollah, in Libano, segue una prassi simile: mantiene un elenco aggiornato delle sue vittime negli scontri con Israele. Questo approccio solleva interrogativi: perché questa segretezza a Gaza per nascondere le perdite dei suoi soldati? Si tratta di una strategia per preservare la loro forza morale o c’è qualcosa di più? Un altro aspetto è legato al timore delle ritorsioni. A Gaza, chi perde un familiare affiliato a Hamas può avere paura a parlarne apertamente, temendo ripercussioni. Citando residenti anonimi della Striscia di Gaza, il rapporto – che giunge nel bel mezzo della guerra – afferma che la norma non ufficiale viene applicata a tal punto che perfino i familiari degli agenti di Hamas uccisi si astengono dal lutto pubblico. «C’è paura di parlare pubblicamente degli agenti di Hamas, compresi quelli che sono stati uccisi», ha detto un residente di Gaza ad Haaretz, spiegando che c’era paura di essere etichettati come «traditori» o «collaboratori» e di essere molestati dal gruppo terroristico. Secondo le voci che circolano per le strade, se i nomi degli uomini armati uccisi venissero resi pubblici, le persone in tutto il mondo potrebbero sentirsi meno colpite dalle sofferenze dei gazawi, e questo potrebbe giustificare il bombardamento di Gaza, ha detto un altro residente, conosciuto con lo pseudonimo di Adnan. «Finché si mostrano filmati e storie della popolazione civile, nessuno protesta. Ma se qualcuno osa criticare Hamas o nominare un combattente ucciso, verrà considerato un traditore e trattato come tale». Bushra (nome di fantasia), una donna che vive in questa realtà difficile, racconta qualcosa di sorprendente: spesso i familiari non sanno nemmeno cosa fanno i loro cari quando entrano in Hamas. Quando poi muoiono in combattimento, la notizia arriva in modo frammentato, come un eco lontano. A volte ci vogliono giorni, settimane addirittura, prima che i genitori ne siano informati. La notizia della loro morte viene trasmessa solo per passaparola diffondendosi da una persona all’altra fino a raggiungere i loro cari. Nonostante tutto questo silenzio soffocante, la gente di Gaza ha imparato a trovare informazioni in modi diversi. Non si può sempre contare sulle vie ufficiali, perciò molti si affidano ai social. Questi strumenti digitali sono diventati essenziali per cercare di capire chi è stato ucciso. È una rete sotterranea di notizie che non sarà perfetta, ma, senza altro, è quello che c’è. Nel frattempo, il Ministero della Salute di Gaza, che è sotto il controllo di Hamas, ha diffuso cifre impressionanti: oltre 40.000 persone sarebbero state uccise o risultano disperse dall’inizio del conflitto. Ma quei numeri, dicono gli esperti, non possono essere verificati in modo indipendente, e c’è anche da dire che non fanno distinzione tra chi fosse un civile e chi un combattente. Israele, dal canto suo, ha dichiarato di aver eliminato circa 17.000 combattenti di Hamas e 1.000 terroristi nel famoso attacco del 7 ottobre. Le autorità israeliane continuano a sottolineare che fanno il possibile per limitare i danni ai civili, puntando il dito contro Hamas, accusandoli di usare la popolazione come scudi umani, nascondendosi tra case, scuole, ospedali e, addirittura, moschee. Un dato interessante viene da una recente analisi dell’Associated Press: da giugno, la percentuale di donne e bambini uccisi è scesa sensibilmente. Come mai? Pare sia dovuto a un cambiamento nelle tattiche di Israele, cosa che va a contraddire quanto detto da Hamas. A ottobre, oltre il 60% delle vittime erano donne e bambini. Ma già ad aprile, quel numero era sceso sotto il 40%. Eppure, questa riduzione non ha attirato grande attenzione, né dalle Nazioni Unite né dai media. Hamas, da parte sua, non sembra aver mostrato interesse a correggere questi dati in pubblico. Ci si rende conto, insomma, che questa guerra non è fatta solo di proiettili e bombe, ma anche di informazioni. Ogni parte cerca di modellare la propria narrativa per guadagnare terreno, mentre la popolazione civile resta, come sempre, intrappolata in mezzo. E, alla fine, che cosa sono? Numeri. Freddi numeri. Questa mancanza di trasparenza da parte di Hamas non sembra solo una strategia di guerra. È anche un modo per mantenere un certo controllo sulla narrativa interna. Tuttavia, in tutto questo gioco di potere, fatto di silenzi e mezze verità, trovare la realtà diventa sempre più complicato. Alla fine, come sempre, sono i civili a pagarne il prezzo più alto. Bloccati in una guerra di cui spesso non comprendono né le cause né l’orizzonte.
Ostaggi – Il Global Imams Council condanna la violenza di Hamas
«Prendere di mira e brutalizzare i civili, soprattutto quelli indifesi e trattenuti contro la loro volontà, è un atto di malvagità assoluta e una grave violazione delle leggi stabilite da tutte le principali tradizioni religiose, Islam incluso».
È una ferma condanna quella espressa dal Global Imams Council dopo l’assassinio a sangue freddo dei sei ostaggi israeliani da parte di Hamas. Fondata dopo l’invasione irachena e siriana dell’Isis e non nuova a prese di posizione contro l’odio, l’ong islamica raggruppa oltre 1400 leader religiosi musulmani in tutto il mondo, sciiti e sunniti, con l’obiettivo di contrastare e disinnescare il radicalismo interno a quel mondo. Una piccola ma significativa goccia nel mare di tanta violenta intolleranza, anche perché il documento è stato emesso nel corso di un seminario in Iraq, paese che ha più volte guardato verso Israele (anche in questi mesi) con propositi distruttivi.
«Riteniamo Hamas direttamente responsabile della morte e della sofferenza di tutte le vite innocenti perse dal 7 ottobre, poiché le sue azioni non solo hanno portato morte e distruzione nella regione, ma hanno anche causato immense sofferenze al popolo palestinese», precisano gli imam aderenti alla ong, definendo le tattiche di Hamas «sconsiderate e disumane» per l’utilizzo di scudi umani, per aver intensificato il ciclo delle violenze e più in generale per aver indebolito la causa della giustizia e della pace. Il Consiglio Globale degli Imam si scaglia anche contro il regime iraniano, che a suo dire «condivide la stessa responsabilità per queste tragedie, per via del continuo sostegno e appoggio alle azioni di Hamas». Chissà cosa penserà di questa nota Ahmad al-Tayyib, Grande Imam dal 2010 di Al-Azhar, la massima espressione dell’Islam sunnita, che aveva definito il 7 ottobre un’azione di «resistenza dell’orgoglioso popolo palestinese».
Sono trascorsi ottant'anni da primo eccidio di settembre in via Seganti. Ricostruisce lo storico Gabriele Zelli: "Nel tardo pomeriggio del 5 settembre 1944, il gruppo di nazisti delle SS che si era insediato a Forlì provenienti da Roma, avendo lasciato la capitale in seguito all'arrivo dell'esercito alleato, e fascisti italiani della Guardia Nazionale Repubblicana (Gnr) prelevarono dal carcere di via della Rocca ventuno persone. L’Aussenkommando della Sicherheitsdienst (Sd) di Forlì deteneva i prigionieri sia negli scantinati trasformati in prigione della propria sede in viale Salinatore 24, con una capacità di circa cinquanta posti (per i quali non sono sopravvissuti registri o documenti), sia nel carcere civile di via della Rocca, dove aveva un ufficio con due uomini addetti agli interrogatori dei prigionieri politici (per il quale esistono i registri di ingresso e uscita)".
"Nove dei ventuno prelevati erano parenti di Tonino Spazzoli e furono tutti deportati nei campi di concentramento - prosegue Zelli nel racconto -. Gli altri dodici prigionieri, dieci ebrei e due antifascisti, vennero portati alla caserma “Caterina Sforza” in via Romanello, un luogo di "visita medica" per coloro che dovevano essere deportati in Germania. Da viale Salinatore, altri otto prigionieri - quattro donne e quattro uomini - furono trasferiti sempre in via Romanello. Questi movimenti facevano parte di una decisione presa dai comandanti tedeschi Karl Schütz e Hans Gassner nel tentativo di mantenere segrete le eliminazioni e giustificare le sparizioni con la deportazione in Germania. In tarda serata, le venti persone furono caricate su diversi automezzi e portate verso l’aeroporto. All’altezza delle “casermette” del Ronco, occupate dalle truppe tedesche che le avevano ribattezzate Caserma “Adolf Hitler”, alcuni automezzi svoltarono, mentre gli altri proseguirono verso l’aeroporto, dove li attendevano gli esecutori. Le uccisioni non ebbero testimoni diretti".
Il primo monumento in granaglia a ricordo delle vittime della strage dell'aeroporto e collocato nel 1946 in via Seganti
"Alle cinque del mattino successivo, 6 settembre, gli altri prigionieri furono prelevati dalle casermette, condotti all’aeroporto e eliminati - prosegue il drammatico racconto -. Le venti vittime furono uccise in tre gruppi: uno composto da dieci persone e due da cinque. Non sappiamo quanti furono uccisi la sera e quanti al mattino. Tra le vittime si trovavano, tra gli altri, Edoardo Cecere, colonnello dell’XI Brigata Casale, uno dei primi a salire in montagna per combattere i tedeschi; Pellegrina Rosselli del Turco, moglie del marchese Gian Raniero Paulucci De Calboli; Pietro Alfezzi, partigiano appartenente ai GAP; Chino Bellaganba, dipendente del Comune di Cesena e dirigente dell’Ufficio Leva, accusato di aver alterato documenti per sottrarre giovani alla deportazione in Germania e forse anche per favorire ebrei. Solo nel 2005 la famiglia di Bellaganba scoprì che era stato fucilato a Forlì, analogamente a quanto accadde per Lissi Lewin, che nel 2000 scoprì che il fratello Lewin fu eliminato nello stesso contesto e luogo".
(ForlìToday, 5 settembre 2024)
L’Idf rivela: gli ostaggi uccisi sono stati trovati in un tunnel sotto un’area per bambini
di Michelle Zarfati
L’IDF ha recentemente rivelato di aver ritrovato l’entrata del tunnel, in cui gli ostaggi Hersh Goldberg-Polin, Eden Yerushalmi, Carmel Gat, Almog Sarusi, Alexander Lobanov e Ori Danino sono stati uccisi, sotto un’area civile, in un cortile per bambini.
In un video pubblicato dall’esercito, un soldato ha spiegato che l’IDF ha ricevuto informazioni chiare sulla posizione dell’entrata del tunnel, un elemento importante per determinare la posizione esatta in cui operare. “Come potete vedere, il tunnel era nascosto nel cortile di un luogo utilizzato dai bambini, un luogo dove i ragazzi dovrebbero essere al sicuro e non essere usati come scudi umani per Hamas”, ha spiegato il soldato nel video. La 162ª Divisione dell’IDF e lo Shin Bet hanno localizzato il tunnel in un cortile utilizzato per far giocare i bambini, in un’area ad uso civile piena però di trappole.
“Questo è un altro esempio dell’uso cinico da parte di Hamas dello spazio civile per attività terroristiche” ha aggiunto l’IDF che ha recuperato i corpi degli ostaggi da un tunnel sotto la città di Rafah, a Gaza. I corpi sono stati trovati a solo un chilometro da dove Kaid Farhan al-Alkadi, 52 anni, di Rahat, è stato trovato vivo la scorsa settimana. Da quando Alkadi è stato salvato, l’IDF ha dato istruzioni di prestare la massima attenzione nella zona. Tuttavia, è possibile che Hamas abbia ucciso le sei vittime, sapendo che l’esercito era vicino e che gli ostaggi potevano essere salvati vivi dall’esercito israeliano.
Un sigillo in pietra estremamente raro e insolito del periodo del Primo Tempio, di circa 2.700 anni, recante un nome inciso in scrittura paleo-ebraica e una figura alata, è stato scoperto nei pressi della parete meridionale del Temple Mount, nel Giardino Archeologico di Davidson, durante gli scavi condotti dalle Antichità Israel Autorità e organizzazione Città di David. Secondo il Dr. Yuval Baruch e Navot Rom, direttori degli scavi per conto dell’Autorità Israel Antichities:
Il sigillo, realizzato in pietra nera, è uno dei più belli mai scoperti negli scavi nell’antica Gerusalemme, ed è eseguito al più alto livello artistico.
L’oggetto, inciso con scritta specchio, serviva al suo proprietario sia come amuleto che per firmare legalmente documenti e certificati. Ha un taglio convesso su entrambi i lati, e un foro perforato attraverso la sua lunghezza, in modo che possa essere attaccato ad una catena ed essere indossato al collo. Al centro una figura è raffigurata di profilo, possibilmente un re, con le ali; indossa una lunga camicia a righe e va verso destra. La figura ha una criniera di lunghi riccioli che copre la nuca del collo, e sulla testa c’è un cappello o una corona. La figura alza un braccio in avanti, con un palmo aperto; forse per suggerire qualche oggetto che tiene. Su entrambi i lati della figura è incisa un’iscrizione in paleo-ebraico:
LeYeho ‘ezer ben Hosh ‘ayahu.
Secondo l’archeologo e assiriologo Dr. Filip Vukosavovi, della Israel Antiquity Authority, che ha studiato il sigillo:
Si tratta di una scoperta estremamente rara e insolita. È la prima volta che un ‘genio’ alato – una figura magica protettiva – viene trovato nell’archeologia israeliana e regionale. Le figure dei demoni alati sono note nell’arte neo-assira del IX – VII secolo a.C., ed erano considerate una sorta di demoni protettivi.
I ricercatori ritengono che l’oggetto, sul quale originariamente apparve l’immagine del demone, fosse indossato come amuleto al collo di un uomo di nome Hosh ʼayahu, che ricopriva una posizione di alto livello nell’amministrazione del Regno di Giuda. In virtù della sua autorità e del suo status, questo Hosh ʼayahu si è permesso di nobilitare se stesso e ostentare un sigillo con incisa su una figura che ispira lo stupefacente, che incarna un simbolo di autorità. Il Dr. Vukosavovi afferma:
Sembra che l’oggetto sia stato realizzato da un artigiano locale che ha prodotto l’amuleto su richiesta del proprietario. È stato preparato ad altissimo livello artistico.
L’ipotesi è che, dopo la morte di Hosh ‘ayahu, suo figlio Yeho ‘ezer abbia ereditato il sigillo, aggiungendo il suo nome e il nome di suo padre su entrambi i lati. Questo lo fece, forse, per appropriarsi direttamente a sé stesso delle qualità benefiche che credeva che il talismano incarnasse come oggetto magico. Il nome Yeho ‘ezer ci è familiare dalla Bibbia (Chron. I 12:7) nella sua forma abbreviata – Yo ‘ezer, uno dei combattenti di re Davide. Inoltre, nel libro di Geremia (43:2), che descrive gli eventi di questo stesso periodo, viene menzionata una persona con un nome parallelo, ‘Azariah ben Hosh ‘aya. Le due parti del suo nome sono scritte in ordine inverso al nome del proprietario del sigillo, e il suo secondo nome è lo stesso, compare nella sua forma abbreviata. Questa scritta nel testo corrisponde al nome del sigillo appena scoperto ed è quindi appropriata per questo periodo. Secondo il Prof. Ronny Reich dell’Università di Haifa:
Confrontando la forma delle lettere e la scrittura con quelle di altri sigilli e bulle di Gerusalemme si evidenza che, a differenza dell’attenta incisione del demone, l’iscrizione dei nomi sul sigillo è stata fatto in maniera approssimativa. Non è impossibile che forse è stato Yeho ‘ezer stesso a incidere i nomi sull’oggetto.
Il Dr. Yuval Baruch, Direttore degli scavi e Vicedirettore presso l’Israel Antiquites Authority, afferma:
Questa è un’ulteriore prova delle capacità di lettura e scrittura che esistevano in questo periodo. Contrariamente a quanto si può pensare comunemente, sembra che l’alfabetizzazione in questo periodo non fosse solo riservata all’élite della società. La gente sapeva leggere e scrivere – almeno a livello base – per le esigenze del commercio. Conosciamo molti sigilli in scrittura paleo-ebraica, provenienti dai dintorni della Città di Davide e del periodo del Regno di Giuda. La figura di un uomo alato in uno stile neo-assiro è unica e molto rara negli stili glifici del tardo primo Tempio. L’influenza dell’Impero Assiro, che aveva conquistato l’intera regione, è chiaramente evidente qui. Giuda in generale, e Gerusalemme in particolare all’epoca, era soggetta all’egemonia dell’Impero assiro e ne fu influenzato – realtà questa che si riflette anche negli aspetti culturali e artistici. Il fatto che il proprietario del sigillo abbia scelto un demone come insegne del suo sigillo personale può attestare la sua sensazione di appartenere al contesto culturale più ampio, proprio come le persone oggi in Israele, che si vedono parte della cultura occidentale. Tuttavia, all’interno di quel sentimento, questo Yeho ʼezer ha tenuto saldamente la sua identità locale, e quindi il suo nome è scritto in ebraico e il suo nome è un nome ebraico che appartiene alla cultura di Giuda. Negli ultimi anni, le testimonianze archeologiche sono in aumento, specialmente negli scavi della Città di David e alla base del Monte del Tempio, testimoniano l’entità dell’influenza della cultura assira soprattutto a Gerusalemme.
Il Ministro israeliano del patrimonio artistico rabbi Amichai Eliyahu ha accolto con favore la scoperta:
La spettacolare e unica scoperta negli scavi dell’Autorità per le Antichità Israeliane e della città di David ci apre un’altra finestra sui giorni del Regno di Giuda durante il periodo del Primo Tempio, e attesta i legami internazionali di quell’amministrazione. Così facendo, dimostra l’importanza e la centralità di Gerusalemme già 2.700 anni fa. È impossibile non lasciarsi commuovere da un incontro così poco mediato e diretto con un capitolo del nostro passato.
Un antisemitismo che è aumentato del 400 per cento, con ossessiva violenza. Un aumento vertiginoso, dopo la Shoah e il 7 ottobre, indicatore di un mondo molto storto e cieco. La vittoria politica e mediatica di Hamas e Hezbollah, dei loro padroni e soci, con questa stortura e cecità del mondo, che segue e adotta la voce dei genocidi sadici, stupratori, tagliagole, nuovo Isis, e anche peggio.
La polarizzazione-lacerazione del popolo di Israele, vista da lontano è, in un certo senso, un effetto dell’assedio antisemita e della pressione pesante e costante della cosiddetta comunità internazionale ribaltata contro l’indipendenza ebraica e consociata con il terrore israelofobico. E anche delle difficoltà a fronteggiarlo. Vista da vicino, costituisce l’esplosione di una situazione incandescente, insostenibile di un Paese assediato da sette lati, da una morsa sterminazionista, davanti a scelte di per sé difficili, dilemmatiche, irte di inevitabili contraddizioni.
Da un lato Israele, in guerra di difesa da mostri implacabili, isolato dall’ondata antisemita senza vergogna e limiti, ricattato dalla lacerante necessità della liberazione degli ostaggi – assassinati e seviziati con orribile, inenarrabile ferocia – si mostra un’ultra democrazia dove ognuno esprime la sua, perfino i vertici militari dissentono, sono rese pubbliche le riunioni del gabinetto di guerra, libere manifestazioni di piazza, sciopero politico illegale, accanito e puntiglioso dibattito permanente.
Perfino alcuni dei dichiarati nemici di Israele si confessano colpiti da tanta visibilità iper-democratica. Una realtà in netto spartiacque con l’oscurità totalitaria dei nemici genocidi e dei regimi loro alleati e sponsor. Ma è una vitalità che rischia fortemente di convertirsi in mortalità.
La luminosa definizione del grande rabbino pensatore Lord Jonathan Sacks sull’ebraismo, grande “modello autocritico”, rischia di trasformarsi in un modello autodistruttivo.
Una opposizione isterica accusa il governo di essere “per la morte”, la maggioranza accusa l’opposizione di essere allineata e complice di Hamas sulla controversia per la liberazione degli ostaggi. Le minoranze di sinistra non accettano le scelte della maggioranza legittima degli Ebrei di Israele per la guerra di difesa dalla pianificazione sterminazionista di un nemico totalitario, genocida, sadico, apocalittico. Contrastano l’esigenza prioritaria di un’unità nazionale antiterrorista, strumentalizzano a fini di parte politica la comprensibile, umanissima rabbia delle famiglie degli ostaggi nelle mani dei mostri torturatori-assassini.
Ma il popolo e il governo di Eretz Israel, nella piena realizzazione della cultura e dell’etica ebraica del primato della vita contro la mistica fascista della morte di Hamas, hanno il diritto-dovere di salvare la vita e la libertà di tutte le famiglie e le persone, ebrei e minoranze.
Mentre il primo ministro Netanyahu si destreggia con una certa abilità tra la priorità della difesa, con la sconfitta dei nazisti del 7 ottobre, e la necessità di liberare gli ostaggi, una parte dell’opposizione lo demonizza in termini analoghi a quelli ostentati dalla costellazione Hamas, Hezbollah, Iran e Putin. Si tratta di una grave, inammissibile forma di allineamento a chi vuole eliminare Israele. Netanyahu non viene criticato per il 7 ottobre indifeso, o per l’illusione di addomesticare Hamas con finanziamenti e permessi di soggiorno; ma mostrificato per la fermezza su ragioni elementari di difesa di Israele.
Gli oppositori non vogliono la capitolazione di Hamas, ma di fatto agiscono per la capitolazione ad Hamas, con effetti letali.
Una strategia di cedimenti e complicità con la guerra psicologica programmata da Yahya Sinwar. Un “pizzino” a lui attribuito stabilisce in modo esplicito: massacro degli ostaggi prima della liberazione da parte di Tsahal, scaricare la colpa su Netanyahu, fare degli ostaggi una rendita criminale incentivata dalla piattaforma politica degli organizzatori delle manifestazioni; preparare nuovi 7 ottobre.
Sinwar, prigioniero di Israele per crimini efferati, liberato nello scambio di un’enorme massa di terroristi con il soldato Gilad Shalit, curato con la massima cura in un ospedale israeliano, conosce bene la realtà, la lingua, l’opinione pubblica israeliana, e la sfrutta per alimentare divisioni laceranti.
Da qui il suo ordine ai mostri infernali, di catturare quanti più ostaggi possibili. Per questo, cedere sugli ostaggi significa incentivare nuovi ostaggi di nuovi 7 ottobre.
La società israeliana condanna i gruppi estremisti minoritari che compiono azioni di violenza simmetrica su comunità e persone arabe palestinesi in Giudea e Samaria, dovrebbero condannare altrettanto la propaganda simmetrica ad Hamas, contro la volontà di difesa della maggioranza del popolo di Israele.
L’isteria e la virulenza antisemita di massa di questo ultimo anno punta a dividere gli ebrei in Israele, e le comunità ebraiche della diaspora da Israele.
Come per millenni l’antigiudaismo cristiano voleva la conversione dei “perfidi Giudei”, oggi si vuole una conversione secolarizzata, cioè la rottura degli ebrei da Israele come una nuova forma di battesimo forzato. Oppure l’uniformazione a un’idea astratta e omogenea di “umanità”, con la rinuncia alla propria diversità-particolarità ebraica.
Da qui, la valanga di stereotipi antiebraici riverniciati, da una storia millenaria di discriminazione, persecuzione, eliminazionismo fisico.
L’attuale antiebraismo israelofobico è un concentrato di filisteismo, tartufismo, bigottismo, laico e religioso. Il più diffuso e ottuso conformismo di massa, una mistura di cecità ideologica e analfabetismo trionfante. La parola “filisteo” viene dall’ebraico ‘Pelishtin’, a designare gli appartenenti ai filistei, antica popolazione immigrata sulla costa di Israele, tradizionale avversaria del popolo ebraico.
L’ebreo tra gli Stati è l’oggetto di un attacco concentrico. Il bombardamento mediatico contro Israele che affianca quello fisico, non è solo un potente tossico antiebraico di falsificazione e mostrificazione, ma è un delitto di conoscenza, che corrode e annulla il tessuto democratico di quei paesi che ancora in qualche modo lo mantengono.
Il potere illimitato dei media limita ulteriormente i poteri limitati delle democrazie liberali in un punto nevralgico. La deliberazione democratica di fonda sulla conoscenza, secondo il noto principio chiave “Conoscere per deliberare” (l’insistenza di Luigi Einaudi e Marco Pannella). Quando i media seguono la voce di Hamas, Hezbollah e soci e diventano una mezza Al Jazeera, non solo compiono un’aggressione quotidiana antiebraica ma ribaltano una conoscenza fondata sulle fonti e gli eventi reali. Dunque, la degenerazione della democrazia, in un mare di demagogia populista, di isteria vendicativa. Il sistema informativo normalizza Hamas, e per questo si pone su un terreno anti-democratico. La demagogia sostituisce la democrazia, non si limita a corromperla.
La quotidiana dose mediatica di oppio antiebraico è la forma attuale della persecuzione. L’antiebraismo si rivela la punta d’assalto di un pensiero unico massificato contro il pensiero libero, plurale e creativo.
Il terzo totalitarismo, quello islamista califfale terrorista, oltrepassa l’eredità, che pure contiene, del nazifascismo tedesco e del comunismo, raggiunge livelli senza precedenti di azione genocida, a livelli sadici e apocalittici. Anche la sola “equidistanza” tra Hamas e Israele è incivile, è una forma di collaborazionismo con il nuovo nazismo. E i Quisling dell’islam sono tanti.
La barbarie antisemita in atto è doppia: antisemitismo ancestrale, stratificato, ora carsico ora emergente, nel senso dell’”inconscio collettivo” (Jung) e la barbarie digitale virale (B. H. Lèvy) con l’idiozia dell’istante. Un totalitarismo mediatico per l’uomo-massa con l’esclusione sistematica di conoscenza e pensiero. Un meccanismo implacabile per disumanizzare l’ebreo e umanizzare il terrorista disumano.
Siamo al caso limite di osservare una relativa giustificazione della Shoah: se gli Ebrei sono tanto cattivi e duri, se sono percepiti come nazificati, vorrà dire che il nazionalsocialismo hitleriano qualche ragione doveva pure averla. Qualche intellettuale di sinistra proclama risentito che la Shoah l’hanno fatta i suoi nemici, i nazifascisti; ma ora, davanti al 7 ottobre del totalitarismo nazi-islamico, con il peggioramento di una ferocia esibita, lui sta dalla parte di costoro o, nel migliore dei casi, si pone come equidistante.
Per gli ebrei, un’assimilazione coatta sembra essere l’unico modo per sfuggire alla condanna a morte. Ma neppure questo è possibile, perché anche gli ebrei assimilati, “pacifisti”, “filo-palestinesi”, vengono ammazzati lo stesso, e certe volte per primi.
Sciopero nazionale in Israele, la Corte ne decreta la fine
Scintille tra Biden e Netanyahu mentre il paese piange i sei ostaggi.
di Anna Balestrieri
Lunedì 2 settembre, centinaia di migliaia di manifestanti sono scesi nelle strade di Israele, esprimendo la loro furia per il fallimento del governo nel concludere un accordo di cessate il fuoco in cambio del rilascio degli ostaggi da parte di Hamas. La giornata di sciopero ha portato gran parte del paese a fermarsi, in seguito all’appello del sindacato più grande del paese, Histadrut, per bloccare l’intera economia. Le proteste si sono diffuse in città come Gerusalemme, Tel Aviv e Cesarea, dopo che sei ostaggi sono stati uccisi a Gaza e i loro corpi recuperati dai soldati israeliani.
• GLI ADERENTI ALLO SCIOPERO Lo sciopero ha coinvolto diverse categorie di lavoratori e servizi pubblici. Uffici governativi e municipali, inclusi ministeri cruciali come quello dell’Interno e parti dell’ufficio del Primo Ministro, sono stati chiusi. Anche molte aziende private hanno aderito allo sciopero. I voli da e per l’aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv sono stati sospesi per due ore. Gli ospedali e le strutture sanitarie hanno operato secondo un orario ridotto, simile a quello del fine settimana, e in modalità di emergenza. Nonostante il sostegno di molte istituzioni, alcune categorie non hanno partecipato allo sciopero. Ad esempio, il sindacato degli insegnanti ha scelto di non aderire, sebbene il personale di supporto nelle scuole abbia partecipato. Tuttavia, le principali università israeliane, tra cui l’Università Ebraica di Gerusalemme e l’Università di Tel Aviv, hanno aderito alla protesta.
• “SCIOPERO POLITICO”: LA SENTENZA DELLA CORTE DEL LAVORO La Corte del Lavoro di Tel Aviv ha ordinato la fine dello sciopero dopo otto ore, affermando che era di natura politica e non legata a motivi economici. Lo sciopero è stato il primo di questa portata dal marzo 2023, quando il paese si era fermato a causa delle controverse riforme giudiziarie proposte da Netanyahu.
• LE CRITICHE A NETANYAHU Molti manifestanti hanno preso di mira le residenze del Primo Ministro Benjamin Netanyahu, accendendo falò e scandendo slogan come “Tu sei il leader – tu sei colpevole!” vicino a una delle sue residenze private a Cesarea. A Tel Aviv, i manifestanti fuori dall’ambasciata americana hanno gridato “Vergogna!” fino a tarda notte. Le critiche a Netanyahu si sono intensificate, con alcune famiglie degli ostaggi che lo hanno accusato di ritardare gli sforzi per un accordo. Più di 100 ostaggi, vivi e morti, sono ancora detenuti a Gaza, la maggior parte catturata durante l’attacco di Hamas del 7 ottobre, quando oltre 1.200 persone furono uccise e più di 200 prese in ostaggio. Durante una conferenza stampa lunedì sera, Netanyahu ha respinto le critiche, incluse quelle del presidente degli Stati Uniti Joe Biden, affermando che Hamas deve fare concessioni. Il premier israeliano ha chiesto perdono alle famiglie dei sei ostaggi per non averli riportati a casa vivi, ma ha promesso di vendicarsi e far pagare un “prezzo pesante” a Hamas per le loro morti.
• LA REAZIONE DI HAMAS Hamas ha risposto intensificando le minacce, avvertendo che altri ostaggi torneranno “nelle bare” se Israele tenterà di liberarli militarmente. Il disaccordo su un’area di confine nota come il corridoio di Philadelphi ha ulteriormente complicato i negoziati per un cessate il fuoco. Netanyahu insiste sul controllo di questa striscia di terra lungo il confine di Gaza con l’Egitto per prevenire il contrabbando di armi da parte di Hamas, ma questa posizione è stata duramente criticata, incluso dal Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, che ha definito la priorità del corridoio un “disgusto morale”.
(Bet Magazine Mosaico, 4 settembre 2024) ____________________
Missione compiuta: nel tunnel di Sinwar staranno brindando.
Il Regno Unito sospende la vendita di armi a Israele. Netanyahu: “Vergognoso, incoraggia i terroristi”
di Luca Spizzichino
La decisione del governo britannico di sospendere la vendita di alcune componenti per armi destinate a Israele ha suscitato forte indignazione da parte di leader israeliani e organizzazioni ebraiche. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha duramente criticato la mossa, definendola “vergognosa” e avvertendo che essa non farà altro che incoraggiare Hamas, il gruppo terroristico responsabile del massacro di oltre 1200 persone il 7 ottobre, tra cui 14 cittadini britannici.
In una dichiarazione molto dura, l’ufficio del premier israeliano ha affermato che “la decisione vergognosa della Gran Bretagna non cambierà la determinazione di Israele a sconfiggere Hamas, un’organizzazione terroristica genocida che ha brutalmente assassinato 1200 persone il 7 ottobre, inclusi 14 cittadini britannici”. Tracciando un parallelo con la lotta del Regno Unito contro la Germania nazista durante la Seconda Guerra Mondiale, il governo israeliano ha aggiunto: “Invece di schierarsi con Israele, una democrazia che si difende contro la barbarie, la decisione fuorviante della Gran Bretagna non farà altro che incoraggiare Hamas”.
La decisione del Regno Unito è stata annunciata dal Segretario degli Esteri David Lammy, che ha dichiarato che la sospensione di circa 30 licenze di esportazione di armi, tra cui parti per aerei da caccia, elicotteri e droni, è stata presa dopo una revisione che ha concluso che esiste un rischio reale che queste armi possano essere utilizzate in violazione del diritto umanitario internazionale.
Anche il Rabbino Capo del Commonwealth, Sir Ephraim Mirvis, ha espresso profonda preoccupazione per la decisione del governo britannico, affermando su X che “è incredibile che il governo britannico, alleato strategico di Israele, abbia annunciato una sospensione parziale delle licenze per armi in un momento in cui Israele sta combattendo una guerra per la sua stessa sopravvivenza su sette fronti, forzata il 7 ottobre, e proprio nel momento in cui sei ostaggi assassinati a sangue freddo da crudeli terroristi venivano sepolti dalle loro famiglie”.
Mirvis ha aggiunto che “questo annuncio servirà a incoraggiare i nostri nemici comuni. Non contribuirà alla liberazione dei restanti 101 ostaggi, né contribuirà al futuro pacifico che desideriamo”.
L’annuncio del Regno Unito ha anche sollevato critiche interne, con esponenti del partito conservatore e gruppi pro-Israele che hanno messo in dubbio la saggezza e il tempismo della decisione. Helen Whateley, portavoce del Partito Conservatore, ha insinuato che la decisione potrebbe essere stata influenzata dalla pressione dei membri laburisti, piuttosto che basata su un’analisi strategica corretta.
Tuttavia, il Segretario alla Difesa britannico, John Healey, ha difeso la decisione, sottolineando che il Regno Unito ha il dovere “di dire le verità più difficili” ai suoi “amici più stretti” e ha ribadito l’impegno del Regno Unito a sostenere Israele in caso di un nuovo attacco diretto.
Mentre la sospensione riguarda solo una parte delle 350 licenze di esportazione attive verso Israele, alcuni critici ritengono che il governo britannico non sia andato abbastanza lontano. Amnesty International ha richiesto una sospensione totale delle esportazioni di armi verso Israele, comprese quelle destinate al programma dei jet F-35, preoccupata per l’impatto delle armi britanniche nel conflitto in corso.
Nonostante la parziale sospensione, Netanyahu ha ribadito la determinazione di Israele a vincere questa guerra, dichiarando che “con o senza armi britanniche, Israele vincerà questa guerra e garantirà il nostro futuro comune”.
Il boicottaggio contro Israele tocca il più grande fondo sovrano norvegese
Il Consiglio per l'Etica ritiene che le linee guida etiche forniscano una base per escludere diverse aziende (israeliane e non) che producono armi o componenti per armi usate da Israele
Il fondo sovrano norvegese da 1.700 miliardi di dollari denominato Government Pension Fund Global potrebbe essere costretto a cedere azioni di società che violano la nuova e più severa interpretazione degli standard etici per le imprese che aiutano le operazioni di Israele a Gaza e in Cisgiordania. Il 30 agosto il Consiglio per l’Etica del più grande fondo sovrano del mondo ha inviato una lettera al ministero delle Finanze norvegese che riassume la definizione recentemente ampliata di comportamento aziendale non etico. La lettera non specifica il numero e i nomi delle società che potrebbero essere vendute, ma suggerisce che si tratterebbe di un numero ridotto, se il consiglio della banca centrale, che ha l’ultima parola, dovesse seguire le raccomandazioni del consiglio. Secondo il Consiglio, una società è già stata individuata per essere disinvestita in base alla nuova definizione. “Il Consiglio per l’Etica ritiene che le linee guida etiche forniscano una base per escludere alcune altre società dal Fondo Pensione Governativo Global, oltre a quelle già escluse”, scrive l’organismo di vigilanza, indicando il nome formale del fondo sovrano norvegese. Il fondo è stato un leader internazionale nel campo degli investimenti ambientali, sociali e di governance (ESG). Possiede l’1,5% delle azioni quotate a livello mondiale di 8.800 società e le sue dimensioni sono influenti. Dall’inizio della guerra a Gaza, in ottobre, l’organo di controllo etico del fondo sta indagando per verificare se un numero maggiore di aziende non rientri nelle linee guida per gli investimenti consentiti. Nella lettera si legge che, con la nuova politica, “ci si aspettava che la portata delle esclusioni aumentasse un po’”. Tra le società che l’organo di controllo potrebbe esaminare vi sono RTX Corp, General Electric e General Dynamics. Secondo le organizzazioni non governative, queste società producono armi utilizzate da Israele a Gaza. Secondo i dati del fondo, al 30 giugno il fondo deteneva investimenti in Israele per un valore di 16 miliardi di corone (1,41 miliardi di dollari) in 77 società, tra cui aziende del settore immobiliare, bancario, energetico e delle telecomunicazioni. Rappresentano lo 0,1% degli investimenti complessivi del fondo.
Eliminato dall’IDF Muhammad Wadiyya: responsabile dell’invasione del 7 ottobre a Netiv Haasara
di Michelle Zarfati
Eliminato, in un recente attacco aereo israeliano, Ahmed Fawzi Nasser Muhammad Wadiyya, comandante della compagnia Nukhba di Hamas, responsabile di aver guidato l’invasione e il massacro del 7 ottobre di Netiv Haasara, un moshav vicino al confine di Gaza. L’uomo era arrivato a Nevit Haasara con il parapendio e lì aveva supervisionato il massacro di 22 dei 900 residenti della comunità.
Wadiyya, è tra gli otto terroristi di Hamas che sono stati eliminati ieri in un’operazione congiunta dell’IDF e dello Shin Bet, durante la quale i caccia dell’aeronautica hanno attaccato un complesso utilizzato da Hamas vicino all’area dell’ospedale Al-Ahli a Gaza City. L’IDF ha confermato che l’attacco ha mirato ad eliminare alcuni membri del Battaglione Daraj-Tuffah, uno dei quali coinvolto nella fornitura di bombe utilizzate per violare la barriera di sicurezza di Gaza. L’esercito ha confermato di aver adottato misure di sicurezza per ridurre al minimo i danni ai civili durante l’operazione.
Ahmad Wadia, il 7 ottobre aveva fatto irruzione nella casa della famiglia Ta’asa. Mentre gli altri terroristi uccidevano il quarantaseienne Gil Ta’asa davanti ai suoi figli più piccoli, Koren, 12 anni, e Shay, 8 anni, l’uomo aveva preso possesso della casa della vittima e lì era stato ripreso dalle telecamere di sicurezza della famiglia mentre apriva il frigorifero e beveva una Coca-Cola, proprio di fronte ai due bambini feriti e sanguinanti. Un filmato agghiacciante, annoverato ormai tra le immagini più scioccanti del massacro del 7 ottobre.
Ostaggi e terrorismo psicologico: il piano di Hamas per colpire Israele dall’interno
di Luca Spizzichino
Se Israele continuerà ad attaccare la Striscia di Gaza, gli ostaggi torneranno a casa “dentro le bare“. Questa è la minaccia lanciata da Hamas attraverso una dichiarazione di Abu Obeida, portavoce delle Brigate Ezzedine Al-Qassam. Il gruppo terroristico prosegue la sua guerra psicologica, cercando di dividere l’opinione pubblica, soprattutto in Israele, e attribuendo la responsabilità della morte degli ostaggi al governo di Netanyahu.
Un piano dettagliato è emerso da un pizzino manoscritto ritrovato nei tunnel di Gaza. Secondo quanto riportato da La Repubblica, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno trovato un elenco di punti, mostrato da Channel 12, uno dei canali televisivi israeliani più informati, che sembra essere stato redatto da Yahya Sinwar, leader di Hamas a Gaza.
Dal documento emerge l’intenzione di Hamas di intensificare la pressione sulla questione degli ostaggi, con l’obiettivo di destabilizzare l’andamento della guerra. Si evidenzia inoltre come Hamas miri a sfruttare le divisioni sociali all’interno della società israeliana. Per raggiungere questo scopo, il piano prevede la diffusione di immagini e video degli ostaggi israeliani, l’intensificazione della pressione psicologica sul ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant e, cosa più importante, “spingere sulla linea narrativa che Netanyahu è responsabile unico di quanto sta succedendo”.
L’ultimo punto del documento fornisce una risposta all’uccisione di Hersh e agli altri cinque ostaggi. L’esecuzione degli ostaggi israeliani catturati il 7 ottobre viene presentata come un mezzo per contrastare la narrativa israeliana secondo cui un’intensificazione militare aumenterebbe le probabilità di liberarli. In questo contesto, Hamas ha recentemente impartito nuove istruzioni alle guardie su come gestire gli ostaggi nel caso in cui le truppe israeliane si avvicinassero ai luoghi in cui sono detenuti.
Netanyahu ha ragione: gli errori della coppia Biden/Harris
Gli ostaggi sono stati uccisi da Hamas a Rafah, cioè dove Biden, Harris, Egitto e Qatar (praticamente tutti i negoziatori) non volevano che Israele andasse.
Quello che sta avvenendo intorno all’assassinio dei sei ostaggi da parte di Hamas ha davvero dell’incredibile. A partire da Biden alla Harris passando per migliaia di manifestanti nonché pseudo giornalisti “esperti” sui social, attribuiscono al Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, la colpa di quelle morti. A Netanyahu viene rimproverato di non essersi arreso ad Hamas. Sì, è esattamente quello di cui è accusato il Premier israeliano. Per Biden, Harris e contestatori vari, Israele doveva deporre le armi e permettere ad Hamas di rientrare in pompa magna nella Striscia di Gaza. Così, come se niente fosse. Nessuno dei tanti che contestano Netanyahu ha il coraggio di affermare che su Rafah aveva ragione. Nessuno dirà che se a suo tempo fosse stato permesso a Netanyahu di entrare a Rafah a quest’ora probabilmente il conflitto sarebbe finito. Invece lo hanno bloccato, lo hanno minacciato, gli hanno fermato o rallentato la fornitura di armi per costringerlo a non attaccare quello che palesemente era la base di Hamas. Anzi, se c’è una cosa di cui rimproverare il Premier israeliano, è quella di non aver attaccato sin da subito la roccaforte dei terroristi. Dicevano che non poteva garantire la sicurezza di centinaia di migliaia di civili, invece l’IDF ha spostato un milione di civili in due settimane e ha smantellato la Brigata Rafah di Hamas. I gruppi umanitari dicevano che sarebbe stata una strage, invece non c’è stata nessuna strage. L’IDF ha scoperto decine di tunnel che portavano in Egitto. Già l’Egitto, il “negoziatore imparziale” che come Hamas non vuole la presenza israeliana nel Corridoio Filadelfia, quel corridoio da dove sono passati indisturbati milioni di metri cubi di cemento, migliaia di missili, polvere da sparo, armi di ogni tipo. Il Cairo voleva rivedere il trattato di pace con Israele se l’IDF attaccava Rafah. Forse sarebbe il caso che sia Gerusalemme a rivedere il trattato di pace con l’Egitto visto che è palese la sua connivenza con Hamas. Forse sarebbe il caso che Israele revochi all’Egitto il permesso di entrare con mezzi pesanti nella Penisola del Sinai e che addirittura sia di nuovo Israele a controllare quel territorio, visto che l’Egitto non ci riesce. Come sarebbe il caso che Joe Biden e Kamala Harris chiedano scusa a Netanyahu e ai genitori degli ostaggi per non aver permesso a Israele di fare il suo lavoro quando era il momento e per le frasi del tutto fuori luogo pronunciate ieri, perché è stato Hamas e non Netanyahu a uccidere gli ostaggi e lo ha fatto a Rafah, cioè proprio dove l’Amministrazione americana non voleva che Israele andasse.
Le manifestazioni di piazza e lo sciopero generale che si sono verificate in Israele in risposta alla scoperta, da parte delle IDF, dei corpi di sei ostaggi, assassinati a sangue freddo da Hamas, hanno aiutato l’organizzazione terroristica palestinese a raggiungere i suoi obiettivi di sopravvivenza e di perseveranza nell’uccidere israeliani. Secondo le fonti, Hersh Goldberg-Polin (23), Carmel Gat (39), Eden Yerushalmi (24), Almog Sarusi (26), Alex Lobanov (32) e Ori Danino (25), tutti catturati il 7 ottobre, sono stati colpiti a distanza ravvicinata in uno dei tunnel di Rafah, circa 24-72 ore prima dell’arrivo dell’IDF. Il fatto è avvenuto la scorsa settimana, molto probabilmente dopo che Qaid Farhan al-Alkad è stato recuperato vivo dall’esercito. Ciò che risulta assurdo è che una parte consistente dell’arena politica e degli attivisti israeliani stiano incolpando il Primo Ministro Benjamin Netanyahu per la morte dei sei ostaggi, piuttosto che Hamas. Caroline B. Glick ha presentato il problema in modo estremamente chiaro e approfondito in un articolo per il JewishNewsSyndicate, nel quale ha anche affermato:
“All’unisono, Benny Gantz, Yair Lapid, Yair Golan e i loro subordinati si sono uniti ai gruppi di sinistra che hanno usato tumulti di massa, violenza politica e il caos generale dal 2019 nel tentativo di estromettere Netanyahu dal potere e hanno invitato gli israeliani a scendere in piazza in risposta alle esecuzioni degli ostaggi e a fare cadere il governo attraverso la violenza. Il comportamento di gente come Lapid, Gantz, Golan, del 90% degli organi di informazione israeliani e del resto dei rappresentanti della sinistra, solleva la domanda: hanno perso la testa”?
A quanto pare, molti in Israele e all’estero sembrano odiare Netanyahu più di Hamas e del suo leader assassino, Yahya Sinwar. Dopo tutto, abbiamo visto i doppi standard della comunità internazionale, con continue pressioni su Israele per fermare l’offensiva a Gaza invece di spingere Hamas all’angolo e costringerlo a rilasciare gli ostaggi. Netanyahu può piacere o meno e può essere sostenuto o meno, ma qui la questione è molto più grande e riguarda principalmente la sicurezza e la protezione dello Stato di Israele e dei suoi cittadini. In secondo luogo, la guerra di Israele con Hamas ha un impatto più ampio sulla guerra transnazionale all’estremismo e al terrorismo islamista, perché Hamas non è solo un’organizzazione terroristica palestinese, è anche uno strumento iraniano per la destabilizzazione e un’ideologia (che può essere sconfitta, contrariamente a quanto alcuni hanno affermato). “Se Israele cade nelle mani degli islamisti, l’Occidente è il prossimo”. Abbiamo sentito questa affermazione in diverse occasioni da parte della leadership israeliana e non potrei essere più d’accordo. Abbiamo avuto tutti sotto gli occhi le situazioni nel Regno Unito, negli Stati Uniti e in Francia, con gli islamisti in massa nelle strade, nelle università e in alcuni casi con il loro ingresso persino in politica. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è che Israele si arrenda quando sta per raggiungere il suo obiettivo di sconfiggere Hamas a Gaza. Dobbiamo affrontare la realtà per quella che è, perché vivere nella fantasia è pericoloso. La possibilità di vedere gli ostaggi tornare a casa a causa di una decisione presa da Hamas è estremamente remota se non impossibile. L’organizzazione terroristica palestinese non ha alcun interesse a rilasciarli perché è l’unica leva che ha per sopravvivere e mantenere il controllo su Gaza. Inoltre, il numero di ostaggi ancora vivi è plausibilmente molto piccolo. Hamas sta facendo un uso eccellente delle emozioni di molti israeliani per raggiungere i suoi obiettivi e, sfortunatamente, queste persone stanno aiutando i terroristi loro malgrado. Ovviamente, non possiamo biasimarle, non possiamo aspettarci che tutti abbiano una mente fredda per affrontare una questione così problematica come il terrorismo. Ma dovremmo aspettarci un po’ più di responsabilità dall’establishment politico in un momento in cui è in gioco la sopravvivenza del paese. Cos’è il terrorismo, dopotutto? L’uso deliberato della violenza perpetrata contro i civili per raggiungere obiettivi politici (Boaz Ganor). Violenza fisica e psicologica. Omicidi, stupri, mutilazioni e poi l’uso di tattiche psicologiche per torturare ulteriormente la mente della popolazione al fine di fargli fare pressione sull’establishment politico. Sinwar vuole sopravvivere e vuole garanzie che non verrà eliminato; Hamas vuole mantenere il controllo su Gaza. Questo risultato equivarrebbe alla sconfitta di Israele. Hamas vuole che l’IDF se ne vada dal corridoio Filadelfia in modo da potere riprendere le forniture di armi e uomini. In effetti, Israele non può permetterlo, poiché centinaia di tunnel tra Gaza e il territorio egiziano sono stati scoperti e distrutti. È incredibile come tutto questo traffico abbia potuto svolgersi sotto gli occhi delle autorità egiziane che, curiosamente, non si sono accorte di nulla. Lasciare che Hamas riprenda il controllo di Gaza e lasciare Sinwar al suo posto causerebbe più morti israeliane, più attacchi come l’eccidio del 7 ottobre (come affermato dai rappresentanti di Hamas) e sarebbe una vittoria anche per il regime iraniano. Dopo tutto, i precedenti negoziati e le concessioni a Hamas hanno portato al 7 ottobre, questo è un dato di fatto. C’è un principio chiamato “ragione di Stato” che in alcuni casi deve essere applicato. Questo è uno di questi. Non si può pensare di mettere a repentaglio la sicurezza dei cittadini, la sopravvivenza di una nazione in guerra per l’interesse di pochi. Lo Stato ha il dovere di proteggere tutti, e cedere alla richiesta di Hamas andrebbe nella direzione opposta. Inoltre, come già detto, è ingenuo credere che Hamas rilascerà gli ostaggi rimasti, perché sono plausibilmente pochi e sono l’unica garanzia che ha per la sua sopravvivenza. Sinwar trascinerebbe questa situazione per mesi, anni, mentre allo stesso tempo ricostruirebbe l’organizzazione, riprenderebbe Gaza e continuerebbe a uccidere israeliani. Hamas è un’organizzazione terroristica composta da spietati assassini, va tenuto bene a mente prima di affidarci alla sua parola. L’unico modo per riportare a casa gli ostaggi rimasti è attraverso l’azione militare. Quanto all’Amministrazione Biden, sarebbero felici di andare alle elezioni con il “successo” di un cessate il fuoco per cercare di calmare la rabbia del loro elettorato filo-islamista. Di nuovo, tutto a scapito di Israele. Questo è il momento per tutti di essere uniti contro Hamas, contro il terrorismo islamista. Sarebbe anche un ottimo momento per prendere Sinwar.
(L'informale, 3 settembre 2024 - trad. Niram Ferretti) ____________________
La società occidentale, che nella sua ideologia libertaria sostiene un ordine inevitabilmente destinato a degradare in libertino caos, ha nella sua struttura originale un’intrinseca tendenza all’autodistruzione. Tendenza sostenuta soprattutto dalla parte sinistra della società, quella più “moderna”, più aperta anche a laceranti modifiche “evolutive”, come quelle invocate dall’anglosassone cancel culture. L’ideologia autodistruttiva della società occidentale è penetrata ormai anche in Israele, ed è condivisa soprattutto dalla parte laica di sinistra della società. E' possibile allora che la tendenza autodistruttiva dell’Occidente stia mietendo i suoi frutti più dissolventi proprio nello Stato che per tanti aspetti è in posizione d'avanguardia nel mondo: Israele. Qual è infatti la parte politica dello Stato ebraico che oggi di fatto ne caldeggia l’autodistruzione favorendo gli atti di chi ha dichiarato apertamente di volerlo distruggere? E’ la parte che più di altre sottolinea l’importanza del rapporto privilegiato con quello stato occidentale che più occidentale non ce n’è: gli Stati Uniti. I quali potrebbero pensare che se proprio si va verso l’autodistruzione, è meglio che i primi a farlo siano gli ebrei con il loro Stato. Ci stanno gli ebrei? M.C.
Il governo britannico ha annunciato un parziale alle taglio alle esportazioni di armi in Israele perché, così ha presentato la questione il ministro degli Esteri David Lammy, sarebbe stato rilevato un «chiaro rischio che possano essere utilizzate per commettere o facilitare una grave violazione del diritto umanitario internazionale» nel corso delle operazioni militari a Gaza. L’annuncio, accolto con «profonda amarezza» dal governo israeliano, ha suscitato reazioni anche nelle istituzioni ebraiche d’Oltremanica. Tra i più colpiti sembra esserci il rabbino capo d’Inghilterra e del Commonwealth, rav Ephraim Mirvis, intervenuto con un preoccupato “cinguettio” su X. Secondo il rav, in carica dal 2013, la decisione del governo Starmer non sarà d’aiuto alla causa della pace e non aiuterà nemmeno gli ostaggi ancora prigionieri di Hamas, incoraggiando al contrario «i nostri comuni nemici». Colpisce il rav che il taglio sia stato comunicato «nel momento in cui Israele combatte una guerra per la sua sopravvivenza su sette fronti impostigli il 7 ottobre e nel momento stesso in cui sei ostaggi assassinati a sangue freddo venivano sepolti dalle loro famiglie». E sgomenta inoltre che venga accreditata dal ministro «la falsità secondo cui Israele stia violando il diritto internazionale umanitario, quando in realtà fa di tutto per rispettarlo».
Nessuno «dovrebbe dimenticare le ragioni per cui Israele è oggi in guerra», ha commentato la Jewish Leadership Council (JLC) sottolineando come il 7 ottobre i terroristi di Hamas abbiano invaso Israele «per uccidere, mutilare, torturare, stuprare e rapire». Ma non è finita lì, viene ricordato, perché negli undici mesi successivi «Israele ha dovuto affrontare nuove minacce ai suoi confini, mentre Hamas continuava a minacciare da Gaza, mentre Hezbollah colpiva dal Libano e gli Houthi cercavano di espandere il conflitto dallo Yemen». Senza dimenticare «l’importante offensiva» lanciata in aprile dall’Iran, in combutta con i suoi alleati regionali. In considerazione di tali eventi, conclude JLC, non è questo il momento «di intraprendere azioni che limitino la capacità di Israele di difendersi». Anche per Phil Rosenberg, presidente del Board of Deputies of British Jews, la decisione dell’esecutivo «rischia di inviare un messaggio pericoloso a Hamas e ad altri nemici del Regno Unito, che possono commettere atrocità spaventose, condannate dal governo britannico, e tuttavia vedere ancora Israele castigato».
Il numero dei terroristi di Hamas responsabili del 7 ottobre è il doppio di quanto si era inizialmente stimato
Un’indagine approfondita, a cura delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) della Divisione Gaza, ha portato ad aggiornare il numero dei terroristi, autori del pogrom del 7 ottobre 2023, quando su direttive di Hamas, hanno invaso i confini occupando il sud di Israele. Sarebbero ben 7000 i gazawi complici del massacro, praticamente il doppio di quanto in origine si credeva. I nuovi risultati sono stati diffusi dal Capo di Stato Maggiore dell’IDF, Tenente Generale Herzi Halevi. Come riporta il sito Algemeiner, quel terribile giorno nel Negev nordoccidentale si sono infiltrati circa 3800 terroristi dell’unità Nukhba di Hamas, in aggiunta ad altri 2200 terroristi e saccheggiatori, sempre provenienti da Gaza. E ancora, circa 1000 terroristi sono rimasti all’interno della Striscia mentre lanciavano su Israele, solo in quel momento, ben 4300 razzi, aiutando gli altri nella traversata sul territorio israeliano, compiendo uccisioni e stupri di massa, rapimenti e altre inaudibili atrocità. I confini sono stati violati in 119 punti e non 60 come si riteneva in precedenza. In quello che è stato definito il giorno peggiore per gli ebrei dopo la Shoah sono stati assassinati 1200 esseri umani, 251 rapiti a Gaza, di cui 101 ancora in ostaggio, oltre a migliaia di feriti. «L’indagine operativa non è ancora stata conclusa e continua in conformità con la valutazione della situazione e in vista dei vincoli operativi. Una volta conclusa, sarà presentata al pubblico in modo trasparente», ha affermato il portavoce dell’IDF.
Sebbene le contestazioni mosse al Primo Ministro Benjamin Netanyahu non siano campate in aria, sebbene il Governo avrebbe potuto senza dubbio fare qualcosa di più per liberare gli ostaggi, quello che sta accadendo in Israele è esattamente quello che voleva Yahya Sinwar quando ha ordinato di giustiziare i sei ostaggi ritrovati morti dall’IDF.
Il capo terrorista dall’inizio della guerra ha indovinato ogni mossa mediatica riuscendo persino a trasformare degli spietati assassini in vittime innocenti. Questo grazie ai tantissimi megafoni anti-israeliani che non hanno perso occasione per diffondere le veline di Hamas e le tante bugie sul conflitto.
Ieri abbiamo avuto centinaia di conferme eclatanti di questo “aiuto al terrorismo” quando la vasta platea anti-israeliana sui social ha usato la tragedia dei sei ostaggi assassinati da Hamas per capovolgere totalmente la verità.
Uno dei casi più eclatanti, quello messo in piedi ad arte da Tiziana Ferrario che è riuscita in un Twitt a sciacallare sui morti per poi riversare tutta la responsabilità su Netanyahu facendo appena un cenno ad Hamas. Non sazia di tanto odio ha persino chiesto la fine delle operazioni in Cisgiordania, chiaramente senza sapere né il perché né gli obiettivi di quella operazione.
Ora, non sto dicendo che sono contenta di questo governo, tutt’altro, non sto dicendo che Benjamin Netanyahu non abbia severe responsabilità sia su quanto successo il 7 ottobre, figlio di una scelta politica suicida, che sullo sviluppo della guerra (tra i tanti errori, perché il corridoio Filadelfia non è stato occupato da subito?), sto però dicendo che quello che stiamo vedendo oggi in Israele è esattamente quello che voleva Hamas.
Comprendo il dolore dei genitori dei ragazzi assassinati come comprendo quello dei parenti di coloro che sono ancora in mano di Hamas, ma questo loro comportamento non può che portare ad un ulteriore irrigidimento delle posizioni di Netanyahu, perché cedere alle legittime richieste dei genitori dei rapiti significa cedere ad Hamas.
Lo sa benissimo Yahya Sinwar che infatti gioca cinicamente sui sentimenti dei parenti dei rapiti e sulle vite dei pochi che ancora saranno in vita, aiutato in questo dai tanti megafoni anti-israeliani sempre pronti ad aiutare la causa dei terroristi.
(Rights Reporter, 2 settembre 2024) ____________________
Che l’azione delle famiglie degli ostaggi sarebbe stata una carta preziosa in mano a Hamas avrebbe dovuto essere subito evidente a tutti coloro che sono dalla parte di Israele, e quindi avrebbe dovuto essere “compresa” quanto si vuole ma fortemente “osteggiata”. Perché non è avvenuto? Per non fare un favore a Netanyahu, questa sarebbe la risposta di molti, se volessero essere sinceri fino in fondo. Dire che “cedere alle legittime richieste dei genitori dei rapiti significa cedere a Hamas” è come dire che Netanyahu aveva ragione e i suoi avversari torto. Ma l’odio implacabile per Netanyahu, dentro e fuori Israele, ha qualcosa di arcano, proprio come l’odio per Israele, con cui in molte menti indissolubilmente si confonde. Da riflettere. M.C.
L'editore: «A sinistra dilaga l'antisemitismo: inseguono i musulmani per qualche voto in più. Dal 7 ottobre mi sento solo perfino a Livorno, dove la mia famiglia arrivò 500 anni fa. La Digos mi consiglia di non andare in giro».
di Carlo Cambi
Livorno è la sola città a non aver mai conosciuto un ghetto ebraico; i sefarditi vennero chiamati da Ferdinando I de' Medici a fertilizzare la nascente città nel 1591 e dettero vita a una loro cucina, una loro cultura e a una loro lingua: il bagitto. Joseph Belforte nel 1805 stampò il primo libro di preghiere in ebraico e poi suo figlio Salomone Belforte dette vita ad una casa editrice che è il faro della cultura ebraica nel mondo. Attività che continua con Guido Guastalla, 82 anni, ma scritti solo sulla carta d'identità, scampato da neonato alla Shoah laureato in filosofia con Nicola Badaloni, amico personale di Giorgio Amendola, con una militanza giovanile nel Pci, grandissimo mercante d'arte ed editore per scelta: essere un pilastro della cultura ebraica.
- Guardandolo da Livorno c'è un rigurgito di antisemitismo? Come si vive da ebreo? «Si vive nell'ansia perché l’antisemitismo è potente e pervasivo. Ho visto che a Roma e a Milano, le ha animate Klaus Davi, ci sono state iniziative per rispondere dopo il 7 ottobre al clima di odio verso di noi; qui a Livorno, è strano a dirsi, siamo soli. È la stessa atmosfera del '38, la comunità nazionale ci dice di stare tranquilli, di stare nascosti. Ci sentiamo traditi dalla sinistra come gli ebrei italiani che erano in larga misura fascisti si sentirono traditi da Mussolini. Una mano ce l'ha data il governo: ha blindato l'ingresso della sinagoga, ha affidato alla Folgore, i paracadutisti del generale Roberto Vannacci, la nostra sicurezza. Il sindaco di Livorno, Luca Salvetti, indipendente eletto dal Pd che non si è mai fatto vedere nella nostra comunità, quando il 12 ottobre abbiamo fatto una manifestazione per il massacro perpetrato da terroristi di Hamas ci ha impedito di esporre la bandiera di Israele».
- Anche nell'unica città senza ghetto essere ebrei e diventato rischioso? «Io sono in là con gli anni e non mi faccio intimidire, ma mia moglie dice di sì, Su un social un ragazzotto pro Pal mi ha apostrofato: ebreo torna a casa. Gli ho replicato: sono già a casa mia. Ci stiamo da 2.200 anni in Italia, ci siamo da prima di Cesare. E poi dove devo andare? Se mi dite che Israele, perché occupa i territori, deve sparire, dov'è la mia casa? Giorni fa in piazza Grande qui a Livorno c'era una manifestazione pro Palestina, sempre con gli slogan “a morte Israele", che significano "morte agli ebrei". Una funzionaria della Digos mi ha ripetuto: Guastalla non stia in piazza, vada a casa, è meglio per lei e per noi. Le ho risposto: le pare che io non possa stare nella mia città, libero dove la mia famiglia è arrivata mezzo millennio fa? Una signora che passava ha aggiunto: gli ebrei hanno fatto Livorno; si devono rintanare quelle m.... che fanno confusione. Dopo il 7 ottobre però i nostri giovani sono andati via, siamo rimasti in 400 tutti in là con l'età».
- È un clima da triangolo giallo? «È ancora più pervasivo. Mi spiego con un episodio. Il professor Samuele Rocca che vive tra Milano e Gerusalemme ha scritto un bellissimo libro sui Cesari e l'ebraismo. Doveva presentarlo all'Università di Pisa dove c'è il Cise, centro studi sull'ebraismo. Ebbene il professor Arturo Marzano - delegato alle attività gender dell'ateneo che ha dedicato un suo libro al proprio compagno: un inviato Onu a Gaza - storico dell'Asia nonché fratello di tanta sorella -, e la dottoressa Carlotta Ferrara degli Uberti che dovrebbe occuparsi di antisemitismo, hanno deciso che il libro di Rocca non doveva essere presentato perché lui insegna all'Università di Ariel che secondo loro sta nei territori occupati. In realtà Ariel è in Samaria, ma Rocca non è potuto entrare all'Università di Pisa e ha subito una sorta di "linciaggio mediatico" in chat. Siamo alla discriminazione e all'esaltazione della Palestina che è un falso storico».
- ln che senso la Palestina è un falso storico? «Non è mai esistita una nazione palestinese, né mai c'è stato un popolo palestinese. Si è determinato solo dopo che gli ebrei alla fine dell'Ottocento hanno fertilizzato i terreni e hanno prodotto sviluppo economico nell'area, cosi alcune tribù arabe che venivano dai Paesi confinanti si sono insediate in quelle terre. A creare la Palestina è stata l'Unione sovietica che nel '64 s'inventa l'Olp e agita una sorta di colonialismo ebraico perché ha bisogno di strappare l'Occidente, perseguendo il disegno ateista alla Robespierre, dalla sua radice. Cosi iniziano a circolare parole d'ordine come razzismo, antisionismo che è sinonimo di antisemitismo e s'inventano la Palestina».
- L'antisemitismo sta tutto a sinistra? «Sì, duole dirlo, ma è così: oggi la sinistra è antisemita. Su questo la sinistra è cambiata molto. Quando ci fu il massacro di Sabra e Shatila nell’82, mio figlio che andava al liceo fu bersaglio di intolleranza. Arrivarono a telefonare a mia moglie dicendole: sei convinta che tuo figlio sia a scuola, ma ce lo abbiamo noi e non lo rivedrai. Allora il sindaco di Livorno Pino Raugi e l'onorevole Nelusco Giachini del Pci vennero a casa nostra a offrirci solidarietà e protezione. Oggi vanno dietro ai pro Pal. Il clima è cambiato. Molti nostri amici prendono le distanze da noi. E sono convinti che aprire ai musulmani, aprire indiscriminatamente all'immigrazione, sia segno di progresso. Si sono dimenticati in fretta della testimonianza di Oriana Fallaci. A destra ci sono rarissimi episodi di antisemitismo. Prendo per esempio Ignazio La Russa: il presidente del Senato è da sempre amico della famiglia Meghnagi e della comunità milanese».
- Ha ragione Olaf Scholz in Germania a preoccuparsi? «Sì, ha ragione Scholz e noi in Italia dovremmo stare attenti. L'islam si presenta con la faccia buona, dialogante, ma ha in testa l'umma: il creare un mondo solo islamico dove noi, cristiani ed ebrei perché obbedienti alle religioni del libro, siamo considerati dhimmi: gli schiavi privilegiati. L'islam è convinto che Abramo fosse musulmano e che poi il mondo si è corrotto e la loro missione è di ricostituire attraverso la umma, che è insieme religione e Stato, l'armonia del mondo. Hanno deciso di conquistarci: in Gran Bretagna ormai quasi tutti i sindaci sono islamici. Usano l'immigrazione come mezzo di istillazione dell'islam e ci sono anche forme terroristiche. Tra l'altro per loro non esiste il concetto di popolo, esiste solo quello di ubbidienza religiosa. Loro negano che esista il popolo d'Israele che fu cosi designato da Dio quando affidò a Mosè il compito di guidarlo nella terra promessa, perciò vogliono la distruzione d'Israele».
- L'Europa è sotto scacco dell'islam? «Sì e non lo dico io. Lo ha detto l'abate e vescovo di York, che in un libro scrive: l'Europa è in preda a un cupio dissolvi. Lo ha gridato quasi Shmuel Trigano - di cui sto pubblicando un bellissimo libro su Gerusalemme: è uno dei massimi intellettuali francesi - che mi ha confidato: sono reduce da un incontro con i socialisti, mi hanno spiegato che loro stanno con i musulmani perché sono di più degli ebrei e hanno tanti voti. Sembra di sentire Jean Luc Mélenchon. Per gli ebrei in Francia la vita sta diventando impossibile. Dal Sud, dove c'è stato l'ultimo attentato, la diaspora verso Israele è continua. Mia moglie che è vicepresidente della comunità delle donne ebree riceve continuamente appelli dalla Francia».
- Bisogna dunque fermare l'immigrazione? «Bisogna integrare facendo rispettare la nostra identità. Quando Giovanni Paolo II ha posto il tema delle radici giudaico-cristiane, aveva ben presente che l'Europa avrebbe avuto bisogno di rafforzarsi per poter ospitare».
- Ma Francesco predica porte aperte ... «Francesco fa del marketing della fede: ha capito che i musulmani sono di più e si accoda a loro. Non ha la forza teologica di Ratzinger. A Francesco di rispondere al bisogno di sacro dell'uomo non interessa nulla. Per tenersi buoni gli islamici tifa per l'immigrazione indiscriminata e ha azzerato i rapporti con gli ebrei; tra i cattolici i focolarini e i comboniani sono pro Pal e pro islam. Se ne accorgeranno: l'islam è come i coccodrilli. Il vescovo di Livorno da noi non è mai venuto, neppure dopo il 7 ottobre, e pensare che un tempo il dialogo tra ebrei e cattolici era quotidiano».
- È vero che lei fa il tifo per Donald Trump? «Sì, per gli ebrei americani e anche per noi. Con Kamala Harris i conflitti non finiranno mai. E poi come si fa a credere a una che ha allestito alla convention democratica lo spazio Lgbtq+ per gli americani di religione islamica? Ma lo sanno che cosa succede ai gay nell'islam e anche in Palestina? Basta questo per pensare che Trump è meglio».
- E la simpatia per il generale Vannacci? «Nasce dall'aver constatato che è un uomo colto: tre lauree, parla sei lingue, si è formato a Parigi, ha una visione dell'Europa che molti non hanno e conosce perfettamente il pericolo islamico. Mi ha detto una sera a cena: "Guastalla, si rende conto che dicono di me che sono antisemita? Io che ho combattuto come ufficiale della Folgore contro il terrorismo islamico". Mi sono accorto che i giornali mainstream gli fanno dire cose che lui neppure si sogna. E sono convinto che abbia una statura istituzionale molto alta».
- Eppure lei è stato comunista, militante del Pci, Come mai tanta distanza? «Sono stato convintamente comunista fino al '67 quando ci fu la guerra dei 6 giorni. Allora Emilio Sereni venne e mi disse: compagno Guastalla, devi scegliere tra la tua appartenenza ebraica e il partito. Io lo guardai e dissi: voi pensate che si possa scambiare un' appartenenza che si perpetua da 3.500 anni per una storiella che ha appena 70 anni? Me ne andai, tenendo buoni rapporti. Ma ripensandoci mi spiego tante cose di questi nostri giorni difficili e penso a persone degnissime come Emanuele Fiano. Chissà che fatica fanno».
Grazie al fatto che Israele esiste, gli ebrei non sono più vittime dei tempi bruti e dei venti di follia
di Paolo Salom
[Voci dal lontano occidente] Abbiamo avuto altri momenti difficili in passato. Ma questo 5784 promette di essere il più duro da decenni a questa parte. Eppure, mentre si avvicinano Rosh haShanah, Kippur e la stagione delle feste autunnali, nonostante le difficoltà che il futuro ci presenterà, è forse giunto il momento di rasserenarci un pochino. Perché dico questo? Lo scorso novembre, a poche settimane dal 7 ottobre, ho avuto l’occasione di parlare con Lior Keinan, vice ambasciatore di Israele a Roma. Allora, lo ricordo bene, eravamo tutti in stato di choc. E ricordo la sorpresa sul volto del diplomatico che cercava di infondere nell’interlocutore (io) la giusta dose di fiducia, nonostante l’impazzimento del lontano Occidente. “È presto per pensare a come sarà il dopo – mi aveva spiegato tra l’altro parlando del conflitto a Gaza -. Ma se vogliamo aprirci alla speranza, e dobbiamo farlo anche in queste ore buie, dobbiamo essere onesti e dire che una parvenza di normalità potrà esserci soltanto quando Hamas uscirà dall’equazione”. Ecco: queste parole, pronunciate all’inizio di una guerra non voluta da Israele e comunque atroce per tutti, potevano sembrare propaganda, wishful thinking, mentre tutto sembrava precipitare nell’assurdo di una ferocia che stava avvolgendo il mondo intero, con le frange di estremisti pro palestinesi impegnate ad attaccare gli ebrei ovunque si trovassero. Eppure, il vice ambasciatore aveva visto con obiettività la situazione e, oggi, possiamo dire che aveva ragione: nonostante il duro prezzo pagato, le vittime civili, i soldati e i riservisti bruciati nei loro anni più belli in difesa di Israele, si comincia a intravedere una luce diversa attorno allo Stato ebraico. E di conseguenza anche attorno a noi. È fallito il tentativo dell’Iran di isolarlo (di fronte ai missili lanciati dagli ayatollah si sono mobilitati Paesi come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia). Sono falliti tutti i movimenti di pressione per separare le comunità della Golah dai fratelli in Terra di Israele. Hamas è ridotta al lumicino. E, soprattutto, nonostante la paura, gli ebrei hanno scelto di resistere, combattere (con le parole) e non cedere alla tentazione di lasciare tutto o nascondersi di fronte all’oscena rappresentazione di un antisemitismo “moderno” studiato e riproposto dai soliti noti. Insomma, possiamo dire che il peggio è alle nostre spalle? No. Non è il momento di fare previsioni. Il futuro non è conoscibile. Però è onesto dire che quest’anno ci ha messo tutti a dura prova. Ma, anche grazie al fatto che Israele è lì, nella Terra dei nostri Padri e delle nostre Madri, gli ebrei non sono più vittime dei tempi bruti e dei venti di follia che spazzano il mondo come se l’umanità non avesse imparato nulla dal passato. Dunque, sì, viviamo un’era di cambiamenti grandi e terribili (a volte). Ma la nave che ci trasporta ha dimostrato di saper affrontare le onde più alte. Scusate le metafore. Credo che un briciolo di retorica, in un momento come questo, sia giusto concedersela. Auguro a tutti Shanà tovà umetukà: sia davvero dolce e sereno per ciascuno di noi. Am Israel chai.
Il rabbino capo del Sudafrica, Warren Goldstein, ha criticato in maniera molto dura sia l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby che Papa Francesco. In videomessaggio postato su Twitter/X ha accusato i due leader religiosi di «abbandonare il loro più sacro dovere di proteggere e difendere i valori della Bibbia». Invece, sostiene, «Papa Francesco e l’arcivescovo anglicano sono indifferenti agli omicidi di cristiani in Africa e alla minaccia del terrorismo in tutta Europa, e allo stesso tempo sono ostili ai tentativi di Israele di combattere le forze jihadiste guidate dall’Iran».
Come ha ricordato Jenni Frazer su JewishNews il 28 agosto, l’arcivescovo Welby ha raccontato di aver visitato i cristiani palestinesi molte volte negli ultimi decenni, aggiungendo: «Mi è chiaro che il regime imposto dai governi israeliani nei Territori palestinesi occupati è un regime di discriminazione sistemica. Sono consapevole di come questo abbia un impatto sui cristiani palestinesi, minacciando il loro futuro e la loro sopravvivenza. È chiaro che porre fine all’occupazione è una necessità legale e morale».
Il rabbino Goldstein ha criticato in particolare il sostegno dato dall’arcivescovo Justin Welby alla sentenza della Corte internazionale di giustizia secondo cui la presenza di Israele in Cisgiordania e a Gerusalemme Est è illegale e ha osservato che l’arcivescovo «dovrebbe sapere che Gerusalemme era la capitale di Israele prima che si sentisse parlare di Gran Bretagna».
Nè Lambeth Palace, la sede della residenza ufficiale dell’arcivescovo di Canterbury, né l’ufficio del rabbino capo del Regno Unito Sir Ephraim Mirvis hanno dato disponibilità a commentare.
I difficili rapporti con l’Egitto e i negoziati di pace
di Ugo Volli
• La decisione del gabinetto e le trattative
Il consiglio di gabinetto – l’organo ristretto del governo israeliano che ha la responsabilità della conduzione della guerra – su proposta del primo ministro Bibi Netanyahu e con il solo voto contrario del ministro della difesa Yoav Gallant, ha stabilito giovedì notte che anche nel quadro di un possibile accordo di cessate il fuoco, le forze armate di Israele dovranno restare a presidiare il “corridoio Filadelfia”, cioè il breve tratto di confine (14 km) che separa Gaza dall’Egitto. È una decisione importante, perché proibisce all’equipe negoziale che ricomincia oggi a Doha per l’ennesima volta le trattative per una tregua, di accettare una delle tre richieste centrali di Hamas, lo sgombero di Israele dal corridoio Filadelfia. Le altre due pretese, altrettanto problematiche, sono la possibilità per gli sfollati di rientrare nella parte settentrionale della Striscia senza subire alcun controllo, il che evidentemente permetterebbe ai terroristi di insediarvisi di nuovo con le loro armi, e l’impegno di Israele a non riprendere le operazioni belliche alla fine della tregua. Sembra che vi sia aggiunta di recente la richiesta del capo dei terroristi Sinwar di una garanzia per la sua vita.
• Da dove vengono le armi di Hamas
Chi ha ragionato in questi 11 mesi sulla forza imprevista di Hamas e sulla sua capacità di continuare a combattere nonostante l’autodifesa di Israele e il blocco imposto da molti anni sull’importazione di materiali di uso bellico, chi si è interrogato sulla consistenza dei grandi arsenali di armi e in particolari di missili che si continuano a scoprire, sull’addestramento dei terroristi da parte di istruttori iraniani, sulle macchine sui carburanti e sui prodotti necessarie per scavare tunnel più lunghi della metropolitana di Londra, si è certamente chiesto da dove tutte queste notevolissime risorse militari provenissero. La risposta è doppia: in parte minore questo materiali sono importati con gli aiuti umanitari: ancora pochi giorni fa si sono scoperti esplosivi nascosti fra gli aiuti alimentari dell’Onu. Ma la maggior parte viene dal contrabbando nel corridoio Filadelfia, cioè dall’Egitto.
• L’Egitto e il contrabbando
Si tratta di un punto molto delicato. L’Egitto ha sempre sostenuto di combattere questo contrabbando, e ha molto propagandato alcune operazioni di distruzione dei tunnel da cui esso era condotto. Ma di fatto si è comportato in maniera opposta, favorendo di nascosto l’importazione di armi. Molti si sono sorpresi vedendo che Al Sisi si è opposto ferocemente alla presa israeliana del corridoio; ma si è visto presto il perché. Oltre 80 tunnel di contrabbando sono stati scoperti nella zona, alcuni abbastanza grandi da far passare camion.. Le armi vengono da lì, e così il cemento, gli esplosivi, gli esperti iraniani e a quanto sembra anche cinesi. Ovviamente Hamas vuole che l’esercito di Israele se ne vada dal Filadelfia proprio per poter riprendere il contrabbando di armi che è vitale per continuare la guerra (si dice che vi sono carichi interi di missili nascosti fra i beduini del Sinai). La meraviglia è che l’Egitto lo sostenga. In teoria, si dice, Hamas è un braccio di quella stessa Fratellanza Musulmana di cui il generale Al Sisi si è liberato con un colpo di stato nel 2013 e quindi dovrebbe essere un nemico del regime attuale. Ma sono passati 10 anni, si dice che perfino i parenti del dittatore abbiano parte nel grande business economico del contrabbando militare, e molti funzionari del regime vi prendano parte. Ma soprattutto vi sono ragioni politiche per questo atteggiamento.
Il confine fra Israele ed Egitto è lungo 266 chilometri lungo il Negev e negli ultimi 45 anni non vi sono state difficoltà in questo, anche se non sono mancati alcuni incidenti provocati dalla parte egiziana, come il lancio di missili su Eilat o l’assassinio di due militari israeliani di guardia qualche anno fa. Perché dunque Al Sisi non vuole assolutamente la sorveglianza israeliana degli ultimi 14 chilometri che sono il corridoio Filadelfia? Le ragioni sono diverse. Da un lato, nonostante la pace firmata da Begin e Sadat nel 1979, che costò la vita a quest’ultimo, Israele è sempre nella psicologia collettiva egiziana il nemico storico contro cui l’esercito egiziano combatté nelle guerre nel 1948, ‘56, ‘67. ‘73, sempre perdendole. A differenza dei più recenti “accordi di Abramo”, la pace con l’Egitto è sempre stata “fredda” senza aperture commerciali o turistiche: la “normalizzazione” è sempre deplorata, la propaganda antisemita è sempre diffusa fra le masse e anche ai più alti livelli. L’esercito dell’Egitto, nonostante le enormi difficoltà economiche del paese, ha condotto un piano di riarmo imponente, comprando aerei in Cina, sottomarini in Germania, migliaia di carri armati in Usa. Oggi in Medio Oriente è il meglio armato dopo Israele e Iran; la speranza di una rivincita è sempre sottintesa, anche i dirigenti egiziani sanno di non poterla evocare. Al Sissi insomma sembra voler ripetere certe mosse della Turchia. Sunnita sì, potenzialmente nemico dell’Iran, ma senza nessuna simpatia per Israele.
• Perché restare sul confine
In questo quadro la sopravvivenza di Hamas, soprattutto se oltre che dall’appoggio iraniano dipende anche dalla complicità egiziana al contrabbando di armi, è una cosa che al vertice egiziano evidentemente non dispiace. E questa è anche la ragione per cui Israele fa bene a non fidarsi e a non cedere all’illusione di una delega all’Egitto di un passaggio così essenziale alla sua sicurezza come il corridoio Filadelfia. La divisione che si è avuta negli ultimi mesi fra il vertice militare e quello politico su questo tema deriva anche dall’esperienza dell’incapacità di barriere elettroniche e delle forze internazionali di garantire la sicurezza del paese, come si è visto purtroppo il 7 ottobre, ma anche prima con Unfil in Libano, con le forze di interposizione dell’Onu fra Israele ed Egitto che si sono squagliate nel 1973, le numerosi operazioni a Gaza lasciate a metà perché lo stato maggiore assicurava che si fosse restaurata la mitica “deterrenza”. Insomma, nonostante l’immensa fiducia che tutto il paese ha nell’impegno e nella dedizione delle forze armate, fra i politici della maggioranza e nei media c’è diffidenza sulla concezione strategica dello stato maggiore.
• Sono davvero mediatori?
Vi è un dato in più da tener presente, Le trattative per il cessate il fuoco non sono condotte direttamente fra Israele e Hamas o il suo burattinaio Iran: fra le due parti si interpone da un terzetto di “mediatori”, gli Usa, il Qatar e l’Egitto. L’amministrazione americana certo non vuole la distruzione di Israele, ma nemmeno la sua vittoria che sconfesserebbe la politica di Obama, Biden e se vincerà di Harris di accordo con l’Iran. Gli Usa oltretutto fanno il possibile per estendere questo modo di vedere all’interno di Israele, sia nell’ambito politico che negli apparati di sicurezza, fino influenzare fortemente la delegazione negoziale. Il Qatar è il più diretto protettore di Hamas, ne ospita i dirigenti e ne gestisce la propaganda con la sua rete Al Jazeera. Ma anche l’Egitto, per i motivi appena visti, non è certo neutrale nei confronti di Israele. Dunque, come accade con le organizzazioni politiche internazionali (per esempio l’ONU) e le corti come quella dell’Aja, Israele deva difendersi un ambiente sostanzialmente ostile. Quando ci si interroga sulla difficoltà del governo israeliano di prendere decisioni e iniziative forti, bisogna pensare che resistere a queste pressioni è un compito difficilissimo, ma essenziale per il futuro del paese.
L'articolo che segue è presente da anni nella sezione di Presentazione del nostro sito. Lo ripresentiamo ora in questa forma sia perché molti vanno subito alle notizie di attualità e rimandano ad altri momenti letture più impegnative, sia perché intendiamo ribadire, anche nei particolari, che l'atteggiamento di fondo con cui ci poniamo nei confronti di Israele non è cambiato col passar del tempo e con lo scorrere degli avvenimenti. Dire questo è tanto più importante in quanto dopo il 7 ottobre le simpatie per Israele, da sempre molto poche, sono drasticamente diminuite nelle statistiche. Per noi non è così, la ripresentazione di questo articolo vuol esserne una conferma.
Il problema di Israele in realtà è stato sempre il problema dell'esistenza di Israele. La ragione del disagio non va cercata in quello che gli ebrei fanno o sono. La gente non li odia perché fanno gli strozzini o hanno il naso adunco: il problema sta nel fatto che ci sono.
Da una parte questa constatazione può tagliare le gambe agli ebrei di buona volontà, quelli che vogliono avere un comportamento giusto e rispettoso verso gli altri, che cercano di evitare atteggiamenti di superbia che possano ferire, che fanno sforzi per favorire il dialogo e lo stare insieme dei diversi. Tutto questo è buono e lodevole in sé, ma non cambia il fatto che le cose buone può farle soltanto qualcuno che c'è. E più un ebreo si muove, anche per venire incontro al suo prossimo non ebreo, più gli fa sentire che c'è. E questo non fa che aumentare l'avversione del non ebreo ostile.
UNA MALATTIA DEI GENTILI
D'altra parte, proprio questa amara constatazione può liberare l'ebreo da un inutile senso di colpa. «Sarò imperfetto, farò molte cose sbagliate, sarò un poco di buono come tanti altri - può pensare - ma se i guai provengono dal fatto che ci sono, allora la colpa non è mia, perché io ho il diritto di esserci, come tutti gli altri».
Sì, su questo punto gli ebrei possono tranquillizzarsi: il "problema Israele" in realtà è una malattia dei gentili.
C'è un particolare della vita di Theodor Herzl che fa capire quanto può essere pesante per un ebreo il sentirsi non accolto dall'ambiente circostante, e quanto può essere grande e sincero il desiderio di fare qualcosa per venire incontro alle aspettative degli altri. Riporto alcune notizie della sua vita tratte da "A History of Israel from the Rise of Zionism to our Time", di Howard M. Sachar.
Herzl non era un religioso, e in gioventù tendeva piuttosto all'assimilazione. Provava anzi un po' di disagio davanti ai comportamenti sconvenienti di certi "cattivi ebrei". Ma il suicidio di un suo caro amico, Heinrich Kana, molto probabilmente dovuto ai disagi legati al suo essere ebreo, lo scosse profondamente. Nella sua attività di giornalista cominciò allora a dedicare sempre più attenzione all'antisemitismo, e nel privato continuò a rimuginare dentro di sé su quello che si poteva fare per eliminare questa piaga sociale. Un'idea che gli venne in mente, e che riportò soltanto nelle sue note, fu «una volontaria e onorevole conversione» di massa degli ebrei al cristianesimo. Immaginava che la cosa sarebbe dovuta avvenire «alla chiara luce del sole, in un pomeriggio di domenica, con una solenne, festosa processione accompagnata dal suono delle campane ... con fierezza e gesti dignitosi». L'autore aggiunge che Herzl lasciò cadere quasi subito quest'idea, ma il semplice fatto che gli sia venuta in mente fa intuire il peso che aveva in cuore, e la sua sincerità nella ricerca di una soluzione che non danneggiasse nessuno.
Resta la domanda del perché. Perché i gentili non sopportano la presenza degli ebrei come persone, come popolo, come nazione? Anche qui le spiegazioni date sono innumerevoli, ma quella biblica resta la più semplice, ed è anche quella giusta: gli ebrei ricordano Qualcuno. Qualcuno a cui non si vuole pensare perché non si vuole che ci sia. O, se proprio deve esserci, che almeno stia zitto. Si sarà capito che è il Dio d'Israele, l'unico vero Dio, che non solo ha creato i cieli e la terra, ma li ha creati con la sua parola, e quindi ha parlato, e continua a parlare. Cosa che a molti non fa piacere.
Si capisce allora perché periodicamente si è sempre fatto avanti qualcuno che ha manifestato la "buona intenzione" di beneficare l'umanità risolvendo una volta per tutte il problema nell'unico modo adeguato: sterminando gli ebrei. E questa non è un'idea che sia venuta in mente per la prima volta a Hitler. L'intenzione risale ai tempi biblici. Sentiamo come prega il salmista:
"O Dio, non restare silenzioso! Non rimanere impassibile e inerte, o Dio! Poiché, ecco, i tuoi nemici si agitano, i tuoi avversari alzano la testa. Tramano insidie contro il tuo popolo e congiurano contro quelli che tu proteggi. Dicono: «Venite, distruggiamoli come nazione e il nome d'Israele non sia più ricordato!» Poiché si sono accordati con uno stesso sentimento, stringono un patto contro di te: le tende di Edom e gl'Ismaeliti; Moab e gli Agareni; Ghelal, Ammon e Amalec; la Filistia con gli abitanti di Tiro; anche l'Assiria s'è aggiunta a loro; presta il suo braccio ai figli di Lot" (Salmo 83:1-8).
Tramano insidie contro il tuo popolo, congiurano, si sono accordati con uno stesso sentimento, stringono un patto, dicono: «Venite, distruggiamoli come nazione e il nome d'Israele non sia più ricordato!» Sembra di assistere a una seduta della Lega Araba. Anche loro, infatti, hanno stretto un patto, che dà tutta l'impressione di essere soltanto contro Israele.
In questo salmo c'è tutta la spiegazione del "problema Israele". Abbiamo detto che la causa profonda dell'ostilità verso gli ebrei sta nel fatto che ci sono, e infatti qui si dice: "distruggiamoli come nazione". Abbiamo detto che non si vuole che gli ebrei ci siano perché non si vuole che la loro presenza tenga vivo un ricordo, e qui si dice: "... e il nome d'Israele non sia più ricordato!". Abbiamo detto che quello che non vuol essere ricordato è il Dio d'Israele, e qui si dice che i popoli stringono un patto contro di te, cioè contro Dio che ha scelto Israele.
Il salmista non prega dicendo: "Aiuto, Signore, siamo in mezzo ai guai, liberaci dai nostri nemici", come avremmo fatto noi che pensiamo sempre e soltanto agli affari nostri. Il salmista dice: "I tuoi nemici si agitano, i tuoi avversari alzano la testa". Quello che succede a noi è un problema tuo, dice il salmista a Dio, perché i nostri vicini stanno congiurando "contro quelli che tu proteggi", e allora se noi andiamo a fondo, sarà il tuo nome che ci va di mezzo. Diranno che non sei un Dio potente, che non sei stato capace di proteggere il tuo popolo, arriveranno fino a Gerusalemme, al monte che tu hai scelto per tua dimora (Salmo 68:16), e faranno quello che vuol fare Arafat (anacronismo calcolato), «poiché hanno detto: Impossessiamoci delle dimore di Dio» (Salmo 83:12). E nel seguito il salmista non chiede al Signore di aiutare il popolo d'Israele, ma di colpire i nemici di Dio. Cattiveria? No, difesa del nome di Dio e desiderio che i popoli vicini, proprio quelli che vogliono far sparire il nome d'Israele dalla terra (tanto da non volerlo nemmeno scrivere sulle carte geografiche del Medio Oriente), si ravvedano e cerchino il nome del SIGNORE, buttando nella spazzatura tutti gli altri nomi. Infatti conclude:
Copri la loro faccia di vergogna perché cerchino il tuo nome, o SIGNORE! Siano delusi e confusi per sempre, siano svergognati e periscano! E conoscano che tu, il cui nome è il SIGNORE, tu solo sei l'Altissimo su tutta la terra (Salmo 83:16-18).
Il salmista quindi non va in depressione per l'odio che sente contro Israele, e non si limita neppure a dire a se stesso: "Io ho il diritto di esistere come tutti gli altri", ma in sostanza dice a Dio: "Tu hai il dovere di farmi esistere per tutti gli altri".
Ma è chiaro che chi osa pregare in questo modo deve anche, coerentemente, lui per primo, cercare e onorare il nome del Signore. E questo è il vero problema di Israele.
EBREO, GENTILI... E CRISTIANI
Cominciamo adesso a dire qualcosa su di noi, che ci professiamo cristiani e abbiamo un particolare rapporto con Israele e con gli ebrei.
Diciamo anzitutto che mentre il dualismo ebrei-gentili è giustificato biblicamente ed è chiaro nella sua formulazione, anche se non sempre nella sua esatta delimitazione, la contrapposizione ebrei-cristiani è ambigua e fuorviante. Anzitutto, entrambi i termini sono di radice ebraica. Se invece di usare la derivazione dal greco si usasse quella dall'ebraico, si dovrebbe parlare di "messianici", invece che di "cristiani", e allora il collegamento con l'ebraismo sarebbe più evidente. Ma a parte questo, non ha senso contrapporre ebraismo e cristianesimo come se fossero due religioni che una volta si combattevano ma adesso hanno finalmente imparato la civile arte del dialogo e della coesistenza pacifica. O meglio, il senso è che quando questo avviene, vuol dire che s'incontrano due religioni create dagli uomini, senza reale collegamento con la rivelazione biblica. All'inizio i cristiani erano tutti ebrei. Solo dopo qualche anno ai cristiani ebrei si sono aggiunti anche i gentili, che adesso certamente sono in larga maggioranza. Ma questo non giustifica una delimitazione di campo tra ebrei e cristiani.
Prendiamo infatti i principali documenti dei cristiani: i vangeli. Qualcuno forse pensa che i vangeli siano libri da sacrestia, che parlino di chiese, messe, sacramenti, processioni, statue della madonna, cattedrali. Chi li conosce sa invece che non c'è niente di tutto questo. E molti forse sarebbero sorpresi nel sapere che nei vangeli il termine "chiesa" è usato solo 3 volte in due soli versetti, mentre il termine "Israele" è usato 30 volte in altrettanti versetti. Un rapporto di 1 a 10. Questo dà una prima idea di questi libri che, contrariamente a quello che si può pensare, hanno un carattere interamente ebraico, anche se sono scritti in greco. Una persona che cominciasse a leggere l'Antico Testamento e proseguisse nel Nuovo fermandosi ai vangeli, potrebbe legittimamente chiedersi: "Ma che c'entrano i non ebrei in tutto questo?". Un ebreo nato in Israele e cresciuto con un'educazione ortodossa, che in età adulta si è deciso infine a leggere i vangeli, non solo vi ha ritrovato un paesaggio a lui ben familiare, ma a un certo momento si è chiesto: "Ma come fanno i gentili a capire questi libri?" E la domanda è comprensibile, perché per veder comparire il primo gentile che occupi un posto significativo nella storia della salvezza si deve arrivare al capitolo 10 del libro degli Atti.
Riporto un passo del vangelo che dovrebbe essere noto, ma non è molto sottolineato:
Ed ecco una donna cananea di quei luoghi venne fuori e si mise a gridare: «Abbi pietà di me, Signore, Figlio di Davide. Mia figlia è gravemente tormentata da un demonio». Ma egli non le rispose parola. E i suoi discepoli si avvicinarono e lo pregavano dicendo: «Mandala via, perché ci grida dietro». Ma egli rispose: «Io non sono stato mandato che alle pecore perdute della casa d'Israele». Ella però venne e gli si prostrò davanti, dicendo: «Signore, aiutami!» Gesù rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli per buttarlo ai cagnolini». Ma ella disse: «Dici bene, Signore, eppure anche i cagnolini mangiano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Allora Gesù le disse: «Donna, grande è la tua fede; ti sia fatto come vuoi». E da quel momento sua figlia fu guarita (Matteo 15:22-28).
E' un passo tosto. Ci presenta un Gesù che entra a fatica nelle varie iconografie religiose o laiche. C'è da scommettere che il racconto riesce a scontentare tutti. Scontenta i palestinesi, perché vedono una di loro umiliarsi in modo indecoroso davanti a un ebreo; scontenta gli ebrei, perché si sentono chiamare "pecore perdute" e perché non possono lasciare Gesù ai polacchi e al loro Papa, come avrebbero fatto più che volentieri; scontenta gli antisemiti, perché vedono un Gesù che privilegia in modo inaccettabile gli ebrei; scontenta i promotori dei rapporti umani tra israeliani e palestinesi, perché il dialogo si deve fare su un piano di parità e non in quel modo; scontenta infine tutti quelli dal cuore tenero, perché "così non ci si comporta, ed è pure maleducazione non rispondere, e poi, sì, va bene, la donna alla fine è stata esaudita, ma a prezzo di quale umiliazione! Non si fa così!"
Non è possibile entrare qui nella spiegazione di quel passo del vangelo, ma vale la pena segnalarlo perché è uno di quei passi della Bibbia che si riescono a ingranare in modo legittimo nel contesto solo se si ha una comprensione della rivelazione biblica che tiene conto in modo corretto del posto che occupa Israele nella storia della salvezza.
C'è anche un'altra donna non ebrea che Gesù ha trattato in modo non proprio conforme a certi canoni di comportamento usualmente accettati: la donna samaritana. Gesù la incontra e le chiede un favore. Lei si sorprende, prima in modo positivo, perché Gesù si degna di rivolgerle la parola, poi in modo negativo, perché certe parole di Gesù sulla sua vita privata avrebbe volentieri fatto a meno di sentirle. E alla fine, dopo aver capito che Gesù era un profeta, gli pone un problema teologico:
«I nostri padri hanno adorato su questo monte, ma voi dite che a Gerusalemme è il luogo dove bisogna adorare». Gesù le disse: «Donna, credimi; l'ora viene che né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate quel che non conoscete; noi adoriamo quel che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma l'ora viene, anzi è già venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; poiché il Padre cerca tali adoratori. Dio è Spirito; e quelli che l'adorano, bisogna che l'adorino in spirito e verità». La donna gli disse: «Io so che il Messia (che è chiamato Cristo) deve venire; quando sarà venuto ci annunzierà ogni cosa». Gesù le disse: «Sono io, io che ti parlo!» (Giovanni 4:20-26).
C'è un altro fondamentale errore, molto comune, che deve essere corretto. La Bibbia dei cristiani si divide in Antico e Nuovo Testamento, e, com'è noto, la parola testamento significa patto. Si parla dunque di due patti che Dio ha fatto con gli uomini. Il lettore provi a fare un test con se stesso, e eventualmente anche con altri. Che patti sono? Dove si parla nella Bibbia di questi due patti? Con chi ha fatto Dio i due patti? Forse soltanto a quest'ultima domanda molti si sentirebbero sicuri di poter dare la risposta giusta: l'antico patto è stato fatto con gli ebrei, e non vale più; quello nuovo è stato fatto con i cristiani, e vale ancora. La risposta è sbagliata. Da Abraamo in poi, tutti i patti di cui parla la Bibbia (Antico e Nuovo Testamento) sono stati conclusi sempre e soltanto con il popolo d'Israele. E di tutti questi patti, soltanto uno è da considerarsi superato, ma non per scadenza dei termini o per progresso culturale, come potrebbero pensare i laici illuminati, ma semplicemente perché è stato violato da una delle due parti: il patto con Mosè. Tutti gli altri patti, quelli con Abraamo, con Davide e il nuovo patto, sono sempre in vigore perché sono patti incondizionati, che Dio si è impegnato a mantenere soltanto per essere fedele al suo nome. Non possono essere violati, e quindi sono sempre validi.
Nell'ultima cena Gesù ha parlato di patto quando ha detto ai suoi dodici discepoli ebrei: «Questo è il mio sangue, il sangue del patto, che è sparso per molti» (Marco 14:24). Questa frase non è una formula magica che fa cambiare il vino in sangue, anche perché in quel momento il sangue di Gesù stava ancora scorrendo nelle sue vene; questo è un linguaggio tipicamente ebraico, come quello che usò Mosè quando suggellò il patto con Dio al Sinai:
Allora Mosè prese il sangue, ne asperse il popolo e disse:
«Ecco il sangue del patto che il SIGNORE ha fatto con voi sul fondamento di tutte queste parole»(Esodo 24:8).
Nella Bibbia ogni patto importante doveva essere suggellato con il sangue, e quindi questo è accaduto anche per il nuovo patto. Dice infatti l'evangelista Luca:
«Allo stesso modo, dopo aver cenato, diede loro il calice dicendo: «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, che è versato per voi» (Luca 22:20).
Il sangue del patto, dunque, è quello di Gesù, ma il contraente umano del nuovo patto, chi è? La risposta si trova nell'Antico Testamento, prima che nel Nuovo:
«Ecco, i giorni vengono», dice il SIGNORE, «in cui io farò un nuovo patto con la casa d'Israele e con la casa di Giuda; non come il patto che feci con i loro padri il giorno che li presi per mano per condurli fuori dal paese d'Egitto: patto che essi violarono, sebbene io fossi loro signore», dice il SIGNORE; «ma questo è il patto che farò con la casa d'Israele, dopo quei giorni», dice il SIGNORE: «io metterò la mia legge nell'intimo loro, la scriverò sul loro cuore, e io sarò loro Dio, ed essi saranno mio popolo. Nessuno istruirà più il suo compagno o il proprio fratello, dicendo: "Conoscete il SIGNORE!" poiché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande», dice il SIGNORE. «Poiché io perdonerò la loro iniquità, non mi ricorderò del loro peccato» (Geremia 31:31-34).
Geremia scrive mentre sta per avvenire il tragico dramma della presa e della distruzione di Gerusalemme, cioè in un momento in cui si poteva pensare che la storia d'Israele sarebbe finita lì. Parla del patto che essi violarono, riferendosi evidentemente a quello del Sinai, e annuncia un nuovo patto. Ed è questo il patto di cui parla Gesù nell'ultima cena, come viene anche attestato dalla citazione del passo di Geremia che si fa in Ebrei 8:8-13. Ma si noti che questo nuovo patto è stato fatto con la casa d'Israele e con la casa di Giuda, non con i cristiani, non con la chiesa. Fino a quel momento noi gentili non eravamo stati neppure interpellati, non sapevamo niente, eravamo tutti ignoranti, come Pilato. Come lui non avremmo potuto capire chi era Gesù, e come lui l'avremmo condannato a morte.
L'apostolo Paolo, che qualcuno considera un traditore del popolo ebraico, sottolinea invece che agli israeliti "appartengono l'adozione, la gloria, i patti, la legislazione, il servizio sacro e le promesse" (Romani 9:4). Mentre ai gentili dice:
Ricordatevi che un tempo voi, stranieri di nascita, chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi, perché tali sono nella carne per mano d'uomo, voi, dico, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d'Israele ed estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo (Efesini 2:11-12).
Noi gentili eravamo dunque senza speranza e senza Dio nel mondo perché eravamo senza Cristo, cioè senza Messia. Ed è a questo punto che viene fuori la caratteristica inattesa del nuovo patto che Dio ha stabilito con la casa d'Israele. Per una precisa volontà rivelata da Dio agli apostoli, questo patto apre la possibilità di estendere anche ai non ebrei la grazia spirituale che è compresa in questo patto: il perdono dei peccati e il dono di un cuore nuovo e di uno spirito nuovo, come Dio ha promesso alla casa di Giuda.
Ma ora, in Cristo Gesù, voi che allora eravate lontani siete stati avvicinati mediante il sangue di Cristo. Lui, infatti, è la nostra pace; lui che dei due popoli ne ha fatto uno solo e ha abbattuto il muro di separazione abolendo nel suo corpo terreno la causa dell'inimicizia, la legge fatta di comandamenti in forma di precetti, per creare in sé stesso, dei due, un solo uomo nuovo facendo la pace; e per riconciliarli tutti e due con Dio in un corpo unico mediante la sua croce, sulla quale fece morire la loro inimicizia. Con la sua venuta ha annunziato la pace a voi che eravate lontani e la pace a quelli che erano vicini; perché per mezzo di lui gli uni e gli altri abbiamo accesso al Padre in un medesimo Spirito. Così dunque non siete più né stranieri né ospiti; ma siete concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio. Siete stati edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti, essendo Cristo Gesù stesso la pietra angolare, sulla quale l'edificio intero, ben collegato insieme, si va innalzando per essere un tempio santo nel Signore. In lui voi pure entrate a far parte dell'edificio che ha da servire come dimora a Dio per mezzo dello Spirito (Efesini 2:13-22).
In questo modo abbiamo toccato il punto fondamentale della fede cristiana che avvicina ebrei e gentili, perché inserisce questi ultimi (i lontani) nell'ambito della benedizione promessa ai primi (i vicini): la persona di Gesù, che però nel presente resta ancora una pietra di scandalo e un elemento di divisione.
«E voi, chi dite che io sia?» chiese a un certo momento Gesù ai suoi discepoli (Matteo 16:15). La risposta fu data, ed era quella giusta, ma solo un ebreo poteva darla: «Tu sei il Messia, il Figlio del Dio vivente» (Matteo 16:16). Solo chi risponde nello stesso modo a questa domanda, entra a far parte di quell'unico corpo di cui parla l'apostolo Paolo.
Ma se il Messia è già venuto, che cosa si deve fare di tutte le profezie messianiche che parlano di un regno di Israele trionfante e vittorioso? Un giorno tutte inevitabilmente si compiranno, perché il Messia, che una prima volta è venuto come servo sofferente dell'Eterno per espiare i peccati del popolo d'Israele e di tutti gli uomini, un giorno ritornerà come il Leone della tribù di Giuda per regnare sul mondo da Sion. I cristiani evangelici letteralisti non "spiritualizzano" l'Antico Testamento, facendone un'allegoria della chiesa. Quando la Scrittura parla di Israele, intende sempre e soltanto Israele, mai la chiesa, anche se spesso si possono trarre utili analogie e applicazioni pratiche. Per questo i cristiani fedeli alla Bibbia aspettano che le sue parole riguardanti il futuro di Israele si compiano, predicando il vangelo a tutti gli uomini e cercando di occupare il giusto posto nel tempo dell'attesa.
MA ALLORA VOI VOLETE SOLTANTO CONVERTIRCI!
L'obiezione che i cristiani s'interessino di Israele soltanto per convertire gli ebrei dev'essere attentamente esaminata. E' assolutamente vero che tutti i cristiani desiderano, o dovrebbero desiderare, che ogni persona, ebreo, musulmano, ateo, cristiano nominale o altro ancora, si ravveda, creda nel Signore Gesù Cristo e sia salvato, perché sta scritto che
In nessun altro è la salvezza; perché non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati (Atti 4:12).
E' chiaro dunque che un cristiano fedele non si esime mai dall'annunciare il vangelo, tanto meno a un ebreo. Anzi, l'apostolo Paolo dice che il vangelo dev'essere annunciato prima di tutto agli ebrei, poi agli altri.
Infatti non mi vergogno del vangelo; perché esso è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco (Romani 1:16).
Chiedere a un vero cristiano di non parlargli mai di Gesù equivale a dirgli di stare alla larga. E se richiesto, naturalmente questo avverrà.
L'annuncio del vangelo è un compito che il cristiano deve e vuole svolgere verso ogni essere umano, senza distinzione, mentre l'interesse per Israele è dettato dalla particolare, unica posizione che questo popolo occupa nella storia della salvezza.
TRE MOTIVI
Ci sono almeno tre motivi per cui i cristiani s'interessano di Israele e degli ebrei.
1. Manifestare amore. Gli ebrei avvertono che verso di loro c'è un odio gratuito, cioè un'ostilità che non può essere interamente spiegata da nessuna motivazione razionalmente giustificabile: sono odiati perché ci sono. E anche quando l'ostilità non si concretizza in atti di violenza, la percezione di questi sentimenti di avversione li fa soffrire. Abbiamo detto che questo non dipende dagli ebrei, ma dal rapporto degli uomini con Dio. L'astio contro gli ebrei non è che l'espressione dell'umana ribellione contro Dio, è quindi manifestazione di peccato. I credenti in Gesù sanno di aver ricevuto il perdono dei peccati attraverso il Messia d'Israele, vivono in comunione con Dio e di conseguenza diventano partecipi del suo amore verso il suo popolo. L'amore dei veri cristiani verso Israele è quindi un amore gratuito, cioè un sentimento che non può essere spiegato da nessuna motivazione o interesse razionalmente giustificabili: il popolo d'Israele viene amato soltanto perché c'è, perché è un'espressione della volontà di quel Dio con cui i cristiani vivono in comunione d'amore. Sarebbe una grave perdita per gli ebrei se fossero capaci di percepire soltanto l'odio gratuito contro di loro, senza saper riconoscere e avvertire anche l'amore gratuito di cui sono oggetto. Se è vero che non c'è popolo sulla terra che sia stato tanto odiato, è anche vero che non ce n'è un altro che sia stato tanto amato. E anche se in questo periodo della storia del mondo l'odio è molto più appariscente dell'amore, non è vero che sia più reale.
2. Mettersi dalla parte della verità e della giustizia. Le ingiustizie nel mondo sono infinite, e altrettante sono le menzogne, ma quelle che si commettono contro Israele sono uniche per grandezza, estensione e sfacciataggine. Il credente in Gesù Cristo deve stare sempre dalla parte della verità e della giustizia, quindi è suo compito prendere la parola per difendere chi viene ingiustamente colpito, quando ne ha l'occasione e la possibilità. Questo dev'essere fatto verso tutti, ma si potrebbe dire, con l'apostolo Paolo, prima al Giudeo e poi al Greco. Chi, pur essendo adeguatamente informato, non è capace di riconoscere gli enormi soprusi e le spudorate calunnie che deve subire Israele, ha una coscienza morale assopita e un'intelligenza critica ottusa. E queste forme di rilassamento spirituale un vero cristiano non se le deve permettere.
3. Essere vigilanti. Quello che succede agli ebrei, prima o poi ha delle conseguenze sul resto del mondo. Questo è stato ormai accertato, e vale in primo luogo per il corpo dei veri credenti in Gesù Cristo che il Nuovo Testamento chiama "chiesa". Per poter colpire il popolo d'Israele, l'Avversario spirituale di Dio cerca di confondere e fuorviare prima di tutto quelli che potrebbero essergli d'aiuto, e questi sono proprio gli autentici seguaci di Gesù. In tempi difficili per Israele, i credenti vengono messi sotto pressione in vari modi, soprattutto attraverso false informazioni e false dottrine. Questo è successo in Germania ai tempi del nazismo: le persecuzioni contro i cristiani sono state poche perché pochi sono stati i cristiani che hanno capito quello che stava veramente succedendo, e molti sono stati sedotti da false dottrine che si accordavano con la realtà diabolica che si stava svolgendo sotto i loro occhi. Non sono stati soltanto i "Deutsche Christen", con il loro pervertito "cristianesimo positivo" nazionalsocialista, a profanare il nome di Cristo: molte altre chiese e movimenti cristiani, anche evangelici, hanno subito l'influsso dell'ideologia del tempo, e se non sempre hanno adottato dottrine perverse dal punto di vista biblico, certamente si sono lasciati trasportare in un'annebbiata atmosfera di torpore che non ha permesso loro di rendersi conto della realtà in cui vivevano. E questo non deve più accadere. O per lo meno, per quel che ci riguarda non vogliamo che accada più. Anche per questo riteniamo nostro dovere interessarci di Israele e, per quanto possibile, aiutare altri a capire quello che succede, in modo da saper prendere al momento opportuno la giusta posizione che le circostanze richiedono.
UN'ULTIMA OSSERVAZIONE
Secondo la nostra comprensione della Bibbia, i veri cristiani non devono cercare di costituirsi come forza politica organizzata al fine di esercitare un potere sul resto della società. Devono vivere come semplici cittadini nella società in cui si trovano, assumendosi di volta in volta le responsabilità sociali che a loro competono, ma come comunità devono essere presenti solo come testimoni di Gesù Cristo, e in quanto tali assumere come arma soltanto la parola: la Parola di Dio innanzi tutto, e la parola umana che l'accompagna, ma senza fare ricorso ai consueti mezzi di lotta politica organizzata.
Certo, questa è una debolezza, ma una debolezza voluta, perché sorretta dalla parola di Dio giunta fino a noi anche attraverso un noto ebreo, nato a Tarso di Cilicia, allevato a Gerusalemme, educato ai piedi di Gamaliele nella rigida osservanza della legge dei padri (Atti 22:3):
I Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano sapienza, ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo, e per i gentili pazzia; ma per quelli che sono chiamati, tanto Giudei quanto Greci, predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio; poiché la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini (1 Corinzi 1:22-25).
A seguito dell’eccidio perpetrato da Hamas il 7 ottobre scorso, a cui è succeduta l’operazione militare israeliana a Gaza, due sono stati indicati da parte di Israele come gli obiettivi da conseguire: la distruzione dell’operatività militare di Hamas all’interno della Striscia e la liberazione dei civili e dei militari rapiti. Nel corso dei mesi, questi due obiettivi hanno iniziato ad alternarsi nella gerarchia delle priorità.
• L’OBIETTIVO PRINCIPALE. QUALE? Quando sussisteva ancora il gabinetto di guerra, di cui faceva parte anche Benny Gantz come membro dell’opposizione per rappresentare, al di là delle divergenze politiche con il governo in carica, l’unità nazionale a fronte della situazione di emergenza, fu quest’ultimo a dichiarare che l’obiettivo principale da raggiungere era la liberazione degli ostaggi. Recentemente è stato il turno di Daniel Hagari, portavoce dell’IDF, il quale ha ribadito il concetto durante una conferenza stampa, per poi correggersi subito dopo, a seguito dell’aspro rimbotto arrivatogli da un “alto funzionario del governo”, definizione di copertura per indicare Netanyahu, che gli ha fatto presente come gli ostaggi siano solo uno degli obiettivi da raggiungere, non il principale.
Dopo mesi di inconcludenti negoziati tra Israele e Hamas per raggiungere un cessate il fuoco che consenta, nel corso del suo adempimento, la liberazione dell’ultimo centinaio di ostaggi prigionieri nella Striscia, si è giunti ieri a un alterco tra Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant nel corso di una riunione ristretta durante la quale Netanyahu ha ribadito con fermezza che la precondizione insindacabile di un eventuale accordo con Hamas è che l’IDF resti a presidio del corridoio Filadelfia ai confini con l’Egitto. Questa condizione è irricevibile per la formazione jihadista, essendo il corridoio il principale snodo per l’ingresso di armi e il passaggio di uomini, e, sulla cui piena funzionalità, l’Egitto è, con ogni evidenza, connivente. Da qui la causa dell’alterco con Gallant, che, alla pari delle famiglie degli ostaggi più vocianti in piazza contro Netanyahu, lo ha accusato di volere la loro morte.
• DIVERGENZE STRUTTURALI Lo scontro tra i due, la cui convivenza, fin da prima dello scoppio della guerra non è stata agevole, basti ricordare l’annuncio fatto da Gallant l’inverno scorso, mentre Netanyahu era in visita a Londra, che la riforma della giustizia allora in corso metteva a repentaglio la sicurezza di Israele, è solo l’ultimo episodio di uno attrito ben più ampio.
Da una parte ci sono coloro che ritengono che essendo la completa sconfitta di Hamas un obiettivo irrealistico, sia necessario spostare la priorità della guerra dalla disarticolazione della formazione jihadista alla liberazione degli ostaggi. È questa la posizione esplicita della Casa Bianca, espressa a chiare lettere da Joe Biden a maggio, quando affermò che essendo riuscito a depotenziare fortemente Hamas e non rischiando più un nuovo 7 ottobre, Israele poteva accontentarsi e che ora era necessario raggiungere il cessate il fuoco. È la posizione condivisa da una parte dell’apparato militare e dei Servizi, ed è la posizione dell’opposizione guidata da Benny Gantz. Si tratta, di fatto, di un gruppo cospicuo, spalleggiato dagli Stati Uniti, il quale ha anteposto al concetto di vittoria quello di una sconfitta mitigata dal successo dal recupero degli ostaggi rimanenti. Ma non esistono in guerra sconfitte mitigate, permettere a una residualità di Hamas di permanere nella Striscia anche se gli ostaggi fossero tutti liberati equivarrebbe a una sconfitta.
Dall’altra parte ci sono coloro i quali ritengono che l’obiettivo primario sia la sicurezza di Israele e la messa in ginocchio definitiva di Hamas. È la ragione per la quale Netanyahu ha voluto mettere ai voti dopo la riunione di ieri, la decisione di non derogare dalla presenza dell’IDF lungo l’asse del corridoio Filadelfia.
Hamas può essere definitivamente sconfitto nella Striscia, ma, per potere conseguire questo risultato, è evidente che la presenza israeliana al suo interno e lungo i suoi confini dovrà essere protratta, e questo significa non una manciata di mesi, ma di anni, esattamente quello che non vuole accada l’Amministrazione Biden e una eventuale Amministrazione Harris che, qualora entrasse in carica, in Medio Oriente proseguirebbe esattamente la medesima politica dell’amministrazione attuale, lesiva per la sicurezza e gli interessi dello Stato ebraico.
Già prima della guerra, la violenza dei coloni israeliani attirava sempre più l'attenzione dei media internazionali. Con lo scoppio della guerra, la situazione è peggiorata. Che cosa ha da dire un colono stesso su questa delicata questione?
Benny Katzover siede nell'insediamento di Elon Moreh in uno scenario mozzafiato: Alle sue spalle si estende il panorama biblico delle montagne Garisim ed Ebal; nella valle tra di esse si trova la città palestinese di Nablus, la biblica Shechem (Sichem). Katzover, magro e in camicia blu, ne parla con entusiasmo: È qui che si stabilì il popolo ebraico, dice, quando entrò nella terra con Giosuè. È storicamente e geograficamente il cuore di “Eretz Israel”.
Ma in questo momento Katzover sta mescolando il suo caffè, inclinando la testa da un lato e con un sorriso leggermente sofferto sul volto. Stiamo parlando di un argomento spiacevole: la “violenza dei coloni”. Per molti, il termine stesso è irritante perché associa i coloni in quanto tali alla violenza - coloni, come Katzover. Il 77enne si è fatto un nome come pioniere fin dall'inizio, è stato uno dei primi coloni a Hebron e successivamente ha guidato il movimento in Samaria, la Cisgiordania settentrionale.
• Qui, l'86% ha votato per Ben-Gvir “Quel radicale?”, chiede una donna israeliana quando a Gerusalemme le raccontiamo chi abbiamo incontrato. Non solo Katzover è considerato un radicale da molti, ma l'intero villaggio di Elon Moreh: alle elezioni della Knesset del novembre 2022, circa l'86% ha votato per il Sionismo religioso - l'alleanza dell'attuale ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir e del ministro delle Finanze Bezalel Smotritsch, che sono molto controversi in Israele e a livello internazionale.
Per molti si tratta di un'equazione semplice: Ben-Gvir uguale radicale e radicale uguale violenza. Katzover si presenta come tutt'altro che radicale. Si percepisce il suo amore per il Paese e la sua storia. La sua narrazione è calma, concreta. E dopo un breve sospiro appena accennato, commenta a lungo il tema della “violenza dei coloni”.
• “Danneggiano la reputazione dello Stato” Katzover non nega il fenomeno. E non c'è dubbio che egli rifiuti la violenza: “Ci danneggiano e fanno cose che non sono giuste. Danneggiano sia il progetto di insediamento sia la reputazione dello Stato”, afferma Katzover, che ha presieduto il Consiglio regionale della Samaria negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta. Allo stesso tempo, Katzover sottolinea che si tratta di una piccola minoranza.
Spiega il fatto che l'attenzione internazionale sulla questione sia aumentata enormemente dicendo che il mondo sta - “ancora una volta” - trattando Israele con i tipici due pesi e due misure. Ma le cose stanno proprio come si dicono? Il problema non è forse diventato più grande? L'organizzazione israeliana di sinistra “Yesh Din” ha affermato all'inizio dell'anno scorso che il 2023 sarebbe diventato l'anno con il maggior numero di violenze da parte dei coloni da quando ha iniziato a occuparsi del problema nel 2006.
Come spesso accade in questo conflitto, una categorizzazione esatta e oggettiva è difficile. D’altra parte, bisogna dire che un ufficiale di polizia nazional-religioso, anch'egli colono e di stanza a Hebron, afferma di avere sempre più a che fare con israeliani violenti in Cisgiordania. Le immagini di coloni che incendiano proprietà palestinesi, ad esempio, non possono essere negate e sono oggetto di un acceso dibattito sulla stampa israeliana.
• Problemi giovanili La spiegazione comune che la stampa tedesca dà a questo fenomeno è che il governo israeliano di destra, in carica dal dicembre 2022, ha concesso ai coloni una sorta di lasciapassare. Il fatto che il ministro della Sicurezza sia Itamar Ben-Gvir, che comunque proviene dalla scuola di pensiero della destra radicale kahanista, dà agli autori delle violenze la sensazione di avere il coltello dalla parte del manico e di poter fare quello che vogliono.
E’ raro però ascoltare una prospettiva interna come quella di Katzover. Quando gli viene chiesto di parlare degli autori di violenza della cosiddetta gioventù delle colline - giovani israeliani che hanno fatto della conquista delle colline della Cisgiordania la loro missione per gli insediamenti israeliani - dice: “È un tipo di gioventù che esiste in tutto il mondo. Vanno male a scuola, non vogliono assumersi responsabilità, non riconoscono i loro insegnanti, nessuno indica loro una strada”.
Non sarebbero quindi diversi dai giovani tedeschi che, in condizioni di vita disordinate, scivolano verso l'estremismo di sinistra, l'estremismo di destra o l'islamismo e alla fine cercano il senso della loro vita nella violenza: “Alcuni di loro poi trovano il loro scopo all'esterno lavorando con pecore e capre, e a volte sotto forma di violenza”, spiega Katzover, riferendosi ai coloni violenti della gioventù delle colline, alcuni dei quali egli stesso conosce. Per loro le forze di sicurezza israeliane, esercito e polizia, diventano spesso un nemico.
• Ingiustizia nei confronti dei coloni? Katzover condanna il loro comportamento. Eppure mostra un po' di comprensione. I giovani delle colline vedono molte ingiustizie, dice: “Quando gli arabi si appropriano di terre in Cisgiordania, nessuno fa nulla. In effetti, le costruzioni arabe illegali nella Zona C, cioè le parti della Cisgiordania che sono completamente sotto il controllo israeliano secondo gli accordi di Oslo, sono un problema importante tra gli israeliani nazional-religiosi: l'organizzazione israeliana di destra Regavim ha registrato 81.317 edifici arabi illegali e 4.382 edifici ebraici illegali nel 2022.
“Forse il governo interviene contro 100 o 200 edifici arabi”, afferma Katzover. “Ma quando i giovani delle colline salgono sulle colline, contro di loro arriva l'intero esercito a causa delle pressioni internazionali: vengono picchiati, trascinati via, i loro edifici distrutti”. Questa ingiustizia contribuisce alla radicalizzazione, soprattutto tra i giovani: “Non si fanno pensieri complessi”, dice Katzover: “Cresce invece in loro un sentimento: non c'è giustizia, non possiamo contare sul nostro governo, sul nostro esercito o sulla polizia - quindi prendiamo la situazione nelle nostre mani!”.
• “La gioia è l'arma più forte” Sta facendo qualcosa Katzover contro tutto questo? Quando questi giovani vengono alle sue visite guidate sul Monte Kabir, vicino a Elon Moreh, cerca di spiegare loro: “Quando lanciate delle pietre, sono solo le pietre ad essere riportate, non quello che state facendo”. Katzover è convinto che ai giovani delle colline non si debba rispondere con la violenza, ma con l'educazione e l'amore. In questo modo si vedono anche risultati evidenti: “Il 70-80% finisce per arruolarsi nell'esercito, cosa che inizialmente era considerata da loro molto negativa”.
Katzover torna ai ricordi del suo tempo, la “battaglia per la Samaria”, come la chiama lui stesso: “Abbiamo combattuto l'intera battaglia quasi esclusivamente senza alzare le mani contro gli altri o causare danni”. Anche il rabbino Zvi Yehuda Kook, il grande leader del movimento dei coloni “Gush Emunim”, esigeva questo, dice Katzover: “Cosa facevamo invece? Cantavamo. Cantare significa gioia. E la gioia è un'arma molto più forte di qualsiasi altra arma”.
(Israelnetz, 31 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
“Gli ebrei diffondono il male nel mondo”: i post antisemiti dei diplomatici palestinesi
di Luca Spizzichino
Un’inchiesta condotta dal gruppo investigativo Gnasher Jew ha rivelato che numerosi diplomatici palestinesi, tra cui ambasciatori e funzionari di alto livello, hanno fatto dichiarazioni antisemite sui social network. La ricerca ha portato alla luce post che celebrano le azioni terroristiche di Hamas, paragonano Israele alla Germania nazista e chiedono l’eliminazione dello Stato di Israele. Il rapporto, pubblicato dal Jewish Chronicle, ha analizzato centinaia di post provenienti da oltre 30 profili di diplomatici e account ufficiali delle ambasciate, sollevando serie preoccupazioni sulla legittimità dei rappresentanti dell’Autorità Palestinese sulla scena internazionale.
Il 7 ottobre, Hassan Albalawi, vice capo della missione palestinese presso l’Unione Europea, ha celebrato i terroristi di Hamas definendoli “eroici”, mentre Adel Atieh, ambasciatore palestinese presso l’UE, ha descritto i terroristi come “il popolo dei potenti”. Khuloussi Bsaiso, diplomatico palestinese alle Nazioni Unite, ha condiviso una mappa del Medio Oriente senza Israele, commentando: “La Palestina come dovrebbe essere”.
Questi esempi di retorica estremista si ripetono in diverse parti del mondo. Rana Abuayyash, console presso la missione palestinese a Londra, ha condiviso un post in cui la bandiera israeliana si trasforma in Hitler, oltre a un video in cui Netanyahu viene ritratto sotto la figura del dittatore nazista. In Francia, Hala Abou-Hassira, ambasciatrice palestinese a Parigi, ha tentato di giustificare gli attacchi di Hamas, mentre la diplomatica Nadine Abualheija ha definito Hamas “membri della resistenza palestinese” che hanno “colpito soldati israeliani illegali”.
In Africa, il console palestinese in Costa d’Avorio ha condiviso un’immagine di un paracadutista con il messaggio “qui per la vittoria”, mentre Thaer Abubaker, ambasciatore in Guinea e Sierra Leone, ha descritto il 7 ottobre come un giorno “eroico” e ha accusato gli ebrei di “diffondere il male nel mondo”. In un post di novembre, Abubaker ha paragonato le immagini di corpi della Shoah a quelle provenienti da Gaza, scrivendo: “Per 75 anni hanno fatto ciò che sostenevano che Hitler avesse fatto”.
Dennis Ross, ex consigliere per il Medio Oriente di diverse amministrazioni statunitensi, ha dichiarato: “L’Autorità Palestinese non può affermare di essere per la pace e poi sostenere ciò che Hamas ha fatto. Se si vuole una soluzione a due stati, questi tweet sollevano dubbi su che tipo di stato si stia cercando di creare.”
Hillel Neuer, direttore esecutivo di UN Watch, ha accusato i diplomatici di “ipocrisia e doppiezza”, sostenendo che “nonostante la pretesa di conformità ai principi di pace, diritti umani e diritto internazionale dell’UE, in realtà questi funzionari difendono apertamente e promuovono le atrocità di Hamas”. Neuer ha aggiunto che i diplomatici dovrebbero essere trattati come “collaboratori di Hamas”.
Caroline Turner, direttrice di UK Lawyers for Israel, ha definito i risultati dell’inchiesta “allarmanti” e ha espresso la speranza che “ora che tutto ciò è venuto alla luce, i paesi ospitanti reagiranno e richiederanno ai diplomatici di lasciare il loro territorio”.
L’inchiesta di Gnasher Jew, che ha evidenziato un allineamento con la retorica di Hamas, solleva interrogativi sul ruolo futuro dell’Autorità Palestinese nella governance di Gaza e nella costruzione di una soluzione a due stati.
I medici dell’IDF delle unità d’élite raccontano le vite che hanno salvato e quelle che non hanno potuto salvare.
Il Cap. G. di Egoz è stato tra i primi a entrare a Kissufim, salvando la vita del comandante; il Cap. Y. dei Duvdevan, ha trovato il suo migliore amico tra i feriti che ha curato sotto il fuoco a Kfar Aza; il Cap. D. di Maglan ha prestato soccorso medico a Nahal Oz e ha aiutato ad eliminare i terroristi; L’Unità Egoz è stata tra le prime a essere dispiegata nel sud di Israele il 7 ottobre. “Quel giorno avrei dovuto volare in missione negli Stati Uniti”, racconta il capitano Dr. G., medico dell’unità, che è stato uno dei primi ad arrivare all’avamposto di Kissufim insieme al comandante dell’unità. “Quando ho sentito i primi allarmi sull’infiltrazione di terroristi, ho raccolto rapidamente il mio equipaggiamento e mi sono diretto a sud”. Durante il primo giorno di guerra, il capitano Dr. G. ha curato 37 feriti, sia civili che soldati, sotto il fuoco, salvando loro la vita. Uno dei momenti più significativi per lui fu quando sentì la radiocronaca del grave ferimento del comandante dell’unità, il ten. col. M. “Lo abbiamo evacuato con un veicolo blindato e quando l’ho visitato per valutare le sue condizioni, ho pensato che fosse morto”, ricorda. “La sua ferita era estremamente grave e abbiamo deciso di iniziare l’intervento sul campo. Sono riuscito a stabilizzarlo ed è stato trasportato da un elicottero 669 al Soroka Medical Center. È stata una delle ferite più critiche che abbia mai trattato”. Il dott. G. ha già trattato vittime sotto il fuoco, ma “non mi sono mai imbattuto in un’intensità e in un numero tale”, dice. “Si opera con il pilota automatico. I razzi cadevano a soli 50 metri da noi e non c’era tempo per pensare a se stessi o per elaborare ciò che stava accadendo. L’obiettivo è fare il più possibile nel minor tempo possibile, per salvare quante più vite possibile”. Il capitano Dr. Y., medico dell’Unità Duvdevan, si stava recando a Kfar Aza quando si è imbattuto nelle scene terribili e ha capito che si trattava di un “evento senza precedenti, a cui non eravamo preparati”. La prima persona che il dottor Y. ha curato è stato un agente di polizia gravemente ferito, segnando l’inizio di due giorni di evacuazione dei feriti sotto il fuoco, stabilizzazione e trasporto in ospedale. “Ci sono stati molti salvataggi complessi”, ricorda. “Abbiamo salvato un membro della squadra di pronto intervento da un tetto attraverso una soffitta e un riservista ferito che giaceva sull’erba in una kill zone, circondato da veicoli blindati. Le decisioni venivano prese con risorse limitate e dovevamo considerare il quadro più ampio, sapendo che l’uso di attrezzature per un ferito poteva impedire le cure per un altro”. Uno dei momenti che rimarranno impressi nella memoria del dottor Y. è stato il trattamento del suo migliore amico dell’unità, che è stato gravemente ferito ed è poi morto per le ferite riportate. “È stato incredibilmente difficile”, racconta. “Ci siamo sempre addestrati per eventi di massa, ma la mente umana non riusciva a concepire qualcosa di così devastante come quello che è successo. Ma una cosa che mi aiuta ad affrontare la situazione è sapere che abbiamo davvero salvato delle vite, e che ci sono stati momenti di luce molto significativi durante i combattimenti”. Dopo sette anni di studi e altri anni di addestramento, abbiamo sempre parlato di salvare vite sul campo di battaglia, e all’improvviso è stato reale”. Dopo i primi giorni di combattimenti, il dottor Y. e altri medici militari si sono allenati con professionisti medici di alto livello in Israele. “Posso dire con certezza che ora siamo più preparati di prima. Proteggere i soldati e i civili è l’essenza del lavoro”, dice. “Ogni soldato sul campo deve sapere che dietro di lui c’è un medico che si prenderà cura di lui in caso di necessità, e io cerco di dare loro quella spinta in avanti: qualunque cosa accada, vinceremo”. Il capitano Dr. D., medico dell’Unità Maglan, è stato inviato la mattina del 7 ottobre nel settore di Nahal Oz, dove è rimasto con l’unità per tre giorni, curando i feriti e aiutando a liberare l’area dai terroristi. “Al mattino stavo effettuando i richiami della riserva quando ho iniziato a ricevere chiamate dai soldati sul campo per i feriti”, ricorda. “Ho passato le chiamate a un’altra squadra e sono uscito. Ogni volta che incontravamo un ferito, ci fermavamo e lo curavamo. Quando siamo arrivati a Nahal Oz, la missione era di riprenderla. La sfida principale è stata l’evacuazione dei feriti”. Dopo aver liberato il kibbutz, le forze armate hanno iniziato ad andare di casa in casa per evacuare i residenti e portarli ai punti di raccolta. “Erano terrorizzati dopo quello che avevano passato, ma vedere i soldati ha dato loro forza. Insieme a un’unità di ricognizione di Givati, abbiamo fatto tutto il possibile per calmarli ed essere presenti”, racconta il dottor D.. Ciò che risalta maggiormente nei suoi ricordi è lo spirito di unità e di determinazione. “Mentre mi recavo all’unità, sono andato a prendere il mio vice, che mi ha riferito che la presenza dei riservisti era al 100% e che anche coloro che non erano stati chiamati cercavano di arrivare il più velocemente possibile per aiutare. C’erano paramedici e medici con più di 50 anni, e anche quelli che si trovavano all’estero e che sono stati immediatamente avvisati del loro arrivo. È stato molto toccante e ha dimostrato la nostra forza. Oltre a questo, ho un profondo amore personale per le città di confine di Gaza. È la zona più bella di Israele, e vederla dopo gli orrori, bruciata e martoriata, è straziante”.
Idf, 'ucciso il capo di Hamas a Jenin, in Cisogiordania'
Le forze israeliane hanno ucciso nelle ultime ore il capo di Hamas a Jenin (Cisgiordania), Wassem Hazem, e altri due terroristi che si trovavano con lui: lo hanno reso noto in un comunicato congiunto l'esercito (Idf) , l'agenzia di sicurezza e la polizia del Paese.
L'operazione è avvenuta nell'area della Samaria settentrionale.
"Hazem era coinvolto nell'esecuzione e nella direzione di attentati con armi da fuoco e bombe, e sviluppava continuamente le attività terroristiche nell'area della Giudea e della Samaria", si legge nella nota.
L’operazione antiterrorismo delle forze israeliane in Samaria
di Ugo Volli
• “CAMPI ESTIVI”
Da due giorni è iniziata una grossa operazione delle forze armate di Israele in Giudea e Samaria, incentrata finora sul nord di quest’ultima regione, in particolare su Tulkarem, una città di 65 mila abitanti vicinissima alla linea armistiziale del 1949, nella zona in cui essa è più vicina al mare, a meno di 20 chilometri da Netanya. L’operazione è una parte della guerra in corso, ma è abbastanza importante da meritare un nome proprio, “campi estivi”. Per capirne la ragioni bisogna considerare la situazione del conflitto.
• SETTE FRONTI
Si parla spesso di una guerra fra Israele e Hamas o di una “guerra di Gaza”, ma ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che la strage a tradimento compiuta il 7 ottobre dell’anno scorso dai terroristi di Hamas e della Jihad Islamica, seguita dalle devastazioni e dagli eccidi compiuti anche dai “civili innocenti” usciti dalla striscia di Gaza, è stata solo il primo colpo di una guerra voluta dall’Iran con l’obiettivo della distruzione dello stato ebraico. Questa guerra, oltre ai fronti politico, diplomatico, legale e propagandistico, assale Israele da sette linee di attacco: Gaza innanzitutto, dal sud; i missili di Hezbollah. dal nord; i bombardamenti degli Houti dallo Yemen, dal sud-est; quelli che vengono dalla Siria al nord-est e dall’Iraq a Est, il terrorismo interno degli arabi israeliani, che per fortuna questa volta è stato molto raro; quello che viene dai sudditi dell’Autorità Palestinese in Giudea e Samaria.
• I PERICOLI DAL TERRITORIO DELL’AUTORITÀ PALESTINESE
Quest’ultimo fronte è per certi versi il più pericoloso, perché è il più vicino e il più permeabile. La barriera di separazione fra Israele e territori amministrati dall’Autorità Palestinese, molto tortuosa, è lunga circa 730 chilometri, spesso è solo un recinto elettronico; essa è in parte incompleta e viene spesso superata clandestinamente da lavoratori illegali e talvolta da terroristi. Le distanze sono tali che lo sparo di razzi anche non avanzati dalle alture della Samaria sulle città del centro di Israele, a partire da Tel Aviv, o sull’aeroporto Ben Gurion, oppure dalle parti di Ramallah a Gerusalemme, concederebbe ai bersagli solo pochissimi secondo di preavviso per mettersi al riparo. Le città arabe sono per lo più labirinti tortuosi difficili da penetrare. L’Autorità Palestinese, che dovrebbe avervi la sovranità, ha da sempre rinunciato al monopolio dell’uso delle armi che sono una caratteristica degli stati moderni, accettando la presenza di gruppi terroristici e in generale appoggia con la scuola, i mezzi di comunicazione, ma anche con la complicità pratica di tutte le sue istituzioni, il terrorismo. Spesso si scopre che i quadri terroristi sono suoi funzionari e in particolare membri delle sue polizie. Il rischio di un nuovo 7 ottobre a partire da queste località è molto alto. Un rischio concreto che i soliti appelli “pacifisti” a partire da quello del segretario dell’Onu Guterres al solito ignorano.
• GLI INTERVENTI ESTERNI
Insomma le zone della Giudea e Samaria controllate dall’Autorità Palestinese sono focolai di terrorismo. Israele è dovuto intervenire molte volte per bloccare il pericolo, con operazioni anche molto massicce, come durante la cosiddetta “seconda Intifada” del 2000-2002, quando di qui arrivavano a decine nelle città israeliane gli attentatori suicidi. Solo grazie a questi interventi queste zone non si sono trasformate in qualcosa di equivalente a Gaza, ma molto più grave per le dimensioni e le ragioni appena esposte. Hamas investe pesantemente sulla popolazione araba dell’Autorità Palestinese e i sondaggi rivelano che vi gode di una popolarità altissima. Anche la Turchia vi si è messa da tempo al lavoro per promuovere una piattaforma islamista, ma soprattutto l’Iran ha iniziato a importarvi armi avanzate e terroristi addestrati. Di conseguenza i militari dell’esercito e delle forze di confine, guidate da servizi di informazione che in questo caso funzionano molto bene, non hanno mai smesso di intervenire quando giungeva notizia dello sviluppo di bande terroristiche pronte ad agire localmente e nel territorio israeliano vero e proprio.
• L’OPERAZIONE ATTUALE
Negli undici mesi trascorsi dal 7 ottobre vi sono state decine di interventi locali, soprattutto a Jenin (altra località del nord della Samaria, investita anche in questi giorni), con l’uso di forze travestite, ma anche di schieramenti corazzati e di appoggi aerei, che hanno eliminato alcune centinaia di terroristi, scoprendo depositi e fabbriche di armi ed esplosivi spesso nei sotterranei di moschee, scuole e ospedali. L’operazione in corso fa parte di questa serie, investendo una località, Tulkarem, che finora non era emersa alla cronaca, ma che di recente è stata all’origine di numerosi attentati, fra cui quello ultimamente fallito a Tel Aviv. Finora è stata eliminata una dozzina di terroristi legati a Hamas, una decina è stata arrestata. Tra gli eliminati c’è anche Muhammad Jaber, detto “Abu Shujaa”, pericolosissimo capo della rete nel “campo profughi” del sobborgo di Tulkarem di Nur Shams, coinvolto in numerosi attacchi terroristici. L’operazione continua.
(Shalom, 30 agosto 2024) ____________________
Da qui si dovrebbe capire quanto è stupido lo slogan: "Due stati che vivono l'uno accanto all'altro in pace e sicurezza". Ma la stupidità antiebraica (quando non è peggio) è contagiosa. M.C.
L’odio antisraeliano nei campus americani: come il boicottaggio a Israele è diventato ‘normale’
di Nathan Greppi
Nel 2006, quando il BDS e gli appelli al boicottaggio d’Israele erano ancora molto meno diffusi rispetto ad oggi, i vertici dell’AAUP (American Association of University Professors) pubblicarono una dichiarazione in cui si opponevano pubblicamente ai boicottaggi universitari, ritenendoli in contrasto con la libertà accademica. Il 9 agosto 2024, poco meno di un ventennio dopo, la stessa AAUP ha adottato una nuova dichiarazione, in cui si afferma che i boicottaggi non costituirebbero una violazione della libertà accademica come avevano sostenuto fino a quel momento.
Questo è solo uno dei tanti effetti della crescente ostilità verso Israele nel mondo accademico statunitense, che in diversi casi ha alimentato un clima d’odio nei confronti degli studenti ebrei in quanto tali. Tanto che in certi atenei, come ad esempio la Columbia, le iscrizioni degli studenti ebrei sono crollate nei mesi successivi al 7 ottobre, a causa di un contesto percepito come troppo ostile.
Chi da anni è testimone diretto di questo clima d’odio, e ne ha costantemente seguito l’evoluzione, è Cary Nelson, docente emerito di inglese presso l’Università dell’Illinois e già presidente dell’AAUP dal 2006 al 2012. Studioso della poesia americana moderna, è autore e curatore di diversi saggi sull’antisionismo universitario, tra cui The Case Against Academic Boycotts of Israel (2014), Israel Denial (2019) e Hate Speech and Academic Freedom (2024).
- Lei è stato presidente dell’American Association of University Professors. Sì, e sono stato anche un membro del loro “Comitato A”, quello che ne stabilisce le politiche, fino al 2015. Nel complesso, ho trascorso 23 anni nella direzione dell’AAUP, alla quale sono tuttora iscritto.
- Come è cambiato, nel corso degli anni, il loro approccio nei confronti dei boicottaggi? L’AAUP è nata nel 1915. In oltre un secolo di storia, erano sempre rimasti fedeli all’idea che una volta adottata una certa politica, non si faceva marcia indietro; si poteva modificarla o migliorarla, ma non si metteva in atto un capovolgimento totale della propria posizione. Che io sappia, la retromarcia fatta sulla loro precedente posizione in merito al boicottaggio costituisce il primo caso di questo genere dal 1915 ad oggi; proprio per questo, non mi sarei mai aspettato questa loro ultima decisione.
Tra l’altro, vi è un fatto curioso: quando l’AAUP formula la prima bozza di una dichiarazione, sceglie due o tre persone che la scrivono per poi discuterne con la direzione per eventuali modifiche. Tra coloro che scrissero la prima bozza della dichiarazione contro i boicottaggi del 2006, vi era Joan Scott, una docente di Princeton. Sebbene in un primo momento fosse fortemente schierata contro qualunque boicottaggio, nel giro di un anno e mezzo cambiò idea, e si schierò a favore dei boicottaggi cercando di spingere l’associazione a cambiare direzione. Per molto tempo non ci è riuscita, ma ora invece sì.
- In precedenza, c’erano già stati altri episodi controversi legati all’AAUP? Seguendone l’evoluzione, direi che soprattutto a partire dal 2015 l’associazione ha sempre più preso una deriva antisionista, che prima non c’era. Questa deriva è testimoniata da vari episodi; nel 2020, conferirono un premio a Rabab Abdulhadi, docente di origini palestinesi che insegna alla San Francisco State University. Tutte le attività della Abdulhadi sono funzionali al suo impegno politico, per cui organizza eventi antisionisti e cerca di fare assumere nella sua facoltà accademici con le sue stesse idee. Pertanto, conferirle un premio significa premiare il suo attivismo antisionista.
Un altro episodio risale al 2022, quando l’AAUP cercò di formulare una nuova definizione di antisemitismo, alternativa a quella dell’IHRA; lo fecero in maniera stupida e irresponsabile, senza avere nel comitato competente nemmeno uno studioso esperto di antisemitismo.
- Quali potrebbero essere gli effetti a lungo termine del loro cambio di direzione? Nei prossimi anni si moltiplicheranno le risoluzioni per boicottare le università israeliane. La loro precedente posizione era fondata sul principio secondo il quale la comunicazione aperta al di là dei confini nazionali è fondamentale per la libertà accademica. Ora questo principio è minacciato, perché molte persone cercheranno di boicottare gli atenei israeliani, almeno per un po’. Non credo che vedremo iniziative analoghe contro le università russe o cinesi, ma solo contro quelle israeliane.
- Nel dicembre 2023, ha fatto scalpore la testimonianza alla Camera delle presidi di Harvard, MIT e dell’Università della Pennsylvania, in cui alla domanda se invocare il genocidio degli ebrei nel campus violasse i loro codici di condotta, hanno risposto che “dipende dal contesto”. Cosa ha pensato, vedendo quella scena?
Sembrava che avessero tutte consultato lo stesso avvocato e, a giudicare dal risultato, direi che non era uno bravo. Non so se lei conosce l’espressione in inglese “soft ball question”.
- No, mi spiace. Che cosa significa? Nel baseball, esiste la “hard ball”, la palla più dura che usano i giocatori professionisti della Major League, e poi c’è la “soft ball”, più morbida e utilizzata dai dilettanti. Per “soft ball question”, si intende una domanda facile. E in questo caso, quando uno ti chiede se invocare il genocidio degli ebrei viola il tuo codice di condotta, come ha fatto con le tre presidi la deputata repubblicana Elise Stefanik, si sarebbe dovuto semplicemente dire “sì, assolutamente”. Eppure, di fronte ad una domanda tanto semplice, non sono riuscite a dare una risposta intelligente. Hanno dato l’impressione di essere persone senza fibra morale. È stato imbarazzante, non solo per loro, ma più in generale per l’istruzione superiore, che sembra aver smarrito la propria strada.
- Per le sue posizioni, lei è mai stato preso di mira dagli attivisti del BDS nella sua università? Ricevo spesso mail piene di insulti, e alle riunioni può capitare che qualcuno si metta a dire cose spiacevoli su di me o mi dica che non dovrei poter insegnare se ho posizioni filoisraeliane; poi, c’è da dire che io sono attivo nel movimento contro il boicottaggio e per la difesa d’Israele sin dal 2006, per cui ormai ci sono abituato.
Ci sarebbe da fare una distinzione tra prima e dopo il 7 ottobre; dopo quella data, molti accademici ai quali non era mai successo nulla prima hanno iniziato ad essere presi di mira. Personalmente non ho mai subito atti di violenza fisica per fortuna, ma ad alcuni miei colleghi invece è successo.
- In un suo articolo apparso nel novembre 2023 sulla rivista “Fathom Journal”, riportava il caso di Lara Sheehi, già docente di psicologia alla George Washington University che ha giustificato l’operato di Hamas in nome della “liberazione”… A gennaio, dopo le polemiche per le sue parole, la Sheehi ha annunciato di essersi dimessa dal suo incarico alla George Washington University e di averne accettato uno nuovo a Doha, in Qatar. Tuttavia, quello che molti non sanno è che già nel 2023 la Sheehi non era alla George Washington, perché si era presa un anno sabbatico. Provi a indovinare dove lo ha trascorso.
- A Doha? Esattamente. In quel periodo ha viaggiato tra il Qatar e gli Stati Uniti per partecipare a vari eventi, ma credo che abitasse principalmente a Doha. Pertanto, il suo nuovo incarico è il frutto di mesi trascorsi laggiù a intessere relazioni. Già nel 2021, lei aveva dichiarato pubblicamente di sostenere Hamas; e pur non potendo provare nulla, dubito che la sua scelta di stabilirsi in Qatar sia stata casuale.
- A parte il caso specifico della Sheehi, quanto è diffuso il giustificazionismo del 7 ottobre nel mondo accademico americano? Se guardiamo più in generale all’Occidente, mi sembra che i docenti universitari che hanno dichiarato pubblicamente di sostenere Hamas e di approvare ciò che ha fatto il 7 ottobre si trovano principalmente nei paesi anglofoni. È negli Stati Uniti, in Canada e nel Regno Unito che molti accademici hanno affermato testualmente che il 7 ottobre era “bellissimo”, “una liberazione”, “la cosa migliore avvenuta nel mondo da che ho memoria”. Forse c’entra il fatto che in Europa i discorsi d’odio vengono maggiormente puniti.
Se gli accademici che hanno sostenuto il terrorismo sono stati subito criticati, certi gruppi studenteschi si sono schierati in pochi giorni dalla parte di Hamas. Uno dei più estremi è SJP (Students for Justice in Palestine), al quale si è recentemente allineato un nuovo gruppo, FJP (Faculty for Justice in Palestine). Tuttavia, questo secondo gruppo nasconde i nomi dei suoi affiliati, e hanno dichiarato il loro sostegno a SJP mantenendo l’anonimato.
- Già nel 2018, lei ha raccontato a “Mosaico” che a sostenere il BDS fosse anche l’associazione ebraica di estrema sinistra JVP (Jewish Voice for Peace), usata dagli antisionisti come foglia di fico per difendersi dalle accuse di antisemitismo. Rispetto al 2018, che cosa è cambiato?
Oggi JVP gioca un ruolo molto più importante di quello che poteva avere nel 2018; hanno molti portavoce presenti negli accampamenti allestiti nelle università americane, e vengono continuamente messi sotto i riflettori.
Per fare un esempio, in occasione dell’accampamento all’UCLA, l’Università della California a Los Angeles, diversi studenti ebrei querelarono l’università perché gli accampati avevano impedito loro di muoversi nel campus e recarsi in biblioteca; di fatto, bloccavano intenzionalmente l’accesso agli studenti ebrei. In quell’occasione, l’FJP rilasciò un documento in cui dichiaravano di non poter essere antisemiti, in quanto avevano esponenti di Jewish Voice for Peace tra i loro sostenitori.
- Cosa dovrebbero fare le istituzioni accademiche per contrastare l’odio verso gli ebrei e Israele negli atenei? Quali tattiche andrebbero adottate? Qui all’Università dell’Illinois, io e il mio collega Brett Kaufman abbiamo creato un gruppo accademico chiamato Faculty for Academic Freedom and Against Antisemitism, presente nei campus di Chicago e Urbana-Champaign. Finora hanno aderito più di 80 persone in pochi mesi. A differenza dei nostri avversari, che si nascondono dietro l’anonimato, noi abbiamo un Comitato Esecutivo i cui membri sono tutti indicati con i loro nomi sul nostro sito.
Un’altra iniziativa a cui ho contribuito, assieme a due amici che insegnano all’Università del Minnesota e a Berkeley in California, è stata la pubblicazione di una dichiarazione contro i boicottaggi accademici. Possono firmarla accademici da tutto il mondo, non solo americani, e finora ha già raccolto più di 3.400 firme.
Se qualcuno ci ponesse di fronte ad una scelta, preferiremmo essere ciechi o sordi? D-o non voglia che accada mai, ma diciamo che dovessimo scegliere, quale dei due preferiremmo? Un’idea tratta dalla Parashà di questa settimana, la Parashà di Re’é interviene su questa domanda. Il primo versetto recita: “Vedi, oggi ho posto davanti a te benedizioni e maledizioni” (Devarim 11:26). La prima domanda che sorge di fronte a questo versetto è: D-o ha posto qualcosa di tangibile e visibile davanti agli ebrei? La risposta immediata è che no, D-o attraverso questo versetto sta descrivendo concetti intellettuali di benedizioni e maledizioni. Cosa intende quindi la Torà quando usa la parola “Vedi”? Ovviamente, la parola “vedi” è figurativa ed è usata qui per riferirsi a una comprensione. Nel nostro esprimerci, usiamo “vedi” in riferimento a una comprensione di qualcosa come in “Vedi cosa ti sto dicendo?” perché la vista è il nostro senso più affidabile e forte. (Radak in Zecharia 1:9.). Per spiegare questa idea, prendiamo come esempio un cane e il suo senso dell’olfatto. Poiché il senso più affidabile e forte di un cane è l’olfatto, se potesse parlare e volesse esprimere la sua comprensione di un’idea, direbbe: “Lo sento! Ora capisco cosa intendi”. Questa spiegazione fa sorgere tuttavia un’altra domanda: Se la vista è il nostro senso più forte ed è quindi la ragione per cui la nostra Parashà inizia con quella parola, come mai in altri punti la Torà usa la parola “udire” per riferirsi alla comprensione? L’esempio più lampante si trova in una delle preghiere più famose, nello Shemà: “Ascolta, Israele, D-o Nostro Signore, D-o è Uno“. Perché la Torà non usa sempre la parola “vedere” in allusione all’interiorizzazione di una comprensione di qualcosa se questo è il nostro senso più affidabile? Inoltre, se la vista è il nostro senso più forte, l’Halachà dovrebbe considerare più seriamente responsabile chi acceca qualcuno piuttosto che chi abbia reso sordo una persona. Tuttavia, il Talmud in Baba Kama 85b stabilisce che chi rende sordo qualcuno deve pagare molto di più che se lo acceca. Non dovrebbe essere il contrario? Per rispondere a tutte queste domande, dobbiamo introdurre un altro fattore nell’equazione oltre alla questione del senso più forte e affidabile. Quel problema è la comunicazione con il prossimo. Helen Keller una volta disse: “Se mi chiedessi: Se potessi riavere uno dei miei sensi, la vista o l’udito, quale sceglierei? Sceglierei l’udito. Essere ciechi ti taglia fuori dal mondo, ma essere sordi ti taglia fuori dal relazionarti e comunicare con le persone. Io scelgo le persone rispetto al mondo”. Il risarcimento per aver provocato danni all’udito è più alto rispetto al risarcimento previsto per i danni provocati alla vista perché perdere la capacità di relazionarsi e condividere con gli altri è una privazione più grave. La vista può essere il nostro senso più forte, ma le relazioni umane e la comunicazione sono più vitali per l’esistenza umana. La Torà, quando sceglie di usare l’espressione “vedere” o “sentire”, desidera trasmettere messaggi diversi e specifici per indicare la comprensione di qualcosa. Quando la Torà usa la parola “shema”, “ascolta”, l’indicazione è che dobbiamo prendere un impegno che coinvolge il nostro intelletto. “Re’é”, – vedi – significa che dobbiamo prendere un impegno che coinvolge le nostre emozioni. “Ascoltare” richiede una comprensione più ampia e profonda, mentre “vedere” richiede una reazione più ampia a una comprensione che è già presente. “Ascoltare” richiede una comprensione più ampia e profonda perché quando siamo in grado di ascoltare qualcuno siamo in grado di comunicare veramente bene con lui. Per quanto significativa sia la lingua dei segni per i non udenti, non può purtroppo sostituire completamente i livelli più alti e profondi di comunicazione tra le persone che si sperimentano attraverso l’udito che permette una percezione migliore. La “Vista” è usata per raccogliere le nostre emozioni a una grande reazione per una comprensione che abbiamo già perché la vista è il nostro senso più forte e affidabile. Vedere è davvero credere ed è spesso molto più facile impegnarsi in qualcosa quando la vediamo piuttosto che se la sentiamo solamente. Questo spiega una differenza molto affascinante nella fraseologia usata dallo Zohar e quella usata dal Talmud. Molto spesso, quando il Talmud presenta nuove informazioni e fatti, viene usata la frase introduttiva “Vieni e ascolta”, “Ta Shmà”. Quando lo Zohar presenta nuove informazioni, viene usata la frase introduttiva “Vieni e vedi”, “Yuh chazi”. Perché questa differenza? Quanto abbiamo discusso, ci aiuta a capirlo. Il Talmud include tutta la Torà rivelata e razionale, che è nota come “niglé”, rivelata. Questa sezione della Torà comporta un grande e profondo pensiero logico e la comprensione dell’intelletto. Ecco perché “l’udito” è estremamente necessario, poiché “l’udito” realizza una comunicazione chiara su un piano razionale. Lo Zohar è l’opera principale del misticismo ebraico e va oltre il regno della razionalità e della logica, verso il mondo del soprannaturale e del nascosto. È “nistar”, la Torà nascosta. “Vedere” è il senso che può suscitare le nostre emozioni e una grande reazione e la funzione principale dello Zohar è quella di rafforzare le nostre passioni ed emozioni per la nostra anima e il nostro spirito. Ecco perché Rav Avraham Yeshaya Karelitz, noto come Chazon Ish, dice che quando si studia lo Zohar si sperimenta la dolcezza del nostro Padre Celeste e, probabilmente è anche questo il motivo per il quale lo studio dello Zohar è soggetto ad alcune regole ben precise. Nel primo versetto della Parshà di Re’é, l’uso dell’espressione “vedere” è il più appropriato in base all’argomento. D-o sta descrivendo una cerimonia di giuramenti per osservare le mitzvot della Torà che prevede benedizioni e maledizioni. Questa cerimonia avrebbe avuto effettivamente luogo in linea temporale molto più tardi rispetto al momento in cui vengono pronunciate queste parole, quando gli ebrei avrebbero attraversato il fiume Giordano per entrare in Israele. Perché allora D-o dice: “Guarda, ho posto davanti a te oggi, benedizioni e maledizioni”? Le benedizioni e le maledizioni non venivano poste davanti a loro in quel momento, quindi perché usare la parola “oggi”? Come sappiamo la Torà non usa mai parole superflue o che non comportino un insegnamento.. Anche se secondo Rashi qui il versetto si riferisce in effetti alla cerimonia che avverrà diversi anni successivi nella Terra di Israele sul Monte Gherizim e sul Monte Eval, lo Sforno interpreta il versetto diversamente, come un ammonimento: Fai molta attenzione in modo da non essere come le nazioni del mondo che si relazionano a tutto con scarso entusiasmo, cercando sempre di trovare una via di mezzo. Ricorda che Io ti presento oggi la scelta tra due estremi opposti. La Berachà, la benedizione, è un estremo in quanto ti fornisce più di quanto ti serve, mentre la Kelalà, la maledizione, è l’altro estremo che si assicura che tu abbia meno dei tuoi bisogni di base. Hai la scelta di entrambi davanti a te; tutto ciò che devi fare è fare una scelta. Questo versetto apparentemente semplice, di apertura della Parashà, è in realtà pregno di significati. Dopo aver usato la comprensione che avviene attraverso l’udito, “Shemà Israel”, comprensione basilare ed importantissima, può arrivare il momento in cui sarà possibile usare la comprensione che avviene attraverso il senso della vista, Re’é, che non può esserci senza la comprensione precedente. Questo insegnamento è importante anche oggi. Molte delle opinioni e delle decisioni che prendiamo sono prese solo utilizzando uno dei sensi di cui siamo dotati, spesso il senso guidato dalle emozioni. Questo senso può però portarci a decisioni errate. La Torà ci dà le istruzioni su come dobbiamo comportarci: Come prima cosa dobbiamo capire che “Shemà Israel”. ascolta Israele, il Signore è il tuo D-o, il Signore è Uno. Successivamente saremo in grado di capire che “vehaya im shamo’a tishmà el mitzvot H’ Elokecha“, e avverrà, quando osserverai le mitzvot che il Signore tuo D-o ti dà e farai quanto è bene ai Suoi occhi, solo allora porterai la berachà nella tua vita e solo allora potrai veramente arrivare a “Re’é”, vedere che in realtà l’unica via da percorrere, anche se ci viene data la scelta del libero arbitrio, necessario perché a livello semplicistico se non ci fosse non avrebbe senso il concetto di ricompensa e di punizione, è quella della berachà, quella che ci porterà solo benedizioni nelle nostre vite.
L’alto funzionario di Hamas Khaled Mashal ha invitato mercoledì a riprendere gli attentati suicidi in Cisgiordania e ha incoraggiato i palestinesi e i sostenitori della causa palestinese a impegnarsi nella “resistenza effettiva contro l’entità sionista”. Secondo Sky News Arabia, durante un discorso a una conferenza a Istanbul, in Turchia, Mashaal ha detto che il gruppo terroristico di Hamas vuole “tornare alle operazioni [suicide]”. La guerra con Israele a Gaza e i frequenti raid dell’IDF contro le entità terroristiche palestinesi in Cisgiordania sono una situazione “che può essere affrontata solo con un conflitto aperto”, ha detto Mashaal. “Loro ci combattono con un conflitto aperto e noi li affrontiamo con un conflitto aperto”. “Il nemico ha aperto il conflitto su tutti i fronti, cercando tutti noi, che combattiamo o meno”, ha detto, sembrando riferirsi all’assassinio dell’ex leader di Hamas Ismail Haniyeh avvenuto a Teheran il 31 luglio. Israele non ha confermato né smentito il suo coinvolgimento nell’uccisione di Haniyeh, residente in Qatar e capo dell’ala politica del gruppo terrorista. “Ripeto il mio appello a tutti a partecipare su più fronti all’effettiva resistenza contro l’entità sionista”, ha aggiunto Mashaal, che per un breve periodo era stato visto come uno dei candidati a sostituire Haniyeh, prima che le redini venissero affidate al leader di Hamas a Gaza Yahya Sinwar. All’inizio di agosto, Hamas ha rivendicato la responsabilità di un’esplosione a Tel Aviv, che ha dichiarato essere un attentato suicida condotto come operazione congiunta con la Jihad islamica palestinese, e ha giurato che sarebbero seguiti altri attacchi simili. Una persona è rimasta moderatamente ferita nell’attacco del 18 agosto, quando la bomba è esplosa all’interno dello zaino dell’uomo che la trasportava, uccidendolo all’istante. Gli attentati suicidi in Israele sono rari dalla Seconda Intifada dei primi anni 2000, quando centinaia di israeliani furono uccisi in una serie di attentati mortali. In seguito all’intifada, Israele ha costruito la barriera di sicurezza in Cisgiordania, che è stata ritenuta utile per sventare ulteriori tentativi di attentato. Recentemente, nel corso della guerra a Gaza, le autorità di sicurezza israeliane hanno individuato tentativi di Hamas e di altri gruppi terroristici in Cisgiordania di tornare a compiere attentati di questo tipo. Nel marzo di quest’anno, un aspirante attentatore suicida è stato ucciso mentre cercava di infiltrarsi in Israele dalla Cisgiordania. Altri tentativi di attacco sono stati sventati negli ultimi mesi in fasi precedenti.
Israele combatte stabilmente su sette fronti. Ma la guerra contro Israele fa meno paura dell’antisemitismo in giro per il mondo. Storia dei numeri record di immigrati (più 29 mila) che cercano riparo nello stato ebraico.
Le operazioni militari lanciate ieri dall’esercito israeliano in quattro città della Cisgiordania ci ricordano che i fronti sui quali combatte lo stato di Israele sono ormai, e anche con una certa stabilità, non meno di sette, se si vogliono escludere da questo calcolo altri collaborazionisti del terrore come alcune università americane, come alcune federazioni dei giornalisti europei, come i collaborazionisti delle Nazioni Unite, che pur da posizioni diverse combattono da mesi battaglie simmetriche contro Israele, giustamente osservate con affetto dagli ayatollah iraniani. C’è il fronte della Cisgiordania, con tutte le sue problematiche, comprese purtroppo anche le azioni di terrore portate avanti da alcuni coloni. C’è il fronte di Gaza con i suoi terroristi di Hamas. C’è il fronte del Libano con i suoi Hezbollah. C’è il fronte iraniano con i suoi pasdaran. C’è il fronte dello Yemen con i suoi houthi. C’è il fronte della Siria con le sue milizie al soldo dell’Iran. C’è il fronte dell’Iraq con i suoi combattenti teleguidati da Teheran. Vivere in Israele, oggi, significa essere circondati da professionisti del terrore che in modo esplicito sognano di spazzare via uno stato dalla mappa geografica, from the river to the sea. Ma nonostante questo, la potenza generata in giro per il mondo dall’emergere dell’intifada globale, dall’odio irriducibile contro gli ebrei, dalla nuova internazionale dell’antisemitismo ha generato in molti ebrei che si trovano fuori da Israele un senso di insicurezza superiore rispetto a quello percepito dagli ebrei che vivono in mezzo ai sette fronti che assediano ormai da mesi lo stato di Israele.
Lunedì scorso, un rapporto speciale del ministero dell’Aliyah e dell’Integrazione israeliano ha fatto emergere un dato sorprendente e per alcuni versi drammatico. Nonostante la guerra in corso, il numero di nuovi immigrati arrivati in Israele dal 7 ottobre ha raggiunto delle cifre che non si vedevano da anni e in particolare negli ultimi dieci mesi in Israele sono arrivati 29 mila immigrati che hanno scelto di beneficiare della “aliyah”, la legge che riconosce a qualsiasi ebreo il diritto legale all’immigrazione assistita, all’insediamento in Israele e alla cittadinanza israeliana.
Tra i paesi da cui sono arrivate più domande ce ne sono quattro in particolare. C’è il Regno Unito, che ha registrato un aumento del 63 per cento di richieste rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. C’è il Canada, che ha registrato un aumento di richieste pari all’87 per cento. Ci sono gli Stati Uniti, che hanno registrato un 62 per cento in più di richieste. E c’è, infine, il caso spaventoso della Francia, che ha registrato, rispetto agli stessi mesi dell’anno precedente, un balzo di richieste pari al 355 per cento (355: non è un refuso). Per Israele, avere a che fare con un boom di immigrati, che cercano rifugio, che cercano sicurezza, che cercano protezione, è un segnale incoraggiante, che mostra la capacità, da parte dello stato ebraico, di proiettarsi ancora nel futuro e di dare, nonostante tutto, un senso di sicurezza a tutti gli ebrei che in giro per il mondo non si sentono più sicuri. Ma per i paesi da cui scappano gli ebrei questi numeri certificano purtroppo una verità diversa, che in troppi continuano a non voler vedere. La macchina dell’antisionismo che è tornata a macinare odio dopo il 7 ottobre provando a creare confusione rispetto a chi sono gli aggrediti e chi sono gli aggressori in medio oriente è una macchina il cui lavorio produce ormai da mesi un effetto preciso che coincide con la legittimazione progressiva dell’odio non contro Israele ma contro gli ebrei. Giorni fa, l’agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali ha condotto un sondaggio su 8 mila ebrei provenienti da 13 paesi europei e ha rivelato che il 96 per cento degli intervistati ha dichiarato di aver avuto a che fare con l’antisemitismo nella propria vita quotidiana anche prima dell’attuale guerra a Gaza. Secondo lo stesso rapporto, il 76 per cento degli intervistati ha nascosto la propria identità “almeno occasionalmente”, il 34 per cento ha detto di essere restio a visitare eventi o siti ebraici perché non si sentiva sicuro, il 4 per cento ha dichiarato di aver subìto aggressioni fisiche, il doppio rispetto al sondaggio precedente condotto nel 2018, e il 60 per cento degli intervistati non è soddisfatto della risposta del proprio governo nazionale al crescente antisemitismo. Il paese più colpito da questo fenomeno è la Francia, paese che ha osservato con terrore l’esplosione causata da una bombola di gas che ha provocato quattro giorni fa un incendio di fronte alla sinagoga Beth Yaacov che solo per caso non si è tradotto in una strage. In Francia, si diceva, il 74 per cento della comunità ebraica ha dichiarato di ritenere che l’attuale conflitto abbia influito sul proprio senso di sicurezza e gli atti di antisemitismo sono quasi triplicati dall’inizio dell’anno, con 887 eventi registrati nel primo semestre contro i 304 registrati nello stesso periodo del 2023. Immaginare che Israele possa avere un futuro, nonostante il tentativo dei terroristi di mezzo mondo di cancellare il futuro dall’orizzonte di Israele, è una notizia incoraggiante. Prendere atto del fatto che l’intifada globale ha messo gli ebrei di mezzo mondo nella condizione di non sentirsi più liberi di professare la propria fede al punto di sentirsi più sicuri in un paese in guerra che in un occidente che la guerra la guarda da lontano dovrebbe essere il primo passo per comprendere cosa è diventato oggi l’antisemitismo, cosa c’è dietro l’antisionismo e cosa vuol dire difendere Israele per difendere anche la nostra libertà.
Indagare, riferire, illustrare, informare, fare riflettere. Sono questi gli obiettivi di una stampa al servizio del cittadino, non importa se lettore di un giornale, radioascoltatore o fruitore del web. La politica attiva invece no, non fa parte della missione istituzionale di una testata che si voglia libera. Certo, nel gioco dei media è ammesso sposare una battaglia o manifestare le proprie preferenze per quel politico o, meglio sarebbe, per alcune scelte di qualche amministratore. Qua in occidente, poi, si dà tutto per scontato dimenticando che in tanti paesi i giornalisti non sono affatto liberi: da questo punto di vista gli appelli ai governi perché garantiscano la libertà della stampa e l’incolumità dei giornalisti vanno sempre appoggiati. Eppure, dalla lettera-appello che 58 fra organizzazioni giornalistiche e ong hanno inviato all’alto rappresentante della politica estera dell’Ue, Josep Borrell, traspare qualcosa di inquietante. Perché non si tratta (solo) di un testo per la libertà della stampa e la tutela dei giornalisti ma di un appello contro. Contro Israele considerato non una democrazia in lotta contro il radicalismo islamico fomentato dall’Iran, campione di violenza domestica e internazionale, ma come un’entità assassina, violenta, torturatrice. Della quale si arriva a chiedere nientemeno che l’espulsione dagli accordi di associazione con l’Ue.
In questo caso le associazioni dei giornalisti non solo rincorrono la politica ma la superano in corsa. Un segnale spaventoso: Israele è in guerra con Hamas? E noi chiediamo l’allontanamento dello stato ebraico dall’Europa. Noi giornalisti riteniamo che la libertà di stampa, leggi la democrazia, in Israele sia in pericolo? Anziché invocare la fine della guerra meglio assestare una pedata nei denti a chi rischia la vita tutti i giorni per estrarre civili innocenti dai tunnel della morte. Fra i firmatari della lettere appello c’è la Fnsi italiana in compagnia della European Federation of Journalists (Efj) e di una serie di sigle analoghe dai paesi più diversi: non mancano la Tgs e la Gcd, due sigle turche, la Ppf pachistana e ben tre organizzazioni spagnole (Fape, Fesp e Spa-Fesp): sono le nuove sentinelle della nostra libertà (di essere sempre contro Israele). dan.mos.
20 ostaggi come scudi umani attorno a Sinwar mentre Hamas affronta una rivolta interna
di Luca Spizzichino
Sarebbero soltanto 20 gli ostaggi sotto il controllo diretto di Hamas e questi verrebbero usati come scudi umani per proteggere il leader Yahya Sinwar. È quanto riporta il quotidiano inglese The Jewish Chronicle. Il ricercato numero 1 dalle forze di difesa israeliane, architetto del 7 ottobre, si nasconderebbe in tunnel sotterranei, circondato dai prigionieri, nel tentativo di evitare un attacco mirato da parte di Israele. Nonostante l’intelligence israeliana abbia identificato più volte i nascondigli del leader di Hamas, gli attacchi sono stati evitati per non mettere a rischio la vita degli ostaggi.
La situazione degli ostaggi a Gaza è ulteriormente complicata dalle tensioni interne tra Hamas e i gruppi terroristici minori operanti nella Striscia. Gli altri ostaggi, sia vivi che morti, sono detenuti da gruppi terroristici minori come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, le Brigate dei Mujahideen, le Brigate al-Nasser Salah al-Deen e le Brigate dei Martiri di al-Aqsa. Questi gruppi hanno rotto i contatti con Sinwar, manifestando un crescente malcontento e stanno pianificando un colpo di stato per prendere il controllo della leadership di Hamas. Le tensioni tra queste fazioni terroriste e Sinwar nascono da profondi disaccordi riguardanti l’identità e il numero di prigionieri palestinesi da includere in un eventuale accordo di scambio per la liberazione degli ostaggi. Mentre Sinwar insiste sulla priorità del rilascio dei prigionieri affiliati a Hamas, questi gruppi minori pretendono che anche i loro membri siano inclusi nella lista, rifiutando qualsiasi compromesso con Israele.
Nonostante avessero seguito le direttive del capo di Hamas durante l’attacco del 7 ottobre, ora questi gruppi si ribellano alla sua autorità, rendendo ancora più complesso raggiungere un accordo con Israele. Sinwar, dal canto suo, cerca di ottenere condizioni favorevoli per la sua sicurezza personale, chiedendo la fine delle operazioni militari israeliane e garanzie americane che Israele non proseguirà la guerra dopo il rilascio degli ostaggi. Inoltre, Sinwar vuole la promessa di non essere eliminato una volta liberati gli ostaggi.
Nel frattempo, Sinwar sembra guadagnare tempo, sperando in un conflitto regionale più ampio che distragga l’IDF. Hamas sta anche incoraggiando attività terroristiche in Cisgiordania per sovraccaricare ulteriormente l’esercito israeliano. A tal fine, Sinwar ha incaricato Zaher Jabarin, terrorista considerato il banchiere di Hamas che è stato detenuto in Israele, ora operativo dalla Turchia, di attivare cellule terroristiche per creare ulteriore caos e pressione sull’IDF. Jabarin, che riceve fondi dall’Iran, è considerato responsabile del recente aumento delle attività terroristiche nella regione.
Ex ostaggio Moran Stella Yanai: sopravvissuta a Gaza tra torture, richieste di riscatti e pressione per convertirsi all’Islam
Una dopo l’altra, come lacrime amare di un puzzle, spuntano via via le testimonianze di chi è miracolosamente sopravvissuto dall’inferno di Gaza e che ora prova a ricomporre una tragedia che sembra non avere fine. Dei sopravvissuti come l’ex ostaggio Moran Stella Yanai, 41 anni, che in un’intervista rilasciata domenica a N12, ha raccontato ulteriori dettagli sulla sua detenzione. Moran, un’avvenente giovane donna, che come altre incolpevoli vittime di quel maledetto 7 ottobre ha avuto il solo torto di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Moran ce l’ha fatta, così come ce l’hanno fatta altri, ma la sua vita non potrà mai più essere come quella di prima. In un’intervista rilasciata il 29 novembre dell’anno scorso – e ora riportata alla luce dal Jerusalem Post arricchita da ulteriori dettagli – la donna ha dichiarato che durante la sua prigionia da parte dei terroristi di Hamas, questi ultimi hanno chiesto a suo padre un riscatto per la sua liberazione, minacciandola di morte se si fosse rifiutato. Non solo: hanno cercato anche di farle pressione affinché si convertisse all’Islam. «Un giorno, verso mezzogiorno, io e altri due ostaggi eravamo seduti in una stanza, preparati a qualsiasi scenario potesse verificarsi nella stanza adiacente (dove si trovavano i terroristi), quando all’improvviso ho sentito “abuha abuha” più volte», ha raccontato agli intervistatori. Dopo aver sentito ripetere la frase in arabo che significava “suo padre, suo padre”, Stella ha raccontato di aver iniziato a prestare maggiore attenzione alle conversazioni dei suoi rapitori. Uno di loro le si è avvicinato e ha cominciato a porle domande molto precise: «Tuo padre ti ama?», le ha chiesto. Lei ha risposto determinata: «Certamente, più di ogni altra cosa». I rapitori stavano chiaramente cercando di ottenere un riscatto per la sua liberazione, consapevoli che il padre sarebbe stato disposto a pagare una somma considerevole pur di riaverla. Hanno quindi iniziato a raccogliere il maggior numero possibile di informazioni sulla situazione finanziaria della famiglia. La pressione psicologica esercitata durante questi interrogatori aveva l’obiettivo di manipolare e terrorizzare Stella, rendendo la situazione ancora più angosciante. Sebbene Stella non sia ancora del tutto sicura se si trattasse di una semplice estorsione di denaro o se fosse parte di una strategia più complessa per destabilizzare psicologicamente la sua famiglia, ha affermato: «Fa parte dei loro giochi mentali, non stanno giocando solo con noi, ma anche con le nostre famiglie». Ha aggiunto che «non finisce con la nostra morte o il nostro rapimento; continuano a torturare e abusare delle nostre famiglie». Ma non è finita qui. L’ex ostaggio ha poi spiegato che quasi ogni giorno uno di loro entrava nella stanza e diceva che sarebbe stato meglio per lei essere musulmana. «Una volta il terrorista ha mandato uno dei suoi compagni a prendere un velo da mettermi e mostrarmi cosa significa essere una donna musulmana», ha raccontato Stella sempre a N12. La donna ha anche dichiarato che occasionalmente i suoi rapitori le portavano un Corano per leggerle dei versetti, chiedendole di lodare Dio: «Se ti convertissi all’Islam ti libereremmo prima», l’hanno intimata i suoi rapitori. «Come donna, la mia più grande paura è stata di essere venduta. Che qualcuno mi avrebbe sposato con la forza e che avrei dovuto convertirmi all’Islam», ha riferito Stella ribadendo che l’intera esperienza è stata traumatica per tutta la sua famiglia. Ha raccontato che quando suo padre ha iniziato a ricevere i messaggi di riscatto, «è andato in stato di shock». Ha ricevuto una foto di sua figlia (non una scattata in cattività) e gli è stato detto «che se non avesse pagato entro un’ora, avrebbero iniziato a ucciderci uno a uno. Cerco di immaginare mio padre in quella situazione, a cui è stato detto che entro un’ora avrebbero ucciso sua figlia se non avesse mandato i soldi. Penso a lui e a quanto gli stava passando per la testa: avrebbe potuto spezzargli il cuore. I miei genitori hanno vissuto un trauma non inferiore al mio».
(Bet Magazine Mosaico, 28 agosto 2024)
«La verità, vi prego, su Marwan Barghouti», si dovrebbe chiedere in questi giorni, parafrasando W.H. Auden. Di recente, il terrorista palestinese, in carcere in Israele dal 2002, è stato oggetto di alcuni articoli elogiativi e quasi apologetici, come quello del post. Barghouti, con sempre maggiore insistenza, è presentato come il solo leader palestinese capace di concordare una pace con lo Stato ebraico e gestire il post-Hamas a Gaza.
Si tratta, come sanno tutti coloro che guardano alla realtà mediorientale senza lenti ideologiche, di una pia illusione. Barghouti, infatti, non è il «Nelson Mandela della Palestina», bensì un assassino sanguinario imbevuto di antisemitismo.
Durante la prima Intifada, nel 1987, emerse come una delle principali figure militari del partito Fatah. Guidò i palestinesi in violenti scontri contro le forze militari e gravi attentati a danno dei civili israeliani. Nello stesso anno, fu arrestato da Israele ed estradato in Giordania, dove rimase fino al 1994, anno in cui tornò in Cisgiordania secondo i termini degli Accordi di Oslo. Nel 1996 fu eletto al «Consiglio legislativo palestinese», dove salì di grado fino al titolo di Segretario generale di Fatah nei «Territori occupati». Tuttavia, in seguito, ebbe un litigio con Yasser Arafat, la cui amministrazione accusò di corruzione.
Con lo scoppio della Seconda Intifada, nel 2000, Barghouti divenne un leader delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa. Capeggiò marce verso i posti di blocco israeliani con l’intento di provocare i soldati dell’IDF e causare scontri. Divenne una presenza visibile in molte manifestazioni e funerali di «martiri» palestinesi coperti dalla stampa araba e occidentale. Nei discorsi che tenne in tali eventi, Barghouti esortò le folle a persistere nel tentativo di espellere con la forza Israele dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza.
Sotto il suo comando, le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa si resero responsabili di numerosi attacchi contro Israele, tra cui un attentato suicida in un bar di Gerusalemme nel marzo 2002, in cui persero la vita 11 civili e ne rimasero feriti più di 50, e altri due attentati kamikaze a Tel Aviv nel gennaio 2003, che provocarono la morte di 23 persone e il ferimento di oltre un centinaio.
Barghouti fu catturato dall’esercito israeliano a Ramallah, sua città natale, nell’aprile del 2002 con l’accusa di terrorismo e per l’omicidio di 26 persone. Nel corso del processo, ribadì il suo sostegno alla «resistenza» armata. Alla fine, fu condannato per omicidio con ben cinque sentenze all’ergastolo.
Dal suo eremo carcerario, nel 2007, ebbe un ruolo importante anche nell’elaborazione dell’accordo della Mecca tra Hamas e Fatah, che esortava le due parti a porre fine agli scontri militari tra fazioni a Gaza e a concentrarsi nella lotta all’«occupante sionista».
Un terrorista pluriomicida non può garantire né una pace duratura né la sicurezza d’Israele. Bisogna, pertanto, sperare che la leadership israeliana lasci Barghouti scontare pienamente la sua pena nella prigione di Ofer e non commetta il medesimo errore fatto con Arafat, ossia credere che un lord of terror possa mai diventare una colomba.
Dopo 326 giorni di prigionia nelle mani di Hamas, l’IDF ha tratto in salvo l’ostaggio Qaid Farhan Alkadi.
Alkadi, beduino residente della zona di Rahat, era stato catturato il 7 ottobre mentre lavorava come guardia al Kibbutz Magen vicino al confine con la Striscia di Gaza. Il salvataggio ha avuto luogo in un tunnel nel sud di Gaza, dove Alkadi è stato trovato da solo durante una complessa operazione che ha coinvolto Shayetet 13, le forze della 401a Brigata, di Yahalom e Shin Bet sotto il comando della 162a Divisione. Il cinquantaduenne, sposato e padre, è in condizioni stabili, e dopo l’operazione di salvataggio è stato subito portato in ospedale per una valutazione medica.
“Siamo felici di tutto questo e speriamo possa riprendersi al più presto” ha detto Hathem, il fratello dell’ex ostaggio. Il primo ministro Benjamin Netanyahu si è congratulato con le forze di sicurezza per il salvataggio, ribadendo l’impegno dello Stato ebraico nel riportare a casa tutti gli ostaggi. Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha elogiato l’operazione, definendola come un esempio di determinazione dei soldati dell’IDF per raggiungere tutti gli obiettivi della guerra.
Anche il presidente Isaac Herzog ha accolto con gioia la notizia, celebrando il ritorno di Alkadi come un momento di sollievo per l’intero Paese. Alkadi è uno dei sei beduini rapiti durante il massacro del 7 ottobre. Tra loro anche Samer al-Talalqa, 25 anni, che è stato accidentalmente ucciso dall’IDF insieme ad Alon Shamriz e Yotam Haim; Yousef al-Ziadna, 49 anni, della zona di Rahat, che è stato rapito con i suoi figli Hamza, 22 anni, Bilal, 18 anni e Aisha, 17 anni. Aisha e Bilal sono stati rilasciati grazie all’accordo raggiunto con Hamas alla fine di novembre dello scorso anno.
Inoltre, Hamas detiene ancora Hisham al-Sayed, un civile israeliano beduino detenuto nella Striscia di Gaza dal 2015.
Il salvataggio di Alkadi è l’ottavo avvenuto grazie al l’IDF dall’inizio della guerra. A giugno, Noa Argamani, Almog Meir Jan, Shlomi Ziv e Andrey Kozlov sono stati salvati dal campo di Nuseirat, nella Striscia di Gaza durante quella che è stata definita “operazione Arnon”. A febbraio, Fernando Simon Marman e Louis Har sono stati salvati da Rafah., mentre il soldato dell’IDF Ori Magidish è stato recuperato grazie all’incursione di terra avvenuta a Gaza alla fine di ottobre.
È incredibile come la propaganda anti-ebraica riesca a far passare per buone delle vere e proprie frottole. Lo abbiamo visto a Gaza dove la suddetta propaganda anti-ebraica è riuscita a trasformare le veline di Hamas in “informazione attendibile”, come se fosse la Reuters, lo vediamo adesso con lo sventato massiccio attacco di Hezbollah contro Israele. La corsa a sminuire la brillante operazione preventiva, per altro aiutata dai satelliti americani, che ha impedito un attacco pesantissimo contro Israele, l’altrettanto patetica spinta a cercare di far credere che l’attacco di Hezbollah contro Israele sia stato “volontariamente debole”, producono una intollerabile alone di leggerezza intorno a quella che invece è stata una delle più brillanti operazioni di Israele degli ultimi decenni, nonché un importantissimo avviso all’Iran sullo strapotere militare israeliano. Una leggerezza che a quanto pare colpisce anche siti web amici, che sembrano fare a gara con Haaretz per dimostrare quanto siano “progressisti”. Su questi fantomatici “siti web progressisti” sostengono che «nuove informazioni indicano che Nasrallah ha ordinato che la risposta fosse significativamente ridimensionata a causa delle tensioni tra i centri di potere all’interno di Hezbollah». La verità è significativamente diversa. Hezbollah aveva preparato un attacco massiccio su diversi obiettivi in Israele, tanto massiccio da tirare fuori dai rifugi gli ingombranti lanciatori dei missili Fatah 110 (o Petah 110) in grado di colpire con precisione qualsiasi luogo in Israele. Una mossa che non poteva sfuggire né a Israele né ai satelliti americani. In un tempo particolarmente breve sono stati individuati migliaia di lanciatori di ogni tipo. Non decine, non centinaia, MIGLIAIA di lanciatori pronti a sparare razzi e missili di ogni tipo contro il territorio israeliano. L’attacco preventivo israeliano è stato così violento, così di grande portata che in meno di mezzora ha distrutto buona parte dei lanciatori allo scoperto lasciando a Hezbollah appena 300 tra razzi e droni. Nessun missile balistico. Uno che prepara migliaia di lanciatori tra cui decine di missili balistici, che quindi intende lanciare decine di migliaia di missili sullo Stato Ebraico, non ha in mente una «attacco significativamente debole», come vorrebbero farci intendere alcune patetiche “menti”, tutt’altro, ha in mente un attacco di grandissime proporzioni. Tra un po’ arriverà qualche invasato a spiegarci che Israele ed Hezbollah si erano accordati prima, che Nasrallah aveva fornito a Israele le coordinate di dov’erano i lanciatori ecc. ecc. La cruda e semplice verità è che Hezbollah ha ricevuto una lezione di indicibile grandezza, qualcosa che neppure gli israeliani osano quantificare pubblicamente per paura di mettere Nasrallah in un angolo e umiliarlo più di quanto non lo sia già stato. L’altra verità è che adesso Israele non vuole una guerra sul suo confine nord, non prima di aver eliminato del tutto la minaccia di Hamas, che rimane il fronte principale.
Dal 7 ottobre più di 29.000 persone sono immigrate in Israele
Negli ultimi 11 mesi sono immigrate in Israele più di 29.000 persone in base alla Legge del Ritorno, tra cui 150 immigrati arrivati martedì 27 agosto dalla Francia. Questo annuncio di Yaakov Hagoel, presidente dell’Organizzazione Sionista Mondiale (WZO), segna una netta inversione di tendenza dopo il forte calo dell’immigrazione nei mesi successivi all’attacco di Hamas. Come si legge su i24news, gli analisti attribuiscono questo rinnovato interesse a un’ondata di antisemitismo in Europa, negli Stati Uniti e altrove, dopo la campagna militare di Israele a Gaza. “Il 7 ottobre è scoppiata una guerra non contro lo Stato di Israele, ma contro il popolo ebraico. Oggi, in molti Paesi del mondo, è difficile essere ebrei, a scuola, al lavoro o durante la preghiera”, ha detto Hagoel agli immigrati francesi. I dati sull’immigrazione erano crollati subito dopo l’attentato del 7 ottobre. Secondo l’Ufficio centrale di statistica, nell’ottobre 2023 sono immigrate in Israele solo 1.163 persone, rispetto alle 2.364 di settembre. Nell’ottobre 2022, la cifra era di 6.091 persone. Le cifre sono però aumentate lentamente nei mesi successivi. Da ottobre ad aprile sono arrivati in Israele più di 12.000 immigrati, secondo i dati del governo e dell’Agenzia Ebraica per Israele. Un portavoce di Nefesh B’Nefesh, che sostiene l’immigrazione nordamericana in Israele, ha dichiarato che l’immigrazione generalmente rallenta in autunno e in inverno. Da parte sua, Yigal Palmor, portavoce dell’Agenzia Ebraica, ha aggiunto: “Abbiamo registrato un notevole aumento delle richieste di aliyah, soprattutto negli Stati Uniti e in Francia, ma anche in Canada e nel Regno Unito. Questo significa che la tendenza si invertirà sicuramente nei prossimi mesi, quando la situazione della sicurezza si stabilizzerà, come tutti speriamo che accada”.
Fra i progetti fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, al via mercoledì 28 agosto, ci sarà anche Riefenstahl. Il nuovo documentario di Andres Veiel si presenta come un’introspettiva sulla celebre regista del Terzo Reich, Leni Riefenstahl, nota per aver diretto i capisaldi della propaganda nazistaTrionfo della volontà e Olympia, dedicato ai Giochi di Berlino 1936. Tramite video privati, registrazioni e documenti inediti intende offrire un nuovo sguardo all’autrice che, pur vantando un legame diretto con Adolf Hitler, negò durante tutta la sua vita – terminata nel 2003 a 101 anni – qualsiasi legame stretto con il Führer o il ministro Goebbels. Come ha anticipato il Guardian, una lettera sembrerebbe confermare un suo coinvolgimento nel massacro degli ebrei in Polonia del 1939, che dopo la caduta del Reich ha sempre negato, sostenendo di non saperne nulla.
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La regista Leni Riefenstahl in uno scatto dell’epoca
Il nuovo documentario di Andres Veiel, che il pubblico non accreditato potrà vedere a Venezia la sera di giovedì 29 agosto, è il primo progetto a vantare un accesso totale alla tenuta della regista Leni Riefenstahl. Analizzando alcuni documenti personali, è spuntata fuori una lettera del 1952 in cui sembra essere certificata una sua responsabilità, seppur indiretta, nel massacro compiuto dai nazisti a Kónskie, nel centro-sud della Polonia, nel settembre 1939. Firmata da un ufficiale di grado inferiore al marito della regista, il maggiore della SA Peter Jacob, racconta che Riefenstahl avrebbe sollecitato a «rimuovere gli ebrei» da un mercato in cui doveva girare una scena. «Sbarazzatevi di loro», avrebbe intimato ai soldati, che risposero sparando direttamente su alcune persone in fuga. Parole che contrastano con quanto avrebbe detto nel 1976, confessando di aver conosciuto gli orrori compiuti dagli uomini di Hitler solo dopo la guerra.
«Se questa affermazione è vera, Riefenstahl ha giocato un ruolo cruciale nella morte degli ebrei a Kónskie», ha spiegato Veiel al Guardian. «I suoi conseguenti sensi di colpa potrebbero spiegare la sua negazione di aver assistito al crimine». Nel documentario troveranno spazio anche circa 30 ore di conversazioni telefoniche, registrate su cassetta, che la regista ebbe con ex membri del partito nazista che la tranquillizzarono dicendo che «moralità, decenza e virtù» del Reich non sarebbero morte con la sconfitta nella guerra mondiale. In risposta, Riefenstahl avrebbe concordato convinta che il popolo tedesco fosse «predestinato» a questo sviluppo. Nell’archivio sono spuntate lettere di ammiratori e corrispondenze in cui lei si rammarica per «gli ideali assassinati» del nazismo.
• Il documentario a Venezia racconta anche la realizzazione di Olympia Il progetto racconta anche Riefenstahl durante la realizzazione del documentario sulle Olimpiadi di Berlino 1936. La regista avrebbe più volte sottolineato il suo disprezzo per le persone fisicamente non all’altezza degli ideali nazisti di forza e bellezza che aveva promosso nel Trionfo della volontà. Dopo aver concluso Olympia, il collega Willy Zielke che ne curò il prologo fu ricoverato per psicosi ed esaurimento nervoso e successivamente sterilizzato con la forza. Pur a conoscenza di tutto ciò, Leni Riefenstahl non avrebbe fatto nulla in suo favore. Nelle 700 scatole di archivio, Veiel ha detto di aver trovato «un’attivista ancora convinta dell’ideologia nazista fino alla fine dei suoi giorni». A riprova della teoria, su un calendario è comparso l’appunto «Vota NPD», il partito neonazista.
Prima del 7 ottobre la dicitura “sionista” evocava una realtà ignominiosa ed era usata come un insulto in qualche scantinato neonazista o presso irrilevanti platee filo-terroriste bardate di kefiah. Nel giro di pochi mesi, all’esito di un processo indisturbato e lungo un binario di ignoranza mostruosa, quel termine – “sionista” – è diventato il contrassegno di una specificità maligna, la patacca dell’oltranzismo usurpatore e razzista che l’ebreo ostenta senza pudore dopo essersi levato dal petto la stella gialla che lo manteneva al suo posto.
Che cosa significhi “sionismo”, a quale movimento culturale, civile e politico quel termine rimandi, a quale realtà storica e sociale esso si riferisca, ecco, tutto questo semplicemente sfugge all’orizzonte delle cognizioni della fanciulla che, a capo di un corteo “pacifista”, a pochi passi dal Ghetto che fu rastrellato, grida “fuori i sionisti da Roma”. Sfugge, il significato del termine, sia al bifolco che dice all’ebreo “sionista di merda” sia all’avvocato che, difendendo in giudizio il responsabile di propaganda neonazista, spiega che il proprio assistito si limita a “combattere le politiche sioniste”.
I pionieri ottocenteschi e gli ebrei palestinesi socialisti che hanno costruito Israele sulla scorta dell’anelito sionista – uno dei tanti nell’arco di tempo che preparava e vedeva consumarsi il collasso dei sistemi colonial-imperiali – probabilmente non immaginavano che, cent’anni dopo, il loro liberarsi e difendersi dalla persecuzione millenaria di cui erano destinatari sarebbe diventato il nuovo capo di imputazione dell’inesausta retorica antisemita.
Il disprezzo e l’odio per il “sionista” erano i sentimenti di cui non aveva bisogno l’antisemitismo genocidiario prima della fondazione dello Stato Ebraico, perché il disprezzo e l’odio per gli ebrei erano autosufficienti e non occorreva ammantarli di troppe giustificazioni. Oggi – per quanto la propaganda anti-ebraica abbia assunto tratti di spigliatezza impensabili anche solo un anno fa – la libertà di dirsi antisemiti e la facoltà di esercitare la violenza antisemita trovano un impedimento solo nominalistico, un ostacolo che l’uso di quel termine, “sionista”, rimuove d’un colpo e con efficacia perfetta. Ma attenzione. Rispetto alle tradizionali menzogne (l’ebreo ladro, deicida, usuraio, pedofilo, portatore di malattie) che hanno scritto i capitoli della Bibbia antisemita e sono state usate per giustificare la persecuzione degli ebrei, l’addebito di “sionista” è simultaneamente più detestabile e pericoloso perché corrompe e trasfigura il significato di quella parola e la riformula in senso infamante.
Israele stringe il cerchio attorno al leader di Hamas latitante
Il tempo potrebbe essere scaduto per Yahya Sinwar. “Più di una volta siamo stati a pochi minuti di distanza”, ha dichiarato un ex agente dello Shin Bet.
di David Isaac
Il 61enne capo di Hamas Yahya Sinwar ha abbandonato i tunnel e si è travestito da donna per evitare di essere scoperto, come ha riferito lunedì il quotidiano britannico Daily Express, facendo sì che la mente del massacro del 7 ottobre fosse soprannominata “Mrs Dodgefire” sui social media. Finora, Sinwar è riuscito a evitare il colpo di grazia che Israele sta pianificando per lui - un destino che Israele ha riservato a molti leader di Hamas, tra cui Ismail Haniyeh a Teheran e Mohammed Deif a Gaza. Ma il tempo non sembra essere dalla parte di Sinwar. “Più di una volta ci siamo trovati a pochi minuti di distanza”, ha dichiarato al Daily Express Shalom Ben Hanan, un ex ufficiale dei servizi di sicurezza israeliani (Shin Bet) che è stato determinante nella caccia a Sinwar. “Come abbiamo scoperto in altre operazioni di eliminazione, Sinwar non rimane in tunnel sotterranei o in zone speciali sotterranee per più di 24-36 ore alla volta”, ha aggiunto Ben Hanan. “Sa che possiamo trovare questi nascondigli sotterranei con una tecnologia avanzata. E sa che deve continuare a muoversi nel caso in cui venga commesso un errore o troviamo fonti che ci dicono dove si trova. In questo modo può evitare di commettere un errore fatale”, ha detto. Un altro vantaggio per Israele è che Sinwar è impopolare presso una parte della popolazione della Striscia di Gaza. “Credono che li abbia portati alla rovina e che la situazione non potrà che peggiorare più a lungo rimarrà in vita”, ha dichiarato una fonte anonima al giornale. Il generale di brigata Dan Goldfuss, comandante della 98esima divisione paracadutisti delle Forze di Difesa israeliane, ha confermato in un'intervista rilasciata a Channel 12 l'11 agosto che le forze israeliane avevano mancato Sinwar per pochi minuti durante una missione: “Eravamo vicini. Eravamo nella sua zona. Siamo scesi sottoterra. La zona era 'calda’. Abbiamo anche trovato un sacco di soldi lì. Il caffè era ancora caldo. Le armi erano state... lasciate pochi minuti prima”. In un servizio domenicale sulla caccia a Sinwar, il New York Times ha riferito che egli aveva lasciato un bunker il 31 gennaio, pochi giorni prima dell'arrivo delle forze israeliane. Gli israeliani hanno diffuso un filmato di Sinwar di ottobre che lo mostra mentre cammina in un tunnel con alcuni dei suoi figli.
• ELETTRONICA RICONOSCIBILE
Il successo di Sinwar nell'eludere l'individuazione è dovuto principalmente al fatto che non usa mezzi di comunicazione elettronici rintracciabili ed è modellato su Osama bin Laden. “Si ritiene che si tenga in contatto con l'organizzazione che guida attraverso una rete di corrieri umani”, secondo il Times. Il giornale ha intervistato più di due dozzine di funzionari israeliani e statunitensi e ha scoperto che entrambi i Paesi hanno investito “enormi risorse” nella ricerca di Sinwar. Gli americani stanno monitorando le comunicazioni e hanno aiutato Israele con radar di terra per mappare la vasta “rete di tunnel” di Hamas. “Abbiamo fornito sforzi e risorse significative agli israeliani nella caccia ai vertici di Hamas, in particolare a Sinwar”, ha dichiarato il consigliere per la sicurezza nazionale statunitense Jake Sullivan. “Abbiamo avuto persone in Israele sedute in una stanza con gli israeliani che lavoravano su questo problema. E, naturalmente, abbiamo molta esperienza nella ricerca di obiettivi di alto valore”. Gli Stati Uniti sono motivati in parte dalla speranza che, con la morte di Sinwar, Israele possa dichiarare la vittoria e porre fine alle operazioni militari, si legge nel rapporto. Lo Shin Bet, insieme all'Intelligence militare delle Forze di Difesa israeliane, ha istituito un'unità speciale per rintracciare una lista approvata dal Gabinetto di leader di Hamas da uccidere, tra cui Sinwar è il più importante. Sebbene sia riuscito a sfuggire alle forze israeliane, l'anello intorno a lui si sta stringendo. Nelle prime settimane di guerra, Sinwar si è nascosto nei tunnel di Hamas a Gaza City, ma da allora si è trasferito a Khan Yunis. Ha anche usato telefoni cellulari e satellitari e ha persino parlato con membri di Hamas a Doha, ma da allora ha smesso di farlo. “Le agenzie di intelligence americane e israeliane sono state in grado di monitorare alcune di queste chiamate, ma non sono riuscite a localizzare la sua posizione”, riporta il Times. In passato rispondeva ai messaggi nel giro di pochi giorni, ma i negoziatori degli ostaggi e altre persone affermano che ora impiega molto più tempo a rispondere. E mentre si affidava a un gruppo ristretto di leader politici e militari di Hamas a Gaza per le decisioni politiche, quella cerchia si sta restringendo, ha osservato il Times. Tra i confidenti di Sinwar uccisi ci sono >MDeif,
Marwan Issa, Rawhi Mushtaha, Izzeldin al-Haddad e Muhammad.
(Israel Heute, 27 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Iniziate in Israele le commemorazioni del 7 ottobre
Undici mesi dopo l’attacco a sorpresa di Hamas, sono iniziate domenica scorsa le commemorazioni per alcune delle centinaia di vittime; con l’anno bisestile, ulteriori cerimonie segnano un anniversario di un anno, ponendo una sfida logistica per le famiglie e l’esercito Le funzioni commemorative per i soldati dell’IDF e le vittime del terrorismo uccisi il 7 ottobre sono iniziate domenica, segnando 11 mesi ebraici dall’attacco a sorpresa di Hamas alle città di confine di Gaza. Poiché centinaia di soldati dell’IDF e di civili israeliani sono caduti in quel tragico sabato – la maggior parte prima del tramonto del 22 di Tishrei – le prime commemorazioni si terranno il 22 di Av, da domenica sera a lunedì sera. Negli anni passati, i rappresentanti dell’IDF e i membri delle unità potevano essere al fianco delle famiglie in questo giorno difficile. Tuttavia, l’infuriare della guerra rappresenta una sfida unica, con scelte difficili da affrontare per i soldati delle unità che hanno subito gravi perdite. Molti non hanno potuto partecipare ai funerali a causa dei combattimenti in corso, e quelli che ora possono partecipare alle commemorazioni devono decidere quale cimitero visitare e quale tomba di un compagno onorare. Quest’anno, essendo un anno bisestile nel calendario ebraico, vedrà un’impennata di commemorazioni nelle prossime settimane. Alcune famiglie osservano l’anniversario degli 11 mesi, seguito da commemorazioni che segnano un anno dalla morte, mentre altre aderiscono alla tradizione di tenere una commemorazione anche il 13° mese durante un anno bisestile. Alcune famiglie scelgono di tenere tutte e tre le commemorazioni. “Abbiamo un centro di comando centrale all’interno del Dipartimento vittime dell’IDF, dove gli ufficiali addetti alle vittime si coordinano con le famiglie per stabilire le date preferite”, ha spiegato il tenente colonnello Meital Samet-Cohen, capo della sezione di collegamento con le famiglie dell’IDF. “Le famiglie comunicano i loro desideri e noi ci coordiniamo con l’Unità per le commemorazioni del Ministero della Difesa, occupandoci di tutto, dagli impianti audio, ai baldacchini, ai trasporti, fino all’organizzazione di un cantore militare per la cerimonia”. E ha aggiunto: “Lavoriamo a stretto contatto con le famiglie per ogni data scelta, comprese quelle che optano per più commemorazioni”. Per quanto riguarda la situazione attuale, il tenente colonnello Samet-Cohen ha dichiarato: “I rappresentanti delle unità parteciperanno alle commemorazioni, probabilmente dal fronte interno, poiché siamo ancora impegnati in combattimento. Il nostro principio guida è quello di mantenere il legame con l’unità, segnato dal colore del berretto e dalle insegne”. Il tenente colonnello Samet-Cohen ha anche sottolineato le sfide logistiche, dicendo: “Riceviamo richieste da parte di famiglie in lutto che chiedono che un nipote o uno zio in combattimento partecipi alla commemorazione, e ci mettiamo in contatto con i comandanti per sottolineare l’importanza, come facciamo per i membri dell’unità”. Nonostante le numerose commemorazioni – dovute sia alle gravi perdite che all’anno bisestile – manteniamo standard elevati e forniamo tutto il supporto necessario, il che comporta notevoli sfide logistiche”. Un problema sollevato è stato quello della programmazione di più commemorazioni nello stesso cimitero. “Per esempio, nella stessa sezione ci sono soldati caduti nello stesso giorno e le loro famiglie hanno chiesto di tenere le commemorazioni alla stessa ora, il che non è ideale”, ha spiegato Samet-Cohen. “Chiediamo alle famiglie di modificare leggermente l’orario. Il giorno dei funerali, molti si sono svolti in tempi stretti, soprattutto nelle aree a portata di razzo. Oggi, durante i funerali, ci concentriamo sul distanziare gli orari per dare a ogni famiglia il tempo di cui ha bisogno. È un processo delicato e sensibile. I nostri ufficiali addetti alle vittime lavorano 24 ore su 24 con immensa sensibilità, che è molto apprezzata nonostante le sfide”.
Il Ministro della Sicurezza raccoglie contrastiLo Status quo prevede che soltanto i musulmani possono pregare sul Monte del Tempio
GERUSALEMME - Il Ministro della Sicurezza israeliano Itamar Ben-Gvir (Forza ebraica) ha ribadito ancora una volta la sua opinione secondo cui i fedeli ebrei e musulmani hanno gli stessi diritti sul Monte del Tempio. Così come i musulmani possono pregare al Muro del Pianto, lo stesso diritto dovrebbe valere per gli ebrei sul Monte del Tempio. Se potesse, vi costruirebbe sopra una sinagoga, ha dichiarato lunedì alla Radio dell'esercito israeliano. Ben-Gvir ha anche chiesto: “Perché un ebreo dovrebbe avere paura di pregare? Perché poi Hamas si arrabbierebbe?” Non è vero che si permette di fare tutto quello che vuole sul Monte del Tempio: “Se avessi fatto tutto quello che volevo fare, la bandiera israeliana avrebbe sventolato lì molto tempo fa”. Ma impedire alle persone di pregare è illegale: “Le regole attuali permettono la preghiera sul Monte del Tempio, punto e basta”.
Dopo la conquista del Monte del Tempio da parte degli israeliani nella Guerra dei Sei Giorni, è stato concordato lo status quo: La polizia israeliana è responsabile della sicurezza sul Monte, mentre il Waqf, l'autorità religiosa musulmano-giordana, è responsabile delle questioni religiose. Questo stabilisce che i non musulmani non possono pregare sul Monte del Tempio.
• LINEA DEL GOVERNO: LO STATUS QUO RIMANE INVARIATO Le dichiarazioni del ministro sono state immediatamente registrate dall'opposizione: l'Autorità Palestinese (AP) ha definito la richiesta “un invito esplicito a distruggere la Moschea di Al-Aqsa e a sostituirla con un luogo di culto ebraico”. Il Ministero degli Esteri ha invitato gli alleati internazionali a “esercitare pressioni su Israele per costringerlo a porre fine alle pratiche, alle dichiarazioni e agli atteggiamenti provocatori di Ben-Gvir”. Gli israeliani sono stati più rapidi dell'Autorità palestinese nel presentare le loro critiche: Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu (Likud) ha immediatamente fatto sapere che “non c'è stato alcun cambiamento dello status quo ufficiale sul Monte del Tempio”. Il ministro degli Interni Moshe Arbel, del partito ultraortodosso Shass, ha invitato Netanyahu a licenziare immediatamente il ministro della Sicurezza. La sua “scarsa capacità di pensiero [ted. Mangel an Denkvermögen] potrebbe costarci sangue”. Le richieste di Ben-Gvir sono “irresponsabili e mettono in discussione l'alleanza strategica di Israele con gli Stati musulmani come parte dell'alleanza contro il malvagio asse iraniano”, ha affermato. Anche Giordania, Egitto e Arabia Saudita hanno commentato l'incidente. La Giordania ha spiegato che il Monte del Tempio è destinato esclusivamente alla preghiera musulmana. Lo Stato prenderà tutte le misure necessarie “per prevenire gli attacchi di Ben-Gvir al Monte del Tempio”. Il Ministero degli Esteri saudita ha ribadito il suo “categorico rifiuto di queste dichiarazioni estremiste e provocatorie e il suo rifiuto delle continue provocazioni di musulmani in tutto il mondo”.
• DILEMMA: DIVIETO O ALLENTAMENTO? Anche la rivista ultraortodossa “Jated Ne'eman” si è dichiarata fortemente in disaccordo con la richiesta. Martedì ha stampato in prima pagina un articolo in arabo che condanna le richieste del ministro. Ha scritto: “Con la sua stupidità, il ministro Ben-Gvir sta mettendo in pericolo gli abitanti della Terra d'Israele”. Inoltre, hanno chiarito: “A nome dei nostri venerati rabbini, dichiariamo pubblicamente: è noto che secondo la legge ebraica, la Halacha, l'ascesa ebraica al Monte del Tempio, a cui i musulmani si riferiscono come ‘complesso di Al-Aqsa’, è rigorosamente vietata a tutte le generazioni. Questo punto di vista non è cambiato e rimane immutato”. Il Monte è venerato dagli ebrei religiosi come un luogo sacro perché lì sorgevano i due templi ebraici. Molti ebrei religiosi osservano gli antichi divieti rabbinici di visitare il sito. Questo è dovuto al timore di entrare accidentalmente nel “Santo dei Santi”. Negli ultimi anni, tuttavia, sempre più credenti hanno chiesto di poter pregare anche su quel monte. Secondo l'organizzazione “Bejadenu” (Nelle nostre mani), che lavora per rafforzare i legami ebraici con il Monte del Tempio, circa 50.000 ebrei hanno visitato il Monte del Tempio dall'inizio dell'anno ebraico 5784.
(Israelnetz, 27 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Davos: ragazzo ebreo aggredito al grido ‘Free Palestine’
Ennesimo atto antisemita in Europa, questa volta accaduto nella cittadina svizzera di Davos: come riporta la RSI, venerdì 23 agosto un ragazzo ebreo residente in Inghilterra sulla Promenade di Davos è stato colpito da due uomini che hanno gridato più volte “Free Palestine”. “Mi hanno colpito all’improvviso. Li ho spinti via e sono scappato. Mi hanno seguito, e urlandomi contro “Free Palestine”, mi hanno sputato in faccia”, ha dichiarato il ragazzo, Eli, alla Radio Svizzera Italiana. “All’inizio ero abbastanza perplesso – ha dichiarato il segretario generale della Federazione svizzera delle comunità israelite Jonathan Kreutner -. Non è una cosa che succede spesso in Svizzera. E negli ultimi tempi non ho mai sentito che una cosa così sia successa a Davos.” La vittima ha sporto denuncia, mentre la polizia per ora non si sbilancia. Non è la prima volta che nella cittadina svizzera si registrano episodi antisemiti. Nel febbraio di quest’anno un locale del comprensorio sciistico di Pischa, vicino a Davos, aveva appeso alla propria porta il cartello “non si affittano più attrezzature da sci agli ebrei”.
L’archeologia ha spesso il potere di parlarci dal passato. Sei anni dopo essere caduta dal Muro Occidentale, a Gerusalemme, una massiccia pietra del peso di circa 400 chilogrammi (quasi 900 libbre) è stata trasferita per l’esposizione al pubblico. La pietra ora “riposa” accanto ad altri massi caduti nel Giardino Archeologico di Gerusalemme al Davidson Center. Nel 2018, poco dopo la preghiera serale per il giorno del digiuno di Tisha B’Av, la pietra si è staccata dal muro ed è caduta da un’altezza di diversi metri, sulla piattaforma della sezione Ezrat Yisrael vicino alla piazza del Muro Occidentale. Una donna, intenta a pregare è stata testimone di tutta la scena.
Da allora, la pietra è stata sottoposta a test e ricerche archeologiche approfondite, secondo la Jewish Quarter Reconstruction and Development Company. “Questa pietra, rappresenta una testimonianza importante di migliaia di anni di preghiera, speranza e fede”, ha spiegato il CEO della Jewish Quarter Reconstruction and Development Company Herzl Ben Ari. “Lo studio di questi massi è più di un semplice evento fisico; è un’opportunità per collegare il passato con il presente, apprezzare la ricca storia di questo luogo sacro e preservare la connessione tra le generazioni”.
Dopo la caduta, l’Israel Antiquities Authority ha condotto un’indagine ingegneristica sulla conservazione dei massi del Muro del Pianto. Che ha poi portato all’esposizione della pietra. Ezrat Yisrael, il sito in cui è caduta la pietra, si trova a sud della piazza centrale del muro ed è riconosciuta come la nota area di preghiera delle donne del Muro Occidentale – parte dell’antico muro di contenimento del Monte del Tempio. D’ora in poi, il masso verrà esposto e sarà visibile assieme a molte altre pietre simili, una testimonianza dal passato di quanto l’area del Tempio di Gerusalemme abbia sempre avuto una forte sacralità per il popolo ebraico.
(Shalom, 27 agosto 2024)
Sinwar si muove a Gaza vestito da donna: la rivelazione dell’intelligence israeliana
Secondo fonti dell’intelligence israeliana citate dal Daily Express e riprese dai24news, Yahya Sinwar, il leader di Hamas a Gaza, ha adottato una strategia di sopravvivenza a dir poco inaspettata. L’uomo più ricercato da Israele starebbe camminando per le strade di Gaza travestito da donna, lasciando periodicamente i tunnel sotterranei per evitare di essere individuato.
Shalom Ben Hanan, ex alto funzionario dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno di Israele), ha spiegato che Sinwar non rimarrebbe nei tunnel per più di 24-36 ore, consapevole del fatto che la tecnologia moderna consente di individuarlo anche sottoterra. Questa tattica di continui spostamenti e camuffamenti sarebbe la sua risposta agli incessanti sforzi di Israele per catturarlo o eliminarlo.
I servizi segreti israeliani stanno attualmente combinando mezzi tecnologici e intelligence umana per cercare di localizzare Sinwar. Ritengono che si trovi spesso in luoghi visibili, mescolato alla popolazione civile, il che complica notevolmente le operazioni per neutralizzarlo.
In un articolo, il New York Times ha rivelato un’operazione segreta condotta dalle forze d’élite di Tsahal lo scorso gennaio. Questi commando si sono infiltrati nei tunnel nel sud della Striscia di Gaza nella speranza di catturare Yahya Sinwar. Tuttavia, il leader di Hamas sarebbe riuscito a fuggire poco prima dell’arrivo delle forze israeliane, svanendo nel nulla. Il quotidiano americano conclude con una nota critica: “La sua capacità di sfuggire alla cattura o alla morte ha impedito a Israele di ottenere un successo militare nella guerra”.
Solo tra qualche giorno potremo avere veramente l'idea di quanto forte sia stata la scoppola inferta da Israele a Hezbollah. Ma già da ora cambia tutto sul fronte nord.
Non credo in tutta onestà che ieri ci si sia resi conto delle reali dimensioni dell’attacco preventivo condotto da Israele contro Hezbollah. I caccia israeliani hanno sorpreso allo scoperto migliaia di lanciatori di ogni tipo, dai razzi katiuscia fino ai pachidermici lanciatori per i missili balistici Petah 110 che – nei piani di Hezbollah – insieme ai droni dovevano essere quella seconda ondata che avrebbe colpito i bersagli designati dopo che migliaia di razzi avevano saturato le difese israeliane. A Hezbollah sono rimasti circa 300 razzi da lanciare su Israele. Piccola curiosità, tra le poche cose che sono riusciti a colpire c’era un allevamento di polli, fatto questo che ha scatenato l’ilarità sui social, specie da parte araba, che ha prodotto una infinità di meme su “Nasrallah lo sterminatore di polli”. Il patetico discorso del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, andato in onda ieri sera sulla rete del gruppo terrorista nel quale affermava che l’attacco era stato un successo, è servito solo a confermare quanto grossa fosse stata la sberla ricevuta da Hezbollah. Parliamo della distruzione di migliaia di lanciatori con relativi equipaggi, anche se Hezbollah parla di soli tre morti. Una pioggia di bombe concentrata in poco tempo come non si era mai vista che non solo ha dimostrato l’efficienza dell’aviazione israeliana, ma soprattutto ha dimostrato la letalità della intelligence di Gerusalemme. Ora sul fronte nord cambia tutto. Anche se Nasrallah ha fatto capire che intende muoversi verso una de-escalation, Israele rimane fermo sul punto che Hezbollah si deve ritirare oltre la linea blu delimitata dal fiume Litani. Non solo, se i terroristi libanesi intendessero riprendere con lo stillicidio di razzi visto dall’8 ottobre ad oggi, si sbagliano di grosso. Israele intende far rientrare le migliaia di sfollati dai villaggi e kibbutz del nord il prima possibile. Il che vuol dire applicazione alla lettera e in tutte le sue componenti della risoluzione 1701 dell’ONU. Spetta a UNIFIL farla rispettare, diversamente lo farà Israele.
Carenze logistiche nell'IDF: un esercito sotto pressione nel bel mezzo del conflitto
La guerra in corso sta rivelando segni di carenze logistiche all'interno di Tsahal, l'esercito israeliano, sollevando preoccupazioni sulla sua capacità di sostenere le operazioni a lungo termine. Recenti rapporti indicano una carenza di uniformi di tipo B e di veicoli blindati usurati e fatiscenti. Mentre l'esercito sostiene di avere l'85% di controllo dei propri strumenti nelle unità di manovra e che la carenza di uniformi riguarda solo alcune unità, le testimonianze dei soldati sul campo dipingono un quadro molto più preoccupante.
I prolungati combattimenti a Gaza e nel nord di Israele hanno messo a dura prova le risorse dell'IDF. In molte unità, i soldati si trovano ad affrontare una “economia dei pezzi di ricambio”, in cui la gestione delle risorse sta diventando critica. Tra i problemi più urgenti c'è la mancanza di parabrezza per carri armati e veicoli blindati, essenziali per la sicurezza e l'efficacia delle operazioni militari. Nonostante le rassicurazioni dell'esercito sulla disponibilità di uniformi, molti soldati, in particolare quelli in addestramento, riferiscono di una grave carenza di uniformi B, che a volte li costringe a indossare abiti strappati a causa della mancanza di rifornimenti.
La situazione è aggravata dalle condizioni sul campo. I soldati impegnati in turni prolungati hanno difficoltà a cambiare le uniformi e alcuni sono costretti a combattere in veicoli blindati i cui sistemi essenziali, come l'aria condizionata, non funzionano più. Questi malfunzionamenti tecnici aggiungono ulteriore stress ai combattenti, che devono operare in condizioni già estremamente difficili.
Per far fronte a queste sfide, l'IDF ha introdotto una “economia di guerra” volta a dare priorità alla distribuzione dei pezzi di ricambio. Ad esempio, i motori ricondizionati vengono trasferiti in via prioritaria alle unità di manovra di Gaza e del nord, dove sono più urgentemente necessari. L'esercito ha anche abbassato il limite di chilometraggio per i veicoli RCM, cercando di rinnovare le attrezzature più vecchie per rafforzare la capacità di affrontare le minacce attuali.
Tuttavia, gli ufficiali militari riconoscono che queste misure non sono sufficienti a soddisfare completamente le esigenze logistiche. Un cessate il fuoco a Gaza potrebbe fornire un'opportunità cruciale per aumentare il livello di abilità degli strumenti e delle attrezzature dell'IDF, consentendo di effettuare riparazioni e ristrutturazioni essenziali dopo lunghi mesi di combattimenti. Questa tregua sarebbe fondamentale per ripristinare la piena capacità operativa dell'esercito israeliano e garantirne la prontezza per le sfide future.
In breve, la situazione logistica dell'IDF sottolinea le crescenti pressioni di un conflitto prolungato. Le attuali carenze, sebbene gestite in modo proattivo, rivelano la fragilità della catena di approvvigionamento militare in tempo di guerra. Il ritorno alla piena efficienza dipenderà non solo dalla fine delle ostilità, ma anche dalla capacità dell'IDF di ripristinare rapidamente le proprie risorse e di adattarsi a un ambiente sempre più complesso ed esigente.
(JForun, 26 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Torino celebra 600 anni di storia ebraica: città capofila della Giornata Europea della Cultura Ebraica 2024
Il 15 settembre, il capoluogo piemontese sarà al centro delle celebrazioni europee con un ricco programma di eventi dedicati al tema della famiglia, tra tradizione e dialogo interculturale
TORINO – Domenica 15 settembre 2024, Torino sarà il cuore pulsante della venticinquesima edizione della Giornata Europea della Cultura Ebraica#d22d14;">, un appuntamento che coinvolge 27 Paesi europei e ben 106 località italiane. La scelta del capoluogo piemontese come città capofila non è casuale: quest’anno ricorrono infatti i 600 anni dalla nascita della comunità ebraica torinese#d22d14;">, la cui presenza fu attestata per la prima volta nel 1424. Un anniversario che rende ancora più significativo l’evento, che verrà inaugurato simbolicamente a Torino alla presenza delle autorità locali e nazionali.
• UN EVENTO DI PORTATA INTERNAZIONALE Coordinata a livello europeo dall’AEPJ (European Association for the Preservation and Promotion of Jewish Culture and Heritage) e in Italia dall’UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane), la Giornata Europea della Cultura Ebraica è un’occasione per conoscere e apprezzare il patrimonio storico, architettonico e artistico ebraico, e riflettere sul contributo fondamentale che ebrei ed ebraismo hanno dato e continuano a dare alle società in cui vivono.
L’Italia si distingue come Paese leader dell’iniziativa, vantando la più ampia partecipazione e la maggiore diffusione territoriale in Europa. Questo successo è il frutto di una virtuosa collaborazione tra le Comunità Ebraiche, i Comuni, gli Enti locali e numerose associazioni, che ogni anno rendono possibile la realizzazione di un programma ricco e variegato.
• IL TEMA DEL 2024: LA FAMIGLIA Il tema prescelto per l’edizione 2024 è “la famiglia#d22d14;">“, un argomento che verrà declinato attraverso molteplici prospettive artistiche e culturali. Dalle appassionanti storie di famiglia narrate nella Bibbia alle famiglie ebraiche che hanno segnato la storia, la riflessione si allargherà alla concezione ebraica dell’educazione, fondata sulla continuità della tradizione e, al contempo, sulla valorizzazione dell’unicità di ogni individuo.
Inoltre, la Giornata offrirà l’opportunità di esplorare l’idea biblica e talmudica delle “famiglie della terra”, un concetto che afferma l’uguaglianza di ogni popolo e individuo, tutti figli di un unico Dio, e quindi meritevoli degli stessi diritti fondamentali di libertà, rispetto e solidarietà.
Questo approccio permetterà di collegare passato e presente, tradizioni e trasformazioni, affrontando temi cruciali per le famiglie contemporanee, come le questioni sociali, etiche e bioetiche. L’obiettivo è tracciare un punto di vista ebraico sulla famiglia, senza dimenticare la pluralità e diversità di tempi, geografie e interpretazioni.
• UN RICCO CALENDARIO DI EVENTI Il programma di Torino e delle altre città italiane partecipanti sarà costellato di eventi: conferenze, mostre, spettacoli, visite guidate e laboratori permetteranno ai visitatori di immergersi nella cultura ebraica, esplorando sia le sue radici storiche sia la sua influenza contemporanea.
Tra le iniziative di rilievo, spicca il progetto “Itinerari Culturali Ebraici in Emilia Romagna#d22d14;">”, realizzato dall’Enciclopedia Treccani in collaborazione con la Regione Emilia-Romagna. Questo progetto mira a valorizzare le località emiliane che partecipano alla Giornata, promuovendo la conoscenza del ricco patrimonio ebraico della regione.
• TORINO E LA SUA EREDITÀ EBRAICA Torino è stata scelta come città capofila anche per il ruolo centrale che la comunità ebraica ha rivestito nel tessuto sociale e culturale della città. Sin dal XV secolo, la presenza ebraica ha contribuito a plasmare l’identità del capoluogo piemontese, arricchendolo con un patrimonio culturale, architettonico e intellettuale di grande valore.
La Sinagoga di Torino#d22d14;">, situata nel cuore della città, è uno dei simboli di questa eredità, così come il Cimitero Monumentale Ebraico#d22d14;">, testimonianza della lunga storia della comunità. Durante la Giornata, questi luoghi saranno aperti al pubblico, offrendo l’occasione di scoprire storie, tradizioni e monumenti che raccontano secoli di vita ebraica a Torino.
• UN'OCCASIONE DI DIALOGO E INCONTRO La Giornata Europea della Cultura Ebraica si fonda sulla convinzione che la disponibilità a conoscere e riconoscere l’altro sia il principale strumento per contrastare vecchi e nuovi stereotipi. Attraverso la promozione del dialogo interculturale, l’evento rappresenta un’opportunità per rafforzare i legami tra le diverse comunità e per costruire una società più inclusiva e solidale.
Con la sua lunga storia e la sua ricchezza culturale, Torino sarà il palcoscenico ideale per questa giornata di celebrazione, riflessione e incontro, un’occasione unica per riscoprire il valore dell’identità ebraica e il suo ruolo cruciale nella nostra storia comune.
Johnson & Johnson acquista l’israeliana V-Wave per curare il cuore
È una delle “exit” meglio pagate nella storia delle startup israeliane. Il colosso farmaceutico Johnson & Johnson ha annunciato l’acquisto dell’israeliana V-Wave, specializzata nella produzione di apparecchi biomedici per il trattamento dell’insufficienza cardiaca e dell’ipertensione polmonare, per la cifra di 1,7 miliardi di dollari. Al centro dell’acquisizione c’è un piccolo impianto, frutto di oltre due decenni di ricerca. “Questa tecnologia aiuta a trattare i pazienti con insufficienza cardiaca riducendo la pressione nell’atrio sinistro, migliorando i sintomi clinici come la mancanza di respiro dei pazienti”, ha affermato Gadi Keren, l’ex direttore del dipartimento di cardiologia dell’ospedale Ichilov di Tel Aviv e sviluppatore del dispositivo. Come racconta la Tribune Juive, “la sua a messa a punto ha richiesto più di un decennio di ricerche, tra cui la sperimentazione animale conclusa nel 2013 e un primo impianto sull’uomo in Israele. Ciò che rende questo successo particolarmente notevole è l’impegnativo percorso normativo che V-Wave ha seguito:.la società ha preso la via di aiuto anticipato della Food & Drugs Administration degli Stati Uniti, nota per essere molto rigorosa per i dispositivi medici”.
Un bombardamento preventivo di Israele scongiura il massiccio attacco pianificato da Hezbollah
di Ugo Volli
• LA MINACCIA
Fiammata di guerra al Nord. Dopo più di tre settimane dall’eliminazione del suo numero due, Fouad Sukar, avvenuta a Beirut il 30 luglio, e l’annuncio continuamente ripetuto di una prossima “terribile vendetta”, il movimento terrorista Hezbollah ha provato a mantenere la minaccia. La notte scorsa ha messo in posizione di lancio molte migliaia di missili e centinaia di droni, che avevano per obiettivo le città di Israele e a quanto pare in particolare le sedi di Tel Aviv del comando dell’esercito e del Mossad. Israele però ha dimostrato ancora una volta di avere fonti di informazione in profondità nei comandi di Hezbollah e inoltre possiede avanzatissimi strumenti tecnologici di osservazione perennemente puntati sull’apparato terrorista in Libano. Ha quindi compreso perfettamente in anticipo la minaccia e ha reagito secondo piani ben predisposti in anticipo, da un lato allertando la popolazione civile e sospendendo per qualche ora le operazioni all’aeroporto Ben Gurion, dall’altro bombardando massicciamente le rampe di lancio di Hezbollah.
• L’AZIONE Come comunicano le fonti militari in Israele, circa cento jet da combattimento delle forze aeree israeliane si sono alzati all’alba e hanno colpito e distrutto migliaia di lanciarazzi di Hezbollah che si trovavano nel Libano meridionale. La maggior parte di questi lanciatori erano puntati verso il nord di Israele e alcuni verso il centro di Israele. Più di quaranta aree di lancio in Libano sono state colpite durante gli attacchi. Circa seimila razzi, droni e lanciatori che Hezbollah aveva pianificato di lanciare contro Israele sono stati distrutti. Si stima che Hezbollah sia riuscito finora a sparare in tutto 210 missili e una ventina di droni, senza provocare danni gravi o vittime. L’organizzazione terroristica ha affermato prima che erano attese ondate aggiuntive, poi ha sostenuto che Israele non era riuscito a impedire la sua vendetta, che ora era compiuta.
• LA DICHIARAZIONE DI NETANYAHU Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha aperto la riunione del gabinetto politico-di sicurezza nella sede dei comandi militari a Tel Aviv, facendo riferimento all’attacco preventivo. “Stamattina abbiamo identificato i preparativi di Hezbollah per attaccare Israele. In accordo con il ministro della Difesa e il capo di stato maggiore delle forze armate, abbiamo ordinato all’aeronautica di avviare un’azione per eliminare la minaccia”, ha detto Netanyahu. “Abbiamo intrapreso potenti azioni per sventare le minacce, eliminando migliaia di razzi che erano diretti verso il nord di Israele. Siamo determinati a fare tutto il possibile per difendere il nostro Paese, per far tornare i residenti del nord nelle loro case in sicurezza e per continuare a sostenere una semplice regola: chiunque ci faccia del male, noi gli faremo del male”.
• UNA VITTORIA SIGNIFICATIVA Riaperto l’aeroporto Ben Gurion, normalizzata la situazione nelle città, ritornati alla base gli aerei israeliani, questo scambio di colpi sembrerebbe concluso con una netta vittoria israeliana. L’incapacità di Hezbollah di portare danni in Israele, anche per rappresaglia a un colpo importante come l’uccisione di Sukar, va al di là delle più ottimistiche previsioni. Israele si è potuto difendere da solo, senza far ricorso all’aiuto delle forze americane nella regione e ha potuto mostrare l’efficacia e la legittimità della sua azione preventiva. Gli obiettivi colpiti sono esclusivamente militari e non dovrebbero poter essere usati nella campagna di delegittimazione contro lo stato ebraico – mostrando così anche la precisione tecnica delle armi israeliane e il livello elevato delle sue informazioni sul nemico. La propaganda di Hezbollah e dell’Iran sulla vendetta si è risolta in un’azione debole e fallimentare, che rafforza per contrasto il prestigio delle forze armate israeliane e la loro capacità di deterrenza.
• LE PROSPETTIVE Ci sono ora due possibilità per i nemici di Israele. O l’asse terrorista incassa una nuova sconfitta e non compie ulteriori azioni aggressive, o prova a reagire rilanciando la minaccia, il che porterebbe a un’escalation, fino alla guerra regionale da molti temuta. Per il momento i segnali vanno nella prima direzione. Israele dal canto suo non vuole che il conflitto si estenda, ma non può accettare che vaste aree della Galilea siano ancora sotto la minaccia continua di Hezbollah e quindi ha la necessità di colpire ancora le armi e l’organizzazione terroristica e di allontanarla dai propri confini. Continuerà quindi a colpire le strutture e le truppe, in particolare i comandanti del gruppo terrorista, ma probabilmente senza continuare il livello di intensità di oggi.
Non imitate i gentili, nella vanità della lor mente
di Marcello Cicchese
EFESINI, cap. 4:
Questo dico adunque, e protesto nel Signore, che voi non camminiate più come camminano ancora gli altri gentili, nella vanità della lor mente;
intenebrati nell'intelletto, alieni dalla vita di Dio, per l'ignoranza che è in loro, per l'induramento del cuor loro.
I quali, essendo divenuti insensibili ad ogni dolore, si sono abbandonati alla dissoluzione, da operare ogni immondizia, con insaziabile cupidità.
Ma voi non avete così imparato Cristo;
se pur l'avete udito, e siete stati in lui ammaestrati, secondo la verità che è in Gesù:
di spogliare, quant'è alla primiera condotta, l'uomo vecchio, il qual si corrompe nelle concupiscenze della seduzione;
e d'essere rinnovati per lo Spirito della vostra mente;
e d'esser vestiti dell'uomo nuovo, creato, secondo Iddio, in giustizia, e santità di verità.
La traduzione del testo qui riportato è tratta dalla Bibbia di Giovanni Diodati, che fino alla prima metà del secolo scorso era la traduzione largamente più usata nel mondo evangelico italiano. La usiamo qui non perché sia l’unica, autentica versione italiana ispirata, ma per volgere l’attenzione su termini ed espressioni ora poco usate, ma appunto per questo capaci di attirare l’attenzione sul loro significato. Chi vuole, può confrontare questo testo con quello ora più usato della Nuova Riveduta. Si può subito fissare l’attenzione sul termine adunque, da cui si capisce che le esortazioni morali che seguono vanno viste come una conseguenza della possente esposizione dottrinale che l’apostolo Paolo ha fatto nei capitoli precedenti. Paolo parla a persone che sono state ammaestrate secondo la verità che è in Gesù, dunque è una trattazione di moralità che procede dalla divina verità, non un moralismo generico prodotto da umana ideologia. Paolo si rivolge a chi conosce e ha accettato la verità esposta nei capitoli precedenti, ma il suo dire può essere utile anche a chi non li conosce ancora, perché chi è davvero in una posizione di ricerca, è bene che sappia subito qual è il gusto della verità esposta nella Bibbia. Perché se non è di suo gusto deve essere libero di rivolgersi altrove, senza però avere la libertà di evitarne le conseguenze. Risalta subito l’espressione altri gentili, che in altre edizioni è tradotta con “pagani”. E’ un’incertezza collegata al termine greco “etnos”. Chi sono gli “etnici” del Nuovo Testamento? Sono i generici non credenti in Gesù (pagani) o i non ebrei (gentili)? La domanda è tutt'altro che oziosa, perché da come si traduce possono scaturire diversi significati. In questo testo la Diodati traduce altri gentili, anche se il termine altri non compare nell'originale, ma è per sottolineare che si intendono i gentili altri, cioè quelli che essendosi convertiti a Cristo hanno preso le distanze dai costumi depravati dei loro simili che si rotolano in ogni immondizia, con insaziabile cupidità. Non è così che avete imparato Cristo, ricorda Paolo. I gentili infatti hanno dovuto imparare che esiste un Messia, perché non lo sapevano; gli ebrei invece lo sapevano, e anche se molti di loro non avevano riconosciuto in Gesù il Messia promesso dai profeti, sapevano perfettamente che la legge di Mosè non avrebbe mai approvato i costumi qui descritti dall'apostolo. Non avevano dunque bisogno di raccomandazioni così forti, proprio come oggi non è necessario raccomandare a ebrei ultraortodossi di non partecipare a
licenziose manifestazioni gay pride o a idolatrici festival psy-trance, perché lo sanno già, e infatti non vi partecipano. Anche se non credono in Gesù. Nelle
traduzioni si riconosce una linea di tendenza costante: più sono moderne, più si attenuano in esse i riferimenti all'ebraicità del testo. Il concreto si evolve in astratto e lo storico in universale. Ecco un esempio di traduzione molto moderna: "Vi prego, dunque, anzi vi scongiuro nel nome del Signore: non vivete più come quelli che non credono in Dio, con i loro pensieri vuoti e confusi!" Gli etnici sono diventati quelli che non credono in Dio e i dissoluti che si rotolano nell’immondizia sono
persone con pensieri vuoti e confusi, senza riferimento a storia e costumi.
Molto meglio si presenta la vecchia traduzione cattolica del Martini: "Questo adunque io dico, e vi scongiuro nel Signore, che non camminiate più, come camminano le nazioni nella vanità de' loro pensamenti". Qui gli etnici sono le nazioni, in chiara opposizione a ciò che sono gli ebrei. La distinzione tra ebrei e gentili, espressione della differenza tra Israele e le nazioni, si risolve nella realtà storica del Messia Gesù, ed è presente dall’inizio alla fine nella lettera agli Efesini. Valga per tutti un brano del capitolo 2, riportato appositamente nella versione Diodati:
Perciò, ricordatevi che già voi gentili nella carne, che siete chiamati incirconcisione da quella che è chiamata circoncisione nella carne, fatta con la mano;
in quel tempo eravate senza Cristo, alieni dalla cittadinanza d'Israele, e stranieri de' patti della promessa, non avendo speranza, ed essendo senza Dio nel mondo.
Ma ora, in Cristo Gesù, voi, che già eravate lontani, siete stati approssimati per il sangue di Cristo.
Perciocché egli è la nostra pace, il quale ha fatto de' due popoli uno; e avendo disfatta la parete di mezzo che facea la separazione,
ha nella sua carne annullata l'inimicizia, la legge de' comandamenti, posta in ordinamenti; acciocchè creasse in sé stesso i due in un uomo nuovo, facendo la pace;
e li riconciliasse amendue in un corpo a Dio, per la croce, avendo uccisa l'inimicizia in sè stesso.
Ed essendo venuto, ha evangelizzato pace a voi che eravate lontani, e a quelli che eran vicini.
Perciocché per esso abbiamo gli uni e gli altri introduzione al Padre, in uno Spirito.
Quelli che qui sono i gentili nella carne in altre traduzioni diventano gli stranieri di nascita, ma sono sempre i soliti etnici,
che secondo i casi sono presentati come stranieri o pagani, senza riferimento esplicito a ciò a cui si oppongono: gli ebrei come cittadini di Israele. Può sembrare una raffinatezza esegetica, ma la dissolvenza della distinzione tra ebrei e gentili nella lettura del Nuovo Testamento o, peggio ancora, il mescolamento confuso dei due termini, può alterare in modo serio la comprensione della persona di Gesù nella sua dimensione storica e salvifica.
Questo avviene in modo particolare nella spiegazione dei Vangeli, i testi più noti e più maltrattati del Nuovo Testamento; e in modo ancora più particolare nella spiegazione di quel testo estremamente sensibile che è il
Sermone sul Monte (Matteo cap. 5,6,7). Nel limitato contesto di questo articolo ci limitiamo a poche dichiarazioni schematiche sul Sermone sul Monte (SM):
Il SM è storia, non morale universale.
Il SM è storia di Israele, particolare nazione distinta dalle altre nazioni
Il SM è il discorso programmatico con cui il Messia di Israele si presenta al suo popolo.
I primi ascoltatori a cui Gesù rivolge il suo messaggio sono evidentemente cittadini di Israele. Il fatto che la storia del Messia sulla terra si sia conclusa con la sua morte, la sua risurrezione, la sua ascesa al cielo, con tutte le conseguenze eterne riportate nei testi del Nuovo Testamento, permette ai credenti di ogni
provenienza di ritornare su quel testo e riconoscervi, per l'azione dello Spirito Santo, la voce di Gesù che ora siede alla destra del Padre, ma questo non autorizza a cancellare Israele nella spiegazione storica di quelle parole. Prendiamo a esempio un passaggio molto caro ai credenti di ogni epoca:
Non siate dunque in ansia, dicendo: "Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo?" Perché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; ma il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più. Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno (Matteo 6:31-34, NR).
Anche qui compaiono i pagani. Chi sono? Il termine è sempre lo stesso: etnos, che in altri casi nella Nuova Riveduta viene tradotto con stranieri, che sostituisce quello che nella vecchia Riveduta era tradotto con gentili. Si noti: col passar del tempo la traduzione si allontana sempre più dal riferimento a Israele: i gentili diventano stranieri e questi in qualche caso diventano pagani.
I gentili invece ci sono ancora nella Nuova Diodati:
"Poiché sono i gentili quelli che cercano tutte queste cose; il Padre vostro celeste, infatti, sa che avete bisogno di tutte queste cose"; e in tre "antiche" traduzioni cattoliche; Ricciotti: "Sono i gentili che cercan tutto ciò, mentre il Padre vostro sa che n'avete bisogno";
Tintori: "Tutte queste cose preoccupano i gentili; or il Padre vostro sa che avete bisogno di tutto questo"; Martini: "Imperocché tali sono le cure de' gentili. Ora il vostro Padre sa, che di tutte queste cose avete bisogno".
La scelta di preferire in questo passaggio il termine pagani
nasconde il fatto che Gesù, rivolgendosi ai cittadini di Israele, abbia voluto dire di non imitare i gentili, cioè i non ebrei, che essendo senza speranza e senza Dio nel mondo, sono condannati a chiedersi con ansia: "Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo?"
Ai suoi connazionali Gesù ricorda che loro hanno un Padre celeste che si prende cura di chi lo conosce e lo teme, secondo la parola della Scrittura che hanno ricevuta: "Come un padre è pietoso verso i figli, così è pietoso il Signore verso quelli che lo temono" (Salmo 103:13). Ed è per questo che li invita a pregare: "Padre nostro, che sei nei cieli, ecc." (Matteo 6:9-13).
A ciò si aggiunge che l'esortazione a "cercare prima il regno e la giustizia di Dio" (Matteo 6:33) acquista il suo pieno significato all'interno della storia di Israele, che dunque in nessun caso può essere trascurata per far posto a generiche raccomandazioni di natura morale.
Nella lettera ai Romani la distinzione tra ebrei e gentili è presentata in termini di giudei e greci. La caratteristica negativa principale dei gentili, frutto di ignoranza e idolatria, è proprio la depravazione morale a cui Dio li ha abbandonati (Romani 1:24-31). La caratteristica negativa degli ebrei invece è diversa.
Paolo si rivolge al singolo giudeo per fargli notare che sì, è vero, lui ha ricevuto la legge di Dio, la conosce, la insegna, ma... non la osserva (Romani 2:17-24). Per concludere che "tutti, Giudei e Greci, sono sotto il peccato" (Romani 3:9), e tutti, indipendentemente dalla legge, possono essere giustificati da Dio stesso mediante la fede in Gesù Cristo (Romani 3:21-31).
CONSIDERAZIONI ATTUALI
• Ebrei e non ebrei Volendo trarre una prima impressione di carattere umano dalla distinzione fin qui fatta tra ebrei e gentili, non si direbbe che i primi si presentino più “cattivi” dei secondi. Uso appositamente questo termine poco teologico perché spesso quello che sottende a riflessioni apparentemente oggettive dei gentili sugli ebrei è proprio un viscerale sentimento di misurazione della cattiveria. Sono bravi, certo - si pensa - però prima o poi il loro carattere viene fuori: sono duri, vendicativi. Perché loro hanno la legge mosaica, la legge del taglione: vendetta, vendetta, vendetta. Oggi i gentili pensano di trovare una conferma in quello che sta avvenendo a Gaza: inorridiscono per quello che i palestinesi stanno subendo dagli ebrei a Gaza, ed emettono su di loro un severo giudizio accusatorio nel nome di una universale moralità a cui gli ebrei sembrano incapaci di arrivare. Attenzione, chi pensa così, o chi soltanto rumina così nel sottofondo della sua mente, considera gli ebrei una categoria umana inferiore, non in termini di biologia, ma di umana moralità. Questa base di antisemitismo morale potrebbe spiegare l’estensione, l’intensità e la gratuità dell’odio diffuso contro gli ebrei: perché sarebbero esseri moralmente deficitari da cui i “normali” umani si sentono minacciati.
Chiamo “antisemitismo teologico” questo tipo di odio sociale perché si ricollega a Dio e al suo Avversario. E’ la ragione per cui queste “considerazioni attuali” sono precedute da riflessioni di carattere biblico, anche perché da questo vago umore antisemita possono essere colpiti anche i cristiani. Anche i cristiani evangelici. Va detto allora che il Dio della Bibbia non presenta il suo popolo
come particolarmente malvagio,
se messo a
confronto con gli altri popoli. Israele è stato traditore, adultero, di collo duro, ribelle, ma rispetto a Dio, nel confronto con quella Parola che ha avuto l’onore di ricevere in esclusiva, ma non è più malvagio degli altri popoli. E’ vero il contrario. E questo è dovuto proprio al fatto di aver ricevuto e custodito, sia pur malamente, quella parola della legge che hanno ricevuta da Dio al Sinai. Quindi va detto una volta per tutte, in modo semplice e chiaro: gli ebrei non sono soltanto i più bravi tra gli uomini, sono anche i più buoni. Punto. Molti alzeranno le sopracciglia, ma i cristiani evangelici
che potrebbero avere su questo dubbi dottrinali possono essere rassicurati: nessuno va in paradiso per la sua bontà, nemmeno gli ebrei. I passi biblici commentati sopra sono lì a ricordarlo.
La dichiarazione dunque merita di essere spiegata e soppesata bene, ma in ogni caso va mantenuta. Con la stessa chiarezza e determinazione con cui altri insistono a dire che gli ebrei sono i più cattivi.
• Ebrei e altri ebrei. Dopo aver detto qualcosa sul dualismo ebrei-gentili in fatto di moralità, si può provare a dire qualcosa sul dualismo laici-religiosi che bolle nella pentola israeliana. Chi sono i più buoni? Candida domanda volutamente ingenua. In forma schematica presentiamo i due ideali campioni estremi intorno a cui si raccolgono, in varie graduazioni, i componenti dei due schieramenti: l'ultraortodosso e il laico integrale. Il primo fa dipendere la sua vita e quella della sua nazione dal Dio di Israele; il secondo esclude ogni dio dalla sua vita personale e vorrebbe vederlo escluso da Israele anche come nazione. Al campione ultraortodosso si potrebbe applicare quello che dice l'apostolo Paolo al giudeo:
Ecco, tu ti chiami Giudeo, ti fondi sulla legge e ti glori in Dio, conosci la sua volontà e distingui le cose importanti, essendo ammaestrato dalla legge, e sei convinto di essere guida di ciechi, luce di quelli che sono nelle tenebre, istruttore degli insensati, insegnante dei bambini, avendo la forma della conoscenza e della verità nella legge (Romani 2:17-20);
e chiedergli poi se le cose che dice di fare alla gloria di Dio, poi le fa davvero.
Ma il campione laico, a chi
potrebbe essere paragonato? Dice di non credere in Dio, o comunque di non far dipendere la sua vita da nessun eventuale dio. Dunque i laici, direbbe Paolo,
sono "senza speranza e senza Dio nel mondo" (Efesini 2:12), proprio come i gentili, di cui poco dopo dice che
"... camminano nella vanità della lor mente;
intenebrati nell'intelletto, alieni dalla vita di Dio, per l'ignoranza che è in loro, per l'induramento del cuor loro.
I quali, essendo divenuti insensibili ad ogni dolore, si sono abbandonati alla dissoluzione, da operare ogni immondizia, con insaziabile cupidità" (Efesini 4:17-19).
Dunque, se sul piano della condotta morale i religiosi corrono il rischio di inorgoglirsi, essere legalisti, imporre precetti asfissianti nel nome del Dio di Israele, sullo stesso piano morale i laici corrono il rischio di assomigliare tremendamente ai gentili nella vanità della lor mente, nella libertina dissolutezza, nella depravazione dei costumi nel nome del dio di questo mondo decaduto e corrotto. Sono rischi, non è detto che avvenga così, ma è serio chiederselo. Ma che dire dall’esterno? Che opinione avere di quello che avviene oggi in Israele, come gentile che storicamente ha imparato il Messia dagli ebrei? Dico allora che se proprio dovessi dire la mia, se fossi costretto a scegliere tra gli ortodossi che mi tirano le pietre se faccio il nome di Gesù davanti a loro e i laici che vogliono convincermi ad applaudire i gay pride e a partecipare ai festival psy-trance, sceglierei senza esitazione i primi.
Israele colpisce obiettivi iraniani e di Hezbollah in Siria
Il ministero della Difesa siriano ha accusato Israele di aver effettuato attacchi aerei su diversi siti nel centro del Paese nella notte di venerdì.
“Alle 19:35 circa (1635 GMT), il nemico israeliano ha lanciato un’aggressione aerea dalla direzione del Libano settentrionale, prendendo di mira diversi siti nella regione centrale”, ha dichiarato, aggiungendo che sette civili sono rimasti feriti.
Una fonte sul posto ha dichiarato che gli attacchi aerei israeliani in Siria, diretti contro le posizioni dell’esercito e del suo alleato libanese Hezbollah, hanno ucciso tre combattenti sostenuti dall’Iran.
“Gli attacchi israeliani hanno finora ucciso tre combattenti filo-iraniani e ne hanno feriti altri 10”, ha detto la fonte.
Sempre secondo la fonte gli attacchi hanno preso di mira “stazioni di rifornimento di fortuna affiliate a Hezbollah nella campagna di Homs, e hanno colpito depositi di armi appartenenti al gruppo e due siti dell’esercito siriano nella campagna di Hama”.
Dallo scoppio della guerra civile siriana nel 2011, Israele ha effettuato centinaia di attacchi nel Paese, colpendo principalmente l’esercito e i suoi alleati sostenuti dall’Iran.
I raid si sono intensificati dopo che l’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre ha scatenato la guerra a Gaza, poi si sono attenuati dopo che un attacco del 1° aprile, attribuito a Israele, ha colpito un edificio consolare iraniano a Damasco uccidendo due generali della Guardia rivoluzionaria.
Le tensioni sono tornate a salire dopo l’uccisione di due alti combattenti sostenuti dall’Iran il mese scorso, un fatto che ha scatenato minacce di rappresaglia da parte di Teheran e dei suoi alleati, che hanno incolpato Israele.
Le autorità israeliane raramente commentano i singoli attacchi in Siria, ma hanno ripetutamente affermato che non permetteranno all’Iran di espandere lì la propria presenza.
Ieri abbiamo parlato di Ephraim Kishon, notando con rammarico che di questo autore non si trovano libri tradotti in italiano. Anche nella speranza che un giorno si trovi qualcuno disposto a farlo, presentiamo qui la traduzione dal tedesco di un breve scorcio del libro “Drehen Sie sich um, Frau Lot!” (Si volti, signora Lot!).
La festa ebraica più gioiosa è Purim, che commemora il trionfo della regina Ester sul malvagio Haman. È l'unica volta nella nostra storia che un antisemita viene impiccato prima che avvenga il pogrom. Questo evento unico viene festeggiato dai nostri bambini facendo un enorme rumore, rivolto direttamente ai timpani dei genitori. I bambini possono fare tutto quello che vogliono a Purim. Si vestono da adulti, si comportano di conseguenza e causano molti spiacevoli incidenti.
Ricordo fin troppo bene una di queste tradizionali feste di carnevale con i bambini che invadono le strade. Un amore caldo, totalizzante e assolutamente globale per l'umanità si è acceso in me quando ho visto tanti vivaci monelli scatenarsi sotto il sole dorato. Il mio cuore batteva forte al pensiero che queste figure in filigrana dai costumi colorati sono tutti bambini ebrei che si godono la vita. Ogni tanto mi fermavo ad accarezzare i capelli di un piccolo sceriffo, a chiacchierare con un osservatore delle Nazioni Unite di tre anni o a salutare un pilota a forma di Pollicino. Sono rimasto particolarmente colpito da un piccolo poliziotto che, con la sua uniforme blu copiata nei minimi dettagli, aiutava i suoi colleghi adulti a controllare il traffico a un incrocio di Dizengoff Boulevard. Sono rimasto lì a guardarlo per minuti, affascinato.
Alla fine si gira verso di me: “Vada avanti, signore, vada avanti”, dice con faccia impassibile. “Perché? Mi piace molto stare qui!” e gli faccio l'occhiolino sorridendo. “Adonì (signore)! Non mi contraddica!” “Ora mi fai davvero paura. Vuoi imprigionarmi, vero?” Il poliziotto in miniatura arrossisce infastidito fino alle orecchie: “La sua carta d'identità, la sua carta d'identità!” cinguetta. “Eccola qui, tesoro. Serviti pure!” E gli porgo due biglietti del cinema che avevo trovato nella borsa. “Cosa diavolo dovrei fare con questi?” Ormai non ce la faccio più, lo prendo tra le mie braccia e gli chiedo dove abitano i suoi genitori per poterlo portare a casa quella sera. Ma il mio piccolo amico si offende; nemmeno la gomma da masticare che gli ho comprato da un ambulante lo calma. E quando gli pizzico le guance rosee, tira fuori un fischietto e lo fa suonare. Poco dopo arriva la macchina della polizia a sirene spiegate. Mi arrestano e mi portano alla stazione di polizia più vicina, dove sono messo in custodia per comportamento scorretto verso un funzionario in servizio. Il ragazzo era un vero poliziotto.
(Notizie su Israele, 24 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
"La lista di proscrizione". Il nuovo Pci scheda i sostenitori di Israele. Ci sono Funaro e Carrai
Sul suo sito il partito elenca persone e aziende ’amici’ dello Stato ebraico. La replica di Fdi: "Una incitazione razzista alla violenza inaccettabile". Il console onorario: "Questa ‘minaccia’ non fermerà il mio operato".
"La sinistra del (nuovo) Partito Comunista arriva a stilare liste di proscrizione contro ebrei e amici di Israele. Imprenditori, decine di giornalisti e politici di vari schieramenti, tra cui la senatrice di Fratelli d’Italia Ester Mieli, sono additati come i nemici contro cui scagliarsi. Una incitazione razzista alla violenza inaccettabile, con tanto di obiettivi in carne ed ossa identificati". Lo scrive sui social il responsabile Organizzazione di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli. Il riferimento è a un documento prodotto dal (nuovo) Partito Comunista dal titolo ’Sviluppare la denuncia e la lotta contro organismi e agenti sionisti in Italia’. Politici, giornalisti, intellettuali, imprenditori, manager e non solo. Il portale del nuovo Partito Comunista Italiano ha pubblicato una lista con i personaggi famosi italiani che hanno pubblicamente sostenuto Israele.
Tra i tanti nomi, come quelli di John Elkann, Ester Mieli, Gabriele Albertini, Claudio Lotito, alla voce "sionisti esponenti di partiti politici delle larghe intese o rappresentanti di fondazioni ed enti pubblici o associazioni attivi nel sostegno alle iniziative dello Stato sionista d’Israele", compare anche Sara Funaro. Poco sotto, al punto "società medico-sanitarie israeliane attive in Italia ed esponenti che dirigono, posseggono quote", c’è invece Marco Carrai.
La pubblicazione ha sollevato una condanna bipartisan. Con Donzelli che scrive: "Difenderò sempre il diritto di Israele di esistere in sicurezza e sarò sempre avversario di comunisti e antisemiti". Anche Carrai commenta l’accaduto: "Il nuovo Partito comunista italiano lancia liste di proscrizione per scatenare la caccia all’ebreo? È quello che sembra emergere con evidenza da un loro comunicato dove invitano a ‘sviluppare la denuncia e la lotta contro organismi e agenti sionisti in Italia’ e fanno un lungo elenco di persone, tra cui giornalisti, politici, imprenditori, e di società a vario titolo legate ad Israele e che secondo gli estensori sarebbero prova che ‘entità sionista è parte integrante del sistema di potere della Repubblica Pontificia".
E ancora: "Essere inseriti in questo elenco - continua Carrai - conferma la necessità delle battaglie che da sempre porto avanti e certo questa ‘minaccia’ non fermeranno il mio operato".
Dura anche la critica del Pd: "È l’ennesimo episodio di una lunga serie di atti antisemiti che ci riportano a tempi molto bui della storia dell’Europa. Solidarietà alle persone e alle organizzazioni coinvolte. Presenteremo una interrogazione alla Camera (tra i firmatari il deputato dem Federico Gianassi), al Senato e al Parlamento europeo per chiedere tutela per le persone coinvolte e per avere certezza che il ministero dell’Interno stia agendo immediatamente e con fermezza per perseguire i responsabili di quella lista e per arginare i crescenti fenomeni di antisemitismo", commentano i dem Ascani, Carè, De Luca, Fassino, Stefano Graziano, Guerini, Madia, Porta, Provenzano, Quartapelle, Alfieri, Camusso, Crisanti, Franceschini, Giacobbe, Malpezzi, Sensi, Zampa, Picierno.
Enzo Sereni, partigiano anti-nazista che scelse Israele
Ottant’anni fa moriva, ucciso a Dachau, l’intellettuale romano. Fondò un kibbutz nella Palestina mandataria ma volle tornare in Europa per combattere il Reich
Le baracche nel lager nel quartiere di Gries-San Quirino, a Bolzano, erano ancora in fase di allestimento quando Samuel Barda vi arrivò il 25 agosto 1944. Quella data segnò per Enzo Sereni, questo il vero nome di Barda, l’inizio della fine: di lì a poco venne trasferito in un luogo per lui del tutto sconosciuto, Dachau. Le torrette del campo che si delinearono all’orizzonte apparvero spaventose ai prigionieri. «Il capo-lager venne con un elenco e chiamò Barda, capitano paracadutista inglese», racconta un sopravvissuto. «Cominciò a sferrargli pugni sulla faccia e questo capitano, alto un metro e 55, non si mosse, rimase sull’attenti imperterrito come se gli facessero delle carezze». Il 17 novembre 1944 al “capitano” fu ordinato di cambiare cella, avvertendolo di non portare con sé la propria coperta perché ne potesse usufruire il nuovo inquilino. Il giorno successivo venne fucilato. Ricorrono adesso gli 80 anni dalla scomparsa dell’antifascista catturato dai nazisti della Todt nei pressi di Lucca dopo che si era lanciato dall’aereo. Enzo, che aveva trascorso tanti anni all’estero, ora voleva dar man forte alla Resistenza: Sereni-Barda fu uno dei primi ebrei italiani a trasferirsi in Palestina e a dar vita al kibbutz Givat Brenner. Era un intellettuale, un agente segreto, un pacifista intransigente e divenne un pioniere del sionismo socialista. L’esperienza di Sereni fu unica nella storia della lotta al nazifascismo. Forse anche per questo oggi il suo nome non occupa il posto che merita nelle pagine di storia. Come i suoi fratelli, Enrico e il più noto Emilio, antifascista e futuro senatore comunista, Enzo era nato a Roma in una famiglia borghese. Suo padre era il medico di Vittorio Emanuele III e suo zio Angelo era presidente della comunità ebraica romana. Appena il regime si insediò al potere Enzo, ancora studente, intuì che l’aria stava diventando mefitica per chi teneva alla libertà. Laureato in filosofia, con gli amici Carlo e Nello Rosselli cominciò a coltivare il sogno di una “democrazia agraria” da realizzare in Palestina. Dopo la promessa di Lord Balfour di dare vita a un “focolare ebraico” e di destinare parte del territorio palestinese agli insediamenti ebraici, Enzo riteneva che fosse necessario rimediare «all’ingiustizia perpetrata nei confronti dei fratelli arabi». Era un socialista riformista e pensava che incentivando lo sviluppo economico si sarebbero realizzate nuove forme di convivenza tra arabi ed ebrei. Addio dunque ai dotti studi e ai libri: poco più che ventenne, con la giovane moglie Ada Ascarelli si trasferì in Erétz Yisra’él. Secondo lui in Palestina non c’era bisogno della speculazione filosofica ma del lavoro manuale. Si impiegò in un agrumeto e diede vita al primo kibbutz italiano.Al lavoro di bracciante rinunciò quando Hitler si insediò alla Cancelleria del Reich: l’Agenzia ebraica lo mandò in missione speciale in Europa. Eccolo per circa una decina di anni in viaggio senza sosta da Parigi a Danzica, da Praga a Vienna ad Amsterdam e poi anche in America. Contrabbandava passaporti falsi e valuta; riuscì a portare in salvo migliaia di ebrei, in particolare molti giovani. Nel 1939 Enzo ritornò nella capitale e ottenne dai correligionari romani informazioni riservate sulle forze armate del Duce che poi trasmise agli inglesi. Mise anche in guardia gli ebrei capitolini, avvertendoli che dovevano lasciare il paese al più presto. Nessuno gli credette: dopo i primi provvedimenti razziali, gli venne detto, le acque sembravano essersi calmate e la popolazione era solidale con gli ebrei. Quando iniziò la guerra Enzo fu costretto a una nuova rinuncia, mise in cantina l’utopia pacifista, si arruolò nella British Army. In Egitto si occupò dei prigionieri di guerra italiani e antifascisti. In Iraq aiutò altri ebrei nella fuga. Dopo il rastrellamento da parte dei nazisti del ghetto di Roma prese la decisione che segnò la sua vita. L’Italia ora era occupata dai tedeschi e aveva bisogno di lui. Sua moglie, i suoi superiori in Palestina e anche gli ufficiali inglesi cercarono di dissuaderlo. Non poteva paracadutarsi: in quanto quarantenne era considerato troppo avanti con l’età, ma lo fece comunque. Il compagno di volo che si lanciò con lui il 5 maggio del 1944 ricorda di aver sentito nella notte il richiamo del suo fischietto di salvataggio. Barda fu catturato, condotto a Verona e rinchiuso nei sotterranei. Poi il suo destino fu deciso in Germania. Sparì nel nulla. La moglie non ebbe più notizie. Quando Ada rientrò nella Penisola, alla fine della guerra, divenne agente del Mossad, organizzò le spedizioni che portarono dall’Italia in Israele migliaia di ebrei con il tacito assenso del presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi (a lei è stata dedicata la miniserie tivù Exodus. Il sogno di Ada). Finalmente trovò a Dachau la scheda di Enzo: “Schmuil”, non c’era nemmeno il vero nome. Lo avevano ammazzato ignorando la sua identità. In un certo senso è rimasto senza una precisa identità anche nel Dopoguerra: a differenza di suo fratello Emilio, la cui lotta antifascista è stata sempre giustamente riconosciuta e valorizzata dal partito comunista con convegni, opere, scuole e strade a lui intestate, Enzo è stato trascurato dalla memoria collettiva. Era un combattente solitario e per la sua avventurosa solitudine, per il pionieristico coraggio, merita di essere riscoperto e ricordato. In questo momento storico, per il tenace pacifismo, per la critica al fascismo e al razzismo, per la predicazione della convivenza tra arabi e israeliani, la sua figura è più attuale che mai. Può diventare un simbolo nei nostri tempi di acuti conflitti.
(la Repubblica, 23 agosto 2024)
Il prossimo capo della Direzione dell’Intelligence militare, il Magg. Gen. Shlomi Binder, chiede di concentrare gli sforzi sulla missione “urgente” di restituire gli ostaggi Il Magg. Gen. Aharon Haliva, nel suo ultimo discorso come capo della Direzione dell’Intelligence Militare, ha affermato mercoledì di essere responsabile per non aver dato un avvertimento prima dell’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre. Nel suo discorso di dimissioni, ha lasciato intendere che si aspetta che anche altri ufficiali si assumano la responsabilità delle loro mancanze e ha chiesto una commissione d’inchiesta statale sulle mancanze che hanno portato alla guerra.“Quel sabato non abbiamo portato a termine la missione più importante che ci è stata affidata, quella di fornire un preavviso di guerra”, ha detto durante una cerimonia di consegna alla base Glilot, vicino alla città centrale di Herzliya, che ospita alcune unità del Direttorato. “La responsabilità dei fallimenti della Direzione dei servizi segreti militari ricade su di me”, ha detto Haliva. Ad aprile Haliva aveva dichiarato che avrebbe lasciato l’IDF per il suo coinvolgimento nei fallimenti che hanno portato all’attacco del 7 ottobre guidato da Hamas. Lo sostituirà il Magg. Gen. Shlomi Binder, ex comandante della Divisione Operazioni dell’IDF.
“La responsabilità e l’esempio personale sono un valore fondamentale dell’IDF e della leadership in generale. L’assunzione di responsabilità non è fatta di parole, ma di azioni. La mia decisione di porre fine al mio ruolo e di dimettermi dall’IDF è la norma a cui sono stato educato… è ciò che ci si aspetta da chi marcia in avanti e da chi carica al fronte”, ha detto. Haliva ha anche chiesto di istituire una commissione d’inchiesta statale su “tutti gli aspetti che hanno portato alla guerra, in modo che ciò che è accaduto a noi non si ripeta mai più”. Le ripetute richieste di una revisione indipendente del 7 ottobre sono state respinte dai leader del governo, che a quanto pare temevano di essere criticati, insistendo sul fatto che le indagini devono attendere la fine della guerra contro Hamas. Il nuovo capo della Direzione dell’Intelligence militare, Binder, ha detto durante la cerimonia che Israele deve dedicare i suoi sforzi di intelligence alla restituzione degli ostaggi detenuti da Hamas nella Striscia di Gaza, mentre si prepara a un’escalation con Hezbollah in Libano. “Siamo nel mezzo di una guerra giusta, una guerra dura e lunga, che può espandersi, e continueremo a impegnarci per raggiungere i suoi obiettivi. Dobbiamo dedicare i nostri sforzi alla restituzione di 109 ostaggi nella Striscia di Gaza. È una missione nazionale, etica, di estrema importanza e urgente”, ha detto.“Dobbiamo continuare ad aumentare la nostra preparazione per la campagna che si sta espandendo nel nord, e costruire un buon quadro di intelligence per la difesa e l’attacco, e per le arene più lontane, come questa direzione ha dimostrato di recente”, ha continuato Binder. Oltre a combattere e a prepararsi all’escalation, Binder ha detto che la Direzione dell’Intelligence dovrà anche indagare su se stessa, fare ammenda e migliorare dai propri errori.“Dove abbiamo fallito, dovremo indagare e migliorare; dove abbiamo commesso errori, impareremo e cambieremo; dove sono state aperte fratture, per quanto grandi siano, insisteremo per ripararle e ci pentiremo”, ha detto. “Il popolo israeliano non ha un altro Paese, lo Stato di Israele non ha un’altra IDF e l’IDF non ha un’altra Direzione dell’Intelligence”, ha aggiunto Binder. La nomina di Binder a questo ruolo è stata vista come controversa, in quanto in precedenza era a capo della Divisione Operazioni della Direzione Operazioni – e potrebbe essere stato coinvolto in fallimenti legati al 7 ottobre. Haliva è il primo alto ufficiale dell’IDF a dimettersi per l’attacco del 7 ottobre. (Un altro generale di alto livello dell’intelligence, che aveva intenzione di dimettersi a causa dell’attacco, si è dimesso dopo che gli era stato diagnosticato un cancro). A giugno, il Brig. Gen. Avi Rosenfeld, capo della Divisione Gaza, ha annunciato le sue dimissioni per l’attacco del 7 ottobre. Nelle prossime settimane sarà sostituito dal brig. gen. Barak Hiram, ex capo della 99a divisione. Altri alti ufficiali della difesa hanno dichiarato di essere responsabili dell’invasione mortale compiuta da Hamas il 7 ottobre, tra cui il capo dell’agenzia di sicurezza Shin Bet e il capo di stato maggiore dell’IDF. Nessuno di loro ha ancora annunciato l’intenzione di dimettersi, anche se si prevede che molti lo faranno una volta che la situazione della sicurezza si sarà stabilizzata. Tuttavia, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e la maggior parte dei membri del suo governo hanno ripetutamente rifiutato di assumersi la responsabilità del loro ruolo nella serie di fallimenti strategici e operativi che hanno portato all’assalto di Hamas, insistendo sul fatto che la questione della loro responsabilità sarà affrontata solo dopo la guerra. Circa 3.000 terroristi guidati da Hamas hanno fatto irruzione dalla Striscia di Gaza nel sud di Israele il 7 ottobre, compiendo una furia omicida di intensità e ampiezza senza precedenti. L’IDF ha faticato a organizzare una risposta, con le basi più vicine al confine invase e la catena di comando apparentemente interrotta nel caos. L’assalto ha causato la morte di circa 1.200 persone in Israele, con altre 251 persone rapite e gran parte dell’area devastata. La maggior parte delle vittime erano civili.
(Israele 360, 22 agosto 2024)
Trovati esplosivi in sacchi contrassegnati Unrwa a Rafah
GERUSALEMME - Le Forze di difesa di Israele (Idf) hanno affermato di aver trovato degli esplosivi in sacchi contrassegnati Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) durante la perquisizione di un edificio nei pressi in una scuola nel quartiere Tel Sultan di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza. Nel corso dell’operazione, hanno spiegato le forze israeliane, il 50mo battaglione della Brigata Nahal ha inoltre trovato “armi, giubbotti militari e documenti dell’intelligence nemica”. Nella zona di Tel Sultan, le forze appartenenti alla 162ma Divisione delle Idf hanno diretto negli ultimi giorni attacchi aerei “contro terroristi armati e siti terroristici”.
Un medico del Soroka Medical Center di Beer Sheba è stato arrestato con l’accusa di aver giurato fedeltà all’ISIS ed è stato formalmente incriminato, come riferito giovedì dalla polizia israeliana. In un’operazione congiunta tra la polizia e lo Shin Bet, Muhammad Azzam, 34 anni, residente a Beer Sheba e originario di Nazareth, è stato tratto in arresto.
Secondo il Ministero della Giustizia, Azzam leggeva online contenuti estremisti affiliati all’ISIS dal 2014. A seguito delle indagini, l’8 agosto la Procura distrettuale meridionale ha depositato un atto d’accusa contro di lui. Nell’atto d’accusa, presentato dall’avvocato Hofit Kantorovich, si evidenzia che sul telefono del medico sono stati trovati numerosi file multimediali, tra cui video di esecuzioni, decapitazioni e corpi mutilati. Inoltre, sono state rinvenute cartelle intitolate “Materiali esplosivi” e “Preparazione di veleni”, oltre ad altro materiale sospetto.
Secondo l’accusa, Azzam avrebbe deciso di unirsi ufficialmente all’ISIS e giurato fedeltà ad Abu Hafs al-Hajri al-Qurashi, il nuovo califfo dell’organizzazione, dopo il 7 ottobre. Dopo il massacro compiuto da Hamas, il medico avrebbe inviato video delle atrocità ai suoi amici con toni di scherno e soddisfazione.
Azzam resterà in custodia fino alla conclusione di tutti i procedimenti legali, come richiesto dall’accusa. La richiesta di detenzione ha sottolineato che il suo comportamento rappresenta un pericolo per la collettività, soprattutto considerando il suo ruolo di medico in un ospedale.
“L’amministrazione dell’ospedale prende molto seriamente le accuse e ne è scioccata”, ha dichiarato il Soroka Medical Center in un comunicato, secondo quanto riportato da Maariv. “Il caso è in fase di indagine e gestione da parte delle autorità legali competenti e siamo fiduciosi nella loro gestione della questione”, ha commentato.
Quando giocava a “poker ebraico” con il suo amico Jossele, si giocava senza carte: il primo pensava a un numero e lo diceva ad alta voce, poi l'altro annunciava il numero che aveva pensato e se era più alto di quello dell'altro, il secondo aveva vinto. Non sorprende che il satirico israeliano Ephraim Kishon vincesse sempre in questo gioco contro Jossele.
Indimenticabile è anche la storia del Blaumilchkanal (Canale del latte blu), che lo stesso Kishon trasformò in film nel 1969: in essa, un uomo fuggito da un manicomio pratica un buco nella strada del centro di Tel Aviv con un martello pneumatico senza alcun motivo; ma nessuno lo ferma, anzi ottiene il sostegno non solo della polizia, ma di tutte le autorità della città.
Ephraim Kishon è stato uno degli autori israeliani più conosciuti in Germania e uno dei satirici di maggior successo del XX secolo. I suoi racconti, le sue opere teatrali e le sue sceneggiature erano per lo più pungenti nei confronti delle autorità e dell'establishment, ma avevano anche una visione affettuosa delle eccentricità degli abitanti dell'Israele moderno. Gli oltre 50 libri di Kishon sono stati tradotti in 37 lingue, con 43 milioni di copie stampate in tutto il mondo. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio Israele per il lavoro di una vita nel 2002 e il Premio tedesco Münchhausen per la satira nel 2001.
• FUGA DA UN CAMPO DI CONCENTRAMENTO Kishon è nato il 23 agosto 1924 a Budapest, nella capitale ungherese, da una famiglia ebrea laica. Il padre era direttore di banca, la madre segretaria. La famiglia non era religiosa.
All'età di 17 anni vince il premio nazionale per il miglior racconto. Dopo aver lasciato la scuola nel 1941, non potendo studiare a causa delle leggi ebraiche, iniziò un apprendistato come orafo. Tre anni dopo fu deportato e internato in vari campi di lavoro.
Riuscì a fuggire durante il trasporto in un campo di concentramento in Polonia. Assunse l'identità di un operaio slovacco non ebreo e il nome di Stanko Andras. La maggior parte della sua famiglia morì nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau. Solo i suoi genitori e sua sorella Agnes sopravvissero alla persecuzione degli ebrei. Nella sua autobiografia Nichts zu lachen. Memorie (Non c’è niente da ridere. Memorie) , pubblicata in tedesco nel 1993, Kishon racconta la sua vita quasi incredibile.
Kishon ha studiato storia dell'arte e scultura a Budapest. Ha cambiato il suo cognome in Kishont. A sua insaputa, una zia inviò la satira di Kishon sulle teste calve al concorso nazionale per romanzi organizzato dal principale giornale letterario ungherese nel 1948. Vinse il primo premio e divenne membro della redazione del giornale satirico “Ludas Matyi”.
• LASCIARE L'UNGHERIA A CAUSA DEI COMUNISTI Kishon e la sua prima moglie Eva decisero di lasciare l'Ungheria a causa dei comunisti. Nel 1949 giunsero in Israele su una nave di rifugiati. Un ufficiale dell'immigrazione gli diede il nome di Ephraim Kishon. Il suo primo libro, una raccolta di racconti umoristici, fu pubblicato con il titolo Der Neueinwanderer, der uns auf die Nerven geht (Il nuovo immigrato che ci dà ai nervi). Dal 1952, con lo pseudonimo di “Chad Gadja” (agnellino), scrive una rubrica quotidiana per il più importante quotidiano israeliano “Ma'ariv” - per oltre 30 anni.
La sua carriera internazionale inizia nel 1959: il “New York Times” sceglie la sua raccolta satirica “Turn around, Mrs Lot” come libro del mese. Inoltre, fonda il teatro “The Green Onion” a Tel Aviv.
Nello stesso anno, l'ormai divorziato Kishon sposò la pianista Sara Lipovitz - quella che nei suoi libri è “la moglie migliore di tutte”. Nei decenni successivi scrisse opere teatrali, radiofoniche e satire. Lavorò anche come regista.
Kishon aveva un grande pubblico soprattutto in Germania: solo in tedesco sono stati pubblicati 32 milioni di suoi libri. In Israele, nel 1968, il suo libro sulla Guerra dei Sei Giorni - Pardon, wir haben gewonnen (Pardon, abbiamo vinto) - ha suscitato grandi critiche. Alcuni media vi videro tendenze nazionaliste. Tuttavia, nel 2002 ha ricevuto il Premio Israele per il lavoro culturale svolto nel corso della sua vita, dalle mani del Ministro dell'Istruzione Limor Livnat.
Nella primavera del 2002, Sara Kishon muore di cancro. Un anno dopo, Ephraim Kishon sposò Lisa Witasek, una scrittrice viennese di 32 anni più giovane. Negli ultimi anni, Kishon visse alternativamente a Tel Aviv e nella casa che aveva acquistato ad Appenzell (Svizzera) nel 1981. Kishon ha lasciato tre figli: il figlio maggiore Rafi è veterinario, il figlio Amir vive a New York, la figlia Renana a Tel Aviv. Il figlio di Kishon, Rafi, mantiene vivo il ricordo del padre, tra l'altro con letture dei suoi libri in tedesco.
• AUTORE ISRAELIANO PARTICOLARMENTE APPREZZATO DAI TEDESCHI Dalla sua morte nel 2005, lo studio di Ephraim Kishon a Tel Aviv è rimasto intatto. La studiosa tedesca di letteratura Birgit Körner ha avuto il permesso di rovistarlo e recentemente ha scritto un libro su Kishon. Il titolo è: Israelische Satiren für ein westdeutsches Publikum. Ephraim Kishon, Friedrich Torberg und die Konstruktionen ‚jüdischen Humors‘ nach der Schoah (Satire israeliane per un pubblico tedesco occidentale. Ephraim Kishon, Friedrich Torberg e le costruzioni di 'umorismo ebraico' dopo la Shoah).
L'autrice ricorda, ad esempio, che Kishon non ha mai affrontato nei suoi racconti la storia oscura che legava Germania ed ebraismo. Ma era anche capace di essere politico. Nel racconto Wie Israel sich die Sympathien der Welt verscherzte (Come Israele si è giocata la simpatia del mondo) del 1963, scrive di come gli Stati arabi stiano distruggendo Israele; la comunità internazionale non può impedire che lo Stato ebraico venga spazzato via otto anni dopo la sua fondazione e dieci anni dopo la Shoah.
Recentemente è stata pubblicata la biografia Ephraim Kishon. Ein Leben für den Humor (Ephraim Kishon. Una vita per l'umorismo) di Silja Behre. L'autrice esplora, tra l'altro, la questione del perché i tedeschi abbiano amato così tanto questo autore israeliano. Per lui, l'entusiasmo dei tedeschi per le sue satire era una fonte di soddisfazione - e un'ironia della storia, scrive l'autrice.
(Israelnetz, 23 agosto 2024)
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Ephraim Kishon, una perla nascosta di Israele
di Marcello Cicchese
Per perfezionare il mio tedesco, anni fa ho letto molti libri di Ephraim Kishon. Ed è stata una buona scelta, perché per tradurre la fine ironia di scrittori umoristici è necessario avere una grande padronanza di entrambe le lingue, saperne godere e riprodurre la musicalità. Nell’impossibilità di gustare le finezze dello stile ebraico, ho spesso goduto di quello che riusciva a fare il traduttore tedesco. Ricordo le stranezze del matto di Blaumilchkanal che, uno scavo dopo l’altro, convince i funzionari a scavare un lunghissimo canale che piano piano arriva fino al mare. Per arrivare infine a scoprire che non serve assolutamente a niente. Una irridente stoccata alle autorità preposte.
In un altro caso, si vede un impiegato statale che pratica la corruzione come dovere di ufficio, ma alla fine è stanco e vorrebbe smettere, ma non può.Chiede ai superiori di poter rinunciare a guadagni illeciti; è perfino disposto ad essere abbassato di stipendio, ma è impossibile: il sistema richiede che tutti continuinocosì. Smettere di rubare non è possibile. E anche qui c’è un sorridente accenno a pratiche presenti in tutto il mondo,che anche Israele non ha voluto farsi mancare.
In Pardon, wir haben gewonnen, il contestato libro scritto dopo la guerra dei sei giorni, l’autore riferisce che in quei giorni di aspro combattimento il suo bambino (7/8 anni) aveva deciso di praticare austere forme di rinuncia personale in solidarietà con i soldati in guerra. Tra queste, aveva deciso di non farsi tagliare più i capelli. L’autore allora descrive, con fine ironia, le difficili argomentazioni militari che ha dovuto trovare per far desistere suo figlio da questo nobile proposito.
Si può dire che Ephraim Kishon è in Israele quello che Giovannino Guareschi è in Italia. Anche i suoi libri, come quelli di Guareschi, sono stati tradotti in moltissime lingue.Anche lui, come Guareschi, è stato considerato uno scrittore di destra, e dunque, poiché in molte parti del mondo occidentale in fatto di cultura è la sinistra che comanda, anche lui, come Guareschi, è stato boicottato in patria.
Kishon avrebbe potuto essere una perla per Israele, da presentare con vanto al mondo, e invece si è preferito, soprattutto in Italia, tradurre romanzieri “di grido” come Abraham Yehoshua, Amos Oz, David Grossmann, che hanno il grande vantaggio di piacere al mondo perché “criticano” Israele. Non è il valore dei loro romanzi che qui si discute, ma il posto che hanno voluto occupare gli autori in rapporto al loro paese. Non si discute il valore letterario delle loro opere, ma anche senza averle lette si può dubitare cheavrebbero avuto lo stesso successo se gli autori non fossero stati israeliani che criticano Israele. Ho letto soltanto il romanzo “Giuda” di Amos Oz, e sinceramente non mi è parso che i suo tentativo di imitare Dostoevskij sia riuscito. E non intendo procedere oltre in altre letture.
Resta ancora una domanda: perché Ephraim Kishon ha avuto tanto successo in Germania e così poco, per non dire nulla, in Italia? Si troverà un giorno anche in Italia un ebreo bilingue che sappia rendere in italiano le leggerezze umoristiche della lingua ebraica di Kishon? Sarei il primo a leggerle, e a farne propaganda. Le pesantezze di monumenti letterari come quelli sopracitati sono fin troppe: da Israele si vorrebbe veder arrivare aria nuova. M.C.
Parashat Ekev. Solo la fede può salvare una società dal declino e dalla caduta
Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Qual è la vera sfida per mantenere una società libera? Nella parashà di Ekev, Mosè ha in serbo per noi una grande sorpresa. Ecco le sue parole: State attenti a non dimenticare il Signore vostro Dio… Altrimenti, quando mangerete e sarete sazi, quando costruirete belle case e vi ci stabilirete, e quando le vostre mandrie e i vostri greggi diventeranno grandi e il vostro argento e il vostro oro aumenteranno e tutto ciò che avete si moltiplicherà, allora il vostro cuore si inorgoglirà e dimenticherete il Signore vostro Dio, che vi ha fatto uscire dall’Egitto, dal paese della schiavitù… Potresti dire a te stesso: “La mia potenza e la forza delle mie mani hanno prodotto questa ricchezza per me”. … Se mai dimenticherai il Signore tuo Dio… io testimonio oggi contro di te che sarai sicuramente distrutto”. (Deuteronomio 8:11-19) Ciò che Mosè stava dicendo alla nuova generazione era questo: “Pensavate che i quarant’anni di vagabondaggio nel deserto fossero la vera sfida e che una volta conquistata e colonizzata la terra, i vostri problemi sarebbero finiti. La verità è che in quel momento inizierà la vera sfida. Sarà proprio quando tutti i vostri bisogni fisici saranno soddisfatti – quando avrete terra e sovranità, ricchi raccolti e case sicure – che inizierà la vostra prova spirituale. La vera sfida non è la povertà ma l’agiatezza, non l’insicurezza ma la sicurezza, non la schiavitù ma la libertà. Mosè, per la prima volta nella storia, stava accennando a una legge della storia. Molti secoli dopo è stata articolata dal grande pensatore islamico del XIV secolo, Ibn Khaldun (1332-1406), dal filosofo politico italiano Giambattista Vico (1668-1744) e, più recentemente, dallo storico di Harvard Niall Ferguson (1964-…). Mosè stava raccontando il declino e la caduta delle civiltà. Ibn Khaldun sosteneva in modo simile che quando una civiltà diventa grande, le sue élite si abituano al lusso e alle comodità e il popolo nel suo complesso perde quella che lui chiamava asabiyah, la solidarietà sociale. Il popolo diventa quindi preda di un nemico conquistatore, meno civilizzato di lui ma più coeso e motivato. Vico ha descritto un ciclo simile: “Gli uomini dapprima avvertono ciò che è necessario, poi considerano ciò che è utile, quindi si occupano delle comodità, poi si dilettano dei piaceri, presto diventano dissoluti nel lusso e infine impazziscono sperperando i loro beni”. Bertrand Russell (1872-1970) lo dice con forza nell’introduzione alla sua Storia della filosofia occidentale. Egli pensava che le due grandi vette della civiltà fossero state raggiunte nell’antica Grecia e nell’Italia rinascimentale. Ma era abbastanza onesto da vedere che proprio le caratteristiche che le avevano rese grandi contenevano i semi della loro stessa fine: Ciò che era accaduto nella grande età greca si ripeté nell’Italia rinascimentale: i tradizionali vincoli morali scomparvero, perché considerati associati alla superstizione; la liberazione dalle catene rese gli individui energici e creativi, producendo una rara fluorescenza del genio; ma l’anarchia e il tradimento che inevitabilmente derivarono dal decadimento della morale resero gli italiani collettivamente impotenti e caddero, come i greci, sotto il dominio di nazioni meno civilizzate di loro ma non altrettanto prive di coesione sociale. Nel suo libro Civilization: the West and the Rest (2011), Niall Ferguson sostiene che l’Occidente ha dominato il mondo grazie a quelle che definisce sei “killer applications”: concorrenza, scienza, democrazia, medicina, consumismo ed etica protestante del lavoro. Oggi però sta perdendo fiducia in se stesso e rischia di essere superato dagli altri. Tutto questo è stato detto per la prima volta da Mosè e costituisce un argomento centrale del libro di Devarim. Se presumete – dice alla generazione successiva – di aver conquistato voi stessi la terra e la libertà di cui godete, diventerete compiacenti e autocompiaciuti. Questo è l’inizio della fine di qualsiasi civiltà. In un capitolo precedente Mosè usa la parola grafica venoshantem, “invecchierete” (Deuteronomio 4:25), a significare che non avrete più l’energia morale e mentale per fare i sacrifici necessari alla difesa della libertà. Le disuguaglianze aumenteranno. I ricchi diventeranno auto-indulgenti. I poveri si sentiranno esclusi. Ci saranno divisioni sociali, risentimenti e ingiustizie. La società non sarà più coesa. Le persone non si sentiranno legate tra loro da un vincolo di responsabilità collettiva. Prevarrà l’individualismo. La fiducia diminuirà. Il capitale sociale diminuirà. Questo è accaduto, prima o poi, a tutte le civiltà, per quanto grandi. Per gli israeliti – un piccolo popolo circondato da grandi imperi – sarebbe stato disastroso. Come Mosè chiarisce verso la fine del libro, mettendo in guardia il popolo dalle maledizioni che lo avrebbero colpito se avesse perso l’orientamento spirituale, Israele si sarebbe trovato sconfitto e devastato. Solo in questo contesto si può comprendere il progetto epocale che il libro di Devarim propone: la creazione di una società capace di annullare le normali leggi di crescita e declino delle civiltà. È un’idea sorprendente. Come si può realizzare? Attraverso l’assunzione e la condivisione di responsabilità da parte di ciascuno nei confronti della società nel suo complesso. Conoscendo la storia del proprio popolo. Studiando e comprendendo le leggi che governano tutti. Insegnando ai propri figli affinché anch’essi diventino alfabetizzati ed esprimano la loro identità. Regola 1: Non dimenticare mai da dove vieni. Quindi si mantiene la libertà istituendo tribunali, lo stato di diritto e l’istituzione della giustizia. Prendendosi cura dei poveri. Garantendo a tutti le condizioni fondamentali necessarie per la dignità. Includendo le persone isolate nelle celebrazioni popolari. Ricordando l’alleanza nei rituali quotidiani, settimanali e annuali e rinnovandola in un’assemblea nazionale ogni sette anni. Assicurando che ci siano sempre profeti che ricordino alle persone il loro destino e smascherino le corruzioni del potere. Regola 2: non allontanarsi mai dai propri principi e ideali fondamentali. Soprattutto, deriva dal riconoscere un potere più grande di noi stessi. Questo è il punto che Mosè sottolinea maggiormente. Le società invecchiano quando perdono la fiducia nella trascendenza. Quindi perdono la fiducia in un ordine morale oggettivo e alla fine perdono la fiducia in se stessi. Regola 3: Una società è forte quanto la sua fede. Solo la fede in Dio può portarci a onorare i bisogni degli altri così come i nostri bisogni. Solo la fede in Dio può motivarci ad agire per il bene di un futuro che non vivremo abbastanza da vedere. Solo la fede in Dio può farci smettere di fare il male quando crediamo che nessun altro essere umano lo saprà. Solo la fede in Dio può darci l’umiltà che sola ha il potere di superare l’arroganza del successo e la fiducia in se stessi che porta, come afferma Paul Kennedy in Ascesa e caduta delle grandi potenze (1987), al sovrasfruttamento militare e alla sconfitta nazionale. Verso la fine del suo libro “Civilization” Niall Ferguson cita un membro dell’Accademia cinese delle scienze sociali, parte di un team incaricato di scoprire perché l’Europa, rimasta indietro rispetto alla Cina fino al XVII secolo, ne prese il sopravvento, ottenendo notorietà e dominio. All’inizio, ha detto, pensavamo che fosse colpa delle vostre armi. Avevate armi migliori delle nostre. Poi abbiamo approfondito e abbiamo pensato che fosse il vostro sistema politico. Poi abbiamo cercato ancora più a fondo e abbiamo concluso che era il vostro sistema economico. Ma negli ultimi 20 anni abbiamo capito che in realtà era la vostra religione. È stato il fondamento (giudaico-cristiano) della vita sociale e culturale in Europa a rendere possibile l’emergere prima del capitalismo e poi della politica democratica. Solo la fede può salvare una società dal declino e dalla caduta. Questa è stata una delle più grandi intuizioni di Mosè, e non ha mai smesso di essere vero. Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl
(Bet Magazine Mosaico, 23 agosto 2024) ____________________
Un team di studiosi dell’Università ebraica di Gerusalemme ha fatto un notevole passo avanti nella decifrazione delle incisioni rupestri nel parco di Timna, nel sud di Israele. Grazie all’uso di una tecnologia tridimensionale all’avanguardia, i ricercatori sono riusciti a rivelare molti dei particolari che hanno ispirato queste opere, risalenti al XIV secolo a.e.v.
Il parco di Timna è celebre per i suoi antichi resti legati alla produzione del rame, datati al VI millennio a.e.v. Tuttavia, le emblematiche incisioni rupestri hanno sempre rappresentato un enigma anche per i più esperti. Recentemente, un software innovativo sviluppato dal Computational Archaeology Laboratory, insieme all’uso di uno scanner 3D, ha permesso al team guidato dal Prof. Lior Grossman e dalla studentessa di dottorato Lena Dubinskydi esaminare in dettaglio le tecniche utilizzate da questi antichi artisti.
“Abbiamo scoperto che le decisioni degli scultori erano guidate da precise scelte visive e teoriche” ha dichiarato il Prof. Lior Grossman. Infatti, i risultati dello studio, riportati nel Journal of Archaeological Method and Theory, in collaborazione con il parco di Timna, il Lev Academic Center e la Charles W. Wilson Foundation, rivelano che le incisioni non erano solo frutto di abilità tecniche, ma anche di considerazioni estetiche e concettuali dell’epoca.
Il focus principale dell’analisi è stato incentrato su due incisioni: quella del carro, la più grande del parco, e un’altra che segue il canone egizio, raffigurante faraoni. “Analizzando le tecniche usate e i segni degli utensili nelle miniere di rame, abbiamo potuto delineare un linguaggio visivo unico” ha spiegato Lena Dubinsky.
Questa metodologia innovativa non solo chiarisce il mistero delle incisioni di Timna, ma apre anche nuove prospettive per future indagini archeologiche. Tale studio ha permesso dunque di esaminare con maggiore precisione il patrimonio culturale israeliano, fornendo strumenti per una comprensione più approfondita delle culture passate.
In precedenza il complesso ospitava la scuola Salah al-Din a Gaza City. Hamas ha trasformato la struttura in uno suo centro di comando, «da dove pianificava ed eseguiva attacchi contro l’esercito e lo stato d’Israele». Per questo, ha reso noto Tsahal, il complesso è stato attaccato nelle scorse ore. Prima di colpire, «sono state adottate numerose misure per mitigare il rischio di danneggiare la popolazione civile», ha spiegato l’esercito in una nota. La presenza di terroristi in scuole a Gaza è stata più volte denunciata da Israele. «Hamas viola sistematicamente il diritto internazionale e opera dall’interno di infrastrutture e rifugi civili nella Striscia di Gaza, sfruttando brutalmente la popolazione per le sue attività terroristiche», ha ribadito Tsahal dopo l’operazione nella scuola Salah al-Din. La struttura in precedenza era sotto la gestione dell’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, che ha condannato il raid israeliano. «Ancora una volta sembra vogliate ingannare il mondo», ha replicato il portavoce di Tsahal Nadav Shoshani, denunciando il silenzio dell’Unrwa sull’uso di Hamas della scuola come centro terroristico. «Perché non menzionate questo fatto?».
Nei mesi passati altre strutture scolastiche sono state al centro di operazioni militari. Nella sola Gaza City, le scuole Hassan Salame, Nasser e al Tabin. Quest’ultima, colpita a inizio agosto, era una base operativa sia di Hamas sia del movimento Jihad islamica. Almeno una ventina di terroristi dei due movimenti sono stati eliminati nell’attacco di Tsahal, ha dichiarato Shoshani, invitando i media internazionali ad «agire con cautela nei confronti delle informazioni rilasciate dalle fonti di Hamas, che si sono dimostrate decisamente inaffidabili». Il riferimento era ai numeri dati dal ministero della Salute di Gaza secondo cui almeno 70 palestinesi erano morti nel raid.
Gaza, l’ufficio di Netanyahu: Israele non ha accettato di ritirare i militari dal Corridoio di Filadelfia
Israele non ha accettato di ritirare i militari delle Forze di difesa israeliane (Idf) dal cosiddetto Corridoio di Filadelfia, zona cuscinetto lungo il confine tra l’Egitto e la Striscia di Gaza. Lo ha reso noto ieri sera l’ufficio del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, smentendo alcune indiscrezioni che erano state diffuse dai media in precedenza. In un comunicato, l’ufficio del premier ha dichiarato: “Israele insisterà sul raggiungimento di tutti i suoi obiettivi di guerra, così come sono stati definiti dal gabinetto di sicurezza, compreso il fatto che Gaza non costituisca mai più una minaccia per la sicurezza di Israele. Ciò richiede la messa in sicurezza del confine meridionale”. Fra le condizioni per il raggiungimento di un accordo con Israele sul cessate il fuoco a Gaza, il movimento islamista palestinese Hamas chiede il ritiro completo delle Idf dalla Striscia, compreso il Corridoio di Filadelfia. Ieri sera, il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha discusso con Netanyahu le trattative per un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e la liberazione degli ostaggi che sono ancora nelle mani di Hamas. Secondo quanto riferito dalla Casa Bianca, la conversazione, a cui ha partecipato anche Kamala Harris, vicepresidente e candidata democratica alle elezioni di novembre, si è incentrata anche sulle modalità per evitare ulteriori escalation in Medio Oriente. In precedenza, una fonte aveva riferito al portale di informazione statunitense “Axios” che il presidente Usa avrebbe avuto un colloquio telefonico con il primo ministro israeliano per esortarlo a mostrare maggiore flessibilità, in modo da raggiungere un accordo per la liberazione degli ostaggi e il cessate il fuoco a Gaza. Secondo quanto dichiarato da una fonte di “Axios”, la conversazione si sarebbe incentrata sulla nuova richiesta di Netanyahu che le Forze di difesa israeliane rimangano dispiegate lungo il Corridoio di Filadelfia. Negoziatori israeliani e funzionari statunitensi hanno affermato che questa nuova richiesta rappresenta un ostacolo significativo per un possibile accordo e Biden vorrebbe che Netanyahu ammorbidisse la sua posizione sulla questione. Al momento, tuttavia, il premier israeliano non ha cambiato idea sulla sua richiesta.
Il capo degli 007 israeliani chiede perdono per l’attacco di Hamas
Haliva: la responsabilità ultima ricade su di me
HERZLIYA – Il dimissionario capo dell’intelligence militare israeliana Aharon Haliva ha ammesso di avere la “responsabilità ultima” per non aver protetto gli israeliani dall’attacco di Hamas del 7 ottobre. “A nome mio e di tutta l’ala dell’intelligence, chiedo perdono”, ha detto visibilmente commosso durante una cerimonia di passaggio di consegne presso la sede dei servizi segreti a Herzliya, nel centro di Israele.
Dall’inizio della guerra scoppiata dopo il 7 ottobre, è stato fatto più volte presente il fatto che Hamas non esita ad utilizzare scuole e ospedali come depositi di armi, oltre a non offrire alcun rifugio alla popolazione civile di Gaza nei propri tunnel.
Recentemente, è giunta la conferma che anche Hezbollah adotta tattiche simili, non esitando ad usare i civili libanesi come scudi umani; martedì 20 agosto, l’IDF ha annunciato che nella notte di lunedì le loro forze aeree hanno distrutto due lanciamissili appartenenti a Hezbollah nel Libano meridionale. Ben Tzion Macales, analista indipendente ed esperto di geolocalizzazione ripreso dal Jerusalem Post, ha spiegato che “i lanciamissili erano collocati a soli 620 metri da una base dell’UNIFIL. Qualcuno da quelle parti non ha fatto il proprio lavoro, ammesso che siano realmente interessati a farlo”.
Secondo Macales, proprio come Hamas anche Hezbollah nasconde le proprie armi vicino alla popolazione civile: “Il deposito di armi distrutto ieri nella Valle della Bekaa era anch’esso situato in un appezzamento di terra agricolo, avendo un impatto sul terreno e gli edifici circostanti”, ha dichiarato. “Allo stesso modo, a luglio, un altro deposito situato in mezzo a edifici di uso civile è stato distrutto dall’IDF a Tiro. Diverse persone rimasero leggermente ferite da cocci di vetro in seguito all’attacco, che dimostra la prossimità di queste armi ai civili, mettendo a rischio i villaggi e le città vicine”.
Sempre vicino a Tiro, un altro deposito di armi di Hezbollah era stato distrutto a giugno, in mezzo ad una zona industriale. “Anche qui, nessuno rimase ferito durante l’attacco israeliano, ma comunque la scelta di Hezbollah di collocarlo lì dimostra qual è la loro considerazione delle vite umane”, ha spiegato Macales.
A causa di questo loro modus operandi, in passato c’è chi tra i libanesi ha provato ad opporsi: ad aprile, la popolazione cristiana del villaggio di Rmeish, nel sud del Libano, ha reagito contro dei terroristi di Hezbollah sospettati di aver cercato di piazzare dei lanciamissili nel villaggio, e in particolare vicino a chiese e scuole.
Il capo di Hamas, Yahya Sinwar, intrappolato sotto terra
Funzionari statunitensi ritengono che il leader di Hamas Yahya Sinwar voglia trovare un accordo con Israele, dal momento che è “intrappolato” nel sottosuolo e sta esaurendo le munizioni e i rifornimenti. Lo ha scritto il giornalista del Washington Post David Ignatius in un articolo di opinione pubblicato mercoledì.
Tuttavia pur con il desiderio di un accordo, Ignatius osserva che Hamas sta “giocando una partita di attesa”, sperando che l’Iran o Hezbollah attacchino Israele, una mossa che trasformerebbe il campo di battaglia.
Ma l’Iran probabilmente deluderà Hamas. Riferisce infatti che i funzionari statunitensi ritengono che i leader iraniani abbiano deciso di ritardare l’attacco a Israele, scoraggiati dalle forti minacce degli Stati Uniti.
Secondo Ignatius, Teheran sta esortando Hezbollah a colpire Israele al suo posto.
Da parte di Hezbollah, i funzionari statunitensi ritengono che il suo leader Hassan Nasrallah abbia fatto marcia indietro rispetto al piano iniziale di lanciare una raffica di missili su Tel Aviv e che sceglierà invece di colpire altri obiettivi.
La Turchia blocca Israele, boom dei prezzi di ortofrutta
La decisione del governo turco di bloccare gli scambi commerciali con Israele a causa dei bombardamenti di quest’ultimo sulla Striscia di Gaza sta contribuendo all’aumento dei prezzi di frutta e verdura per i consumatori israeliani, secondo quanto riportato dal Daily Sabah. Dopo una prima limitazione delle esportazioni di 54 tipi di prodotti, come riporta Fruitnet, a maggio le autorità turche hanno introdotto un divieto generalizzato a causa del continuo peggioramento della situazione umanitaria a Gaza. “In seguito alla sospensione delle importazioni dalla Turchia a causa del suo boicottaggio di Israele, si è verificato un aumento dei prezzi di frutta e verdura”, ha confermato l’emittente pubblica israeliana KAN. Il commercio bilaterale tra i due Paesi ammontava a quasi 7 miliardi di dollari l’anno prima della sospensione di quest’anno. In risposta, il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz ha dichiarato che il Paese si sta concentrando sulla produzione locale e sulle importazioni da Paesi alternativi. I prezzi sono stati influenzati anche dalla sospensione cautelativa da parte di Israele delle verdure provenienti dalla Giordania dopo la scoperta di batteri del colera nel delta del fiume Yarmouk. Il Consiglio israeliano delle piante e delle associazioni agricole ha chiesto il sostegno finanziario del governo per abbassare i costi agricoli e ridurre i prezzi per i consumatori.
L’IDF ha ucciso Khalil al-Maqdah, uno dei capi dell’ala militare di Fatah in Libano
di Luca Spizzichino
In un attacco aereo a Sidone, l’IDF ha ucciso Khalil al-Maqdah, uno dei comandanti dell’ala militare di Fatah in Libano. Al-Maqdah, leader delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, è stato colpito mentre viaggiava in auto. L’esercito israeliano ha confermato l’operazione, dichiarando che il terrorista, insieme al fratello Mounir, guidava il braccio armato di Fatah. Entrambi sono stati accusati di “dirigere attacchi terroristici e contrabbandare armi” in Giudea e Samaria, e sono stati descritti come “collaboratori” delle Guardie rivoluzionarie iraniane.
Secondo le informazioni di intelligence riportate da Israel Hayom, Khalil al-Maqdah collaborava con la Forza Quds iraniana, il ramo delle operazioni estere delle Guardie rivoluzionarie. “Nel marzo 2024 è stato rivelato che armi erano state introdotte di nascosto in Giudea e Samaria e distribuite a cellule terroristiche reclutate e dirette dall’infrastruttura di Khalil e Mounir in Libano,” ha affermato l’esercito in un comunicato. “I funzionari responsabili della direzione e dell’esecuzione del contrabbando di armi in Israele e degli attacchi terroristici sono iraniani, guidati da Jawad Jaafari, capo dell’Unità 4000, un’unità per operazioni speciali nell’ala di intelligence dell’IRGC, insieme ad Ashgar Bakari, comandante dell’Unità 840, un’unità per operazioni speciali della Forza Quds iraniana”, ha aggiunto l’IDF.
“La IDF e lo Shin Bet continueranno costantemente ad agire per monitorare e contrastare le attività che mettono a repentaglio la sicurezza dello Stato di Israele e dei suoi cittadini, al fine di denunciare e ostacolare i tentativi iraniani di compiere attività terroristiche contro lo Stato di Israele”, conclude il comunicato.
L’attacco è stato commentato anche sul profilo X in ebraico dell’IDF, accompagnato da un video aereo che mostra il momento in cui l’auto su cui viaggiava Khalil al-Maqdah è stata colpita. È la prima volta dall’inizio della guerra che Israele prende di mira un membro della Brigata dei Martiri di Al-Aqsa.
Gilad Erdan, ambasciatore israeliano (uscente) alle Nazioni Unite
In occasione della Giornata internazionale della memoria e del tributo alle vittime del terrorismo la sede dell’Onu di New York, il Palazzo di Vetro, ospita la mostra Memories. Nell’esposizione si citano gli attacchi terroristi dell’11 settembre 2001 e alla maratona di Boston del 2013, oltre a riferimenti ad attentati in Indonesia e in Kenya. «Ma cosa manca?», chiede in un video Gilad Erdan, ambasciatore israeliano (uscente) alle Nazioni Unite. «Non c’è una sola menzione di un attacco compiuto dai palestinesi contro gli israeliani. Stiamo per commemorare un anno dal più grande attacco terroristico contro ebrei e israeliani dalla Shoah, eppure le Nazioni Unite non pensano di doverlo mostrare sui propri muri», accusa Erdan.
Il diplomatico mostra poi la presenza nell’esposizione di una vittima palestinese del terrorismo. «In modo fuorviante c’è scritto grande Palestina in modo che i visitatori pensino che la persona sia stata colpita in Israele. Ma se si leggono le scritte in piccolo si scopre che in realtà è stata ferita in Nuova Zelanda».
Sul sito delle Nazioni Unite si legge che la mostra – promossa da un programma internazionale di supporto alla vittime del terrore – mira a sensibilizzare l’opinione pubblica, ricordando che dietro ogni vittima e sopravvissuto al terrorismo c’è una storia personale. Inoltre si vuole «sottolineare l’importanza di prevenire gli attacchi terroristici e l’emergere di nuove vittime». Non però quando si tratta d’Israele, denuncia Erdan. «Non c’è luogo più corrotto e moralmente distorto delle Nazioni Unite. Dobbiamo unirci per diffondere questo messaggio in tutto il mondo, chiedendo la chiusura e lo smantellamento di questa organizzazione e l’istituzione di un nuovo organismo che rappresenti veramente valori nobili», conclude l’ambasciatore.
Alla fine del suo mandato, il diplomatico ha aumentato il tono dello scontro nei confronti dell’Onu. In una recente intervista all’emittente i24News ha dichiarato che la sede delle Nazioni Unite a New York è «inutile» e dovrebbe essere «chiusa e cancellata dalla faccia della terra». Parlando dei suoi quattro anni da inviato all’Onu, ha affermato di essere «soddisfatto del lavoro svolto. Tuttavia, provo anche un’immensa frustrazione e angoscia per il fatto che questo edificio, che potrebbe apparire imponente dall’esterno, in realtà è corrotto e distorto».
Haifa prepara il più grande ospedale sotterraneo del mondo
La struttura del Rambam Health Care Campus è preparata per l'eventualità di una guerra totale con Hezbollah in Libano.
di Etgar Lefkovits
HAIFA - File di letti d'ospedale con annesse attrezzature per l'ossigeno fiancheggiano il parcheggio sotterraneo. Quattro sale operatorie, un reparto di maternità e un centro di dialisi sono tra le strutture che il Rambam Health Care Campus di Haifa, noto anche come Rambam Medical Center, ha sistemato a tre livelli inferiori nel suo parcheggio. Il più grande ospedale del nord di Israele ha creato il più grande ospedale sotterraneo del mondo e si sta preparando per una possibile guerra totale contro Hezbollah in Libano. L'ospedale di emergenza sotterraneo fortificato Sammy Ofer, di tre piani e del valore di 140 milioni di dollari, è stato costruito dopo la seconda guerra del Libano contro l'organizzazione terroristica nel 2006, quando la procura iraniana ha sparato circa 70 razzi contro la città portuale settentrionale per oltre un mese, facendo tremare l'ospedale prima che venisse dispiegato il sistema di difesa aerea Iron Dome. “Abbiamo preso l'impegno che uno scenario del genere non deve ripetersi”, ha ricordato il direttore dell'ospedale, il professor Michael Halberthal, durante una visita alla struttura domenica.
Uno dei tre piani dell'ospedale sotterraneo di Haifa
L'ospedale sotterraneo di emergenza con più di 2.000 posti letto, operativo ma inutilizzato negli ultimi dieci anni, è essenzialmente un parcheggio di 1.500 auto che è stato convertito senza soluzione di continuità in un ospedale di guerra fortificato che è pienamente operativo entro otto ore. A quasi due decenni dall'ultima grande guerra con Hezbollah, le minacce alla sicurezza sono solo aumentate. Il gruppo terroristico sciita, che lancia razzi contro Israele quasi quotidianamente dal massacro di Hamas del 7 ottobre che ha scatenato la guerra di Gaza, è meglio addestrato e più pesantemente armato. Gli esperti stimano che abbia un arsenale di 150.000 razzi con cui può colpire praticamente tutto il Paese. Halberthal ha detto che l'esercito israeliano ha ipotizzato che, in caso di guerra totale, Hezbollah avrebbe lanciato un razzo su Haifa ogni quattro minuti per 60 giorni, causando migliaia di vittime. “Volevamo una certezza per poter continuare a lavorare e ridurre il tempo di esposizione nel caso di un improvviso attacco missilistico sul nord di Israele”, ha dichiarato. La struttura, che è stata modellata su quella di Singapore, è stata finanziata per il 30% dallo Stato e per il resto da filantropi ebrei e cristiani e da associazioni di beneficenza. Durante la pandemia di coronavirus, è stata ampliata per diventare la più grande struttura COVID-19 in Israele. Data la situazione di tensione con Hezbollah - Israele ha ucciso un alto dirigente di Hezbollah a Beirut il mese scorso, dopo che un razzo di Hezbollah aveva ucciso dodici bambini israeliani che giocavano a calcio sulle alture del Golan - l'ospedale sotterraneo è di nuovo operativo. Uno dei tre piani di 20.000 metri quadrati è stato sgomberato dalle auto e messo in attesa negli ultimi 10 mesi, mentre l'ospedale sotterraneo curava centinaia di vittime di guerra, tra cui bambini drusi feriti durante l'attacco alle Alture del Golan. Servizi igienici, docce e persino un asilo nella struttura sotterranea possono ospitare 8.000 persone a pieno regime. La struttura è dotata di elettricità, acqua, ossigeno, cibo e gas per essere autosufficiente per diversi giorni, secondo il direttore dell'ospedale. Un centro di comando sotterraneo fortificato dell'ospedale, dotato di televisori con schermo intelligente e di un sistema informatico all'avanguardia, è stato donato dalla Federazione Internazionale di Cristiani e Ebrei.
I letti sono pronti per essere trasferiti al centro dialisi sotterraneo di Haifa
Non c'è bisogno di farsi prendere dal panico, ma i cittadini sono preoccupati”, dice Tal Siboni, responsabile del centro di emergenza del Comune di Haifa, che dal 7 ottobre è ospitato in un bunker sotterraneo. I telefoni squillano a vuoto, ma siamo preparati”. La città di 300.000 abitanti, di cui il 12% arabi, è stata in tensione come molte altre città israeliane negli ultimi 10 mesi. Circa 60.000 israeliani sono stati evacuati dalle loro case nel nord di Israele in seguito agli attacchi dal Libano, e alcuni si sono trasferiti ad Haifa. Il sindaco di Haifa, Yona Yahav, ha dichiarato che Hezbollah potrebbe sparare fino a 4.000 proiettili al giorno contro il nord di Israele in una guerra totale. “Mi accusano di essere troppo pessimista, ma è meglio essere troppo pessimisti”, ha detto lunedì, confermando le sue osservazioni, che hanno fatto alzare le sopracciglia nel mondo arabo e sono state riportate dai media. “Siamo noi l'obiettivo”, ha detto. “Il leader di Hezbollah , HassanNasrallah, lo dice apertamente”. Nel frattempo, la città ha ridotto la quantità di materiali pericolosi nelle sue industrie petrolchimiche nelle ultime due settimane come misura di sicurezza in conformità con una direttiva militare, ha detto Yair Zilberman, direttore della preparazione alle emergenze e della sicurezza della città. “Ci sono sforzi diplomatici per disinnescare il conflitto, ma siamo pronti a tutto”, ha dichiarato il portavoce delle Forze di Difesa israeliane, il maggiore David Avraham, durante una conferenza stampa ad Haifa, con vista sui porti della città. All'ospedale, in una calda e soleggiata giornata estiva, un flusso costante di pazienti attraversa l'ingresso principale, apparentemente ignaro dei preparativi in corso tre piani più in basso. “Dobbiamo essere ottimisti”, dice Halberthal. “A un certo punto, tutto questo dovrà finire”.
(Israel Heute, 21 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Ex comandanti della NATO lodano Israele per la condotta umana in guerra
Un gruppo militare di alto livello respinge le accuse della Corte penale internazionale ed elogia gli sforzi dell'IDF per proteggere i civili.
Nonostante le critiche diffuse dai media e le sfide legali, la condotta di Israele durante la guerra di Gaza in corso ha ricevuto un forte elogio da parte di ex capi militari della NATO. Nonostante le accuse della Corte Penale Internazionale (CPI) contro il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il Ministro della Difesa Yoav Gallant, il Gruppo Militare di Alto Livello (HLMG) - composto da ex capi di stato maggiore e alti funzionari militari di diversi Paesi della NATO - ha elogiato le Forze di Difesa Israeliane (IDF) per il loro approccio umano nel conflitto. Il procuratore della Corte penale internazionale, Karim Khan, ha richiesto un mandato di arresto per Netanyahu e Gallant con l'accusa di crimini di guerra, comprese le accuse di aver affamato e ucciso intenzionalmente i civili. Tuttavia, l'HLMG ha presentato una memoria amicus curiae alla CPI, confutando queste accuse e fornendo le prove che l'IDF ha compiuto sforzi straordinari per proteggere i civili mentre conduceva operazioni militari a Gaza. L'HLMG, che comprende leader militari di Stati Uniti, Regno Unito, Italia, Francia, Spagna, Finlandia e Paesi Bassi, ha dichiarato che gli sforzi di Israele per garantire la consegna di cibo e aiuti umanitari a Gaza superano di gran lunga quelli tipicamente intrapresi dagli eserciti moderni. “È nostra opinione militare che lo Stato di Israele e l'IDF stiano rispettando in buona fede tutti gli obblighi legali internazionali per facilitare la fornitura di aiuti umanitari a Gaza”, ha scritto il gruppo. Gli esperti militari hanno sottolineato che nessun'altra forza armata ha eguagliato il successo di Israele nel facilitare la consegna degli aiuti ai civili in territorio nemico mentre era attivamente impegnata nelle ostilità. L'HLMG ha evidenziato la creazione da parte dell'IDF di una Cellula di Mitigazione del Danno Civile (CHMC), un'innovazione tecnologica che utilizza una mappa digitale aggiornata ogni ora per monitorare le concentrazioni di civili. Questo strumento viene consultato quando si pianificano gli attacchi aerei e si scelgono le munizioni, assicurando che l'IDF riduca al minimo le vittime civili. L'HLMG ha descritto il CHMC come una misura “estremamente insolita” e “senza precedenti”, notando che non è a conoscenza di nessun'altra forza militare che impieghi una metodologia comparabile per mitigare il rischio per la vita dei civili. Oltre a ciò, l'IDF ha anche implementato ampi sistemi di allerta, tra cui milioni di lanci di volantini, telefonate e messaggi di testo, per avvisare i civili dell'imminenza di azioni militari. Questi sforzi, secondo l'HLMG, dimostrano l'impegno di Israele ad aderire al diritto internazionale e a proteggere le vite dei civili anche durante un conflitto attivo. La loro dichiarazione è in netto contrasto con la narrazione di violenza indiscriminata spesso riportata da alcuni media e sottolinea la complessità di condurre operazioni militari in aree densamente popolate come Gaza. Mentre il dibattito continua sulla scena internazionale, il sostegno di questi alti ufficiali militari può giocare un ruolo cruciale nel plasmare la percezione globale della condotta di Israele nella guerra di Gaza.
(Israfan, 21 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Settant’anni fa moriva Alcide De Gasperi, precisamente il 19 agosto 1954. Molti sono gli articoli commemorativi di questi giorni in cui si ricorda anche che sullo statista democristiano è in corso una causa di beatificazione in Vaticano, ormai ferma da oltre un decennio. Ma nuove nubi si addensano sul primo Capo di Stato dell’Italia repubblicana e primo Presidente del Consiglio. Un libro dello storico milanese Augusto Sartorelli, “L’antisemitismo di Alcide De Gasperi tra Austria e Italia, edizioni Clinamen” descrive gli anni giovanili a Vienna dove il giovane studente italiano abbraccia le tesi del controverso e antisemita borgomastro Karl Lueger che “combatteva gli ebrei artificiosamente identificati con la borghesia capitalista”. De Gasperi fu grande ammiratore di Lueger — spiega Sartorelli — che di lui disse: “Era il campione cristiano che liberò Vienna dal giogo degli Ebrei”. In un articolo su “Il Domani d’Italia”, il 15 maggio 1902, De Gasperi scrive che “in Austria dal 1860 al 1885 circa spadroneggiava il liberalismo in tutte le sue forme. Alla testa della corrente liberale stava la nazione ebrea, Vienna e l’Austria erano completamente sotto il giogo degli ebrei. Giornalisti si presentavano come l’indiscutibile opinione pubblica; industriali tenevano gli operai cristiani in condizione di schiavi; commercianti facevano coi grandi bazar una spietata concorrenza ai piccoli negozianti indigeni; banchieri affamavano alla borsa dei cereali la classe dei contadini, e nei teatri e nelle scuole il loro spirito talmudico rovinava completamente la morale pubblica”. Parole che non lasciano dubbi su come De Gasperi etichettasse gli ebrei il male del mondo.
Ma da dove nasce tutto questo odio del futuro statista? È presto detto. Alcide De Gasperi nasce a Pieve Tesino, Borgo Valsugana, in Trentino, il 3 aprile del 1881 da una famiglia di umili origini di stretta osservanza cattolica. E Trento è il luogo dove, durante la Pasqua del 1475, viene ritrovato un bambino morto, Simonino e dove, a causa delle predicazioni del frate francescano Bernardo da Feltre, al quale ancora oggi è intestata una piazza vicino a viale Trastevere, il vescovo principe Johannes Hinderbach sostiene con forza la tesi che il bimbo sia stato vittima di un omicidio rituale, la famosa accusa del sangue, perpetrato dalla locale comunità ebraica. La storia ha il tragico epilogo nella condanna a morte, con confessioni estorte grazie alla tortura, di quindici ebrei, il più giovane di 15 anni, il più vecchio di 90 anni.
“Il bambino – ricorda Sartorelli – da subito considerato un martire, era diventato oggetto di un culto destinato a durare per quasi cinque secoli”. Un culto che lo stesso De Gasperi difendeva. Come scrive Antonio Polito nel suo libro “Il costruttore – Le cinque lezioni di De Gasperi”, “nel 1903, un giovane avvocato liberale trentino, Giuseppe Menestrina (studente in Giurisprudenza a Graz poi avvocato ndr) amico e compagno di scuola di De Gasperi, diede alle stampe uno studio che smontava completamente le false accuse e che fu però accolto molto male dalla curia trentina. In quell’occasione Alcide difese invece il culto, provocando una dolorosa ma radicale rottura dell’amicizia con Menestrina, che gli tolse il saluto per 15 anni”.
Si potrebbe dire, tesi di un giovane che si deve ancora formare, ma passiamo al 1938. De Gasperi è ormai un politico navigato, ha 57 anni, dapprima deputato del partito popolare di Don Sturzo, poi arrestato dai fascisti, rilasciato grazie all’intermediazione del vescovo di Trento Celestino Endrici, lavora dal 1929 alla Biblioteca Vaticana. Dopo la pubblicazione del Manifesto della Razza del 1938, la Chiesa ribadisce l’incompatibilità del razzismo con la dottrina cattolica. Sul numero 16 del 16-31 agosto dell’Illustrazione Vaticana, De Gasperi scrive che le tesi del Manifesto della razza “si distinguono nettamente dalle dottrine più conosciute dei razzisti tedeschi, “discriminare non significa perseguitare” e che “il governo fascista non ha nessun piano persecutorio contro gli ebrei”, ma penserebbe soltanto a una specie di “numero chiuso” alle professioni. De Gasperi conclude augurandosi che “il razzismo italiano si attui in provvedimenti concreti di difesa e di valorizzazione della nazione ed è da credere che l’elemento universalista contenuto nel fascismo può nutrirsi delle vive tradizioni della Roma cristiana che gli offrono il modo di conciliare, è il caso di dire ‘romanamente’, la fierezza del popolo con la sua gentile umanità”. Una posizione a dir poco ambigua.
Ritroviamo Alcide De Gasperi nelle memorie di Ada Sereni, moglie dell’eroe Enzo Sereni, artefice dell’emigrazione ebraica in Israele dal 1945 al 1948 che descrive ne “I clandestini del Mare”, ed. Mursia, la cosiddetta Aliyah Beth. “Giunsero pure molti telegrammi di solidarietà – scrive Ada Sereni – primo fra tutti quello del presidente del consiglio italiano Alcide De Gasperi” per la vicenda delle navi Fede e Fenice bloccate al porto di La Spezia durante la Pasqua ebraica del 1946 e che darà luogo alla vicenda dell’Exodus. Ma più interessante è l’incontro che Ada Sereni ha con De Gasperi nel 1948 all’indomani delle prime elezioni politiche della repubblica vinte dalla Democrazia Cristiana. Fino a quel momento, la nazione è stata guidata da un governo di unità nazionale sempre da De Gasperi, tra i quali figurava anche il cognato di Ada, Emilio Sereni fratello di Enzo, ministro dei lavori pubblici e appartenente al Pci.
Il voto Onu di novembre sancisce la nascita dello Stato ebraico che si prepara alla guerra già annunciata dalle nazioni arabe. Ada Sereni ha necessità di trasportare armi nella Palestina mandataria prima della dipartita dei britannici prevista il 15 maggio del 1948. “In quelle settimane di passione – scrive Ada Sereni – mi fu detto chiaramente, anche dai nostri più fervidi sostenitori, che solo se De Gasperi avesse approvato saremmo stati aiutati a far transitare i difficili carichi. De Gasperi non ci volle ricevere a Roma, ma ci fissò l’appuntamento a Trento (anche qui si potrebbe presagire una scorrettezza ma la materia era delicata). Per venticinque minuti, De Gasperi mi mise sotto un fuoco di fila di domande ben centrate. Infine, concluse: ‘quello che chiedete è praticamente il nostro aiuto a farvi vincere la guerra in Palestina. Qual è l’interesse dell’Italia alla vostra vittoria?’ La mia risposta fu pronta. Primo: l’Italia non ha nessun interesse ad essere circondata da paesi arabi troppo forti. Secondo: sono tre anni che ci aiutate a far defluire dall’Italia i profughi; se perderemo la guerra in Palestina ci sarà un riflusso di masse di profughi; per ragioni geografiche la maggior parte arriverà in Italia: che interesse avete a riprenderli? De Gasperi rimase un attimo silenzioso e disse: ‘allora cosa possiamo fare per voi?’ Chiudere un occhio e possibilmente due sulle nostre attività in Italia. ‘Va bene’, disse alzandosi”. Verrebbe da dire più spaventato dalla prospettiva che l’Italia potesse essere invasa dai profughi ebrei.
“Sul tema degli ebrei – prosegue invece Sartorelli sul suo libro – la voce di De Gasperi sembrò forse riaffiorare nel 1945 dopo la caduta del governo Parri. Nel corso di una conversazione con lo statista democristiano per la formazione del nuovo governo, Pietro Nenni, accennando all’avversione dei liberali e dei democristiani per il Partito d’Azione, annota nel suo diario che ‘De Gasperi ha parlato dello spirito semitico dei Professori del Partito d’azione’. Un’affermazione che sembra essere congruente con il pensiero del primo De Gasperi, quello del Trentino asburgico”. Il partito d’Azione era nato nel 1942 sulle ceneri di Giustizia e Libertà dei fratelli Rosselli e di cui faceva parte nel 1945 Vittorio Foa.
Assolve parzialmente De Gasperi, Antonio Polito. “Vale la pena ricordare che solo nel 1965, undici anni dopo la sua morte – scrive il giornalista nel suo libro sullo statista – l’arcivescovo di Trento Alessandro Maria Gottardi decise finalmente la soppressione del culto e la rimozione della salma del piccolo Simonino dalla chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Trento”. E che proprio in quell’anno chiudeva il Concilio Vaticano II con il documento Nostra Aetate che toglieva dopo due millenni l’accusa di deicidio nei confronti degli ebrei.
Viene da chiedersi allora: fu De Gasperi un uomo del suo tempo, antisemita perché lo era la Chiesa dell’epoca come si chiede lo stesso Sartorelli? Probabilmente è anche così, ma purtroppo troppi dubbi restano.
Il premier “non è certo che ci sarà un accordo”: Israele resterà al confine con l'Egitto
Netanyahu ha anche informato le famiglie degli ostaggi: "L'operazione di ieri sera per recuperare i corpi degli ostaggi è solo una delle tante che stiamo conducendo. Non posso rivelare tutto. Stiamo lavorando costantemente a queste e ad altre operazioni”.
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha espresso scetticismo su unpotenziale accordo con Hamas, sottolineando l'impegno di Israele a mantenere posizioni strategiche chiave. Nel frattempo, le famiglie in lutto hanno espresso preoccupazione per un possibile scambio di prigionieri, facendo un parallelo con il controverso accordo di Gilad Schalit del 2011.
“Non sono certo che ci sarà un accordo, ma se si concretizzerà, salvaguarderà gli interessi e gli asset strategici di Israele”, ha dichiarato martedì Netanyahu durante un incontro con il Forum dell'Eroismo - famiglie in lutto che hanno perso soldati nella campagna Spade di Ferro in corso - e il Forum della Speranza - famiglie degli ostaggi del 7 ottobre.
Netanyahu ha anche informato le famiglie: “L'operazione di ieri sera per recuperare i corpi degli ostaggi è solo una delle tante che stiamo conducendo. Non posso rivelare tutto. Stiamo lavorando costantemente a queste e ad altre operazioni”.
Il primo ministro ha dichiarato con fermezza che Israele non rinuncerà in nessun caso al controllo del Corridoio di Filadelfia e del Corridoio di Netzarim, riferendosi al confine tra Gaza ed Egitto e ad un corridoio chiave est-ovest nella Striscia di Gaza. “Forse sono riuscito a convincere Blinken? Gliel'ho detto chiaramente: In nessun caso Israele si ritirerà dalle posizioni strategiche che ha conquistato durante questo conflitto”.
“Queste sono ore cruciali per il popolo israeliano”, ha detto Yehoshua Shani, padre del capitano Uri Shani, caduto a Kisufim, all'inizio dell'incontro. “Siamo profondamente preoccupati per un potenziale accordo che potrebbe compromettere la sicurezza di Israele”, ha continuato. “Voglio mostrare una fotografia scattata l'anno in cui Gilad Shalit è stato rilasciato, che ritrae dei bambini di 10 anni, mio figlio e Eitan Mor, attualmente prigioniero a Gaza. Mentre lei spingeva per l'accordo su Shalit, sono stati gettati i semi del disastro del 7 ottobre. Esortiamo il Primo Ministro a non ripetere gli errori dell'accordo Shalit che ci hanno fatto tornare indietro. Siamo aperti a un accordo, ma non a uno che metta a rischio la nostra sicurezza nazionale”.
Itzik Buntzel, padre di Amit Buntzel, caduto nella Striscia di Gaza, ha dichiarato: “Siamo qui questa mattina per un incontro del 'Forum dell'eroismo' con il primo ministro, viste le informazioni contrastanti che circolano nella sfera pubblica e nei media. Intendiamo guardare il primo ministro negli occhi e chiedere chiarezza su ciò che sta realmente accadendo e su quali termini si stanno discutendo”.
E ha aggiunto: “Allarmante è il fatto che stamattina abbiamo appreso che lo Stato non dispone di un elenco completo degli ostaggi e delle vittime. Iniziare i negoziati senza sapere chi tra gli ostaggi è vivo è profondamente preoccupante. Come possiamo impegnarci in trattative se mancano informazioni così cruciali?”.
“È impensabile che si arrivi a un accordo con implicazioni di vasta portata per la sicurezza di Israele senza una piena trasparenza. Esigiamo risposte dal Primo Ministro. Non siamo semplicemente un'altra stella sulla bandiera americana, ma una nazione sovrana. Non esiste uno scenario in cui Israele capitola e Hamas riprende il controllo di Gaza come se nulla fosse”.
Itzik Fitusi, che ha perso suo figlio Yishai, un combattente del Golani caduto il 7 ottobre, ha detto: “Sono qui per assicurarmi che il Primo Ministro rimanga risoluto nel salvaguardare la sicurezza di Israele, con in mente il benessere di tutti i cittadini. Oggi ricorrono 19 anni dall'espulsione dalle nostre case e siamo testimoni delle conseguenze del disimpegno. Intendo ricordargli tutto quello che è successo da allora”.
Danny Steinberg, padre del Comandante della Brigata Nahal, Colonnello Yonatan Aharon Steinberg, ha aggiunto: “La mia posizione riflette i precedenti incontri con il Primo Ministro, in cui egli è stato incrollabile nel suo impegno verso le decisioni del governo di smantellare Hamas e di assicurare la restituzione di tutti gli ostaggi. Il Forum dell'Eroismo sostiene un accordo, ma che includa tutti gli ostaggi, compresi quelli uccisi. Sosterremo un accordo che non comprometta gli asset strategici o abbandoni il Sud e lo Stato. Prevediamo un accordo globale che garantisca il ritorno di tutti gli ostaggi e porti sicurezza sia al Sud che, se possibile, al Nord. Questa è la nostra visione dell'accordo. Siamo qui per sentire in prima persona cosa sta accadendo”.
(Israel HaYom, 20 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Israele – La ferrovia unisce il paese, anche in tempo di guerra
di Adam Smulevich
La “normalità” di Israele in questa estate di guerra scorre anche sui binari del suo sistema ferroviario. Sessantasei stazioni e un totale di 1.138 chilometri, di proprietà statale. Non solo tutte le stazioni sono aperte, ma nessuna comunicazione è stata interrotta con le aree più esposte ad eventuali attacchi da parte dell’Iran o dei suoi alleati. In un paio d’ore, partendo da Tel Aviv, si possono così raggiungere sia Nahariya che Sderot. La prima, al confine con il Libano, teme in ogni momento un attacco di Hezbollah e tiene pronti i rifugi. La seconda, travolta dai terroristi di Hamas lo scorso 7 ottobre, si trova a pochi chilometri dalle aree di combattimento a Gaza.
La stazione di Sderot, all’occorrenza un bunker, è stata riaperta a marzo. Vari treni assicurano un collegamento con la “capitale” regionale Beer Sheva così come con le località di Netivot e Ofakim, segnate entrambe dal 7 ottobre. In questa parte del paese i viaggiatori sono oggi pochi: qualche civile e soprattutto soldati, in transito da casa alle basi in cui prestano servizio (e viceversa). Più affollata la linea Tel Aviv-Gerusalemme, utilizzata da un buon numero dei passeggeri in transito all’aeroporto Ben Gurion, l’unico collegamento aperto tra Israele e il resto del mondo. Per andare dalla capitale alla Città Bianca ci vogliono poco più di trenta minuti. Con la precedente linea d’epoca ottomana il tempo di percorrenza era oltre il doppio rispetto a quello attuale. Quando fu inaugurata, il 26 settembre del 1892, per salire fino agli ottocento metri di Gerusalemme si impiegavano tra le tre e le sei ore, partendo tra l’altro da Jaffa visto che Tel Aviv ancora non esisteva.
La ferrovia dell’alta velocità tra Gerusalemme e Tel Aviv è stata inaugurata nel 2018, nel 70esimo anniversario dalla fondazione dello Stato ebraico, imprimendo una svolta a un sistema in crescita ma ancora lacunoso sotto vari punti di vista. Per l’elettrificazione totale della rete si dovrà attendere ancora. Almeno il 2030, scrivono alcuni organi di informazione. Restano poi da inserire nel sistema alcune importanti città oggi non raggiungibili con il treno. Come Eilat, località tra le più turistiche d’Israele, separata dal resto del paese da centinaia di chilometri di deserto. Oppure Nazareth, in Galilea, che sarà la destinazione di una nuova linea in costruzione con partenza da Haifa. L’inaugurazione è prevista per il 2027 e sono attesi circa 120mila passeggeri al giorno.
È stata una celebrazione diversa dal solito quella di Tu B’Av di quest’anno, caduto proprio il 19 di agosto. In questo giorno, il 15 di Av, a breve distanza dal 9 di Av che rappresenta il giorno di lutto per la distruzione del Beth Hamikdash, abitualmente esplode un’ondata di allegria e vitalità con questa festa, Tu B’Av appunto, dedicata all’amore e all’agricoltura.
La Mishnà di Ta’anit racconta che in questa giornata i giovani, vestiti di bianco, si riunivano per danzare e conoscersi, abbattendo solo per questo giorno l’antica tradizione che impediva i matrimoni tra tribù diverse, trasformando Tu B’Av in un simbolo di riunificazione. Inoltre, il 15 di Av segnava l’ultima opportunità per raccogliere legna prima del riposo invernale e coincideva con la fine della vendemmia, quando l’uva veniva raccolta per produrre il vino. Questa giornata è diventata un momento di grande gioia per Am Israel, che celebra l’amore in ogni angolo del mondo.
Quest’anno, però, il significato di Tu B’Av è stato immerso in una tristezza profonda. Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, molti giovani sono ancora prigionieri nelle mani di Hamas, lontani dai loro cari e impossibilitati a celebrare Tu B’Av. Da qui è nata la storia di Ziv Abud, una giovane donna che, seduta sul lungomare di Tel Aviv, con il tramonto a farle da sfondo, ha organizzato una cena romantica, stringendo tra le mani una foto di Eliya Cohen, il suo grande amore, ostaggio a Gaza da 318 giorni. Vestita con un abito rosso, Ziv ha preparato un tavolo per due e ha parlato con i passanti, condividendo la sua speranza nel ritorno di Eliya e il desiderio di poter celebrare il matrimonio che lui stava pianificando.
L’ultimo ricordo che ha del suo amato è legato al Nova Festival del 7 ottobre, pochi istanti prima che i missili iniziassero a cadere, che i colpi di arma da fuoco si avvicinassero e che il terrore esplodesse, con il massacro perpetrato da Hamas con distruzione, uccisioni, stupri, rapimenti. Ziv riuscì a sopravvivere, mentre il suo amato fu portato via a Gaza.
In questo giorno speciale, Ziv e molti altri giovani vivono un contrasto straziante tra la gioia prevista e la realtà del dolore. Alcuni sono tutt’oggi vittime e ostaggi di Hamas, mentre altri ragazzi lottano tra la vita e la morte lungo i confini di Erez Israel, per assicurare al popolo ebraico di portare avanti la simchà, il sentimento di gioia e speranza, in un momento di grande oscurità.
GERUSALEMME - L’uomo non può vivere senza un'ancora di salvezza, e per il regime di Hamas a Gaza, il corridoio di confine di 12 chilometri di Filadelfia tra la Striscia di Gaza e il Sinai egiziano era un'ancora di salvezza.Sotto il corridoio di confine, che Israele ha riconquistato negli ultimi mesi , c'era un gran numero di tunnel per i contrabbandieri. Questo sistema di tunnel serviva ad Hamas come linea di rifornimento e veniva usato per contrabbandare armi e razzi. Israele deve fare attenzione a non ripetere lo stesso errore e a restituire il corridoio di confine in mani straniere. Non c'è alternativa alla presenza di forze israeliane lungo il corridoio di confine egiziano per garantire una reale sicurezza. Questi 12 chilometri, che per anni sono stati un inferno per Israele, fanno parte della strada più bella di Israele, la Strada 10. La 10, che corre parallela al confine egiziano, è una delle strade asfaltate più lunghe di Israele, a mio avviso sicuramente la più bella del Paese, ma anche la meno percorsa. Per la maggior parte dell'anno è quasi completamente deserta. Le restrizioni di sicurezza vietano il traffico civile incontrollato su questa pittoresca stradina lunga 200 chilometri, che si estende dall'estremità sud-occidentale del confine con la Striscia di Gaza fino a Eilat, dove si congiunge con la Strada 12. Il corridoio di confine Filadelfia era l'arteria principale per il sangue e l'ossigeno nella Striscia di Gaza. Quasi tutto ciò che esiste nella Striscia di Gaza, armi, razzi, munizioni, sigarette, droghe, banconote, bestiame, persone e tutto ciò che si può pensare è entrato nella Striscia palestinese attraverso il corridoio di confine Filadelfia con la consapevolezza e l'interesse dell'Egitto. L'Egitto non è una democrazia. Nulla avviene lì senza autorizzazione e l'importazione di tali quantità rispondeva alle esigenze del sistema di gestione delle relazioni internazionali del Cairo con Gerusalemme. All'esterno, l'Egitto rispetta il trattato di pace con Israele, mentre nel sottosuolo ha armato il regime di Hamas a Gaza. Per alcune figure chiave della parte egiziana, come Mohammed el-Sisi, il figlio del presidente egiziano, si è trattato di un affare da miliardi di dollari. Sotto il patrocinio egiziano, è stato portato nella Striscia di Gaza un vasto materiale. I camion hanno attraversato la Striscia. Questo non è possibile senza l'autorizzazione delle autorità egiziane, soprattutto perché Hamas è una propaggine della Fratellanza Musulmana radicale in Egitto, che è osteggiata dal presidente egiziano Fattah el-Sisi. Quello che è successo non può ripetersi. Per ricordare, prima del ritiro unilaterale di Israele dalla Striscia di Gaza nell'estate del 2005, ci sono state diverse considerazioni su come controllare il corridoio di confine Filadelfia. La presenza di forze israeliane sul confine richiedeva un'ampia zona di sicurezza. La larghezza necessaria, fino a 300 metri, avrebbe richiesto la demolizione di migliaia di case a Rafah e nell'area circostante. Un piano prevedeva la creazione di un canale d'acqua lungo 12 chilometri alimentato dal Mediterraneo per prevenire attacchi e tunnel. Alla fine, Israele ha commesso l'errore di ritirarsi completamente dal confine, lasciando il controllo all'esercito egiziano. In cambio, Israele ha permesso il dispiegamento di quasi 1.000 soldati egiziani aggiuntivi nella zona demilitarizzata del Sinai, come stabilito dal trattato di pace. All'inizio del 2008, l'Egitto ha eretto un muro di sbarramento alto 3 metri, poiché Hamas aveva già fatto saltare le precedenti barriere di filo spinato. Ma anche il muro di cemento e acciaio è stato fatto saltare da Hamas in diversi punti, così che decine di migliaia di palestinesi della Striscia di Gaza hanno potuto fare acquisti e camminare sul lato egiziano per giorni, fino a quando il confine non è stato nuovamente chiuso dagli egiziani. Tutto questo è accaduto sotto il Primo Ministro israeliano Ehud Olmert. Benjamin Netanyahu ha vinto le elezioni nel 2009 e ha governato il Paese fino ad oggi, con una breve interruzione (da giugno 2021 a dicembre 2022). Negli anni successivi Hamas, in collaborazione con le autorità egiziane, ha costruito nella Striscia di Gaza il sistema di mostri sotterranei che Israele ha esposto al pubblico mondiale negli ultimi mesi. Questo spiega come Hamas abbia potuto lanciare migliaia di razzi contro Israele in tutte le sue guerre contro Israele tra il 2009 e il 2014. Il tutto grazie ai tunnel sotto il corridoio di confine Filadelfia. Israele stesso è rimasto sorpreso e ha messo in imbarazzo il suo partner di pace, l'Egitto, che per anni aveva ripetutamente promesso a Israele di non permettere tunnel sotto il corridoio di confine. Oggi possiamo capire che la preoccupazione per l'intelligence distrae dal vero problema, ovvero l'obbligo delle forze armate israeliane di difendere il popolo anche se l'esercito viene sorpreso. Il nemico ha sconfitto la divisione meridionale di Gaza di Israele il 7 ottobre non grazie all'intelligence, ma perché Israele non aveva il margine di sicurezza e le riserve di difesa necessarie. “L'intelligence e la difesa israeliana hanno fallito a causa della politicizzazione dell'esercito. Invece della logica militare e del pensiero militare, la leadership della sicurezza israeliana ha usato il calcolo politico. Non è questo il loro compito. Il loro compito è sconfiggere Hamas. Questo è il loro compito”, hanno spiegato nei giorni scorsi gli esperti di sicurezza. Gli stessi meccanismi stanno funzionando ora e Israele non deve cadere in questa trappola. Diverse fonti hanno sottolineato che lo Stato Maggiore israeliano è pronto a lasciare il corridoio di confine Filadelfia e dispone di soluzioni per impedire la costruzione di nuovi tunnel in caso di emergenza.Se questo fosse l'unico modo per liberare gli ostaggi israeliani. Dobbiamo assumerci la responsabilità dei nostri confini. Yahya Sinwar comprende molto bene questa necessità. Sa come sopravvivere e vuole sopravvivere. Questo è il suo elisir di lunga vita. Ecco perché la prima cosa che vuole è questo ossigeno, senza il quale ha un serio problema. E Israele non deve permetterlo. Yahya Sinwar è uno psicopatico che ha dimenticato il suo guru spirituale. Chi ha reclutato Sinwar è stato Abdallah Yussef Azzam, ideologo islamista palestinese, mente di al-Qaeda e mentore di Osama bin Laden, il padre della jihad islamica. Una delle cose più dolorose per Sinwar è la perdita del suo Paese. Se si rende conto di aver perso un territorio a causa della sua megalomania, questo è il momento di dirgli che ora può operdere, o perdere ancora di più. Se Israele rinuncia di nuovo al corridoio di confine, manterrà in vita l'ancora di salvezza per Hamas e Sinwar. Questo non deve accadere, in nessun caso. I mediatori americani ed egiziani stanno esercitando enormi pressioni su Israele affinché rinunci al corridoio di confine, altrimenti non ci sarà alcun accordo sugli ostaggi. È lecito chiedersi se Israele sia in grado di resistere a queste pressioni. Negli ultimi giorni, parallelamente ai negoziati di Doha e del Cairo per un accordo sugli ostaggi, le forze armate israeliane hanno intrapreso azioni ancora più massicce del solito contro Hamas nella Striscia di Gaza, al fine di esercitare ancora più pressione su Hamas e Sinwar e infine uccidere Sinwar. Non sarà una decisione facile per Israele quando dovrà scegliere tra il corridoio di confine Filadelfia e il rilascio degli ostaggi israeliani.
(Israel Heute, 20 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Hamas e la Jihad Islamica rivendicano l’attentato fallito a Tel AvivMa la polizia e lo Shin Bet pensano ci siano dietro Iran e Hezbollah
Le forze di sicurezza israeliane stanno indagando sulla possibilità che
l’Iran e il suo proxy libanese
Hezbollah siano collegati al tentativo di attentato suicida di domenica da parte di un palestinese a Tel Aviv, hanno riferito lunedì 19 agosto i media ebraici.
Hamas ne ha rivendicato la responsabilità, insieme alla Jihad islamica palestinese, anche se l’attentatore non risulta essere affiliato a nessuno dei due. Tuttavia, la polizia e il servizio di sicurezza Shin Bet ritengono che l’attentatore, residente a Nablus in Cisgiordania, possa aver
ricevuto indicazioni dall’Iran o da Hezbollah, data la sofisticatezza del suo esplosivo, che alla fine è risultato difettoso, secondo quanto riportato da Channel 12 news e dall’emittente pubblica Kan.
• L’attentato fallito Un uomo che trasportava la bomba è stato ucciso nell’incidente di domenica 18 agosto, secondo quanto riferito dalla polizia sul posto. L’attentatore era un
palestinese della zona di Nablus, in Cisgiordania, e trasportava l’ordigno esplosivo in una borsa di riserva, hanno riferito i media israeliani in lingua ebraica. Un passante di 43 anni a bordo di uno scooter elettrico è rimasto ferito nell’esplosione.
Secondo la polizia israeliana, l’ordigno esplosivo, che “probabilmente è stato costruito in Cisgiordania”, era “grande e significativo e se non fosse esploso all’esterno avrebbe ferito molte persone”, ha detto Amar.
Secondo Channel 12, il terrorista ha camminato per circa un chilometro (0,6 miglia) nel sud di Tel Aviv prima che l’esplosivo di 8 chilogrammi (17 libbre) nel suo zaino esplodesse in un’area non affollata, uccidendolo e ferendo un’altra persona.
La polizia inizialmente non era sicura che l’esplosione fosse il risultato di un tentativo di attacco terroristico e ha avuto difficoltà ad accertare l’identità dell’uomo morto, di cui “non è rimasto nulla”, ha detto Amar. Ha aggiunto che un rapido controllo di laboratorio ha rivelato che il deceduto proveniva dalla Cisgiordania, e a quel punto la polizia ha concluso che l’esplosione era stata concepita come un attacco terroristico.
Separatamente, Canale 12 ha detto che il Consiglio di Sicurezza Nazionale ha informato diversi funzionari israeliani attuali ed ex su possibili minacce contro di loro da parte dell’Iran e di Hezbollah.
Sebbene non vi fossero al momento avvertimenti concreti di un attacco terroristico, la polizia ha dichiarato di aver rafforzato la propria presenza nelle grandi città a seguito di quello che sarebbe stato il primo attentato suicida in Israele dal 2016.
“Se il terrorista fosse entrato in una sinagoga vicina, sarebbe stata una tragedia terribile”, ha dichiarato il capo della polizia di Tel Aviv Peretz Amar in una conferenza stampa lunedì sera.
“Si è trattato di un attacco terroristico, con la detonazione di un potente ordigno esplosivo”, hanno dichiarato la polizia e lo Shin Bet in un comunicato congiunto. “I cittadini sono invitati a essere vigili”.
Secondo il comandante della polizia del distretto di Ayalon, Haim Bublil, l’assalitore potrebbe aver pianificato di colpire la vicina sinagoga o il centro commerciale, ma non è chiaro il motivo per cui la bomba sia esplosa.
Il portavoce della polizia israeliana Eli Levy ha dichiarato che è stato un “miracolo” che l’incidente non sia stato un attacco con un alto numero di vittime.
“È avvenuto un grande miracolo. Si tratta di un incidente molto difficile su cui stanno indagando la polizia e lo Shin Bet”, ha dichiarato a Kan News.
• Le rivendicazioni In una dichiarazione, le Brigate Al-Qassam di Hamas hanno affermato che le loro “operazioni di martirio” (attacchi suicidi) all’interno di Israele continueranno finché “continueranno i massacri e la politica di assassinio dell’occupazione” – un riferimento alla campagna militare di Israele a Gaza e all’uccisione del leader di Hamas Ismail Haniyeh nella capitale iraniana di Teheran il 31 luglio, mai rivendicata da Israele.
Il fallito attentato suicida di domenica è avvenuto circa un’ora dopo l’arrivo del Segretario di Stato americano
Antony Blinken a Tel Aviv per sollecitare un cessate il fuoco a Gaza.
Nel frattempo, le autorità israeliane hanno dichiarato che il livello di allerta era stato innalzato a Gush Dan, l’area metropolitana che comprende Tel Aviv, dove le forze di sicurezza stavano effettuando perquisizioni.
“Al Congresso sta aumentando la pressione affinché Biden faccia di più per fermare l’assalto di Israele a Gaza?”, gli venne chiesto in un’intervista del 2021, mentre infuriavano i combattimenti per fermare gli attacchi di Hamas contro Israele.
“Spero che possa usarlo come leva per convincere gli israeliani a fermarsi”, rispose Ilan Goldenberg, futuro consigliere di Kamala per il Medio Oriente e nuovo “collegamento” con la comunità ebraica.
Un’Amministrazione Kamala potrebbe essere peggiore per gli ebrei dell’Amministrazione Obama?
Una prima risposta è arrivata con l’annuncio che la campagna Harris-Walz aveva scelto Ilan Goldenberg come PROPRIO “collegamento” con la comunità ebraica. Freedom Center Investigates aveva già tracciato il profilo di Goldenberg quando era consigliere di Kamala per il Medio Oriente.
Membro del team di Kerry sotto Obama, i cui attacchi faziosi contro Israele e il cui sostegno all’Iran e ai terroristi islamici in Israele hanno contribuito a provocare l’attuale crisi regionale, Goldenberg ha trascorso gli anni precedenti al 7 ottobre facendo tutto il possibile per far sì che l’attacco di Hamas si realizzasse.
E il periodo successivo in cui ha ricoperto il ruolo di consigliere di Kamala e ha imposto sanzioni agli israeliani.
Ilan Goldenberg aveva precedentemente sostenuto un accordo in cui “Hamas avrebbe mantenuto alcune delle sue capacità militari” e sostenuto che “metà delle cause profonde sono azioni israeliane, in particolare concentrandosi su Gaza. E l’altra metà è dovuta alla scelta di Hamas di usare la violenza e armarsi in risposta”.
Aveva perorato un maggiore flusso di denaro a favore di Hamas e sostenuto che Israele avrebbe dovuto consentire ai lavoratori di Gaza l’ingresso nel paese. “Una volta c’erano 25.000, 100.000 abitanti di Gaza che lavoravano all’interno di Israele. Deve accadere di nuovo”. Ciò ha portato al 7 ottobre.
La nuova “liasion” ebraica di Kamala si è opposta a ogni singola mossa pro-Israele da parte sia dei repubblicani che dei democratici, che si trattasse di spostare l’ambasciata a Gerusalemme, riconoscere le alture del Golan o persino tagliare gli aiuti al programma “pay-to-slay” dell’Autorità Nazionale Palestinese. Invece, ha sollecitato mosse anti-Israele tra cui un riconoscimento unilaterale di uno Stato “palestinese” sul territorio di Israele.
Ilan Goldenberg era stato un acceso sostenitore dell’Iran Deal e aveva partecipato a un evento organizzato da NIAC: Iran Lobby. Aveva sostenuto che “In seguito a un accordo nucleare di successo, le relazioni degli Stati Uniti con l’Iran dovrebbero passare da quelle di un avversario a quelle di un concorrente”.
E Ilan Goldenberg faceva parte del team responsabile e difensore dell’opposizione dell’Amministrazione Obama a Israele presso l’ONU.
Un recente articolo su Tablet di Michael Doran del “Center for Peace and Security in the Middle East” aveva descritto Goldenberg come colui che ha svolto un “ruolo molto entusiasta” nel programma dell’Amministrazione Biden per sanzionare gli ebrei in Israele. Finora quelle sanzioni hanno preso di mira un allevamento di capre israeliano, un fornaio israeliano che ha sparato a un terrorista e una madre israeliana di 8 figli, che ha lavorato con i sopravvissuti di aggressioni sessuali e ha guidato le proteste contro le politiche di Biden che hanno premiato Hamas.
Invece di essere associato alla comunità ebraica, Goldenberg era legato a gruppi anti-israeliani tra cui “J Street”, “Peace Now” e “Israel Policy Forum”: che hanno accolto con favore la sua nomina. Goldenberg aveva una rapporto flebile con gruppi ebraici, ma aveva partecipato a un evento per NIAC, Iran Lobby, ed è stato un vigoroso sostenitore dell’accordo che ha rafforzato il terrorismo iraniano.
Ma tutto questo potrebbe non essere l’aspetto più inquietante della mossa della vicepresidente Kamala Harris.
I precedenti contatti ebraici erano solitamente coinvolti nella vita comunitaria ebraica e potevano parlare di una varietà di questioni. Ilan Goldenberg è semplicemente un attivista anti-israeliano i cui unici problemi sono dare potere all’Iran e a Hamas. Kamala ha riassunto la comunità ebraica nel gruppo a sostegno del suo programma anti-israeliano senza nemmeno riconoscere che ci sono ebrei americani.
Un collaboratore di Kamala ha dichiarato che Goldenberg sarebbe stato “il principale collegamento della campagna con i leader e le parti interessate della comunità ebraica e avrebbe consigliato la campagna su questioni relative alle relazioni tra Stati Uniti e Israele, alla guerra a Gaza e al Medio Oriente in senso più ampio”.
Non c’è menzione di nulla che potrebbe interessare agli ebrei americani all’interno dei confini nazionali.
Gli ebrei americani non sono il governo israeliano o una sua estensione. E tuttavia per Kamala, questo è tutto ciò che sono. L’assistente di Kamala non è riuscito a pensare agli ebrei americani se non in termini di politica estera.
I portavoce di Kamala nella comunità ebraica sostenevano che, poiché suo marito è di origine ebraica, lei capisce gli ebrei. Se non altro, gli ebrei americani le sono apparentemente estranei.
Invece di scegliere qualcuno della comunità ebraica o uno dei suoi assistenti politici, Kamala ha scelto qualcuno la cui unica funzione sarà quella di giustificare le sue politiche anti-israeliane alla comunità ebraica e che filtrerà ogni tentativo della comunità ebraica di contrastarle.
Cosa possono aspettarsi gli ebrei americani da Ilan Goldenberg e, in una certa misura, da Kamala Harris?
Durante le operazioni militari del 2021 contro Hamas, Goldenberg ha spiegato perché Biden stava solo fingendo di sostenere Israele. “Quello che Biden ha deciso di fare per il momento è dire privatamente agli israeliani di fermarsi o di fermarsi presto, continuando a sostenerli pubblicamente. Questo lo aiuta a costruire un sostegno politico… ma quando arriverà un momento, si spera presto… in cui Biden dirà, ‘OK, basta, dovete fermarvi o la nostra posizione pubblica inizierà a cambiare. La nostra posizione al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dove vi abbiamo difeso, inizierà a cambiare. Dovete fare in modo che tutto questo finisca’”.
“Ma se avesse iniziato semplicemente criticandolo pubblicamente, penso che la convinzione, almeno nell’Amministrazione Biden, sia che potrebbe essere stato effettivamente l’occasione per il primo ministro Netanyahu di opporsi agli Stati Uniti e dire che ‘non prendiamo ordini dagli Stati Uniti. Dobbiamo fare ciò che è meglio per la nostra sicurezza’ e in un certo senso usare il disaccordo con gli Stati Uniti come un grido di battaglia politico per se stesso in patria. E quindi penso che questo sia uno dei motivi per cui l’Amministrazione Biden ha scelto, almeno all’inizio, di sostenere pubblicamente Israele”.
Bugie, inganni e manipolazioni con lo scopo di rafforzare Hamas e distruggere Israele.
Ogni singolo “rabbino” presente nel raduno virtuale “Jewish Americans for Kamala Harris” organizzato da Haile Sofer, ex consigliere di Kamala, e dal suo Jewish Democratic Council of America, era un attivista anti-Israele. Sofer e la JDCA, che in precedenza avevano salutato la richiesta del senatore Schumer che Israele smettesse di combattere Hamas, hanno celebrato la nomina di Goldenberg.
La campagna di Kamala e i suoi alleati politici stanno guidando una rottura fondamentale con Israele, anche prima delle elezioni, mascherandola con discorsi allegri a vantaggio di alcuni dei loro donatori.
La nomina di una delle figure di politica estera più ostili e persistenti come “collegamento” con la comunità ebraica invia un messaggio potente: questa amministrazione sarà anti-Israele tanto quanto lui e che Kamala riconfigurerà il proprio rapporto con gli ebrei americani attorno alle sue politiche anti-Israele. Nemmeno Obama è arrivato a tanto. Cosa ci dice il fatto che Kamala lo stia già facendo adesso?
(L'informale, 20 agosto 2024 - trad. Niram Ferretti)
Sono passate quasi tre settimane dall’eliminazione a Beirut del numero due di Hezbollah, Fouad Sukar, e di quella a Teheran di Ismail Haniyeh, capo dell’ufficio politico di Hamas; quasi un mese dall’attacco dell’aeronautica militare israeliana contro il porto di Hodeida nello Yemen. È stata una serie di colpi durissimi ai satelliti dell’Iran, per cui ciascuno di loro ha promesso vendetta. Lo hanno fatto anche gli ayatollah, con dichiarazioni infuocate del leader supremo dell’Iran Ali Khamenei. Si è a lungo discusso sulla forma che avrebbe avuto la rappresaglia di questo “asse del male”; si sono sprecate dichiarazioni pro e contro: c’è stata un grande stato d’allarme da parte di Israele; gli Usa hanno spedito in Medio Oriente un terzo della loro flotta; vi sono state missioni diplomatiche per indurre a miti consigli gli ayatollah, respinte con sdegno da loro. Ma almeno fino al momento in cui questo articolo viene scritto (domenica sera), niente è successo se non il consueto scambio di colpi fra Israele, che mira a eliminare capi militari e risorse strategiche di Hezbollah e i terroristi libanesi, che puntano invece piuttosto su case e automobili civili. Il lento e minuzioso lavoro di smantellamento delle risorse militari di Hamas è proseguito, contrastato da agguati e da pochi lanci di missili ormai incapaci di raggiungere bersagli significativi.
• PERCHÉ NON È ACCADUTO
Insomma non c’è stata la catastrofe prevista. Hezbollah ha detto che per reagire aspettava la conclusione delle trattative sul cessate il fuoco promosse dagli Usa, l’Iran ha sostenuto che si sarebbe vendicato al momento più opportuno, gli Houti hanno ripetute le solite minacce apocalittiche. È un’inazione che costa all’asse del male una notevole perdita di faccia. Perché non è successo niente? Non certo perché Iran e soprattutto (per via della vicinanza geografica) Hezbollah manchino dei proiettili con cui potrebbero bombardare Israele facendo probabilmente gravi danni. E neppure per la presenza americana che non ha dissuaso gli ayatollah a cercare di farlo ad aprile. Quel che è successo è probabilmente che alcuni colpi, come la reazione israeliana di aprile molto moderata ma abbastanza penetrante da mostrare la capacità di colpire in profondità e poi il bombardamento stesso di Hodeida, non più vicino dei siti atomici dell’Iran, hanno convinto gli ayatollah che non era nel loro interesse scatenare un conflitto aperto, che avrebbe sì potuto far molto male a Israele, ma avrebbe forzato la posizione americana in favore dello Stato ebraico e avrebbe comportato la distruzione del programma nucleare di Teheran e lo smantellamento di Hezbollah. Un classico caso di deterrenza. È possibile che questa guerra inizi davvero, perché l’Iran si potrebbe decidere a volerla (ma allora non sarebbe più vista dal mondo come una reazione, bensì un’iniziativa nuova e una pericolosa escalation) o perché Israele di fronte a una minaccia incombente potrebbe ritenere necessario un attacco preventivo come accadde nella Guerra dei Sei Giorni. Ma per il momento la guerra segue altre strade più tortuose e indirette.
• IL NEGOZIATO
Una di queste è la trattativa per il cessate il fuoco, voluta con tutte le forze dall’amministrazione Biden. Bisogna dire che a Israele questo negoziato non conviene. Da quel che si capisce gli Usa e i due “mediatori” (che non sono affatto a metà fra le parti, dato che il Qatar è il più diretto protettore di Hamas e l’Egitto ha assunto una posizione più chiaramente antisraeliana via via che emergevano i tunnel di Rafah e la sua complicità con Hamas) vorrebbero che Israele cedesse in cambio di una piccola parte degli ostaggi (una trentina “vivi o morti”, secondo Hamas) non solo una quantità di condannati esperti e pericolosi che darebbero nuova linfa al terrorismo, come hanno fatto quelli scambiati per Gilad Shalit, fra cui lo stesso Sinwar; ma anche concessioni sul terreno tali da rischiare di rendere inutili i terribili sacrifici compiuti da Israele per difendesi da Hamas.
• QUEL CHE VUOLE HAMAS
Riprendendo una sintesi di fonte israeliana, ci sono tre ostacoli principali sul cammino per raggiungere un accordo sugli ostaggi. Hamas vuole sopravvivere e riarmarsi per mantenere il controllo della Striscia di Gaza. Per questo ha bisogno in primo luogo che Israele si ritiri dal “tubo dell’ossigeno” del corridoio Philadelfi (il confine fra Gaza e l’Egitto), in modo che più razzi, armi ed esplosivi fluiscano dall’Egitto. Hamas vuole poi anche consentire a tutti, compresi i terroristi armati, di tornare nel nord di Gaza in modo da ristabilirvi il suo dominio: una possibilità che Israele ha cercato di evitare in tutti i modi, in particolare istituendo a metà della striscia un filtro sorvegliato dalle truppe, il corridoio Netzarim. Infine, Hamas vuole un impegno scritto con garanzie internazionali che, qualunque cosa succeda, Israele non riprenderà alcuna azione militare contro di loro a Gaza. In sostanza, Hamas vuole poter dire che ha vinto la guerra e anche vincerla davvero, perché secondo queste condizioni, si ritroverebbe subito nella condizione di potersi riarmare e di riprendere l’offensiva quando lo ritenesse vantaggioso.
• IL CONTROLLO DELLA STRISCIA
La questione di chi governerebbe Gaza sarebbe in questo caso poco significativa: nell’Autorità Palestinese e soprattutto negli “innocenti civili di Gaza” ci sono evidenti e permanenti simpatie per Hamas, che la riporterebbero al potere anche dopo elezioni o un commissariamento dell’Autorità Palestinese; un corpo di pace internazionale sarebbe totalmente inefficace di frenare i terroristi, come si vede anche in questi giorni con l’Unifil in Libano; i finanziatori e i fornitori d’armi, Iran in testa, sono pronti a sostenere il riarmo. I paesi occidentali hanno mostrato, cercando di impedire l’ingresso israeliano a Rafah, la ripulitura di Filadelfi, le operazioni che l’esercito israeliano ha fatto in questi mesi, di non volere la distruzione di Hamas, in cui peraltro non crede l’opposizione israeliana e anche certi settori delle agenzie di sicurezza e dell’esercito. E però solo un controllo di sicurezza israeliano, protratto per parecchi anni, renderebbe impossibile la ripetizione del 7 ottobre.
• IL DIFFICILE COMPITO DEL GOVERNO DI ISRAELE
Oggi fra la resa nelle trattative che richiede Hamas, appoggiato dall’amministrazione Biden, dall’Europa e naturalmente da Russia, Cina e paesi musulmani, vi è solo la volontà della maggioranza degli israeliani e l’azione del governo, che viene spesso attaccata per questo soprattutto con una campagna violentissima contro Netanyahu. Il quale, da abile ed esperto politico qual è, mentre cerca di dare tempo all’esercito perché continui il suo difficile lavoro sul terreno, non si contrappone frontalmente alle pressioni americane, ma cerca di far vedere che i veri nemici della pace ancora oggi sono Hamas e i suoi protettori. Chi ama Israele non può che sperare che abbia successo.
Il nuovo “accordo” per un cessate il fuoco a Gaza promosso dall’amministrazione statunitense non sembra includere il controllo israeliano sul corridoio Filadelfi né la presenza delle IDF nel corridoio Netzarim della Striscia di Gaza centrale per impedire il ritorno dei terroristi di Hamas a nord, come richiesto dal Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu.
Come spiegato dal TimesofIsrael, i funzionari statunitensi hanno precedentemente affermato che il ritorno delle forze armate di Hamas nel nord di Gaza costituirebbe una violazione dell’accordo. Tuttavia, i mediatori ora hanno proposto una clausola che dà a Israele il diritto di riprendere le ostilità militari contro Hamas se le armi dovessero essere spostate nel nord di Gaza.
L’articolo del TimesofIsrael ha anche spiegato che, secondo fonti di sicurezza israeliane, il ritiro dal corridoio Filadelfi per sei settimane non consentirebbe a Hamas di riarmarsi in modo significativo. Inoltre, Israele ed Egitto implementerebbero degli accordi riguardanti il confine tra Gaza ed Egitto.
Le ragioni strategiche e tattiche per cui questo “accordo” consentirebbe a Hamas di riarmarsi e riprendere il potere a Gaza sono state perfettamente spiegate da Seth Frantzman in una analisi per il JerusalemPost ed è difficile non essere d’accordo con lui.
Di fatto, sei settimane sono un lasso di tempo enorme e Hamas riacquisterebbe facilmente le forze e inizierebbe a colpire di nuovo Israele. A quel punto, l’IDF dovrebbe rispondere e la guerra ricomincerebbe. Solo uno sprovveduto può seriamente credere che abbandonare i due corridoi non rafforzerebbe Hamas e che non ci sia una evidente ragione se l’organizzazione terroristica vuole che l’IDF si ritiri da questi luoghi.
Lasciare che Hamas si riorganizzi e si riarmi non farà altro che prolungare il conflitto e mettere a repentaglio altre vite israeliane, comprese quelle di coloro che sono appena tornati a sud. Inoltre, che dire delle centinaia di soldati dell’IDF che sono morti durante la campagna per sradicare Hamas? Sono morti per niente? E poi, ci si può fidare dell’Egitto? Considerando tutti i tunnel che sono stati trovati tra Gaza e il territorio egiziano?
Sfortunatamente, questa è solo una parte del problema, perché con Yahya Sinwar ancora in vita, Hamas potrebbe di fatto rivendicare la vittoria, poiché Israele passerebbe dall’obiettivo di “sradicare Hamas” a quello di lasciarlo sopravvivere e riprendere il controllo della Striscia.
È anche importante tenere presente che, durante la riorganizzazione, Hamas cercherebbe molto probabilmente di ritardare il più possibile il rilascio degli ostaggi ancora in vita, perché questa è l’unica leva che ha l’organizzazione terroristica per evitare la distruzione.
Un altro problema costante è l’Iran. L’eliminazione di Ismail Haniyeh a Teheran è stata un duro colpo per il regime iraniano. Accettare un simile “accordo” porterebbe il regime da una posizione di estrema debolezza a una di forza, presentandosi al mondo come “magnanimo” per non aver risposto all’eliminazione del leader terrorista palestinese sul proprio suolo in cambio della “pace” a Gaza, quando sappiamo tutti molto bene che il regime iraniano ha tutto l’interesse a salvare e riarmare il suo delegato palestinese a Gaza. Di fatto questo non è un problema per l’attuale amministrazione statunitense che sta perseguendo una politica di appeasement con l’Iran, ma va sicuramente contro gli interessi di Israele.
Va inoltre aggiunto che dopo aver sentito per mesi la dirigenza israeliana parlare di una lotta globale contro il terrorismo islamista, contro Hamas “che non è più solo un’organizzazione terroristica ma anche un’ideologia transnazionale”; sul fatto che se Israele capitola, poi toccherà al resto dell’Occidente, sarebbe piuttosto singolare vedere Netanyahu stringere un accordo con Hamas. Soprattutto perché l’organizzazione terroristica palestinese adesso si trova in una posizione di estrema debolezza. Ci sono paesi che, in un momento in cui Israele è stato costantemente preso di mira da gran parte della comunità internazionale, hanno messo a rischio la propria sicurezza interna per schierarsi con esso contro il terrorismo islamista. Questi paesi potrebbero iniziare a riflettere se ne valeva la pena.
L’Amministrazione Biden e altri membri della comunità internazionale interessati alla “pace” dovrebbero piuttosto fare pressione su Hamas affinché liberi gli ostaggi senza condizioni, data l’attuale debolezza di Hamas (grazie alla campagna militare israeliana) invece di spingere per una trappola che porterebbe altri terroristi assetati di sangue sul campo pronti a uccidere gli israeliani. Tuttavia, ciò non sta accadendo.
Ricordiamo che Israele è uno Stato democratico sovrano, mentre Hamas è un’organizzazione terroristica inserita nella lista nera di Stati Uniti, Canada, UE e Regno Unito. Questo “accordo” sarebbe un suicidio politico per Netanyahu, una minaccia importante per la sicurezza di Israele e potrebbe anche avere ripercussioni su quei partner internazionali che si schierano con Israele contro il terrorismo islamico.
Questo “accordo” è solo un modo per l’Amministrazione Biden di salvare il regime iraniano e mantenere in vita Hamas. Donald Trump è stato molto chiaro quando ha consigliato a Netanyahu di terminare Hamas il più velocemente possibile e che questo è l’unico modo per uscire dalla palude.
(L'informale, 19 agosto 2024)
Cala il sipario sui Giochi Olimpici di Parigi 2024, un’edizione storica per la delegazione israeliana che raggiunge un nuovo record di medaglie, ben 7, un oro, cinque argenti e un bronzo. Ma lo spettacolo non finisce qui, è già in partenza la squadra paralimpica dello Stato ebraico, con 28 fantastici atleti pronti a scendere in campo per i Giochi Paralimpici che si terranno dal 28 agosto all’8 settembre.
Dal taekwondo, al tennis in carrozzina, fino al canottaggio, 28 incredibili storie da diversi background, che dimostrano la strabiliante resilienza di chi di fronte alle peggiori avversità ha trovato la forza di rialzarsi e raggiungere le massime manifestazioni sportive mondiali.
• NUOTO
Israele porterà cinque talentuosi nuotatori ai Giochi, tra cui i gemelli Marc e Ariel Malyar di 24 anni. Alle Paralimpiadi di Tokyo 2020, Marc ha vinto tre delle nove medaglie di Israele, portando a casa l’oro nei 200 metri misti individuali e nei 400 metri stile libero e un bronzo nei 100 metri dorso nella classe di disabilità S7. Entrambi i fratelli sono nati con una paralisi cerebrale e hanno scoperto il loro talento durante una sessione di idroterapia presso il centro sportivo di Ilan Haifa.
Altri campioni in carica di ritorno in vasca sono Ami Dadaon, vincitore dell’oro nei 200 metri e nei 50 metri stile libero e argento nei 150 metri misti individuali nella divisione S4, oltre che detentore del record mondiale nei 100 metri stile libero, e Iyad Shalabi, oro nei 100 metri e 50 metri dorso nella classe S1, che tra l’altro è stato il primo cittadino arabo israeliano a vincere una medaglia individuale alle Paralimpiade.
Infine, la nuotatrice Veronika Girenko, tornerà per la terza edizione a competere nel dorso, rana, stile libero e misti individuali nella divisione S3.
• TENNIS IN CARROZZINA
Tra i giocatori di tennis in carrozzina, spicca il portabandiera Adam Berdichevsky, sopravvissuto al massacro del 7 ottobre nella sua casa nel Kibbutz Nir Yitzhak, dove i terroristi di Hamas hanno ucciso sette persone. Berdichevsky ha perso una gamba nel 2007 durante un incidente in barca in Thailandia e ha gareggiato sia in singolo che in doppio nel 2016 e nel 2020.
Dopodiché, gareggeranno il tennista numero 3 al mondo, Guy Sasson, campione in carica dell’Australina Open 2024, e due debuttanti: Maayan Zikri e Sergi Lysov.
• GOALBALL
Un altro sport molto seguito dal Comitato Paralimpico Israeliano è il goalball, riservato ad atleti con disabilità visive, a cui parteciperà la squadra femminile, composta dalla portabandiera Lihi Ben David, Noa Malka, Lihi Ben David, Roni Ohion, Gal Khamrani, Uri Mizrahi ed Elham Mahmid.
• CANOTTAGGIO/KAYAK
Per il canottaggio due di coppia, debutteranno Shahar Milfelder e Saleh Shahin, la prima è stata diagnosticata con un cancro aggressivo all’età di 16 anni e le è stata asportata gran parte del bacino, il secondo, di origine drusa, è stato ferito durante un attacco terroristico nel 2005 mentre prestava servizio come guardia di sicurezza al checkpoint di Karni al confine con Gaza. La coppia è data tra i favoriti in seguito alla promettente medaglia d’argento vinta alla scorsa edizione della Coppa del Mondo di Canottaggio 2024.
Nelle categorie individuali invece, figureranno Shmulik Daniel, reduce da una grave lesione spinale mentre prestava servizio nell’esercito nel 2005 e alla sua seconda Paralimpiade, Moran Samuel, argento a Tokyo e bronzo a Rio, e le due kayakiste debuttanti, Talia Eilat, bronzo agli Europei 2023, e Kfar Sirkin, medico e quarta agli Europei 2022.
• BOCCE Nadav Levy, nato con paralisi cerebrale, è alla sua terza partecipazione come giocatore di bocce, dopo aver vinto l’oro ai Campionati Europei 2023.
• PARA-BADMINTON
Campioni agli Europei di Para-Badminton nel 2018, tornano per il doppio Nina Gorodetsky e Amir Levi.
• CICLISMO A MANO
Per il ciclismo a mano, scende in pista Amit Hasdai (nella foto in alto), quarto agli Europei 2023 e alla sua prima gara paralimpica. Hasdai è stato gravemente ferito durante l’Operazione Scudo Difensivo nel 2002, a soli 19 anni.
• TAEKWONDO
Per Israele, competeranno il due volte campione del mondo paralimpico, Assaf Yassur, e Adnan Milad, i quali hanno perso le mani dopo essere rimasti gravemente fulminati.
• TIRO A SEGNO
Infine, per il tiro al segno, tornerà per la seconda volta Yulia Chernoy, immigrata in Israele dal Kazakistan a 19 anni e che ha vinto il bronzo nel tiro libero a 50 metri ai Campionati del Mondo in Australia nel 2019 e che ha gareggiato come canottiera alle Paralimpiadi del 2016.
Una nutrita delegazione, tra debuttanti e campioni in carica, la cui partecipazione ai Giochi di Parigi è un inno alla vita e alla sportività, che sicuramente sarà un messaggio di speranza per i milioni di israeliani che li sosterranno da casa.
Cohen ha incarnato una politica in cui la parola “consenso” veniva pronunciata prima di discutere qualsiasi cosa che potesse essere controversa.
Secondo Mr. Consensus, il mondo dovrebbe essere connesso attraverso l’Onu, il Fondo monetario internazionale e l’Ue
Immaginate, è l’11 settembre 2001 e ho 31 anni” scrive Ayaan Hirsi Ali su Commentary. “Mi sono stabilita nei Paesi Bassi, dove mi sono assimilata alla cultura olandese. Vivo la vita di una trentunenne olandese media. Vivo a Leida. Vado ad Amsterdam per lavoro. Condivido un appartamento con il mio ragazzo. Guido una macchina. Vado in vacanza. Ero arrivata in Olanda nel 1992, una rifugiata dalla Somalia, e in soli nove anni riesco a vivere una vita non diversa da quella di tutti i miei amici olandesi. Quando ho iniziato il mio lavoro presso un think tank socialdemocratico ad Amsterdam, erano felici di avermi. Ero una storia di successo di integrazione razziale e sociale. Mi ero laureata in Scienze politiche all’Università di Leiden; stavo discutendo con i miei colleghi sull’eredità di vari primi ministri olandesi. E’ stato in questo think tank che ho incontrato per la prima volta un uomo che era la perfetta rappresentazione di un tipo che in seguito avrei considerato ‘Mr. Consenso’. Il suo nome era Job Cohen ed era il presidente del consiglio di amministrazione. Quando ho iniziato l’incarico, era appena diventato sindaco di Amsterdam e innegabilmente era un uomo dell’establishment. Ha celebrato il matrimonio civile dei futuri sovrani ed è stato particolarmente amico di lei. All’epoca Cohen sedeva in molti dei consigli di amministrazione più importanti della nazione, non solo nei think tank, ma anche nel mondo dell’arte e della politica. Era al centro dell’intersezione dove politica, mondo accademico e cultura si incontrano. Era estremamente rispettato e, cosa più importante per lui, una figura rispettabile. La sua politica era saldamente nel mezzo: quel ‘vecchio centrosinistra’ che ora sembra decisamente bizzarro. Ha incarnato e sostenuto una politica in cui la parola ‘consenso’ veniva pronunciata prima della discussione di qualsiasi cosa che potesse essere lontanamente controversa. Era il signor Consenso. E ce n’erano molti, molti in tutta Europa e negli Stati Uniti che si comportavano proprio come lui.
Mr. Consensus e i suoi cloni hanno incarnato la leadership in occidente dal periodo che va dal crollo del comunismo sovietico nel 1989 all’11 settembre. Ciò a cui abbiamo assistito, nei due decenni successivi, è una crisi del mondo creata da Mr. Consensus e le conseguenze delle sue decisioni o la loro mancanza. Per capire perché l’occidente è andato in declino sotto la sua guida nell’ultimo quarto di secolo, è necessario comprendere la sua visione del mondo. Prima dell’11 settembre ero una grande ammiratrice del suo tipo di politica, di tutto ciò che riguarda il consenso. Per me, vivere in una società in cui il compromesso era il re e l’esito di qualsiasi conflitto poteva essere caratterizzato dal fatto che ‘entrambe le parti hanno vinto’ è stato incredibilmente avvincente. Mi ha convinta. Un’altra caratteristica di Mr. Consensus è il suo amore per la ‘collaborazione’. Dopo la caduta del Muro di Berlino e l’emergere di un ordine unipolare con gli Stati Uniti al timone, Mr. Consensus, così abituato ad avere le due potenze dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti su entrambi i lati, si è battuto per il multilateralismo. Quando sono andata al think tank, sono stata inserita nel portafoglio dell’immigrazione. Era il campo politico più ricercato. Volevo fare qualcosa di più ambizioso dell’immigrazione. E di certo non volevo essere il candidato simbolico della diversità. Ma sono stata lusingata da Job Cohen, che mi ha detto che ero un ottimo esempio di integrazione!
Le cose sono cambiate dopo l’11 settembre. Ho iniziato a scontrarmi con i miei colleghi del think tank. Tutti iniziarono a sostenere che forse l’America se l’era cercata. Nixon, Israele, il petrolio: solo una lista infinita di ragioni per cui Bin Laden e al-Qaeda avevano attaccato gli Stati Uniti. Ma man mano che il tempo passava e ottenevamo sempre più informazioni sui 19 uomini che dirottarono i quattro aerei, divenne chiaro per me che l’attacco non era una risposta alla politica estera americana. No, questi uomini erano guidati da una visione politica teocratica del mondo che era completamente estranea alla società occidentale: l’islamofascismo. Questo è stato il mio primo conflitto con i miei colleghi del think tank. La mia prospettiva è stata respinta completamente perché era una narrazione che minava la loro politica di consenso. Si sono trovati nella morsa della dissonanza cognitiva mentre lottavano per afferrare l’idea che la politica al di fuori dell’Olanda o forse dell’occidente post Guerra fredda potrebbe non riguardare solo l’identificazione di interessi estranei e concorrenti e la resa a concessioni che renderebbero tutti felici. Alcune persone non vogliono concessioni. Alcune persone sono semplicemente tue nemiche. Odiano te e la tua società e faranno tutto il possibile per degradarti e distruggerti. Un massimalismo che Mr. Consensus non riesce a calcolare.
Sulla scia dell’11 settembre, poiché ero una giovane immigrata nera, ingenua, tutti nei media olandesi hanno immediatamente iniziato ad attaccarsi a me per ottenere la mia opinione su queste cose. E ovviamente l’ho data. Ho scritto i risultati della mia ricerca, citando i migliori lavori accademici disponibili. Ho detto loro che i lavoratori ospiti migranti provenienti da paesi musulmani mandavano i loro figli in scuole per soli musulmani, ascoltavano solo i canali radiofonici e televisivi dedicati agli insegnamenti musulmani e si sposavano solo all’interno delle loro comunità. Ero una rifugiata, non una lavoratrice ospite, ed ero scappata dalla mia famiglia, quindi non ero soggetta allo stesso soffocante controllo sociale che la maggior parte dei musulmani subiva in Olanda. Ma potevo capire perché coloro che erano rimasti intrappolati nel ghetto stavano fallendo. In quel periodo nei Paesi Bassi emergeva un altro politico. Il suo nome era Pim Fortuyn, ed era un chiaro oppositore di Mr. Consensus. Fortuyn ha definito l’islam arretrato e ha sostenuto che la società olandese sarebbe cambiata irreparabilmente dall’immigrazione di massa dai paesi islamici. E quando i giornalisti mi hanno chiesto riguardo ai commenti di Fortuyn, non ho potuto essere in disaccordo con lui. Per aver detto queste cose sono stata minacciata da molti musulmani nei Paesi Bassi e in Europa, compresi i membri della mia famiglia allargata. E il partito socialdemocratico di cui facevo parte, il partito al governo del paese, si è trovato in una situazione scomoda. Da un lato mettevo in imbarazzo i socialdemocratici dando punti al loro avversario. Dall’altro, sono stati costretti a fornirmi la protezione della polizia dalla minaccia di quegli stessi musulmani che Pim Fortuyn aveva identificato come arretrati. Quindi la leadership del partito di centrodestra del paese mi ha chiesto di unirmi a loro e ho accettato. Passando al partito di centrodestra, avrei potuto difendere le idee della libertà di parola, dell’emancipazione delle donne, della libertà di coscienza, del libero mercato, della libera stampa: tutte queste cose che hanno reso grande l’Olanda.
Quasi un quarto di secolo dopo, in occidente ci sono persone che sono legate al dogma islamista più che mai. Sono nelle nostre università, nelle nostre strade e nelle nostre istituzioni politiche, dove ora dettano la politica e minacciano di influenzare le elezioni se non ottengono ciò che vogliono. La realtà, che Mr. Consensus nega, sta travolgendo tutti in Europa occidentale. L’immigrazione illegale non ha portato all’utopia ma sempre più al traffico di droga e di esseri umani. La leadership emersa per far fronte a queste crisi, e che ho visto personificata per la prima volta in Cohen tanti anni fa, ha messo da parte la vecchia saggezza secondo cui un leader deve affrontare la realtà che trova sul campo e non il risultato che desidera. Secondo Consensus, il mondo è e dovrebbe essere connesso attraverso le Nazioni Unite, l’Organizzazione mondiale del commercio, il Fondo monetario internazionale e l’Ue. Il loro ruolo di primo piano si basa sulla convinzione che attraverso il commercio, gli aiuti, la migrazione umanitaria e pianificata, saremo protetti da tutte le forze che cercano di sovvertire le nostre società e ci augurano del male. Indulgendo in questa fede infondata nel solo soft power mentre si affamano i nostri bilanci per la difesa nazionale, ci troviamo disposti a contemplare concessioni all’Iran, alla Cina, a Putin e persino a Hamas! L’ex sindaco di Amsterdam ha recentemente rilasciato un’intervista che mi ha incuriosito. Si è ritirato dalla politica e vive nella bellissima e verdeggiante città di Haemstede, nel lusso tranquillo fuori Amsterdam. E’ il capo della Fondazione volontaria per l’eutanasia. Un giudice della Corte suprema dei Paesi Bassi di nome Huib Drion immagina un mondo in cui la morte possa essere provocata nel momento scelto dal consumo di due piccole pillole. Cohen si è ritirato in un quartiere protetto che rimane in ogni sua forma tradizionale ed europeo. Viaggia in macchina. Non sa davvero, o forse non gli interessa, cosa succede adesso nei quartieri.
Mr. Consensus e i suoi cloni hanno preso una decisione dopo l’altra che collettivamente hanno alienato le loro popolazioni e le hanno rese insicure. Hanno di fatto abolito il Dio cristiano e lo hanno sostituito con un astratto ‘buonismo’ in nome del consenso. Per loro, essere ateo, come lo ero io in passato, significava essere ai livelli più alti dell’intelligenza raggiungibile. Mentre ci sono radicali nelle strade che dichiarano guerra alle fondamenta stesse del nostro sistema occidentale, Mr. Consensus si comporta con aristocratica indifferenza. Ha scelto di non credere a nulla. Questo tipo di leadership deve scomparire. Abbiamo bisogno di un cambio di paradigma. Dobbiamo porre l’accento sulla restaurazione. Dobbiamo sfidare Mr. Consensus e ritenerlo responsabile. Gli islamisti e gli utili idioti che si definiscono ‘woke’ e scandiscono i loro slogan di morte sono stati in grado di prosperare nel vuoto morale creato da Mr. Consensus. Non abbiamo la pillola di Drion nella tasca posteriore. E non la vogliamo. Vogliamo qualcosa di più forte. Più potente. Piuttosto che Mister Consenso, troviamo Mister Coraggio”.
USA – La stanchezza degli ebrei usati come una clava politica
Gli ultimi dieci mesi sono stati difficili per gli ebrei americani. Sul Forward, Nora Berman ha scritto: «La guerra ci ha allontanato da parenti e amici, ha diviso le nostre sinagoghe e persino le app per gli appuntamenti sono in subbuglio, con profili in guerra pieni di emoji schierati. Ma la cosa peggiore è il modo in cui la nostra identità ebraica – e le reali minacce antisemite che affrontiamo – è diventata uno strumento politico, sfruttato sia a destra che a sinistra».
La scorsa settimana il candidato alla vicepresidenza, il senatore JD Vance, ha insinuato che Kamala Harris sia stata convinta a non scegliere il governatore della Pennsylvania Josh Shapiro come suo compagno di corsa perché è ebreo. Nonostante Shapiro, quella stessa sera, avesse proclamato durante un comizio per Harris di essere orgoglioso del proprio ebraismo, tra gli applausi. Trasformare la questione profondamente personale di come gli ebrei gestiscono i potenziali conflitti tra la propria identità personale e quella pubblica in un referendum sulla vitalità politica degli avversari non è appannaggio solo della destra. I Democratic Socialists of America (DSA) si sono vantati, su X: «La scelta di Walz ha dimostrato al mondo che DSA e i suoi alleati a sinistra sono una forza che non può essere ignorata». E hanno aggiunto che la pressione della sinistra ha fatto sì che Harris rinunciasse a scegliere «un potenziale vicepresidente che ha legami diretti con l’IDF e che ha sostenuto ferocemente il genocidio in corso in Palestina». Per la cronaca: Shapiro ha “solo” completato un progetto di servizio scolastico in Israele come volontario non militare in una base dell’esercito, oltre al lavoro in un kibbutz e in una pescheria. Ed è favorevole al cessate il fuoco e alla soluzione dei due Stati.
Ma, scrive Berman, essere una pedina politica è parte dell’esperienza ebraica: usati dai partiti di tutto lo spettro politico per rappresentare i mali o i successi che ritenevano utili al momento questa volta ci si confronta con una realtà diversa, sia per quanto accaduto il 7 ottobre e per la conseguente guerra di Israele contro Hamas, ma anche, e soprattutto, per il ruolo dei social media. Tutto viene trasmesso sui nostri telefoni 24 ore su 24, 7 giorni su 7, spesso senza contesto e con una retorica volutamente aggressiva. Scrive Berman che è inevitabile: ciò che coinvolge gli ebrei è una questione grande e complessa e viene sfruttata (e amplificata) sui social media. Gli ebrei sono stati trasformati in un’idea, che viene usata come una clava.Tutti sono diventati esperti di Medio Oriente e hanno opinioni sempre più polarizzate sugli ebrei: la destra e la sinistra USA si sfidano su chi sia il migliore protettore degli ebrei e chi il più grande perpetratore dell’antisemitismo.
Trump ha detto ripetutamente che gli ebrei che votano per i democratici sono «sleali nei confronti di Israele» e dovrebbero farsi «esaminare la testa». Dopo che Alexandria Ocasio-Cortez – le cui critiche a Israele non l’hanno resa particolarmente popolare tra gli ebrei americani – ha ospitato una conversazione in livestream sull’antisemitismo e l’antisionismo con due esperti ebrei, la DSA ha ritirato il suo appoggio, definendo la sua sponsorizzazione del panel «un profondo tradimento».
La repubblicana Elise Stefanik durante l’interrogazione ai presidenti delle università sull’antisemitismo, nel dicembre 2023, è riuscita a trattare gli ebrei contemporaneamente come vittime, menti del movimento anti-DEI (Diversity, Equity, Inclusion) che griderebbero all’antisemitismo per far licenziare una donna nera, e strumento politico spuntato di un politico ambizioso. Ha fatto in modo che la realtà di ciò che gli ebrei realmente provano sparisse: l’antisemitismo è reale ed è in aumento.
E gli ebrei sono esausti non solo a causa dell’antisemitismo, ma anche perché spesso le accuse di antisemitismo vengono tirate fuori per motivi che poco hanno a che fare con la loro sicurezza. È un’accusa che si sta svuotando di significato, più viene usata come insulto e più verrà percepita come falsa, e pericolosa. Si chiede Berman: «Come possiamo, come comunità, elaborare il lutto e affrontare questa guerra profondamente dolorosa quando il nostro essere ebrei continua a essere politicizzato per un numero apparentemente infinito di cause? Come possiamo affrontare adeguatamente le questioni politiche che ci stanno a cuore – tra cui non solo Israele e l’antisemitismo, ma anche i diritti riproduttivi e la giustizia climatica, se la nostra identità non è vista come parte della nostra umanità, ma come un argomento politico? A questo punto, ogni volta che vedo qualcuno che parla a nome degli ebrei, o un titolo di giornale su ciò che pensano gli ebrei, vorrei chiudere il mio computer portatile, spegnere il telefono e dormire. Non voglio più preoccuparmene, è questo il risultato più pericoloso di tutti».
Reuven, l’ufficiale dell’IDF che il 7 ottobre ha corso per 12 kilometri
Il giovane ufficiale dell’IDF che il 7 ottobre ha corso per 12 kilometri fino al confine con Gaza per combattere i terroristi È stata la corsa più difficile che abbia mai fatto”: il sottotenente Avichail Reuven racconta la sua storia eroica, che Netanyahu ha condiviso brevemente con il Congresso il mese scorso con una standing ovation.
Quando il Primo Ministro Benjamin Netanyahu si è rivolto al Congresso degli Stati Uniti alla fine di luglio, ha nominato quattro soldati israeliani che, a suo dire, sono stati degli eroi dopo il massacro del 7 ottobre da parte di Hamas. Il primo di questi soldati è stato il giovane ufficiale dell’IDF, il sottotenente Avichail Reuven, che quel sabato ha corso per 12 chilometri fino al confine con Gaza per aiutare a combattere i terroristi.
Reuven si trovava a casa dei suoi genitori nella città meridionale di Kiryat Malachi il 7 ottobre quando è stato svegliato dalle sirene. All’epoca stava ancora frequentando l’addestramento per ufficiali, ma dopo aver sentito la notizia di una massiccia infiltrazione di terroristi nelle comunità di Gaza al confine con Israele, decise di andare ad aiutare anche se non era stato chiamato.
“Ho detto a mio fratello e a un amico che mi sarei recato al confine. Ho detto che se fosse successo qualcosa, avrei semplicemente ucciso i terroristi. Mi sembrava che i ragazzi ridessero un po’ di me”, ha raccontato. Mi hanno detto: “Sei pazzo ad andare, non c’è motivo di venire con te”. Ho anche cercato amici con una macchina per andarci, ma non ho trovato nessuno, così ho deciso che sarei andato all’interscambio e avrei cercato di trovare un passaggio”.
Reuven indossò la sua uniforme, ancora umida di bucato, e si è fblinkn
avviato con il suo fucile e il suo berretto rosso da paracadutista. Non sapendo esattamente dove stesse andando, Reuven ha aspettato allo svincolo principale vicino a casa sua che qualcuno si fermasse per dargli un passaggio, ma nessuno lo ha fatto, così ha deciso di iniziare a correre.
“È stato difficile, correre con l’uniforme bagnata, con le sirene per tutto il tempo e i razzi che cadevano nella zona”, ha raccontato. Dodici chilometri e un’ora dopo, Reuven si è ritrovato di nuovo sull’autostrada, accaldato e assetato, ma determinato ad andare avanti. “È stata la corsa più difficile che abbia mai fatto. È stata la corsa più lunga che abbia mai fatto in uniforme, con il caldo. Un incubo”, ha detto.
Dopo aver camminato ancora un po’ lungo l’autostrada, Reuven ha finalmente trovato un passaggio con un civile il cui figlio era stato al festival musicale Supernova, dove i terroristi di Hamas hanno ucciso circa 360 persone e preso più di 40 ostaggi durante la loro furia nel sud di Israele. Reuven ha raccontato che ancora oggi non conosce il nome dell’uomo, ma l’autista gli ha dato dell’acqua e lo ha lasciato ad uno svincolo fuori Ashkelon quando ha capito che non avrebbe potuto raggiungere il luogo del rave e aiutare suo figlio senza un’arma.
Allo svincolo, Reuven è riuscito a prendere un altro passaggio, con un’auto della polizia, fino a un posto di blocco vicino a Zikim, la sede di una base di addestramento dell’IDF che era tra i siti infiltrati dai terroristi quel giorno.
“Ho discusso un po’ con gli agenti di polizia. Ho detto loro: ‘Io entro. Se non con voi, entro da solo”, ha raccontato Reuven, aggiungendo che mentre parlava con loro è arrivato il vice comandante di un battaglione di ricerca e soccorso di Zikim, che ha chiamato solo Alexander, e i due sono entrati insieme nella base.
Poiché erano nel pieno dell’addestramento di base, molti dei soldati della base di Zikim non erano completamente addestrati, così quando sono arrivati i terroristi, i comandanti della base hanno riunito tutti in due rifugi antiatomici e si sono avvicinati alla recinzione per combattere i terroristi. Sei comandanti e un soldato dell’addestramento di base sono stati uccisi durante i combattimenti. Reuven e l’altro comandante si sono uniti alla battaglia non appena sono arrivati.“Qui c’era il caos più totale. Metà della base era bruciata. Si sentivano molte grida e si vedevano i terroristi correre per tutta l’area”, ha raccontato Reuven.
Lui e un altro comandante hanno unito le forze per combattere i terroristi e hanno raggiunto un rifugio antiatomico dove erano in attesa circa 30 soldatesse dell’addestramento di base, una delle quali era ferita. Reuven le ha curato la ferita. “Ho detto loro: “Ascoltate, ho bisogno di tre ragazze forti. È per questo che vi siete arruolate in un’unità di combattimento. Ora è il vostro momento di dimostrare che siete delle combattenti”.
Poi ha detto ai tre soldati di stare all’ingresso del rifugio antiatomico e di sparare in testa a tutti i terroristi che avessero visto. Poi si è diretto verso un secondo rifugio antiatomico per controllare i tirocinanti maschi, dove c’erano altri soldati feriti. Per le due ore successive, ha corso per la base combattendo contro i terroristi e raccogliendo barelle e acqua per i soldati nei rifugi antiatomici.
Alla fine, Reuven ha incontrato il col. (ris.) Erez Eshel, che aveva raggiunto Zikim dalla sua casa di Ma’ale Adumim. “Incontro un giovane soldato impegnato in una missione e non capisco chi sia. Non so il suo nome”, ha detto Eshel, aggiungendo di aver salvato il numero di telefono di Reuven con il nome ‘Sabato, soldato di Simchat Torah’.
“È completamente dentro, sa maneggiare la sua pistola, è calmo, è concentrato e può gestire qualsiasi cosa. È un vero super soldato”, ha detto Eshel. I due sono rimasti ancora un po’ a Zikim prima di dirigersi verso le vicine Yiftah, Kfar Aza e, infine, Kibbutz Be’eri, una comunità di circa 1.000 residenti di cui 101 civili sono stati uccisi il 7 ottobre, insieme a 31 membri della sicurezza. Complessivamente, i terroristi hanno ucciso circa 1.200 persone, per lo più civili, e preso 251 ostaggi durante l’attacco di Hamas a Israele quel giorno. L’IDF ha trascorso i giorni successivi a combattere i terroristi e ad arrestare o uccidere gradualmente tutti coloro che erano rimasti in Israele.
“Non dirò che è l’unico soldato che ho preso, ma è l’unico soldato che ha resistito a tutti i combattimenti fino a domenica mattina presto, quando l’ho collegato alla sua compagnia”, ha detto Eshel. Eshel ha raccontato al comandante della scuola ufficiali dell’IDF nel sud di Israele, nota come Bahad 1, ciò che Reuven ha fatto il 7 ottobre, e il comandante lo ha riferito a Netanyahu. Reuven ha completato il suo addestramento da ufficiale con distinzione e ha accompagnato Netanyahu negli Stati Uniti il mese scorso, dove ha ricevuto una standing ovation quando il primo ministro ha condiviso la sua storia durante il discorso alla sessione congiunta del Congresso.
“Nelle prime ore del 7 ottobre, Avichail ha sentito la notizia della sanguinosa furia di Hamas. Ha indossato la sua uniforme, ha preso il suo fucile, ma non aveva un’auto. Così ha corso per otto miglia fino al fronte di Gaza per difendere il suo popolo”, ha detto Netanyahu ai legislatori statunitensi.
“Avete sentito bene. Ha corso per 12 kilometri, è arrivato in prima linea, ha ucciso molti terroristi e ha salvato molte vite. Avichail, tutti noi onoriamo il tuo straordinario eroismo”. Reuven è ora un comandante di compagnia per i paracadutisti in addestramento di base, e insiste nell’includere lunghe corse nel processo di addestramento dei suoi soldati. Reuven è il secondo figlio di nove nati da immigrati israeliani provenienti dall’Etiopia. Durante l’adolescenza ha faticato a finire la scuola superiore ed è stato classificato come giovane a rischio. Per questo motivo, non aveva i requisiti per essere reclutato nell’IDF come paracadutista, ma Reuven era determinato e ha lottato per il suo posto nell’unità.
Reuven ha dichiarato non intende ritirarsi dall’IDF a breve. “Voglio continuare a lavorare nell’esercito. È la mia missione, è ciò in cui credo”, ha detto.
(Israele 360, 18 agosto 2024)
Caldei incendiarono la casa di Dio, demolirono le mura di Gerusalemme, diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi, e ne distrussero tutti gli oggetti preziosi.
E Nabucodonosor deportò a Babilonia quelli che erano scampati dalla spada; ed essi furono assoggettati a lui e ai suoi figli, fino all'avvento del regno di Persia
(affinché si adempisse la parola dell'Eterno pronunciata per bocca di Geremia), fino a che il paese avesse goduto dei suoi sabati; infatti esso dovette riposare per tutto il tempo della sua desolazione, finché furono compiuti i settant'anni.
Nel primo anno di Ciro, re di Persia, affinché si adempisse la parola dell'Eterno pronunciata per bocca di Geremia, l'Eterno destò lo spirito di Ciro, re di Persia, il quale, a voce e per iscritto, fece pubblicare per tutto il suo regno questo editto:
"Così dice Ciro, re di Persia: 'L'Eterno, l'Iddio dei cieli, mi ha dato tutti i regni della terra, ed egli mi ha comandato di costruirgli una casa in Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque tra voi è del suo popolo, l'Eterno, il suo Dio, sia con lui, e parta!'”.
MATTEO, cap. 1
Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abraamo.
Abraamo generò Isacco; Isacco generò Giacobbe; Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli;
Giuda generò Perez e Zerac da Tamar; Perez generò Chesron; Chesron generò Ram;
Giacobbe generò Giuseppe, il marito di Maria, dalla quale nacque Gesù, che è chiamato Cristo.
Così da Abraamo fino a Davide sono in tutto quattordici generazioni; da Davide fino alla deportazione in Babilonia quattordici generazioni e dalla deportazione in Babilonia fino a Cristo quattordici generazioni.
La nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe e, prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo.
Giuseppe, suo marito, essendo uomo giusto e non volendo esporla a infamia, si propose di lasciarla segretamente.
Ma, mentre aveva queste cose nell'animo, ecco che un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria tua moglie, perché ciò che in lei è generato è dallo Spirito Santo.
Ella partorirà un figlio e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati”.
Tutto ciò avvenne, affinché si adempisse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
“Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele”,
che, interpretato, vuol dire: “Dio con noi”.
E Giuseppe, destatosi dal sonno, fece come l'angelo del Signore gli aveva comandato; prese con sé sua moglie
e non ebbe con lei rapporti coniugali finché ella non ebbe partorito un figlio, al quale pose nome Gesù.
MATTEO, cap. 2
Essendo Gesù nato a Betlemme di Giudea, all'epoca del re Erode, dei magi d'Oriente arrivarono a Gerusalemme, dicendo:
“Dov'è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo”.
Udito questo, il re Erode fu turbato e tutta Gerusalemme con lui.
Radunati tutti i capi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
Essi gli dissero: “In Betlemme di Giudea, poiché così è scritto per mezzo del profeta:
'E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei affatto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele'”.
Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparsa
e, mandandoli a Betlemme, disse loro: “Andate, domandate diligentemente del bambino e, quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché venga anche io ad adorarlo”.
Essi dunque, udito il re, partirono e la stella che avevano visto in Oriente andava davanti a loro, finché, giunta al luogo dov'era il bambino, vi si fermò sopra.
Essi, vista la stella, si rallegrarono di grandissima gioia.
Ed entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre e, prostratisi, lo adorarono e, aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, tornarono al loro paese per altra via.
Quando furono partiti, ecco un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Alzati, prendi il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e restaci finché io non te lo dico; perché Erode cercherà il bambino per farlo morire”.
Egli dunque si alzò, prese di notte il bambino e sua madre e si ritirò in Egitto;
là rimase fino alla morte di Erode, affinché si adempisse quello che fu detto dal Signore per mezzo del profeta: “Chiamai mio figlio fuori dall'Egitto”.
Allora Erode, vedendosi beffato dai magi, si adirò gravemente e mandò a uccidere tutti i maschi che erano in Betlemme e in tutto il suo territorio dall'età di due anni in giù, secondo il tempo del quale si era esattamente informato dai magi.
Allora si adempì quello che fu detto per bocca del profeta Geremia:
“Un grido è stato udito in Rama; un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e rifiuta di essere consolata, perché non sono più”.
Ma dopo che Erode fu morto, ecco un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse:
“Alzati, prendi il bambino e sua madre e vattene nel paese d'Israele, perché sono morti quelli che cercavano la vita del bambino”.
Ed egli, alzatosi, prese il bambino e sua madre ed entrò nel paese d'Israele.
Ma, udito che in Giudea regnava Archelao invece d'Erode, suo padre, temette di andare là e, essendo stato divinamente avvertito in sogno, si ritirò nelle parti della Galilea
e venne ad abitare in una città detta Nazaret, affinché si adempisse quello che era stato detto dai profeti, che egli sarebbe stato chiamato Nazareno.
GIOSUÈ, cap.6
Poi i figli d'Israele bruciarono la città e tutto quello che conteneva; presero soltanto l'argento, l'oro e gli oggetti di bronzo e di ferro, che misero nel tesoro della casa dell'Eterno.
Ma a Raab, la prostituta, alla famiglia di suo padre e a tutti i suoi Giosuè lasciò la vita; e lei ha dimorato in mezzo a Israele fino al giorno d'oggi, perché aveva nascosto i messaggeri che Giosuè aveva mandati a esplorare Gerico.
RUT, cap 4
E tutto il popolo che si trovava alla porta della città e gli anziani risposero: “Ne siamo testimoni. L'Eterno conceda che la donna che entra in casa tua sia come Rachele e come Lea, le due donne che fondarono la casa d'Israele. Spiega la tua forza in Efrata, e fatti un nome in Betlemme!
Possa la progenie che l'Eterno ti darà da questa giovane, rendere la tua casa simile alla casa di Perez, che Tamar partorì a Giuda!”.
ESODO, cap. 25
Mi facciano un santuario perché io abiti in mezzo a loro.
Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti.
GENESI, cap. 35
Poi partirono da Betel. C'era ancora un certo tratto di strada prima di arrivare a Efrata, quando Rachele partorì: ebbe un parto difficile.
Mentre penava a partorire, la levatrice le disse: “Non temere, perché ecco un altro figlio”.
E mentre l'anima sua se ne andava, perché stava morendo, chiamò il bimbo Ben-Oni; ma il padre lo chiamò Beniamino.
Rachele morì e fu sepolta sulla via di Efrata, cioè di Betlemme.
Giacobbe eresse una pietra commemorativa sulla sua tomba. Questa pietra commemorativa della tomba di Rachele esiste tuttora.
GEREMIA, cap. 31
Così parla l'Eterno: “Si è udita una voce in Rama, un lamento, un pianto amaro; Rachele piange i suoi figli; lei rifiuta di essere consolata dei suoi figli, perché non sono più”.
Così parla l'Eterno: “Trattieni la tua voce dal piangere, i tuoi occhi dal versare lacrime; poiché la tua opera sarà ricompensata”, dice l'Eterno, “essi ritorneranno dal paese del nemico;
e c'è speranza per il tuo avvenire”, dice l'Eterno, “i tuoi figli ritorneranno entro i loro confini.
Israele ridimensiona l’ottimismo su un accordo con Hamas. Ma Biden insiste
Dopo tanti anni siamo tornati alla fallimentare “Obama’s vision”: meglio un cattivo accordo [per Israele] che nessun accordo
di Sarah G. Frankl
Un alto funzionario israeliano ha dichiarato all’emittente pubblica Kan che a Doha sono stati effettivamente compiuti progressi su diversi aspetti controversi dell’accordo sugli ostaggi in corso di negoziazione.
Tuttavia, il funzionario fa notare che questi progressi sono stati fatti solo tra Israele e i mediatori.
Non è ancora chiaro come Hamas risponderà a questi nuovi accordi.
Un gruppo di negoziatori israeliani di livello inferiore rimarrà a Doha nel fine settimana per continuare i colloqui con i mediatori e un altro gruppo di livello inferiore si recherà al Cairo domani per incontri simili.
Il Qatar e l’Egitto hanno talvolta diviso i negoziati per far sì che il primo si concentri sugli aspetti relativi agli ostaggi e il secondo sul ritiro delle truppe israeliane dalle aree chiave all’interno e intorno a Gaza, come i corridoi Netzarim e Philadelphi e il valico di Rafah.
Le delegazioni di livello inferiore mireranno a colmare le lacune rimanenti prima che i negoziatori più importanti si riuniscano nuovamente alla fine della prossima settimana al Cairo per cercare di finalizzare un accordo.
- MA BIDEN INSISTE E LANCIA UN MONITO
Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden avverte Israele e altri attori di non intraprendere azioni che potrebbero minare il cessate il fuoco e l’accordo per il rilascio degli ostaggi che la sua amministrazione sta cercando di finalizzare.
“Oggi ho ricevuto un aggiornamento dalla mia squadra di negoziatori sul campo a Doha e ho dato loro l’ordine di presentare la proposta globale di ponte presentata oggi, che offre la base per giungere a un accordo finale sul cessate il fuoco e sul rilascio degli ostaggi”, ha dichiarato Biden in un comunicato.
“Ho parlato separatamente con l’emiro del Qatar, Sheikh Tamim, e con il presidente dell’Egitto, Sissi, per esaminare i significativi progressi compiuti a Doha negli ultimi due giorni di colloqui, ed essi hanno espresso il forte sostegno del Qatar e dell’Egitto alla proposta degli Stati Uniti come co-mediatori in questo processo”, continua il presidente.
“I nostri team rimarranno sul posto per continuare il lavoro tecnico nei prossimi giorni e gli alti funzionari si riuniranno nuovamente al Cairo prima della fine della settimana. Mi riferiranno regolarmente”.
“Ho inviato il Segretario Blinken in Israele per riaffermare il mio fermo sostegno alla sicurezza di Israele, per continuare i nostri intensi sforzi per concludere questo accordo e per sottolineare che, con il cessate il fuoco completo e l’accordo per il rilascio degli ostaggi ormai in vista, nessuno nella regione dovrebbe intraprendere azioni per minare questo processo”, aggiunge Biden.
È ancora una volta la “Obama’s vision”: meglio un cattivo accordo [per Israele] che nessun accordo
GERUSALEMME - L'ex ostaggio di Hamas Mia Shem soffre ancora per le esperienze vissute nella Striscia di Gaza. Ha dichiarato all'emittente televisiva “Kanal 13” che vede le immagini della sua guardia. “Vado a letto e lo vedo davanti a me. Lo vedo e ho paura. Non riesco a dormire, il mio respiro è lento”.
Durante la prigionia, ha sognato di essere a casa. Ma poi si è svegliata in un tunnel del terrore. “Ecco da dove viene la paura di dormire e di svegliarsi da un'altra parte”.
• Fluttuazioni di energia e domande difficili
Ha anche paura di guidare un'auto e di essere colpita all'improvviso. “È una cosa che c'è sempre. Non appena il sole tramonta, gli impulsi si intensificano”. Deve anche affrontare forti fluttuazioni: Ci sono momenti in cui è piena di energia, ma nel giro di un secondo ha la sensazione di non riuscire più a stare in piedi.
Trova questo stato insopportabile: “A volte mi chiedo: 'Perché? Perché? Perché non mi hanno sparato il 7 ottobre? Perché devo vivere questa esperienza?”.
Tuttavia, può guardare a uno sviluppo positivo: il suo braccio, ferito durante il rapimento, è quasi completamente guarito. Descrive la sua guarigione come un “miracolo” e “soprannaturale”. “Non ci ho nemmeno fatto caso. Ma all'improvviso ho potuto tenere il cellulare in mano”.
Mia Shem è stata rilasciata alla fine di novembre nell'ambito di uno scambio di ostaggi. La 21enne era stata il primo ostaggio a comparire in un video di propaganda di Hamas a metà ottobre. I terroristi l'avevano rapita dal Nova Festival.
(Israelnetz, 17 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Tra guerra e salvezza: l’evacuazione di bambini malati di cancro da Gaza con l’assistenza di Israele
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato che giovedì
11 bambini malati di cancro sono stati evacuati dalla Striscia di Gaza per ricevere cure mediche
. Questa è stata la prima evacuazione medica dal territorio da quando l’offensiva israeliana ha chiuso il valico di Rafah con l’Egitto lo scorso maggio. I bambini hanno attraversato il valico di Kerem Shalom, diretti in Giordania, accompagnati ciascuno da una scorta femminile.
Israele attualmente controlla tutti i punti di trasferimento in entrata e in uscita da Gaza, nel mezzo della guerra contro il gruppo terroristico Hamas, e ha consentito a un numero limitato di pazienti di lasciare l’enclave per ricevere cure. Lo sforzo è stato coordinato da Israele, Egitto, Stati Uniti e altri partner internazionali, secondo quanto affermato dall’esercito israeliano in una dichiarazione. Questa evacuazione è avvenuta dopo settimane di crescente pressione su Israele affinché permettesse ai palestinesi vulnerabili di lasciare Gaza, dove una guerra prolungata ha decimato il sistema sanitario.
I gruppi umanitari sperano che questa evacuazione apra la strada a una nuova rotta per i palestinesi gravemente malati e feriti che cercano cure mediche all’estero. Tuttavia, non è ancora chiaro dove saranno trattati i pazienti e se le autorità israeliane prevedano ulteriori evacuazioni.
Questi sforzi riflettono la complessità della situazione: nonostante il conflitto e le tensioni politiche,
esistono canali di cooperazione umanitaria che mirano a salvare vite umane
, soprattutto quelle dei bambini, considerati le vittime più vulnerabili della guerra. Tuttavia, queste iniziative avvengono in un contesto di grande difficoltà, segnato da continui combattimenti e tensioni politiche tra Israele e i territori palestinesi.
- DETTAGLI SULL’EVACUAZIONE Come riportato dal Times of Israel, Nermine Abu Shaaban, coordinatrice dell’evacuazione dei pazienti per l’OMS, ha confermato che i bambini sono stati trasferiti attraverso il valico di Kerem Shalom in Israele e diretti nella vicina Giordania per le cure. Sette dei bambini sono stati trasportati in ambulanza, mentre i restanti in autobus. L’evacuazione è stata organizzata dall’OMS in collaborazione con due enti di beneficenza statunitensi.
Uno dei bambini trasferiti, Mecca Zorab, di 2 anni, è già stata sottoposta a tre interventi chirurgici nella Striscia di Gaza, dopo la scoperta di un tumore alla testa tre mesi fa. Sua madre, Fatima, è stata vista mentre teneva e baciava la mano della piccola, distesa su una barella in ambulanza con un tubo respiratorio. Avendo un altro neonato di cui prendersi cura, Fatima non può accompagnare la figlia; la nonna della bambina ha quindi preso il suo posto.
Israele consente a ogni paziente di essere accompagnato da una scorta femminile, controllata dai servizi di sicurezza, che può portare con sé una borsa di vestiti, un telefono cellulare e un caricabatterie.
Intanto
il ministro della Difesa Yoav Gallant
ha confermato le evacuazioni, dichiarando che l’operazione, «condotta insieme a COGAT e all’IDF, ha evacuato bambini e pazienti che necessitavano di cure mediche in Giordania, a seguito di una missione umanitaria simile condotta diverse settimane fa».
La maggior parte degli ospedali a Gaza ha chiuso dopo aver esaurito carburante o scorte, oppure a causa di raid delle forze israeliane contro terroristi che utilizzavano le strutture.
Israele ha presentato prove che Hamas e altri gruppi terroristici si rifugiano negli ospedali
. Il Ministero della Salute di Gaza ha affermato che circa 28.000 pazienti necessitano di cure mediche fuori Gaza.
Careeman al-Farra, cinque anni, anche lei inclusa nell’evacuazione di giovedì, ha ricevuto una diagnosi di tumore del sangue da neonata e in precedenza aveva ricevuto cure fuori Gaza. Sua madre ha detto che il tumore è tornato poco prima della guerra. «Non c’era un posto pulito dove stare o dove essere ben nutrita per aiutarla con le sue condizioni mediche – ha dichiarato Zaher al-Farra –. Abbiamo cercato di fornirle queste cose, ma è stato difficile perché siamo stati sfollati da un posto all’altro».
- ALLARME POLIO A GAZA: UN’AZIONE URGENTE NECESSARIA Il conflitto ha anche contribuito alla diffusione di malattie letali come la poliomielite, che rappresenta una grave minaccia per la popolazione di Gaza. Gli operatori umanitari delle Nazioni Unite hanno lanciato l’allarme, sottolineando l’importanza di un intervento immediato per fermare la trasmissione del virus.
Secondo un aggiornamento congiunto dell’OMS e dell’UNICEF, saranno necessari almeno due cicli di vaccino antipolio orale per bloccare la diffusione del poliovirus. Questo avvertimento è arrivato dopo che il Global Polio Laboratory Network ha identificato il poliovirus di tipo 2 derivato dal vaccino in campioni di acque reflue prelevati a Khan Younis e Deir Al-Balah il 23 giugno scorso.
- PARALISI: UNA TRAGICA CONSEGUENZA A fine luglio, le autorità sanitarie di Gaza hanno riportato tre casi di paralisi, con campioni inviati in Giordania per ulteriori analisi. Sebbene la “paralisi flaccida acuta” possa avere molte cause, l’OMS non esclude che il poliovirus sia all’origine di questi casi, anche se i risultati definitivi sono ancora attesi. (La paralisi flaccida acuta – PFA – è una sindrome a inizio rapido e improvviso, caratterizzato da paresi o paralisi degli arti con possibile concomitante interessamento dei muscoli respiratori e della deglutizione, che raggiunge il massimo grado di severità nel giro di 1-10 giorni).
L’OMS aveva già avvertito che, nonostante l’elevata copertura vaccinale contro la poliomielite a Gaza prima della guerra, i mesi di conflitto hanno creato «l’ambiente perfetto» per la mutazione del virus vaccinale in una forma più virulenta, capace di provocare paralisi tra i non completamente immunizzati.
- OSTACOLI ALLA CAMPAGNA DI VACCINAZIONE Le agenzie ONU sono preoccupate per i possibili ritardi nella consegna del vaccino e delle attrezzature necessarie per la catena del freddo, fondamentali in un contesto segnato da combattimenti intensi e instabilità. Le tensioni regionali legate al conflitto a Gaza minacciano di complicare ulteriormente le operazioni di vaccinazione.
In risposta a questa emergenza, le Nazioni Unite hanno fatto appello per la realizzazione di pause umanitarie che permettano di vaccinare i bambini e ridurre il rischio di trasmissione. Il direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha già approvato la distribuzione di 1,23 milioni di dosi del nuovo vaccino orale antipolio di tipo 2 (NOPV2), destinato a immunizzare oltre 640.500 bambini sotto i 10 anni a Gaza.
Per garantire il successo di questa campagna di vaccinazione di massa, le agenzie ONU hanno insistito sulla necessità di un accesso sicuro e duraturo, nonché sulla protezione degli operatori sanitari. Attualmente, solo 16 dei 36 ospedali di Gaza sono «parzialmente funzionanti», mentre solo 48 delle 107 strutture sanitarie primarie restano operative.
- UN SISTEMA SANITARIO AL COLLASSO Il conflitto ha avuto un impatto devastante sul sistema sanitario di Gaza, riducendo drasticamente i tassi di immunizzazione e aumentando il rischio di malattie prevenibili. Questo, unito alla scarsa qualità dell’acqua e alla distruzione dei servizi igienico-sanitari, aggrava ulteriormente la situazione.
La copertura vaccinale di routine contro la poliomielite a Gaza è scesa dal 99% nel 2022 a meno del 90% nel primo trimestre del 2024. Senza un’azione rapida e coordinata, la poliomielite potrebbe tornare a flagellare una popolazione già stremata da anni di conflitti.
- GLI OSPEDALI ISRAELIANI E IL PROGRAMMA “SAVE A CHILD’S HEART” Gli ospedali israeliani, in particolare quelli situati vicino a Gaza, curano regolarmente bambini provenienti dai Paesi arabi, inclusi i territori palestinesi. Questi pazienti vengono trasportati in Israele per ricevere trattamenti avanzati per ferite da conflitto, malattie gravi o condizioni croniche non gestibili nelle strutture locali, spesso sovraccariche o danneggiate dal conflitto.
Ad esempio, l’ospedale Wolfson di Holon, vicino a Tel Aviv, è noto per il suo programma “Save a Child’s Heart” (SACH), che offre interventi chirurgici cardiaci salvavita a bambini da tutto il mondo, inclusi molti provenienti dai territori palestinesi.
A novembre 2021, il programma “Save a Child’s Heart” aveva portato in Israele più di 4.500 bambini da oltre 65 Paesi, con circa il 50% provenienti dall’Autorità Nazionale Palestinese, dalla Giordania, dall’Iraq e dal Marocco, oltre al 30% dall’Africa e il resto da Asia, Europa orientale e Americhe. (Fonte: Wikipedia).
- LA DISPUTA TRA GALLANT E NETANYAHU Lo scorso luglio è emersa una disputa pubblica tra il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant e il primo ministro Benjamin Netanyahu riguardo alle cure mediche per i bambini di Gaza. Gallant aveva proposto di allestire un ospedale da campo vicino al confine con Gaza per compensare la chiusura del valico di Rafah, che impediva ai palestinesi di ricevere cure all’estero. Tuttavia, Netanyahu ha bloccato l’iniziativa, suscitando critiche da parte del Ministero della Difesa, che lo ha accusato di mettere in pericolo vite umane per motivi politici. La disputa riflette le tensioni interne al governo, con Gallant che aveva precedentemente proposto di inviare i bambini malati all’estero, proposta inizialmente accettata da Netanyahu ma mai attuata.
- BAMBINI SENZA CONFINI TRAUMATIZZATI Nel conflitto israelo-palestinese,
i bambini rappresentano le vittime più vulnerabili
. Durante le recenti escalation di violenza, come il conflitto tra Israele e Hamas nel 2023, centinaia di bambini palestinesi e israeliani hanno perso la vita, e molti altri sono rimasti feriti. A Gaza, dove la densità di popolazione è elevata e le infrastrutture sono gravemente compromesse dai bombardamenti, i bambini spesso si trovano intrappolati nelle aree di conflitto, senza vie di fuga sicure.
L’impatto psicologico sui bambini è altrettanto devastante.
Molti soffrono di disturbi post-traumatici da stress (PTSD)
, ansia e depressione, vivendo in costante paura di nuovi attacchi. Le scuole, un tempo considerate rifugi sicuri, sono state talvolta colpite, privando i bambini del diritto all’istruzione e di un senso di normalità. In Israele, i bambini vivono sotto la costante minaccia dei razzi lanciati da Gaza, e anche se il sistema Iron Dome riesce a intercettare molti di questi attacchi, il trauma psicologico di vivere in una zona di conflitto è profondo.
Le organizzazioni internazionali, come UNICEF e Save the Children, continuano a lanciare appelli per la protezione dei bambini in questo conflitto, sottolineando l’importanza di garantire loro accesso a cure mediche, sostegno psicologico e un ambiente sicuro per crescere. Tuttavia, fino a quando la violenza non cesserà, i bambini continueranno a essere tra le principali vittime di questo conflitto irrisolto.
(Bet Magazine Mosaico, 17 agosto 2024)
Olavi Syvanto e i primi credenti messianici di lingua ebraica a Beersheva
Olavi Syvanto è stato una forza trainante nella fondazione e nella crescita della comunità messianica nel sud di Israele.È scomparso il 1° luglio.
di Gershon Nerel
GERUSALEMME - Nel 1966, quando ero ancora un adolescente, conobbi a Beersheva una speciale coppia finlandese cristiana:
Olavied
Esther Syvanto. Frequentavano regolarmente le mie stesse funzioni dello Shabbat pomeridiano, nei locali dell'Alleanza Cristiana e Missionaria (C&MA) nel vecchio quartiere turco, al numero 15 di Patriarchs Street. A quel tempo Beersheva era una piccola città polverosa e in rapido sviluppo nella parte settentrionale del deserto del Negev. I beduini venivano spesso in visita e al mercato. L'area urbana si riempì profeticamente di migliaia di olim (nuovi immigrati) che si riversavano nella città desertica, soprattutto dal Nord Africa, dall'Europa orientale, dall'India e dal Pakistan. La mia famiglia è arrivata a Beersheva dalla Romania nel 1964.
- UNA MINI-COMUNITÀ
Nell'agosto del 1964, anche Warren
e Linda Graham
, giovani missionari americani, si stabilirono nel sito C&MA di Beerscheva con i loro figli piccoli. La loro visione era quella di condividere il messaggio del Signore Yeshua con gli israeliani. Olavi e la sua famiglia, allora con tre figli - Kari, Helena e Anneli e più tardi anche il figlio minore Jonathan - sostennero i Graham come meglio poterono. Insieme ad alcune altre famiglie del quartiere, tra cui Tibi
e Marcella Vardi
e Larry
ed Eila Goldberg
, formammo una piccola comunità di lingua ebraica. Ci riunivamo nella grande casa turca della missione. La partecipazione media alle riunioni del fine settimana era di circa 12-15 persone. Tuttavia, gli studi biblici e le riunioni di preghiera infrasettimanali, che si tenevano nella piccola cappella di pietra in fondo al cortile murato, erano frequentati solo da una mezza dozzina di persone. Warren, il pastore americano, che all'epoca parlava a malapena l'ebraico, insisteva senza timore nel tenere le sue lezioni bibliche in un ebraico stentato. Olavi cercava cautamente di assisterlo linguisticamente. Solo dopo diversi anni di coraggiosi sforzi, Warren riuscì a parlare correntemente l'ebraico. Durante le funzioni, Linda, l'energica moglie di Warren, suonava il pianoforte e talvolta un piccolo organo di legno. Tutti insieme cantavamo canzoni ebraiche tratte dall'innario Shir Chadash (Nuovo Canto). Questo libro, che conteneva 212 canti, la maggior parte dei quali tradotti in ebraico dall'inglese e dal tedesco, era stato compilato da Bernice Cox Gibson, un'altra missionaria americana della C&MA. Nella compilazione di Shir Chadash, stampato a Gerusalemme nel 1957, Gibson fu assistita da Ruth Laurence
, una missionaria britannica che lavorava nel Paese sotto il Mandato britannico dal 1927. Ruth Laurence, comunemente nota come “Laurie”, si trasferì a Beersheva negli anni Cinquanta. All'epoca aveva circa 50 anni e faceva parte della piccola comunità cristiana del luogo. Laurie parlava correntemente l'ebraico e viveva nel suo piccolo appartamento a Shikun Gimel, un nuovo quartiere della Beersheva moderna costruito principalmente per gli olim, fuori dal fatiscente quartiere turco. Da lì, sempre con le sue lunghe gonne, si recava regolarmente alle riunioni della comunità, sia in estate che in inverno, con la sua pratica bicicletta. Laurie ha scritto due libretti in ebraico per bambini: Dalla bocca degli asini e Conversazioni nelle stalle del re - Da un cavallo. Quando è andata in pensione, si è trasferita nell'Oxfordshire, in Inghilterra.
- DALLA FINLANDIA A BEERSHEVA PASSANDO PER LA SVEZIA
Olavi nacque in Finlandia nel 1935 e si trasferì nello Stato di Israele con i genitori finlandesi e la loro famiglia nel settembre 1949, all'età di 14 anni, stabilendosi a Tiberiade. Questo avvenne due anni dopo che suo padre Kaarlo
aveva già visitato il Paese per cercare in anticipo un luogo adatto per vivere. La visione di Kaarlo era quella di distribuire Bibbie, il Tanakh e il Nuovo Testamento, principalmente in ebraico ma anche in altre lingue, a seconda delle necessità, alla crescente e variegata popolazione di Olim sparsi in tutto il Paese. Nel 1954, all'età di 19 anni, Olavi sposò Esther in Svezia, poi tornarono in Israele come coppia e si trasferirono nel kibbutz Netzer Sereni, vicino a Rehovot. Lavorarono nel kibbutz per circa due anni e impararono l'ebraico, ma alla fine dovettero partire. Mentre Esther e i bambini rimasero con la madre in Svezia tra il gennaio 1958 e il giugno 1959, Olavi fece il servizio militare obbligatorio in Finlandia. Poco dopo tornarono in Israele. Il pastore Leigh Irish
, che aveva sostituito il pastore Griebenow
alla guida del centro C&MA di Gerusalemme, venne a sapere da Kaarlo Syvanto che Olavi stava cercando un lavoro. Senza ulteriori indugi, Irish invitò Olavi a trasferirsi a Beersheva - per rimanervi e lavorare principalmente come tuttofare nella Casa della Bibbia, che aveva bisogno di molti lavori di ristrutturazione. La Casa della Bibbia era stata aperta da Bernice Gibson nel 1957. A quel tempo, la città contava già 40.000 abitanti.
Nel 1959, Olavi e la sua famiglia si trasferirono nel vecchio e piccolo edificio della Casa della Bibbia, in via Rambam 39. Negli anni Cinquanta e Sessanta, si trovava dietro un alto muro di pietra, con uno stretto cortile di fronte all'ingresso. Bibbie in varie lingue e versetti della Bibbia erano esposti in una piccola vetrina nel muro che dava sulla strada. Olavi era responsabile del negozio e di rispondere a tutti i tipi di domande e ai visitatori che volevano parlare della Bibbia, ecc. Tuttavia, non era un missionario ufficiale della C&MA. Nel corso degli anni, molte delle spese del negozio biblico sono state coperte dalle generose donazioni di credenti in Finlandia. Negli anni '70, il vecchio edificio turco fu demolito e fu costruito un nuovo edificio a tre piani. Dal 1964 Olavi e la sua famiglia vivevano in una nuova casa a Omer, un sobborgo di Beersheva. Di tanto in tanto, davanti alla Casa della Bibbia si svolgevano manifestazioni anti-missionarie di ebrei ortodossi. I dimostranti urlanti e vestiti di nero hanno lasciato segni indelebili su alcuni dei figli di Olavi dai capelli biondi. I piromani hanno distrutto anche i libri e la vetrina del negozio è stata infranta due volte. Più tardi, un ebreo ortodosso con la barba lunga, andò da Olavi e si scusò: “Non posso credere che noi ebrei che abbiamo vissuto la Notte dei cristalli in Europa ti stiamo facendo questo nel nostro Paese”. Dall'inizio degli anni '60, Olavi “curò gli interessi” della C&MA a Beersheva (William F. Smalley, Alliance Missions in Palestine, Arab Lands and Israel 1890-1970, New York 1971, p. 532). Durante la sua lunga collaborazione con la C&MA, Olavi aveva anche imparato l'inglese.
- DALLO STILE AMERICANO A QUELLO LOCALE
Prima che i Graham arrivassero a Beersheva, i missionari della C&MA, il Rev. Laird Kroh
e sua moglie, vivevano nella loro casa di missione al 15 di Patriarchs Street (1953-1962). Non riuscivano a comunicare in ebraico e le funzioni religiose erano tutte in inglese. I pochi olim indiani che vi partecipavano parlavano tutti inglese. Un numero maggiore di olim si recò alla casa della missione, soprattutto per le celebrazioni natalizie, principalmente per il rinfresco festivo. Le riunioni settimanali della congregazione si tenevano la domenica mattina alle 10:00, quando gli israeliani erano al lavoro. La Pasqua veniva celebrata secondo il calendario cristiano generale. Il sito era allora definito una “chiesa americana”, non un luogo per la gente del posto. Queste cose sono cambiate gradualmente dopo l'insediamento dei Graham. Passo dopo passo, l'ebraico è diventato la lingua franca delle attività nella proprietà. Olavi fu un grande sostenitore di questo processo. Ad esempio, le lezioni e le altre attività per i bambini, alcuni dei quali provenivano anche dal vicinato, si svolgevano in ebraico. I genitori li mandavano a queste attività perché volevano semplicemente avere del tempo libero per loro stessi. Olavi andava a prendere i bambini a casa con il minibus della missione. Le riunioni di Shabbat sostituivano le funzioni domenicali e i sermoni erano incentrati sulle festività ebraiche. Dopo che il dottor Tom Adler
, uno psichiatra ebreo messianico, e sua moglie Bianca
si unirono alla congregazione, il gruppo che si riuniva si chiamò ufficiosamente “Assemblea di Beersheva” , senza avere uno status giuridico proprio. Il dottor Adler è morto in Nuova Zelanda.
- UN FILANTROPO
Olavi era un uomo tranquillo, serio, amichevole e leale. La sua testimonianza evangelistica sulla verità della Bibbia era sincera e convincente. Gli piaceva particolarmente parlare dell'imminente adempimento delle profezie della fine dei tempi riguardanti Israele. Ripeté pazientemente questi temi per decenni. Ha proclamato il Vangelo del Messia principalmente su base individuale, attraverso amicizie personali e contatti con persone di ogni tipo. Olavi, per esempio, fece amicizia con i miei scettici genitori nel dicembre 1973, poco dopo la fine della guerra dello Yom Kippur, Olavi venne a trovare mio padre che era venuto a visitarmi nella penisola del Sinai. Vestito con un'uniforme dell'IDF che aveva ricevuto da mio padre, Olavi volle incoraggiarmi sul posto, mentre prestavo servizio nel Corpo medico dell'IDF non lontano dal Canale di Suez.
Olavi (a sinistra), Gershon con la giacca, il padre di Gershon (a destra). Sinai, dicembre 1973, per gentile concessione di Gershon Nerel
Olavi non solo visitò e parlò con molti altri olim, ma entrò anche in contatto con i beduini che spesso venivano a Beersheva. Di tanto in tanto si recava in qualche tenda beduina e cercava di fare amicizia con la gente, che a quel tempo, molto più di oggi, era nomade. Uno di questi beduini, Sallah
, professò addirittura la fede nel Signore Yeshua e fu battezzato nel pozzo ornamentale tra la casa della missione turca e la porta di via dei Patriarchi. Il lavoro di routine della missione di Beersheva veniva interrotto di tanto in tanto dalla partenza dei missionari stranieri per le vacanze. Queste assenze non erano semplici vacanze. Sebbene fornissero tempo per le riunioni di famiglia, venivano anche utilizzate per tenere conferenze, promuovere il lavoro missionario e raccogliere donazioni. Soprattutto durante le vacanze dei missionari in America, Olavi era il fedele custode delle proprietà della C&MA a Beerscheva. Era lì per rispondere alle domande e risolvere i problemi.
- UN CONTRIBUTO SPECIALE
Un progetto unico che Olavi avviò fu la revisione del Nuovo Testamento ebraico di Franz Delitzsch. Ha proposto a mia moglie e a me di rivedere alcune parole arcaiche nella traduzione ebraica di Delitzsch. Dopo un'attenta riflessione e preghiera, abbiamo accettato la proposta e abbiamo iniziato a lavorare sull'aggiornamento di parole e termini che negli ultimi 150 anni hanno cambiato significato o hanno assunto nuove connotazioni e sfumature dall'ebraico moderno. Siamo stati particolarmente soddisfatti del fatto che lo stile e la sintassi dell'ebraico classico del NT di Delitzscher fossero molto vicini al Tanakh. Questo ha fornito un collegamento linguistico naturale tra il Tanakh e il Nuovo Testamento Nel 2003, dopo circa un decennio, l'intero lavoro di revisione è stato completato. Questo periodo ha incluso anche le consultazioni con Mirja Ronning
, sorella di Olavi. Ho chiamato la nuova edizione “ Versione del NT del Negev” perché è stata creata da Olavi nel Negev. Essendo una persona pratica, Olavi si occupò anche della pubblicazione della nuova edizione, che fu stampata insieme al Tanakh. Olavi non solo sapeva esattamente dove trovare la carta più fine e sottile in Finlandia e come fare la rilegatura con il colore da noi suggerito, ma ha anche trovato i fondi necessari. Oggi, dopo più di 20 anni in cui la “versione Negev” è disponibile gratuitamente, è ancora felicemente utilizzata dalla mia congregazione messianica e da altri amici in Israele.
- FINE PACIFICA
Olavi è morto serenamente nel sonno il 1° luglio 2024 a Omer. È stato sepolto quattro giorni dopo a Beersheva. Aveva 89 anni ed è stato amato e stimato da molti.
(Israel Heute, 17 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it) ____________________
Sembra che gli israeliani ormai non possano neppure più andare a vedere uno spettacolo di stand up Comedy senza essere derisi e umiliati. È ciò che è successo ad una coppia, quando il comico americano Reginald D Hunter, ha deriso una coppia di israeliani durante uno dei suoi spettacoli del Festival Edinburgh Fringe, secondo quando riportato da una recensione apparsa sul Telegraph lunedì.
Hunter, che era già stato coinvolto in una vicenda legata all’antisemitismo nel 2006, ha raccontato nel corso del suo spettacolo di un aneddoto avvenuto con sua moglie in cui il comico avrebbe detto a lei: “Mio Dio, essere sposato con te è come essere sposato con Israele”. Anche se la maggior parte del pubblico ha riso in risposta alla battuta, la coppia di israeliani, seduta in prima fila, ha gridato: “Non è divertente”.
Quando i due hanno preso la parola, dicendo di non trovare divertente la freddura del comico, poiché offensiva, il pubblico ha cominciato ad insultare i due a suon di “Palestina libera” e altri slogan del genere.
Durante il triste spettacolo, il comico ha rincarato la dose, dicendo alla coppia: “Potete dire che non fa ridere, ma se lo dite a una stanza piena di gente che ride, fate la figura degli stupidi”.
Hunter avrebbe inoltre deriso i due fino alla fine. Secondo la stampa locale infatti, il comico avrebbe continuato a fare battute offensive anche dopo che il pubblico ha spinto la coppia ad andarsene. La campagna contro l’antisemitismo – un ente inglese di beneficenza, guidato da volontari, e volto ad esporre e contrastare l’antisemitismo – ha definito l’incidente “estremamente preoccupante”, sottolineando come “fare battute sugli ebrei e perseguitarli in uno show sia qualcosa di sbagliato e nauseante. Spettacoli del genere non possono essere travestiti da commedia”.
Hunter, che è apparso in vari programmi della BBC, era già noto al pubblico per le sue battute provocatorie sugli ebrei. Nel 2006 il comico aveva detto che la vera Shoah era quella ruandese e non quella ebraica come detto da sempre. Tuttavia, eventi di questo genere si erano già verificati qualche mese fa in Inghilterra. A febbraio, un uomo israeliano era stato buttato fuori da un teatro di Londra, durante lo spettacolo del comico Paul Currie, dopo che si era rifiutato di applaudire alla bandiera palestinese. Durante lo spettacolo, Currie aveva tirato fuori bandiere ucraine e palestinesi chiedendo al pubblico presente in sala di alzarsi e applaudire, cosa che l’uomo israeliano si era rifiutato di fare. Quando gli era stato chiesto perché, l’uomo aveva risposto : “Mi è piaciuto il tuo spettacolo fino a quando non hai tirato fuori la bandiera palestinese”. In risposta, Currie avrebbe urlato all’uomo “ di uscire immediatamente dal suo spettacolo” mentre diversi membri del pubblico facevano il tifo per il comico gridando “Free Palestine”.
(Shalom, 16 agosto 2024)
Gaza - Colpiti oltre 30 obiettivi da Israele nelle ultime 24 ore
GERUSALEMME - L'aeronautica militare israeliana ha colpito oltre 30 obiettivi nella Striscia di Gaza nelle ultime 24 ore. Lo hanno reso noto le Forze di difesa di Israele (Idf) in un rapporto mattutino, spiegando che sono stati presi di mira edifici e infrastrutture utilizzate da gruppi terroristici palestinesi, nonché cellule di miliziani armati.
Nel frattempo sono proseguite le operazioni dell’esercito a Rafah e Khan Yunis, nel sud della Striscia, e nei pressi del corridoio di Netzarim, nell’area centrale. In particolare, le Idf hanno riferito che a Khan Yunis è stata bombardata con l’artiglieria una zona da cui in precedenza erano stati lanciati dei razzi verso il nord dello Stato ebraico. Sempre a Khan Yunis, i militari della Brigata paracadutisti hanno fatto irruzione in un edificio, al cui interno hanno trovato armi, lanciarazzi e ordigni esplosivi.
Nella parte centrale della Striscia di Gaza, i riservisti della Brigata Harel hanno invece individuato diversi cunicoli e ucciso alcuni miliziani con un drone. Le Idf hanno anche reso noto che la Marina militare ha eliminato con bombardamenti dalle sue navi “un certo numero di terroristi che rappresentavano una minaccia per le truppe che operano nella Striscia di Gaza”.
Ferme condanne da parte di tutto l’arco politico israeliano per quanto accaduto in Cisgiordania, nel villaggio palestinese di Jit, attaccato da un gruppo di estremisti israeliani. Dal primo ministro Benjamin Netanyahu al presidente dello stato Isaac Herzog, la censura della violenza è stata unanime. «I responsabili di ogni atto criminale saranno arrestati e perseguiti», ha affermato Netanyahu. Secondo alcune ricostruzioni, decine di estremisti, alcuni a volto coperto, hanno lanciato bombe molotov e appiccato incendi nel villaggio. «Si tratta di una minoranza estremista», ha sottolineato Herzog, che danneggia «il nome e la posizione di Israele nel mondo. Questa non è la nostra via, e certamente non è la via della Tora e dell’ebraismo. Le forze dell’ordine devono agire immediatamente contro questo grave fenomeno e assicurare i trasgressori alla giustizia», ha concluso il presidente, invitando a non sottovalutare la minaccia.
Nell’attacco a Jit è stato ucciso il 23enne Rashid Sada. Sulle dinamiche della sua morte sta indagando l’esercito. Intervistato da ynet, il capo del villaggio Naser Sada ha denunciato l’azione come terrorismo. «Quattro auto e quattro case sono state date alle fiamme. Ci siamo svegliati con l’odore degli incendi, con i bambini spaventati. Se i nostri giovani non fossero usciti per cercare di respingere i violenti, il disastro sarebbe potuto essere maggiore», ha affermato Sada al media israeliano. Il giovane rimasto ucciso è un suo parente. «È uscito per cercare di reagire ed evitare che la sua casa venisse bruciata. È stato colpito senza alcun motivo».
Jit è considerato un villaggio abbastanza tranquillo, scrive Itamar Eichner di ynet. «La maggior parte dei suoi abitanti lavora nel commercio e nell’agricoltura. Le organizzazioni terroristiche di solito non vi operano. Le forze di sicurezza sono rimaste inorridite dalle violenze della scorsa notte, e un funzionario ha detto che sono avvenuti senza un motivo apparente», riporta Eichner.
«Mentre i nostri soldati combattono sui vari fronti per difendere lo Stato di Israele, un manipolo di estremisti, che non rappresentano i valori dell’insediamento in Samaria, si ribellano e attaccano civili innocenti», ha dichiarato il ministro della Difesa Yoav Galant. Oltre a condannare le violenze, Gallant ha ribadito il proprio sostegno a Tsahal, Shin Bet e polizia «affinché affrontino con severità la questione. I disordini di questi estremisti sono contrari a ogni imperativo morale e ai valori dello Stato di Israele». Dichiarazioni simili sono arrivate dal ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, secondo cui quanto accaduto a Jit «non ha nulla a che fare con gli insediamenti. Sono criminali da condannare».
Fuori dal coro, la posizione espressa dal ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir. «Ho detto al capo di stato maggiore che il fatto di non dare la possibilità ai soldati di sparare a qualsiasi terrorista che lanci pietre provoca eventi», come quello di Jit. «Allo stesso tempo, è inequivocabilmente vietato farsi giustizia da soli», ha dichiarato Ben-Gvir. «Chi deve occuparsi del terrorismo e della deterrenza, anche contro i terroristi del villaggio di Jit, è l’esercito».
Una fonte all’interno delle forze sicurezza, riporta ancora Eichner su ynet, ha definito gli incidenti «come gravi e senza un innesco. Secondo la fonte, negli ultimi mesi questo tipo di attività allarmanti sta aumentando e si sta intensificando».
Dall’opposizione, il leader del partito centrista di Unità nazionale Benny Gantz ha parlato di «una manciata di persone che dovrebbero stare dietro le sbarre. Stanno minando i principi dell’ebraismo e dello Stato d’Israele». Yair Golan, capo di una nuova alleanza tra i partiti di sinistra, ha puntato il dito contro l’esecutivo di Netanyahu: «Non si tratta di una minoranza estremista o un problema minore, ma di un gruppo violento che gode di un enorme sostegno da parte del governo».
(moked, 16 agosto 2024)
In Ucraina, a Henichesk, le autorità russe hanno ritrovato i resti umani di 61 ebrei (50 adulti e 11 bambini) assassinati durante la Shoah. Lo riporta il sito Ynet. La città di Henichesk, nell’Oblast di Kherson, è sotto il controllo russo dal 2022. Qui le autorità del Cremlino stanno conducendo un’indagine per genocidio sui resti rinvenuti eseguendo un accurato scavo archeologico e analisi genetiche sui resti ossei riesumati, secondo quanto riportato dal canale televisivo Vesti Crimea. Un portavoce della Commissione investigativa russa che si sta occupando di supervisionare gli scavi ha spiegato a Ynet news che i resti ossei rimessi in luce si trovavano all’interno di una trincea anticarro della seconda guerra mondiale scavata per difendersi dal nemico nazista. I tedeschi però raggiunsero Henichesk da un lato diverso della città e la fossa venne così utilizzata per gettarvi centinaia di corpi di vittime di esecuzioni, molte delle quali erano di religione ebraica. All’inizio del Novecento a Henichesk vivevano oltre quattromila ebrei. La popolazione di religione ebraica si ridusse notevolmente nel tempo e nel 1939 nella città si contavano solo 947 ebrei. Si tratta di numeri indicativi influenzati anche dall’arrivo di rifugiati e di altri individui di religione ebraica che i nazisti trasferirono forzosamente nella città. I dati archivistici suggeriscono che nell’area in cui sono già stati ritrovati i 61 corpi sarebbero stati sepolti migliaia di cadaveri che potrebbero tornare alla luce nel corso degli scavi archeologi russi.
(Shalom, 16 agosto 2024)
L'aereo, modello LX-RAY, è atterrato all'aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv secondo un programma internazionale di tracciamento dei voli, senza che sia possibile confermare se Abramovich, proprietario della Chelsea, di origine ebraica, viaggiasse sullo stesso volo e sia entrato in territorio israeliano .
Abramovich è già stato oggetto di sanzioni da parte del Regno Unito, del Canada e di altri paesi insieme ad altri oligarchi russi per la sua presunta stretta relazione con il presidente russo Vladimir Putin, e anche l'Unione Europea (UE) ha annunciato che intende sanzionarlo come parte di un pacchetto coordinato con il Gruppo dei Sette Paesi più sviluppati (G7) contro la Russia per l’invasione dell’Ucraina.
Questa decisione arriva dopo che sabato la Premier League gli ha tolto il permesso di manager del Chelsea, un altro passo dopo il congelamento dei suoi beni da parte del governo britannico.
L'inclusione di Abramovich nella nuova lista sanzionata coincide con l'apertura di un'indagine da parte del Portogallo per verificare se ci fossero irregolarità nella concessione della nazionalità che gli era stata concessa in quanto discendente di ebrei sefarditi.
Tuttavia, la possibile presenza del magnate in Israele alimenta le polemiche, dopo che media e analisti avvertono che il Paese potrebbe diventare un rifugio fiscale per gli oligarchi russi di origine ebraica che cercano di stabilirsi e investire per evitare sanzioni internazionali.
Lo Stato ebraico non ha ancora imposto sanzioni alla Russia, con la quale mantiene un atteggiamento "misurato" a causa del suo accordo di sicurezza in Medio Oriente, e diversi miliardari ebrei legati dalla loro vicinanza al Cremlino possiedono da anni passaporti israeliani.
Oltre agli investimenti significativi e alle iniziative imprenditoriali nel Paese, alcuni hanno anche contribuito con significative donazioni finanziarie a progetti no-profit di vario genere, sia in Israele che nel resto del mondo ebraico.
Da parte sua, Abramovich ha acquisito la cittadinanza israeliana nel 2018 ed è diventato la seconda persona più ricca del Paese.
Due giorni prima dell'invasione dell'Ucraina, ha fatto una donazione di un milione di dollari al Museo dell'Olocausto di Gerusalemme, Yad Vashem, ma l'istituzione ha deciso di rinunciare al denaro e ha annunciato che avrebbe tagliato i rapporti con il magnate due settimane dopo.
Gli Stati Uniti hanno recentemente esortato Israele ad aderire alle sanzioni contro la Russia e i suoi oligarchi.
Il ministro degli Esteri Yair Lapid ha assicurato che "Israele non sarà un modo per evitare le sanzioni imposte alla Russia dagli Stati Uniti e da altri paesi occidentali".
Secondo lui, diversi ministeri come quelli degli Affari Esteri, delle Finanze, dell'Economia o dell'Energia stanno esaminando la questione insieme alla Banca d'Israele o all'Autorità aeroportuale.
(Aurora, 16 agosto 2024)
Vittorio Emanuele Parsi, ordinario di Relazioni internazionali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, è una vecchia conoscenza de L’Informale.
Venuto fortemente alla ribalta in seguito all’invasione russa dell’Ucraina, in merito alla quale ha espresso una condivisibile posizione pro-Kyiv, Parsi ha però continuato a essere una delle principali voci dell’antisionismo accademico.
Ostile a Israele, che considera uno Stato «razzista» e di «apartheid», da lui paragonato alla Serbia di Milošević e al Sudafrica di Vorster, ha sempre malcelato la sua simpatia per il regime iraniano e le sue propaggini, Hamas in primis, che nel 2017 vedeva incamminata sulla via della «moderazione».
Gli interventi di Parsi consistono, principalmente, nel condannare Israele come solo responsabile di tutte le tensioni in corso in Medio Oriente e del mancato raggiungimento di una pace duratura coi suoi vicini arabi. Sostenere tale posizione significa sottostimare o ignorare non solo le responsabilità dei «palestinesi», ma anche il fanatismo religioso e il millenarismo dei nemici islamici dello Stato ebraico.
L’inveterata avversione del professore per Israele lo ha condotto a paragonare le organizzazioni terroristiche islamo-palestinesi, come Hamas, ai resistenti che lottavano contro l’occupazione nazi-fascista. Nel 2015, sulla sua pagina Facebook, ha condiviso il video della seduta parlamentare del 6 novembre 1985, quando l’allora presidente del consiglio, Bettino Craxi, parlò della «legittimità» della lotta armata palestinese, definendo il contenuto di quel discorso «principi elementari di diritto internazionale». Al contrario, in tempi più recenti, commentando l’eliminazione del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha affermato: «Ogni volta che Israele compie omicidi mirati in un Paese terzo toglie un mattone alla costruzione del sistema internazionale».
Insomma: se i palestinesi sequestrano la neve di un Paese terzo e uccidono un passeggero ebreo, stanno compiendo un atto legittimo in accordo coi «principi elementari di diritto internazionale»; Israele, invece, se elimina il pericoloso capo di una organizzazione terroristica in visita a una teocrazia che vorrebbe un secondo Olocausto, «toglie un mattone alla costruzione del sistema internazionale».
Se è certamente vero che il diritto internazionale prevede che l’occupato possa resiste militarmente all’occupante, questo non vale per il caso palestinese. Israele, infatti, come si è a lungo spiegato su queste pagine, non «occupa» alcun territorio che non gli spetti legalmente. Inoltre, gruppi armati come l’ex OLP o Hamas, non hanno come obiettivo alcuna «resistenza», bensì la cancellazione stessa dello Stato ebraico e lo sterminio della sua popolazione, come dichiarato esplicitamente nei loro statuti.
Sempre sul suo profilo Facebook, il 19 novembre 2019, commentando il rigetto statunitense della risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU del 2016, che stabiliva l’illegalità degli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria (Cisgiordania), Parsi scriveva: «Ennesimo grande contributo alla pace e al dialogo nella regione di questa pessima amministrazione. Poi ci stupisce che gli umiliati e offesi ricorrano alla lotta armata? Quando invece è esattamente ciò che si vuole provocare, per giustificare una repressione senza limiti, senza fine, senza umanità. Povera Palestina e poveri palestinesi». Israele, dunque, starebbe «provocando» la lotta armata dei cosiddetti «palestinesi», peccato però che quest’ultimi pianifichino il massacro di tutti gli ebrei fin dai tardi anni Venti del Novecento, quando lo Stato d’Israele nemmeno esisteva.
Parsi si è distinto per il suo aperto sostegno all’Accordo sul nucleare iraniano, il celebre JCPOA, definito come un «successo» di Obama. In un articolo per IlSole24Ore del 2015, riportato per intero sulla sua pagina Facebook, ha definito il regime di Teheran «non più estremista come ai tempi della presidenza di Ahmadinejad» e «pienamente affidabile sulla natura esclusivamente civile del proprio programma nucleare». Tre anni dopo, più precisamente il 30 aprile 2018, Netanyahu mostrò in diretta televisiva parte dell’archivio segreto sul nucleare iraniano che agenti del Mossad, col supporto di alcuni dissidenti iraniani, avevano trafugato a Teheran e portato in Israele. I documenti provavano l’intenzione iraniana di dotarsi di un’arma atomica.
Clamorosi errori nelle analisi, cattivo controllo delle idee e dei concetti, ignoranza brutale dei fatti storici, sistematica incapacità di comprendere la mentalità islamica… questi sono solo alcuni degli elementi che caratterizzano Vittorio Emanuele Parsi.
Com’è possibile che un soggetto simile, che considera la Repubblica islamica dell’Iran come un attore più razionale e affidabile d’Israele, passi per un luminare dello studio delle relazioni internazionali da ascoltare con attenzione? Mysterium tremendum.
È una delle grandi storie di tutti i tempi e Mosè l’aveva prevista tremila anni prima che accadesse. Eccolo parlare nella parashà di questa settimana: “Vedi, io ti ho insegnato i decreti e le leggi che il Signore, mio Dio, mi ha comandato, perché tu li segua nella terra che stai per entrare a possedere. Abbiate cura di osservarli, perché questa sarà la vostra saggezza e la vostra comprensione agli occhi delle nazioni, che sentiranno parlare di tutti questi decreti e diranno: Certamente questa grande nazione è un popolo saggio e comprensivo!
Quale altra nazione, infatti, ha decreti e leggi come questa Torà che oggi vi presento?” (Deuteronomio 4:5-8) Mosè credeva che sarebbe arrivato un momento in cui l’idea di una nazione fondata su un’alleanza con Dio avrebbe ispirato altre nazioni con la sua visione di una società basata non su una gerarchia di potere, ma sulla pari dignità di tutti, sotto la sovranità e a immagine di Dio; e sulla regola della giustizia e della compassione. “Le nazioni” avrebbero apprezzato la saggezza della Torà e i suoi “giusti decreti e leggi”.
È successo. Come ho sostenuto molte volte, lo vediamo più chiaramente nella cultura politica e nel linguaggio degli Stati Uniti. Ancora oggi la politica americana si basa sull’idea biblica di alleanza. I presidenti americani invocano quasi sempre questa idea nei loro discorsi inaugurali, con un linguaggio che deve le sue cadenze e i suoi concetti al libro di Devarim. Così, ad esempio, nel 1985 Ronald Reagan parlò dell’America come di “un popolo sotto Dio, dedicato al sogno di libertà che Egli ha posto nel cuore dell’uomo, chiamato ora a trasmettere quel sogno a un mondo in attesa e speranzoso”.
Nel suo discorso inaugurale del 1989, George Bush pregò: “C’è un solo uso giusto del potere, ed è quello di servire le persone. Aiutaci a ricordarlo, Signore. Amen”. Nel 1997, Bill Clinton disse: “La promessa che abbiamo cercato in una nuova terra la ritroveremo in una terra di nuove promesse”. George W. Bush nel 2001 disse: “Siamo guidati da un potere più grande di noi che ci ha creati uguali a Sua immagine”. Nel 2005, all’inizio del suo secondo mandato presidenziale, dichiarò: “Dal giorno della nostra fondazione, abbiamo proclamato che ogni uomo e ogni donna su questa terra hanno diritti, dignità e un valore incomparabile, perché portano l’immagine del Creatore del cielo e della terra”.
Nel 2009 Barack Obama ha concluso il suo discorso con queste parole: “Che i figli dei nostri figli possano dire che quando siamo stati messi alla prova ci siamo rifiutati di lasciare che questo viaggio finisse, che non siamo tornati indietro né abbiamo vacillato; e con gli occhi fissi all’orizzonte e la grazia di Dio su di noi, abbiamo portato avanti il grande dono della libertà e lo abbiamo consegnato in modo sicuro alle generazioni future”. Si tratta di un linguaggio esplicitamente religioso, senza paragoni in nessun’altra società democratica del mondo, e si legge come un Midrash sostenuto sul Deuteronomio.
Come è successo? È iniziato con l’invenzione della stampa da parte di Johannes Gutenbergin Mainzin nel 1439, seguita in Inghilterra nel 1476 da William Caxton. I libri divennero meno costosi e più accessibili. L’alfabetizzazione si diffuse. Poi, nel 1517, arrivò la Riforma, con la sua enfasi sull’individuo piuttosto che sulla Chiesa, e sulla sola Scriptura, l’autorità della “sola Scrittura”.
Poi è arrivata la traduzione della Bibbia in volgare. Tendiamo a dimenticare che la Bibbia ebraica è un’opera sovversiva. Non è un libro che predica la sottomissione. Parla di profeti che non temono di sfidare i re e di Saul che perse il suo trono perché disobbedì alla parola di Dio. Quindi le autorità avevano buone ragioni per non rendere disponibile la Bibbia in una lingua comprensibile alla gente. Nel XVI secolo era vietato tradurla in volgare. Nel 1530 apparve la grande traduzione di Tyndale (è stato un riformatore religioso del XVI secolo e uno studioso che tradusse la Bibbia nell’inglese dei suoi giorni). Tyndale pagò con la vita: fu arrestato, dichiarato colpevole di eresia, strangolato e bruciato sul rogo nel 1536.
Tuttavia, come hanno scoperto le tirannie contemporanee, è difficile fermare la diffusione delle informazioni resa possibile dalle nuove tecnologie. Le Bibbie inglesi continuarono a essere stampate e vendute in gran numero, in particolare la traduzione di Ginevra del 1560 che fu letta da Shakespeare, Cromwell, Milton e John Donne, oltre che dai primi coloni inglesi d’America.
La Bibbia di Ginevra conteneva un commento a margine. I suoi commenti erano brevi ma a volte esplosivi. Questo vale in particolare per la storia delle levatrici ebree, Shifra e Puah (Esodo capitolo 1) – il primo caso registrato di disobbedienza civile, il rifiuto di obbedire a un ordine immorale. Il Faraone aveva ordinato loro di uccidere tutti i bambini maschi israeliti, ma loro non lo fecero. Commentando questo fatto, la Bibbia di Ginevra dice che “la loro disobbedienza in questo era lecita”. Quando poi il faraone ordina agli egiziani di annegare i bambini maschi israeliti, la Bibbia di Ginevra commenta: “Quando i tiranni non riescono a prevalere con l’inganno, scoppiano in aperta collera”. Questa non era altro che una giustificazione per la ribellione contro un re tirannico e ingiusto.
Le Bibbie di Tyndale e di Ginevra diedero vita a un gruppo di pensatori noti come Ebraisti Cristiani, tra i quali il più famoso – è stato definito il Rabbino Capo dell’Inghilterra rinascimentale – fu John Selden (1584-1654). Selden e i suoi contemporanei studiarono non solo il Tanach, ma anche il Talmud babilonese, in particolare il trattato Sanhedrin, e il Mishnè Torà di Maimonide, e applicarono i principi giudaici alla politica del loro tempo.
Il loro lavoro è stato descritto in un recente studio, The Hebrew Republic, del filosofo politico di Harvard Eric Nelson. Il quale sostiene che la Bibbia ebraica ha influenzato la politica europea e americana in tre modi. In primo luogo, gli ebrei cristiani tendevano a essere repubblicani piuttosto che realisti. Essi sostenevano l’opinione – sostenuta nel giudaismo da Abarbanel – che la nomina di un re in Israele ai tempi di Samuele fosse un peccato (tollerato) piuttosto che l’adempimento di una mitzvah. In secondo luogo, hanno posto al centro della loro politica l’idea che uno dei compiti del governo sia quello di ridistribuire la ricchezza dai ricchi ai poveri, un’idea estranea al diritto romano. In terzo luogo, utilizzarono la Bibbia ebraica – in particolare la separazione dei poteri tra il re e il Sommo Sacerdote – per sostenere il principio della tolleranza religiosa. Fu questo storico incontro tra i cristiani e la Bibbia ebraica nel XVII secolo che portò alla nascita della libertà sia in Inghilterra che in America. I calvinisti e i puritani che guidarono le rivoluzioni inglesi e americane erano saturi della politica della Bibbia ebraica, in particolare del libro di Devarim.
In effetti, il mondo moderno offre quanto di più vicino la storia possa offrire a un esperimento controllato di libertà. Delle quattro rivoluzioni che hanno segnato la modernità, due, quella inglese (1640) e quella americana (1776), erano basate sulla Bibbia ebraica, e due, quella francese e quella russa, erano basate sulla filosofia secolare, rispettivamente di Rousseau e di Marx. Le prime due hanno portato alla libertà. Le seconde due si sono concluse con la soppressione della libertà: in Francia con il Regno del Terrore (1793-94), in Russia con il comunismo stalinista.
Apprezzando il contributo della Bibbia ebraica alla libertà, John Adams, secondo presidente degli Stati Uniti, scrisse: “Insisterò sul fatto che gli Ebrei hanno fatto di più per civilizzare gli uomini di qualsiasi altra nazione. Se fossi ateo e credessi in un cieco destino eterno, continuerei a credere che il destino ha ordinato agli ebrei di essere lo strumento più essenziale per civilizzare le nazioni”. Lettera di John Adams a François Adriaan van der Kemp (16 febbraio 1809) L’ironia è, ovviamente, che non c’è nulla di simile nel discorso politico dello Stato di Israele contemporaneo. La politica di Israele è laica nel linguaggio e nelle idee. I suoi fondatori erano animati da alti ideali, ma dovevano più a Marx, Tolstoj o Nietzsche che a Mosè. Nel frattempo, la religione in Israele rimane settaria piuttosto che fondante per la società.
Certo, c’è chi si rende pienamente conto del significato del Sefer Devarim e della politica dell’alleanza per lo Stato attuale. Il pioniere è stato il defunto professor Daniel Elazar, che ha dedicato una vita intera alla riabilitazione della teoria politica giudaica. Il suo lavoro è continuato oggi, tra gli altri, dagli studiosi del Centro Shalem.
L’importanza di questo aspetto non sarà mai sottolineata a sufficienza. Ogni volta che in passato gli ebrei hanno perso la loro visione religiosa, o quando la religione è diventata una forza di divisione anziché di unione, alla fine hanno perso anche la loro sovranità. In quattromila anni di storia non c’è mai stata, né in Israele né fuori, una sopravvivenza secolare degli ebrei. È ironico che la cultura politica degli Stati Uniti sia più ebraica di quella dello Stato ebraico. Ma Mosè aveva avvertito che sarebbe stato così. Osservate attentamente le leggi della Torà, disse Mosè, “perché questa è la vostra saggezza e comprensione agli occhi delle nazioni”. Mosè sapeva che i gentili avrebbero visto ciò che gli ebrei a volte non vedono: la saggezza della legge di Dio quando si tratta di sostenere una società libera. La politica israeliana deve recuperare la visione della giustizia sociale, della compassione, della dignità umana e dell’amore per lo straniero, enunciata da Mosè e mai superata nei secoli successivi. Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl
(Bet Magazine Mosaico, 16 agosto 2024) ____________________
Oggi è il giorno cruciale. In Qatar (la location è segreta) si cerca un accordo per il cessate il fuoco a Gaza che convinca tutte le parti in causa.
TUTTE LE PARTI IN CAUSA. Solo questo dovrebbe far capire che non ci sono solo DUE parti in causa, cioè Israele e Hamas, ma che le parti in causa sono molteplici e non è azzardato dire che un accordo per il cessate il fuoco a Gaza convenga principalmente a tutti fuorché a Israele.
(1) Gli Stati Uniti: sono la parte in causa più importante. Pur non essendo in discussione il sostegno a Israele, gli Stati Uniti devono guardare anche alla loro politica interna che, specialmente nel campo Democratico, non è sempre a favore di Israele. Ne viene fuori un patetico teatrino da parte della Amministrazione Biden che se non fosse così pericoloso sarebbe divertente. Il Presidente Biden – e di riflesso la candidata DEM Kamala Harris – hanno tantissimo da guadagnare da un accordo per il cessate il fuoco a Gaza e lo spingono con tutte le loro forze, anche a costo di fare un accordo disastroso per Israele. Il JCPOA punto due.
(2) L’Iran: e la seconda parte in causa più importante, poco sotto agli Stati Uniti. Nonostante abbiano dato il via alla guerra tra Israele e Hamas, favorendo il massacro del 7 ottobre, e nonostante sostengano di voler attaccare Israele per l’eliminazione di Ismail Haniyeh, in realtà si sono accorti di aver fatto gli sbruffoni un po’ troppo presto. Non possono attaccare Israele perché non hanno ancora la bomba (ma sono lì) e perché sanno che la risposta di Gerusalemme sarebbe devastante, sia per il loro programma nucleare che per la loro economia (e non è detta che non spinga una rivolta interna), ma non possono nemmeno tirarsi indietro dopo tutte le sparate che hanno fatto. Un accordo per il cessate il fuoco a Gaza permetterebbe agli Ayatollah di non attaccare Israele e farebbe credere a milioni di musulmani che il merito di tutto sia iraniano. È l’unica via d’uscita che hanno.
(3) Erdogan (la Turchia): la salvezza di Hamas e la sua uscita dall’orbita iraniana è l’obiettivo principale della Fratellanza Musulmana di cui Erdogan è il capo indiscusso. Il palese passaggio dei terroristi di Gaza sotto l’ombrello iraniano ha fatto alterare non poco il rais turco. Oggi come oggi l’unico modo per salvare Hamas è un accordo per il cessate il fuoco a Gaza, e in mezzo alle minacce verso Israele, Erdogan è sempre stato il principale sponsor di tale accordo. Anche oggi la Turchia è in Qatar e si è opposta fermamente alla partecipazione iraniana ai colloqui. In caso di accordo si prenderebbero tutto il merito lasciando Erdogan con un pugno di mosche.
(4) L’Egitto: incredibilmente al Cairo ritengono che il loro confine con Gaza sia più sicuro se dall’altra parte ci sono i terroristi di Hamas e non Israele. In tutta onestà non riesco a spiegare questo atteggiamento egiziano se non con un calcolo di interessi. Per anni gli egiziani hanno chiuso gli occhi mentre dal suo confine entravano a Gaza migliaia di missili e milioni di tonnellate di cemento che hanno permesso ad Hamas di creare la cosiddetta “metropolitana di Gaza”. Chi o cosa ci ha guadagnato non mi è dato sapere. Sono quasi convinto che dietro ci sia un accordo sulla sicurezza. P.S. L’Egitto considera Hamas un gruppo terrorista.
(5) Hamas (Yahya Sinwar): poi ci sono loro, i terroristi di Hamas. Yahya Sinwar è già un eroe per quasi tutto il mondo islamico, se riuscisse a sopravvivere e ad ottenere un cessate il fuoco a Gaza che farebbe sopravvivere anche Hamas, diverrebbe colui che per primo ha sconfitto Israele. Per lui, al di là delle stupidaggini sui social, il cessate il fuoco è questione di vita o di morte.
Poi ci sarebbe Israele, o meglio, ci dovrebbe essere Israele. Per Gerusalemme un cessate il fuoco a Gaza deve essere temporaneo e unicamente finalizzato alla liberazione degli ostaggi. Perché Israele non è nella lista? Perché strategicamente per Gerusalemme un simile accordo equivarrebbe ad una sconfitta e quindi – contrariamente a tutti gli altri – non è nel suo interesse farlo se non (come detto) in forma temporanea e finalizzato al rilascio dei pochi ostaggi rimasti in vita.
Ciò detto, rimango ancora sbalordito dal fatto che nessuno, tra i tanti sostenitori della pace, abbia chiesto la resa di Hamas per porre fine a conflitto. Sembra quasi che ci sia l’interesse affinché Hamas sopravviva. In compenso, chiedendo un accordo per il cessate il fuoco a Gaza, chiedono di fatto la resa di Israele. Valli a capire certi pacifisti.
Israele: immigrazioni in calo nel 2023, ma il 2024 promette una ripresa
di Nicole Nahum
Secondo un rapporto dell’Ufficio Centrale di Statistica, nel 2023 l’immigrazione in Israele ha subito un notevole calo, con una diminuzione del 38,4% rispetto all’anno precedente e l’arrivo di soli 46.033 nuovi immigrati.
Questa flessione è stata principalmente causata dagli attacchi terroristici del 7 ottobre e dalla successiva guerra a Gaza e nel nord di Israele. Tuttavia, i primi mesi del 2024 mostrano segni di ripresa, con un aumento degli arrivi di nuovi immigrati.
La Russia rimane la principale fonte di immigrazione, con 33.116 persone, che rappresentano il 72% del totale degli immigrati. Altri Paesi di rilievo in questo senso sono gli Stati Uniti (2.413 immigrati), l’Ucraina (2.091), la Bielorussia (1.840) e la Francia (1.006).
La maggior parte dei nuovi arrivati proviene dunque dai paesi dell’ex Unione Sovietica, costituendo l’83,6% del totale. Rispetto agli anni precedenti, l’età media degli immigrati è più bassa, con una presenza minore di bambini e anziani e una maggiore percentuale di persone in età lavorativa.
Quasi la metà dei nuovi immigrati si è stabilita nel centro di Israele, in particolare a Tel Aviv. Altre destinazioni popolari includono Haifa, i distretti meridionali e settentrionali e Gerusalemme.
Nonostante dunque il significativo calo dell’immigrazione nel 2023, quest’anno presenta già numerosi segnali di ripresa, cambiamento che potrebbe influenzare significativamente il panorama socioeconomico del Paese nei prossimi anni.
Il panorama partitico nel moderno Stato di Israele
Il panorama dei partiti israeliani è complesso. Il suo sviluppo è strettamente legato ai vari campi sionisti e alle loro ideologie. La categorizzazione dei partiti politici in “sinistra” e “destra” avviene lungo gli assi delle opposte visioni sull'identità dello Stato e sul conflitto con i palestinesi; la dimensione socio-economica svolge un ruolo subordinato nella politica israeliana.
di Gundula Madeleine Tegtmeyer
Israele è una democrazia parlamentare. Gli organi dello Stato sono separati nei rami legislativo, esecutivo e giudiziario secondo i principi della separazione dei poteri. Le istituzioni sono la presidenza, la Knesset (parlamento unicamerale), il governo (gabinetto), la magistratura e l'ombudsman, il revisore dei conti dello Stato. Il potere giudiziario è guidato dalla Corte Suprema di Gerusalemme.
La storia del sionismo è caratterizzata da forti differenze ideologiche, che si riflettono ancora oggi nel panorama dei partiti israeliani. Una digressione storica ha lo scopo di fornire un orientamento nella complessità.
Theodor Herzl è considerato il padre del sionismo politico, ma non ha il copyright del termine. Il pubblicista austro-ebraico Nathan Birnbaum utilizzò per la prima volta i termini “sionista” e “sionismo” già nel 1890.
Due anni dopo, Birnbaum creò anche il termine “sionismo politico”. La sua opera “Die Nationale Wiedergeburt des Jüdischen Volkes in seinem Lande als Mittel zur Lösung der Judenfrage” ebbe un ruolo decisivo nel primo Congresso sionista, che ebbe inizio il 29 agosto 1897 a Basilea. I delegati ebrei decisero di creare uno “Stato ebraico” in Palestina, all'epoca parte dell'Impero Ottomano.
• GLI EBREI COME NAZIONE
Durante l'incontro, Herzl parlò della sua visione secondo cui gli ebrei dovevano ottenere uno Stato indipendente nella “famiglia delle nazioni”. Per il giornalista, la religione non era il ruolo più importante per definire i suoi sforzi. Egli considerava piuttosto gli ebrei come una nazione di unità storica ed etnica. Herzl e il suo fedele compagno Max Nordau propagarono il sionismo politico a Basilea, presumibilmente anche per ottenere l'approvazione dei poteri politici consolidati che controllavano la regione mediorientale. Non tutti condividevano l'approccio diplomatico di Herzl.
Ascher Zvi Hirsch Ginsberg, meglio conosciuto come “Achad HaAm” (“uno del popolo”), dubitava fortemente che gli sforzi diplomatici di Herzl avrebbero avuto successo. Giunse a questa conclusione dopo due viaggi in Palestina nel 1891 e nel 1893. Accusò Theodor Herzl e Max Nordau di aver trascurato i valori ebraici.
In quanto principale rappresentante del cosiddetto sionismo culturale, la dottrina del “centro spirituale-culturale ebraico” in Palestina, Achad HaAm riponeva le sue speranze nell'educazione, concentrandosi sull'etica e sui valori ebraici. Era convinto che solo questi potessero risolvere la “crisi ebraica” e allo stesso tempo fungere da baluardo contro il pericolo dell'assimilazione nella diaspora ebraica. Di conseguenza, Sion come centro spirituale e culturale aveva la priorità sullo sviluppo politico ed economico e sulla creazione di uno Stato ebraico in Palestina.
Chaim Weizmann riuscì a riunire le due fazioni sioniste. Fu presidente dell'Organizzazione sionista mondiale e in seguito divenne il primo presidente israeliano.
• RACCOLTA DI FONDI PER IL FONDO NAZIONALE EBRAICO
Leon Mozkin, Nahum Sokolov e Weizmann erano rappresentanti del cosiddetto “sionismo sintetico”. Questo era emerso nel 1907 durante l'ottavo Congresso sionista dell'Aia da una sintesi del sionismo politico, pratico e culturale. Gli obiettivi principali erano l'intensificazione delle attività sioniste, anche nella diaspora, e la raccolta di fondi sufficienti per il Fondo Nazionale Ebraico (JNF), noto in ebraico come Keren Kajemet LeIsrael (KKL).
L'approccio alla realizzazione degli ambiziosi obiettivi è stato caratterizzato da realismo politico, pragmatismo e grande flessibilità nel tentativo di raggiungere un comune denominatore con i partner riguardo all'idea sionista. A partire dal decimo Congresso ebraico, riunitosi a Basilea dal 9 al 15 agosto 1911, il “sionismo sintetico” fu dominante.
Il rabbino Shmuel Moghilever era tra i partecipanti al primo Congresso sionista. Aveva ascoltato con attenzione i discorsi di Herzl. Ma lo studioso ebreo non era convinto di ciò che propagandava. La sua conclusione: molta diplomazia e poca religione. Come alternativa spirituale, Moghilever, insieme ai rabbini Jehuda Schlomo Alkali e Zvi Jehuda Kalischer, diede vita al “sionismo religioso”.
Al quarto Congresso ebraico di Londra, nel 1900, si svolse un vivace dibattito tra le varie fazioni sulla rivendicazione della leadership culturale. I sionisti religiosi, guidati dal rabbino Yitzchak Jacob Reines, erano uniti dalla convinzione che il ritorno del popolo ebraico alla terra d'Israele avrebbe portato la tanto agognata “età redentrice e messianica”.
• ATTIVITÀ CULTURALI
Due anni dopo, nel 1902, il Quinto Congresso Sionista decise che le attività culturali facevano parte del programma sionista, e così Reines e Se'ev Javez fondarono nello stesso anno a Vilnius l'organizzazione religiosa Mizrachi. L'acronimo ebraico sta per merkaz ruhani (centro spirituale).
Il credo dell'organizzazione è che la fondazione dello Stato di Israele sia un dovere religioso derivato dalla Torah. Israele sarà redento solo dopo la comparsa del Messia. Lo slogan di Mizrachi è: “La terra di Israele per il popolo di Israele secondo la Torah di Israele”.
Il principale ideologo di questo moderno sionismo religioso in Palestina fu il rabbino ashkenazita Abraham Isaac Kook. Era convinto che i sionisti laici e non religiosi avrebbero realizzato involontariamente con il loro insediamento nella terra di D’o il grande piano di redenzione per il popolo ebraico.
I sostenitori di questa ideologia di redenzione sono considerati nello spettro politico israeliano come nazionalisti religiosi e sostenitori della “Grande Israele”, cioè la terra promessa agli ebrei da D’o nella Bibbia ebraica, la cui estensione, tuttavia, è descritta in diversi modi. Kook è considerato il padre spirituale del sionismo religioso moderno.
• ATTIVO A FAVORE DELLA DICHIARAZIONE BALFOUR
Chaim Weizmann e il rabbino Avraham Kook furono profondamente coinvolti nelle attività che portarono alla Dichiarazione Balfour del 1917. Essa prende il nome dall'allora ministro degli Esteri britannico Arthur James Balfour. Nella dichiarazione, la Gran Bretagna si dichiarò d'accordo con l'obiettivo del sionismo, fissato nel 1897, di stabilire un “focolare nazionale” per il popolo ebraico in Palestina.
Midrachi è il più antico partito religioso di Israele, da cui si è scisso nel 1922 il partito operaio sionista-ortodosso “HaPoel HaMisrachi” (Lavoratori di Mizrachi). È considerato un predecessore del Partito religioso nazionale. Il suo slogan è “Tora vaAvoda” (Torah e Lavoro) ed è considerato un sostenitore della creazione di kibbutzim e moshavim.
• SIONISMO PRATICO
Anche il medico e giornalista Leon Pinsker era preoccupato per il futuro del popolo ebraico. Non poteva rassegnarsi a quella che definiva la “resa umiliante con cui il suo popolo, gli ebrei, accettano l'umiliazione”.
Nella sua opera “Autoemancipazione”, Pinsker lancia un appello urgente agli ebrei per “ripristinare l'onore nazionale e far rinascere in noi il sentimento di autodignità”. Come sostenitori ideologici del cosiddetto “sionismo pratico o del lavoro”, anche Menachem Ussishkin e Moshe Leib Lilienblum erano convinti che gli ebrei dovessero colonizzare la terra per creare dei fatti.
Arthur Ruppin, fortemente coinvolto nella seconda Aliyah (ondata migratoria), aprì l’“Agenzia Palestina” a Giaffa nel 1908. I suoi acquisti di terreni plasmarono il futuro degli insediamenti sionisti e con essi il carattere dello Stato ebraico. Ruppin è uno dei padri fondatori di Tel Aviv.
Il credo del “sionismo pratico” era “la salvezza attraverso il lavoro”. I sostenitori di questa teoria divennero la corrente principale del “sionismo socialista”, il cui padre spirituale fu Moses Hess (1812-1875) con la sua opera “Roma e Gerusalemme: l'ultima questione di nazionalità”. Il pioniere del socialismo e del sionismo era un amico intimo di Karl Marx. Moses Hess è stato deposto nel cimitero di Kinneret, vicino al Kibbutz Degania.
La sua lapide recita: “Moses Hess. Autore di Roma e Gerusalemme. Uno dei padri del socialismo mondiale e foriero dello Stato di Israele”. Una caratteristica del sionismo socialista è lo sforzo di creare una società contadina in Palestina. Le radici di molti movimenti di insediamento affondano nel sionismo socialista.
• SIONISMO SOCIALISTA COME "REDENZIONE"
Prima del terzo Congresso sionista di Basilea del 1899, Nahman Syrkin dichiarò che il “sionismo socialista” rappresentava la “redenzione” ebraica, grazie alla fusione delle idee socialiste e comuniste con l'idea sionista del nazionalismo ebraico. Anche Dov Ber Borochov considerava il sionismo come una necessità storica ed economica per gli ebrei, e il ruolo di pioniere della liberazione nazionale ebraica era riservato al proletariato ebraico.
Molti immigrati della seconda (1904-1914) e terza Aliyah (1919-1923) erano sionisti socialisti. Nel 1933, Chaim Arlosoroff si recò nella Germania nazista per negoziare l'“Accordo HaAvara” (accordo di trasferimento) con il governo tedesco.
L'approccio di Arlosoroff fu accolto con incomprensione e rifiuto da molti ebrei. Fu assassinato a Tel Aviv il 16 giugno 1933, appena due giorni dopo il suo ritorno in Palestina. Non è ancora stato chiarito se si sia trattato di un atto criminale o di un omicidio politico.
Anche Berl Katznelson, cofondatore di “Maschbir”, una catena di grandi magazzini israeliani, e di “Kuppat Holim Me'uhedet”, la terza organizzazione israeliana per l'assicurazione sanitaria e i servizi medici, si professò socialista. Tra gli altri rappresentanti figurano il secondo presidente di Israele, Yitzhak Ben Zvi, e il primo primo ministro di Israele, David Ben-Gurion.
Ben-Gurion era un membro del Mapai, acronimo di “Mifleget Poalei Eretz Ysrael” (Partito del Lavoro della Terra d'Israele). Il Mapai fu fondato negli anni '30 come gruppo moderato del partito marxista-sionista russo “Poalei Zion”, i “Lavoratori di Sion”. Sotto la guida di Ben-Gurion, il Mapai divenne il principale partito del Parlamento israeliano.
• FONDAZIONE DEL PARTITO LABURISTA
Ben-Gurion lasciò il Mapai per protesta contro i rapporti del suo partito con Pinchas Lavon durante l'affare dello spionaggio di Lavon . Nel 1965 fondò un nuovo partito, il Rafi. Si tratta dell'acronimo di Reshimat Poalei Yisrael, il “Bar del Lavoro Israeliano”.
Tre anni dopo, il Mapai si fuse con Rafi e Achdut HaAvoda/Poalei Zion per formare il partito laburista Avoda. Fino al 1977, tutti i primi ministri appartenevano a Mapai o ad Avoda . Il principale avversario del Partito Laburista era il partito conservatore di destra Cherut (Libertà) di Menachem Begin.
I cosiddetti “territorialisti” svolgevano un ruolo di outsider tra i movimenti sionisti. Nahman Syrkin sosteneva la versione socialista del sionismo. Guidato da Israel Zangwill, il piccolo gruppo si separò dopo il settimo Congresso sionista del 1905 e fondò l'“Organizzazione territoriale ebraica”.
Il suo obiettivo era quello di creare un territorio ebraico sufficientemente grande e denso, non necessariamente in Terra d'Israele e non necessariamente completamente autonomo. La Dichiarazione Balfour del 1917 e la conseguente rinascita sionista rinnegaronoil movimento, portandolo allo scioglimento.
• SECESSIONE DEI REVISIONISTI
La posizione e la politica moderata di Chaim Weizmann nei confronti degli inglesi fu sempre più criticata da alcuni sionisti. Ci fu un'altra scissione all'interno dei ranghi sionisti: nel 1925 si separarono i cosiddetti Revisionisti, guidati da Se'ev Jabotinsky e dal suo successivo successore Menachem Begin.
I revisionisti sottolineavano l'eredità storica del popolo ebraico nella Terra d'Israele come base costitutiva del concetto nazionale sionista. Sostenitori del liberalismo economico, erano anche strenui oppositori del cosiddetto “sionismo operaio” e dell'instaurazione di una società comunista. I revisionisti sostenevano una dura azione militare contro gli arabi che avevano attaccato le comunità ebraiche.
• ULTERIORE RADICALIZZAZIONE
Un gruppo di membri, tra cui Menachem Begin, si radicalizzò ulteriormente e fondò nel 1943 l'Irgun Zva'i Le'umi,l'“Organizzazione militare nazionale”, spesso chiamata Irgun all'estero ed Ezel in Israele. Un altro gruppo scissionista, il gruppo Lechi, fu reclutato da ambienti revisionisti. Il nome è l'acronimo di Lochamei Cherut Yisrael, i “Combattenti per la libertà di Israele”.
Dopo la fondazione dello Stato, l'organizzazione sionista revisionista si fuse con il movimento Cherut fondato da Ezel, guidato da Begin, che era anche il comandante di Etzel. Insieme formarono il partito Cherut, il “Partito della Libertà”, una componente del Likud fondato da Menachem Begin nel 1973. Il nome del partito Likud significa “unione” e corrisponde in larga misura ai valori del revisionista Jabotinsky. Jabotinsky era un rappresentante del liberalismo del XIX secolo. Sosteneva un sionismo che metteva da parte le differenze sociali e di classe e si concentrava sulla creazione di uno Stato ebraico che tutti gli ebrei potessero chiamare casa. Esercitò una profonda influenza sulla gioventù ebraica, incoraggiandola a lasciarsi alle spalle la mentalità da ghetto e ad essere orgogliosa del proprio ricco patrimonio ebraico.
Diffuse la sua ideologia attraverso il movimento giovanile da lui fondato, Betar, noto anche come Beitar. Il nome si riferisce sia a Betar (fortezza), l'ultima fortezza ebraica caduta nella rivolta di Bar-Kochba nel 135 d.C., sia all'abbreviazione modificata del nome ebraico dell'organizzazione: “B erit Tr umpeldor” o “B rit J osef Tr umpeldor”, dal nome di Joseph Trumpeldor.
Questo attivista sionista contribuì a organizzare il Corpo dei Muli di Sion e a portare gli immigrati ebrei in Palestina. Trumpeldor morì nel 1920 in difesa dell'insediamento di Tel Hai e divenne un eroe nazionale ebraico. Nel 1977, il Likud sostituì per la prima volta al governo il socialista Avoda, dopo ben 30 anni di opposizione.
• Ben-GURION CONTRO LA SEPOLTURA DI JABOTINSKY
I revisionisti sono classificati come sostenitori del “Grande Israele”, uno Stato ebraico su entrambe le sponde del fiume Giordano. Begin è stato il settimo Primo Ministro dal 1977 al 1983. Jabotinsky fu sepolto nel Nuovo Cimitero Montefiore di Farmingdale, New York, in conformità con una clausola del suo testamento. Ben-Gurion rifiutò di permettere a Jabotinsky di essere sepolto nuovamente in Israele.
Il “sionismo rivoluzionario”, guidato da Avraham Stern, Israel Eldad e Uri Zvi Greenberg, è spesso classificato ideologicamente come revisionista. Tuttavia, si differenzia per alcuni aspetti fondamentali. A differenza dei revisionisti nazionali, prevalentemente laici, questo movimento considera il sionismo solo come un mezzo per raggiungere l'obiettivo reale: Malchut Yisrael, il “Regno di Israele” che comprende un Tempio ricostruito. Il movimento Cherut Zion è considerato un sostenitore del “Grande Israele”.
Nell'attuale panorama partitico israeliano, i seguenti blocchi sono principalmente contrapposti: Il blocco nazional-conservatore del Likud e i partiti nazionalisti minori di destra, il partito laburista socialdemocratico e il blocco di sinistra Meretz, nonché i partiti religiosi, tra i quali l'“Agudat Israel” (Unione di Israele) è stato fondato nel 1912 da ebrei tedeschi strettamente ortodossi come partito antisionista. Il Partito Nazionale Religioso costituisce tradizionalmente l'ala religiosa del movimento sionista ed è stato alleato del Mapai e del Partito Laburista fino al 1977.
Avigdor Lieberman ha fondato Israel Beiteinu (Israele è la nostra casa) nel 1999. Il partito si descrive come “un movimento nazionale con una chiara visione di seguire l'audace percorso di Se'ev Jabotinsky”, il fondatore del sionismo revisionista. Rappresenta principalmente gli immigrati dall'ex Unione Sovietica.
• NUOVI PARTITI Achrajut Leumit è una scissione dal Likud, poi rinominata Kadima (Avanti). È stato fondato nel 2005 da Ariel Sharon e Zippi Livni. Kadima si considerava un partito liberale al centro dello spettro dei partiti israeliani e si collocava quindi politicamente tra il Likud e Avoda. Nonostante sia stato al governo per due volte, si è sciolto nel 2015 a causa di conflitti interni al partito. Il partito liberale HaTnua (Il Movimento) è una scissione di Kadima.
Yesh Atid (C'è un futuro) è un partito liberale e centrista in Israele. È stato fondato nell'aprile 2012 dall'ex giornalista televisivo Jair Lapid. Suo padre era l'ex politico Shinui e ministro della Giustizia israeliano Josef “Tommy” Lapid. Shinui in ebraico significa “cambiamento” o anche “trasformazione”. Il partito si batte per una “soluzione a due Stati”, con uno Stato palestinese smilitarizzato accanto a uno Stato ebraico di Israele. I blocchi di insediamento dovrebbero rimanere parte di Israele, non è riconosciuto il diritto al ritorno per i palestinesi e Gerusalemme dovrebbe rimanere la capitale unita di Israele. Jamina, noto anche come Jemina (a destra), è il nome di un gruppo parlamentare della Knesset. Dal 2019 all'inizio del 2021 è stata un'alleanza tra il partito conservatore nazionale HaJamin HaChadash (la Nuova Destra) e l'Unione dei Partiti di Destra, composta dai partiti nazional-religiosi HaBait haJehudi (Jewish Home) e Ha-Ichud HaLeʾumi (Unione Nazionale).
Quando è stata fondata con la scissione dal partito nazional-religioso Mafdal, l'alleanza si chiamava Tkuma, in ebraico “rinascita”. Dal gennaio 2019, il suo presidente è il membro della Knesset Bezalel Smotritsch, che dal 2023 è presidente del partito religioso di destra Mafdal-HaTzionut HaDadit (Partito nazionale religioso - Sionismo religioso). Attualmente è Ministro delle Finanze.
L'alleanza è stata sciolta dopo le elezioni parlamentari del settembre 2019. Jamina si è riformata per le elezioni del 2020 e ha formato una fazione comune della Knesset. HaBait haJehudi ha lasciato la fazione Jamina nel maggio 2020 e anche Tkuma ha lasciato la fazione nel gennaio 2021, il che significa che dopo le elezioni parlamentari del 2021 la fazione era composta solo da deputati del partito HaJamin HaChadash . Naftali Bennett è stato presidente del partito Nuova Destra dal 2018 al 2022, avendo precedentemente guidato il partito Jewish Home dal 2012 al 2018.
• SHASS COME «KINGMAKER»
I governi in Israele dipendono sempre dai partiti religiosi come partner di coalizione. Il partito Shass, che si è separato da Agudat Israel nel 1984 ed è stato fondato dal rabbino ultraortodosso Ovadia Josef, morto nel 2013, è emerso come la forza religiosa più forte. Il nome Shass sta per “Guardiani della Torah sefardita”. Ovadia Josef era considerato un cosiddetto “kingmaker” nella politica israeliana. Uno dei suoi slogan di campagna elettorale era. “Keder che vota per Shass ottiene un posto nel Giardino dell'Eden!”.
Dal 29 dicembre 2022, l'attuale governo è il gabinetto Benjamin Netanyahu, che ha sostituito il gabinetto Bennett-Lapid in carica dal giugno 2021. L'attuale governo israeliano è politicamente più a destra di qualsiasi altro precedente.
I partner della coalizione sono il Likud, i due partiti degli Haredim, molto spesso detti“ultraortodossi” ,Shass e United Torah Judaism (UTJ), nonché l'alleanza di partiti radicali Sionismo religioso, composta dal suo partito omonimo, Ozma Yehudit , e dal partito minore Noam . Tutti i partiti appartengono al campo della destra. Ozma Jehudit (Forza ebraica) e in precedenza Ozma LeJisrael (Forza per Israele) è un partito religioso, ultranazionalista e antiarabo fondato il 13 novembre 2012 da Arie Eldad e dal kahanista Michael Ben-Ari. I due avevano lasciato l'Unione Nazionale per fondare un nuovo partito in vista delle elezioni per la 19esima Knesset. Ozma LeJisra'el è in parte il discendente ideologico del partito vietato Kach.
Dopo che due partiti hanno lasciato l'Unione Nazionale, il partito HaTikva (Speranza) di Eldad e il Chasit Jehudit Le'umi (Fronte Nazionale Ebraico) di Michael Ben-Ari si sono uniti per formare un partito comune. Il suo presidente è Itamar Ben-Gvir.
• IL KAHANISMO COME RADICE Il kahanismo è un ramo del sionismo religioso. Si basa sul punto di vista del rabbino ortodosso e politico Meir Kahane, fondatore della Lega di Difesa Ebraica e del partito Kach, che mescola l'ultranazionalismo con il fondamentalismo religioso, il razzismo e l'ostilità verso i goyim. Goyè un termine yiddish per indicare i non ebrei e ha una connotazione dispregiativa.
Inoltre, giustifica anche la violenza. La visione del mondo di Kahane è caratterizzata dal sionismo revisionista di Jabotinsky, che era spesso ospite nella casa dei genitori di Kahane. In gioventù, Meir Kahane è stato un membro attivo della Gioventù Betar fondata da Jabotinsky, che può essere considerata il precursore dei partiti israeliani Cherut e Likud. Il partito è presieduto dal Ministro della Sicurezza Itamar Ben-Gvir. Noam, in ebraico “favore”, che significa “gradito a Dio”, è un partito politico di estrema destra, ebraico ortodosso e sionista religioso in Israele. È stato fondato nel 2019 da una corrente molto conservatrice del movimento sionista religioso. Il partito è presieduto dal rabbino Dror Arje. Il suo leader spirituale è il rabbino Zvi Thau, fondatore e direttore della Yeshiva di Har Hamor a Gerusalemme. Noam è stato registrato per le elezioni parlamentari del settembre 2019. La sua campagna aggressiva contro le persone LGBT è stata criticata in tutto il Paese e Noam ha tirato le somme annunciando, due giorni prima del voto, che non si sarebbe candidata.
I media israeliani hanno anche collegato l'aumento del numero di casi di odio e violenza contro la comunità LGBT alla campagna elettorale del partito Noam con il controverso slogan “Israele sceglie di essere normale”.
• RAFFORZARE L'IDENTITÀ EBRAICA
Nelle elezioni del 2011, Noam ha ottenuto un seggio alla Knesset come parte di un'associazione di liste chiamata “Sionismo religioso”. Noam è favorevole al rafforzamento dell'identità ebraico-religiosa dello Stato di Israele, all'espansione dell'istruzione ebraico-religiosa, anche nelle scuole pubbliche, a un'osservanza più rigorosa dello Shabbat e alla protezione del “matrimonio e della famiglia tradizionali”. Noam è fortemente contrario all'introduzione del matrimonio omosessuale.
In sintesi, si può dire che in Israele, la categorizzazione dei partiti politici in “sinistra” e “destra” avviene lungo gli assi delle opposte visioni sull'identità dello Stato e sul conflitto con i palestinesi; la dimensione socio-economica svolge un ruolo subordinato nella politica israeliana.
(israelnetz, 15 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
L'agenzia ha ammesso ufficialmente che i preparati a mRna non bloccavano i contagi. Chi ha insultato, minacciato e privato di libertà e lavoro gli italiani deve fare ammenda.
di Silvana De Mari
L'Aifa riconosce finalmente quello che qualsiasi persona con la capacità di leggere una scheda tecnica avrebbe dovuto capire dall'inizio, da quello sciagurato dicembre 2020, quando, osannato come un Messia, il cosiddetto vaccino anticovid è arrivato. Si trattava e si tratta di un farmaco sperimentale, sperimentato per un tempo assolutamente insufficiente, con delle sperimentazioni in doppio cieco che invece si vedevano benissimo, e che non aveva scritto in nessun punto della scheda tecnica di avere un qualche valore per evitare la trasmissione della malattia.
Il cosiddetto green pass non aveva nessun senso. La gioia isterica con cui molti sprovveduti controllavano o si facevano controllare il green pass, non aveva nessun senso. Non aveva nessun senso l'isterico e ignobile odio scatenato contro di noi abbastanza intelligenti da capire l'inutilità e la pericolosità di questo cosiddetto vaccino. Non avevano nessun senso le squallide e violente parole di David Parenzo che invitava sputare sulla nostra pizza, Selvaggia Lucarelli che ci augurava di diventare poltiglia verde e un tale Andrea Scanzi che si augurava di vederci morire. Esigo le scuse di Mario Draghi, per le sue ridicole parole: «Muori e fai morire», e soprattutto per le vessazioni indecenti a chi rifiutava un intruglio privo di capacità di immunizzare per aver costretto innumerevoli persone che adesso hanno effetti collaterali spaventosi a inocularsi questa roba per poter lavorare o salire sul mezzo pubblico. Muori e fai morire e se non muori ti faccio 100 euro di multa. Esiste un qualsiasi provvedimento di qualsiasi personaggio politico di qualsiasi epoca che raggiunga il livello di ridicolo dei 100 euro di Draghi per chi non muore? Esigo le scuse degli Ordini dei Medici e in particolare del presidente dell'Ordine dei Medici di Torino dottor Guido Giustetto, esigo le sue scuse personalmente, perché il dottor Giustetto con commovente sprezzo del ridicolo ha messo la sua firma sotto una Pec che mi ingiungeva di farmi iniettare per immunizzarmi farmaci incapaci di immunizzare, quindi neanche lui nonostante la laurea in medicina è capace di leggere la scheda tecnica di un farmaco. Esigo le sue scuse personali per essersi permesso anche un richiamo in quanto, anche da sospesa in quanto non inoculata, stavo continuando a fare telemedicina. Difficile infettare qualcuno da un'altra parte dell'Italia attraverso un computer.
Quindi a questo punto è evidente che le regole contro i medici che rifiutavano la cosiddetta immunizzazione, non erano per la salvaguardia della salute pubblica, ma per la persecuzione del dissidente costretto alla fame. Questo è quanto di più ignobile i presidenti degli ordini potessero fare. Le alternative sono due: o i presidenti degli ordini dei medici hanno deficit cognitivi per cui non sono in grado di leggere la scheda tecnica di un farmaco, oppure stavano eseguendo ordini. Entrambe le ipotesi sono inquietanti. Una persona perbene dopo una tragedia di questo genere dovrebbe porgere scuse e soprattutto dovrebbe dimettersi immediatamente. Il dottor Sandro Sanvenero è l'unico Presidente di Ordine che si è rifiutato di mandare la Pec dell'infamia. Quindi capire e battersi era possibile. Ora tutti gli altri presidenti si dimettano. Esigo le scuse del presidente della Repubblica Sergio Mattarella per non aver difeso la libertà più elementare, quella del proprio corpo, libertà che molte dittature hanno osato ledere, come sarebbe stato dove suo dovere, anzi per aver dichiarato ufficialmente che a quelle libertà non bisognava appellarsi. Esigo le sue scuse al popolo italiano e anche le sue dimissioni sarebbero un gesto perbene.
Per quattro anni l’ambasciatore israeliano Gilad Erdan è stato la voce di Gerusalemme alle Nazioni Unite. Spesso è andato all’attacco, denunciando il doppio standard e i pregiudizi degli organismi internazionali contro Israele. Dopo il 7 ottobre il lavoro del diplomatico, membro del Likud e più volte ministro nei governi di Benjamin Netanyahu, si è intensificato. Ai colleghi ambasciatori ha ribadito il diritto dello stato ebraico a difendersi e ha condannato i silenzi di molti sulle violenze di Hamas. È accaduto anche in quella che, ormai a fine mandato, probabilmente sarà la sua ultima sessione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La riunione è stata richiesta d’urgenza dall’Algeria in merito all’attacco di Tsahal alla scuola di Al-Taba’een a Gaza. Erdan si è presentato all’incontro con le immagini dei terroristi di Hamas eliminati nella scuola. Criticando fortemente il Consiglio, ha denunciato: «Vi siete riuniti per questi terroristi che hanno usato una scuola come base del terrore, ma per i bambini di Majdal Shams, uccisi dal fuoco dei razzi di Hezbollah, non avete trovato il tempo per una sessione urgente! Vergognatevi!». Il riferimento dell’ambasciatore è all’attacco dei terroristi libanesi compiuto il 27 luglio contro un villaggio druso nel nord d’Israele. Attacco in cui sono morti dodici bambini che stavano giocando in un campetto da calcio.
Erdan ha poi criticato il Consiglio per la sua «indifferenza» nei confronti della minaccia di un attacco iraniano contro Israele. «La cosa più incredibile è la vostra inazione nel condannare e fermare il più grande pericolo per l’intera regione: l’Iran». Un tema più volte sottolineato nel corso del suo mandato. Nel suo recente discorso di commiato, Erdan ha denunciato: «Anche oggi, mentre l’Iran minaccia apertamente di ‘punire’ Israele, le Nazioni Unite tacciono. L’Iran interpreta il silenzio del mondo e dell’Onu come un via libera ad attaccare lo stato ebraico. Proprio come il vergognoso silenzio del mondo quando i nazisti decisero, alla Conferenza di Wannsee del 1942, il genocidio del popolo ebraico».
Tutti lo vogliono l’accordo con Hamas, ovvero l’accordo di capitolazione di Israele. Lo vogliono in primis gli Stati Uniti, in modo da conferire a Joe Biden che a sua volta potrà consegnarlo alla delfina Kamala Harris, il suo primo e vistoso successo in politica estera, lo vuole il braccatissimo e ormai a corto di fiato dead man walking Yahya Sinwar, lo vogliono Teheran e Hezbollah, pegno da pagare per non attaccare Israele in attesa del prossimo round, lo vogliono le Cancellerie internazionali e lo vuole una parte consistente dell’establishment israeliano, è, ovviamente, quella che Daniel Pipes, qui su l’Informale ha definito la lobby degli ostaggi.
In questo scenario, la parte del villian, a lui assegnata già da tempo, spetta a Benjamin Netanyahu, presentato come colui che continuamente cerca di fare arenare l’accordo, ostaggio dell’impresentabile copia di ultranazionalisti, Smotrich e Ben Gvir.
Da quando, a fine maggio, Joe Biden rilanciò l’accordo intestandosene la paternità, Netanyau è stato presentato come il fastidioso addensatore di codici e codicilli, mica come Hamas, che, ne ha ostacolato e ne ostacola l’adempimento.
Ora, per ferragosto, giorno in cui si incontreranno i negoziatori, Bibi è stato messo con le spalle al muro. Quest’accordo s’ha da fare, se non lo farai, l’Iran attaccherà (ed è superlativo vedere il confermarsi dell’asse americano-iraniano, fatto di intese, rassicurazioni, reciproci interessi, ancora più estesi se diventerà presidente o presidenta il brocco trasformato in purosangue, Kamala Harris).
Netanyahu in realtà chiede rassicurazioni precise, che Hamas non possa utilizzare a suo vantaggio, come ha fatto tutti questi anni con la complicità egiziana il varco Filadelfi, per contrabbandare armi, e del quale esige il controllo, così come vuole che si instauri un meccanismo che impedisca agli sfollati di ritorno, migliaia e migliaia di nascondere al suo interno uomini armati, e poi c’è, tra le altre cose la questione del numero di prigionieri di massima sicurezza che Hamas vorrebbe venissero rilasciati in cambio degli ostaggi, tra cui lo zar del terrore, il pluriergastolano, il “Mandela” palestinese, secondo la pubblicistica della propaganda, Marawan Baraghouti. Questo e altro. D’altronde, come ha già detto Yoav Gallant, non l’ultimo della fila, e certo non il primo a dirlo, Israele deve rinunciare al suo obiettivo di vittoria, ovvero smilitarizzare completamente Gaza da Hamas, dopo dieci mesi di guerra e più di trecento soldati israeliani morti pour la patrie, si riportino a casa gli ostaggi, quel che resta, e si finisca così. Biden sarà contento, Khamenei pure, e insieme a loro tutti gli altri.
Tocca dunque a Netanyahu in questo ultimo round, decidere cosa è meglio per Israele, cedere al ricatto, perché di questo si tratta e di niente altro, mascherato da saggia decisione per evitare l’escalation, ovvero soprattutto preservare l’Iran da un massiccio contrattacco israeliano se dovesse attaccare Israele, oppure tenere duro sui requisiti fondamentali, preservare la sicurezza dello Stato, togliersi dal fianco definitivamente la spina di Hamas, e prepararsi, dopo anni all’appuntamento fatidico con il suo principale antagonista, il regime di Teheran.
Custodito presso il Museo Nahon di Arte Ebraica Italiana a Gerusalemme, un antico Aron ha-Kodesh in legno, proveniente da San Daniele del Friuli, è stato al centro di una scoperta storica significativa. Quest’Arca sacra, che ha custodito i rotoli della Torah della piccola comunità ebraica di San Daniele per quasi quattro secoli, ha portato alla luce la storia della famiglia ebraica Gentilli di Mereto di Tomba, località vicina a San Daniele. Questa scoperta è stata possibile grazie al ricercatore Denis Passalent, originario della stessa provincia, il quale, motivato dalle sue origini familiari, ha dedicato tredici mesi alla ricerca tra archivi civici e statali.
Dopo oltre ottant’anni di silenzio, Passalent è riuscito a ricostruire la storia di Norma Stella Colombo e Moisè Vittorio Gentilli. La coppia, ben integrata nella comunità locale e gestori di un negozio di alimentari, si trasferì a Venezia nel 1930 per sfuggire alla crescente propaganda fascista. Nel 1943, mentre tentavano di fuggire in Svizzera, i Gentilli furono arrestati a Olgiate Comasco e deportati ad Auschwitz nel febbraio del 1944, insieme a cinque familiari e al celebre scrittore Primo Levi. Nessuno di loro fece ritorno.
Questa storia è presto diventata oggetto di una serie di iniziative culturali e commemorative che hanno permesso alla comunità di Mereto di Tomba di riconnettersi con il proprio passato. In collaborazione con lo storico Valerio Marchi, autore di un libro sulla famiglia Gentilli, il 21 gennaio 2024 è stata organizzata una cerimonia ufficiale presso il municipio del paese, durante la quale sono state installate due pietre d’inciampo davanti all’ultima residenza nota dei Gentilli. La commemorazione ha incluso la partecipazione dell’artista Davide Merello, che ha realizzato una serie di illustrazioni raffiguranti cinque luoghi significativi per i Gentilli; queste illustrazioni sono state stampate come cartoline e distribuite insieme a un elenco di libri sulla vita ebraica italiana, offrendo così la possibilità di avere un contatto diretto con la storia.
(Shalom, 14 agosto 2024)
Israele-Iran, siti atomici, raffinerie e porti: gli obiettivi di un conflitto. Hezbollah minaccia i civili
Piani di offensiva a confronto: nel mirino di Teheran anche i palazzi del potere e le città più popolate. Tel Aviv punta a distruggere lanciamissili e nascondigli
di Sara Miglionico
I “mappatori” degli obiettivi sono al lavoro da settimane, in Iran come in Israele. Un’opera certosina che va avanti da anni, e alla quale soprattutto gli israeliani hanno aggiunto il contributo dell’Intelligenza artificiale.
Ma l’insegnamento del 7 ottobre è che la tecnologia non basta, e allora ci sono gli Hezbollah che all’ombra di Teheran progettano incursioni oltre confine dal Libano nel Nord di Israele, e mattanze tra i civili e razzi sulle zone più abitate. A dispetto delle raccomandazioni politiche degli Ayatollah che non vorrebbero la guerra totale. Quale sarà la ritorsione iraniana all’assassinio del leader di Hamas Haniyeh a Teheran, e la risposta promessa da Israele, è un gigantesco interrogativo.
• GLI OBIETTIVI L’unico punto fermo, in realtà, sono proprio i potenziali bersagli. In Israele molti e ravvicinati come il Porto di Ashdod, coi suoi dodici moli alla foce del fiume Lachish, 40 km a sud di Tel Aviv, o la centrale elettrica di Hadera con la sua potenza di 148 megawatt a Haifa. E poi le basi militari, specie gli aeroporti. Come il Ramat David a Afula, a soli 20 km da Haifa e accanto all’omonimo kibbutz, aeroporto storico se proprio qui, nel 1942, si addestravano i piloti ebrei per farsi paracadutare dalla Raf oltre le linee tedesche. E ancora il Pengrion Airport, e la base Nevatim, 15 km a est-sudest di Beersheba, nel deserto del Negev. E poi le raffinerie che fumano lungo la costa. E il centro di osservazione satellitare di Or Yehuda, distretto di Tel Aviv. Ma non compaiono solo gli obiettivi militari nel mirino di Khamenei e dei pasdaran.
Il momento topico è stato il 1° aprile, quando i caccia F-35 con la Stella di Davide hanno scagliato 6 missili sulla sezione consolare dell’Ambasciata iraniana a Damasco, Siria, uccidendo il generalissimo Mohammad Zahedi, già capo delle forze di terra Irgc, i pasdaran impegnati fuori dall’Iran. In una spettacolare e largamente attesa Operation True Promise di risposta iraniana, oltre 300 missili e droni hanno volato verso Israele, e uno lo ha raggiunto. I target primari erano, allora, militari, a cominciare dalla base aerea del Negev e dalla Centrale dell’Intelligence sul Monte Hermon, cioè le infrastrutture direttamente coinvolte nell’attacco. Ma adesso non è escluso che vi siano altri bersagli. Politici. Istituzionali. I bunker dei vertici dello Stato ebraico. I palazzi del Potere. Gerusalemme, per via della Spianata delle Moschee, sembra invece godere di una sorta di immunità “religiosa”. I generali di Tsahal, l’esercito israeliano, e i vertici politico-militari, a loro volta, hanno avvertito Teheran che se l’attacco sarà condotto per fare danni e vittime il più possibile, «senza restrizioni e senza regole» come chiede Hezbollah, la reazione israeliana sarà micidiale.
• LE DEBOLEZZE DI TEL AVIV Il bersaglio grosso in Israele è il centro di ricerca nucleare di Dimona, 10 km dall’omonima terza città del Negev. Che però è super-protetto, e già nella guerra del Golfo 2002-2003 fu difeso dai Patriot. In Iran, ben più vulnerabili ai raid israeliani sono gli impianti nucleari di Natanz. Per gli Ayatollah, un fiore all’occhiello da proteggere a ogni costo. Il “boccone” più ghiotto è concentrato attorno a Isfahan. Le batterie di missili S-300 sono dislocate in forze attorno a Teheran, una base navale importante e un aeroporto militare si trovano a Bandar-e Bushehr, ma 100 chilometri a sud di Isfahan sorge il complesso per l’arricchimento dell’Uranio di Natanz, e 20 km a nord del Centro di tecnologia nucleare di Isfahan due siti che sono il cuore del programma atomico iraniano.
Quello sarebbe il primo obiettivo di una contro-risposta israeliana. Senza contare che gli 007 di Tel Aviv saprebbero dove colpire uno i “most wanted”, i capi e comandanti più ricercati. E c’è infine un’altra variabile, una guerra nella guerra, sottotraccia finora.
La guerra delle milizie proxy filo-iraniane che con fastidiosa costanza attaccano le basi americane disseminate in ben 13 Paesi della regione, specie in Iraq, Siria e Giordania. Basi più o meno segrete. Quelle aeree di Al-Asad e Al Harir nel Nord dell’Iraq. La caserma di Al-Tanf in Siria, il centro d’addestramento nel campo di Al-Omar a Deir ez-Zor, nella Siria orientale, adiacente agli impianti petroliferi. E, ancora, piccole basi nella provincia siriana di Hasakah, e in Giordania l’avamposto strategico “Torre 22”.
Perché l’Iran non ha (ancora) attaccato Israele e cosa può succedere
Da giorni si vive nell'allarme di un attacco imminente dell'Iran a Israele, considerato responsabile dell'uccisione del leader di Hamas Haniyeh. Ma la strategia frena Teheran dal rispondere direttamente. Più probabile la pista Hezbollah
Attacco imminente, vendetta tremenda, escalation inevitabile. Da giorni il mondo occidentale vive la psicosi dellagrande offensiva dell’Iran nei confronti di Israele, imperdonabile responsabile dell’uccisione dell’ex leader politico di Hamas Ismail Haniyeh mentre si trovava a Teheran.
Un film già visto, una storia ritrita, che però giustamente desta forte preoccupazione visti gli arsenali in gioco. Finora però gli attacchi diretti sono stati pura scenografia, letteralmente telefonati, con le intelligence militari in costante dialogo per avvisare tempistiche e portata del raid aereo con droni e missili. Stavolta potrebbe essere diverso, certo, per via della componenteirrazionale che, in tempo di guerra, fa saltare ogni logica tattica e strategica.
• Proclami di guerra, ma nessuna escalation: cosa vogliono Iran e Israele? Già una settimana fa l’annuncio della chiusura dello spazio aereo iraniano era stata data come prova principe di un attacco imminente a Israele. E invece niente. Ad aprile il maxi attacco con 300 droni e missili doveva essere l’apocalisse in terra. E invece niente. I blitz israeliani contro obiettivi in terra iraniana sono stati visti come la miccia definitiva per far esplodere il Medio Oriente. E invece niente. Perché né Israele né l’Iran hanno finora lanciato attacchi diretti su larga scala? Cosa li frena?
Cominciamo con un perché molto intuitivo, ma necessario: nessuno dei due Stati vuole l’escalation incontrollata. Israele perché è circondata da nemici e deve ancora vedersela col solo Hamas, sulla carta il più debole degli agenti di prossimità filo-iraniani riuniti nella cosiddetta Mezzaluna sciita (in dizione occidentale) o Asse della Resistenza: Hezbollah e Houthi. Il conflitto per Tel Aviv è già abbastanza largo, da nord (anche in Siria) a sud ma anche verso l’interno della Penisola Arabica. Lo Stato ebraico si dice pronto a impegnarsi su sette fronti: Gaza, Libano, Siria, Cisgiordania, Iraq e Yemen. E il settimo è l’Iran.
Nelle ultime settimane lo Stato ebraico ha voluto mostrare i muscoli, facendo vedere al mondo e in particolare agli Stati Uniti di essere in grado di gestire contemporaneamente i tre grandi fronti di guerra: a Gaza, in Libano e in Yemen. Ma si è trattato di attacchi estemporanei, che non hanno spostato gli equilibri del conflitto più ampio. E che non hanno impensierito l’Iran, al contrario dello smacco simbolico dell’uccisione di Haniyeh a Teheran, onta che il popolo persiano non può davvero sopportare. Eppure neanche la Repubblica Islamica ha interesse nel compiere un attacco diretto allo Stato ebraico.
Nella pratica militare, l’escalation si verifica quando una o più parti di una crisi aumentano l’intensità o espandono la portata dei loro sforzi bellici, violando le regole non scritte di un conflitto. Ad aprile, ad esempio, lo Stato ebraico ha intensificato lo scontro uccidendo diversi membri di alto livello del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane a Damasco. Un attacco insolito, sia per il grado dei militari uccisi sia per il fatto che aveva come obiettivo una struttura diplomatica. Dopo la risposta scenografica iraniana, Israele è riuscito a risolvere la crisi senza aggravare ulteriormente la situazione, ma per farlo ha dovuto studiare un attacco altamente calibrato che trasmettesse una minaccia senza violare le regole non scritte che hanno governato il conflitto con Teheran negli ultimi decenni.
• Le cinque possibili risposte da parte dell’Iran L’Iran ha già dimostrato in più occasioni di riuscire a stemperare l’ondata emotiva provocata dagli attacchi subiti da parte del suo nemico esistenziale. Come dopo ,Ebrahim Raisi, svolta cruciale per la Repubblica Islamica che però non cambiò di una virgola la sua politica estera. Proprio perché gli imperativi strategici di una potenza imperiale vengono prima di ogni altro dossier. Un principio che dobbiamo applicare anche agli attuali segnali di escalation imminente, pena il ritrovarci costantemente travolti dagli eventi, senza memoria e senza studio, dunque senza futuro. Stringendo, Teheran ha cinque principali opzioni di risposta:
non fare nulla, proseguendo sul terreno della propaganda anti-israeliana e passando come l’unica parte ragionevole e desiderosa di pace che vuole evitare a tutti i costi l’escalation;
intraprendere azioni di basso profilo come attacchi informatici;
eseguire una o più uccisioni mirate ai danni di Israele;
lanciare attacchi di fuoco indiretto;
ordinare ai suoi clientes di condurre incursioni in terra israeliana.
Le prime due opzioni sono le meno probabili, almeno come operazioni singole che ne escludono altre. Il leader supremo dell’Iran ha già messo a rischio la propria reputazione e qualsiasi mossa percepita come una “non risposta” sarebbe politicamente inaccettabile. Le uccisioni mirate contro gli israeliani sarebbero l’opzione meno grave per una potenziale escalation, ma Teheran deve affrontare ostacoli sia politici sia pratici. Omicidi mirati contro una figura simile ad Haniyeh in Israele probabilmente fornirebbero una risposta sufficiente senza arrivare a un’escalation drammatica, ma una figura del genere in Israele non esiste.
Lo Stato ebraico non ha il tipo di alleati non statali che presentano bersagli molto simili a Haniyeh, quindi Teheran dovrebbe probabilmente intensificare il conflitto prendendo di mira funzionari politici o militari israeliani. Per quanto riguarda i limiti pratici per una simile mossa, non ci sono prove di infrastrutture iraniane segrete in Israele paragonabili a quelle necessarie per uccidere Haniyeh. L’Iran potrebbe attaccare figure del governo israeliano al di fuori di Israele, come Teheran e i suoi satelliti hanno ripetutamente fatto negli ultimi decenni. Tali attacchi rischiano però anche di intensificare il conflitto, diffondendolo in nuovi teatri geografici e affrontano problemi pratici propri: un’uccisione mirata o un bombardamento di un’ambasciata richiederebbero tempo per essere pianificati, indebolendo il segnale deterrente che l’Iran cercherà di inviare.
La Repubblica Islamica potrebbe allora condurre attacchi di fuoco indiretto attraverso i suoi partner non statali come Hezbollah, come accaduto finora insomma. Infine, potrebbe spingere i suoi satelliti a condurre incursioni di terra più convenzionali in Israele, come quella di Hamas del 7 ottobre 2023. Questa è l’opzione più esplosiva di tutte, che tuttavia l’Iran non deve perseguire se è seriamente intenzionato a evitare la guerra aperta e totale.
• Perché Teheran non vuole la guerra diretta Dal punto di vista tattico, l’Iran preferisce continuare nella sua proxy wara bassa intensità con frequenti e contenuti combattimenti, che tengano sotto costante pressione Tel Aviv, utilizzando i propri satelliti fondamentalisti nella Penisola Arabica. Al netto dei consueti slanci propagandistici, come l’appello del ministro degli Esteri iraniano, Ali Bagheri Kani, ai Paesi islamici affinché “sostengano il diritto della Repubblica Islamica a difendersi da qualsiasi atto di aggressione, al fine di garantire la stabilità e la sicurezza dell’intera regione”. Paesi musulmani (ben 57) che, riuniti nella voce congiunta dell’Organizzazione per la Cooperazione islamica (Oic), hanno determinato senza appello che Israele ha la piena responsabilità nell’uccisione di Haniyeh.
Dal punto di vista strategico, invece, l’Iran vuole e deve distruggere i tentativi di normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele e monarchie arabe, cioè il mondo musulmano (sunnita). Un’operazione complessa, molto difficile da portare a termine, che si concretizza nel sabotaggio degli ormai celebri Accordi di Abramo che vedono il riavvicinamento fra Stato ebraico e Arabia Saudita in particolare.
Finora Teheran ha evitato un attacco diretto a Israele, costruendo appositamente attorno al Grande Satana proprio quell’Asse della Resistenza formato da milizie sciite, e dunque filo-iraniane, che condividono l’agenda anti-ebraica dell’impero persiano. Come certificato dalle dichiarazioni del nuovo presidente Massoud Pezeshkian il quale, durante una telefonata con Emmanuel Macron, ha ricordato come uno dei principi fondamentali dell’Iran sia quello di “evitare la guerra e cercare di stabilire la pace e la sicurezza nel mondo”.
Proviamo a dare un’ulteriore pennellata, per capire meglio il momento dell’Iran. Distratto da una profonda crisi interna, con una nuova leadership che deve imporsi come guida di un popolo velleitario, il Paese potrebbe anche impegnarsi con meno forza nella lotta su più fronti contro Israele. Anche alla luce di una serie di segnali di percepita debolezza che vanno avanti da mesi, nel segno della violenza fondamentalista. A cominciare dal 3 gennaio, quando un gruppo di jihadisti ha ucciso almeno 84 persone in due esplosioni vicino alla tomba del generale Qassem Soleimani, capo della Forza d’élite iraniana Quds.
Il mese precedente, il gruppo terroristico sunnita Jaish al-Adl aveva invece ucciso 11 agenti di polizia iraniani. L’Iran, nel disperato tentativo di mostrarsi forte, ha lanciato missili contro il Pakistan, dicendo che stava prendendo di mira Jaish al-Adl. Ma il Paese confinante, dotato di armi nucleari, ha risposto per le rime con missili e aerei da combattimento, compiendo il primo bombardamento su suolo iraniano dalla guerra con l’Iraq negli Anni Ottanta. Mesi prima dell’attacco telefonato di Israele, dunque.
Già allora il “grande bluff” della potenza iraniana era stato dunque scoperto, con Teheran che ha accettato di stemperare la contesa col Pakistan. La credibilità imperiale di Teheran è stata ulteriormente compromessa dal conflitto contro Israele e potrebbe dunque subire una nuova spallata dalla lotta interna per il potere. Un ruolo importante sarà giocato dai gruppi di fatto più potenti del Paese: le Guardie Rivoluzionarie e gli influenti esponenti religiosi di Qom.
• Quanto è probabile un attacco diretto dell’Iran a Israele? Secondo molti analisti, lo smacco subìto col caso Haniyeh potrebbe far scattare la rappresaglia diretta di Teheran, anche se finora lo scontro con lo Stato ebraico è stato delegato alla triade Hamas-Hezbollah-Houthi. Dal punto di vista del sentimento popolare e della gloria, elementi primari in imperi così antichi, l’Iran ha necessità di rispondere all’attacco di Israele. Necessità politiche interne, dunque. In questo caso, la risposta dovrebbe essere più incisiva dell’attacco missilistico e dei droni del 13 aprile, per soddisfare i sostenitori della linea dura ai vertici di Pasdaran e Repubblica Islamica. Ma anche per il bisogno strategico di scoraggiare ulteriori attacchi israeliani sul suo territorio. Come fare dunque a rispondere con forza evitando l’escalation e una guerra più ampia?
Se attacco sarà, lo scenario più probabile vedrebbe allora l’iniziativa proprio degli adiacenti miliziani libanesi, i quali devono ancora scatenare il loro reale potenziale bellico, almeno 10 volte superiore a quello di Hamas, che da solo sta dando filo da torcere a Tel Aviv, e molto più equipaggiato e pronto alla guerra dello stesso esercito libanese. Ne sono convinti anche i funzionari israeliani, sospettando un raid nei prossimi giorni. Come riferito dall’emittente israeliana Channel 12, citata dal Times of Israel, Tel Aviv ha trasmesso a Hezbollah e Iran che qualsiasi danno ai civili nello Stato ebraico per la loro azione di rappresaglia sarà “una linea rossa che porterà a una risposta sproporzionata”.
• La pista Hezbollah Anche Hezbollah, dal canto suo, ha una propria agenda al di là di quella iraniana. Proseguendo lo scontro a bassa intensità, i miliziani libanesi cercano di minare ulteriormente l’immagine di Israele come grande potenza securitaria del Medio Oriente. A giugno, per la prima volta, i fondamentalisti sciiti hanno celebrato in lungo e in largo di essere riusciti a respingere l’attacco di un jet israeliano sparando missili terra-aria in direzione del velivolo militare nemico, che aveva violato lo spazio aereo del Paese.
Gli Stati Uniti, sponsor di Israele del quale faticano sempre più a contenere l’intransigenza violenta, sanno benissimo che una “piccola guerra regionale” non è un’ipotesi realistica. Una delle preoccupazioni più vibranti di Washington è che il Libano potrebbe essere inondato di combattenti delle milizie filo-iraniane presenti in Siria, Iraq e persino nello Yemen che vorrebbero unirsi ai combattimenti. Un funzionario dell’esercito israeliano ha dichiarato che una guerra con Hezbollah o un’operazione limitata in Libano avrebbero “enormi implicazioni” per Tel Aviv in termini di costi di vite umane e di risorse da dirottare e impiegare.
Al di là della possibilità (molto bassa al momento) di attacco diretto iraniano, dovremmo preoccuparci molto anche della risposta dei soli Hezbollah. Sostenuto dall’Iran, il “Partito di Dio” rappresenta di fatto la più grande minaccia militare per Israele. Come ha dimostrato nel 2006, quando resistette all’assalto a tutto campo di Tel Aviv, col quale è in stato di guerra da decenni, da quando lo Stato ebraico lanciò una devastante invasione nel 1982 inviando carri armati fino alla capitale Beirut. Da allora il gruppo libanese non ha fatto altro che rafforzarsi, accumulando armi sempre più sofisticate ed esperienza e combattendo al fianco del governo siriano. E incrementando anche il suo risentimento verso lo Stato ebraico attraverso la “dottrina Dahiya” di guerra asimmetrica – dal nome di un quartiere di Beirut controllato da Hezbollah – che prevede di prendere di mira le infrastrutture civili.
Nonostante i proclami e le minacce odierne, Israele non avrebbe l’intenzione di invadere la parte di Libano controllata da Hezbollah. E, dall’altro lato della barricata, anche i fondamentalisti sciiti hanno tutto l’interesse a non accelerare l’escalation col nemico confinante. In altre parole a Iran e Hezbollah conviene che il conflitto resti a bassa intensità e tenga impegnato Israele a lungo, mentre dall’altra parte c’è più urgenza di inasprire il conflitto ma neanche l’opportunità e la forza necessarie.
Arabi, ebrei, orientali, africani, europei, laici, religiosi, tradizionalisti… un sabato pomeriggio in un parco pubblico d’Israele
di Adam Gross
Sabato scorso, Shabbat, ore 17.30. Un parco pubblico locale, lungo la costa settentrionale d’Israele. Clima soleggiato, 34 gradi, una fresca brezza di mare mentre si avvicina la sera.
L’erba, il parco giochi, le panchine, una fila di piccoli scogli piatti, gli alberi ombrosi, il cortile in cemento della scuola adiacente, la fontanella per bere, il rifugio antiaereo e i sentieri che passano in mezzo a tutto questo.
Una partita di calcio nel cortile in cemento. Adolescenti religiosi in pantaloni scuri, camicie bianche e kippah nere. Per lo più mizrachi (ebrei di origine mediorientale), altri di origine africana, altri ancora di origine europea.
Quattro donne arabe che indossano l’hijab camminano nel parco, fermandosi per bere alla fontanella prima di riposare sull’erba all’ombra degli alberi.
Bambini piccoli giocano sulle strutture per arrampicarsi sotto lo sguardo dei giovani uomini della vicina yeshiva hesder (studi religiosi combinati con servizio militare ndr). Due spingono delle carrozzine, due hanno armi a tracolla, uno entrambe le cose. Le loro mogli, il capo avvolto in grandi foulard, chiacchierano su alcune panchine lì vicino.
Accanto a loro, due nonne dall’aspetto russo bevono il tè con una terza di origine africana che fuma una sigaretta.
Una coppia di mezza età di origine europea in t-shirt, pantaloncini, sandali e occhiali da sole coordinati, porta a spasso il barboncino.
Donne di origine est-asiatica, forse anche qualche europea, siedono in cerchio sull’erba, una specie di attività di meditazione e yoga. O forse pilates. Chissà.
Tre donne etiopi di varie età, in tradizionali abiti bianchi e fluenti, stanno sulla panchina accanto al rifugio mentre il marito di una di loro gioca con il figlio tirando una palla da tennis sul muro del rifugio.
Lungo la linea di scogli accanto al parco giochi, il locale rabbino Chabad-Lubavitch (uno dei più grandi movimenti chassidici ndr), con un lungo cappotto nero e un cappello Fedora nero, recita pesukim (versetti della Torah) a bambini per lo più europei e mizrachi, laici e tradizionalisti, poi offre loro dei dolci.
Cinque adolescenti in costume da bagno passano sulla strada che sale dalla costa.
Un gruppo di ragazzini, religiosi, tradizionalisti e laici, di origine mizrachi, europea e africana, sciamano intorno alle altalene in attesa del loro turno.
Una donna araba in hijab ne spinge due con sopra le sue figlie.
Nei pressi, due bambini poco più che neonati, un maschio e una femmina, di etnia mista, nei loro bei vestitini di Shabbat, con la madre di origine africana e il padre di origine europea che li tengono d’occhio.
E accanto a loro, sulla grande altalena rotonda a forma di cesto, tre ragazzi di origine mizrachi giocano a fare la lotta, ognuno cercando di spingere giù l’altro mentre l’altalena ondeggia sempre di più.
Un jet da combattimento passa rombando a bassa quota. Nessuno ci fa caso.
(Da: Times of Israel, 11.8.24)
Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania e Italia hanno lanciato l’ultimo appello all’Iran, la Difesa israeliana è in stato di massima allerta, il Pentagono ha spostato la portaerei USS Abraham Lincoln per affiancarla alla USS Theodore Roosevelt, il ministro degli Esteri Israel Katz ha ricordato che «è il momento per le democrazie di tutto il mondo di schierarsi con Israele e adottare misure decisive contro l’Iran e i suoi alleati, prima che sia troppo tardi».
Sono le mosse diplomatiche e militari che precedono un attacco, quello dell’Iran contro Israele. È un segno del destino che il massimo allarme arrivi nel giorno in cui il capo della diplomazia europea, Josep Borrell, invoca sanzioni contro esponenti del governo di Israele, la nazione aggredita dai tagliagole di Hamas, minacciata ogni giorno dall’Ayatollah Ali Khamenei che promette che «Gerusalemme sarà nelle mani dei musulmani e il mondo musulmano celebrerà la liberazione della Palestina». Se stiamo scrivendo il nostro destino, sapere che il mondo libero è nelle mani (anche) di un personaggio come Borrell, ci fa venire i brividi.
L’Unione europea è distante dalla realtà, dopo la strage del 7 ottobre ha subito dimenticato qual è la posta in gioco, ha svolto consapevolmente il ruolo dell’utile idiota di Hamas e dell’Iran. Dietro questo carro funebre della libertà, si sono accodati i gazzettieri del sistema dell’informazione ciclostilata, che si sono bevuti i comunicati di Hamas, hanno dipinto come «volto pragmatico» un terrorista sanguinario come Yahya Sinwar, conosciuto a Gaza come «il macellaio di Khan Yunis». Per soprammercato, dopo la morte del boia dell’Iran, il presidente Ebrahim Raisi, hanno spacciato il suo successore, Massoud Pezeshkian, come un «moderato», lo stesso che in queste ore ha detto al cancelliere tedesco Olaf Scholz che l’Iran ha «il diritto di rispondere». La moderazione dell’Iran è forse quella della sua gang in Libano, Hezbollah, che ha bombardato un campo di calcio dove giocavano dei bambini? Tutti sperano nella pace, è giusto fare ogni sforzo, ma bisogna uscire dalla retorica, perché «non si può ragionare con una tigre quando la tua testa è nella sua bocca» (Winston Churchill ne L’ora più buia). Questa è la posizione oggi di Israele, una democrazia minacciata, un popolo di fronte a una sfida esistenziale.
Mentre scrivo, è in corso una gigantesca partita a scacchi: sono in campo massa di manovra, strategia e tattica, linee di comando e controllo, una battaglia psicologica fatta di pazienza e sorpresa. Nella guerra tra Israele e Hamas (leggere Iran) che è in corso da 312 giorni, l’elemento della «sorpresa» in teoria non c’è, la risposta di Khamenei dopo l’eliminazione a Teheran del capo politico di Hamas, Ismail Hanyeh, è ampiamente «telefonata», ma le mosse a disposizione restano tante.
• PRIMA IPOTESI L’operazione via aria con uno sciame combinato di missili e droni per bucare il «barrage» di Israele con un’azione coordinata è la mossa attesa, già sperimentata (senza successo) dall’Iran nell’attacco dello scorso aprile: Hezbollah può colpire a Nord, gli Houthi dello Yemen lanciare droni via Mar Rosso e provare a penetrare la difesa aerea dal Mar Mediterraneo (è già accaduto con il drone che ha viaggiato per 2mila chilometri e ha colpito Tel Aviv), Hamas e altri gruppi possono far decollare razzi dalla Striscia di Gaza e Teheran naturalmente può usare basi di lancio nei suoi confini e in Iraq.
Lo sciame è atteso dal sistema radar di Israele e degli alleati, dalle batterie anti-aeree Iron Dome, dagli intercettori americani, inglesi e francesi.
• L’ALTRO SCENARIO Questo è uno scenario in cui la risposta israeliana è puramente difensiva. Ma esistono le varianti, le abbiamo già viste: l’Ucraina è stata un teatro di sperimentazione proprio per l’Iran che produce i droni per i russi, sempre in quel conflitto abbiamo visto Kiev cogliere di sorpresa la Russia, sfondare i confini a Kursk e penetrare nel territorio di Mosca per una trentina di chilometri; dieci mesi fa, il 7 ottobre del 2023, i terroristi di Hamas entrarono in Israele e scatenarono la caccia all’ebreo. Nessuno può escludere un’operazione condotta da piccole unità all’interno di Israele, né si può scartare l’idea che Netanyahu e i suoi generali decidano di contrattaccare per neutralizzare obiettivi militari e «tagliare» l’arsenale di Teheran.
La superiorità di Israele e degli alleati sul piano della massa d’urto a disposizione e della tecnologia è indiscussa, ma in un conflitto vince chi pensa in fretta e bene. Questa guerra nasce da un calcolo errato di Hamas e dell’Iran, dall’idea che dopo la strage il governo israeliano rispondesse come nelle altre guerre di Gaza, una risposta minore e via di nuovo con gli assassini, gli assalti, i lanci di razzi sulla popolazione inerme, come prima più di prima. Ma la ferocia, la caccia all’ebreo, ha improvvisamente messo gli israeliani di fronte alla realtà di un nuovo Olocausto, così si è decisa la «guerra lunga» a Gaza e l’eliminazione di tutti i comandanti di Hamas e di Hezbollah. La guerra l’hanno innescata loro, con il regime iraniano che dichiarava il 7 ottobre 2023 come «Giornata epica della gioventù palestinese», la celebrazione della carneficina, della violenza sulle donne, della presa degli ostaggi, della minaccia permanente su un popolo. I nemici di Israele hanno dimenticato una lezione di Sun Tzu: «Nell’operazione militare vittoriosa prima ci si assicura la vittoria e poi si dà battaglia». La pace si prepara, si difende, si conquista. La citano tutti, la costruiscono solo i coraggiosi.
Parcheggi sotterranei trasformati in reparti ospedalieri mentre il centro medico mette al sicuro le scorte essenziali; anche se non sono state emanate nuove direttive, gli ospedali israeliani si sono preparati a eventi di massa; “Ogni paziente riceverà le migliori cure”.
Nelle scorse settimane, il Ministero della Salute ha dato istruzioni agli ospedali di tutto il Paese di assicurarsi di avere scorte adeguate di farmaci e di gasolio per i generatori, per mantenere le normali operazioni in caso di collasso delle infrastrutture elettriche.
Agli ospedali israeliani è stato consigliato di accumulare scorte per almeno tre mesi. Inoltre, alcuni ospedali hanno ricevuto l’ordine di assicurarsi sufficienti scorte di sangue e di prepararsi a dimettere rapidamente i pazienti per far posto a potenziali vittime di guerra.
Gli eventi della scorsa settimana, tra cui le uccisioni mirate del capo militare di Hezbollah Fuad Shukr a Beirut e del capo del politburo di Hamas Ismail Haniyeh a Teheran, insieme alle minacce di ritorsione da parte dell’Iran e del gruppo militante libanese, non hanno richiesto nuove direttive. Tuttavia, gli ospedali si stanno assicurando di essere pronti ad affrontare eventi di massa o scenari ancora più gravi.
In un’intervista, quattro direttori di ospedali israeliani hanno parlato della loro preparazione, sottolineando che i loro piani sono orientati verso incidenti a lungo termine piuttosto che verso crisi a breve termine.
• Centro medico Emek, Afula “Abbiamo preparato le infrastrutture per altri 150 letti sotterranei, oltre ai 150 che già avevamo”, ha detto il direttore dell’Emek Medical Center, dottor Maor Maman. “In sostanza, ora abbiamo un ospedale sotterraneo pienamente operativo e aree fortificate, pronte a curare 300 pazienti in condizioni protette, oltre alle nostre attività di chirurgia e pronto soccorso”.
In previsione di un conflitto intenso e prolungato, gli ospedali si stanno preparando anche per uno scenario definito “isola isolata”, in cui le strade di accesso sono danneggiate e la fornitura di attrezzature mediche e cibo è interrotta.
“Stiamo facendo scorte di cibo, gasolio e attrezzature mediche per diversi mesi, creando un’infrastruttura di emergenza che ci permetterà di mantenere la continuità operativa e di fornire assistenza a un gran numero di pazienti”, ha proseguito il dottor Maman.
Oltre all’Emek Medical Center, altri ospedali nel nord di Israele potrebbero trovarsi in prima linea nella guerra. La potenziale carenza di personale medico, che potrebbe aggravarsi con il richiamo dei riservisti, potrebbe essere mitigata dagli studenti di medicina e dalle squadre mediche di emergenza. Ad esempio, le équipe mediche degli ospedali privati di Nazareth assisteranno gli ospedali regionali come lo Ziv di Safed, mentre il personale degli ospedali del centro di Israele sarà inviato agli ospedali del nord.
• Centro medico della Galilea, Nahariya “Siamo pronti da dieci mesi”, ha dichiarato il prof. Masad Barhoum, direttore del Galilee Medical Center di Nahariya, l’ospedale più settentrionale di Israele, che di recente ha subito un pesante lancio di razzi dal Libano, che ha provocato gravi ferite a una persona del posto.
“Tutti i pazienti e il personale sono sottoterra o in edifici fortificati, come le unità di terapia intensiva e il pronto soccorso”, ha spiegato il Prof. Barhoum. “Le nostre squadre sono già addestrate per eventi di massa ad hoc. Abbiamo distribuito telefoni satellitari alla direzione, che attiveremo solo se, per carità, ci sarà un’interruzione delle reti di comunicazione”.
“Al momento non ci sono istruzioni speciali da parte del Ministero della Salute o del Comando del Fronte Interno. Tuttavia, deve essere chiaro che nessuno ci spezzerà o ci esaurirà. Ogni ferito, sia esso soldato o civile, che entra nel centro medico riceverà le migliori cure.
“In qualsiasi momento potrebbe verificarsi un evento di massa, seguito da un altro. Da un momento all’altro potrebbe scoppiare una mini-guerra o una guerra. Dobbiamo essere pronti. Potremmo essere tagliati fuori per qualche tempo e ci siamo organizzati per essere pronti a curare i feriti e a far funzionare le sale operatorie per servire i pazienti. Questa guerra non sarà come la Seconda guerra del Libano, durante la quale sapevamo più o meno quando sarebbe scoppiato l’incendio.
“Siamo l’ospedale più vicino a qualsiasi confine e, personalmente, l’unico scenario che mi tiene sveglio la notte è la possibilità che non tutti i tunnel di attacco siano stati scoperti. Le nostre équipe mediche sono residenti della zona e vivono la realtà dei razzi che cadono non solo sull’ospedale ma anche sulle loro case. Pertanto, non possono essere esauriti. Quando la tua vita è minacciata, non puoi essere esausto”.
Nel nord di Israele, il Rambam Health Care Campus di Haifa dovrebbe servire come centro di accoglienza principale per i feriti provenienti dagli ospedali regionali, con quasi 2.000 posti letto disponibili nelle strutture sotterranee dall’inizio delle ostilità.
Ci si sta preparando a potenziali escalation di sicurezza non solo nel nord, ma in tutto Israele. In caso di guerra e di incidenti di massa, si prevede che gli ospedali del centro d’Israele diventeranno il punto di riferimento per l’evacuazione delle vittime di traumi; le strutture principali sono lo Sheba Medical Center di Tel Hashomer, il Sourasky Medical Center di Tel Aviv e il Rabin Medical Center di Petah Tikva.
• Centro medico Rabin, Petah Tikva In risposta all’escalation delle tensioni regionali, la direttrice del Rabin Medical Center, dott.ssa Lena Koren-Feldman, ha sottolineato la maggiore prontezza dell’ospedale. “Negli ultimi giorni abbiamo rafforzato e aggiornato la nostra preparazione globale iniziata il 7 ottobre”, ha dichiarato la dott.ssa Koren-Feldman.
“Il nostro ospedale sotterraneo dispone di 350 posti letto e di altri 150-200 posti letto completamente fortificati nella nostra torre di degenza. Complessivamente, l’ospedale può ospitare 800 letti che forniscono protezione secondo i protocolli del Ministero della Salute”.
“Tutti i letti di emergenza sono attrezzati per trasformarsi in unità di terapia intensiva, in grado di supportare pazienti ventilati. Ci stiamo preparando ad affrontare missili a lungo raggio con un potenziale esplosivo e danni significativi. Prevediamo situazioni in cui decine di persone arrivano in ospedale contemporaneamente e siamo preparati a gestire ondate di incidenti di massa. Il nostro pronto soccorso è completamente fortificato, compresa la banca del sangue”, ha spiegato.
“In termini di forniture di gasolio e acqua, ne abbiamo a sufficienza per tre mesi. Secondo le linee guida del Ministero della Salute, possiamo operare come “isola isolata”, supportata da generatori. Tutti i servizi medici disponibili in qualsiasi momento, anche durante la guerra, rimarranno accessibili. Non ci sarà nessun servizio medico non disponibile qui, e potremo riprendere rapidamente i trattamenti oncologici. Tuttavia, gli interventi chirurgici non urgenti potrebbero essere rimandati. Ogni reparto conosce l’ordine di trasferirsi nell’area di emergenza in caso di allarme e ha organizzato le proprie liste di inventario”.
Centro medico Sheba, Tel Hashomer “Conduciamo valutazioni quotidiane della situazione e abbiamo compilato una lista di controllo delle nostre forniture, superando i requisiti stabiliti dal Ministero della Salute e dal Comando del Fronte Interno”, ha spiegato il dottor Amir Greenberg, vicedirettore delle operazioni e dei servizi di emergenza del Centro Medico Sheba, descrivendo i loro continui sforzi di preparazione. “Inoltre, siamo preparati per uno scenario cibernetico, che ci consente di continuare a operare in modo funzionale nel caso di un attacco cibernetico che interrompa i nostri sistemi”.
Secondo il dottor Greenberg, il mantenimento dei servizi medici di routine è fondamentale, anche durante un conflitto intenso. “Seguiamo le linee guida del Comando del Fronte Interno e dell’Autorità Suprema di Ospedalizzazione. Abbiamo un protocollo per ridurre i ricoveri, anche se non lo abbiamo fatto negli ultimi tempi. Riprendiamo rapidamente l’assistenza medica regolare”, ha osservato.
“Le persone hanno bisogno di vari trattamenti e noi ci sforziamo di mantenere i servizi medici di routine, compresi gli interventi chirurgici programmati. Abbiamo 18 sale operatorie fortificate approvate per gli interventi chirurgici. Dovremmo fornire personale medico a un ospedale nel sud, designato come risorsa nazionale in tempo di guerra. Il Magen David Adom invierà squadre e noi invieremo squadre mediche a questo ospedale entro 30 minuti in elicottero.
“Inoltre, il Ministero della Salute ha dato istruzioni a noi e a Rabin di assistere il Centro medico Ziv di Safed. I nostri medici e infermieri si sono già recati a Safed e noi ci uniremo a loro per fornire l’assistenza necessaria. Ci siamo anche coordinati con l’ospedale di Nahariya e vi abbiamo inviato le nostre squadre. Siamo preparati ad affrontare un evento di massa di grandi dimensioni, avendo pianificato tutti gli scenari. Dato il ruolo del nostro ospedale come riserva per l’intero Paese, saremo in un centro di comando ampliato con valutazioni della situazione e riserve di personale per qualsiasi minaccia a Israele”, ha concluso.
Il postino informatore dietro all’eliminazione di Deif
di Olga Flori
Un uomo, incaricato di consegnare messaggi per conto del capo della Brigata di Rafah, Mohammed Shabaneh, ha permesso all’IDF di localizzare ed eliminare il 13 luglio Mohammed Deif, comandante delle Brigate Al Qassam e leader dell’ala militare di Hamas. Secondo quanto riportato da alcuni media, le informazioni fornite dall’uomo hanno consentito all’esercito israeliano di eliminare Deif durante un incontro con Ra’fat Salama, capo della Brigata di Khan Yunis.
L’uomo, che trafficava i messaggi tra terroristi, appartiene ad una importante famiglia di Rafah. Interrogato dalle forze militari israeliane, ha fornito ad Israele preziose informazioni, come una mappa del territorio di Rafah e della rete di tunnel sotterranei utilizzati dai terroristi, oltre a dettagli sui luoghi di produzione di armi, missili ed esplosivi.
Grazie al suo ruolo, conosceva anche le posizioni di numerosi miliziani di Hamas. L’informatore avrebbe quindi avvisato Israele della presenza di Deif nell’area dove si stava nascondendo Salama, permettendo all’esercito israeliano di eliminare uno dei più ricercati terroristi di Hamas con un attacco aereo.
In precedenza, l’IDF aveva già tentato di eliminare Deif con un attacco aereo, colpendo la stanza in cui si trovava, ma lui era riuscito a salvarsi facendosi scudo con alcuni oggetti. Il 13 luglio, l’aeronautica militare israeliana ha fatto sorvolare cinque coppie di aerei e droni sopra il luogo dell’incontro tra Deif e Salama per oltre un giorno e mezzo, in attesa dell’autorizzazione a colpire i terroristi.
La negazione della continuità: il 7 ottobre e la Shoah
di Matthias Kuntzel
Ebrei che fingono di essere morti in mezzo a mucchi di cadaveri, madri che coprono la bocca dei loro bambini per evitare di essere scoperte, prigionieri costretti a consegnare i loro vicini agli assassini, persone stuprate, torturate e bruciate vive: gli orrori del 7 ottobre ricordano indubbiamente il nazismo. E ci sono davvero fili di continuità che collegano il terrore antiebraico delle SS Einsatzgruppen a quello di Hamas. Uno di questi filoni ha a che fare con gli atteggiamenti verso l’Olocausto. Mentre la maggior parte dell’umanità considera l’assassinio di 6 milioni di ebrei come un crimine gigantesco, tra gli islamisti troviamo persone che descrivono apertamente gli omicidi come un brillante risultato dei nazisti che dovrebbe essere ripetuto o completato. Un esempio importante è il predicatore Yusuf al-Qaradawi, morto nel 2022. Nel corso della sua vita era diventato il leader più importante e più popolare dell’organizzazione dei Fratelli Musulmani, la cui propaggine palestinese è Hamas. Queste sono le parole che urlò ai milioni di spettatori del canale televisivo Al-Jazeera all’inizio del 2009:
“Nel corso della storia, Allah ha imposto al popolo [ebraico] chi lo avrebbe punito per la sua corruzione. L’ultima punizione è stata eseguita da Hitler. […] Riuscì a metterli al loro posto. Questa fu una punizione divina per loro. Se Allah vorrà, la prossima volta sarà per mano dei credenti.[1]”.
Qui, Qaradawi sosteneva che gli ebrei fossero responsabili dell’Olocausto, che era una “punizione divina” per la loro “corruzione” applicata da Hitler, il quale agiva come strumento di Allah. Ma non era stato sufficiente. Qaradawi riteneva che fosse necessario un ulteriore ciclo di punizioni, inflitto questa volta dai musulmani. Qaradawi proclamava quindi un nuovo Olocausto e la fine di Israele come una missione religiosa comandata da Allah. I terroristi di Hamas la pensano negli stessi termini. Un altro filone di continuità ha a che fare con la specifica storia ideologica di Hamas. La sua organizzazione ombrello, la Fratellanza Musulmana, iniziò a ricevere fondi nazisti da Berlino già negli anni ’30. Agenti nazisti fornirono assistenza ai suoi leader e organizzarono serate di formazione congiunta sulla “questione ebraica”. Decenni dopo, questo seme diede i suoi frutti. Nello Statuto di Hamas del 1988, che è ancora in vigore, “gli ebrei” sono dichiarati nemici del mondo e causa di entrambe le guerre mondiali, mentre i ProtocollidegliAnzianidiSion sono citati come prova del comportamento ebraico. L’articolo 7 dichiara: “Il Giorno del Giudizio non arriverà finché i musulmani non combatteranno gli ebrei (uccidendo gli ebrei)”. Le scoperte fatte dai soldati israeliani nella Striscia di Gaza, come il libro del co-fondatore di Hamas Mahmoud al-Zahar intitolato Lafinedegliebrei, che glorifica l’Olocausto e chiede che venga completato,[2] e le edizioni arabe del MeinKampf, un libro che è stato recentemente il numero 6 nella lista dei bestseller palestinesi, si adattano a questo programma.[3] Il 7 ottobre, coloro che sono stati incitati in questo modo sono passati all’azione. Volevano la “fine degli ebrei” e avrebbero continuato a scatenarsi senza l’intervento delle forze israeliane. Il fatto che non sia stato possibile impedire questo rinnovato omicidio di massa di ebrei è la prova di un fallimento da parte degli israeliani e del mondo occidentale e, in effetti, della comunità internazionale nel suo complesso. Dopo tutto, il programma genocida di Hamas era noto nel mondo arabo dal 1988 e nei paesi di lingua tedesca dal 2002. Tragicamente, non è stato preso sul serio. E cosa è successo dopo? Come hanno reagito l’opinione pubblica mondiale e l’Occidente al 7 ottobre alla luce dell’esperienza dell’Olocausto e di 40 anni di “educazione” sul tema? Fino ad oggi, la maggior parte del mondo non ebraico si rifiuta di sostenere e mostrare solidarietà nei confronti degli ebrei colpiti dal terrorismo. Come nel 1938, sta ancora una volta abbandonando gli ebrei. Nel luglio 1938, 31 dei 32 stati che presero parte alla Conferenza di Evian rifiutarono di accettare i rifugiati ebrei dalla Germania nazista e dall’Austria occupata dai nazisti. Solo la Repubblica Dominicana era disposta a farlo. 85 anni dopo, c’è ancora una volta scarso segno di empatia verso gli ebrei, che si trovano ad affrontare un massiccio aumento dell’ostilità antisemita in tutto il mondo. Non c’è un serio dibattito internazionale sulla questione di cosa abbia effettivamente generato lo scoppio del 7 ottobre e su come l’odio per le donne e gli ebrei ivi manifestato possa essere spiegato e prevenuto in futuro. I ricercatori dell’Olocausto hanno scritto molto sull’antisemitismo eliminazionista. Dopo il 7 ottobre, tuttavia, questa conoscenza non è stata applicata e lo Statuto di Hamas è stato appena menzionato nei dibattiti successivi. Di conseguenza, ciò che gli ebrei in tutto il mondo hanno percepito come una cesura esistenziale è stato trattato nelle università e dalle agenzie governative nel mondo occidentale come un episodio: le persone hanno continuato come se nulla fosse accaduto.
Allo stesso tempo, le iniziali espressioni di solidarietà nei confronti di Israele si sono rapidamente trasformate in campagne di accusa. Quasi ovunque, Israele – e quindi gli ebrei – sono stati ritenuti responsabili del terrorismo di Hamas e l-eccidio è stato interpretato come una risposta a 56 anni di “occupazione”. Sfortunatamente, anche importanti ricercatori dell’Olocausto – professori che dovrebbero saperlo – hanno articolato tali strategie discolpanti, che rafforzano l’antisemitismo in tutto il mondo. Tra loro c’è Omer Bartov, professore di studi sull’Olocausto e il genocidio alla Brown University di Providence, Rhode Island, USA.
• La colpa di Israele? Interrogato sulle cause del massacro del 7 ottobre, Bartov, in un’intervista al quotidiano FrankfurterRundschau, ne ha attribuito la colpa esclusivamente alle politiche di Israele e all’“oppressione di milioni di palestinesi”. Ciò ha portato a “violenza, rabbia e sete di vendetta” da parte delle persone colpite. L’attacco di Hamas deve quindi essere visto “come un tentativo di richiamare l’attenzione sulla difficile situazione dei palestinesi”. [4] A prima vista, questa interpretazione sembra plausibile, ma non coglie il punto. Inprimoluogo, travisa le azioni di Hamas e quindi le sue motivazioni: il 7 ottobre non è stato un atto spontaneo di vendetta e rabbia, ma un attacco strategico che era stato meticolosamente preparato per mesi. Inoltre, i leader di Hamas ammettono apertamente che le loro azioni non sono in alcun modo intese ad alleviare la “difficile situazione dei palestinesi”. Al contrario, traggono vantaggio dalla catastrofe nella Striscia di Gaza perché possono sfruttarla per mettere alla gogna Israele in modo ancora più efficace nel perseguimento del loro vero obiettivo, lo sterminio di Israele e degli ebrei. Insecondoluogo, il massacro non è stato una risposta alle provocazioni di Israele. Nei mesi e negli anni precedenti, il paese aveva compiuto sforzi per stabilizzare la situazione nella Striscia di Gaza e aumentare il suo tenore di vita. Ecco perché i governi israeliani hanno permesso per anni che i soldi del Qatar arrivassero ad Hamas, e perché a decine di migliaia di residenti di Gaza è stato permesso di lavorare in Israele. Tuttavia, la speranza di stabilità si è rivelata un’illusione; la crudele ricompensa è arrivata il 7 ottobre. Interzoluogo, l’odio religioso di Hamas verso gli ebrei non può essere una reazione alle politiche di Israele perché è stato originariamente formulato e sviluppato dai suoi gruppi predecessori negli anni ’30. Questo odio, promosso dal nazionalsocialismo, ha preceduto la fondazione di Israele ed è sempre stato più la causa della violenza che una reazione ad essa. Questo odio è diretto contro tutti gli ebrei, non importa quanto siano impegnati a fare la pace con i palestinesi, come è stato il caso di molti di quelli massacrati il 7 ottobre, ed è diretto contro tutto ciò che Israele fa. Inquartoluogo, i ricercatori concordano sul fatto che l’antisemitismo è un fantasma che non ha nulla a che fare con i veri ebrei o con le critiche alle loro attività. Bartov ignora questo fatto quando afferma nell’intervista sopra menzionata che Israele ha causato il terrorismo di Hamas del 7 ottobre. Dimentica che l’antisemitismo contraddice la nostra logica quotidiana di causa ed effetto. Proprio come non c’era una causa razionale per l’omicidio dei sei milioni, non c’era nemmeno una causa razionale per i pogrom che seguirono le accuse di omicidio rituale o per il massacro del 7 ottobre: puro odio e le più feroci delle ideologie erano e sono all’opera in questi casi.
• L’Olocausto è un argomento tabù? Nell’intervista sopra menzionata pubblicata dal quotidiano FrankfurterRundschau poco più di una settimana dopo l’eccidio, Omer Bartov ha criticato tutti i tentativi di collegare il terrorismo di Hamas all’Olocausto come “fuorvianti” e “motivati da ideologie”. Poco più di un mese dopo, insieme a Christopher R. Browning, Michael Rothberg e A. Dirk Moses, nonché ad altri dodici colleghi, ha pubblicato una Lettera aperta sull’uso improprio della memoria dell’Olocausto. In essa, i firmatari, tra cui Stephanie Schüler-Springorum, direttrice del Centro di ricerca sull’antisemitismo di Berlino, non solo si oppongono all’uso improprio della memoria, che esiste e dovrebbe essere criticato. Rifiutano anche qualsiasi riferimento all’Olocausto nei nostri sforzi per comprendere le cause dell’eccidio. È vero che la loro lettera aperta menziona il fatto che il 7 ottobre ha ricordato a molti ebrei l’Olocausto e anche i pogrom precedenti. Allo stesso tempo, tuttavia, respinge con veemenza questa associazione:
“Fare appello alla memoria dell’Olocausto oscura la nostra comprensione dell’antisemitismo che gli ebrei affrontano oggi e travisa pericolosamente le cause della violenza in Israele-Palestina.[5]”.
Questa affermazione fondamentale della Lettera Aperta è notevole sotto diversi aspetti. Da un lato, implica che l’antisemitismo a cui gli ebrei sono esposti “oggi” ha poco o nulla in comune con l’odio per gli ebrei che culminò nell’Olocausto. Come abbiamo già visto, questo è sbagliato. Le relazioni ideologiche, storiche e semantiche che collegano l’antisemitismo di Hamas con quello dei nazisti e la letteratura accademica che dimostra questa connessione possono essere trascurate solo da persone determinate a trascurarle. Chi ignora questo, inoltre, non solo incolpa Israele per l’odio verso gli ebrei nel mondo arabo, ma banalizza anche questo odio, supponendo che esso abbia un movente razionale. Un esempio di questa banalizzazione è stato fornito dal politologo americano Marc Lynch. In una recensione di un libro sulla prestigiosa rivista ForeignAffairs, Lynch elogia Qaradawi come “un’icona per gli islamisti non violenti mainstream”. Tuttavia, ammette anche che Qaradawi è “certamente ostile verso Israele”. Qui, Lynch si riferiva presumibilmente anche al discorso citato sopra, in cui Qaradawi aveva descritto l’Olocausto come “punizione divina” e dichiarato: “Se Allah vuole, la prossima volta sarà per mano dei credenti”. Agli occhi di Lynch, questa minaccia non era antisemita, ma semplicemente un’espressione di critica a Israele. Tuttavia, l’autore del libro recensito, Paul Berman, non era d’accordo con questo. Lynch “si nasconde dietro eufemismi – in questo caso la sua frase ‘ostile verso Israele’, quando ciò che intende realmente è ‘hitleriano'”, ha scritto Berman nel numero successivo di ForeignAffairs. Lynch, tuttavia, non era d’accordo sul fatto che potesse aver inteso “hitleriano”. Invece, in una risposta, ha ribadito la sua affermazione errata secondo cui Qaradawi stava semplicemente esprimendo “visioni estremamente ostili verso Israele” nelle sue dichiarazioni.[6] Contrariamente a tutte le prove, Lynch, come molti dei suoi colleghi, difende il dogma della discontinuità, ovvero la tesi secondo cui non c’è alcun collegamento tra l’odio di Hitler per gli ebrei e l’odio islamista per Israele. Errori di valutazione di questo tipo hanno contribuito e continuano a contribuire alla minimizzazione dell’odio radicale per gli ebrei da parte della Fratellanza Musulmana e di Hamas e hanno quindi contribuito a rendere possibile la catastrofe del 7 ottobre. La Lettera Aperta di Bartov e altri prosegue dicendo che invocare la memoria dell’Olocausto “rappresenta pericolosamente in modo errato le cause della violenza in Israele-Palestina”. Quindi c’è un “pericolo” quando metto in relazione la mia conoscenza dell’Olocausto con il 7 ottobre? E di che pericolo si tratta? Presumibilmente, il motivo per cui ritengono che invocare la memoria dell’Olocausto non sia solo sbagliato, ma “pericolosamente sbagliato”, è perché farlo mina la dicotomia tra la perfidia sionista da una parte e l’innocenza palestinese dall’altra. Naturalmente, ci sono molte ragioni per cui si potrebbe desiderare di criticare le politiche di Benjamin Netanyahu e l’approccio all’attuale conflitto militare. Tuttavia, tale critica diventa ingiusta se ignora sistematicamente tutte le forze che vogliono la distruzione di Israele. Ma è proprio questo che fa la Lettera Aperta. Mentre l’eccidio di Hamas viene ripetutamente banalizzato come una “crisi attuale”, i firmatari muovono l’accusa di “uccisione diffusa” esclusivamente contro Israele, la cui storia di 75 anni ritengono responsabile della “spirale di violenza”. “Non esiste una soluzione militare in Israele-Palestina”, hanno scritto poche settimane dopo il 7 ottobre, senza dire come la serie di omicidi di Hamas avrebbe potuto essere fermata in modo non militare. L’8 dicembre 2023, Jeffrey Herf e Norman J.W. Goda hanno pubblicato una contro-dichiarazione firmata da altri 31 accademici, respingendo l’accusa di abusi dell’Olocausto. In essa, descrivono gli eventi del 7 ottobre come “il più importante omicidio di massa di ebrei dall’Olocausto ad oggi” e sottolineano che “in termini di idee, c’è un collegamento nazista con Hamas”. Essi affrontano “la forma distintiva di odio islamista verso gli ebrei emersa negli anni ’30 con la Fratellanza Musulmana” e sottolineano che “questo mix di odio islamista ed europeo verso gli ebrei, pur non essendo condiviso dall’intero mondo arabo/musulmano, ha mantenuto un’ombra sul Medio Oriente per quanto riguarda l’esistenza di uno Stato ebraico”.
Essi criticano la spinta antisionista del documento di Bartov e concludono chiedendo uno “sguardo impassibile alle connessioni tra passato e presente nella dittatura di Hamas e nelle sue azioni”. [7] In una breve risposta, il primo gruppo ha respinto la contro-affermazione e ha ribadito la sua posizione.[8]
• Il fallimento dell’educazione sull’Olocausto Quando Bartov e i suoi cofirmatari respingono con tanta veemenza ogni associazione con la Shoah, stanno fuggendo dalla realtà: dopo il 7 ottobre, la storia dell’Olocausto non può più essere separata dal presente. I mesi successivi al massacro hanno rivelato il fallimento della precedente educazione occidentale sull’Olocausto, che non ha mai voluto sapere nulla delle conseguenze dell’ideologia nazista nel mondo musulmano. Nel novembre 2023, Dani Dayan, CEO di Yad Vashem, lo ha riconosciuto: “Noi di Yad Vashem siamo esperti di ideologia nazista, non dell’ideologia barbarica di Hamas. Non l’abbiamo studiata”. [9] Questa ignoranza deve finire. Se si vuole affrontare la nuova sfida, ogni futura commemorazione della Shoah deve essere una commemorazione anti-antisemita che non tabuizzi più l’odio genocida degli ebrei che sopravvive dopo Auschwitz e in Medio Oriente. Allo stesso tempo, la lotta contro l’antisemitismo dovrebbe sempre essere condotta con l’obiettivo di risvegliare una consapevolezza dell’Olocausto che tenga conto non solo dell’unicità del crimine, ma anche dell’unicità dell’odio che lo ha reso possibile.
I veri protagonisti di questo odio sono oggi a Teheran. Per loro, l’eccidio del 7 ottobre è stato solo un assaggio di ciò che hanno in mente.
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1. MEMRI, #2005, 28 gennaio 2009 Qaradawi non è un caso isolato, come dimostra vividamente lo studio di Meir Litvak ed Esther Webman, FromEmpathytoDenial. ArabResponsestotheHolocaust, Londra 2009. 2. Il presidente Isaac Herzog alla conferenza sulla sicurezza di Monaco presenta testi antisemiti trovati a Gaza, 17 febbraio 2024. 3 “Non c’è bisogno di scusarsi: Hamas è davvero il “nuovo nazismo””, Jewish News Syndicate, 06.03.2024 4. Ulrich Seidler, ricercatore sul genocidio sull’attacco di Hamas: “Netanyahu ha seminato il vento”, FrankfurterRundschau, 16 ottobre 2023. 5. Lettera aperta sull’abuso della memoria dell’Olocausto, TheNewYorkReviewofBooks, 20 novembre 2023. Enfasi: MK. Oltre ai cinque sopra citati, la lettera è stata firmata anche da Karyn Ball, Jane Caplan, Alon Confino, Debórah Dwork, David Feldman, Amos Goldberg, Atina Grossmann, John-Paul Himka, Marianne Hirsch, Raz Segal e Barry Trachtenberg. 6. Marc Lynch, ‘Verità velate: l’ascesa dell’Islam politico e dell’Occidente’, ForeignAffairs, luglio/agosto 2010 e Paul Berman, ‘Islamismo svelato e Marc Lynch’, ‘Le risposte di Lynch’, ForeignAffairs, settembre/ottobre 2010. 7. Jeffrey Herf, Norman J.W.Goda e altri 31 studiosi, “Una lettera aperta su Hamas, l’antisemitismo e la memoria dell’Olocausto”, TheNewYorkReviewofBooks, 8 dicembre 2023. I 31 sono Joseph Bendersky, Russell A. Berman, Paul Berman, Richard Breitman, Magnus Bretchken, Martin Cüppers, Havi Dreifuss, Ingo Elbe, Tuva Friling, Sander Gilman, Stephan Grigat, Susannah Heschel, David Hirsh, Günther Jikeli, Martin Kramer, Matthias Küntzel, Meir Litvak, Dan Michman, Joanna B. Michlic, Benny Morris, Cary Nelson, Bill Niven, Alvin Rosenfeld, Gavriel Rosenfeld, Roni Stauber, Norman A. Stillman, Karin Stögner, Izabella Tabarovsky, James Wald, Thomas Weber ed Elhanan Yakira. 8. Ibid.
9. Detlef David Kauschke, ‘Never again is now’, Jüdische Allgemeine, November 9, 2023.
(L'informale, 13 agosto 2024 - trad. Niram Ferretti)
Brano tratto dal programma “Feste e celebrazioni ebraiche” di Rai Radio 1 – 12 agosto 20
di Rav Giuseppe Momigliano
Nel calendario ebraico la data del 9 di Av – Tisha Be Av si distingue quale giornata di digiuno, di preghiere e di lutto nel ricordo della distruzione del primo e del secondo santuario di Gerusalemme. Il primo quello costruito dal re Salomone e distrutto nel 586 a.e.v. dalle truppe babilonesi agli ordini del sovrano Nabucodonosor. Il secondo edificato dagli ebrei tornati dall’esilio di Babilonia e distrutto nel 70 e.v. dai soldati romani agli ordini di Tito. Nella stessa data e in giorni a essa vicini sono altresì ricordati altri tragici eventi della storia ebraica, tra cui la cacciata degli ebrei dalla Spagna, nel 1492 e alcuni tra i più terribili episodi della Shoah. Questa giornata, che già riassume molteplici tristi ricordi e significati, si svolge quest’anno in un clima di particolare angoscia e sgomento per i drammatici eventi in corso iniziati con l’orrendo massacro del 7 ottobre. Nel libro biblico delle Lamentazioni – Ekhà – che viene letto la sera e la mattina del nove di Av viene espresso il ricordo della prima distruzione di Gerusalemme, sono descritte le sofferenze le umiliazioni subite, il senso di smarrimento per una catastrofe che si credeva impossibile a realizzarsi, malgrado i numerosi avvertimenti dei profeti, troviamo il senso di solitudine per essere stati abbandonati e traditi da paesi che si ritenevano amici fidati, incontriamo la sollecitazione a riflettere sulle colpe che avevano determinato la caduta del Tempio, percepita come una punizione divina; vengono anche lette elegie che associano l’antica catastrofe con altre avvenute nel corso della lunga storia del popolo ebraico, durante queste letture i fedeli sono seduti a terra come è consuetudine delle persone in lutto si leggono i testi alla fioca luce di candele, dopo aver rimosso i paramenti e gli ornamenti sacri delle sinagoghe.
Per comprendere le ragioni per cui la distruzione del Santuario sia così fortemente sentita ed evocata e si mantenga nel ricordo dopo quasi duemila anni, dobbiamo ricordare il valore e l’importanza che il pensiero ebraico attribuisce al Santuario e in una più ampia visione anche alla città di Gerusalemme. Il Santuario non era solo un edificio consacrato ove si compivano i riti e le offerte sacre prescritte nella Torà: era molto di più. Già il luogo ove era stato edificato aveva, secondo la tradizione, un significato speciale essendo il posto nel quale il Signore aveva messo alla prova il patriarca Abramo fino al punto che questi aveva legato sull’altare il figlio Isacco per l’estremo sacrificio, un gesto di fede profonda che D-o giura al patriarca di ricordare come particolare merito di benedizione per il popolo che da lui sarebbe disceso; anche per questa particolarità del luogo ove era posto, il Bet Hamikdash rappresentava l’espressione concreta dell’intenso legame mistico e spirituale tra l’Eterno e il popolo ebraico, un legame basato sui comandamenti di santità al quale Israele si era impegnato e attraverso i quali la Shekhinà , la Presenza divina si irradiava dal Santuario a tutto il popolo, come scritto nel Libro dell’Esodo “Mi faranno un Santuario ed IO dimorerò in mezzo a loro”; non solo, il Santuario era idealmente considerato come il cuore pulsante dell’universo attraverso il quale si manifestava più intensamente la provvidenza divina, era percepito come sorgente di vita, di benedizione e di prosperità materiale e spirituale per il mondo intero. Questo luogo sacro rappresentava anche un segno ideale e concreto di unità per tutto il popolo ebraico, infatti tre volte all’anno, nelle feste di Pesah, di Shavuot e di Sukkot, ovvero Pasqua, Pentecoste e Capanne, gli ebrei provenienti da ogni luogo, dentro e fuori la terra d’Israele, salivano al Tempio di Gerusalemme a rendere omaggio al Signore e a rinsaldare i legami di fraternità e condivisione. Il Santuario avrebbe dovuto essere il luogo in cui la manifestazione del servizio di fede all’Eterno si coniugasse con la ricerca della giustizia e della misericordia, per questo la corte suprema, il Sinedrio, aveva la sede principale presso il Santuario. Purtroppo questa sintesi di fede, giustizia e misericordia fu spesso gravemente disattesa e prevaricata causando la profanazione della stessa santità di Yerushalaim (Gerusalemme) e risultando quindi, come più volte ribadito dai profeti, causa della distruzione del Santuario stesso.
Il ricordo di Gerusalemme e del Santuario distrutto accompagna l’ebreo ogni giorno, nelle tre preghiere quotidiane, nelle celebrazioni dei giorni di festa, in tanti gesti e particolari della ritualità e della vita, fino a caratterizzare persino il momento più lieto della vita, la cerimonia del matrimonio che si conclude con la rottura di un bicchiere al termine delle benedizioni nuziali e la pronuncia delle tre formule di impegno solenne a mantenere il ricordo di Gerusalemme, come sono espresse nel salmo 137: “Se ti dimenticherò, o Yerushalaim, che la mia destra dimentichi (come muoversi), possa la mia lingua rimanere attaccata al palato se non conserverò il tuo ricordo, se non eleverò Yerushalaim al di sopra della mia più grande gioia”. Per riflesso, anche le parole di conforto nel momento di grande dolore per la perdita delle persone più care esprimono il ricordo della distruzione del santuario “Il Signore vi conforti insieme a tutti color che si dolgono per Yerushalaim e Zion.”
La memoria della distruzione del Santuario – come già accennato – è anche occasione per riflettere sulle cause che lo hanno determinato, nella tragica fine del primo Santuario furono il diffondersi in Israele dell’idolatria mediata dai popoli circostanti, nonché l’incapacità di realizzare quel modello di giustizia e di attenzione solidale per i più deboli che è un motivo dominante nella legislazione biblica; nella distruzione del secondo Tempio furono soprattutto determinanti le lacerazioni interne, le infinite rivalità, lo smarrimento di parole e dialoghi di pace all’interno stesso del popolo ebraico. Meditazioni anche nel presente di assoluta attualità.
Il libro di Ekhà della Lamentazioni che si apre con le espressioni di sgomento e dolore accorato si chiude invece con le parole di speranza, con l’invocazione all’Eterno affinché il dialogo si riapra e il legame con il Signore, da cui dipende la vita dell’uomo, possa rinsaldarsi: “Facci tornare o Signore a Te e ritorneremo. Rinnova i nostri giorni come in antico”. Questa ritorno sincero a D-o è una sollecitazione che possiamo intendere come un appello a tutti gli uomini, come condizione affinché giungano a compimento le promesse di pace dei Profeti, quando il Santuario ricostruito e la città di Gerusalemme non saranno più obiettivi di conquiste belliche, realizzate o progettate, ma diverranno meta di percorsi di pace e di ispirazione, quando i popoli- come preannuncia il Profeta Isaia si inviteranno l’un l’altro a salire sul Monte del Signore a Gerusalemme, per riceverne insegnamento, nel tempo in cui “Nessun popolo alzerà la spada contro l’altro e non impareranno più la guerra” (Isaia 2, 1-4).
Iran: difesa o attacco, qual è la strategia migliore?
Il precario equilibrio: un nuovo approccio alla minaccia iraniana
In un contesto geopolitico in continua evoluzione, la strategia degli Stati Uniti nei confronti dell'Iran solleva interrogativi. Mentre Washington predilige una postura difensiva e de-escalation, alcuni esperti mettono in discussione questo approccio, sostenendo che potrebbe rivelarsi controproducente a lungo termine.
Nonostante la sua retorica bellicosa, il regime iraniano presenta notevoli vulnerabilità. I suoi sistemi di difesa aerea sono considerati relativamente obsoleti e la sua capacità di effettuare attacchi aerei a lungo raggio rimane limitata. Queste debolezze spiegano in parte la strategia di "guerra per procura" adottata da Teheran, che si affida a gruppi alleati come Hezbollah e Hamas per compiere azioni ostili contro Israele.
Di fronte a questa situazione, sta emergendo un nuovo approccio strategico. Invece di concentrarsi esclusivamente sulla difesa e sulla de-escalation, alcuni sostengono una postura più offensiva. L'idea sarebbe quella di presentare una minaccia credibile agli interessi strategici dell'Iran, colpendo potenzialmente le sue installazioni militari, nucleari e petrolifere e le infrastrutture critiche.
Questa strategia si basa sul presupposto che il regime iraniano, consapevole delle sue debolezze, potrebbe essere dissuaso dall'intraprendere azioni su larga scala se percepisse un rischio reale per la sua stabilità. Gli attuali sforzi dell'Iran per acquisire sistemi avanzati di difesa aerea dalla Russia testimoniano questa consapevolezza.
Tuttavia, questo approccio non è privo di rischi. Un'escalation potrebbe portare a un conflitto regionale più ampio. Tuttavia, i sostenitori di questa strategia sostengono che sarebbe preferibile affrontare questa eventualità ora, prima che l'Iran rafforzi significativamente le sue capacità difensive e potenzialmente sviluppi armi nucleari.
Il programma nucleare iraniano rimane una preoccupazione fondamentale. Secondo l'Agenzia internazionale per l'energia atomica, l'Iran potrebbe avere abbastanza uranio arricchito per sviluppare un'arma nucleare nel prossimo futuro. Questa prospettiva altererebbe radicalmente l'equilibrio di potere nella regione.
Una simile strategia di deterrenza offensiva invierebbe anche un forte messaggio agli alleati regionali degli Stati Uniti, come l'Arabia Saudita e la Giordania, che percepiscono l'Iran come una grave minaccia. Potrebbe anche influenzare i calcoli strategici di potenze come la Russia e la Cina, che negli ultimi anni hanno rafforzato i loro legami con Teheran.
Tuttavia, questo approccio solleva questioni etiche e pratiche. Come si può calibrare una tale minaccia senza che l'escalation sia fuori controllo? Come garantire che questa strategia non alimenti ulteriormente le già alte tensioni regionali?
In definitiva, trovare un equilibrio tra una deterrenza credibile e la prevenzione di un conflitto aperto rimane una sfida importante. Con l'evolversi della situazione, è fondamentale che tutte le parti interessate mantengano canali di comunicazione aperti ed esplorino
vie diplomatiche insieme alle loro strategie di sicurezza.
(JForum.fr, 12 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Intelligence Israele: l’Iran potrebbe attaccare nel brevissimo periodo
Diverse notizie circolate domenica sera indicavano che Israele si aspettava il lancio di un grande attacco iraniano entro pochi giorni, anche se i militari hanno cercato di minimizzare sottolineando che le istruzioni ai civili erano invariate.
Le notizie hanno segnato un’inversione di tendenza rispetto alla precedente ipotesi prevalente, secondo la quale la Repubblica islamica – sottoposta a forti pressioni internazionali – avrebbe rinunciato all’intenzione iniziale di lanciare un imminente attacco su larga scala in risposta all’assassinio del leader politico di Hamas Ismail Haniyeh avvenuto a Teheran il 31 luglio, che Israele non ha confermato né smentito.
Ci si aspettava invece che l’Iran lasciasse la risposta al gruppo terroristico libanese Hezbollah, il cui massimo comandante militare Fuad Shukr è stato ucciso da Israele in un attacco aereo a Beirut alcune ore prima dell’assassinio di Haniyeh. Israele ha incolpato Shukr di essere dietro a molti attacchi contro i civili, tra cui un razzo che il mese scorso ha ucciso 12 bambini in un campo di calcio a Majdal Shams, sulle alture del Golan.
Ma il sito di notizie Axios, citando due fonti anonime, ha riferito domenica che l’attuale valutazione di Israele è che l’Iran lancerà un attacco diretto al Paese entro pochi giorni, possibilmente prima che giovedì si tengano i nuovi colloqui per il cessate il fuoco e l’accordo sugli ostaggi.
Il rapporto affermava che la questione era divisiva all’interno dell’Iran. Il Presidente Masoud Pezeshkian vuole evitare una risposta dura, mentre il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche vuole lanciare un attacco più ampio di quello del 13-14 aprile, quando centinaia di droni e missili sono stati lanciati nel primo attacco diretto dell’Iran contro Israele. Quasi tutti i proiettili e gli UAV sono stati intercettati durante l’attacco.
Una delle fonti citate nel rapporto ha affermato che la situazione è “ancora fluida” a causa dei disaccordi.
Il rapporto affermava che il Ministro della Difesa Yoav Gallant aveva parlato domenica con il Segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin e gli aveva detto che i preparativi militari dell’Iran suggerivano che l’Iran si stava preparando per un attacco su larga scala contro Israele.
Il Pentagono ha poi confermato l’esistenza della telefonata, aggiungendo che Austin ha ordinato il dispiegamento del sottomarino missilistico guidato USS Georgia in Medio Oriente in seguito all’escalation delle tensioni. L’annuncio dei movimenti di un sottomarino è raro per gli Stati Uniti.
In un comunicato, il Pentagono ha aggiunto che Austin ha anche ordinato al gruppo d’assalto Abraham Lincoln di accelerare il suo dispiegamento nella regione.
Il Magg. Gen. Pat Ryder, addetto stampa del Pentagono, ha dichiarato che Austin ha parlato con Gallant e ha ribadito l’impegno dell’America “a compiere ogni passo possibile per difendere Israele e ha sottolineato il rafforzamento della posizione e delle capacità militari degli Stati Uniti in tutto il Medio Oriente alla luce dell’escalation delle tensioni regionali”.
La Lincoln, che si trova nell’Asia Pacifica, aveva già ricevuto l’ordine di recarsi nella regione per sostituire il gruppo d’assalto della portaerei USS Theodore Roosevelt, che dovrebbe iniziare a rientrare negli Stati Uniti. La settimana scorsa, Austin aveva detto che la Lincoln sarebbe arrivata nell’area del Comando Centrale entro la fine del mese.
Domenica non era chiaro cosa significasse il suo ultimo ordine, o quanto più rapidamente la Lincoln si dirigerà verso il Medio Oriente. La portaerei ha a bordo i caccia F-35, oltre agli F/A-18 che si trovano anch’essi sulle portaerei.
Ryder non ha nemmeno detto quanto velocemente il sottomarino missilistico guidato USS Georgia raggiungerà la regione.
Nel frattempo, domenica sera l’emittente pubblica Kan e il notiziario Channel 13 hanno riferito che la valutazione aggiornata di Israele è che Teheran intende lanciare un grande attacco questa settimana.
Channel 13 ha riferito, senza citare fonti, che potrebbe esserci un attacco combinato da parte dell’Iran e di Hezbollah, sia simultaneamente che successivamente. Il network ha detto che un fattore che ha ritardato l’attacco promesso è stata la pressione francese sull’Iran e su Hezbollah affinché non lanciassero un grande attacco durante le Olimpiadi di Parigi, che si sono concluse domenica.
Nonostante le crescenti voci di un attacco di grandi dimensioni, il portavoce dell’IDF, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha dichiarato domenica sera che non ci sono stati cambiamenti nelle linee guida di emergenza per i civili.
“A seguito delle ultime notizie riguardanti i piani dell’Iran, chiariamo che, in questa fase, non ci sono cambiamenti alle linee guida del Comando del Fronte Interno”, ha detto Hagari su X.
“L’IDF e l’establishment della difesa monitorano i nostri nemici e gli sviluppi in Medio Oriente, con particolare attenzione all’Iran e agli Hezbollah, e valutano costantemente la situazione”, ha detto, aggiungendo che le truppe sono “schierate e preparate con un alto livello di prontezza”.
“Se sarà necessario cambiare le istruzioni, le aggiorneremo con un messaggio ordinato sui canali ufficiali”, ha aggiunto Hagari.
Le tensioni alle stelle hanno visto molte grandi compagnie aeree cancellare o ritardare i loro voli verso Israele e verso altri Paesi della regione.
Domenica scorsa, Gallant ha detto alle reclute militari che Israele opererà come non ha mai fatto prima se dovesse essere attaccato in un modo senza precedenti dall’Iran e da Hezbollah.
“Abbiamo capacità significative. Spero che ne tengano conto e che non scatenino una guerra su altri fronti”, ha detto alle reclute nella base militare di Tel Hashomer.
Ha aggiunto che Israele sta combattendo per la sua esistenza in un “ambiente ostile”.
Ha sottolineato alle reclute che si stavano arruolando in un momento “impegnativo” e “significativo” della storia.
L’italiana che guida il museo di Tel Aviv: “È un errore boicottare l’arte di Israele”
Parla Tania Coen-Uzzielli che guida l’istituzione: “Critichiamo Netanyahu, dialoghiamo con i palestinesi, salviamo le opere nei bunker. Ma questo non basta, l’antisemitismo è tornato”
Tania Coen-Uzzielli, direttrice italiana del museo d'arte moderna di Tel Aviv
TEL AVIV - La paura degli attacchi nemici. Il dolore delle famiglie degli ostaggi. Le proteste contro il governo Netanyahu e la delusione per il boicottaggio internazionale contro Israele «che cela il ritorno dell’antisemitismo». C’è un luogo di Tel Aviv che sintetizza tutto ciò che oggi scorre nelle vene del Paese, ed è il suo Museo d’arte moderna. Fondato nel 1932, 16 anni prima della nascita di Israele, dal 7 ottobre è anzitutto diventato un simbolo di attivismo perché qui davanti c’è la cosiddetta “Piazza degli ostaggi”, lì dove si incontra per manifestazioni ed eventi “Bring Them Home Now”, l’associazione dei familiari degli ostaggi di Hamas.
C’è la lunga tavolata con una sedia per ognuno di loro, pronta per il giorno in cui tornerà. C’è la riproduzione di un tunnel di Hamas. Ci sono i gazebo con il merchandising dell’associazione, che così finanzia la propria lotta perché tutta Israele, e anzitutto il suo governo, non dimentichi mai la necessità di arrivare a uno scambio di prigionieri.
Dal 7 ottobre, però, il museo è in prima linea anche sul tema degli attacchi nemici, dai missili di Hamas a quelli di Hezbollah fino alla tanto attesa e temuta rappresaglia iraniana in seguito all’uccisione a Teheran del leader di Hamas Ismail Haniyeh. Da quel giorno, infatti, il bunker del museo è doppiamente protagonista: ospita i cittadini durante gli allarmi e protegge le storiche opere d’arte, che qui sono state trasferite.
La regista di tutte queste operazioni è una donna italiana. Si chiama Tania Coen-Uzzielli e dal 2019 è la direttrice del museo. Romana cresciuta alla Garbatella, dopo il liceo Socrate si è trasferita a Gerusalemme, dove si è laureata. Trascorso un periodo in California ha lavorato per vent’anni al Museo d’Israele di Gerusalemme prima appunto di trasferirsi a Tel Aviv. «Siamo l’esempio di come nell’ultimo decennio i musei di arte si siano trasformati radicalmente e siano diventati luoghi di dialogo e teatro di espressione politica, e in qualche modo seppur nel senso più deleterio ciò è dimostrato anche dalle proteste per il clima – ci racconta – Noi siamo una risorsa pubblica fisica e mentale, siamo aperti fisicamente nelle emergenze, siamo un rifugio durante gli allarmi, un riparo dal caldo e dalla pioggia, ma siamo anche luogo di conforto e sostegno per le famiglie degli ostaggi e per le loro battaglie. Abbiamo sentito il bisogno di reinventarci come istituzione culturale rilevante, ed essere così più attenti a ciò che succede nella comunità, sentendone il battito del cuore. Ma abbiamo anche preso posizione contro le politiche del governo Netanyahu, e in particolare durante la protesta contro la riforma giudiziaria che mette in pericolo le fondamenta stesse della democrazia in Israele. Abbiamo proiettato live, su un maxischermo, uno dei dibattiti più critici intorno al tentativo del governo di limitare i poteri della Corte Suprema dando accesso gratuito ai visitatori. Una chiara presa di posizione per esprimere la nostra preoccupazione».
Un'opera d'arte del museo d'arte di Tel Aviv viene portata nel bunker sotterraneo
«Siamo un’avanguardia storica del Paese – ricorda Tania Coen-Uzzielli – il primo sindaco della città Meir Dizengoff fondò il Museo (all’inizio proprio a casa sua) per affermare l’importanza delle istituzioni culturali in una società che si stava formando. E non dimentichiamo che proprio nelle stanze del museo, in una delle sue collocazioni precedenti, David Ben Gurion proclamò la Dichiarazione d’indipendenza di Israele. Siamo un Paese nato in un museo d’arte e a volte purtroppo ce ne dimentichiamo».
Nonostante tutto ciò, il Museo d’arte di Tel Aviv vive una fase drammatica nei suoi rapporti internazionali: «Siamo un museo da un milione di visitatori e da venti mostre l’anno, tra i primi cento al mondo, e siamo da sempre attivi nella scena artistica internazionale. Ma ad oggi tutte le nostre collaborazioni con istituzioni internazionali sono state cancellate, per ragioni politiche. Artisti e istituzioni ci voltano le spalle a causa delle politiche del nostro governo. A marzo 2025 avevamo previsto una mostra di Marina Abramovic in collaborazione con la Royal Academy di Londra, ma è saltata». Stessa cosa per un progetto con il Centre Pompidou, racconta Coen-Uzzielli con amarezza: «Un paradosso. Nella città più aperta e cosmopolita, dedita alla libertà e all’uguaglianza, con il nostro attivismo abbiamo tenuto alto il nome di Israele, abbiamo dato voce ai tormenti della nostra comunità, abbiamo mandato il messaggio che siamo ancora una democrazia dove è possibile il dissenso, abbiamo dimostrato che l’arte è il luogo della complessità, senza considerare il dialogo con la comunità e gli artisti palestinesi e le iniziative per attirare un pubblico arabo a partire dai licei. Eppure veniamo penalizzati e visti all’estero come espressione del nostro governo».
La tavola apparecchiata davanti al museo di Tel Aviv con i posti riservati agli ostaggi nelle mani di Hamas, per quando torneranno
Ci vede anche dell’antisemitismo o è solo ostilità verso le politiche di Netanyahu? «Guardi, io ero l’ultima dei mohicani su questo, ma comincio a ricredermi, perché io sono la prima a criticare Netanyahu e l’uccisione di troppe vittime innocenti a Gaza, ma è imperativo anche condannare il terrorismo e l’attacco atroce di Hamas il 7 ottobre. Si applicano due pesi e due misure, e la sensazione è che ci sia un chiaro rigurgito di antisemitismo».
Oggi il Museo d’arte, come tutta Tel Aviv, scruta il cielo e aspetta i missili iraniani in rappresaglia a un’azione del governo. La direttrice si prepara: «Le opere del piano terra, più sicuro, le abbiamo lasciate lì per il pubblico che ancora e nonostante tutto arriva, mentre quelle del piano superiore, più a rischio, le abbiamo trasferite nel bunker. Ci sono tele di Picasso, Matisse, Rothko, Pollock, Munch, Chagall. È il nostro tesoro. Lo abbiamo ricevuto in dono dalle generazioni passate, e il nostro compito è di custodirlo per quelle future».
(la Repubblica, 12 agosto 2024)
Israele va avanti con gli attacchi mirati: ucciso altro capo di Hamas
Sinwar apre alla tregua
di Amedeo Ardenza
Domenica il rabbinato delle Israel Defense Forces (Idf) ha dato disposizione ai militari operativi al fronte di non digiunare per Tisha Be Av. Il digiuno del 9 del mese ebraico di Av inizia questa sera e termina martedì sera. Al pari del più conosciuto digiuno del Kippur prevede l’astensione dal bere e dal mangiare per 25 ore consecutive, ma «digiunare durante un turno operativo è proibito: sarebbe un rischio per la vita», hanno spiegato i rabbini.
Le Idf vogliono al contrario che i propri effettivi al fronte siano in forze e all’erta tanto più il 9 di Av, il giorno più luttuoso del calendario ebraico in cui viene ricordata la distruzione del Primo Tempio di Gerusalemme da parte del sovrano babilonese Nabucodonosor II nel 586 a.C e poi del Secondo Tempio da parte di Tito nel 70 d.C.
Una data ghiotta, al contrario, per il regime iraniano che da oltre una settimana ha promesso fuoco e fiamme contro Israele salvo però “dimenticarsi” di attaccare. «L’attacco arriverà quando arriverà» è la linea dietro alla quale si trincera oggi la Repubblica islamica.
L’Iran è diviso fra la voglia di dare una lezione all’entità sionista che ha ardito uccidere il capo di Hamas Ismail Haniyeh mentre visitava Teheran e il timore di subire una forte reazione che mini l’economia del Paese. Il regime degli ayatollah è grandemente impopolare fra gli iraniani e non è questo il momento di rischiare uno scossone.
Gerusalemme, da parte sua, continua a lavorare su due assi. Il primo, preparando la difesa in caso di un massiccio attacco dell’Iran (o di uno dei suoi alleati. E intanto gli Usa comunicano che il sottomarino USS Georgia, capacità di 154 missili da crociera Tomahawk, ha appena partecipato nel Mediterraneo ad esercitazioni congiunte, anche con la Marina italiana): Israele organizza il fronte esterno con gli Usa e i paesi arabi moderati mentre prepara la popolazione su quello interno. Il secondo, continuando a martellare Hamas nella Striscia Gaza. Ieri il portavoce in lingua araba delle Idf, Avichay Adraee, ha ordinato ai civili in diverse zone dell’area di Khan Younis di evacuare nella zona umanitaria designata da Israele nelle prime ore di domenica mattina, dopo che sabato erano stati lanciati quattro razzi sulla comunità di confine israeliana di Kissufim. In seguito le Idf hanno attaccato sia il sito di lancio di Khan Younis sia un edificio utilizzato dall’unità missilistica di Hamas. Il giorno prima un membro anziano delle forze di sicurezza di Hamas, Walid Alsousi, era stato ucciso in un attacco aereo nella Striscia di Gaza. Il governo di Benjamin Netanyahu esercitando una pressione costante sul gruppo del terrore allo scopo di metterlo spalle al muro.
Di fatto ieri i mediatori egiziani e del Qatar avrebbero riferito ai funzionari israeliani che il nuovo leader di Hamas Yahya Sinwar, la mente dietro al pogrom del 7 ottobre del 2023 in cui quasi 1.200 israeliani sono stati uccisi da Hamas, sarebbe disponibile a un accordo per il cessate il fuoco a Gaza.
L’intesa passerebbe dalla liberazione degli ostaggi ancora in vita - sono 115 quelli ancora trattenuti a Gaza. Dalla Germania ieri anche il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha chiesto a Netanyahu durante un colloquio telefonico di trovare un’intesa con Hamas.
Nuovi problemi per il governo israeliano arrivano intanto dalla Cisgiordania. Domenica un civile israeliano di 20 anni è stato ucciso mentre un 33enne è stato ferito. I due uomini viaggiavano in due diverse auto lungo la Strada 90, l’asse nord-sud che attraversa la regione. Contro le loro auto ignoti hanno esploso alcuni colpi di arma da fuoco. Le forze di sicurezza hanno dato il via a una caccia all’uomo nell’area.
Sempre ieri il presidente israeliano Isaac Herzog ha telefonato a un padre arabo-israeliano la cui figlia assieme ad altri tre donne e una bambina è stata aggredita da alcuni coloni in Cisgiordania quando la loro auto è entrata per errore nell’insediamento illegale di Givat Ronen. La bambina è stata minacciata con un’arma da fuoco. Herzog si detto «inorridito» nell’apprendere dell’attacco. «Siamo tutti fratelli e sorelle, cittadini dello Stato di Israele e tutti meritiamo un trattamento uguale e adeguato, senza paura e senza violenza», ha affermato il capo dello stato.
A oggi i soldati morti sarebbero 150.000, poco meno i feriti. Il presidente ha sempre mostrato una certa opacità nel diffondere i dati sui caduti, irritando Washington. Se a questi si sommano i giovani fuggiti, il Paese rischia di perdere le classi nate intorno al 2000.
di Simone Di Meo
La prima vittima di una guerra è la verità. Tutto è avvolto dalla nebbia lattiginosa dei segreti militari e dalle detonazioni della propaganda. Il marketing bellico uccide più del tritolo.
E così succede che oggi, anno del Signore 2024, sappiamo con precisione quanti furono i morti (40.000) della battaglia di Canne del 2 agosto 216 a.e., tra gli eserciti di Roma e di Cartagine, ma non quelli dell'esercito di Kiev, impegnato da oltre due anni e mezzo in uno scontro sanguinosissimo con la Russia. Nell'era della comunicazione globale e dei social che accendono e spengono le rivoluzioni bisogna affidarsi a stime tagliate con l'accetta per tentare di capire. Gli stessi Stati Uniti pare si siano lamentati con l'alleato per la scarsità di informazioni sull'andamento del conflitto. Volodymyr Zelensky non vuole offrire nessuna informazione al nemico. Del quale, però, gli analisti occidentali son riusciti a ricostruire tutto o quasi, nonostante gli eredi del Kgb non brillino certo per trasparenza. Perché sui numeri di Kiev c'è questo imbarazzo a indagare?
Quel poco che sappiamo è frutto di ricerche e analisi di enti indipendenti e solo a fatica riesce ad arrivare sui media occidentali. Qualche mese fa, il presidente ucraino ha annunciato che sono stati trucidati 31.000 connazionali durante i combattimenti. Da Washington han fatto filtrare un'altra stima, invece: i soldati ucraini ammazzati sarebbero almeno 70.000. Secondo alcuni studi geopolitici americani la cifra sarebbe, invece, più del doppio: 150.000. I feriti ucraini sarebbero circa 120.000.
Il dato rilevante, però, è in filigrana: se pure le vittime di Kiev fossero solo quelle rìferite da Zelensky, ci troveremmo di fronte a una catastrofe assoluta in termini militari considerato che, in appena 30 mesi, l'Ucraina avrebbe totalizzato all'incirca la metà delle vittime patite dagli Usa nei vent'anni di guerra in Vietnam (58.000) e in Afghanistan (69.000). Di questo, tuttavia, nessuno sembra preoccuparsi sul fronte orientale. Tranne i diretti interessati, chiaramente. Che, non a caso, si stanno organizzando per evitare la naja a tutti i costi. Chi può scappa (ma su questo torneremo più avanti), tanti altri si nascondono: in cantina, sulle montagne, semplicemente chiudendosi in casa.
Da quattro mesi sono aumentati i reclutamenti forzati. Il Parlamento ha approvato una legge che restringe le maglie delle esenzioni mediche e di altro tipo mentre un'altra norma, assai contestata in patria, ha abbassato l'età della leva da 27 a 25 anni. Qualche deputato aveva addirittura proposto di farla precipitare a 22 anni ma e stato prontamente sconfessato da Zelensky che non può permettersi una rivolta civile.
Si calcola che i maschi ucraini della fascia di età 25- 26 anni potranno arrivare a rinforzare le truppe con 470.000 nuove unità per portare il potenziale complessivo dell'esercito a circa 1 milione di soldati (rispetto al 1.400.000 dei russi che ingaggiano alla velocità stellare di 30.000 militari al mese). Eppure, ancora troppo poco per i rapporti di forza in campo: in alcune aree, Mosca soverchia i rivali di 7 uomini a 1. Una proporzione che non deve stupire considerando che la fascia d'età 15-64 anni in Russia (l'unica rilevabile dall'ultimo censimento disponibile) è il triplo di quella rivale.
Dunque, non sappiamo quanti ucraini hanno perso la vita ma di sicuro sono troppi. Altrimenti Bohdan Krotevych, il capo di Stato maggiore della brigata Azov, non avrebbe accusato il generale Yu.rii Sodol, comandante supremo delle Forze armate, di «uccidere più soldati ucraini di qualsiasi generale russo», mandati al massacro contro i cannoni ex sovietici, favorendone così la destituzione ad opera di uno Zelensky inferocito per la cattiva pubblicità arrecatagli.
L'unica certezza è che una intera generazione (quella nata a ridosso del nuovo millennio) rischia di scomparire in Ucraina e, con essa, le speranze di ripopolare un Paese che ha già sofferto, dopo la disgregazione dell'Unione sovietica, un esodo almeno pari a quello registrato in questi mesi di combattimenti. Dal 2022 sono scappati circa 6 milioni di persone (per lo più bambini, donne e anziani: la coscrizione obbligatoria arriva fino a sessant'anni, infatti) per rifugiarsi in Europa. Altri 3,7 milioni si sono spostati verso le zone occidentali della nazione per raggiungere più velocemente la Polonia nel caso di un'escalation che coinvolgesse pure la Bielorussia di Alexander Lukashenko. Le difficoltà di reclutamento di Kiev emergono, inoltre, dalla scelta, assai sofferta, di concedere la libertà condizionale a circa 20.000 detenuti in cambio del loro impiego sul campo di battaglia.
E poi ci sono gli arruolamenti coatti: nelle strade, nei cinema, nelle palestre, alle uscite di metropolitane e stazioni ferroviarie si aggirano gli ufficiali dell'esercito che consegnano gli avvisi di leva a quanti, fino a quel momento, sono riusciti con qualche stratagemma a evitare di vestire la mimetica. Nessuno ha voglia di andare a morire con un fucile in mano in Ucraina. Su Telegram sono stati aperti canali specifici per monitorare gli spostamenti delle pattuglie dei militari come Uzhhorod Radar o Kyiv Weather. Quest'ultimo (200.000 iscritti) usa i colori dei semafori per passare notizie riservate contrabbandate da informazioni meteo: rosso se c'è pioggia (i rastrellamenti sono attivi), giallo se è nuvoloso (bisogna fare attenzione a muoversi) oppure verde se il cielo è sereno (via libera). Chi non riesce a vincere la paura semplicemente non esce più di casa. O si muove soltanto alle prime luci dell'alba.
Tanti renitenti si allontanano provando ad attraversare a nuoto il Tysa, il corso d'acqua che separa l'Ucraina dalla Romania. Secondo le autorità, sarebbero almeno 6.000 gli uomini in fuga (ma la stima più verosimile è che siano almeno tre volte tanto) lungo quella dorsale. Diverse centinaia di corpi sono state ritrovate sulle rive di quello che è stato ribattezzato il «fiume della morte» e da qualche mese sono comparsi corpi di guardia per evitare defezioni di massa. Altri renitenti acquistano per cifre che vanno dai 2.000 ai 10.000 dollari a testa dei visti fasulli (fabbricati dai russi, peraltro) che gli consentano di oltrepassare il confine. A occuparsi del business sono 56 bande di ex contrabbandieri di sigarette.
E Mosca? I russi morti in guerra oscillano in una forbice tra le 350.000 e le 500.000 vittime (secondo il segretario alla Difesa Usa, Lloyd J. Austin III) fino a un picco di 728.000 (stima del giornale Economist). Secondo il settimanale inglese, circa il 2% della popolazione russa maschile, tra i 20 e i 50 anni, potrebbe essere finita sotto terra o rimasta gravemente ferita.
Nessuno, però, conferma né smentisce dal Cremlino. Pure la matematica in guerra è un'arma non convenzionale.
Naaman, capo dell'esercito del re di Siria, era un uomo tenuto in grande stima e onore presso il suo signore, perché per mezzo di lui l'Eterno aveva reso vittoriosa la Siria; ma quest'uomo forte e valoroso era lebbroso.
Alcune bande di Siri, in una delle loro incursioni, avevano portato prigioniera dal paese d'Israele una piccola fanciulla, che era passata al servizio della moglie di Naaman.
Lei disse alla sua padrona: “Oh, se il mio signore potesse presentarsi al profeta che è a Samaria! Lui lo libererebbe dalla sua lebbra!”.
Naaman andò dal suo signore, e gli riferì la cosa, dicendo: “Quella fanciulla del paese d'Israele ha detto così e così”.
Il re di Siria gli disse: “Ebbene, va'; io manderò una lettera al re d'Israele”. Egli dunque partì, prese con sé dieci talenti d'argento, seimila sicli d'oro e dieci cambi di vestiti.
E portò al re d'Israele la lettera, che diceva: “Quando questa lettera ti sarà giunta, saprai che ti mando Naaman mio servo, perché tu lo guarisca dalla sua lebbra”.
Quando il re d'Israele lesse la lettera, si stracciò le vesti, e disse: “Sono io forse Dio, con il potere di fare morire e vivere, che costui manda da me un uomo perché io lo guarisca dalla sua lebbra? È cosa certa ed evidente che egli cerca pretesti contro di me”.
Quando Eliseo, l'uomo di Dio, ebbe udito che il re si era stracciato le vesti, gli mandò a dire: “Perché ti sei stracciato le vesti? Costui venga pure da me e vedrà che c'è un profeta in Israele”.
Naaman dunque arrivò con i suoi cavalli e i suoi carri, e si fermò alla porta della casa di Eliseo.
Eliseo gli inviò un messaggero a dirgli: “Va', làvati sette volte nel Giordano; la tua carne tornerà sana, e tu sarai puro”.
Ma Naaman si adirò e se ne andò, dicendo: “Ecco, io pensavo: Egli uscirà senza dubbio incontro a me, si fermerà là, invocherà il nome dell'Eterno, del suo Dio, agiterà la mano sulla parte malata, e guarirà il lebbroso.
I fiumi di Damasco, l'Abana e il Parpar, non sono forse migliori di tutte le acque d'Israele? Non posso lavarmi in quelli ed essere purificato?”. E, voltandosi, se ne andava infuriato.
Ma i suoi servi gli si avvicinarono per parlargli, e gli dissero: “Padre mio, se il profeta ti avesse ordinato una cosa difficile, tu non l'avresti fatta? Quanto più ora che ti ha detto: 'Làvati, e sarai purificato'?”.
Allora egli scese e si tuffò sette volte nel Giordano, secondo la parola dell'uomo di Dio; e la sua carne tornò come la carne di un bambino piccolo, e rimase puro.
Poi tornò con tutto il suo seguito dall'uomo di Dio, andò a presentarsi davanti a lui, e disse: “Ecco, io adesso riconosco che non c'è alcun Dio in tutta la terra, tranne che in Israele. E ora, ti prego, accetta un regalo dal tuo servo”.
Ma Eliseo rispose: “Com'è vero che vive l'Eterno di cui sono servo, io non accetterò nulla”. Naaman insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò.
Allora Naaman disse: “Poiché non vuoi, permetti almeno che sia data al tuo servo tanta terra quanta ne portano due muli; perché il tuo servo non offrirà più olocausti e sacrifici ad altri dèi, ma soltanto all'Eterno.
Tuttavia, voglia l'Eterno perdonare questa cosa al tuo servo: quando il mio signore entra nella casa di Rimmon per adorare, e si appoggia al mio braccio, anch'io mi prostro nel tempio di Rimmon, voglia l'Eterno perdonare me, tuo servo, quando io mi prostrerò così nel tempio di Rimmon!”.
«Ha ucciso mio figlio. Ho fatto nascere il nipote di Haniyeh»
TEL AVIV - Galit ha perso il figlio nel massacro del 7 ottobre. Il suo lavoro da ostetrica all'ospedale Soroka di Beer Sheva l'aiuta a non pensare mentre fa venire al mondo nuove vite. Ma il destino perverso, pochi mesi dopo l'assassinio di Itay, l'ha messa davanti a una prova feroce: tra le partorienti che stava assistendo c'era una giovane beduina, con il cognome del boia, Haniyeh. Il capo politico di Hamas, dei terroristi che quel sabato nero hanno fatto fuoco contro il suo ragazzo valoroso.
"Un giorno di marzo, su un letto del reparto tra le donne pronte a entrare in sala parto c'era lei, una donna con il nome di Ismail Haniyeh, era la nipote, l'ho riconosciuta", ha raccontato Galit parlando per la prima volta alla tv pubblica israeliana Kan. Tentando di descrivere la tempesta di sentimenti che in un attimo si sono abbattuti sul suo animo in lutto: rifiuto, conflitto interiore, incapacità di reagire, il respiro che manca, la razionalità che vuole cedere alle emozioni, la ragione che preme, l'imperativo di fuggire. "La mia prima reazione è stata quella di scappare fuori, riprendere fiato. Mi sono chiesta come avrei potuto aiutare la nipote di chi ha ucciso mio figlio. È stato uno schiaffo del destino e della realtà con cui devo fare i conti ogni giorno", ha ricordato Galit. Un momento agghiacciante da affrontare, come se non fosse bastato quello che già aveva vissuto a ottobre. "Dentro di me, dopo i primi momenti di shock, ho sentito il bisogno di dimostrare a me stessa che potevo continuare a fare il mio lavoro, continuare nella mia missione. Proprio al Soroka di Beer Sheva, un ospedale che è un modello di convivenza tra arabi e israeliani". Nonostante il dolore, Galit ha deciso di assistere la donna a partorire: "Suo zio ha ucciso mio figlio, non ero costretta a far nascere il suo bambino, poteva aiutarla un'altra ostetrica al posto mio. Ma ho deciso di andare avanti, di procedere con professionalità e distacco, l'ho assistita a dare alla luce suo figlio", ha detto, certa di aver fatto la cosa giusta, "ora spero tanto che questa donna ricordi il trattamento che ha ricevuto e lo trasmetta ai suoi figli".
Galit poi ha voluto ricordare quella mattina del 7 ottobre.
Era di turno in ospedale quando la prima sirena ha incominciato a suonare. "Stavo accudendo un neonato palestinese. Nel reparto erano ricoverate solo due pazienti, entrambe palestinesi, una di Betlemme e l'altra di Nablus", ha detto richiamando alla mente i ricordi, "avevamo instaurato un bel rapporto. Dentro di me pensavo, speravo, che insieme tra donne avremmo potuto salvare il mondo". Alle sette del mattino è arrivata la telefonata dal marito che la esortava a non uscire da Beer Sheva, "fuori c'era il caos. Sparano ovunque per strada". In quel momento il figlio più giovane, Itay, si era unito alla squadra di emergenza del Moshav Niftachim, nella zona di Eshkol, nel nord ovest del Negev, per aiutare i residenti del villaggio vicino assediato dai terroristi. Poco dopo le sette un'altra telefonata del marito Oded: "'Itay è stato ucciso'. Ho fatto una corsa in macchina per vederlo per l'ultima volta", ha proseguito Galit.
"Ancora oggi, ogni mattina e sera vedo quell'immagine, non potrò mai dimenticare". Oded è rimasto per cinque ore abbracciato al suo corpo per paura che i terroristi lo rapissero da morto. Dopo un'attesa infinita i soccorritori sono arrivati, hanno salvato il cadavere di Itay dai tunnel di Gaza.
Dopo alcuni mesi, Galit è tornata al lavoro. Per settimane aveva rifiutato l'idea di "portare il lutto nella sala parto, dove invece ci deve essere gioia e vita". Oggi non si sente più ottimista come prima del 7 ottobre, e riconosce che ci vorrà tempo per affrontare le ferite. Soprattutto dovrà finire la guerra. L'ospedale Soroka, dove vanno a partorire le donne palestinesi sarà il posto giusto per ricominciare a credere in un futuro migliore.
Dopo l’uccisione di Fuad Shukur a Beirut e Ismail Hanyieh a Teheran, Israele sembrava avere acquisito un vantaggio considerevole.
Dopo mesi di incertezza e confusione sulle sorti della guerra a Gaza, e a seguito del discorso al Congresso di Netanyahu tenuto il 24 luglio e sostanzialmente centrato sul pericolo dell’Iran, nemico comune di Israele e degli Stati Uniti, la situazione appariva entrata in una nuova fase, quella caratterizzata da una maggiore determinazione israeliana ad affrontare spavaldamente i propri nemici, giungendo a dare, particolarmente all’Iran, un segnale molto chiaro sul grado della propria capacità di colpire all’interno del paese obiettivi di alto profilo, esibendo al mondo le falle del suo sistema di sicurezza e il suo livello di penetrazione.
I due colpi assestati da Israele hanno generato l’immediata reazione minacciosa di Hezbollah e di Teheran, in sintesi dell’Iran, con minacce congiunte di attacchi su Israele e la prevedibile risposta che nell’eventualità di questi attacchi Israele avrebbe risposto con forza.
Questo scenario sembra, (nuovamente è necessario ricorrere al condizionale), appartenere già al passato, perché subito, la Casa Bianca è intervenuta per scongiurare l’eventualità di una escalation, consigliando all’Iran di soprassedere nel proprio interesse e in quello americano, ovvero a scapito di quello di Israele. Si è quindi provveduto a dare una accelerata ai moribondi accordi con Hamas che l’Amministrazione Biden vuole concludere da maggio imponendoli a Israele; accordi che prevedono che gli ostaggi rimanenti vengano liberati e che Hamas resti nella Striscia, perché è punto fermo di questa Amministrazione che Hamas non possa essere sconfitto. Per poterlo fare, Israele dovrebbe restare altri lunghi mesi a Gaza, probabilmente, volendola bonificare, anni e questa è una eventualità che né a Washington né a Teheran considerano accettabile.
Ecco dunque riapparire la figura del pluriomicida Marwan Barghouti, star del terrorismo palestinese, che Hamas chiede venga liberato, un Sinwar all’ennesima potenza, anche lui liberato dopo ventidue anni di carcere nel 2011, per riavere indietro il soldato Gilad Shalit.
L’ex leader di Fatah sarebbe la figura scelta dall’Amministrazione Biden come plenipotenziario dell’Autorità Palestinese all’interno della Striscia. Non è certo un mistero che essa voglia che Gaza sia amministrata da quest’ultima, magari in concorso con Hamas e nonostante l’esplicita indisponibilità di Netanyahu.
Questo è l’allestimento in corso.
L'approccio timido dell'Italia nei confronti di Hamas e dei Fratelli Musulmani alimenta la violenza antisemita
L'aumento dell'antisemitismo in Italia è stato più evidente dopo il 7 ottobre, con una pletora di predicatori pro-Hamas che hanno fatto sentire la loro voce e solo una parte è stata punita per la loro odiosa narrazione.
Stiamo assistendo a una normalizzazione della narrativa d'odio contro gli ebrei in tutta Italia, spesso mascherata da "antisemitismo". I predicatori d'odio pro-Hamas attaccano frequentemente gli ebrei e Israele sui social media italiani e nei comizi pubblici. Non è una novità. Tuttavia, nel maggio 2021, durante un discorso di strada nella piazza principale di Bologna, chiamata Piazza Maggiore, il predicatore pakistano Zulfiqar Khan ha affermato che:"... gli ebrei sono crudeli e usano l'intelligenza per danneggiare gli altri".
• Impennata di incidenti antisemiti dopo il 7 ottobre Poi, più recentemente, nel novembre 2023, durante la trasmissione televisiva mainstream italiana "Dritto e Rovescio", Khan, lo stesso predicatore pakistano Khan, ha dichiarato: "Gli israeliti sono i terroristi e gli ingannatori secondo la Bibbia", ha postato sulla pagina Facebook del Centro islamico due video simili a fatwa in cui ha attaccato verbalmente l'italo-egiziano Allam, accusandolo di aver diffamato l'Islam, di apostasia e di aver parlato a una conferenza pro-Israele.
• Ministri italiani reticenti a condannare Vale la pena notare che il 9 luglio 2024, in occasione di una risposta a un'interrogazione parlamentare sull'attività di Khan, il ministro dell'Interno italiano, Matteo Piantedosi, ha definito le posizioni del predicatore "intransigenti". Ma il Ministro Piantedosi deve capire che le posizioni di Khan non sono "intransigenti", bensì odiose ed estremamente pericolose.
• Mancanza di azione sui finanziamenti al terrorismo Il 10 ottobre, a soli tre giorni dall'inizio della guerra, un attivista palestinese, Mohammed Hannoun, ha dichiarato che l'attacco a Israele perpetrato da Hamas era "autodifesa". Il 19 luglio, durante un sermone tenuto come imam di una moschea di Genova, in Italia, ha accusato Israele di distruggere ospedali, scuole e moschee a Gaza. Nel luglio 2023, il Ministero della Difesa israeliano ha chiesto alla polizia italiana di sequestrare il denaro di Hannoun. Nonostante il congelamento dei conti, nel giugno 2024 Hannoun ha aperto una nuova associazione benefica denominata "Cupola d'oro" e ha ricominciato a raccogliere fondi.
• Sostegno politico italiano di noti attivisti Hannoun ha ricevuto anche il sostegno di figure politiche italiane di sinistra come Laura Boldrini, Nicola Fratoianni, Michele Piras, Alessandro Di Battista e Stefania Ascari, come indicato in diverse occasioni dalla stampa italiana, ma tutta questa situazione non sembra essere esclusivamente politica. Hannoun ha un sostegno alternativo in Italia sotto forma di attivisti religiosi. Il 27 gennaio 2024, Giorno della Memoria, una manifestazione non autorizzata a favore dei palestinesi, guidata da Hannoun e da altri noti attivisti palestinesi, si è tenuta in via Padova a Milano, una strada piena di musulmani.
• Numerose organizzazioni terroristiche sono attive in Italia Presi singolarmente, questi casi potrebbero non sembrare troppo significativi, ma una volta collegati, sorgono molte domande. L'impressione è che le cose vengano trattate in modo diverso rispetto ai casi riguardanti l'ISIS o Al-Qaeda perché è in gioco la causa palestinese. È importante ricordare che l'Italia è stata anche molto aperta e tollerante nei confronti dei Fratelli Musulmani (MB), presenti e attivi sul territorio italiano.
• Mancano interventi Purtroppo, finora, a differenza di quanto accaduto negli anni con l'ISIS, si sono visti pochissimi interventi contro i sostenitori di Hamas. L'unico caso noto è l'espulsione del cittadino algerino Amor Branes, 56 anni, avvenuta nell'aprile del 2024, per aver condiviso sui social media contenuti pro-Hamas e jihadisti. Va inoltre notato che il membro delle Brigate al-Aqsa (leader della "Rapid Response-Tulkarem Unit"), Yaesh Anan, e due complici, sono stati arrestati in Italia centrale nel gennaio 2024 solo dopo una richiesta di estradizione inoltrata da Israele.Sarebbe quindi opportuno assistere a un maggior numero di arresti ed espulsioni di sostenitori di Hamas, perché la sua ideologia e attività operativa non è meno pericolosa di quella portata avanti dall'ISIS o da al-Qaeda.
• La narrativa antiebraica si è diffusa in Europa Il problema della diffusione della narrativa e dell'attività antiebraica e antiisraeliana da parte di predicatori e attivisti islamisti coinvolge l'intero continente europeo, e non solo l'Italia. Le autorità europee hanno stretto la rete sui gruppi estremisti islamici, con raid di alto profilo, deportazioni, restrizioni finanziarie e un giro di vite sulle loro attività online. Francia e Germania sembrano essere i due Paesi che finora hanno adottato una posizione più dura nei confronti di questo tipo di attività.
• In Francia Ad esempio, nel febbraio 2024, Mahjoub Mahjoubi, un imam della piccola città francese di Bagnols-sur-Ceze, è stato deportato in Tunisia, meno di 12 ore dopo il suo arresto. Nei suoi sermoni, il predicatore incoraggiava la discriminazione delle donne, la radicalizzazione e si riferiva agli ebrei come "il nemico".
• In Germania Le autorità hanno adottato misure severe contro i sostenitori di Hamas e Hezbollah, limitando i cortei pro-palestinesi, mentre alle scuole è stata concessa la facoltà di vietare le bandiere palestinesi e le sciarpe kefiah. In tutto il Paese, l'uso dello slogan filopalestinese "Dal fiume al mare" è un reato penale. Inoltre, recentemente sono state arrestate anche cellule di Hezbollah, mentre il centro islamico sciita di Amburgo è stato chiuso.
(ynet, 10 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Daria Atamanov si esibisce durante la finale del cerchio della Coppa del Mondo di Sofia 2024
La ginnasta israeliana si è assicurata un posto in finale piazzandosi settima nella classifica generale con un punteggio complessivo di 130.450 punti. Si è distinta soprattutto con la sua routine su nastro, eseguita sulla canzone Shir Lamaalot di Gad Elbaz.
Nel corso della sua carriera, Atamanov ha vinto medaglie oro e argento ai Mondiali di ginnastica 2022, e dopo un infortunio che l'ha tenuta fuori dalle competizioni per dieci mesi, nel 2023 ha vinto nuovamente la medaglia di bronzo nella competizione generale.
Dopo la competizione generale, Atamanov ha espresso in dialogo con i media locali che era “davvero commossa, le mie emozioni sono state ovunque tutto il giorno” e ha aggiunto che “ha cercato di dare il massimo in ogni routine. Ora sono concentrata sul domani e spero di fare molto meglio di oggi”.
Finora, Israele ha raggiunto il record assoluto ai Giochi Olimpici di Parigi 2024, con sei medaglie vinte.
(Aurora, 10 agosto 2024)
«Il disgelo verso Assad lo tiene lontano dalla guerra»
Intervista all'analista Lorenzo Trombetta: «Vari paesi arabi ed europei stanno rivedendo le loro posizioni sulla Siria. È un aspetto positivo per Damasco che così si rafforza anche se il paese continua essere diviso».
Nello scontro che può sfociare in una guerra aperta tra Israele, sostenuto da Usa e Occidente, e l’Asse della resistenza guidato dall’Iran, si è notata l’assenza in un ruolo da protagonista della Siria stretta alleata di Teheran e del movimento sciita libanese Hezbollah. Damasco ha condannato l’offensiva israeliana contro Gaza e i massacri di palestinesi e nei giorni scorsi anche le uccisioni del leader di Hamas Ismail Haniyeh e del capo militare di Hezbollah, Fuad Shukr. Ma l’atteggiamento del presidente siriano Bashar Assad è prudente, volto a restare nelle retrovie e non sulla linea del fronte. Ne abbiamo parlato con Lorenzo Trombetta, analista e specialista di Siria e Libano ed autore di libri e studi sul Medio Oriente.
- Come spiega la linea di basso profilo che Damasco ha adottato in una fase così critica dello scontro con Israele?
Per dare una spiegazione dobbiamo tenere presente che ci sono due piani, uno dietro le quinte o comunque sottotraccia, e un altro più in superficie. Quello sottotraccia mi sembra più rilevante: Bashar Assad è impegnato ad accreditarsi non soltanto con i paesi arabi, ma anche con alcuni paesi europei, in particolare il club di Cipro di cui l’Italia è parte. Proprio l’Italia è stata di recente il primo paese del G8 ad aver nominato per la prima volta dal 2011 un ambasciatore a Damasco. Anche se è un incaricato d’affari perché non può presentare le credenziali ad Assad, il mandato è stato elevato rispetto al passato, a partire dal fatto che è residente a Damasco e non a Beirut. Questo denota la tendenza di certi paesi europei a rivedere le relazioni con il governo siriano. Assad cerca di raccogliere i frutti dell’avere atteso tanti anni che i cadaveri dei suoi nemici passassero sul fiume. Questa politica di attesa e di mantenimento di una posizione gli ha consentito, e anche alla Russia (sua alleata, ndr), di osservare dinamiche che si posizionavano nell’idea dello status quo. Certo, non nella situazione precedente al 2011 (quando sono cominciate proteste popolari contro Damasco, ndr) ma comunque all’interno di equilibri che non sono stati scalfiti in maniera determinante. Assad sta riuscendo a rimanere ai vertici del potere anche cercando le sponde esterne, prima con alcuni paesi arabi come l’Arabia saudita o gli Emirati, poi con paesi europei.
Francia, Gran Bretagna e Stati uniti, insieme alla Germania, che pesano nel G8, ancora si oppongono formalmente a ogni tipo di normalizzazione dei rapporti con Damasco. Gli altri grosso modo stanno rivedendo le loro posizioni nei confronti di Damasco. Questo è un aspetto positivo dal punto di vista di Assad, che rafforza la sua posizione, al di là del fatto che la Siria continui a essere divisa, che ci siano zone fuori dal controllo governativo e che le stesse aree sotto controllo sono un mosaico dove imperversano signori della guerra di varia natura. Comunque, Assad sta là. E come lo era per suo padre Hafez, il tempo è dalla sua parte. Più tempo passa e più il pareggio diventa una vittoria.
- Quanto tutto questo si ricollega alla superficie, alla linea cauta scelta dalla Siria nella crisi regionale?
Ciò che avviene sottotraccia spiega l’assenza o quasi della retorica bellicistica che ci si aspettava a sostegno di Hezbollah o dell’Iran. Assad ha bisogno di conservare le proprie risorse ed energie e di non inimicarsi nessuno perché, in questo contesto, alcuni dei suoi interlocutori sono proprio quelli che sostengono Israele o sono contro Hamas e Hezbollah. L’Italia, ad esempio, è esplicitamente filoisraeliana. L’Arabia saudita e gli Emirati sono degli attori che fanno il gioco degli Stati Uniti e in definitiva di Israele. Pertanto Damasco, in questo momento, ritiene che sia meglio non puntare troppo i piedi sulla resistenza se vuole portare a casa i risultati di cui parlavamo prima. Assad preferisce non esporsi con dichiarazioni che non servirebbero a molto. Hezbollah comunque dispone di una certa libertà di movimento nel territorio siriano, a ridosso del Golan. Senza dimenticare che la Russia, che pure sostiene Assad, mantiene un collegamento tattico, militare con Israele e potrebbe aver detto a Damasco di mantenere una linea più accorta.
- Se la stabilità è la parola d’ordine, quanto pesa e quanto è rischiosa per Damasco la mancanza di controllo su tutto il territorio siriano?
Alcune delle aree non controllate dal governo costituiscono un problema perché, prima di tutto, non consentono l’estrazione delle risorse energetiche che garantiscono l’accumulo di capitale a favore del potere centrale. Ma questa assenza di controllo non mette a rischio la stabilità, anche perché attraverso intermediari e poteri locali, le zone sganciate comunque mantengono interazioni economiche, finanziarie e commerciali con Damasco. È una situazione che si è sedimentata. Quanto durerà? Anni, forse dieci, venti o trenta anni, nessuno può dirlo e dire come evolverà.
Israele si prepara ai possibili attacchi di Hezbollah e del regime iraniano
di Luca Spizzichino
Le minacce di ritorsione da parte del regime iraniano e di Hezbollah continuano a intensificarsi in seguito all’uccisione di Ismail Haniyeh e Fuad Shukr. In particolare, Hezbollah ha dichiarato l’intenzione di attaccare Israele, anche nel caso in cui l’Iran decidesse di accogliere le richieste degli Stati Uniti. Secondo il Wall Street Journal, Washington avrebbe inviato un messaggio diretto al presidente iraniano Masoud Pezeshkian, entrato in carica il 28 luglio, avvertendolo che il suo governo e l’economia iraniana potrebbero subire conseguenze devastanti se Teheran optasse per un attacco su vasta scala contro Israele.
Le opzioni sul tavolo per colpire il regime degli ayatollah spaziano da azioni mirate contro le forze proxy nella regione, fino a bombardamenti diretti contro gli impianti nucleari di Teheran. Avi Melamed, ex funzionario dell’intelligence israeliana, ha dichiarato in un’intervista al The Jewish Chronicle che la risposta di Israele sarebbe proporzionale all’entità dell’attacco iraniano. “Un attacco significativo da parte dell’Iran verrebbe probabilmente contrastato da una risposta di pari intensità”, ha spiegato Melamed. “Se l’attacco iraniano venisse sventato o intercettato da Israele e dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti, la risposta israeliana potrebbe essere limitata. Tuttavia, se l’attacco iraniano fosse ampio e riuscito, la reazione israeliana porterebbe a una distruzione simile in Iran e nelle aree controllate dai suoi proxy nella regione”.
Anche l’ex direttore generale della CIA, David Petraeus, ha sottolineato che la risposta di Israele dipenderà dalla gravità dell’attacco iraniano. Dopo il primo, e finora unico, attacco diretto dell’Iran contro Israele, l’IDF ha condotto raid aerei contro la città iraniana di Isfahan. Sebbene l’operazione fosse di portata limitata, ha dimostrato la capacità e la determinazione di Israele nel colpire strutture chiave del programma nucleare iraniano. In alternativa, Israele potrebbe prendere di mira un obiettivo militare strategico, come un silo missilistico o una base navale.
Secondo due funzionari statunitensi citati dal Wall Street Journal, Teheran non dispone delle risorse necessarie per condurre una campagna militare significativamente più ampia rispetto all’attacco di aprile contro Israele, durante il quale furono lanciati circa 300 missili e droni, la maggior parte dei quali venne abbattuta dalle difese israeliane e dai loro alleati regionali. Un articolo pubblicato giovedì sul The Guardian suggerisce che Teheran potrebbe optare per azioni mirate contro i responsabili dell’esecuzione di Haniyeh, anziché lanciare un attacco su larga scala contro Israele.
Mentre il Paese continua a prepararsi per un possibile attacco da parte di Hezbollah, il gabinetto di sicurezza israeliano si è riunito giovedì sera. L’incontro si è svolto in una sala di comando sotterranea, dove sono state simulate diverse situazioni di emergenza. Secondo il canale israeliano Channel 12, il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, potrebbe ordinare un attacco nei prossimi giorni.
Secondo Channel 13, Hezbollah starebbe pianificando di colpire un alto funzionario israeliano come rappresaglia per l’uccisione del comandante Fuad Shukr, avvenuta il 30 luglio scorso.
Il quotidiano israeliano Israel Hayom ha sottolineato che un imminente attacco di Hezbollah potrebbe provocare gravi danni, considerata la vicinanza del gruppo terroristico al territorio israeliano. Israele ha già avvertito che qualsiasi danno arrecato a civili, soldati o basi dell’IDF non sarà tollerato e verrà risposto con fermezza. Sia l’Iran che Hezbollah stanno quindi valutando attentamente le loro prossime mosse.
Le esperienze di un sopravvissuto di Kfar Azza che - dopo il massacro di Hamas e durante la guerra che da allora continua - sta lavorando per ricostruire la sua vita. Una storia di coraggio, resilienza e speranza.
di Brigitte B. Nussbächer
GERUSALEMME - È stata una celebrazione della vita quella che si è tenuta a Reutlingen il 27 luglio 2024. Più precisamente, una celebrazione della sopravvivenza.
Perché l'ingegnoso chef, il maestro dei sapori, delle spezie e degli ingredienti, che ci ha viziato con le sue prelibatezze, era uno dei sopravvissuti del Kibbutz Kfar Azza. Uno che si è salvato durante lo Shabbat nero (7.10.23) dopo il brutale attacco di Hamas a Israele.
E che non si è arreso!
Conosciamo Avishay dall'aprile 2024, quando siamo andati a trovarlo nel suo kibbutz distrutto al confine con Gaza e ci ha mostrato le case bruciate e le rovine di Kfar Aza. Compresa la sua casa danneggiata
Nove mesi sono passati da allora. Gli abitanti del villaggio non sono potuti tornare e il kibbutz non può essere ricostruito perché la guerra con Hamas continua e i razzi qui cadono ancora regolarmente.
Avishay vive ora con la sua famiglia a Herzliya. Il talentuoso chef, che ha già servito tre presidenti israeliani (Perez, Rivlin e Herzog), è molto richiesto. Non solo in Israele.
Quest'estate sta visitando degli amici in Germania e sta lavorando al suo sogno di aprire un ristorante tutto suo. Si chiamerà "Two-Three-Two" ("2-3-2"), come la strada che in Israele corre da Ashkelon lungo la Striscia di Gaza fino a Kerem Shalom e al valico di frontiera con l'Egitto. Egli tornava a casa sempre attraverso questa strada. Il 7 ottobre, la strada illuminata dal sole si è trasformata in un viale della morte, con centinaia di persone che giacevano uccise in auto parzialmente bruciate. Ma Avishay vuole riportare in vita il termine "2-3-2" con nuove e diverse connotazioni.
• VIVERE ISRAELE - IN GERMANIA Con l'aiuto di amici israeliani impegnati, si sta organizzando una serata all'insegna del motto "Vivi Israele con tutti i tuoi sensi".
Hannelore e Kerstin di Reutlingen non hanno risparmiato sforzi per creare un ambiente meraviglioso per le arti culinarie di questo chef gourmet - e gli ospiti si godono tutti i dettagli amorevoli e, naturalmente, i piatti meravigliosamente deliziosi, che hanno un sapore così diverso dalla cucina tedesca. Avishay diventa così un rappresentante del suo Paese e ogni piatto trasmette un messaggio di freschezza, varietà e unicità.
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VIVERE A KFAR AZZA Ma ha anche un altro messaggio: racconta le sue esperienze nel kibbutz prima e durante il massacro di Hamas. Delly (della CSI), che è un forte sostenitore di Israele, in particolare delle vittime del terrore, conosce Avishay da oltre 12 anni, lo ha invitato in Germania e ha preparato un’accurata traduzione in modo che nemmeno una virgola del suo messaggio vada persa.
Inizia con la storia dei suoi antenati. La sua famiglia materna ha vissuto in Israele per 12 generazioni, molto prima della fondazione dello Stato nel 1948; quella di suo padre per 3 generazioni. Tutti hanno contribuito alla costruzione di Israele. Lui stesso ha sempre vissuto a Kfar Azza fin dalla nascita, si è sposato e ha vissuto con sua moglie Shani e i suoi due figli piccoli in una bella casa alla periferia del villaggio.
Parla degli anni precedenti al 2005, prima che Israele si ritirasse completamente dalla Striscia di Gaza nella speranza di portare la pace nella regione. Parla dei villaggi israeliani nella Striscia di Gaza che erano conosciuti come Gush Katif e di come lui e la sua famiglia si recavano sulle bellissime spiagge di Gaza per nuotare e mangiare.
Avishay descrive la coesistenza con gli arabi, come gli abitanti del kibbutz aiutavano i palestinesi senza rendersi conto che a volte sostenevano indirettamente Hamas. E del 2005, quando Israele ha evacuato con la forza i propri connazionali dalla Striscia di Gaza. Questo avvenne senza che i palestinesi dessero nulla in cambio, come sacrificio di Israele per la pace nella regione.
Ma le cose sono andate molto diversamente da quanto sperato! Hamas è diventato il potere dominante e la coesistenza è cambiata. Gli attacchi dalla Striscia di Gaza aumentarono. Sempre di più, sempre più razzi. La casa dei suoi genitori e quella di sua sorella furono colpite, anche prima del 2024.
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IL 7 OTTOBRE Poi la mattina del 7 ottobre. Le sirene hanno suonato per ore come mai prima. Quando finalmente si calmò e osò uscire dal rifugio, sentì gli spari dei terroristi e capì che stava accadendo qualcosa di terribile. Non avendo armi, ha preso il coltello più grande dalla cucina e ha barricato se stesso e la sua famiglia come meglio poteva nel rifugio.
Poi sono cominciati ad arrivare i messaggi via WhatsApp, uno dopo l'altro. Messaggi disperati, richieste di aiuto, senza sosta, per ore e ore. Famiglie le cui case erano state invase dai terroristi o incendiate. Persone che hanno dovuto assistere all'uccisione dei loro cari davanti ai loro occhi e al rapimento di altri. Persone inermi e indifese di fronte a questa orgia di violenza e brutalità.
Ha cercato di contattare i suoi genitori, che vivevano nello stesso villaggio, ma gli hanno scritto che non potevano parlare perché altrimenti i terroristi che erano in casa li avrebbero sentiti. Cercò di chiamare sua sorella a Beeri, ma non riuscì a raggiungerla. Passarono ore interminabili e terribili: sempre più messaggi e poi, a volte, un improvviso e terribile silenzio. Voleva aiutare i suoi amici, ma sua moglie lo pregava di restare con lei e i bambini. Entrambi si rendevano conto che se i terroristi fossero venuti a casa loro, non avrebbero avuto alcuna possibilità. Decisero che in questo caso lui avrebbe lottato con il coltello per darle la possibilità di togliersi la vita e quella dei bambini. Dopo tutto, da quello che avevano sentito dagli altri, preferivano morire piuttosto che essere rapiti. Il figlio piccolo aveva solo 3 mesi all'epoca.
Quella notte furono finalmente salvati dall'IDF: da soldati che arrivarono dopo 23 ore di inferno e che si aspettavano di trovare solo cadaveri. Invece hanno evacuato una donna con un bambino di tre mesi in braccio e un bambino di otto anni che stringeva il suo orsacchiotto. Era buio, quindi non si riusciva a vedere bene tutto quello che c'era sulla strada verso il veicolo che li ha portati via. Negev, il figlio maggiore di Avishay, era stupito che così tante persone si fossero "sdraiate a dormire" durante il tragitto... Avishay è ancora oggi contento che suo figlio non abbia capito che si trattava di cadaveri. Furono la prima famiglia a essere salvata da Kfar Azza. La battaglia per liberare il kibbutz dai terroristi durò in tutto 78 ore.
Da quel giorno, Avishay ha lavorato per ricostruire la sua vita: pezzo per pezzo. Questo lavoro costruttivo lo aiuta a far passare in secondo piano i terribili ricordi.
Ha avuto molto tempo per pensare. E oggi dice: si poteva prevedere. Ma la gente in Israele era troppo sicura di sé e troppo credulona. Ora è tutto finito. Combatteranno finché non riporteranno a casa tutti gli ostaggi", dice, indicando la maglietta che indossa e che molti in Israele indossano: "Riportateli a casa". E continueranno a combattere finché Hamas non sarà sconfitto. Perché Hamas rappresenta il male per eccellenza.
Hanno creduto nella pace per tutti questi anni. E non odiano tutti i musulmani. Ma il male deve essere messo al suo posto, altrimenti continuerà a diffondersi. Questa è la missione attuale di Israele.
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PENSATE IN MODO AUTONOMO! Poi si rivolge a noi, ospiti della tranquilla Reutlingen, e dice: "Voi tedeschi siete un popolo meraviglioso. Qui tutto funziona perché ognuno fa quello che gli viene detto". Ma avverte anche: "Imparate a pensare con la vostra testa, a giudicare le cose da soli, a non lasciarvi trascinare dal mainstream. Iniziate a riflettere in modo critico e chiedetevi perché gli ebrei in Germania oggi hanno di nuovo paura di dichiarare il loro essere ebrei per strada. La storia si ripete - e voi avete giurato: mai più!
Avete accolto milioni di musulmani. Non dico che non sia una buona cosa, ma assicuratevi che non vi superino. Fate capire loro che sono i benvenuti, ma che ci si aspetta che si adattino. Difendete i vostri valori e la vostra identità. Perché in un futuro non troppo lontano saranno molti di più e, se non state attenti, imporranno i loro valori e la loro cultura al vostro Paese. Nel bel mezzo di una democrazia e grazie alle maggioranze democratiche, avranno una voce molto forte".
Sono parole che risuonano e fanno riflettere...
Poi arriva alla fine: sarà un finale con brio, proprio come il suo dessert, che prepara davanti al suo pubblico stupito. Una combinazione di originalità e ingegno, presentata con un sorriso all'angolo della bocca e gli occhi lucidi. Veloce, semplice e delizioso.
• FINALE CON BRIO! [in italiano nel testo, ndt] Questo è il suo messaggio finale: "Il fatto di essere qui davanti a voi oggi, di poter raccontare la mia storia, è la mia vittoria!".
Il 7 ottobre si celebrava Simchat Torah, l'ultima festa ebraica di Sukkot (Tabernacoli) ed era il suo compleanno ebraico. Il fatto che sia sopravvissuto al massacro in questo giorno è come una rinascita per lui. Un nuovo inizio. Se e quando potrà tornare a Kfar Aza è attualmente del tutto incerto. Nella migliore delle ipotesi, tra diversi anni. Ma lui vuole sfruttare al massimo questo tempo e vivere i suoi sogni. Come questa sera! Festeggiare la vita. Festeggiare Israele! La sua sopravvivenza!
Che meraviglioso messaggio di resilienza e speranza.
Saremo lieti di accoglierti presto in Germania, Avishay!
Shalom chaver shelanu - Le hitraot! Addio, amico nostro! A presto!
(Israel Heute, 9 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Tregua Israele-Hamas prima dell'escalation iraniana: cosa può succedere a Gaza
Il nuovo leader Sinwar avrebbe chiesto agli esponenti del gruppo terroristico fuori Gaza di perseguire un cessate il fuoco, prima di un grave scontro tra Tel Aviv e Teheran. Vertice decisivo il 15 agosto. Tutti gli scenari e l'ipotesi della pace in tre tempi dopo 308 giorni di guerra e almeno 40mila morti.
Una tregua con Israele, prima dell'escalation iraniana: è stato il nuovo leader di Hamas, Yahya Sinwar, a chiedere agli esponenti del gruppo terroristico fuori Gaza di perseguire un cessate il fuoco, prima di un grave possibile scontro tra Israele e Iran. E' quel che riferisce la tv israeliana Channel 12. Sinwar, così si sostiene, starebbe subendo forti pressioni da parte dei suoi comandanti militari a Gaza. Avrebbe inoltre informato i leader del gruppo in Qatar che nessuno di loro potrà partecipare ai colloqui sul rilascio degli ostaggi, a parte il suo vice Khalil al-Hayya e l’alto funzionario Ghazi Hamad.
• IL VERTICE DECISIVO A FERRAGOSTO Qatar, Egitto e Stati Uniti affermano che stanno invitando Hamas e Israele a riprendere i colloqui per il cessate il fuoco a Gaza. Certo è che giovedì prossimo, a Ferragosto, una delegazione israeliana si incontrerà con i mediatori di Usa, Qatar ed Egitto per provare a concordare i dettagli. Lo ha confermato nelle scorse ore l'ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. "Seguendo la proposta degli Stati Uniti e dei mediatori, Israele manderà la delegazione negoziatrice il 15 agosto in un luogo da definire per riassumere i dettagli dell'attuazione dell'accordo quadro", si legge in una nota ufficiale.
La nota israeliana è arrivata poco dopo che Stati Uniti, Egitto e Qatar, in qualità di mediatori, avevano chiesto a Israele e Hamas di "riprendere le discussioni giovedì 15 agosto a Doha o al Cairo per colmare tutte le lacune rimanenti e iniziare l'attuazione dell'accordo senza ulteriori ritardi". Nella nota, firmata dal presidente americano Joe Biden, dal suo omologo egiziano, Abdel Fattah al Sisi, e dall'emiro del Qatar, Tamim bin Hamad Al Thani, si evidenzia che "è tempo di fornire sollievo immediato sia alla popolazione sofferente di Gaza che agli ostaggi e alle loro famiglie".
Mancano "solo" i dettagli, che quando c'è di mezzo la questione palestinese non sono evidentemente mai solo dettagli.
• 308 GIORNI DI GUERRA E 40MILA MORTI La guerra a Gaza è scoppiata il 7 ottobre dello scorso anno, 308 giorni fa, dopo un attacco di Hamas contro Israele che ha provocato circa 1.200 morti e 251 rapiti. Dopo più di 10 mesi di escalation, l'offensiva israeliana ha lasciato almeno 40.000 morti nella Striscia di Gaza - la maggior parte dei quali bambini e donne - e più di 90.000 feriti, 10.000 dispersi sotto le macerie e 1,9 milioni di sfollati sopravvissuti in una crisi umanitaria senza precedenti nella storia recente.
Le trattative per una tregua sono arenate da tempo. I paesi mediatori cercano da mesi di raggiungere un cessate il fuoco che consenta l'ingresso massiccio di aiuti umanitari nell'enclave palestinese e il rilascio dei 111 ostaggi che Hamas continua ad avere tra le mani (molti non sarebbero più in vita, impossibile avere numeri certi). L'accordo di cessate il fuoco proposto dai mediatori si basa sui principi delineati dal presidente Biden il 31 maggio 2024 e sostenuti dalla risoluzione 2735 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
In sintesi, il documento prevedeva una prima fase che sarebbe consistita in sei settimane durante le quali ci sarebbe stato un cessate il fuoco completo, le truppe israeliane si sarebbero ritirate da tutte le aree popolate della Striscia e diversi ostaggi sarebbero stati scambiati con palestinesi imprigionati nelle carceri israeliane. In questo periodo, Israele e Hamas dovrebbero negoziare i dettagli della seconda fase, che implicherebbe "la fine definitiva delle ostilità", il rilascio del resto degli ostaggi, compresi i soldati, e il ritiro dell'esercito israeliano dalla Striscia. La terza e ultima fase comprenderebbe un "grande piano di ricostruzione" per l'enclave palestinese e la restituzione dei corpi degli ostaggi assassinati.
• UN SOLO CESSATE IL FUOCO IN 10 MESI Dallo scoppio della guerra è stato raggiunto solo un cessate il fuoco a novembre di una settimana, che ha consentito il rilascio di 105 ostaggi in cambio di 240 prigionieri palestinesi. I negoziati per una nuova tregua sono stati bloccati dalla richiesta di Hamas che il cessate il fuoco fosse definitivo e dall'insistenza del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di riprendere i combattimenti finché il gruppo islamico non sarebbe stato annientato.
Ora la rinnovata speranza affinché le armi tacciano, nel bel mezzo della crisi innescata dall'assassinio dell'ex capo politico di Hamas Ismail Haniyeh in un attacco del 31 luglio a Teheran che le autorità iraniane attribuiscono a Israele. Tra l'ipotesi di un cessate il fuoco in tempi brevi e una possibile guerra regionale, Gaza attende: sono giorni decisivi.
Usa, Qatar ed Egitto chiedono a Israele e Hamas di riprendere i negoziati il 15 agosto
Stati Uniti, Egitto e Qatar hanno invitato Israele e Hamas a riprendere il 15 agosto il negoziato per un cessate il fuoco a Gaza e il rilascio degli ostaggi israeliani in cambio della scarcerazione di prigionieri politici palestinesi.
Il presidente Usa Joe Biden, quello egiziano Abdel Fattah El Sisi e l’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani, in una dichiarazione congiunta diffusa ieri in tarda serata, hanno affermato che i colloqui si svolgeranno a Doha o al Cairo.
“Un accordo quadro è ora sul tavolo e mancano solo i dettagli della sua attuazione”, hanno detto. “Non c’è altro tempo da perdere né scuse da nessuna delle parti per ulteriori ritardi. È tempo di rilasciare gli ostaggi, iniziare il cessate il fuoco e implementare questo accordo”. I tre sono anche offerti di presentare “una proposta di collegamento finale” per risolvere i problemi rimanenti. Il primo ministro Netanyahu ha detto che i negoziatori israeliani saranno presenti. Ma proprio Netanyahu nelle scorse settimane ha presentato nuove richieste per il cessate il fuoco a Gaza che, sostengono anche fonti israeliane, ostacolano un accordo con Hamas. Netanyahu e diversi dei suoi ministri, continuano a parlare di cessate il fuoco temporaneo e non definitivo come vorrebbero i palestinesi dopo 10 mesi di offensiva militare israeliana che ha ucciso almeno 40mila persone, tra cui migliaia di minori, e distrutto gran parte della Striscia.
Un funzionario statunitense ha precisato al giornale Haaretz che per la tregua “il grosso del lavoro è fatto” ma ha avvertito che il 15 agosto non ci sarà la firma dell’accordo e che restano da risolvere alcune questioni rilevanti.
Non c’è stato ancora alcun commento immediato da parte di Hamas che da qualche giorno ha nominato Yahya Sinwar – già suo capo a Gaza e che dall’attacco nel sud di Israele del 7 ottobre scorso vivrebbe nascosto in tunnel sotterranei per sfuggire alla cattura – alla guida di tutta l’organizzazione in sostituzione di Ismail Haniyeh assassinato a Teheran da un missile o una bomba di Israele. È tuttavia opinione diffusa che Hamas accetterà di partecipare ai colloqui, malgrado l’uccisione di Haniyeh.
La situazione umanitaria a Gaza infatti è sempre più critica e Israele continua i suoi attacchi. Ieri i raid aerei, facendo almeno 40 morti e decine di feriti tra i civili, hanno colpito altre due scuole. Secondo l’esercito israeliano in esse si nascondevano combattenti di Hamas. Il movimento islamico smentisce categoricamente l’uso delle scuole per nascondere i suoi combattenti.
I mediatori è che l’annuncio della ripresa dei colloqui per il cessate il fuoco a Gaza, serva anche ad allentare la tensione in Medio oriente. L’Iran e Hezbollah al momento non rinunciano alla risposta contro Israele per vendicare le uccisioni di Ismail Haniyeh e di Fuad Shukr, il capo militare del movimento sciita libanese colpito da Israele a Beirut, poche ore prima dell’assassinio del capo politico di Hamas.
Israele accetta la proposta dei mediatori: “Colloqui per cessate il fuoco a Gaza riprenderanno il 15 agosto”
Ricominceranno il 15 agosto i colloqui per la tregua a Gaza. Israele ha accettato la proposta di Usa, Qatar ed Egitto che in una nota congiunta chiedevano di tornare a Doha o al Cairo per chiudere l’accordo sul cessate il fuoco e sul rilascio degli ostaggi.
I colloqui per il cessate il fuoco a Gaza riprenderanno il 15 agosto. Israele ha accettato la proposta dei mediatori statunitensi, qatarioti ed egiziani che chiedevano in una nota congiunta di tornare a Doha o al Cairo per chiudere l'accordo sulla tregua e sulla liberazione degli ostaggi.
"A seguito della proposta degli Stati Uniti e dei mediatori, Israele invierà il 15 agosto una delegazione di negoziatori nel luogo concordato per concludere i dettagli dell'attuazione di un accordo", ha affermato l'ufficio del Primo Ministro Benjamin Netanyahu in un comunicato.
Nella nota congiunta, firmata dal presidente americano Joe Biden, il suo omologo egiziano Abdel Fattah al Sisi e l'emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani, si evidenzia la necessità di "fornire sollievo immediato sia alla popolazione sofferente di Gaza che agli ostaggi e alle loro famiglie".
• Cosa prevede l'accordo per il cessate il fuoco
I paesi mediatori stanno cercando da mesi di raggiungere una tregua che permetta l'ingresso a Gaza degli aiuti umanitari, così come il rilascio dei 111 ostaggi ancora nelle mani di Hamas. L'accordo proposto dai mediatori si basa sui principi delineati dal presidente Biden e sostenuti dalla risoluzione 2735 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Il documento prevede una prima fase della durata di sei settimane durante le quali ci sarebbe un cessate il fuoco completo, il ritiro delle truppe israeliane da tutte le aree popolate della Striscia e lo scambio di ostaggi con palestinesi imprigionati nelle carceri israeliane.
In questo periodo, Israele e Hamas dovrebbero negoziarei dettagli della seconda fase, che implicherebbe "la fine definitiva delle ostilità", il rilascio del resto degli ostaggi, compresi i soldati, e il ritiro dell'esercito israeliano dalla Striscia. La terza e ultima fase comprende un "grande piano di ricostruzione" per l'enclave palestinese e la restituzione dei corpi degli ostaggi assassinati.
Dopo più di 10 mesi di conflitto, l'offensiva israeliana ha lasciato quasi 40mila morti nella Striscia di Gaza – la maggior parte dei quali bambini e donne -, più di 90mila feriti, 10mila dispersi sotto le macerie e 1,9 milioni di sfollati sopravvissuti.
• Ripresa dei colloqui arriva in un momento di crisi per il Medio Oriente
L'annuncio della ripresa dei colloqui per un cessate il fuoco arriva nel mezzo di un momento di crisi in Medio Oriente, scatenata il 31 luglio dalla morte dell'ex capo politico di Hamas Ismail Haniyeh, ucciso in un raid israeliano a Teheran che le autorità iraniane attribuiscono a Israele. Hamas ha di recente nominato Yahya Sinwar, leader militare di Hamas a Gaza, come successore di Haniyeh.
Dall'inizio della guerra, cominciata a fine novembre, è stato raggiunto solo un cessate il fuoco di una settimana, che ha consentito il rilascio di 105 ostaggi in cambio di 240 prigionieri palestinesi.
I negoziati per una nuova tregua sono stati bloccati dalla richiesta di Hamas di rendere il cessate il fuoco definitivo e dalla volontà del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di proseguire i combattimenti finché il gruppo palestinese non fosse stato "estinto".
• Il capo del Pentagono chiama il ministro della Difesa Gallant: "Difenderemo Israele"
Il capo del Pentagono LLoydAustin ha ribadito al ministro della Difesa israeliana, Yoav Gallant in una telefonata che gli Stati Uniti continueranno i loro sforzi per scoraggiare l'aggressione di Iran e Libano, difendere Israele e proteggere le forze statunitensi in Medio Oriente.
"Ho chiamato oggi il ministro della Difesa israeliano Gallant per informarlo sulla presenza delle forze statunitensi e rafforzare il mio ferreo sostegno alla difesa di Israele. Gli F-22 Raptor statunitensi arrivati oggi nella regione rappresentano uno dei tanti sforzi per scoraggiare l'aggressione, difendere Israele e proteggere le forze statunitensi nella regione. Ho anche sottolineato l'importanza di concludere un accordo di cessate il fuoco a Gaza che rilasci gli ostaggi" ha scritto su X.
“La ritorsione iraniana è vicina”, “Israele pagherà per i suoi crimini”, “Nuove armi pronte contro Israele”. L’uccisione dei Ismail Haniyeh della scorsa settimana scuote i vertici iraniani e quelli dei volenterosi carnefici loro affiliati. Che, una volta ripresisi dal clamore dell’attacco seguito alla strage di Majdal Shams, hanno cominciato subito a spargere minacce sul devastante attacco che starebbero per scatenare su Israele. Il mondo, letto attraverso i titoli dei media, sembra davvero stare con il fiato sospeso, in trepidante attesa dell’attacco alle città israeliane.
Gli indugi apparentemente soddisfano gli iraniani, pronti a farne un altro capitolo per i manualetti sulla guerra psicologica che i loro proxies conoscono bene. Sembra però non soddisfare una certa classe di giornalisti a caccia di indiscrezioni su come gli israeliani vivano i momenti che li separano dall’attacco. Richieste di foto e video sulla preparazione dei mamad, le “safe room” di cui Israele è disseminata, piovono in queste ore sugli italo-israeliani. Si tratta di un capitolo nuovo della spettacolarizzazione dell’informazione deprecabile come la pornografia del dolore, che mostra volti, dolori, intimità e li usa come scorciatoie per ottenere clamore in luogo di altre forme di giornalismo. La corsa alla difesa d’Israele oggi diventa prepotentemente d’interesse per reporter che vogliono descrivere l’atmosfera generale di inquietudine nelle città dello stato ebraico.
La verità è che non c’è nulla di interessante nei rifugi d’Israele. Né nel vivere questa crisi gli israeliani sono diversi da chi ovunque si trovasse a vivere situazioni analoghe. I rifugi pubblici sono scatole di cemento, spesso situate nei sottoscala. In aree aperte sono casette anonime, come quelle rese tristemente famose per aver ospitato il sette ottobre gli scannatoi artigianali dove sono morti tanti giovani.
Quelli casalinghi sono arredati come una stanza normale della casa. Nella mia dormiva mia figlia Emma di 2 anni, in compagnia di un contenitore pieno di cose utili in caso di emergenza, lasciato accanto al fasciatoio e al cestino per i pannolini. Non c’è nulla di eccitante nelle storie di vita che raccontano delle corse ai luoghi sicuri alle quali gli israeliani sono abituati, impiegando la stessa inquietudine proporzionalmente adottata nelle faccende quotidiane.
Perché, anche lì, c’è chi viene colto da attacchi d’ansia persino per un colloquio di lavoro, non dissimilmente da ciò che accade nel resto del mondo. Non occorre quindi intervistare un residente di Sderot o Haifa per rendersi conto che non sia una gran vita, quella di vivere sotto il tiro di ordigni che possono abbattersi su abitazioni, scuole, uffici e reparti maternità. O, similmente disturbare una mamma chiedendogli come si sentirà quando proteggendo gli affetti dovrà farsi strada con in braccio i figli dalle espressioni terrorizzate.
Tutti in Israele sanno che razzi, droni e missili balistici provocano distruzione, dividono famiglie, uccidono, costringono gli anziani a ripararsi sotto tettoie dei bus, cartelloni pubblicitari, gabinetti pubblici, scivoli dei giardini d’infanzia. Che quindi certi sentimenti sono inevitabili.
L’estate non è mai stato un momento dell’anno in cui l’informazione ha proposto pagine di giornalismo memorabili. Ma dobbiamo sconfessare una nuova forma voyeuristica acchiappa-click che scava tra le rughe d’espressione dei cittadini d’Israele per scoprire l’acqua calda: che sì, anche gli israeliani possono essere vittime di confusione e ansia. Che sebbene abbiano sviluppato una certa resilienza che ce li mostra indifferenti giocare a racchettoni in spiaggia noncuranti dello scintillio delle testate iraniane, anche tra loro di tanto in tanto c’è chi cede al panico.
Piuttosto, sarebbe più opportuno che nelle redazioni si lavori per far luce sul perché Israele riceva minacce da Paesi come Iraq, Yemen, Pakistan, che non possono nemmeno inventarsi fantasiose rivendicazioni territoriali come foglia di fico dei loro intenti distruttivi. Che sarebbe più idoneo soffermarsi sulla strage già dimenticata dei bambini drusi che ha innescato questo crescendo militare. O magari sul perché sia “normale” che ad uno stato che siede tra pari alle Nazioni Unite sia concesso di predicare apertamente la distruzione di un altro.
Lo scavare per trovare l’affanno degli israeliani – sostenuto da quell’intimo desiderio di osservare i dolori degli altri – invece alimenta il potere della suggestione che i leader di Hezbollahe di Hamashanno usato a piene mani in questa guerra, con l’obiettivo di minare il morale della popolazione israeliana. Siamo certi che qualcuno sia disposto ad accogliere con soddisfazione le incertezze d’Israele, magari pregustando il momento in cui i morti di Gaza potranno in qualche modo essere bilanciati da qualche lutto israeliano.
Ma la denuncia di quei media che prestano la loro voce alle organizzazioni terroristiche e ai regimi illiberali è d’obbligo. Ancora è in circolo l’immagine caricaturale degli israeliani muscolari e spietati con i palestinesi, tanto da sembrare alieni nella loro freddezza di carnefici. Oggi, aspettandosi la complicità dei media occidentali, gli ayatollah vorrebbero proporci un’altra versione di loro, altrettanto convincente benché opposta: quella degli israeliani in confusione mentre aspettano la loro ritorsione, perché pavidi, effemminati e fiacchi.
Quando vedrai un nuovo articolo su “Come si vive l’attesa nei rifugi d’Israele” sappi dunque che si allontanerà ancora un po’ il momento in cui ebrei e israeliani verranno trattati per quello che sono, non più per la proiezione della propaganda, del senso di colpa e del pregiudizio altrui. Sarà sorprendente scoprirli né più alti, né più bassi, né più intelligenti, né più stupidi. Soprattutto né più eroici, né più codardi, di fronte ad una minaccia concreta, di quanto non lo sia la metà del mondo che ancora ragiona.
L’Iran userà Hezbollah e darà una risposta limitata per evitare la vendetta israeliana
A Gerusalemme sono anni che cercano la scusa giusta per attaccare le centrali nucleari iraniane. Figuriamoci se i Pasdaran vanno a rischiare di perdere tutto a pochi metri dalla meta
Al di là delle parole, l’Iran non ha nessuna intenzione di “vendicare” l’affronto subito con l’eliminazione di Ismail Haniyeh con una azione che provochi una pesante reazione israeliana.
A Teheran i Guardiani della Rivoluzione (IRGC) sanno benissimo che a Gerusalemme sono anni che aspettano la scusa buona per attaccare le centrali nucleari iraniane e, a differenza degli Ayatollah, non sono molto propensi a innescare uno scontro diretto con Israele perché sanno che gli israeliani hanno la tecnologia per arrivare a colpire duramente le centrali.
Magari non le distruggeranno come avverrebbe con le bombe anti-bunker americane, che Washington non fornisce a Israele, ma sono in grado di fermare il programma nucleare iraniano per anni.
La risposta iraniana sarà quindi -a mio avviso – molto blanda, non perché gli americani hanno convinto gli iraniani, ma perché proprio gli iraniani sono convinti che non è nel loro interesse farlo. Poi, per un sunnita come Ismail Haniyeh meno che meno.
Toccherà quindi a Hezbollah vendicare l’onore degli Ayatollah, come sempre del resto, perché nonostante Teheran abbia le mani su ogni conflitto in Medio Oriente, da quello in Siria a quello in Yemen passando per Gaza, non si è mai esposta direttamente.
Secondo la CNN che cita fonti di intelligence, Hezbollah sarebbe pronto a colpire Israele prima e in maniera più massiccia dell’Iran. Evidentemente a Nasrallah non interessa minimamente il fatto che così facendo farà entrare in guerra il Libano che con queste vicende non c’entra niente. Un Libano che ha un suo esercito armato e addestrato dagli Stati Uniti ma evidentemente non in grado di difendere il proprio paese da Hezbollah.
Sicuramente entreranno in azione anche le milizie sciite basate in Iraq e in Siria così come gli Houthi dello Yemen, ma Teheran dovrebbe tenersi fuori dai giochi che contano.
Sarà sufficiente ad evitare agli Ayatollah una seria risposta israeliana? A Teheran pensano di si, probabilmente perché rassicurati dagli americani. Ma Netanyahu ha dimostrato più volte di non stare tanto a sentire i “consigli” americani. Vedremo, le prossime ore saranno decisive.
Yahya Sinwar, il massimo responsabile del 7 ottobre, è il nuovo capo politico di Hamas
di Ugo Volli
• La nomina
Hamas ha annunciato ieri di avere nominato Yahya Sinwar come nuovo presidente del suo politburo, cioè capo politico, in sostituzione di Ismail Haniyeh, eliminato la settimana scorsa a Teheran. Non sappiamo chi e come e con che modalità abbia fatto questa scelta, anche perché si tratta di una decisione piuttosto controversa dentro l’organizzazione terroristica. Nei giorni scorsi infatti il candidato più forte per questo ruolo era sembrato il vice di Haniyeh, cioè Khaled Mashal, fortemente appoggiato dalla Turchia di Erdogan; poi quando era emerso che la vicinanza di costui con la Turchia era sgradita a Hezbollah e dunque anche all’Iran, si era fatto il nome di Mohamed Ismail, un personaggio sconosciuto al grande pubblico, considerato una delle figure finanziarie più potenti dell’organizzazione terroristica, che lavora nell’ombra.
• Il senso politico
In generale si pensava che Hamas avrebbe conservato la sua scelta organizzativa degli ultimi anni di tenere all’estero la direzione politica del movimento terrorista, lasciando a Gaza quella militare oltre che “l’organizzazione governativa” del territorio controllato. E invece la scelta è stata di concentrare tutti i ruoli di vertice sulla figura di Sinwar, che era il capo di Gaza e ora, dopo l’eliminazione di Mohammed Deif, comandante militare del gruppo terrorista, ha assunto anche questa posizione. Il senso politico della scelta è chiarissimo, come ha anche dichiarato un portavoce del movimento terrorista: la scelta è “un forte messaggio all’occupante (Israele) che Hamas continua il suo percorso di resistenza”.
• Un cambiamento soprattutto organizzativo
Ciò non vuol dire affatto, come hanno dichiarato alcuni politici e media europei che Haniyeh fosse un “leader relativamente moderato” o addirittura “l’uomo delle trattative” e che Hamas, in seguito alla sua eliminazione, “corra il rischio di radicalizzarsi”. Dentro l’organizzazione terroristica vi sono naturalmente ruoli e fazioni personali che competono per il potere. Ma Haniyeh non era meno favorevole alla violenza e al terrorismo né odiava meno Israele di Sinwar e dei suoi compari; ha sempre approvato e propagandato tutte le operazioni condotte dai terroristi ed è celebre l’immagine in cui avendo saputo del 7 ottobre si prosternava per ringraziare Allah del successo. Stava all’estero come misura di sicurezza per garantire continuità al movimento in caso di combattimenti a Gaza, anche se la protezione fornitagli da Qatar e Iran è stata alla fine penetrata da Israele. Semplicemente Hamas ha deciso di rinunciare a questa divisione di compiti e la facilità di comunicazione che essa consentiva per ostentare la propria identificazione con la lotta armata dei terroristi a Gaza.
• Sinwar
Chi sia Sinwar è ben noto. Nato nel 1962 a Khan Yunis nella striscia di Gaza allora governata dall’Egitto, presto arruolato nel movimento terrorista islamico, Sinwar si fece un nome nel 1989 per aver rapito ucciso con le proprie mani due soldati israeliani e quattro arabi che considerava collaboratori. Arrestato e condannato a quattro ergastoli, ha trascorso 22 anni nelle carceri israeliane, conquistandosi con la violenza un ruolo di leader fra i terroristi detenuti. Fu poi nel 2011 uno dei 1026 terroristi scambiati per la vita di Gilad Shalit – il che fa pensare al rischio che le liberazioni di terroristi richiesta anche in questo momento da Hamas per liberare i rapiti porti a nuovi crimini e nuovi rapimenti. Sinwar divenne subito uno dei più crudeli e influenti capi di Hamas a Gaza, ottenendo nel 2015 la qualifica ufficiale di terrorista del governo americano e poi il ruolo di leader di Hamas nella Striscia. È il principale organizzatore e responsabile delle stragi del 7 ottobre. Personaggio furtivo e prudente in maniera paranoica, dall’inizio dell’operazione israeliana non si è più visto, anche se è emersa qualche sua foto. Si ritiene che sia nascosto in uno dei tunnel dei terroristi, a Rafah o forse a Khan Yunis, sempre circondato per sicurezza da un gruppo di ostaggi. Sembra che solo un paio di persone fidatissime sappiano esattamente come raggiungerlo. È oggi il principale obiettivo della caccia al terrorista dell’esercito israeliano, ma purtroppo ancora non è stato trovato.
• I commenti israeliani
Il ministro degli Esteri Israel Katz ha così commentato martedì l’annuncio di Hamas: “La nomina dell’arciterrorista Yahya Sinwar come nuovo leader di Hamas, in sostituzione di Ismail Haniyeh, è un’altra valida ragione per eliminarlo rapidamente e cancellare questa vile organizzazione dalla faccia della terra”. E il portavoce delle forze armate di Israele Daniel Hagari: “C’è un solo posto per Yahya Sinwar, ed è accanto a Mohammed Deif e al resto dei terroristi del 7 ottobre. Quello è l’unico posto che stiamo preparando e che intendiamo ospitare per lui”.
La decisione di Hamas di proclamare Yahya Sinwar alla propria direzione sostituendo Ismail Haniyeh, ucciso a Teheran pochi giorni fa, rappresenta la risposta alla determinazione di Israele di eliminare progressivamente i maggiorenti di Hamas e di continuare l’operazione militare a Gaza fino ad obiettivo raggiunto, la disarticolazione della capacità operativa di Hamas all’interno della Striscia.
Questo obiettivo è in palese contrasto con quello americano, il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi, per il quale, nelle ultime ore, Antony Blinken si è rivolto direttamente a Sinwar, sottolineando ciò che peraltro ha ripetuto costantemente in questo ultimo periodo, che la decisione finale spetta a lui.
Il problema di questa affermazione è che la decisione finale non spetta all’organizzatore dell’eccidio del 7 ottobre, ma a Israele, e, nello specifico a Benjamin Netanyahu. Sta al premier israeliano e non a un jihadista fanatico per il quale le vite umane valgono come quelle dei moscerini, stabilire se un eventuale accordo con chi ha massacrato 1200 dei suoi concittadini rapendone 254, garantisca a Israele e non agli assassini il massimo vantaggio.
Ma non è questa la postura della Casa Bianca, da mesi in rotta di collisione con l’esecutivo Netanyahu. Le prospettive sono infatti divergenti e si basano su opposte convinzioni; per gli americani Hamas non può essere sconfitto militarmente da Israele, ma solo depotenziato, dunque occorre da parte di Israele prendere coscienza di questa realtà dopo dieci mesi di guerra, e trovare un accordo politico. Per Israele, al contrario, Hamas può essere sconfitto militarmente. I dieci mesi di guerra in corso hanno già fatto sì che l’organizzazione sia di fatto prossima al collasso, ma per arrivare alla vittoria, sarà necessario e inevitabile che esso occupi Gaza per il periodo necessario a bonificarlo e dedicarsi quindi a operazioni di controinsorgenza terroristica, ciò che l’Amministrazione Biden non desidera che accada.
La Casa Bianca ha la necessità di chiudere l’accordo con Hamas, in particolar modo adesso, dopo l’uccisione di Haniyeh e il rischio di un escalation regionale. Un accordo con Hamas, un cessate il fuoco, comporterebbe quella momentanea distensione necessaria a forzare poi Israele ad ammorbidirsi e a cedere terreno ai suoi nemici.
Il paradosso è che, in questa prospettiva, sia gli Stati Uniti che i loro alleati all’opposizione in Israele, e per opposizione non si intendono solo i partiti politici avversi a quelli al governo, ma una fetta dell’esercito e dei Servizi nonché attori terzi che fomentano le manifestazioni di piazza per la liberazione degli ostaggi, costi quel che costi, presentano Netanyahu come l’intransigente, colui che non vuole venire a patti, il cinico e spregiudicato calcolatore, non Sinwar.
Di tutto questo Netanyahu è perfettamente conscio e sa che può contare sull’intransigenza di Sinwar, per il quale il prerequisito fondamentale ad ogni accordo è che Israele lasci Gaza, consegnando la vittoria a Hamas.
La nomina di Sinwar a capo politico di Hamas, indurisce ulteriormente lo scontro e rafforza la posizione di Netanyahu, il quale ora, davanti a sé, al posto del “moderato” Haniyeh ha colui che è in assoluto meno disposto a scendere a patti.
Il kibbutz Be'eri risorge lentamente dalle ceneri del 7 ottobre
"Voglio che Be'eri diventi migliore, che i residenti siano più felici. I residenti qui hanno perso i loro cari, ma in fondo Be'eri è la nostra casa", ha detto Sharon Shevo, sopravvissuto al 7 ottobre.
Quando ci siamo avvicinati ai villaggi distrutti nel sud di Israele, tra cui il Kibbutz Be'eri, il sistema di navigazione GPS ci ha detto: "Continua dritto sulla strada 232". Questa strada è comunemente chiamata "strada della morte" dai sopravvissuti al massacro di Hamas del 7 ottobre.
La comunità, un tempo molto ospitale, non può più essere visitata senza invito. Mentre aspettavamo l'arrivo del nostro ospite lunedì, abbiamo notato decine di auto parcheggiate all'ingresso del kibbutz, eppure non si sentiva un solo suono, a parte le esplosioni lontane della Striscia di Gaza. Sharon Shevo, residente a Be'eri, che ha quasi perso un braccio e tutta la sua famiglia nell'invasione, ci avrebbe fatto da guida durante la nostra visita. Shevo lavora nell'edilizia ed è attualmente impegnato nella riqualificazione del kibbutz.
Ha accettato di guidarci attraverso i quartieri distrutti e di mostrarci dove tra qualche anno saranno costruite le nuove unità abitative che accoglieranno i residenti.
"Attualmente siamo nella complessa fase di pianificazione della ricostruzione", dice Shevo.
"La situazione della sicurezza non è ancora tale da poter immaginare un ritorno definitivo; la guerra non è ancora finita. Nel frattempo, stiamo pianificando come sarà la futura Be'eri", ha spiegato.
Al momento, nel kibbutz non ci sono né illuminazione stradale, né negozi di alimentari, né scuole. Tuttavia, la mensa è ancora in funzione e serve il pranzo e la cena a una manciata di residenti.
È solo la quinta volta dal 7 ottobre che Shevo ha accettato di guidare i visitatori per le strade di Be'eri e di rivivere il giorno più terribile della sua vita.
"C'è il concetto di casa in contrapposizione a quello di abitazione. Le nostre case sono state distrutte e non abbiamo più una casa", ha detto.
Il 7 ottobre, 101 residenti del Kibbutz Be'eri sono stati uccisi da Hamas. Trenta sono stati presi in ostaggio e 11 sono ancora prigionieri.
Nella famigerata clinica dentistica di Be'eri, dove cinque membri del kibbutz, tra cui tre membri della Protezione Civile - Gil Buyum, Shachar Zemach e Eitan Hadad - e due membri dello staff, Amit Man e il dottor Daniel Levi Ludmir, sono stati uccisi a sangue freddo da Hamas, abbiamo incontrato una delegazione di rettori di università indiane.
Mentre Hassi Yehezkel, residente a Be'eri, attraversava il kibbutz con la figlia su un golf cart, si è fermata e ci ha salutato. Ha espresso la sua gioia per il ritorno a casa, ma ha anche detto che è troppo presto per la sua famiglia per tornare in modo permanente.
"Alcuni residenti pensano che non dovremmo permettere ai visitatori di entrare nel kibbutz, mentre altri, tra cui io e la mia famiglia, pensano che sia importante mostrare agli altri quello che è successo qui", ha spiegato Ella Gelbard, sopravvissuta all'attacco.
"Questo disastro potrebbe essere subito cancellato dalla memoria pubblica se non lavoriamo per condividere le nostre storie con i media e il pubblico", ha detto.
Gelbards è cresciuto nel kibbutz. I suoi genitori erano fondatori e i suoi quattro fratelli vivevano tutti a Be'eri fino al 7 ottobre.
"Non so se posso dire che stiamo bene mentalmente. Non ne sono sicuro. Ma fisicamente stiamo bene. Alcune delle nostre case sono in attesa di essere demolite dopo essere state bruciate da Hamas o utilizzate come base temporanea dai terroristi. Ogni casa racconta una storia diversa", ha detto.
Quando ci siamo fermati in una piazza vuota in mezzo a una fila di case, alcune delle quali quasi intatte, Shevo ci ha spiegato che quella piazza vuota era la casa di Yossi Sharabi, dalla quale lui e il fidanzato di sua figlia, Ofir Engel, sono stati rapiti da Hamas.
Il 16 gennaio è stata confermata la morte in contumacia di Sharabi, ucciso da Hamas durante la prigionia. Engel è stato rilasciato nell'ambito di un accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas alla fine di novembre, in cui sono stati rilasciati 105 prigionieri, per lo più donne e bambini.
Quando gli è stato chiesto se temeva che la cancellazione dei quartieri devastati avrebbe portato alla negazione, Shevo ha spiegato che lui e tutti i residenti sapevano che cosa era successo, e questo gli bastava. Ora è il momento di ricominciare, ha detto.
"Voglio che Be'eri sia migliore. Voglio che i residenti siano più felici. Non possiamo vivere con il ricordo della perdita, dobbiamo andare avanti con le nostre vite. I residenti qui hanno perso i loro cari, ma alla fine della giornata Be'eri è la nostra casa", ha spiegato.
"Una casa non è solo mura, ma anche comunità e valori che vengono trasmessi ai figli. Abbiamo famiglie e generazioni che vivono nel kibbutz dal 1947. Dobbiamo ricostruire, e poiché il 7 ottobre ha divorato le nostre vite, ricominceremo da zero", ha aggiunto.
"Distruggeremo i quartieri danneggiati e ricostruiremo nel kibbutz, ma lontano dai quartieri dove i nostri cari sono stati uccisi, almeno all'inizio. Questo aiuterà le nostre anime a guarire", continua Shevo.
Il kibbutz Be'eri riceverà quasi 100 milioni di dollari per la ricostruzione. Si tratta della somma più consistente mai stanziata per una delle comunità al confine con la Striscia di Gaza, attaccata dai terroristi di Hamas il 7 ottobre scorso.
I fondi statali fanno parte della Direzione Tkuma (rivitalizzazione in ebraico), istituita per supervisionare la ricostruzione delle comunità colpite dall'attacco nel sud di Israele. Tra due mesi dovrà inviare a Gerusalemme i piani di costruzione definitivi.
In molti casi, il 7 ottobre, i bunker e i rifugi non fornivano una protezione ermetica contro l'invasione. Shevo ha spiegato che nessun meccanismo di sicurezza è impeccabile.
"È impossibile prevedere il prossimo scenario. Non possiamo prendere una casa e sigillarla. Non possiamo vivere in una prigione", ha detto.
"C'è sempre il rischio che qualcuno si introduca o dia fuoco", ha aggiunto.
Shevo non ha ancora ricevuto informazioni sui sistemi di sicurezza che saranno installati nel nuovo edificio. Presume che i rifugi saranno probabilmente dotati di una serratura interna.
Quasi 350 terroristi di Hamas, tra cui 100 membri dell'unità Nukhba del gruppo terroristico, sono riusciti a infiltrarsi nel Kibbutz Be'eri, nel sud di Israele, il 7 ottobre, a causa di un fallimento catastrofico delle forze di sicurezza israeliane, secondo la prima parte della indagine interna dell'IDF sugli attacchi.
Dopo aver ripreso il controllo del kibbutz, l'IDF ha evacuato 190 corpi di terroristi.
"Questa indagine non mi restituirà la mia vita. Questo enorme fallimento non cambierà molto ora che è sulla carta. C'è stato un fallimento che è impossibile da interpretare", ha detto Shevo.
"Nessuno riporterà indietro i morti. La mia vita è completamente fuori controllo. Non so quando avrò di nuovo una casa o che tipo di vita mi aspetta. Tutto ciò di cui mi occupo tutto il giorno è il dolore e la riabilitazione. Niente di tutto ciò assomiglia alla vita che conducevo prima", ha aggiunto.
Nel quartiere di Shevo, 36 case su 42 sono state colpite dal massacro di Hamas.
"Questo quartiere era un paradiso. Un sacco di spazio, una bella vista. In questa strada vivevano otto famiglie e in ogni casa veniva ucciso qualcuno", ha spiegato.
Siamo entrati nella casa di Avida Bachar. Bachar, ciclista dilettante, ha perso la moglie Dana, il figlio quindicenne Carmel e la gamba destra nell'attacco.
"Facciamo tutto insieme. I nostri figli hanno la stessa età". Nonostante sia stato colpito da proiettili e granate, è sopravvissuto", racconta Shevo.
"Per 12 ore, sua figlia Hadar ha cercato di aiutarlo mentre guardava la madre e il fratello morire e il padre perdere conoscenza", ha aggiunto.
Di fronte alla casa di Bachar viveva l'ostaggio di Hamas Eli Sharabi, che ha perso la moglie e le due figlie nell'invasione e il cui fratello Yossi è stato ucciso durante la prigionia. Si presume che Eli sia ancora vivo.
Quando siamo entrati nella casa di Shevo, ci ha spiegato come ha progettato ogni elemento della sua abitazione, dalla dispensa alla scala architettonica che ha disegnato.
Il 7 ottobre Shevo ha lasciato il kibbutz la mattina presto per andare a fare un giro in bicicletta a pochi chilometri di distanza. Il ciclista amatoriale si stava allenando per la gara Epic Israel quando è caduto in un'imboscata dei terroristi di Hamas.
Alla fine è stato salvato dall'IDF vicino al festival musicale Supernova. Suo figlio Shaked, ufficiale dell'IDF, ha combattuto per ore contro i terroristi per proteggere il resto della famiglia, che era assediata nella propria casa, nonostante i terroristi avessero usato la casa come base militare e alla fine avessero dato fuoco alla proprietà mentre la famiglia di Shevo era ancora dentro. Fortunatamente sono tutti sopravvissuti.
"Mia figlia si chiama Rimon (melograno in ebraico) e, come potete vedere, ogni candeliere è un melograno", ha detto. "Tutto questo scomparirà non appena la casa sarà distrutta".
"È impossibile dimenticare ciò che ci è successo, ma potete confidare che tutto ciò che possiamo lasciare, lo lasceremo", ha continuato.
Durante una pausa pranzo nella caffetteria di Be'eri, quasi deserta, ci siamo chiesti quanto fosse frenetica e vivace prima del 7 ottobre.
La visita si è conclusa con una visita all'azienda lattiero-casearia del Kibbutz Be'eri, dove Dror Or, ucciso il 7 ottobre e il cui corpo e trattenuto da Hamas a Gaza, ha lavorato per 15 anni.
Nella fattoria abbiamo incontrato Tom Carbone, che produce anche vino a Be'eri. Ha perso la madre nell'invasione del 7 ottobre ed era vicino a Or.
"Dror era uno chef e organizzava eventi culinari. L'ho incontrato per caso mentre preparava una salsa. L'ho assaggiata e gli ho detto esattamente cosa c'era nella salsa, ed è così che siamo diventati amici", ha detto Carbone a JNS.
"Dror credeva nel grande potenziale dell'azienda lattiero-casearia e vi ha investito molto. Per lui era un progetto che ha sempre voluto rendere più grande e di maggior successo", ha proseguito.
"Dror diceva sempre, quando ne aveva l'opportunità, che mi avrebbe tenuto con sé. Sapeva che un giorno avrei lavorato in fabbrica e credo che ne sarebbe stato molto orgoglioso", ha aggiunto Carbone.
Tutti i materiali utilizzati per la produzione dei prodotti caseari provengono da Be'eri. Quando Carbone fa la spola tra Be'eri e un hotel sul Mar Morto, dove attualmente vive la maggior parte dei residenti di Be'eri, porta con sé il formaggio e apre un mini-market per rifornire i residenti di prelibatezze locali.
Carbone è ottimista sulla ricostruzione del kibbutz.
"Sono molto contento che le cose stiano progredendo, dobbiamo continuare ad andare avanti", ha spiegato. "Non possiamo rimanere indietro. Voglio tornare, e se non iniziano a ricostruire, non potrò farlo", ha aggiunto. (JNS)
(Israel Heute, 8 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Da Gaza all'esilio dorato, la vita da nababbo dell'ex capo di Hamas
di David Zebuloni
E se in Israele si votasse oggi? Vincerebbe ancora Netanyahu. Con buona pace di chi lo ritiene un leader del passato, condannato dalla storia, l'opinione pubblica israeliana lo sostiene, nella lotta per liberare gli ostaggi e per le uccisioni dei capi terroristi Ismail Haniyeh, Mohammad Deif e Fouad Shukr.
Dieci mesi sono trascorsi da quel maledetto 7 ottobre che ha stravolto gli equilibri in Medio Oriente e trascinato lo Stato d'Israele in una guerra forzata e non voluta contro i più agguerriti gruppi terroristici della regione. Dieci mesi di precarietà.
Quel senso di precarietà che solo la guerra può infondere in chi la vive. Poche, pochissime certezze hanno tenuto gli israeliani con la testa fuori dall'acqua in questo periodo di apnea: Israele e Hamas non possono più coesistere uno di fianco all'altro, la guerra non può terminare finché l'ultimo degli ostaggi non sarà tornato e casa e, una volta finita la guerra, anche Netanyahu deve andarsene a casa.
Colui che per anni aveva assicurato agli israeliani di essere l’unico a poter garantire loro dei sonni tranquilli e sereni, era responsabile della più grande strage del popolo ebraico dalla Shoah ad oggi. Il rigetto degli israeliani nei confronti del loro leader, dunque, non era più una questione politica. Di destra o di sinistra. Tutti, o quasi tutti, erano convinti che l’ormai ex King Bibi non fosse più idoneo a governare. Così, il premier dalle nove vite politiche è crollato nei sondaggi. Un crollo rapido e apparentemente definitivo. Netanyahu era politicamente finito, pronto ormai alla pensione forzata. Nulla, appartenente, poteva risollevarne le sorti.
Gli serviva un miracolo, e il miracolo è arrivato: in un breve periodo, tutti gli astri si sono allineati a suo favore. Noa Argamani, ragazza ostaggio simbolo delle atrocità di Hamas, è stata liberata in un'audace e rischiosa operazione militare a Gaza. Beny Gantz, che fino ad allora guardava tutti i suoi rivali politici dall’alto dei sondaggi, ha avuto uno screzio con lo stesso premier e ha deciso di uscire dal gabinetto di guerra in momento particolarmente delicato del conflitto, rinunciando di conseguenza al consenso degli elettori che vedevano in lui una figura solida e rassicurante.
Ismail Haniyeh, Mohammad Deif e Fouad Shukr, i massimi vertici di Hamas e di Hezbollah a Gaza, in Libano e in Iran, sono stati eliminati uno dopo l'altro nel giro di due settimane. Dulcis in fundo: la visita negli Usa, gli abbracci con Biden e con Trump, il discorso tenuto al congresso americano accompagnato da quattordici minuti di standing ovation.
Così Netanyahu è riuscito a ricostruire la propria immagine, riaffermandosi come leader forte e costante, che gode di un certo prestigio internazionale, capace di eliminare i suoi nemici terroristi ovunque essi siano. Oggi nei sondaggi prevale di nuovo su Gantz, su Lapid, su Lieberman e su Saar, ma come ben sappiamo, non è tutto oro ciò che luccica.
Nonostante il momentum favorevole, Netanyahu senza la sua coalizione non può governare e, per quanto egli si sia rialzato dopo il crollo clamoroso, i suoi alleati politici ancora non godono della stessa fiducia. E arrancano. Se Israele dovesse andare alle urne prima del previsto, probabilmente non vincerebbe nessuno.
E bisognerebbe tornare da Bibi.
Ci sono settemila ebrei francesi che fanno richiesta di emigrare in Israele, nonostante la guerra. Un numero più alto ancora rispetto al 2015, l'anno degli attentati dell'Isis a Parigi.
Considerando i crescenti livelli di antisemitismo, “gli ebrei non avranno più di un decennio in Francia prima di dover andarsene”, ha detto il rabbino Yaacov Bitton di Sarcelles, ma lui e la sua famiglia rimarranno per servire la comunità, “fino alla fine”. Bitton, che dirige la Beth Loubavitch de Sarcelles, ha detto che mentre sperava che la comunità ebraica continuasse per molti anni in Francia, la sua sensazione personale oggi è che gli ebrei “non abbiano più di dieci anni in Francia”. Nelle stesse ore, trecento giorni dopo il pogrom del 7 ottobre, il ministro dell’Integrazione e dell’aliyah d’Israele, Ofir Sofer, era al terminal uno dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv ad accogliere 160 nuovi immigrati dalla Francia.
Tra i nuovi arrivati, Alexia Abitbol, madre di sei figli della comunità di Pavillons-sous-bois, nella Seine-Saint-Denis. Carole e suo marito, Itzik Iaïch, che vivevano nel 16esimo arrondissement di Parigi, hanno parlato con il Times of Israel: “Nel nostro quartiere, dopo il 7 ottobre, ci sono stati atti di antisemitismo. Non vediamo più un futuro per i nostri figli in Francia. C’erano persone che hanno subito violenze vicino a rue Victor Hugo, dove abbiamo avuto l'impressione di vivere in una bolla. Alla fine, sapevamo che vivevamo in una bolla e nonostante ciò, voglio dire, anche a casa, nel nostro piccolo quartiere ebraico, nel nostro angolino tranquillo, gli antisemiti hanno potuto parlare apertamente. Poi, a livello politico, si vede chiaramente che qualcosa è andato storto, dover votare per il Fronte Nazionale per bloccare l'estrema sinistra, è una cosa che non avrei mai immaginato”. Itzik non vuole rivivere quello che hanno vissuto il padre e i suoi nonni nel 1962, quando lasciarono l'Algeria. “Ha lasciato una cicatrice in famiglia e non volevo davvero ritrovarmi nella stessa situazione dei miei nonni e di mio papà. Non credo che accadrà come nel 1962 per gli ebrei francesi, ma siamo un po’ spinti ad andarcene. Non ci viene detto di ‘uscire’, ma ci viene fatto capire chiaramente”.
“Oggi è chiaro che non c’è futuro per gli ebrei in Francia”, aveva appena detto anche il rabbino capo della Grande Sinagoga di Parigi Moshe Sebbag. “Dico a tutti i giovani di andare in Israele o in un paese più sicuro”.
Un’inchiesta di Bfmtv rivela che settemila ebrei francesi hanno fatto richiesta di emigrazione in Israele dopo il 7 ottobre. Mai così tanti. Se confermati, i numeri supererebbero quelli del 2015, dopo gli attentati di Parigi. Il Ministero israeliano dell’immigrazione ha registrato un impressionante aumento delle richieste di immigrazione dalla Francia dall’inizio della guerra. 6.440 persone hanno aperto pratiche di immigrazione dalla Francia, rispetto alle 1.057 dello stesso periodo dell’anno precedente. Un aumento vertiginoso dopo l’attacco terroristico del 7 ottobre: più 510 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, secondo cifre ufficiali. Il ministro dell’Immigrazione, Ophir Sofer, ha accolto con entusiasmo la decisione di questi immigrati di venire in Israele “nonostante il contesto difficile”, sottolineando “la forza del loro impegno sionista”. In totale, quest’anno in Israele sono attesi tremila “Olim Hadashim” francesi (nuovi immigrati), tre volte di più rispetto allo scorso anno.
Secondo un sondaggio del Fondo sociale ebraico unito (FSJU) condotto dopo il 7 ottobre e pubblicato a luglio, il 46 per cento di tutti i giovani ebrei francesi (su una comunità di quattrocentomila persone) sarebbe pronto a fare l’aliya in Israele. Per Caroline Yadan, deputata dell’ottava circoscrizione elettorale dei francesi stabiliti fuori della Francia, “gli ebrei non si chiedono se se ne andranno, ma quando se ne andranno”.
Il prof. Benji Hain sulle tracce del passaggio del prozio a Giulianova, Tossicia e Civitella del Tronto
Il pronipote dell’ebreo tedesco Ignaz Hain, il prof. Benji Hain, sarà in Abruzzo dall’8 all’11 agosto per conoscere i luoghi di detenzione del familiare durante l’internamento fascista in Italia
GIULIANOVA - Walter De Berardinis, autore della scoperta della storia tra l’ebreo tedesco Ignaz Hain e la cattolica tedesca Margarete Wagner, guiderà la famiglia Hain alla riscoperta dei luoghi dove fu internato il prozio Ignaz Hain dal settembre 1940 - mese di cattura a Milano da parte della polizia italiana - al maggio 1943 quando fu catturato dai tedeschi a Civitella del Tronto e deportato prima a Fossoli (Carpi), ad Auschwitz ed infine a Mauthausen dove morirà l’8 marzo 1945. Pochi giorni prima del 9 marzo 2020, quando in Italia fu adottata la misura di emergenza per contrastare la diffusione del virus Covid-19, il direttore del “Museo Nina” di Civitella del Tronto Guido Scesi e lo storico Giuseppe Graziani, ritrovarono la borsa della Wagner consegnandola a De Berardinis per approfondire la storia di quel carteggio. La famiglia Hain, nei giorni di permanenza in provincia di Teramo, incontrerà anche gli amministratori dei tre comuni teramani.
Il prof. Benji Hain, avvocato di New York, ha fatto ritorno in Israele nella città di Ra'anana a nord di Tel Aviv nel 2000, dove è stato prima consulente per “Israel Aerospace Industries LTD” e poi direttore dello sviluppo per “Kfar Tikva”. Nel 2014, Benji e la sua famiglia sono tornati negli Stati Uniti, dove è diventato direttore della “SAR-Salanter Akiba Riverdale Academy di New York” fino al 2016, quando si è trasferito a Boston (Massachusetts) per diventare prima direttore e poi preside della scuola media e superiore alla Maimonides School di Brookline, dove ha anche insegnato storia ebraica. Come preside presso la “AMHSI- Alexander Muss High School in Israele, Benji collabora con gli studenti, insegnanti, genitori, scuole diurne, infermieri e consulenti di orientamento per garantire il benessere accademico, sociale ed emotivo degli studenti all’estero.
• La Storia della Coppia Margarete Wagner, cattolica, era nata a Francoforte sul Meno il 30 luglio 1907 da Heinrich Karl Wagner e Crescentia Petzenhauser, era la 4° figlia di 6 (2 maschi e 4 femmine). Durante l’ascesa di Hitler al potere si era fidanzata con un giovane procuratore legale, Ignaz Hain, ebreo, nato a Ulmach il 29 giugno 1902, da Moses Hain e Pauline Schuster (anche lui figlio di 6), tutti residenti a Fulda. Con le leggi razziali, la giovane coppia, si trasferisce in Italia a Milano il 17 marzo 1937, in Via Felice Casati, 13, quartiere Lazzaretto (zona giardini pubblici Montanelli); l’8 maggio in Via Padova, 33 a Milano e subito dopo a Corso Buenos Aires, 18, per l’arrivo della compagna Margarete e fino all’arresto di lui nell’agosto del 1940. A settembre, Hain, verrà trasferito nel campo d’internamento di Tossicia (Teramo) e successivamente a Civitella del Tronto (Teramo), dove verrà raggiunto, in stato di libertà, dalla giovane compagna Margarete. Nel maggio 1944, Ignaz insieme ad un centinaio di ebrei, verrà prelevato dai tedeschi e condotto nel campo di smistamento di Fossoli (Carpi) – Modena. Il 16 agosto 1944 verrà deportato ad Auschwitz e poi il 25 gennaio 1945 a Mauthausen, dove muore l’8 marzo 1945. La moglie, rimasta bloccata a Civitella del Tronto, per i noti eventi bellici in Italia e Germania, morirà per malattia nell’ospedale di Giulianova il 14 gennaio 1945. Dal 2020, anno della scoperta della borsa e della storia della coppia, De Berardinis sta continuando a cercare ulteriori documenti in archivi nazionali ed esteri come Israele, USA e Germania.
Le ultime ore di Ismail Haniyeh: come il Mossad ha pianificato il suo assassinio
di Luca Spizzichino
Sebbene il governo israeliano non abbia confermato la sua responsabilità nell’uccisione di Ismail Haniyeh, le modalità di questo assassinio mirato lasciano intendere che ci sia proprio il Mossad dietro. Lo ha rivelato il The Jewish Chronicle, che in un lungo articolo ha ricostruito le ultime ore del leader di Hamas. Secondo il quotidiano britannico, l’ordigno esplosivo è stato piazzato sotto il letto di Haniyeh da due iraniani reclutati dal Mossad nell’unità di sicurezza Ansar al-Mahdi del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche, le stesse persone incaricate di garantire la sicurezza dell’edificio e dei suoi ospiti.
I pasdaran si sono resi conto di ciò dopo l’assassinio, quando le guardie sono state viste dalle telecamere di sicurezza il giorno dell’attentato mentre si muovevano furtivamente nel corridoio verso la stanza di Haniyeh, aprivano la porta con una chiave ed entravano. Tre minuti dopo, i due iraniani, che avevano ricevuto una somma a sei cifre ciascuno oltre a un immediato trasferimento in un paese del nord Europa, sono stati ripresi mentre lasciavano tranquillamente la stanza, scendevano le scale verso l’ingresso principale dell’edificio, uscivano e poi salivano su una macchina nera. La guardia al checkpoint del parcheggio li ha riconosciuti e ha aperto il cancello senza fare domande. Un’ora dopo, sono stati fatti uscire clandestinamente dal Paese grazie al Mossad.
Diversi quotidiani avevano suggerito che l’ordigno fosse stato piazzato nella stanza di Haniyeh settimane o mesi prima dell’esplosione. Tuttavia, le telecamere mostrano che è stato piazzato il giorno dell’esplosione, alle 16:23, circa nove ore prima che venisse attivato quando Haniyeh è entrato nella sua stanza. L’esplosione, innescata a distanza da un robot, è avvenuta dopo la mezzanotte, esattamente alle 01:37 ora locale. Per evitare possibili rilevamenti, il Mossad ha utilizzato un esplosivo piatto a forma di mattone, fissato sul fondo del letto. Per minimizzare i danni ai civili innocenti, hanno utilizzato una bomba nota per la sua precisione, che ha colpito solo la stanza di Haniyeh. Di conseguenza, solo una specifica area dell’edificio è stata danneggiata.
Il Mossad ha inviato i propri agenti a visitare regolarmente l’area per fornire la logistica operativa, mappare ogni strada e vicolo, identificare potenziali vie di fuga e controllare le misure di sicurezza dell’edificio. Tuttavia, gli agenti hanno incontrato difficoltà quando sono arrivati nell’area. Il palazzo era situato su una collina e circondato da una foresta, che rendeva molto difficile osservare chiaramente la struttura. Cinque agenti si sono vestiti di verde e sono saliti sugli alberi, mimetizzandosi con il colore delle foglie. Il loro compito era riferire non appena Haniyeh fosse arrivato all’edificio. In assenza di una fonte all’interno dell’albergo che potesse informarli di quando Haniyeh fosse entrato nella sua stanza, un’altra squadra del Mossad, anch’essa vestita di verde, si è arrampicata sui rami degli alberi e ha osservato l’edificio da un altro angolo. Il loro compito era avvisare l’operatore della bomba non appena la luce si fosse spenta nella stanza del leader di Hamas.
Haniyeh è morto sul colpo, mentre la sua guardia del corpo, Wasim Abu Shaaban, anch’egli ricercato dal Mossad, è rimasta gravemente ferita ed è successivamente morto per una grave emorragia.
Dopo l’assassinio, le autorità iraniane hanno fatto irruzione nel complesso, arrestando 28 alti ufficiali militari e membri del personale presenti. Tutti i loro dispositivi elettronici sono stati sequestrati per controllare le loro comunicazioni. Gli agenti iraniani hanno ispezionato l’intera struttura centimetro per centimetro e analizzato le riprese delle telecamere di sicurezza fotogramma per fotogramma. Quando hanno scoperto che alcuni membri delle Guardie Rivoluzionarie erano coinvolti, hanno immediatamente accusato Israele, minacciando di infliggere serie punizioni.
(Shalom, 7 agosto 2024)
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Tutto ciò che non torna nell'omicidio del leader di Hamas a Teheran
L'assassinio di Haniyeh rivela falle nell'intelligence e ingerenze straniere. Il regime di Khamenei deve fare i conti con la paranoia delle infiltrazioni, provando a capire chi lo ha tradito
Membri di Hamas tengono un poster del capo politico Ismail Haniyeh ucciso a Teheran, durante una protesta per condannare il suo omicidio nel campo profughi palestinese di al-Bass in Libano. Le parole in arabo sul poster recitano: "Il leader martire".
L'omicidio del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, è un racconto ricco di incongruenze. Per molti versi misterioso. A Teheran il politico palestinese avrebbe dovuto trovarsi nel luogo più sicuro al mondo, invece è stato ucciso nel luogo in cui tutto il mondo islamico celebrava l'insediamento del nuovo presidente iraniano. Le circostanze non ancora chiarite sull'assassinio dovrebbero destare ancor più preoccupazioni tra i governi di tutto il mondo, tenuto conto che questo evento ha condotto ad una ulteriore escalation del conflitto a Gaza, amplificando la sua portata su scala globale.
L'Iran finora aveva goduto della fama di rifugio sicuro per leader stranieri, anche quelli legati al terrorismo internazionale. Il regime esce quindi da questa storia più fragile, paranoico e permeabile ad infiltrazioni. Oltre all'ipotesi scontata di Israele, non è chiaro chi altri abbia voluto la morte di Haniyeh, reputato da molti un moderato all'interno del movimento islamista, in un momento in cui le due parti, Tel Aviv e Hamas, sembravano prossime ad un avvicinamento per una tregua. L'uccisione del leader palestinese in un appartamento al quarto piano di un luogo reputato "sicuro", in una città iper-controllata come la capitale iraniana, è un rebus ancora tutto da decifrare.
• Dove si trovava Haniyeh quando è stato ucciso Il notiziario arabo Al-Arabya ha notato come i vertici di Hamas e l'Iran abbiano fornito resoconti divergenti sulle modalità di uccisione di Ismail Haniyeh. Il capo politico di Hamas si trovava in Iran per partecipare alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente iraniano, Masoud Pezeshkian. Haniyeh al termine dell'evento era tornato nella sua residenza nel nord di Teheran, un edificio a Zafaraniyeh, ha riferito ad Al-Arabya Khaled Qaddoumi, rappresentante di Hamas a Teheran. Il portavoce di Hamas presso i media iraniani ed internazionali ha precisato che l'alloggio "non era segreto", ma anzi "era noto a molte persone", trattandosi inoltre di un luogo "riservato agli ospiti di alto rango". La testimonianza di Qaddoumi prosegue: "All'1:37 esatta, l'edificio ha subito uno shock. Ho lasciato il posto in cui mi trovavo e ho visto un fumo denso. Più tardi, abbiamo saputo che Haj Abu al-Abd [come veniva chiamato Haniyeh, ndr] era stato martirizzato".
• Cosa ha detto Hamas dell'omicidio Il rappresentante di Hamas in Iran ha detto credeva si trattasse di un tuono o di un terremoto, ma salito al quarto piano della residenza "dove si trovava il martire, abbiamo scoperto che il muro e il soffitto della stanza erano crollati ed erano stati distrutti". Qaddoumi ha precisato: "L'aspetto del luogo dopo l'attacco e le condizioni del corpo del leader martirizzato Ismail Haniyeh indicano chiaramente che l'attacco è stato effettuato tramite un proiettile aereo, un missile o una granata", senza fornire ulteriori dettagli. Le dichiarazioni di Qaddoumi risultano coerenti con quanto dichiarato da Khalil al-Hayya, capo di Hamas a Gaza, in una conferenza stampa tenutasi diverse ore dopo l'assassinio di Haniyeh, parlando di un missile che "ha colpito direttamente la stanza in cui alloggiava Haniyeh, e attendiamo le indagini ufficiali".
• Dall'attacco aereo all'ordigno esplosivo L'agenzia di stampa iraniana Fars, gestita direttamente dalla Guardia Rivoluzionaria Islamica che avrebbe dovuto garantire l'incolumità del leader di Hamas, in origine ha riferito vagamente che "qualcosa" aveva preso di mira la residenza, senza specificarne la natura. Mentre sulla stampa internazionale si diffondeva la versione dell'attacco aereo, il New York Times ha indagato sostenendo che la morte sia stata provocata da un ordigno esplosivo, introdotto nella guesthouse in cui era ospitato il leader di Hamas. Una versione che lascia intendere infiltrazioni esterne, che hanno consentito agli assassini di accedere preventivamente all'edificio per installare l'ordigno.
Solo dopo la pubblicazione dell'articolo del New York Times, l'agenzia iraniana Fars ha pubblicato un rapporto che conferma l'utilizzo di una bomba, precisando che "l'entità sionista ha pianificato ed eseguito questo atto terroristico", ma senza fornire ulteriori dettagli. Il rapporto di Al-Arabya ha concluso che "In assenza di una narrazione ufficiale completa, l'esecuzione dell'assassinio di Ismail Haniyeh rimane misteriosa, nonostante l'identità nota dei colpevoli".
Per gli analisti è certo che questo omicidio rappresenta una falla gigantesca nei servizi di sicurezza del regime iraniano. Non solo si è dimostrato vulnerabile, ma anche permeabile alla penetrazione dell'intelligence straniera all'interno della Repubblica islamica. In breve, qualcuno dall'interno ha tradito il regime.
• Le responsabilità del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche Il messaggio inviato a Khamenei e ai suoi alleati è che nemmeno a Teheran si può vivere tranquilli e fuori dalla portata dei nemici, chiunque essi siano. La prima testa saltata è quella del ministro dell'intelligence iraniana uscente, Esmail Khatib, che solo a fine luglio si era vantato di un grande risultato per il suo triennio: "Smantellare la rete di infiltrazione del Mossad" in Iran.
Appena sei giorni dopo, l'omicidio di Haniyeh ha dimostrato l'esatto contrario. Insieme al ministro le responsabilità ricadono innanzitutto sul Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche (Irgc), responsabili anche della sicurezza del leader palestinese. "All'interno delle strutture interne dell'Irgc, l'asse sicurezza-intelligence è incorporato nell'onnipotente Organizzazione di intelligence dell'Irgc", hanno scritto su Foreign policy Kasra Aarabi, ricercatrice presso il Middle East Institute specializzata sul Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica, e Jason M. Brodsky direttore politico presso l'istituto United Against Nuclear Iran.
“La capacità di Israele di uccidere Haniyeh in un complesso protetto dall'Irgc, in un momento in cui l'Irgc Intelligence Organization sarebbe stata in stato di massima allerta, altererà la dinamica percepita dell'Iran come rifugio sicuro. L'assassinio farà sì che i leader terroristi ci pensino due volte prima di cercare rifugio lì e probabilmente complicherà la relazione tra il regime iraniano e i suoi delegati”, hanno sottolineato i due ricercatori. “Si tratta di una battuta d'arresto significativa per il regime”, concludono.
Oltre alla risposta contro Israele, per gli analisti il regime iraniano dovrà affrontare la paranoia delle infiltrazioni straniere, che non è riuscito a sradicare nonostante il dominio politico indiscusso che permane dagli anni della rivoluzione iraniana. Un bel grattacapo per il leader supremo Ali Khamenei. L'Ayatollah oggi 85enne avrebbe preferito prepararsi ad una successione ordinata. Prima la morte inaspettata del presidente Ebrahim Raisi, e ora l'omicidio del capo politico di Hamas, potrebbero destabilizzare le gerarchie del regime e i suoi rapporti con i gruppi alleati, come Hamas, Hezbollah ed Al-Quaeda, che si erano fidati finora della protezione di Teheran.
Con le tensioni regionali in aumento, il ministro della Sanità israeliano Uriel Buso ha condotto una serie di valutazioni di emergenza con i direttori degli ospedali e i funzionari sanitari.
Gli ospedali israeliani in tutto il Paese sono in stato di massima allerta per la minaccia di attacchi da parte dell'Iran e dei suoi proxy regionali.
La scorsa settimana il ministro della Sanità israeliano Uriel Buso ha condotto una serie di valutazioni sulla preparazione medica di emergenza con i direttori degli ospedali e i funzionari sanitari. Gli argomenti discussi hanno riguardato la preparazione alle emergenze, la difesa informatica, l'assistenza alla salute mentale e i modi per aumentare rapidamente la preparazione.
Ha sottolineato che il sistema sanitario israeliano opera in modalità di emergenza da quando Hamas ha invaso il sud di Israele il 7 ottobre, uccidendo 1.200 persone, soprattutto civili. La guerra che ne è derivata sta entrando nel suo undicesimo mese e minaccia di aggravarsi.
(Israel Heute, 7 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
El Al garantisce la sicurezza dei passeggeri con una tecnologia antimissile avanzata
La compagnia aerea nazionale israeliana resta in aria in mezzo a minacce sempre più gravi.
Con l'acuirsi delle tensioni in Medio Oriente e la minaccia di un attacco iraniano a Israele, molte compagnie aeree internazionali hanno interrotto i voli verso la regione. Tuttavia, la compagnia di bandiera israeliana, El Al, rimane impegnata nelle sue operazioni, non scoraggiata dai crescenti rischi di attacchi con missili, razzi e droni da parte dell'Iran e dei suoi proxy, tra cui Hezbollah.
La fiducia di El Al nel continuare a volare in sicurezza risiede nella sua tecnologia di difesa missilistica all'avanguardia, che equipaggia tutti gli aerei commerciali della sua flotta. El Al è stata la prima compagnia aerea al mondo a implementare tale tecnologia su tutta la sua flotta, iniziando nel 2004 con un sistema chiamato Flight Guard, originariamente sviluppato dall'aeronautica militare israeliana.
Anche se i dettagli specifici sulla tecnologia non sono stati resi pubblici, El Al ha dichiarato che il sistema rileva i missili sparati nelle vicinanze dell'aereo. Quando viene identificata una minaccia, l'aereo rilascia automaticamente dei razzi per deviare i missili in arrivo dai bersagli previsti.
In risposta ai problemi di sicurezza legati al potenziale rischio di incendio di Flight Guard, nel 2014 El Al è passata a un sistema più avanzato, noto come C-MUSIC. Sviluppato da Elbit Systems, il C-MUSIC è descritto come un sistema DIRCM (Directed Infra-Red Counter Measure), che offre una potente protezione contro i MANPADS (Man-Portable Air Defense Systems), missili terra-aria specificamente progettati per colpire gli aerei.
A differenza del suo predecessore, C-MUSIC non si basa sui razzi. Utilizza invece un raggio laser per disturbare i sensori dei missili in arrivo. Il calore generato dal laser fa sì che il missile modifichi la sua traiettoria, salvaguardando di fatto l'aereo. Questo sistema innovativo è certificato dall'Autorità per l'aviazione civile ed è stato installato su un'ampia gamma di aerei commerciali, nonché su aerei che trasportano capi di Stato e altri VIP.
Una delle caratteristiche più notevoli del sistema C-MUSIC è la sua natura completamente automatizzata, con un tempo di risposta inferiore ai due secondi. Ciò garantisce che il sistema non richieda alcun intervento da parte del pilota, consentendo una difesa immediata e senza soluzione di continuità contro le minacce missilistiche.
L'impegno di El Al per la sicurezza dei passeggeri attraverso l'innovazione tecnologica esemplifica la dedizione di Israele alla protezione della popolazione e al mantenimento di una solida sicurezza nazionale. Essendo l'unica compagnia aerea al mondo a dotare l'intera flotta di una tecnologia antimissile così avanzata, El Al stabilisce uno standard elevato per la sicurezza aerea.
Continuando a operare in mezzo alle minacce regionali, El Al non solo dimostra l'efficacia dei suoi sistemi di difesa, ma rafforza anche la resilienza di Israele di fronte alle avversità. La capacità della compagnia aerea di mantenere le operazioni in tempi di crisi evidenzia la forza e l'ingegno dello spirito israeliano.
Rimanete informati sugli sviluppi della sicurezza aerea e della sicurezza regionale iscrivendovi alla nostra newsletter e condividete questo articolo per far conoscere le tecnologie di difesa all'avanguardia di Israele.
(Israfan, 7 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Nel suo discorso di commiato a New York, l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite Gilad Erdan ha affermato che il silenzio delle Nazioni Unite sulle minacce iraniane di attaccare Israele assomiglia al silenzio globale quando i nazisti completarono i loro piani per l’Olocausto.
“L’Iran e i suoi proxy minacciano di attaccarci da ogni direzione. Coloro che cercano di farci del male devono sapere che non ci lasceremo scoraggiare. Devono sapere che pagheranno un prezzo pesante e che il nostro lungo braccio li raggiungerà ovunque”, ha affermato.
Anche oggi, mentre l’Iran minaccia apertamente di “punire Israele”, le Nazioni Unite sono di nuovo in silenzio. L’Iran ha inteso questo silenzio come un via libera per portare avanti i suoi preparativi per attaccare milioni di israeliani. Milioni che stanno aspettando proprio ora”, afferma Erdan.
“L’attuale silenzio delle Nazioni Unite sull’Iran ricorda il silenzio globale dopo la Conferenza di Wannasee del 1942, quando la leadership nazista decise la soluzione finale. Hanno inteso questo silenzio come un via libera per l’assassinio di milioni di ebrei”, ha dichiarato.
Erdan saluta il suo lavoro presso l’organizzazione “ipocrita”, in particolare durante la guerra tra Israele e Hamas.
“Ho avuto l’immenso, immenso privilegio di rappresentare Israele alle Nazioni Unite. Mi sono svegliato ogni mattina con la chiara missione di dimostrare che Israele è uno Stato morale, un Paese che ha a cuore la vita e la pace, un Paese che vuole proteggere i suoi cittadini come qualsiasi altro Paese, e uno Stato con l’esercito migliore e più etico del mondo – l’IDF”, ha dichiarato.
“Ho fatto tutto il possibile per sensibilizzare l’opinione pubblica sugli orrori del 7 ottobre, sui nostri ostaggi… e sulle violenze sessuali che abbiamo subito dalle donne israeliane. L’ho fatto in tutti i modi possibili e con tutti i mezzi a mia disposizione, sì. Era un modo per sensibilizzare, scioccare, gridare per coloro che non possono farlo”, aggiunge.
Un ringraziamento da parte di Rights Reporter all’ambasciatore Gilad Erdan per il lavoro davvero encomiabile e certosino che ha fatto per Israele e soprattutto alla sua sempre gradita disponibilità.
(Rights Reporter, 7 agosto 2024)
Imbattuta da cinque anni, campionessa del mondo in carica, numero uno del ranking internazionale.
La wrestler statunitense Amit Elor arrivava alle Olimpiadi di Parigi da grande favorita. Come da pronostico, si è consacrata campionessa olimpica nella lotta libera al limite dei 68 chili, sconfiggendo in finale la kirghisa Meerim Zhumanazarova medaglia di bronzo in carica.
Vent’anni compiuti a gennaio, ne aveva appena quattro quando iniziò a combattere, Elor è la più giovane lottatrice nella storia dello sport Usa ad aggiudicarsi l’oro olimpico. In tasca ha due passaporti, quello americano e quello israeliano. «Sono orgogliosa di rappresentare gli Stati Uniti, ma nel mio cuore rappresento anche Israele», ha raccontato in una intervista con Ynet alla vigilia dei Giochi. In Israele emigrarono i suoi nonni sopravvissuti alla Shoah. Da Israele si trasferirono negli Usa i suoi genitori, negli anni Ottanta. Amit è nata in California. Prima dell’età scolare parlava solo ebraico.
Nell’intervista con Ynet, Elor si era detta «scioccata» per la barbarie raggiunta da Hamas il 7 ottobre e «profondamente rattristata e preoccupata per tutto ciò che è seguito: dolore, sofferenza e perdita sono insopportabili». Pertanto, aveva aggiunto l’atleta, «se la mia partecipazione alle Olimpiadi potrà portare anche solo un po’ di gioia in Israele, tutto il duro lavoro e tutti i sacrifici compiuti saranno stati ripagati».
Nell’albo d’oro olimpico, rileva la stampa israeliana, Elor va a fare compagnia ad altri illustri lottatori ebrei del passato. Tra gli altri l’ungherese Károly Kárpáti, che vinse a Berlino nel 1936 e fu poi deportato in campo di sterminio, riuscendo a sopravvivere. E l’americano Henry Wittenberg, vincitore a Londra nel 1948, alla cui memoria è stato dedicato un torneo annuale di wrestling alla Yeshiva University. Wittenberg ottenne poi un argento ai successivi Giochi di Helsinki. A Los Angeles 2028, nella sua California, c’è da scommettere che Elor punterà al bis.
Millar Maadad al-Shaar sorride timido davanti alla telecamera
Millar Maadad al-Shaar sorride timido davanti alla telecamera. È un bambino di dieci anni, ama il calcio e indossa la maglia dei suoi idoli del Real Madrid. Con innocenza legge un breve testo in ebraico che si è preparato. «Io e te cambieremo il mondo. Faremo tutto con amore e speranza. Siamo tutti amici, tutti fratelli. Vogliamo vivere in pace e tranquillità. Vogliamo la pace per tutto il mondo». Un messaggio semplice, registrato nel corso della lunga guerra innescata contro Israele dai terroristi di Hamas a Gaza con la collaborazione a nord di Hezbollah. Una guerra che si è portata via il piccolo Millar. Il 27 luglio era insieme ad amici e parenti a giocare nel campetto da calcio del suo villaggio, Majdal Shams, sulle alture del Golan. Un razzo di Hezbollah, sparato dal vicino Libano, ha centrato il campetto, uccidendo Millar e altri undici ragazzi tra i 10 e 16 anni. «Nel nostro villaggio siamo tutti una grande famiglia e ognuno di quei ragazzi era nostro figlio», ha spiegato a ynet Nael Ebrahim, padre del tredicenne Julian, ferito nell’attacco. «C’è grande rabbia. Sono stati colpiti bambini che giocavano a calcio e volevano solo divertirsi. Il loro sogno era quel campo da calcio. Non doveva essere un luogo di razzi, di politica, di disastri, ma di sogni».
Il padre di Millar, racconta il giornalista dell’emittente Kan Rubi Hammerschlag, ha chiesto di far circolare il video del figlio per lanciare un messaggio di pace in un momento molto difficile per la comunità drusa d’Israele. Circa 150mila persone parte di una tradizione che si è staccata dall’Islam nell’XI secolo e da allora professa una religione propria. In tutto si stima che i drusi siano quasi due milioni nel mondo, concentrati soprattutto in Medio Oriente, tra Siria, Libano, Israele e Giordania.
• I drusi del Golan L’attacco di Hezbollah è una ferita che avrà ripercussioni importanti su questa minoranza, prevede sul sito The Conversation Rami Zeedan, professore di Israeli Studies all’Università del Kansas. Zeedan ricorda come Majdal Shams e i tre villaggi gemelli delle alture del Golan – Mas’ade, Buq’ata e Ein Qiniyye – rappresentino un’eccezione nello stato ebraico. Da quando Israele nel 1967 ha conquistato l’area, i drusi qui hanno sempre rivendicato le loro radici siriane. I pochissimi hanno riconosciuto nel 1981 la decisione di Gerusalemme di estendere sulle alture del Golan la propria sovranità. A differenza del resto della comunità sparsa per Israele e pienamente integrata – tanto da far parte dell’esercito –, i drusi del Golan «si considerano siriani», spiega Zeedan. «La maggior parte ha rifiutato la cittadinanza israeliana, anche se la legge di annessione del 1981 consente loro di ottenerla». Nell’ultimo decennio però qualcosa è cambiato. «Tra il 20 e il 25% della comunità del Golan è diventata israeliana».
Durante i funerali dei dodici bambini uccisi da Hezbollah, i rappresentanti del governo israeliano sono stati contestati. L’accusa è di aver abbandonato i villaggi del nord al proprio destino. Ma la rabbia è soprattutto diretta verso i terroristi libanesi: «Satana (Hezbollah) sarà distrutto», scandivano gli abitanti di Majdal Shams in una manifestazione all’indomani dei funerali. «L’attacco avrà un impatto significativo sulle comunità druse. Potrebbe allontanare ulteriormente i drusi del Golan dalla loro identità siriana, creando un destino più condiviso con Israele», scrive Zeedan, a sua volta parte della comunità drusa. La tragedia potrebbe essere l’occasione «per espandere l’integrazione dei drusi del Golan nella società israeliana, analogamente agli altri drusi del paese».
Angelica Calò Livnè: Perché Unifil non tiene Hezbollah a distanza?
«Qui da noi funziona così: prima senti il botto e poi la sirena. Come a Majdal Shams».
È un rumore purtroppo familiare per gli abitanti del kibbutz Sasa in Alta Galilea, da sempre e ancora di più dopo il 7 ottobre. Migliaia i missili passati sopra le loro teste in questi mesi, lanciati da Hezbollah appena oltre il confine con il Libano. Quel confine che i pochi residenti rimasti a presidiare il kibbutz scrutano in queste ore con particolare angoscia. «I missili ci passano appena sopra, a volte di fianco. Puntano ad alcune basi militari vicine, ma hanno colpito Sasa più volte», racconta l’educatrice di origine romana Angelica Edna Calò Livne, una delle colonne del kibbutz.
L’auditorium in particolare è stato danneggiato da un missile di fabbricazione russa con la gittata di cinque chilometri, ma è capitato che alcuni ordigni esplodessero anche nel frutteto durante la raccolta delle mele. «Rispetto ai primi mesi di guerra, dei pochi che eravamo oggi siamo ancora meno. Dormiamo tutti nella stanza blindata, a parte la squadra di difesa incaricata di vigilare sulla sicurezza di Sasa. Anche per loro, comunque, alcune aree sono off-limits», spiega Angelica. Tra i sentimenti prevalenti di queste ore «più che la paura sento molta rabbia, anche nei confronti del contingente Unifil che dovrebbe in teoria vigilare affinché i terroristi rimangano alla debita distanza da Israele; e invece sono qui, vicini, appena oltre confine. Sono pronti per entrare in Israele a piedi, in qualunque momento, addestrati con foglietti in tasca con le istruzioni su come uccidere, violentare, rapire. Hanno capito, d’altronde, che gli ostaggi possono rappresentare una montagna d’oro». Per un’attivista per il dialogo come Angelica «fa rabbia anche non poter pensare a nulla di positivo». Con qualche eccezione per fortuna. «La donna araba che lavora con noi in cucina, una mia grande amica, mi ha fatto vedere la foto di alcuni regali acquistati per i suoi nipotini. Mi ha poi raccontato di averli comprati a Jenin. Anche il nostro elettricista, pure lui arabo, mi ha detto che per i suoi acquisti si reca lì. Ho pensato allora che non tutto è perduto, che alcuni canali sono ancora aperti, che esiste ancora una speranza per un futuro di pace per israeliani e palestinesi».
Il terrorismo arabo contro la popolazione ebraica di Israele non è nato naturalmente il 7 ottobre 2023 e neppure con le due “intifade”, con la liberazione di Giudea e Samaria del 1967 o con l’indipendenza del 1948. L’inizio della violenza sistematica risale agli anni Venti del Novecento, quando bande arabe cercavano di depredare e distruggere i primi insediamenti ebraici. A quel momento risale il primo embrione dell’autodifesa di Israele: un movimento che si chiamava HaShomer (il guardiano) e addestrava all'uso di armi personali qualche membro per ognuno dei kibbutz e degli altri insediamenti. Lo guidava il primo eroe di guerra di Israele, ancora oggi ricordato con partecipazione: Iosif Trumpeldor ufficiale formato in Russia, immigrato nel 1912, caduto nel 1920 nella difesa dell’insediamento di Tel Hal, in Galilea settentrionale.
Quando gli assalti arabi si intensificarono, fra gli anni Venti e Trenta, la direzione sionista fondò la Haganà (difesa), un’organizzazione paramilitare che arrivò nel ’36 a un organico di 10mila uomini e 40mila riservisti. Si trattava soprattutto di difendersi dagli attacchi arabi, ma i rapporti con i britannici che governavano il Mandato non furono mai facili, perché essi preferivano non alienarsi il mondo musulmano, limitando molto fortemente l’autogoverno e l’immigrazione ebraica anche dopo l’inizio delle persecuzioni naziste in Europa. La Haganà fu coinvolta in scontri con gli inglesi fino all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, quando la direzione sionista incoraggiò gli ebrei ad arruolarsi con loro e dopo molti sforzi riuscì a vincere la diffidenza britannica: fu costituita la Brigata ebraica. In questo periodo, per dissensi politici, si separarono dalla Haganà due gruppi di destra, l’Irgun Tzvai Leumi (“organizzazione militare nazionale”) e il Lehi (sigla per Loḥamei Ḥerut Israel, “Combattenti per la libertà d’Israele”). Come forza speciale della Haganà fu costituito il Palmach (sigla per Plugot Maḥaṣ “compagnie d’attacco”). Alla fine della guerra essi ripresero gli scontri da due parti, con gli arabi e gli inglesi, fino alla loro rinuncia al mandato. La proclamazione dello Stato di Israele fu accolta dai Paesi arabi circostanti con una guerra di sterminio e in questa occasione Ben Gurion riorganizzò tutte le forze precedenti nella Tsvá haHaganá leYisraél, in sigla Tsáhal, “l’armata di difesa d’Israele”, che spesso si indica con la sigla inglese IDF (Israel Defence Force).
Con forze molto minori e armamenti inadeguati, raccolti in giro per il mondo o rappezzati in Israele, l’IDF riuscì in quasi due anni di combattimenti a bloccare l’avanzata degli eserciti arabi, a rompere il terribile assedio di Gerusalemme pur perdendo la città vecchia, ad assicurare al nuovo Stato un territorio connesso dalla Galilea fino a Eilat. È sulla base dei quadri, dello spirito e dell’etica sviluppati nella guerra di indipendenza che l’esercito israeliano riuscì ad affrontare vittoriosamente le tre guerre successive contro gli eserciti arabi (1956, 1967, 1973), le campagne del Libano e le varie ondate terroristiche.
Nel corso dei decenni, Israele ha arricchito le proprie forze armate con una marina tecnologicamente avanzata, inclusi sommergibili e navi lanciamissili; con forze corazzate di ottimo livello, equipaggiate con veicoli prodotti in Israele, i famosi carri “Merkavà”; con un’aviazione fra le più forti del mondo equipaggiata con aerei americani (fra cui gli F35 “Adir”) dopo il fallimento del progetto di costruire un vettore nazionale e di una complessa difesa antimissile composta da tre strati (“Iron dome”, “David’s sling”, “Arrow”) cui si stanno aggiungendo armi laser. In genere, l’integrazione con la ricerca scientifica e tecnologica è il punto di forza dell’IDF, con forti ricadute anche sull’industria civile. Ma al cuore del progetto ci sono gli uomini e le donne di Israele, la loro dedizione, l’eroismo che si è visto anche durante il conflitto in corso.
(Shalom, 6 agosto 2024)
Israele e Taiwan, una storia comune di sopravvivenza
di Nathan Greppi
Sin da prima del 7 ottobre, le relazioni sino-israeliane sono sempre state assai ambigue: se sul piano economico la Cina è il principale partner commerciale d’Israele in Asia, sul piano politico il governo di Pechino ha fortemente attaccato l’intervento israeliano a Gaza, oltre ad aver ospitato dei negoziati tra Hamas e Fatah in vista di una loro possibile riconciliazione. Per contro, lo Stato Ebraico ha inviato una delegazione parlamentare a Taiwan, oltre a firmare una dichiarazione congiunta all’ONU per condannare la Cina per violazioni dei diritti umani contro gli uiguri.
Proprio Taiwan sembra essersi avvicinata ulteriormentead Israele: dopo il 7 ottobre, tra i primi leader mondiali ad aver condannato l’attacco di Hamas vi furono sia l’allora presidente taiwanese Tsai Ing-wen che l’attuale presidente, Lai Ching-te. Mentre Abby Lee, rappresentante di Taiwan a Tel Aviv, è persino andato a lavorare come volontario nei campi agricoli e ha incontrato i familiari degli ostaggi.
Una delle principali ragioni di questa vicinanza tra Taipei e Gerusalemme (sebbene non manchino manifestazioni propal neanche a Taiwan) risiede nel fatto che così come gli israeliani devono da decenni difendersi da vicini ostili, così i taiwanesi vivono con il costante timore di essere invasi dalla Cina, che non ha mai riconosciuto l’indipendenza dell’isola e spera prima o poi di riuscire a riconquistarla.
Per capire come si sono evolute le relazioni tra i due paesi e cosa potrebbe accadere qualora le minacce cinesi dovessero concretizzarsi, Mosaico ne ha parlato con Chris King: nato e cresciuto in Cina (il nome è uno pseudonimo), dove nel 1989 ha preso parte alle proteste studentesche contro il regime stroncate dal massacro di Piazza Tienanmen, oggi vive negli Stati Uniti. Dal 2020 è ricercatore senior presso il MEMRI (Middle East Media Research Institute), dove è tra i curatori del Chinese Media Studies Project.
- Quali erano i rapporti tra Taiwan e Israele prima del 7 ottobre? Per rispondere a questa domanda, penso che sia necessario chiarire il contesto storico dello sviluppo nelle relazioni tripartite tra Israele, la Repubblica di Cina (come si autodefinisce Taiwan, ndr) e la Repubblica Popolare Cinese.
Prima del massacro del 7 ottobre, il governo di Taiwan si teneva ad una certa distanza da Israele. Sebbene le relazioni tra i due paesi fossero generalmente buone, queste mancavano di un forte legame ed erano largamente influenzate e limitate da fattori legati al PCC (Partito Comunista Cinese).
Già all’inizio del marzo 1949, poco dopo la nascita d‘Israele, il governo della Repubblica di Cina riconobbe ufficialmente Israele. Il 9 gennaio 1950, sulla base del principio della diplomazia pragmatica, il governo israeliano riconobbe ufficialmente la neonata Repubblica Popolare Cinese, diventando il primo paese del Medio Oriente a riconoscere il regime comunista.
A quel tempo, il regime del PCC, fortemente influenzato dall’URSS, presentava una forte convergenza con la politica estera sovietica. Siccome Israele all’inizio della sua fondazione era stato sostenuto dall’Unione Sovietica, il PCC riconobbe e accolse con favore la creazione di Israele. Dopo la guerra d‘indipendenza nel 1949, i rapporti tra l‘URSS e Israele si deteriorarono, finché le relazioni diplomatiche non furono interrotte. Di conseguenza, anche la Repubblica Popolare Cinese smise di riconoscere Israele e appoggiò gli Stati arabi.
Da allora, sebbene Israele abbia cercato di stabilire relazioni diplomatiche formali con il governo cinese, Pechino lo ha a lungo ignorato. Ad esempio, nel 1955 il governo israeliano inviò una nota al Ministero degli Affari Esteri cinese dicendo che era “pronto a stabilire relazioni diplomatiche con la Cina”, ma i cinesi rifiutarono.
Allo stesso tempo, anche se le relazioni tra Israele e Pechino erano state difficili per molto tempo, Israele aveva evitato contatti aperti con il regime del Kuomintang a Taiwan per ragioni strategiche, e non aveva stabilito relazioni diplomatiche. Israele e la Repubblica di Cina di Taiwan non hanno instaurato relazioni diplomatiche per rispettive considerazioni: oltre al riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese da parte d‘Israele, Taiwan adottò anche una posizione vicina agli arabi e distante da Israele, basata sulla necessità di ottenere il sostegno diplomatico degli Stati arabi e di competere con Pechino sul piano delle relazioni. Dagli anni ’70 in poi, Israele e Taiwan hanno stretto forti relazioni in vari campi come la tecnologia missilistica, quella nucleare, il settore aerospaziale, l’agricoltura, gli investimenti e il commercio. Ma questa relazione è rimasta fredda e distante.
- Cosa è cambiato dopo il 7 ottobre, e nel corso della guerra attuale? Come dice un proverbio cinese, “Chi è amico nel bisogno è davvero un amico”. Il governo di Taiwan è stato tra i primi a condannare Hamas dopo il massacro del 7 ottobre. Ciò dimostra a Israele chi sono i suoi veri amici. La vicinanza tra i due paesi, basata su valori condivisi nel campo democratico occidentale e sulla simile esperienza di minaccia da parte dei regimi dittatoriali che li circondano, è cresciuta rapidamente. C’è chi ha sostenuto che Israele e Taiwan condividano un profondo legame: entrambi difendono fermamente la democrazia e la libertà, nonostante siano circondati da vicini autoritari.
- Cosa può dirci invece dei rapporti tra Israele e la Cina? A mio parere, l’atteggiamento amichevole di Israele nei confronti di Pechino in passato si basava inizialmente sul principio diplomatico del realismo, ma era anche dettato dalla gratitudine nei confronti del governo cinese per aver teso una mano agli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Il problema è che coloro che hanno aiutato gli ebrei durante la guerra erano nel governo del Kuomintang al potere in Cina all’epoca, e questo governo si è rifugiato a Taiwan dopo il 1949. L’aiuto agli ebrei da parte della Cina non ha nulla a che fare con il Partito Comunista Cinese. Ad esempio, il governo di Taiwan ha rilasciato dei “visti a vita” ad un gran numero di ebrei europei in fuga dalla Germania nazista. Inoltre, nel 1939 il governo nazionalista della Repubblica di Cina pianificò la creazione di un insediamento ebraico a Tengchong, nella provincia dello Yunnan. Al contrario, Pechino finora si è astenuta dal condannare Hamas dopo il massacro del 7 ottobre.
Penso che l’orientamento politico di Pechino sia radicato nella sua storia, e miri principalmente agli Stati Uniti. Ai tempi di Mao Zedong, per opporsi al cosiddetto colonialismo, questi mise in atto una serie di politiche in Medio Oriente, sostenendo i movimenti nazionalisti nel mondo arabo e in particolare favorendo l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), che è stata fondata solo nel 1964, nonostante il fatto che non esistesse il concetto di uno Stato palestinese al momento della nascita d‘Israele.
Nel 1965, i rappresentanti dell’OLP visitarono Pechino. Durante l’incontro, Mao paragonò Israele a Taiwan, dicendo che i due paesi erano stati creati dall'”imperialismo” per contenere gli arabi e i cinesi. Da queste parole si poteva già vedere che Pechino, per esigenze strategiche e di politica internazionale, considera Israele un paese ostile come gli Stati Uniti.
Sebbene da allora la Cina abbia migliorato i rapporti con gli Stati Uniti e l’Occidente, stabilendo relazioni diplomatiche con Israele nel 1992, l’inerzia della sua politica in Medio Oriente, le vaste differenze ideologiche e la necessità di sopprimere le forze islamiche radicali in patria hanno reso impossibile per Pechino schierarsi con Israele nei momenti critici. È chiaro che questo atteggiamento è fondamentalmente guidato dalla necessità della Cina di indebolire il dominio degli Stati Uniti in Medio Oriente.
- Proprio come Israele, Taiwan affronta da decenni lo stigma di paesi che negano il suo diritto di esistere. In che modo questo ha influenzato la loro relazione? L’isolamento di Taiwan e l’indifferenza della comunità internazionale in realtà sono molto più grandi di quelli verso Israele. Fondata su un destino simile e su valori condivisi, la società taiwanese è piena di ammirazione per Israele, e sperare di diventare l’Israele dell’Oriente, di superare la propria difficile situazione, scongiurare la minaccia dei regimi autoritari, difendere il proprio destino e proteggere la libertà e la democrazia duramente conquistate. Israele ha anche ricevuto un forte sostegno da parte di Taiwan sulla scia del massacro del 7 ottobre: l’ambasciatrice de facto di Israele a Taiwan, Maya Yaron, ha detto ai giornalisti a Taipei che “Taiwan è un vero amico di Israele, e apprezziamo davvero tutto ciò che Taiwan ci ha dato”. Questi legami comuni hanno portato ad un significativo miglioramento delle relazioni tra i due paesi.
- Sebbene la Cina sia vicina all’Iran e ai palestinesi in politica estera, gli scambi commerciali con Israele sono stati molto redditizi per anni. Come spiega questa contraddizione? Come ho detto poc’anzi, il sostegno della Cina alla Palestina e le sue strette relazioni con l’Iran sono motivati principalmente dalla necessità di giocare un ruolo geopolitico in contrapposizione agli Stati Uniti. Sin dall’epoca di Mao, il governo cinese ha cercato di tenere testa agli americani e di intervenire gradualmente negli affari mediorientali per rafforzare la propria voce in Medio Oriente.
Riferendomi alla Dichiarazione di Pechino per porre fine alla divisione della Palestina e rafforzare l’unità nazionale palestinese, firmata alla fine di luglio, credo che Pechino voglia far riappacificare le due principali fazioni palestinesi. Tuttavia, questa dichiarazione è più propensa a rafforzare la posizione di Fatah e a indebolire la posizione di Hamas. Pechino ha mantenuto a lungo stretti legami con Fatah, accettandolo tacitamente come legittimo rappresentante della Palestina. Sebbene il PCC non abbia definito Hamas un’organizzazione terroristica, il suo atteggiamento nei loro confronti è stato relativamente freddo e diffidente. A causa delle esigenze di Pechino di contrastare il terrorismo e il radicalismo islamico interno, questa politica serve alla Cina per mantenere buoni rapporti con il mondo arabo e islamico. Xi Jinping, l’attuale leader del PCC, emula Mao in molti modi, ma i due sono fondamentalmente diversi. Xi è un realista, mentre Mao era un idealista e un pensatore fanatico. Credo che Xi abbia una chiara comprensione della forza politica, tecnologica e militare di Israele. Anche se il suo regime denuncia sempre Israele verbalmente, sta essenzialmente mettendo in scena uno spettacolo di fronte al mondo, per placare i paesi arabi. Ma dietro le quinte non osa essere troppo duro con Israele, a maggior ragione in un momento in cui Pechino è ansiosa di migliorare le sue relazioni con gli Stati Uniti e l’Occidente, anche perché al momento l’economia cinese è in difficoltà.
- In una sua recente analisi pubblicata sul sito del MEMRI, ha detto che Taiwan non può difendersi militarmente dalla Cina senza il sostegno americano. Quale lezione dovrebbero imparare i taiwanesi dal modello israeliano? Taiwan vorrebbe essere un alleato fondamentale degli Stati Uniti come lo è Israele, ma non è riuscita a raggiungere questo obiettivo. Penso la ragione di ciò sia in parte dovuta al fatto che Taiwan si trova difronte ad una Cina enorme, e le due parti presentano un ampio divario, nella forza militare come in altri ambiti. Taiwan dovrebbe certamente seguire il modello israeliano e assicurarsi che tutto il popolo sia pronto a combattere unito da una solidarietà comune. Ma quello che abbiamo visto finora è che i taiwanesi hanno speranze irrealistiche di essere protetti dagli Stati Uniti e dai loro alleati. L’attuale sistema di servizio militare taiwanese difficilmente può garantire che Taiwan abbia abbastanza soldati in caso di guerra.
Il modello israeliano è difficile da replicare a Taiwan, dove la maggior parte dei taiwanesi oggi si accontenta di una vita di poca ricchezza e manca dello spirito militare degli israeliani. L’esercito taiwanese crede fondamentalmente che finché le proprie truppe possono ritardare l‘avanzata dell’esercito cinese, si può considerare un successo, e il successivo confronto militare potrebbe contare solo sull’intervento statunitense. In altre parole, non sono ottimista sul fatto che i taiwanesi possano imparare ad applicare il modello israeliano.
- Che peso potrebbero avere sul sostegno americano a Taiwan le elezioni di novembre? Alcuni analisti ritengono che Pechino stia osservando da vicino le elezioni statunitensi. Se Trump verrà rieletto, il PCC potrebbe avere in programma di fare un accordo con lui, perché Trump non è interessato a Taiwan; di recente, ha detto in un’intervista che Taiwan dovrebbe pagare per la protezione americana. Durante il primo mandato di Trump come presidente degli Stati Uniti, ero preoccupato che potesse fare accordi economici con Pechino e abbandonare Taiwan. Fortunatamente, in seguito tra gli Stati Uniti e la Cina è scoppiata una guerra commerciale, facendo sì che questo scenario non si verificasse.
Qualora il Partito Democratico dovesse vincere le elezioni, Xi si è già preparato in anticipo. Alla fine di ottobre dello scorso anno, il governatore della California Gavin Newsom ha visitato la Cina ricevendo un’accoglienza straordinaria da parte di Xi. È chiaro che Pechino sta cercando di mandare un segnale amichevole all’astro nascente del Partito Democratico.
- Quanto è probabile che la Cina tenti di invadere Taiwan nel breve termine? E cosa dovrebbe fare l’Occidente se ciò accadesse? Non è mai facile fare previsioni del genere, perché ci sono molte variabili. Dipende anche se la Russia deciderà o meno di appoggiare militarmente la Cina. Ma c’è una costante: Xi Jinping cercherà sicuramente di riprendersi Taiwan mentre è in carica. Penso che se le autorità di Taiwan non cercheranno di smantellare lo status quo, è improbabile che la guerra scoppi in un anno o due. Alla base di questo giudizio vi è il fatto che Xi ha commesso errori di valutazione, a partire dal malgoverno in patria durante la pandemia di Covid che ha causato gravi danni all’economia cinese e rimandato i suoi piani per l‘annessione di Taiwan. Ha bisogno di tempo perché la Cina recuperi le proprie forze e raggiunga un relativo vantaggio militare sugli Stati Uniti e i loro alleati a livello locale, e un vantaggio militare schiacciante su Taiwan. Solo quando queste condizioni saranno soddisfatte, Xi potrà decidere di conquistare Taiwan con la forza. Credo che l’opzione migliore per l’Occidente sia quella di prevenire la guerra, che si tratti di integrare coalizioni militari o di sanzioni economiche contro la Cina. Tra questi, il mezzo più efficace per controllare e frenare l’ambizione di Xi di impadronirsi di Taiwan è quello economico: in altre parole, rendersi indipendenti con fermezza e gradualità dall’economia cinese. Se questa dovesse andare male, la presa del PCC sul potere in Cina potrebbe essere scossa. Solo così Xi potrebbe rinunciare all’idea di impadronirsi di Taiwan.
Ieri il Corriere della Sera ha riportato una notizia lanciata dal giornale kuwaitiano, Al–Jarida, poi ripresa dal sito Pakistan Defence, e quindi dal sito Global Justice, Syria News, secondo il quale una delegazione americana partita dalla Turchia, si sarebbe incontrata in Oman con la controparte iraniana, a cui avrebbe sostanzialmente espresso rincrescimento per l’uccisione a Teheran di Ismail Hanyieh, una delle figure di maggiore spicco di Hamas, sottolineando che gli americani non sapevano niente. Di seguito avrebbero invitato l’Iran a una rappresaglia moderata nei confronti di Israele per evitare di rafforzare Netanyahu, oltre a specificare che è nell’interesse di Stati Uniti e dell’Iran rientrare nell’accordo sul nucleare iraniano da cui Trump è uscito nel 2018. A marzo di quest’anno, il Financial Times riferiva di incontri segreti tra americani e iraniani sempre in Oman, finalizzati a convincere quest’ultimi ad esercitare la loro influenza sugli Houti per terminare i loro attacchi contro le navi nel Mar Rosso.
Che l’incontro abbia avuto realmente luogo è difficile stabilirlo, e il fatto che nel pezzo di Al-Jarida sia specificato che agli iraniani sarebbe stato anche fornito l’elenco dei dieci agenti del Mossad che hanno partecipato all’uccisione di Haniyeh, appare scarsamente verosimile, tuttavia il resto no.
L’Amministrazione Biden prosegue fin dal suo insediamento nel 2021 la medesima politica di appeasment nei confronti del regime di Teheran che è stato uno dei pezzi forti dell’Amministrazione Obama, culminata nel 2015 con l’accordo sul nucleare iraniano conosciuto come JCPOA, che Israele cercò di sventare senza successo, e da cui Donald Trump è uscito nel 2018.
In una memorabile audizione al Senato di due mese fa, il senatore Ted Cruz, ha messo il segretario di Stato Antony Blinken con le spalle al muro, fornendo una serie di dati sull’aumento delle vendite del petrolio da parte dell’Iran dal 2021 ad oggi, sull’incremento della sua flotta di navi pirata e sull’ingente flusso di denaro che l’Amministrazione in carica ha provveduto a fare arrivare con continuità al regime di Teheran, “Avete iniziato a inondare di soldi l’Iran dal primo giorno in cui vi siete insediati…l’Iran esportava trecentomila barili di greggio al giorno quando siete arrivati alla Casa Bianca, ora ne esporta due milioni. Il novanta per cento dei fondi che arrivano a Hamas provengono dall’Iran”.
Dopo l’uccisione di Ismail Hanyieh, Blinken si è preoccupato immediatamente di rassicurare pubblicamente Teheran che gli Stati Uniti non erano coinvolti in alcun modo. L’Iran doveva sapere che l’unico responsabile è Israele. Non c’è da meravigliarsi, la maggioranza dei funzionari di spicco dell’Amministrazione Biden, e soprattutto quelli dedicati al dossier mediorientale e iraniano provengono dalla più filoiraniana delle amministrazioni americane, quella Obama, di cui qui su l’Informale, ha scritto David Elber, tra cui spiccava Robert Malley, il principale artefice dell’accordo sul nucleare iraniano, e di cui, il senatore Tom Cotton fece presente, quando venne ricofermato la sua “lunga storia di simpatia per il regime iraniano e animosità verso Israele”. A luglio dello scorso anno Malley è stato costretto alle dimissioni sotto accusa di avere condiviso materiale classificato con una fonte non identificata, e attualmente risulta sotto indagine da parte dell’FBI .
A tutto ciò si aggiunge l’esplicita avversione dell’amministrazione in carica nei confronti di Netanyahu e del governo da lui presieduto, che non è mai venuta meno, e i cui risultati si sono visti e si stanno vedendo in merito alla guerra in corso a Gaza, che gli Stati Uniti vogliono chiudere ad ogni costo, partendo dalla premessa che Hamas non possa essere sconfitto militarmente e che ci voglia una soluzione politica, come ha esplicitato una recente indagine della CNN, intesa a presentare i risultati ottenuti dall’esercito israeliano a Gaza come modesti, e assai al di sotto delle aspettative, indagine contestata rapidamente dall’esercito israeliano il quale ha rivendicato i successi conseguiti e il progressivo smantellamento della struttura operativa di Hamas.
Non è dunque essenziale appurare se l’incontro in Oman, smentito da autorità iraniane abbia avuto realmente luogo, poiché in ciò che sarebbe stato detto dagli americani agli iraniani si manifesta in modo del tutto veritiero l’atteggiamento adottato dall’Amministrazione Biden verso l’Iran e nei confronti di Netanyahu.
(L'informale, 6 agosto 2024) ____________________
Gli Stati Uniti dunque vogliono chiudere ad ogni costo la guerra di Gaza perché credono che Hamas non può essere sconfitto militarmente da Israele e quindi chiedono una soluzione politica. Al contrario, sono convinti che la Russia può essere sconfitta militarmente dall’Ucraina e quindi rifiutano ogni soluzione politica. Non è evidente la stupidità dell’accostamento? Ci vuole molto per capire che il gioco è sporco in entrambi i casi? Sì, ci vuole molto per chi è convinto che salvare Israele significa salvare l’Occidente e che il salvatore unico dell’Occidente, e dunque del mondo intero, non può essere che l’America, quella “canna rotta che penetra nella mano di chi vi si appoggia e gliela fora”. Chi vuole illudersi, può farlo. M.C.
Lo scalpo di Haniyeh agevola Netanyahu, ma ora il conflitto di terra è più vicino
Il premier israeliano ha messo in conto uno scontro regionale senza ascoltare i dubbi americani. Teheran pensa di usare Hezbollah per sfondare le difese aeree dello Stato ebraico: Libano in bilico.
di Ettore Sequi
Le analisi sulla crisi in Medio Oriente si concentrano in queste ore sulla imminente risposta iraniana all’uccisione, a Teheran, del leader politico di Hamas, Haniyeh.
L’Iran ha diverse opzioni per colpire Israele: la prima, una replica dell’attacco di aprile, con missili e droni. La seconda, più pericolosa e forse più realistica, un attacco diretto dal territorio iraniano, coordinato con un massiccio attacco missilistico di Hezbollah. In tal caso il Partito di Dio utilizzerebbe assetti missilistici ma non effettuerebbe incursioni di terra, per mancanza dell’effetto sorpresa e a causa del rafforzamento della presenza militare israeliana al confine con il Libano. A seconda del grado di coinvolgimento di Hezbollah, Israele potrebbe decidere di avviare una operazione in territorio libanese, per ridurne la minaccia in caso di scontro diretto con l’Iran.
Si tratta di attendere pochi giorni, forse ore, per scoprirlo.
Intanto, gli Stati Uniti hanno rafforzato la propria presenza nell’area con due obiettivi: deterrenza verso un attacco iraniano di vasta portata e difesa attiva per abbattere missili e droni prima che raggiungano i bersagli.
Gli interessi dei soggetti coinvolti in questa crisi sono molteplici, contrastanti o coincidenti, e si intersecano a volte sovrapponendosi tra loro, come in un gioco di specchi deformanti.
La continuazione della guerra è, per Netanyahu, l’assicurazione della continuazione della sua vita politica. L’uccisione di Haniyeh ha la conseguenza, probabilmente cercata, di bloccare i negoziati per un cessate il fuoco e quella, certamente dolorosa ma calcolata, di impedire la liberazione degli ostaggi in tempi brevi. Netanyahu può aggiungere ora alla lista dei nemici eliminati dall’inizio delle operazioni il pregiatissimo scalpo di uno dei capi di Hamas.
La crisi attuale ha certamente un impatto severo sull’immagine degli Stati Uniti. Biden, fin dall’inizio, ha sperato che la guerra a Gaza potesse restare circoscritta. I fatti hanno mostrato il contrario, ampliando progressivamente il numero e la rilevanza degli attori direttamente coinvolti: Hezbollah, Houthi e ora Iran. Tuttavia, né Washington né Teheran hanno interesse a un confronto diretto.
L’Amministrazione americana, alle prese con le turbolenze della campagna elettorale, ha sistematicamente incontrato serie difficoltà a far accettare a Netanyahu i propri consigli di moderazione e il proprio piano di pace. La stessa uccisione di Haniyeh, avvenuta solo pochi giorni dopo l’incontro tra Biden e Netanyahu a Washington, ha confermato la grande indipendenza del primo ministro israeliano. Tutto ciò ha finito per indebolire l’immagine degli Stati Uniti e creare la percezione di un vuoto di potere nella regione. Un danno reputazionale per Washington, suscettibile di conseguenze anche in altri scenari. Cina e Russia lo hanno notato.
L’attentato ad Haniyeh, per le circostanze in cui ha avuto luogo, è stato un colpo durissimo per il regime iraniano. Una vera e propria umiliazione e il messaggio di Israele di poter colpire ovunque i propri nemici. Teheran non può fare a meno di rispondere con durezza per non offrire una pericolosa immagine di debolezza, rischiando di compromettere i propri interessi strategici: scacciare gli Stati Uniti dal Medio Oriente; indebolire Israele; conseguire una leadership regionale a danno degli Stati sunniti dell’area; alimentare l’Asse della Resistenza, ovvero Hezbollah, Houthi, Hamas e milizie shi’ite come proprio presidio e braccio operativo. Ma il regime deve salvare la faccia anche all’interno del Paese, affetto da crescenti tensioni sociali e difficoltà economiche. È poi assai probabile che questa crisi dia l’impulso definitivo all’Iran per dotarsi dell’arma nucleare.
I Paesi arabi sunniti condividono con Israele la minaccia esistenziale di una egemonia regionale iraniana e l’interesse a evitarla. Essi quindi si sono astenuti dal prendere posizioni estreme verso Israele, pur dovendo tener conto della indignazione delle proprie opinioni pubbliche per la catastrofica situazione umanitaria a Gaza e il pesantissimo bilancio di vittime civili nella Striscia. Gli Stati arabi sunniti continueranno dunque a lavorare discretamente con gli Stati Uniti temendo gli effetti indiretti, politici, economici e in termini di stabilità regionale, dell’imminente attacco iraniano. In tempi di pace questi Paesi cercano una distensione con Teheran, mentre in tempi di crisi continuano a percepire le attività iraniane come destabilizzanti e contrarie ai loro interessi.
Hamas, infine. L’attentato ad Haniyeh rischia di causare la radicalizzazione di Hamas, rafforzando l’ala militare, la più dura e riluttante a concessioni, rendendo così più difficili i negoziati per una tregua e il rilascio degli ostaggi.
Saranno le modalità delle azioni iraniane e della prevedibile risposta israeliana a definire i futuri sviluppi di queste complesse interazioni.
Tra Israele e Hezbollah è guerra di spie: partita la caccia all'uomo
Le operazioni letali di Israele a Beirut e a Teheran sollevano il sospetto che Tel Aviv abbia potuto contare su agenti doppiogiochisti tra gli uomini di Hezbollah e del regime iraniano.
Non è solo l’ora della vendetta quella scattata dopo la neutralizzazione del numero due di Hezbollah Fuad Shukr e del leader politico di Hamas Ismail Haniyeh. Infatti, in parallelo all’organizzazione da parte della Repubblica islamica e del Partito di Dio della rappresaglia agli attacchi lanciati da Israele a seguito della strage di bambini al campo da calcio nel Golan, attribuita ai miliziani libanesi, sia a Beirut che a Teheran si sta consumando una febbrile caccia alla talpa.
Come è possibile, si chiedono gli alleati del regime degli ayatollah, che lo Stato ebraico sia riuscito a localizzare e ad eliminare esponenti così in vista dell’Asse della resistenza iraniana? Negli scorsi giorni il New York Times citando fonti anonime ha svelato che il 31 luglio ad uccidere Haniyeh sarebbe stata una bomba piazzata mesi fa nel suo rifugio nella capitale dell'Iran. Un’impresa impossibile da eseguire se non con il supporto di agenti infiltrati dagli 007 di Tel Aviv.
Un copione simile sarebbe andato in scena a Dahieh, il sobborgo meridionale di Beirut controllato da Hezbollah, dove qualche giorno prima Shukr è stato eliminato da un missile israeliano. Ad affermarlo sono i giornalisti di Al-Janoubia, vicina ai guerriglieri libanesi, che hanno ricordato l’avversione alla tecnologia del loro comandante il quale ha sempre evitato registrazioni video e vocali rendendo così i suoi spostamenti impossibili da rintracciare. O quasi.
“La leadership di Hezbollah è certa che i suoi ranghi siano stati infiltrati ad alti livelli da una rete di agenti israelianinormal”, ha riportato Al-Janoubia, subito ripresa dal Jerusalem Post. Il timore tra i membri del Partito di Dio è che Tel Aviv sia in possesso di un archivio completo dei loro dati, inclusi “nomi, foto, numeri di telefono, indirizzi e tracce audio”. D’altra parte, confermando il blitz in Libano, il generale Herzi Halevi, capo di Stato maggiore dell’Idf, ha affermato che Israele sa come operare a Beirut e ha precisato di sapere anche come “colpire nel sottosuolo e come muoversi con forza”.
Solo poche persone erano a conoscenza degli spostamenti del numero due di Hezbollah e proprio tra chi era al corrente dei suoi trasferimenti sarebbero stati già eseguiti i primi arresti. In particolare sarebbe sotto torchio un esponente di alto grado delle forze di sicurezza del movimento sciita. Dell’agente sospettato di doppio gioco si sa che non fosse in buoni rapporti con alcuni elementi del gruppo ritenuto uno Stato nello Stato libanese e che fosse incaricato di dare il via libera ad un imminente incontro tra Shukr e il capo del partito di Dio Hassan Nasrallah.
Il bunker di Netanyahu, costruito per difendersi dalla minaccia iraniana
Allestito dallo Shin Bet, si trova sotto le colline di Gerusalemme
di Nello Gatto
GERUSALEMME. Lo Shin Bet, i servizi interni israeliani, hanno preparato l’allestimento di un bunker sotterraneo sulle colline di Gerusalemme, per ospitare, anche per un periodo non breve, i membri del gabinetto israeliano in caso di guerra. Lo riferiscono fonti di stampa. Secondo il sito di notizie Walla, il bunker, realizzato almeno venti anni fa, può sostenere colpi da qualsiasi tipo di arma conosciuta. All’interno ci sarebbero tutti gli strumenti per permettere la continuità della catena di comando ed è connesso al quartier generale della difesa a Tel Aviv. Dal massacro del sette ottobre e dall’inizio del conflitto a Gaza, è la prima volta che viene allestito.
Era stato già preparato in altre occasioni, e si unisce alla “Fossa”, il bunker realizzato sotto il quartier generale dell’esercito a Tel Aviv, Kirya, nel 1966 e soppiantato in parte dalla “Fortezza di Sion”, il doppio di grandezza rispetto al precedente e creato nel 2018. Tutti sono connessi con gli altri centri di comando e bunker nel paese.
Il “National management center”, il nome con il quale è conosciuto questo bunker sulle colline di Gerusalemme (non è chiaro se solo una estensione di quello di Tel Aviv o uno diverso ma collegato), era stato riaperto durante il Covid, permettendo a Netanyahu di gestire l’emergenza da un luogo sicuro. In quella occasione ci furono critiche, perché il bunker sotterraneo poteva proteggere dalle bombe ma non dai microbi.
La sua realizzazione si fa risalire proprio alle preoccupazioni derivanti dal programma nucleare iraniano e dagli attacchi di Hezbollah o di Hamas. I massimi comandanti militari israeliani hanno già condotto la guerra da bunker sotterranei. La campagna aerea delle Forze di difesa israeliane a Gaza nel 2021 è stata orchestrata dalla “Fortezza di Sion”.
In attesa della “vendetta” iraniana, Israele ha ripreso l’iniziativa strategica
di Ugo Volli
• La “vendetta” annunciata Un momento di sospensione, di attesa, di incertezza. Sono passati quattro giorni dall’eliminazione a Teheran di Ismail Haniyeh, leader di Hamas e a Beirut del capo di stato maggiore di Hezbollah Fuad Shukr, oltre che della conferma dell’uccisione, avvenuta venti giorni fa, di Mohammed Deif, capo militare di Hamas a Gaza, e ormai quasi due settimane dal bombardamento del porto di Hodeidah, il principale centro di rifornimento dei ribelli yemeniti Houti: tutte azioni israeliane per cui i gruppi terroristici e il loro grande protettore, l’Iran, hanno proclamato di voler far vendetta. Ancora, al momento in cui scrivo questo articolo, alla fine del sabato, questa vendetta non si è vista. Ma è chiaro che essa ci sarà, o meglio che ci sarà il tentativo di compierla; in caso contrario i vari movimenti terroristi e l’Iran che li controlla perderebbero la faccia, il che in Medio Oriente è una sconfitta molto grave. L’attacco probabilmente sarà coordinato dall’Iran con la partecipazione di tutti questi gruppi, potrà avvenire anche fra un certo tempo, com’è accaduto per l’assalto missilistico e di droni compiuto dall’Iran ad aprile come vendetta per l’uccisione a Damasco del suo generale responsabile del coordinamento dell’attività dei gruppi terroristici contro Israele, Mohammad Reza Zahedi. Il colpo dell’Iran venne due settimane dopo l’esecuzione del generale e fu un clamoroso fallimento: con oltre duecento fra razzi balistici, droni, missili da crociera lanciati da Iran e Yemen, il solo risultato fu il ferimento di una innocente bambina di una famiglia beduina nel Negev.
• Come potrebbe essere l’attacco Possiamo dunque dare per scontato che un tentativo di assalto a Israele ci sarà, che sarà multilaterale e probabilmente più pesante di quello certo non leggero di tre mesi fa, che avverrà entro un paio di settimane (ma forse già stanotte, ma fonti americane parlano del 9 di Av, data in cui la tradizione ebraica porta il lutto per la distruzione di entrambi i Templi e per una serie di altre sciagure), che quest’anno inizia la sera del 12 agosto. Sappiamo che esso sarà contrastato, oltre che dai tre strati della difesa antimissile di Israele, la migliore del mondo; anche dalla collaborazione inglese, americana e di alcuni stati arabi, probabilmente Giordania, Arabia Saudita, ed Emirati. Sappiamo anche che l’attacco più temibile, perché avverrà da vicino e dunque con poco preavviso, potrà essere massiccio e portato con armi di precisione, potrebbe venire da Hezbollah. L’Iran potrebbe invece tirare missili potenti balistici di precisione, compreso un nuovo proiettile ipersonico (cioè capace di muoversi ad altissima velocità manovrando e abbassandosi per eludere le difese antimissile).
• I dubbi strategici Qui iniziano i dubbi, non solo per noi che siamo testimoni, ma anche per chi dirige i terroristi, cioè in sostanza l’Iran. Conviene all’Iran usare l’arsenale di Hezbollah, certamente notevole, per perforare la difesa aerea israeliana e colpire la popolazione civile israeliana, al costo quasi certo, perché pubblicamente annunciato da Netanyahu, di una guerra totale per la distruzione del gruppo terrorista che ridurrebbe parti notevoli del Libano allo stato di Gaza? E vale la pena, sempre dal punto di vista degli ayatollah, di un intervento massiccio dell’Iran che gli costerebbe probabilmente parti notevoli del suo apparato nucleare, raggiungibile dall’aviazione israeliana come ha mostrato il bombardamento di Hodeidah, a 2000 km dal territorio israeliano? In sostanza, il problema è se l’Iran ha interesse ad aprire una guerra regionale in cui, al di là della cattiva volontà dell’amministrazione Biden, gli Usa sarebbero sicuramente coinvolti. Se provassero a danneggiare pesantemente Israele e non ci riuscissero, gli ayatollah mostrerebbero la loro incapacità di sostenere le loro ambizioni imperialiste; se ci riuscissero, ma Israele fosse in grado di replicare con forza, si aprirebbe un’avventura imprevedibile, con conseguenze politiche serie non solo per il Libano, ma anche per l’Iran, che ha un’economia in dissesto e una popolazione sempre sull’orlo della rivolta. Se non ci provassero e facessero solo un attacco di facciata, conserverebbero le loro armi per il momento, ma vedrebbero intaccato il loro prestigio nella regione. Sarebbe così fallito tutto il tentativo di ferire a morte Israele iniziato il 7 ottobre scorso, il che probabilmente porterebbe ad effetti importanti e positivi sulla questione degli ostaggi.
• Israele ha conquistato l’iniziativa strategica Certo, ci sono molte cose che possono andare male e i danni a Israele possono essere gravi. Ma la ripresa di iniziativa militare (anche, ma non solo, con le eliminazioni mirate), il rifiuto di condurre le trattative per gli ostaggi fino alla resa desiderata dall’amministrazione Biden (e purtroppo anche da alcune forze dentro Israele), insomma la linea della “vittoria” che Netanyahu ha mantenuto in questi mesi e che ha esposto di recente al Congresso americano, hanno portato Israele per la prima volta in una posizione strategica attiva dopo un lungo periodo di (necessaria) autolimitazione e autodifesa. Che un’Israele che vince non piaccia a molti in America e nel mondo, non solo ai nemici espliciti ma anche a quelli che predicano di “non esagerare” e di “badare innanzitutto ai diritti umani dei palestinesi”, è chiaro. Ma oggi è ancora più chiaro che quel che si combatte non è la guerra di Israele contro Gaza (che molti qualificano come crudele ed ingiusta e addirittura più di qualcuno ha il coraggio di descrivere come un “genocidio”), ma l’assalto coordinato di un grande stato come l’Iran e di una mezza dozzina di potenti movimenti terroristici contro Israele, con scopi, questi sì, genocidi. E quel che finalmente si vede è che Israele, grazie a una coraggiosa direzione politica, all’eroismo dei suoi soldati, alla sua superiorità tecnologica, può avviarsi a vincere davvero, eliminando non solo i dirigenti e i terroristi di Hamas, ma esponendo la debolezza intrinseca di chi li sostiene, innanzitutto l’Iran.
La determinazione di Israele e le protesi dell’Iran
di Niram Ferretti
A dieci mesi dall’inizio dell’operazione militare a Gaza, Israele sembra trovarsi a un punto di svolta. L’uccisione di Ismail Hanyieh, preceduta da quella, seppure smentita da Hamas, dell’imprendibile Mohammed Deif, più quella di altri esponenti di rilievo dell’organizzazione jihadista che dal 2007 governa la Striscia, segnala una accelerazione risoluta e la dimostrazione, soprattutto dopo l’uccisione di Haniyeh, l’interlocutore principale di Hamas con l’Iran, di non temere ripercussioni, mostrando una determinazione chiara.
Dopo mesi di incertezza, dovuti soprattutto alla forte pressione americana nel cercare di costringere Netanyahu a chiudere la guerra, ora appare evidente che il premier israeliano, abile e spregiudicato slalomista, sta mettendo l’Amministrazione Biden davanti al fatto che i negoziati per il rilascio degli ostaggi ancora prigionieri a Gaza sono diventati un fattore secondario rispetto a quello che è sempre stato l’obiettivo primario della guerra, terminare a Gaza il dominio militare di Hamas, consentendo a Israele di gestire per il periodo necessario il controllo temporaneo della Striscia e trovando, nel frattempo, il modo di impiantare un governo arabo che con l’organizzazione terrorista non abbia alcun rapporto.
Mettere fine al dominio politico-militare di Hamas a Gaza significa privare l’Iran, principale agente destabilizzatore della regione, di una delle sue protesi, la maggiore essendo Hezbollah in Libano, tuttavia, prima di concentrarsi sul fronte libanese obbligando il gruppo sciita alle dipendenze di Teheran ad arretrare oltre il confine del fiume Litani e quindi ripristinando a nord le condizioni di sicurezza necessarie per il ritorno degli ottantamila sfollati israeliani che hanno dovuto lasciare le loro abitazioni, è necessario che l’operazione militare a Gaza si appresti alla sua conclusione.
Di fatto, la capacità operativa e politica di Hamas è stata quasi completamente disarticolata, e lo si è visto plasticamente dopo la morte di Hanyieh. Da Gaza su Israele sono arrivati solo una decina di razzi, tutti intercettati. La capacità reattiva di Hamas contro Israele è ormai ridotta all’inesistenza. A suggello del suo tracollo sarebbe sufficiente l’uccisione del morto che cammina, Yahya Sinwar.
Una guerra aperta con Hezbollah, con un eventuale intervento diretto in Libano, pone per Israele questioni ingenti di sicurezza e di logistica, ma risulta inevitabile alla luce della necessità israeliana di ricostruire la deterrenza al nord e di assestare all’Iran il colpo maggiore.
Nel suo discorso al Congresso del 24 luglio, Netanyahu ha insistito su un fatto fondamentale, il nemico principale di Israele e, al contempo, uno dei principali nemici degli Stati Uniti, è il regime di Teheran. La guerra in corso non ha nulla a che vedere con il “popolo palestinese”, non ha nulla a che vedere con un “genocidio” (accusa al limite del grottesco) nei suoi confronti, ma è una guerra atta a ridurre il raggio dell’influenza iraniana nella regione, per questo, è impensabile che, a un certo punto, dopo Hamas non sia il turno di Hezbollah.
Hamas e Hezbollah rappresentano due grandi errori politico-strategici di Israele, entrambi fatti crescere nell’ultimo ventennio, e rappresentano anche il fallimento di una intera concezione militare, quella fondata sul rifiuto dello scontro diretto e del dispiego massiccio di forze di terra, e interamente basata sul contenimento, rafforzato, in modo particolare, nel caso di Hamas da operazioni militari con obiettivi limitati.
Con Hezbollah, l’Iran ha pazientemente saputo costruire la più temibile forza integralista regionale e il fronte più pericoloso e potenzialmente distruttivo per lo Stato ebraico, appoggiato in scala minore da Hamas e oggi coadiuvato dagli Houti yemeniti. L’Iran, che si sta progressivamente avvicinando agli ordigni atomici. Su queste sue due protesi principali Israele, dopo il 7 ottobre, non può più permettersi di fare errori.
Salmo 83 - 7 ottobre e l’inimicizia contro Israele.
di Johannes Pflaum
SALMO 83
Canto. Salmo di Asaf. O Dio, non tacere;
non restare in silenzio e inerte, o Dio!
Poiché, ecco, i tuoi nemici si agitano rumorosamente,
e quelli che ti odiano alzano la testa.
Complottano contro il tuo popolo
e ordiscono trame contro quelli che tu proteggi.
Dicono: “Venite, distruggiamoli come nazione,
e il nome d'Israele non sia più ricordato”.
Poiché si sono accordati con uno stesso sentimento,
fanno un patto contro di te:
le tende di Edom e gli Ismaeliti;
Moab e gli Agareni;
Ghebal, Ammon e Amalec;
la Filistia con gli abitanti di Tiro;
anche l'Assiria si è aggiunta a loro;
prestano il loro braccio ai figli di Lot. [Pausa]
Fa' a loro come facesti a Madian,
a Sisera, a Iabin presso al torrente di Chison,
i quali furono distrutti a En-Dor,
e servirono di concime alla terra.
Rendi i loro capi simili a Oreb e Zeeb,
e tutti i loro prìncipi simili a Zeba e Salmunna;
poiché dicono: “Impossessiamoci
delle dimore di Dio”.
Dio mio, rendili simili al turbine,
simili a stoppia dispersa dal vento.
Come il fuoco brucia la foresta,
e come la fiamma incendia i monti,
così inseguili con la tua tempesta
e spaventali con il tuo uragano.
Copri la loro faccia di vergogna,
perché cerchino il tuo nome, o Eterno!
Siano delusi e confusi per sempre,
siano svergognati e periscano!
E conoscano che tu, il cui nome è l'Eterno,
tu solo sei l'Altissimo su tutta la terra.
Quando leggiamo il Salmo 83, vediamo trasparire la dolorosa storia di Israele, fino ai crudeli eventi del 7 ottobre 2023. Nel suo commento, Benedikt Peters ha così intitolato il salmo: "Dio altissimo, salvatore del suo popolo". Questo salmo parla dell'inimicizia delle nazioni contro Israele e di tutti i relativi tentativi di distruzione. Per dirla in termini contemporanei, parla di come il diritto all'esistenza di Israele e la memoria del popolo di Israele debbano essere cancellati. Ma alla fine del salmo, Dio si rivela come l'unico Dio, come l'Altissimo su tutta la terra e - se consideriamo il contenuto del salmo - come il Dio di Israele!
Non sappiamo esattamente quando questo salmo è stato composto da Asaf. Alcuni commentatori biblici lo collocano al tempo di Giosafat, quando Gerusalemme fu salvata da una coalizione nemica. Lo leggiamo in 2 Cronache 20, in cui Benedikt Peters vede eventi che fanno pensare a precedenti minacce per Israele. Non possiamo dirlo con certezza. In ogni caso, si tratta anche di un salmo salvifico-storico-profetico, dietro il quale si intravedono i tentativi di distruzione contro Israele e gli ebrei, e che alla fine si conclude con Dio che giudica i nemici e solo Lui viene esaltato. In altre parole, questo salmo si conclude con la salvezza di Israele e l'instaurazione del regno messianico su questa terra.
Sappiamo dai profeti che Dio ha sempre usato le potenze nemiche per giudicare la disubbidienza del suo popolo. Tuttavia, questo non ha mai giustificato le loro azioni e il male che hanno fatto. Che si tratti di Assiria, Babilonia o Roma, le stesse potenze nemiche sono cadute prima o poi sotto il giudizio di Dio. E anche se il popolo d'Israele si trova sotto il giudizio di Dio, il Dio vivente si definisce ancora il Dio d'Israele. Leggendo il profeta Geremia, ad esempio, vale la pena di prestare attenzione a questo nome di Dio, anche nei capitoli che trattano del giudizio sui nemici del popolo di Dio.
Nei versetti 7 e 8 si parla di tutte le nazioni che erano in inimicizia con Israele, a partire dalle peregrinazioni nel deserto. Pensiamo ad Amalek, alle nazioni intorno a Israele, fino alla grande potenza dell'Assiria, che in seguito, sotto Ezechia, disperse il regno del Nord e minacciò anche Giuda e Gerusalemme.
È importante notare l'obiettivo e la motivazione di queste potenze nemiche nei versetti 3-6. Consapevolmente o inconsapevolmente, il versetto 3 chiarisce che questa inimicizia e questo odio sono in ultima analisi diretti contro il Dio vivente. Nel versetto 6 leggiamo che hanno stretto un'alleanza contro Dio. Per questo motivo, nel versetto 4 progettano astuti attacchi contro il popolo di Dio e nel versetto 5 vogliono cancellare il nome di Israele. Dobbiamo sempre tenere presente che Dio ha legato indissolubilmente il suo onore su questa terra alla terra e al popolo d'Israele, e che alla fine della storia si rivelerà come Dio d'Israele (cfr. Isaia 37,20; 61,9; Ezechiele 36,23; 38,23).
Possiamo tenere presente una verità fondamentale della Bibbia.: Dio ama una umanità che gli è ostile e ha persino dato suo Figlio per la nostra salvezza, ma ci sono anche oggetti speciali dell'amore di Dio. Tra questi ci sono la terra e il popolo di Israele. Anche all'interno di Israele vediamo un altro oggetto speciale dell'amore di Dio. Nel Salmo 87:2 leggiamo: "Il Signore ama le porte di Sion più di tutte le dimore di Giacobbe".
Anche la sua chiesa, acquistata con il sangue, è uno degli oggetti speciali dell'amore di Dio. Lo leggiamo, ad esempio, in Efesini 5. Questo include ogni figlio di Dio salvato: Efesini 1:3-14. Ed è una verità fondamentale che tutti gli oggetti speciali dell'amore di Dio attirano l'odio e l'inimicizia di un'umanità ribelle e ostile a Dio. È da qui che nasce nel corso della storia l'inimicizia contro Israele, contro la chiesa confessante di Gesù e contro i seguaci di Gesù.
• PERCHÉ QUESTO ODIO E QUESTA INIMICIZIA CONTRO ISRAELE?
Come già detto, nei profeti il Dio vivente si riferisce ripetutamente a Se stesso come al Dio di Israele. Lo fa in modo del tutto indipendente dallo stato interiore e spirituale del suo popolo. Anche quando chiama il suo popolo al pentimento o lascia che arrivi il giudizio, si definisce il Dio di Israele per rendere evidente la sua santità. E ha legato indissolubilmente il suo onore su questa terra alla terra e al popolo di Israele. Questo si estende dall'elezione di Abramo fino al regno messianico millenario di Apocalisse 20.
C'è un'altra ragione per questo. Tutte le promesse sulla prima venuta di Gesù e sul suo ritorno in potenza e gloria sono inestricabilmente legate alla terra e al popolo di Israele. Si può riconoscerlo con particolare chiarezza nel profeta Zaccaria. In lui troviamo promesse che si sono letteralmente realizzate alla prima venuta di Gesù. La più nota è Zaccaria 9,9, che parla di Gesù che entra in Gerusalemme a dorso di un asino. In Zaccaria 12-14, la sua venuta in potenza e gloria è di nuovo inestricabilmente legata alla terra e al popolo d'Israele e alla questione di Gerusalemme. Se Satana riuscisse a distruggere il popolo d'Israele e a strappargli definitivamente la terra, Dio apparirebbe come un bugiardo incapace di mantenere le sue ultime promesse. Che le nazioni ne siano consapevoli o no, questi sono i motivi fondamentale del conflitto con Israele, e solo il Signore nel suo ritorno potrà porre fine a questo conflitto, come dice l'ultimo versetto del Salmo 83, affinché le nazioni riconoscano che solo Lui è il Signore.
Anche Apocalisse 12 va vista in questo contesto: la donna che lì compare è Israele che partorisce il bambino, il Messia, che viene inseguito dal drago e dal serpente. Satana fa di tutto per impedire l'adempimento delle promesse divine. E’ questo il vero sfondo di tutto l'antiebraismo nel corso della storia. Parlo appositamente di antiebraismo affinché sia chiaro di cosa si tratta. Il termine antisemitismo viene sempre di più utilizzato da ideologi di tutti i tipi. Tutti gli altri tentativi di spiegazione, siano essi sociologici, filosofici, storici o di altro tipo, alla fine sono destinati a fallire.
I tentativi di annientamento sono iniziati con il Faraone, con l'oppressione degli ebrei e l'ordine di uccidere i neonati in Esodo 1. Senza uomini e padri, un popolo cessa di esistere. Continuarono con l'attacco di Amalek a Israele all'inizio della peregrinazione nel deserto. Nel Libro di Ester troviamo un tentativo di distruzione totale da parte dell'agagita Haman. È interessante notare che era un discendente di Amalek.
Pensiamo al re Erode. Poiché Satana non riuscì a interrompere la linea della promessa che attraverso l'albero genealogico davidico porta a Gesù, fece di tutto per uccidere lo stesso Salvatore promesso attraverso l'infanticidio di Betlemme.
L'inimicizia contro gli ebrei e Israele continua nel corso della storia. Nel 135 l'imperatore romano Adriano rinominò la terra di Palestina e a Gerusalemme diede il nome di Aelia Capitolina. Non aveva preso la decisione di sterminare gli ebrei, come descritto nel Salmo 83:5, ma avrebbe voluto - consapevolmente o no - cancellare il ricordo del nome Israele.
Facciamo un grande salto avanti nella storia e arriviamo alla Shoah, quando i sinistri piani di sterminio di Hitler costarono la vita a oltre sei milioni di ebrei e lasciarono segni, danni e cicatrici profonde nei sopravvissuti. Possiamo capire davvero quello che Israele ha vissuto dalla fondazione dello Stato fino ai giorni nostri solo alla luce di questo sfondo biblico.
Con il raduno di Israele, lo spuntare delle foglie del fico - per riprendere l’immagine di Matteo 24:32 - è diventato inequivocabilmente chiaro che Dio sta realizzando le sue promesse e il suo piano di salvezza, e che le condizioni per il ritorno di Gesù e la salvezza di Israele sono presenti. Ecco perché il serpente e il drago (Apocalisse 12) fanno di tutto per distruggere il popolo d'Israele e strappargli la terra una volta per tutte.
L'odio e l'inimicizia nei confronti di Israele è sempre inimicizia nei confronti di Dio. Che gli individui ne siano consapevoli o no, è di secondaria importanza: è l'ostilità di un'umanità ostile a Dio. È interessante notare che ci sono molti contemporanei che non hanno mai avuto a che fare con Israele o con gli ebrei, ma se si nomina quel paese o quel popolo, spesso manifestano rabbia o rifiuto. E naturalmente questo atteggiamento è rafforzato anche dalla corrispondente copertura mediatica.
• L'ANNIENTAMENTO DELLA NAZIONE, LA CANCELLAZIONE DEL NOME DI ISRAELE E IL 7 OTTOBRE 2023
Quasi cinquant'anni dopo l'inizio della Guerra dello Yom Kippur, ha avuto luogo questo terribile attacco dell'organizzazione terroristica Hamas al sud di Israele.
Mentre la guerra dello Yom Kippur è iniziata nella massima festività ebraica, il 6 ottobre 1973, l'attacco terroristico del 7 ottobre ha avuto luogo nell'ultima festività della festa dei Tabernacoli, Shmini Azeret. Hamas non ha scelto la data a caso. Da un lato, un giorno festivo ha sempre un impatto sulle forze armate e sulla loro capacità di risposta in Israele; dall'altro, la data è stata deliberatamente scelta anche per commemorare l'attacco di 50 anni fa.
• UN DISASTRO CHE NON SI PENSAVA POSSIBILE
Nessuno pensava che quanto è accaduto il 7 ottobre con questo grave attacco terroristico dalla Striscia di Gaza fosse possibile. Dopo tutto, la Striscia di Gaza era sotto costante osservazione da parte di Israele e anche il confine era sottoposto a una pesante sorveglianza elettronica.
Questo fatto ha portato a numerose speculazioni, tra cui pensieri sulla falsariga di una pura teoria della cospirazione, del tipo: "Israele ha lasciato di proposito che tutto ciò accadesse per poter poi spianare Gaza". Queste speculazioni sono prive di qualsiasi base fattuale e dietro di esse è ancora una volta presente il vecchio schema antiebraico degli "ebrei cattivi" o della "cospirazione mondiale sionista".
L'idea che l'uomo possa o debba avere tutto sotto controllo non è, in linea di principio, un approccio biblico. Dobbiamo riconoscere due presupposti fondamentali. In primo luogo, il potere delle tenebre non può essere tenuto sotto controllo dalla sorveglianza elettronica o dalla raccolta di informazioni. In secondo luogo, c'è un Dio sovrano al di sopra di tutto che può dare saggezza e illuminazione, ma anche errore e cecità. Anche se è importante saper affrontare fatti e retroscena, come cristiani fedeli alla Bibbia dobbiamo stare attenti a non cadere preda di una visione del mondo in cui tutto può essere spiegato razionalmente e solo l'uomo controlla il proprio destino.
Nelle settimane successive al massacro, si è saputo che Israele aveva da tempo diverse indicazioni e riscontri di una possibile azione del genere. Ma ci sono diverse cose da tenere a mente.
La chiave delle scoperte dell'intelligence è sempre stata la valutazione e il giudizio delle informazioni. Già nel 1973, quando Israele si trovò sull'orlo della propria esistenza a causa dell'attacco subito, le informazioni e gli indizi disponibili furono valutati in modo errato. L'allora Presidente Chaim Herzog, che durante la sua permanenza nell'esercito israeliano ricoprì il grado di General Maggiore, scrisse nel 1975 un libro sulla guerra dello Yom Kippur, Decision in the Desert: The Lessons of the Yom Kippur War. In questo resoconto e analisi retrospettiva, dedicò un capitolo alle interpretazioni e alle analisi errate dei servizi segreti israeliani, con il titolo: "Hanno occhi ma non vedono" [Geremia 5:21, ndt]. Tragicamente, la stessa cosa si è ripetuta quasi esattamente 50 anni dopo.
Citazione da Israelnetz Magazin 1/2024:
«Il giornale -Yediot Aharonot parla di un “colossale fallimento a tutti i livelli” . Israel Hayom scrive che l'ottenimento del piano di invasione al più tardi nell'estate del 2022 avrebbe dovuto portare a un ripensamento. Conclude: "Per la maggior parte, questa è la storia di una catastrofe prevedibile, nata dal peccato di arroganza". »
Hamas è riuscito a ingannare Israele nonostante tutte le prove a disposizione. Hamas non ha affatto nascosto i suoi piani di terrore, ha svolto le sue esercitazioni in pubblico e ne ha persino diffuso le immagini. Per questo motivo Israele ha pensato che fosse soltanto polvere negli occhi, e non un vero e proprio piano d'attacco.
Israele non ha nemmeno scoperto quando il leader di Hamas Yahya Sinwar ha dato l'ordine di attaccare. Nonostante la sorveglianza, la comunicazione è avvenuta probabilmente attraverso canali segreti. Ci sono anche indicazioni che il monitoraggio in anticipo di Hamas sia stato trascurato, perché la situazione era stata completamente sottovalutata.
Un'ultima osservazione sul leader di Hamas, Yahaya Sinwar. Egli è stato imprigionato come terrorista in una prigione israeliana e nel 2011 è stato scambiato con il soldato israeliano Gilad Shalit insieme ad oltre 1026 altri prigionieri. Durante il periodo di detenzione in Israele, è stato sottoposto a un intervento chirurgico per rimuovere un tumore al cervello potenzialmente letale e ha ricevuto la riabilitazione come prigioniero. Dopo il massacro del 7 ottobre, i media hanno pubblicato una notizia sul medico israeliano che lo aveva operato con successo all'epoca e che ora deve fare i conti con questa situazione. In questo contesto, si pensa con orrore ai prigionieri criminali e terroristi che a quel tempo sono stati scambiati con ostaggi israeliani.
Il 7 ottobre Israele ha probabilmente ceduto anche all'errata valutazione che la crescente minaccia terroristica fosse localizzata in Cisgiordania - biblicamente parlando, in Giudea e Samaria. Anche un eventuale attacco dal Libano è stato considerato molto più probabile. A tal fine, alcune truppe israeliane sono state ritirate dal confine con Gaza e riassegnate alla Cisgiordania.
Inoltre, Israele potrebbe aver sopravvalutato la sorveglianza elettronica delle fortificazioni di confine di Gaza. Hamas ha prima preso d'assalto e distrutto il centro di sorveglianza sul confine e ha sparato sui relativi dispositivi elettronici, il che ha all’inizio ha lasciato Israele "cieco" in intere aree per quanto riguarda le violazioni del confine. Inoltre, le capacità terroristiche di Hamas sono state sottovalutate. Quando la guerra di Gaza sarà finita, in Israele si farà un'attenta valutazione di questo fallimento totale.
• IL SABBA NERO
Il massacro del 7 ottobre è una cesura nella storia del giovane Stato di Israele e dell'ebraismo mondiale. Dalla fine della Shoah non sono mai stati uccisi e massacrati in un giorno così tanti ebrei. E non in un luogo qualsiasi della terra, ma in Erez Israel, la patria e il rifugio ebraico. In questo contesto, va sottolineato che Hamas ha come obiettivo la distruzione e l’occupazione dell’intero Israele e anche l’uccisione di tutti gli ebrei.
Hamas definisce il suo attacco terroristico come "Operazione al-Aqsa Flood". Questo è un riferimento al cuore di Israele, il Monte del Tempio, che involontariamente richiama la coppa di stordimento di Gerusalemme in Zaccaria 12:2. Nelle prime ore del 7 ottobre, Israele è stato colpito da una pioggia di razzi provenienti dalla Striscia di Gaza. Sotto la copertura e la distrazione di questa pioggia di razzi, circa 3000 terroristi sono entrati in Israele nelle ore successive. L'infiltrazione è avvenuta via terra, via mare e dall'aria, anche con parapendii motorizzati.
La barriera di confine di Gaza, intesa da Israele come difesa contro il terrore, è stata violata in quasi 30 punti, permettendo un'infiltrazione del tutto incontrollata in Israele. Al seguito dei terroristi, anche numerosi civili di Gaza hanno attraversato il confine, saccheggiando i kibbutz e i villaggi, devastando e massacrando. Una ufficiale israeliana ci ha confermato questi eventi e ha raccontato che tracce del saccheggio erano chiaramente visibili sulla strada per Gaza, ad esempio sotto forma di frigoriferi rimasti lì. Ha anche detto che nell'equipaggiamento da combattimento dei terroristi uccisi gli israeliani hanno trovato piani e appunti su cui si trovavano dettagli precisi sugli abitanti dei kibbutz colpiti, inclusa la presenza di animali domestici. Queste informazioni probabilmente sono state fornite dai dipendenti dei kibbutz che provenivano dalla Striscia di Gaza.
È scioccante constatare che il sostegno ad Hamas tra la popolazione palestinese è cresciuto in seguito alle atrocità del 7 ottobre. In un articolo pubblicato il 15 dicembre 2023, la NZZ ha pubblicato un sondaggio in cui si mostra che il sostegno ad Hamas tra la popolazione è salito al 43% nella Striscia di Gaza e al 44% in Cisgiordania. Che l’attacco a Israele fosse giusto è stato affermato dal 57% della popolazione palestinese a Gaza e dall'82% in Cisgiordania. Secondo un altro sondaggio, a Gaza non era il 57% ma il 75% ad essere favorevole all'attacco terroristico.
Le unità terroristiche hanno raggiunto le città di Sderot e Ofaqim. In totale, si sono infiltrate in oltre venti città, kibbutz e basi militari. I kibbutz di Kfar Aza, Nachal Oz e Be'eri hanno subito veri e propri massacri. In alcuni altri luoghi, la difesa di emergenza è riuscita a formarsi in tempo e a prevenire il peggio, anche se in alcuni casi ciò non è avvenuto senza vittime.
Un altro massacro è avvenuto vicino a Re'im, dove si stava svolgendo il festival Psytrande Supernova Sukkot Gathering. Molte persone e soldati sono stati massacrati lungo la strada. Per quanto riguarda le atrocità commesse da Hamas, alcune delle quali includono mutilazioni e crimini sessuali mentre erano ancora in vita, citiamo come esempio il seguente rapporto di ideaSpektrum 48-2023 sulla quarantenne Mira Zoe Geller:
«La quarantenne lavora come cuoca in un hotel, in un sobborgo di Gerusalemme. Quel giorno voleva partire per il Supernova Festival vicino a Re'im, a circa cinque chilometri dalla Striscia di Gaza. I suoi amici stavano già festeggiando lì. Verso le sette del mattino riceve una videochiamata da un'amica. L'amica grida al telefono: "Ci stanno sparando! Ci stanno uccidendo!” Poi l'amica lascia cadere il telefono a terra e la trasmissione video è continuata. “Avrei voluto spegnere, ma non riuscivo a distogliere lo sguardo”. Geller ha visto e sentito i suoi amici mutilati e uccisi dai terroristi di Hamas. “Hanno tagliato tutto ciò che poteva essere tagliato”.
«364 persone sono state uccise al festival musicale. Le urla dei suoi otto amici perseguitano Geller ancora oggi. Come elabora questo orrore? La Geller si è buttata nel lavoro, ha iniziato una terapia contro il trauma e prende sonniferi per trovare in qualche modo la pace. “Nessuno dorme bene se ha vissuto questa esperienza”, dice. »
La suddetta ufficiale ci ha anche parlato dei corpi recuperati a Be'eri, che sono stati minati con bombe a mano e ordigni esplosivi. Alcuni dei corpi erano talmente bruciati che le unità di recupero non sono riuscite a trovarne i resti. Solo gli archeologi chiamati in seguito sono stati in grado di identificare diverse persone da alcuni piccoli pezzi di resti umani. Ci è stato anche detto che giorni dopo che un kibbutz era stato dichiarato sicuro, un terrorista vivo è uscito dal suo nascondiglio e fortunatamente si è arreso immediatamente.
Le atrocità che hanno avuto luogo il 7 ottobre possono essere spiegate solo come demonia e tenebre assolute. Hamas ha seppellito i corpi degli assassinati nei campi intorno al luogo del festival, per tenerli nascosti ai loro parenti e per aumentare il terrore psicologico nei loro confronti. Altri corpi sono stati addirittura portati nella Striscia di Gaza. Tra le vittime e i rapiti vivi c'erano e ci sono tuttora dei sopravvissuti all'Olocausto, il che fa rabbrividire.
Lo sfondo e l'odio demoniaco di queste atrocità possono essere spiegati soltanto con il Salmo 83:5: "Venite, distruggiamoli come nazione, e il nome d'Israele non sia più ricordato".
Quello che è successo in Israele il 7 ottobre ha traumatizzato Israele. Non c'è praticamente nessuno che non abbia perso conoscenti o parenti quel giorno o che non sia stato colpito in qualche modo. Ricordiamo anche i molti soldati israeliani che da allora sono stati uccisi nell'operazione antiterroristica "Iron Sword" a Gaza. Al momento della stampa, dal 7 ottobre sono stati uccisi circa 1500 israeliani, tra cui 574 soldati e ufficiali. Circa 130 ostaggi sono ancora nelle mani di Hamas.
Mia moglie ed io ci siamo particolarmente commossi per la morte di Uriia Bayer, ucciso come membro di un'unità speciale a Gaza. Conoscevamo personalmente lui e la sua famiglia e siamo stati amici dei suoi genitori Gideon e Nelli per molti anni. Come tutti i suoi fratelli, era nato in Israele e per loro era chiaro che, in quanto cittadini tedeschi in Israele, avrebbero prestato servizio militare per la sicurezza del Paese. La sua morte ha commosso tutto Israele, tanto che c'è stato persino un programma speciale sulla televisione israeliana. Come mai un cristiano tedesco dà la vita per Israele? L’associata testimonianza di Gesù Messia ha interessato tutta la stampa israeliana, dalla sinistra all'estrema destra.
Qui vorrei anche ricordare il confine settentrionale, dove migliaia di israeliani sono stati evacuati a causa degli attacchi terroristici e di un possibile grande attacco dal Libano. Anche i sopravvissuti all'Olocausto della casa di cura Zedakah di Maalot vivono nel bunker da molti mesi. A dire il vero il bunker è costruito meglio delle nude pareti di cemento come qui in Svizzera, ma un bunker è pur sempre un bunker. Che cosa significhi questo per i sopravvissuti all'Olocausto in età avanzata non si può capire. È anche un ulteriore onere per il personale.
Dal 7 ottobre, Israele ha subito 860 attacchi sul fronte settentrionale. Circa 2000 razzi sono stati lanciati contro Israele dal Libano e 30 dalla Siria. Dalla Striscia di Gaza sono stati lanciati circa 9.000 razzi e colpi di mortaio.
• IL DUBBIO RUOLO DELL'UNRWA (AGENZIA DELLE NAZIONI UNITE PER I RIFUGIATI PALESTINESI IN MEDIO ORIENTE)
I notiziari danno spesso l'impressione che le varie organizzazioni delle Nazioni Unite - in particolare l'UNRWA - siano agenzie di aiuto neutrali e che si occupano solo del benessere della popolazione civile palestinese. La realtà è che esiste un’unica organizzazione ONU di assistenza ai rifugiati per tutti i rifugiati del mondo. Si tratta dell'UNHCR. C'è poi un'altra organizzazione di assistenza che è solo per gli arabi palestinesi, l'UNRWA. Non esiste nessun'altra organizzazione di aiuto per nessun altro gruppo di popolazione o per nessun altro popolo al mondo. - Basti pensare alle tante guerre sanguinose in Africa, Afghanistan e altri luoghi negli ultimi decenni. Una cosa del genere non può che stupire.
Gli arabi palestinesi sono l'unico gruppo etnico delle Nazioni Unite il cui status di rifugiato è ereditario. Non lo vediamo da nessun'altra parte. Ecco perché ci sono già rifugiati palestinesi di quinta generazione. Inoltre, i contributi pro capite delle Nazioni Unite per i rifugiati sono di gran lunga i più alti al mondo.
Non sto cercando di minimizzare le sofferenze di Gaza o semplicemente di trascurare la popolazione - vogliamo pregare per la gente di Gaza. Tuttavia, dobbiamo riconoscere che non è Israele il principale responsabile delle sofferenze dei palestinesi, ma Hamas con i suoi attacchi terroristici, la sua rete terroristica e la sua propaganda antiebraica. Dobbiamo essere capaci di affermare chiaramente i fatti.
Non è una novità che le ambulanze della Mezzaluna Rossa siano talvolta utilizzate impropriamente per trasportare armi e terroristi. Anche Hamas e altre organizzazioni terroristiche palestinesi operano deliberatamente vicino alle strutture delle Nazioni Unite e ne fanno un uso improprio. L'uso improprio delle ambulanze è noto da oltre 20 anni e, al più tardi dall'operazione "Piombo Fuso" del 2006, tutti dovrebbero essere a conoscenza dell'uso improprio delle strutture delle Nazioni Unite.
Nel loro libro Nazioni Unite contro Israele, Alex Feuerherdt e Florian Markt hanno anche evidenziato il ruolo disastroso dell'UNRWA. L'organizzazione umanitaria di Gaza impiega circa 30.000 persone e i suoi legami personali con Hamas erano noti da molto prima del 7 ottobre. Inoltre, all'interno dell'organizzazione umanitaria vi sono già numerosi sostenitori e simpatizzanti di Hamas. Già durante la guerra di Gaza del 2014 sono stati trovati razzi nelle scuole dell'UNRWA.
Feuerherdt e Markt ricordano anche come nelle scuole dell'UNRWA si tengano cerimonie commemorative per i leader di Hamas uccisi o come gli insegnanti che vi lavorano si dedichino alla costruzione di razzi dopo il lavoro. Il materiale didattico cofinanziato dall'Europa è sempre intriso di antiebraismo. Si arriva persino al punto che le lezioni non rinunciano a ritratti e citazioni di Hitler o alla glorificazione del terrorismo contro Israele.
A Gaza City, l'esercito israeliano ha anche scoperto dei tunnel del terrore sotto la sede dell'UNRWA, che ovviamente nega con indignazione qualsiasi collegamento, anche se non c'è nulla di sorprendente in questo. Dopo tutto, questo tunnel riceveva l'energia dalla sede centrale. La direzione ha anche reagito al coinvolgimento di almeno dodici dipendenti UNRWA identificati nel massacro del 7 ottobre parlando di presunta ignoranza.
Il 19 febbraio, Israele ha diffuso un video di una telecamera di sorveglianza del Kibbutz Be'eri che mostra Faisal Ali Mussalem Al Naami, un assistente sociale dell'UNRWA, mentre carica un israeliano ferito o morto su un veicolo per trasportarlo a Gaza. Come sempre, l'UNRWA ha cercato di offuscare o negare tutto.
Anche l'abuso deliberato e tollerato degli ospedali di Gaza deve essere visto in questo contesto. A novembre, l'esercito israeliano ha trovato un sistema di tunnel terroristici sotto il grande ospedale AlSchifa di Gaza, oltre ad armi e altro materiale terroristico nell'ospedale stesso.
Nel numero di febbraio 2024, la rivista militare specializzata Schweizer Soldat ha pubblicato alcuni estratti di un interrogatorio del direttore dell'ospedale Kamal Adwan di Beit Lahia/Gaza, che è stato arrestato da Israele ed è anche un generale di Hamas:
Israeliano: Come ti chiami? AI-Kahlout: Ahmad Hassan Al-Kahlout Israeliano: Il tuo codice? AI-Kahlout: Abu Hassan Israeliano: Quale posizione? AI-Kahlout: Direttore dell'ospedale, dell'ospedale Kamal Adnan. Israeliano: Quando ti sei unito ad Hamas? AI-Kahlout: Dal 2010 Israeliano: Qual è il suo grado militare? AI-Kahlout: Generale Israeliano: Chi è venuto in ospedale militarmente? AI-Kahlout: Due generali, Mahdi Abu Asha e Mushir al-Masri. Entrambi avevano stanze con telefoni propri. Sono rimasti per 10 giorni, poi se ne sono andati. Israeliano: Perché erano in ospedale? AI-Kahlout: Non possono essere attaccati in ospedale. Israeliano: L'ospedale era un posto di comando? AI-Kahlout: Sì, l'ospedale è stato sotto il comando di Hamas per 10 giorni. Anche il governatore della polizia aveva delle stanze, così come gli ufficiali addetti agli interrogatori e la polizia speciale. Israeliano: Nell'ospedale c'erano altri appartenenti alle brigate di Hamas? AI-Kahlout: 16 quadri, medici, infermieri. A un certo punto c'erano 100 combattenti di Hamas. Hanno portato via gli ostaggi morti in ambulanza".
Naturalmente, la parte palestinese ha di nuovo negato tutto e ha cercato di insabbiare la vicenda.
Il 19 febbraio, il Meir Amit Intelligence And Terrorism Information Center di Gelilot ha riferito che i terroristi nascosti nell'ospedale Nasser di Khan Yunis sono stati arrestati, compresi quelli che avevano preso parte al massacro del 7 ottobre. Un veicolo rubato dal Kibbutz Nir Oz durante l'attacco terroristico è stato ritrovato sul terreno dell'ospedale. Inoltre, sono state trovate scatole sigillate ed etichettate di medicinali destinati agli ostaggi che non sono mai arrivati.
Questi sono solo alcuni esempi dell'abuso degli ospedali nella Striscia di Gaza. In questo contesto, è anche importante notare che le cifre riportate sulle vittime di presunti civili sono fornite dalle autorità sanitarie della Striscia di Gaza, anch'esse sotto il controllo di Hamas. Va notato che molti terroristi combattono in abiti civili e che Hamas ha già falsificato le cifre in passato. Tuttavia, tra le vittime degli attacchi di Hamas ci sono anche molti civili. Ma la manipolazione dei rapporti non deve essere trascurata.
• LA CONSERVAZIONE DI ISRAELE IL 7 OTTOBRE 2023
Non bisogna assolutamente banalizzare questo terribile massacro e le sue conseguenze. Ci sono tuttavia molti episodi in cui Israele è stato preservato nel bel mezzo di questo massacro. Tra questi, i tentativi falliti di Hamas di infiltrarsi in alcuni kibbutz e l’impedimento dell’avanzata dei terroristi verso l'interno del Paese.
I beduini del sud di Israele hanno soccorso persone e feriti durante questo massacro. La suddetta ufficiale ci ha detto che, nonostante le atrocità, molte bombe a mano lanciate non sono esplose.
La salvezza più grande, tuttavia, è stata probabilmente quella di evitare un attacco ancora più grande contro Israele. A febbraio, abbiamo ricevuto da Israele la notizia che Hamas aveva pianificato di assaltare la prigione di Shikma, vicino ad Ashkelon, con i terroristi di Nukhba e di liberare centinaia di prigionieri. Tutto era stato accuratamente pianificato e doveva essere supportato da un ulteriore lancio di razzi. Ma un errore di navigazione ha portato il gruppo di terroristi a Sderot e al kibbutz Netiv Ha'Asara, dove sono state uccise molte persone. A Sderot hanno occupato una stazione di polizia e ucciso 35 agenti e oltre 80 civili. Tuttavia, il previsto assalto alla prigione è fallito.
Ci sono indicazioni che era stato pianificato un attacco molto più grande che avrebbe cancellato l'esistenza di Israele: Mentre Hamas attaccava da sud, decine di migliaia di combattenti di Hezbollah avrebbero invaso Israele da nord. Allo stesso tempo, i centri sarebbero stati colpiti da missili balistici provenienti dall'Iran. Israele non sarebbe più stato in grado di mobilitare altre truppe. A causa del suo approccio ostinato e scoordinato e della sua impazienza, Hamas stesso potrebbe aver impedito questo piano molto più ampio.
Nonostante tutti i loro tentativi e piani, i nemici di Israele non riusciranno a spazzare via il suo popolo e la sua terra.
Il 7 ottobre è stato anche un punto di svolta. Ha reso evidente che Israele, nonostante tutta la sua presunta forza, era sull'orlo di una catastrofe ancora più grande. Questa catastrofe arriverà poi nel tempo della Grande Tribolazione, fino al momento in cui il Signore stesso interverrà, salverà il suo popolo e giudicherà i suoi nemici. Proprio come è scritto alla fine del Salmo 83.
Ciò di cui Israele ha bisogno oggi non è la saccenteria e i consigli dei sapienti, ma il sostegno della chiesa confessante di Gesù. Ha bisogno della consolazione che presenta il suo futuro, che è sempre legata alla testimonianza del Messia. Perché è Gesù stesso la consolazione di Israele, come si legge in Luca 2,25.
Come detto all'inizio, tutti gli oggetti speciali dell'amore di Dio sperimentano il rifiuto e l'odio di una umanità ostile a Dio. Israele non è ancora salvato e nemmeno ne è consapevole. Ma Dio arriverà comunque alla sua meta e realizzerà il suo piano.
"Allora conosceranno che tu solo sei l'Eterno e che sei l'Altissimo su tutta la terra" (Salmo 83,19).
(Nachrichten aus Israel, agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
"Attacco aereo contro auto". Israele uccide un altro leader di Hamas
Israele ha annunciato di aver colpito un veicolo che trasportava una cellula terroristica vicino alla città nel nord della Cisgiordania e di aver eliminato un leader locale delle Brigate Ezzedin al-Qassam, Haythem Balidi
Un altro raid di Israele e un'altra uccisione degna di nota. Nelle ultime ore le Forze di difesa israeliane (Idf) hanno annunciato di aver colpito un veicolo che trasportava una cellula terroristica nel corso di un'operazione a Tulkarem, in Cisgiordania. Secondo quanto riferito da Hamas, il blitz avrebbe neutralizzato quattro persone, tra cui Haythem Balidi, un leader locale delle Brigate Ezzedin al-Qassam, il braccio armato del gruppo filo palestinese. Ricordiamo che nei giorni scorsi a Tel Aviv sono stati attribuiti due blitz con i quali sono stati eliminati il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, e Fouad Shukr, detto anche Hajj Mohsin, vice di Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah. Il primo è saltato in aria mentre si trovava in una residenza a Teheran, in Iran, il secondo è stato invece colpito a Beirut, in Libano. Israele non ha ufficialmente rivendicato queste ultime uccisioni anche se i due movimenti, Hamas ed Hezbollah, non ha dubbi su chi sia l'autore dei due attacchi mortali contro i loro uomini.
• Un altro blitz di Israele Le Idf hanno riferito che dall'inizio della guerra, iniziata a ottobre, sono stati arrestati 4.400 sospettati in Cisgiordania, compresi 1.850 affiliati ad Hamas. Secondo quanto riportato dall'agenzia Sata, l'ultima operazione di Israele è avvenuta sulla strada tra Atil e Zeita, a nord di Tulkarem. Pare che l'auto centrata in pieno trasportasse Balidi e altri "combattenti della resistenza".
Amin Khader, direttore dell'ospedale governativo Thabet di Tulkarem, ha dichiarato che a seguito dell'attacco ci sono state cinque vittime complessive, tra cui il venticinquenne leader locale delle Brigate Ezzedin al-Qassam. Citando la Mezzaluna Rossa palestinese, il quotidiano Al-Manar, di proprietà di Hezbollah, ha invece fatto sapere che quattro persone sono state uccise nell'attacco al veicolo.
Altri media arabi hanno scritto che le truppe di terra israeliane stanno operando nella zona e in altre località della Cisgiordania. Al-Manar ha riferito che personale israeliano stava operando a Jenin, mentre Safa ha riferito che a Qaffin, a nord di Tulkarem, si sono verificati scontri armati tra le forze israeliane e i terroristi. Dal canto suo, l'esercito israeliano ha affermato di aver effettuato un attacco aereo contro una cellula militante attorno alla città di Tulkarm, mentre i media di Hamas hanno informato che un veicolo che trasportava combattenti era stato colpito e che uno dei comandanti delle sue brigate del posto era rimasto ucciso.
• Raid chirurgici Le tensioni in tutta la regione sono aumentate vertiginosamente questa settimana dopo l'assassinio del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, avvenuta a Teheran il giorno dopo che un attacco a Beirut aveva ucciso il comandante militare di alto rango di Hezbollah Fuad Shukr. La morte di Haniyeh fa parte di una crescente serie di omicidi di personaggi di spicco del gruppo filo palestinese.
Nel frattempo Israele sta ultimando gli accordi con gli alleati per formare una nuova coalizione che, come accaduto lo scorso aprile, possa intercettare gli attacchi che l'Iran e Hezbollah hanno annunciato per vendicare le uccisioni dei citati Haniyeh e Shukr.
Secondo l'emittente israeliana Canale 12, indicando che gli Stati Uniti, il Regno Unito, gli Stati del Golfo, l'Egitto e la Giordania sono pronti ad aiutare a intercettare missili e droni qualora venissero lanciati dalla Repubblica islamica e dal Libano.
L’attesa della vendetta iraniana mostra la retorica inaffidabile e subdola di chi nega l’evidenza quando si parla dei regimi guidati da boia fanatici
di Giuliano Ferrara
Il senso della realtà in occidente tende a nascondersi dietro al senso comune umanitario e giurisdizionale e ne approfitta per scomparire. Formule come rappresaglia, omicidio mirato, invasione dello spazio sovrano, diritto di autodifesa per il regime iraniano ai sensi dell’articolo 51 della carta dell’Onu (Guterrez) accompagnano l’attesa di un ennesimo atto di guerra dei mullah e dei loro alleati di molti fronti contro un paese democratico che lotta per sopravvivere. I razzi di Hamas o di Hezbollah non colpiscono uno stato sovrano, un popolo costretto a lasciare le sue città, non sono trattati altro che come atti di resistenza arabo-palestinese, e la prospettiva di una reazione coordinata e multipla dell’Iran ai colpi del Mossad, sostenuta da un asse russocinese, è considerata un problema geopolitico. Tutto è inquadrato da esperti e autorità sotto la lente della dialettica tra escalation e de-escalation, si fa la conta delle scaramucce e delle impertinenze belliche in modo infantile e primitivo, come nel gioco della battaglia navale. E l’uomo nero non è mai l’Ayatollah Khamenei, con la sua vasta banda di sicari, è sempre Netanyahu, il premier israeliano che vuole prolungare la guerra e se ne infischia della sorte degli ostaggi, fino al punto che ormai sembrano suoi ostaggi e non persone sequestrate da Hamas, per restare al potere (bum!).
Non può essere una questione di valori. Lo scambio tra i dissidenti e gli scrittori occidentali e i killer del Cremlino ha offerto a tutti una tavolozza di colori molto vivida per giudicare della differenza che ritorna tra mondo libero e mondo autocratico. Le immagini di Israele diviso politicamente e democraticamente ma unito per l’essenziale nella ricerca di una soluzione strategica di convivenza attraverso la diplomazia di pace e cooperazione araba e la necessaria opera di sradicamento di organizzazioni violente e regimi nichilisti che perseguono l’annientamento dell’entità sionista sono chiarissime, impossibile non vederle, specie a contrasto con lo spirito di vendetta e di oltranzismo antiebraico coltivato cerimonialmente con grande pompa da bande e regimi nemici. E allora, di che cosa si tratta? Perché dopo la strage degli atleti israeliani a Monaco la caccia per ogni dove e in ogni modalità di ritorsione e guerra agli assassini ha goduto di un favore epico in occidente, fino ai fasti di Spielberg e di Hollywood, e oggi invece pesa sulle eliminazioni del nemico peggiore e più nero il sospetto del fanatismo e della violazione del diritto sugli stessi che fecero giustizia allora e vogliono giustizia oggi? Perché cadendo a Entebbe il fratello di Netanyahu fu eroe e i suoi emuli di oggi sono trattati come pericolosi fautori dell’escalation?
• Israele, l’Iran, il senso della realtà smarrito Il senso della realtà, si diceva, è finito chissà dove. Era più facile riconoscere la verità della guerra quando si trattava di carri armati tra le dune, di territori contesi sulle alture strategiche, di generali e politici che tenevano alta la memoria di un popolo martoriato nella Shoah e deciso al suo “mai più”, magari con la benda su un occhio.
Israele era il popolo di Exodus, si sentivano fraterni i dialetti e le inflessioni linguistiche degli immigrati e costruttori di una nazione rifugio, di uno stato-guarnigione pionieristico, con parlamento e alta corte e sviluppo a marce forzate e libertarismi sociali nella trama dei diritti, e il rifiuto arabo era quello che era, era il rigetto della pace, della sistemazione duratura dell’area mediorientale, della legittimità di una nazione per gli ebrei e degli ebrei. Ora la tecnologia e la disparità di potere di fuoco, e di mira, di Tsahal sono percepite come il simbolo di un’ingiustizia ai danni dei poveri, dei vulnerabili, degli innocenti, che hanno diritto a una riparazione dei tribunali e dell’opinione benpensante. Ora la realtà della guerra, mai così evidente, mai così dispiegata, altro che guerra a pezzi, altro che escalation e deescalation, è seppellita sotto una retorica inaffidabile subdola, che nega l’evidenza. Per questo aspettiamo come un evento geopolitico inevitabile la vendetta dei cattivi, pronti molti a tifare per loro, e, se non fosse per la presenza di un certo numero di portaerei americane nel Mar Rosso e nel Mediterraneo, saremmo, almeno noi europei, pronti ad assistere allo sfacelo di Israele e al tragico macello delle sue speranze e resistenze per mano di regimi guidati da boia fanatici.
Spesso i telegiornali parlano di "coloni violenti" in Cisgiordania, etichettandoli come radicali ed estremisti che avrebbero commesso atti di violenza contro i palestinesi. Ma è accurata questa rappresentazione?
Per approfondire la realtà dei fatti e capire meglio chi vive nell'area di Giudea e Samaria, abbiamo parlato con Yossi Dagan, capo del Consiglio regionale della Samaria. Ecco il suo punto di vista sulla questione (in inglese)
(Christians for Israel International, 2 agosto 2024)
“La guerra nel nord d’Israele ha causato enormi perdite all’habitat animale”: questo l’allarme che ha lanciato Rona Nadler Valancy, capo del Keren Kayemeth LeIsrael – Jewish National Fund Agamon Wildlife Rehabilitation Center. Il Wildlife Rehabilitation Center si occupa di curare la fauna selvatica ferita della Galilea e del Golan, la riabilita e la rilascia di nuovo in natura. La ricercatrice ha spiegato che gli incendi e le distruzioni causate dai missili di Hezbollah e dagli attacchi dei droni si sono protratti fino alla stagione riproduttiva di molti animali, che è quasi finita.
“Stiamo avendo ingenti perdite nei siti di nidificazione – spiega Nadler Valancy. – Quindi, mentre, ad esempio, gli uccelli adulti possono sfuggire agli incendi volando via, ci sono nidiacei piccoli e persino pulcini che non hanno la capacità di sfuggire dagli incendi. Purtroppo muoiono tutti”. Per quanto riguarda invece la popolazione dei rettili nel nord il bilancio è disastroso. La popolazione è stata completamente devastata, perché i rettili si muovono troppo lentamente per sfuggire agli incendi. Anche i piccoli mammiferi come i ricci sono suscettibili agli attacchi. “Molti animali che riescono a fuggire dagli attacchi, una volta tornati nel loro habitat lo trovano completamente distrutto” ha aggiunto la ricercatrice.
Nadler Valancy ha spiegato poi come le perdite dovute agli incendi rappresentino un problema importante per Israele. La ricercatrice ha citato alla stampa israeliana il caso di una tartaruga il cui guscio è stato gravemente ustionato dal fuoco di Hezbollah. Fortunatamente il guscio è sopravvissuto ed è stato spedito ad un centro di riabilitazione nel centro di Israele. Tuttavia, a causa della guerra, la popolazione israeliana nel nord Israele è nettamente diminuita per questo gli animali feriti vengono portati sempre meno al Centro di riabilitazione della fauna selvatica per le cure. “Anche i veicoli dell’esercito sono un problema – ha aggiunto la ricercatrice – Muovendosi parecchio di notte, possono causare incidenti alla fauna selvatica”.
Yaron Charka, capo ornitologo del KKL-JNF ha confermato che la guerra nel nord ha influenzato negativamente la fauna in Israele. “Non sempre conosciamo le cause definitive, ma posso dire che nel Parco Naturale e Ornitologico di Agamon Hula-JNF ci sono purtroppo molti meno uccelli rispetto agli anni precedenti”. Charka ha spiegato che in un recente esperimento, condotto in Ucraina su aquile anatraie maggiori, i ricercatori hanno collegato dispositivi GPS agli uccelli. Attraverso il GPS è risultato chiaro come le loro traiettorie di volo cambiassero per evitare le aree di battaglia. Una cosa analoga sta succedendo nell’ultimo periodo nel nord dello Stato ebraico. “Molti degli uccelli stanno perdendo un’intera generazione di pulcini”.
Il servizio antincendio del JNF – che comprende 26 vetture dei pompieri e 300 dipendenti che lavorano ogni giorno per la salvaguardia degli animali – ha partecipato attivamente allo spegnimento degli incendi boschivi in tutto il nord di Israele causati da razzi e droni di Hezbollah. Il sistema antincendio del KKL – JNF opera in piena collaborazione con le forze di sicurezza, la polizia, l’IDF, le autorità locali, le squadre di emergenza, i vigili del fuoco e i servizi di soccorso e l’Autorità per la Natura e i Parchi. Inoltre, i forestali del KKL-JNF sono impegnati ormai da mesi nella manutenzione delle strade e dei punti di accesso in tutto il nord, tagliando alberi e cespugli per consentire ai vigili del fuoco di raggiungere rapidamente le aree incendiate da razzi e droni. “Rinnovare e curare le foreste danneggiate – dice Charka – può aiutare a migliorare le aree in cui ci sono uccelli, anche se ci vorranno molti anni affinché tutto torni come prima. Quando parti della foresta vengono bruciate, ci vogliono decenni prima che gli alberi tornino alle loro dimensioni originali” ha concluso Charka.
Un rabbino britannico è stato arrestato martedì scorso in Irlanda per aver eseguito una circoncisione su un bambino. L’episodio è avvenuto in una residenza nella periferia di Dublino. L’European Jewish Association (EJA) ha immediatamente denunciato l’arresto come un atto inaccettabile contro la libertà religiosa, evocando dolorosi ricordi del periodo nazista e di epoche buie in cui la libertà del popolo ebraico era brutalmente negata.
Il Rabbino Menachem Margolin, presidente dell’EJA, ha lanciato un appello urgente al Presidente d’Irlanda, Michael D. Higgins, al Primo Ministro Simon Harris e al Presidente del Parlamento irlandese per il rilascio immediato di Rabbi Yonathan Avraham, Mohel certificato, nonché esperto riconosciuto con decenni di esperienza, arrestato durante una cerimonia religiosa a Dublino. La polizia irlandese ha fatto irruzione nella casa dove si svolgeva il rito, senza offrire alcuna possibilità di cauzione.
Margolin ha dichiarato che l’arresto invia un chiaro messaggio: gli ebrei non sono più i benvenuti in Irlanda chiedendo che il Mohel venga rilasciato prima ancora che inizi lo Shabbat di venerdì sera.
Rabbi Avraham, padre di dieci figli, opera legalmente in Inghilterra e ha praticato la circoncisione in tutta Europa. La sua detenzione senza cauzione ha suscitato un forte sdegno, soprattutto nelle comunità ebraiche, in un periodo storico come l’attuale in cui l’antisemitismo è in costante crescita. «La circoncisione non è un crimine, ma un comandamento che la fede ebraica segue da oltre 3000 anni – ha dichiarato Rabbi Margolin –. L’ultima volta che qualcuno è stato arrestato per questo motivo è stato sotto i nazisti, le cui leggi iniziali erano mosse da un odio cieco e irrazionale verso il popolo ebraico. È sconvolgente che oggi, in Irlanda, si ripeta una simile ingiustizia».
Non solo: va sottolineato che la pratica della circoncisione è riconosciuta anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e adottata da molte altre religioni. Circa il trenta percento di uomini nel mondo, e non solo gli ebrei, sono circoncisi, un fatto che testimonia la sua accettazione globale e i benefici per la salute riconosciuti. Non ultimo, la circoncisione potrebbe salvare milioni di persone dalla morte per malattie e infezioni.
• Una brutta storia La corte distrettuale di Dublino ha formalmente accusato Rabbi Avraham di aver eseguito una circoncisione senza la dovuta registrazione medica. La detective Garda Megan Furey ha riferito che, durante l’arresto, il rabbino era vestito con una tunica bianca, guanti blu e teneva in mano un bisturi. Ha trovato un neonato sul fasciatoio e ha constatato che un altro bambino era già stato circonciso. Nonostante l’esperienza e la formazione di Rabbi Avraham, la polizia ha insistito per la sua detenzione, citando la gravità del reato e il rischio di fuga.
Questo arresto ha scatenato una serie di reazioni indignate. Rabbi Margolin ha sottolineato come l’arresto violi il diritto fondamentale alla libertà di religione e umili i genitori coinvolti, suggerendo che non si preoccupano dei loro figli. «Tutti quei genitori che hanno circonciso i loro figli, hanno subito la stessa procedura loro stessi e ovviamente non l’avrebbero fatta se comportasse danni fisici o mentali ai neonati, soprattutto un Mohel come Rabbi Yonathan che passa molti anni di studio e formazione prima di essere autorizzato a praticare. Non siamo barbari».
Nel corso dell’udienza, l’avvocato difensore Tertius Van Eeden ha cercato di evidenziare la legittimità delle azioni di Rabbi Avraham, sottolineando la sua appartenenza alla Initiation Society e la sua vasta esperienza. Tuttavia, il giudice ha negato la cauzione, rimandando il caso alla Corte distrettuale di Clover Hill il 6 agosto.
Il rabbino Margolin ha inoltre rivolto un appello al Presidente dello Stato di Israele, Isaac Herzog, il cui nonno è stato rabbino capo d’Irlanda, chiedendogli di collaborare questa mattina con i capi del governo irlandese per l’immediata liberazione del Mohel.
L’arresto di Rabbi Avraham non è solo un episodio scioccante, ma un chiaro sopruso contro la libertà religiosa. Questo caso mette in luce una preoccupante interferenza delle istituzioni nelle pratiche religiose, evocando i peggiori momenti della storia. La società moderna non può tollerare che diritti millenari vengano calpestati in nome di leggi mal interpretate. È tempo di chiedersi: fino a che punto le istituzioni sono disposte a spingersi nella repressione della diversità culturale e religiosa? Questo arresto non solo danneggia un individuo e una comunità, ma mette a rischio i valori fondamentali di una società libera e giusta.
L'ayatollah prega sulla bara di Haniyeh e prepara la vendetta: le compagnie aeree si cautelano e cancellano i voli su Tel Aviv. Intanto lo Stato ebraico conferma l'uccisione del capo militare degli jihadisti: «C'è il dna»
di Stefano Piazza
Ieri si sono svolti in Iran i cortei funebri per reclamare vendetta in seguito alla morte del leader di Hamas Ismail Haniyeh, avvenuta lo scorso 31 luglio a Teheran in un raid. Il capo jihadista era arrivato il 30 luglio nella capitale per partecipare alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente Masoud Pezeshkian, che aveva incontrato insieme alla guida suprema iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei. Attraverso qualificate fonti di intelligence si è appreso che Haniyeh dopo aver avuto numerosi incontri con i leader iraniani intorno alle 2 di notte ora locale (mezzanotte e mezza in Italia), insieme alla sua scorta e alla sua guardia del corpo si era diretto in una residenza riservata a veterani di guerra e ufficiali dei pasdaran, nel Nord di Teheran, come ha riferito l'agenzia di stampa statale Irna. Non appena è entrato nella stanza, «un proiettile guidato aviotrasportato» ha colpito la sua stanza uccidendo lui e la sua guardia del corpo.
Inevitabili come sempre altre ricostruzioni (inverosimili) come quella New York Times che ha scritto che il leader jihadista è morto a causa «di una bomba nascosta due mesi fa», quando c'è il video nel quale si vede il missile che centra la camera con all'interno Haniyeh. In ogni caso sorprende come il capo politico di Hamas abbia deciso di lasciare il Qatar dove era al sicuro per andare in Iran dove la sicurezza fa acqua da tutte le parti, come visto nei ripetuti attacchi dell'Isis e le frequenti operazioni mirate degli israeliani; una su tutte quella del novembre 2020 quando fu assassinato Mohsen Fakhrizadeh, uno dei principali scienziati nucleari iraniani, ritenuto da Israele e Stati Uniti la mente dietro ai progetti dell'Iran per sviluppare un'arma nucleare.
Per tornare ai funerali solenni di ieri, Khamenei, che ha più volte scrutato il cielo con sguardo preoccupato, ha condotto le preghiere per Haniyeh prima della sua sepoltura in Qatar, dopo aver minacciato precedentemente una «dura punizione». Al temine della funzione il capo di Stato maggiore dell'esercito iraniano, Mohammad Bagheri, ha affermato a Mehr: «Devono essere adottate varie azioni e i sionisti si pentiranno di sicuro. Stiamo studiando il modo di vendicarci, questo succederà sicuramente. Israele la pagherà cara». Intervenuto da remoto al funerale del comandante in capo degli Hezbollah Fuad Shukr, ucciso in attacco missilistico israeliano martedì scorso a Beirut, il leader del Partito di Dio Hassan Nasrallah ha evocato la vendetta, definita «inevitabile»: «Diversi Paesi hanno chiesto a Hezbollah di non rispondere all'attacco israeliano. L'Asse della Resistenza combatte con rabbia, saggezza e coraggio e in questo senso stiamo cercando una risposta reale e molto calcolata. Siamo di fronte a una battaglia importante e siamo entrati in una nuova fase, che supera la questione dei fronti di supporto». Nasrallah ha persino negato che siano stati gli Hezbollah a lanciare il missile caduto sul campo da calcio Majdal Shams (Nord di Israele) dove sabato scorso sono morti 12 tra bambini e adolescenti drusi.
Israele attende la risposta dell'Iran (così come le più importati compagnie aeree che stanno cancellando i voli su Ho Stato ebraico}, e dei suoi alleati che quasi certamente agiranno insieme in un attacco coordinato. Tuttavia, i rischi sono molteplici per Teheran perché è certo che se la risposta sarà sproposita, interverranno gli Stati Uniti, come dichiarato il 30 luglio dalla portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale Usa Adrienne Watson: «Il nostro impegno per la sicurezza di Israele è ferreo e incrollabile contro tutte le minacce sostenute dall'Iran, tra cui Hezbollah libanese». Benyamin Netanyahu si è incontrato nel pomeriggio nella base Kirya a Tel Aviv con il leader dell'opposizione Yair Lapid per fornire un aggiornamento sulla situazione della sicurezza. Successivamente ai media ha affermato: «Israele è a un altissimo livello di preparazione per qualsiasi scenario, sia in difesa che in attacco. Esigeremo un prezzo molto alto per qualsiasi atto di aggressione contro di noi da qualsiasi arena». In serata invece ha parlato telefonicamente con Joe Biden con il quale ha discusso dei recenti eventi.
Nel giorno dei funerali di Ismail Haniyeh e Fuad Shukr e l'annuncio della morte del comandante iraniano delle forze aerospaziali dell'Irgc, Amir Ali Hajizadeh, assassinato in Siria, le autorità israeliane hanno confermato che Muhammad Deif, vice del capo militare di Hamas Yaya Sinwar, è stato ucciso il 13 luglio scorso in un attacco aereo israeliano nel Sud della Striscia di Gaza come confermato dall'Idf. Deif, 58 anni, comandante delle Brigate Izz al-Din al-Qassam per oltre due decenni, è stato a lungo una delle figure terroristiche più ricercate da Israele. È stato uno degli ideatori dell'attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre, il più mortale nella storia del Paese. Hamas ha però smentito la notizia attraverso Mahmoud al-Mardawi, uno dei leader del gruppo, che ha affermato ai media libanesi vicini a Hezbollah che Deif «sta bene e sta seguendo le informazioni israeliane sulla sua uccisione». Peccato che gli israeliani abbiano il suo dna.
Decine di caccia israeliani pronti sulle piste, pioggia di razzi sulla Galilea
'Idf e aviazione preparati sia alla difesa che all'attacco'. Gli Houthi minacciano una risposta militare
L'esercito e l'aviazione israeliani sono pronti alla difesa ma anche all'attacco": lo ha riferito la tv israeliana Canale 12. Intanto gli Houthi dello Yemen promettono una "risposta militare" alla "pericolosa escalation" provocata da Israele. Il canale televisivo saudita "Al-Hadth" ha riferito del lancio di "una raffica di razzi dal Libano verso gli insediamenti della Galilea" in Israele. In precedenza erano stati attivati allarmi aerei in numerosi insediamenti nella zona. Anche al Jazeera ha riferito che le sirene hanno suonato in 9 città della Galilea occidentale, al confine con il Libano, dopo due giorni di calma sul fronte settentrionale in seguito all'assassinio del leader di Hezbollah Fouad Shukr nel sobborgo meridionale di Beirut. Il corrispondente della tv ha confermato il lancio di missili dal Libano verso posizioni israeliane nella Galilea occidentale.
Il movimento libanese Hezbollah ha annunciato di avere lanciato 'decine' di missili sul nord di Israele. Da parte israeliana, il portavoce dell'Idf, le forze armate dello Stato ebraico, ha reso noto che cinque missili sono stati lanciati dal Libano sulla Galilea e che due di questi sono stati intercettati. Lo riporta Ynet Funerali di Haniyeh a Teheran, l'Iran prepara l'attacco - Lo shock, la frustrazione, la sete di vendetta. Teheran, in un'atmosfera cupa, si è tinta di nero come le tuniche degli ayatollah per celebrare solennemente i funerali di Ismail Haniyeh, il leader politico di Hamas ucciso dagli israeliani in un blitz condotto nella capitale iraniana, forse addirittura con una bomba nascosta due mesi fa nella casa in cui era ospite. Il colpo è stato talmente plateale da costringere la Repubblica islamica ad annunciare una risposta adeguata, ed i preparativi per un attacco sono effettivamente scattati: il regime ha chiuso lo spazio aereo ed ha riunito le milizie alleate della regione per stabilire le modalità di rappresaglia contro lo Stato ebraico. Che nel frattempo si prepara ad ogni scenario, anche il peggiore, blindandosi. Le esequie di Haniyeh hanno richiamato migliaia di persone a Teheran. Nella sede dell'Università, la Guida suprema Ali Khamenei ha recitato la preghiera per i defunti davanti alle bare del leader ucciso e della sua guardia del corpo, ricoperte dalla bandiera palestinese. Alla presenza di tutto l'establishment iraniano, dal presidente Massoud Pezeshkian al capo dei Pasdaran, Hossein Salami. Poi è partita la processione con i due feretri trasportati per le strade della città su un camion per il saluto della popolazione, ed al termine della cerimonia la salma di Haniyeh è stata trasferita in Qatar, da dove dirigeva l'ufficio politico di Hamas. Il lutto ha rappresentato solo una parte della convulsa giornata in Iran.
"Stiamo studiando il modo di vendicarci, succederà sicuramente", ha avvertito il capo dello Stato maggiore dell'esercito Mohammad Bagheri, all'indomani dell'ordine di Khamenei di colpire direttamente Israele, secondo quanto ha riportato il New York Times. Il primo passo è stato un confronto con gli alleati già attivi nel destabilizzare Israele sullo sfondo della guerra a Gaza. Un funzionario ha parlato di una riunione per fare una "valutazione approfondita sul modo migliore e più efficace per vendicarsi del regime sionista". Alla riunione hanno partecipato le milizie yemenite degli Houthi, quelle irachene, i palestinesi di Hamas e della Jihad. E naturalmente Hezbollah, appena scottato dall'assassinio a Beirut del comandante Fuad Shukr, ritenuto il braccio destro di Hassan Nasrallah. Proprio il leader del Partito di Dio, in un discorso trasmesso ai funerali del suo luogotenente, ha detto che la "risposta" a Israele sarà "inevitabile". Con il doppio attacco che ha violato le capitali di Libano e Iran, lo Stato ebraico "ha oltrepassato la linea rossa", ha accusato la guida libanese sciita, affermando che si è entrati "in una nuova fase" della sfida al nemico di sempre. Il cosiddetto asse della resistenza, secondo diversi analisti e fonti interne, sta valutando due scenari: una risposta simultanea da parte dell'Iran e dei suoi alleati o azioni singole condotte da ogni fazione. Ma l'obiettivo sarebbe semplicemente quello di indurre Israele a non spingersi oltre, e non di scatenare una guerra totale. In questa chiave i precedenti ricordano che lo scorso 13 aprile, in risposta ad un raid sul proprio consolato a Damasco, Teheran aveva lanciato un attacco senza precedenti in territorio israeliano, rivelatosi tuttavia simbolico. Avvertendo prima gli alleati regionali, inclusa la Turchia (e quindi gli Usa, alleati Nato) e annunciando il raid diverse ore prima dell'arrivo dei missili sugli obiettivi: non a caso intercettati quasi tutti, grazie anche all'aiuto degli americani e di altri Paesi. Israele comunque prende sul serio le minacce. Nel nord, al confine con il Libano, sono scattate misure straordinarie di sicurezza. E decine di caccia, come ha riferito la tv Canale 12, sono già sulle piste di decollo "pronte alla difesa ma anche all'attacco". "Siamo ad un livello molto alto di preparazione per qualsiasi scenario, sia difensivo che offensivo", ha confermato il premier Benyamin Netanyahu prima di parlare al telefono con Joe Biden per fare il punto. I timori di una guerra su vasta scala agitano anche l'Europa. Sempre più Paesi hanno sospeso i voli per Beirut e raccomandato ai connazionali di evitare in Libano. Oggi la compagnia tedesca Lufthansa ha annunciato di aver congelato i collegamenti con Tel Aviv fino all'8 agosto.
Martedì 30 luglio, il primo ministro italiano Giorgia Meloni ha invitato Israele a non cadere nella “trappola” della ritorsione, dicendosi “molto, molto preoccupata” per la situazione in Libano e per il rischio di un’escalation regionale.
Come riportato dal JPost, parlando durante una visita ufficiale in Cina, Meloni ha affermato che la comunità internazionale dovrebbe continuare a inviare messaggi di moderazione e che la Cina potrebbe aiutare in questi sforzi, avendo “solidi legami” con l’Iran e l’Arabia Saudita.
Per comprendere le affermazioni di Meloni dobbiamo esaminare una serie di casi accaduti di recente.
Innanzitutto, guardare la tempistica: il 26 luglio l’agenzia di stampa Reuters ha rivelato che l’Italia ha deciso di nominare un ambasciatore in Siria, diventando la prima nazione del G7 a rilanciare la sua missione diplomatica a Damasco. Questa è davvero una questione preoccupante.
Va tenuto presente che la Siria fa parte del cosiddetto “Asse della resistenza” ed è un importante snodo per le attività iraniane e di Hezbollah contro lo Stato ebraico; pertanto, il territorio siriano è spesso preso di mira dall’aeronautica israeliana.
In secondo luogo, lo scorso aprile, il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha rilasciato alcune dichiarazioni molto preoccupanti subito dopo l’aggressione dell’Iran contro Israele con oltre 300 missili e droni:
“Gli iraniani ci hanno assicurato che i nostri soldati italiani nella zona saranno rispettati”. Lo ha dichiarato il ministro degli Esteri e vicepremier Antonio Tajani a Stasera Italia su Rete4.
“Il contingente italiano in Libano è sotto l’egida dell’Onu, è in condizioni di essere protetto, non credo ci siano pericoli né per i soldati italiani né per i cittadini italiani in Israele e Iran” ha spiegato Tajani, che ha riferito che l’unità di crisi della Farnesina non ha ricevuto segnalazioni di italiani a Gerusalemme, Amman e Teheran. Quanto agli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso, il ministro ha spiegato come gli sia stato assicurato che “saranno attaccate solo le navi che portano armi in Israele”.
Considerando che la missione europea anti-Houthi “Aspides” nel Mar Rosso è guidata da Italia e Grecia, tali affermazioni sono chiaramente problematiche. Inoltre, le truppe italiane hanno davvero bisogno delle rassicurazioni dell’Iran per operare in Libano? Questo ovviamente non fornisce un’immagine positiva per le forze armate italiane.
Il governo italiano è preoccupato per i suoi 1200 soldati presenti sul suolo libanese come parte della missione Unifil; tuttavia, questa preoccupazione non può andare a discapito della sicurezza di Israele. Se siamo arrivati al punto in cui l’Italia deve preoccuparsi della sicurezza dei suoi soldati in Libano, allora la missione Unifil non funziona e il ministro della Difesa italiano, Guido Crosetto, ha ragione quando dice che l’ONU dovrebbe riflettere sui risultati da essa conseguiti e sulla necessità di ridefinire una strategia.
Un terzo punto che merita di essere esaminato è la dichiarazione rilasciata dal ministro degli Esteri italiano Tajani dopo la strage del 7 ottobre, in merito alla cessazione delle spedizioni di armi a Israele in quanto “preoccupato che possano essere utilizzate per crimini di guerra”, come già riportato dal Times of Israel: “Abbiamo deciso di non inviare più armi a Israele, quindi non c’è bisogno di discutere questo punto”.
• Crimini di guerra? O legittima difesa? La fornitura di armi dell’Italia a Israele è in effetti limitata a una piccola percentuale, il che rende l’intero blocco di consegne irrilevante per la sicurezza di Israele, circa il 5%. Tuttavia, il messaggio trasmesso è piuttosto problematico. Soprattutto perché il governo italiano non sembrava preoccupato di tagliare gli accordi di difesa con la Turchia sotto Erdogan, come esposto da Al Arabiyya nel gennaio 2024.
Secondo l’agenzia di stampa araba, Italia e Turchia mirano ad aumentare il valore degli scambi commerciali tra i loro paesi a 32,7 miliardi di dollari (30 miliardi di euro) entro il 2030 rispetto agli attuali circa 25 miliardi di euro, secondo un funzionario informato sui colloqui. Inoltre, gli accordi di difesa tra i due paesi potrebbero includere la Leonardo SpA italiana, che lavora nel settore aerospaziale e della sicurezza a livello globale.
Non ci sono dubbi: un’escalation, con la conseguente ulteriore destabilizzazione della regione, rappresenterebbe un problema importante per tutti, e in primo luogo per Israele.
Tuttavia, è essenziale tenere a mente che la principale forza destabilizzante nell’area è l’Iran. L’eccidio del 7 ottobre 2023, l’attacco con i droni a Tel Aviv di venerdì 19 luglio 2024 e il massacro del campo di calcio di sabato scorso a Majdal Shams sono stati eseguiti da Hamas, dagli Houthi e da Hezbollah, tutti proxy iraniani.
Quanto alla Turchia, è schierata inequivocabilmente dalla parte del terrorismo islamista ed Erdogan sostiene Hamas sia a livello operativo che finanziario. Ciò rende la Turchia uno Stato che sostiene il terrorismo, proprio come l’Iran.
Non è possibile sostenere una posizione ferma contro il terrorismo islamista e allo stesso tempo relazionarsi con chi lo sostiene; correre con la lepre e cacciare con i segugi. Non è possibile. L’eccidio del 7 ottobre 2023 ha determinato uno spartiacque che ci impone di ridefinire posizioni e alleanze in modo molto netto.
La bandiera italiana e israeliana insieme, sul podio olimpico di Parigi. È una delle fotografie del sesto giorno di gare, conclusosi in gloria per l’Italia con l’oro della judoka Alice Bellandi nella categoria -78kg. L’atleta azzurra, numero uno del ranking mondiale, si è imposta sull’israeliana Inbar Lanir.
Due ori ieri per l’Italia, che avanza nel medagliere a un totale di cinque medaglie del metallo più pregiato. Ma è stata una giornata positiva anche per Israele, che nel medagliere ci è entrato con l’argento di Lanir e con il bronzo conquistato da un altro judoka, Peter Paltchik, terzo nei -100 kg.
Labir ha combattuto con una spilla gialla tra i capelli, in segno di solidarietà agli ostaggi. «Dall’inizio della guerra ho lo stomaco chiuso», ha dichiarato a fine gara. «Sapevo che l’unica cosa che potevo fare era continuare ad allenarmi e fare ciò in cui riesco meglio, perché ho il privilegio di rappresentare questo paese e la sua bandiera nel mondo. E questo mi ha dato un’enorme motivazione». Paltchik ha dedicato il bronzo all’allenatore Oren Smadga, il cui figlio Omer è rimasto ucciso nel corso dei combattimenti a Gaza.
Parashat Mattot-Masè: il valore delle città-rifugio
Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Il libro di Bamidbar si conclude con il resoconto delle città di rifugio, le sei città – tre per ogni lato del Giordano – che erano state create come luoghi in cui le persone ritenute innocenti per l’omicidio, ma colpevoli di omicidio colposo, venivano temporaneamente esiliate.
Nelle prime società, soprattutto in quelle non urbane che non disponevano di un’ampia forza di polizia, si temeva che la gente si facesse giustizia da sola, in particolare quando veniva ucciso un membro della famiglia o della tribù. In questo modo iniziava un ciclo di vendette e ritorsioni che non aveva una fine naturale, un omicidio per vendetta che portava a un altro e a un altro ancora, finché la comunità non veniva decimata. È un fenomeno che ci è familiare nella letteratura, dai Montecchi e Capuleti di Romeo e Giulietta, agli Squali e ai Jet di West Side Story, ai Corleone e ai Tattaglia nel Il Padrino. L’unica soluzione possibile è uno Stato di diritto efficace e imparziale. C’è però un pericolo persistente. Facciamo un esempio, se Reuben ha ucciso Shimon e il tribunale lo ritiene innocente – si è trattato di un incidente, non c’è stata premeditazione, la vittima e il colpevole non erano nemici – però ci sarà il pericolo che la famiglia della vittima possa sentire che non è stata fatta giustizia. Il loro caro parente è morto e nessuno è stato punito. Fu per prevenire tali situazioni di “vendetta di sangue” che vennero istituite le città rifugio. Coloro che avevano commesso un omicidio colposo venivano mandati lì e, finché si trovavano entro i confini della città, erano protetti dalla legge. Lì dovevano rimanere fino – secondo la nostra parashà – “alla morte del Sommo Sacerdote” (Numeri 35:25). La domanda ovvia è: cosa c’entra la morte del Sommo Sacerdote? Non sembra esserci alcun legame tra l’omicidio colposo, la vendetta di sangue e il Sommo Sacerdote, tanto meno la sua morte. Esaminiamo due interpretazioni abbastanza diverse. Sono interessanti di per sé, ma più in generale ci mostrano la gamma di pensieri esistenti all’interno del giudaismo. La prima è data dal Talmud babilonese: Un vecchio e venerabile studioso disse: “In una delle lezioni di Rava ho sentito spiegare che il Sommo Sacerdote avrebbe dovuto pregare Dio per ottenere misericordia per la sua generazione, cosa che non fece”. (Makkot 11a)
In base a ciò, il Sommo Sacerdote ha una parte di colpa, per quanto piccola, per il fatto che qualcuno è morto, anche se per caso. L’omicidio non è qualcosa che si sarebbe potuto evitare con la preghiera del Sommo Sacerdote. L’assassino è colpevole del crimine, avendo scelto di fare ciò che ha fatto, e nessun altro può essere incolpato. Ma l’omicidio colposo, proprio perché avviene senza che nessuno lo voglia, è il tipo di evento che avrebbe potuto essere evitato dalle preghiere del Sommo Sacerdote. Perciò non è pienamente espiato finché egli non muore. Solo allora l’omicida potrà essere libero. Maimonide offre una spiegazione completamente diversa nella “Guida dei perplessi”: Una persona che ha ucciso un’altra persona inconsapevolmente deve andare in esilio affinché la rabbia del “vendicatore del sangue” si raffreddi, quando la causa del misfatto è lontana dalla sua vista. La possibilità di tornare dall’esilio dipende dalla morte del Sommo Sacerdote, il più onorato degli uomini e l’amico di tutto Israele. Con la sua morte il parente della persona uccisa si riconcilia (ibid. ver. 25); infatti è un fenomeno naturale che troviamo consolazione nella nostra disgrazia quando la stessa disgrazia o una più grande è capitata a un’altra persona. Tra di noi nessuna morte è più dolorosa di quella del Sommo Sacerdote. (Guida per i perplessi III, 40)
Secondo Maimonide, la morte del Sommo Sacerdote non ha nulla a che fare con la colpa o l’espiazione, ma semplicemente con il fatto che provoca un dolore collettivo così grande da far dimenticare le proprie disgrazie di fronte a una più grande perdita nazionale. È allora che le persone abbandonano il loro senso individuale di ingiustizia e il desiderio di vendetta. A quel punto la persona riconosciuta colpevole di omicidio colposo può tornare a casa. Cosa c’è in gioco tra queste due interpretazioni della legge profondamente diverse? La prima riguarda la questione se l’esilio in una città rifugio sia o meno una sorta di punizione. Secondo il Talmud babilonese sembra di sì. Potrebbe non esserci stata alcuna intenzione. Nessuno era legalmente colpevole. Ma è accaduta una tragedia per mano di X, il colpevole dell’omicidio colposo, e anche il Sommo Sacerdote ha partecipato, anche se solo negativamente e passivamente, alla colpa. Solo quando entrambi hanno subito delle sofferenze, l’uno con l’esilio, l’altro con la morte (naturale, non giudiziaria), l’equilibrio morale viene ristabilito. La famiglia della vittima sente che è stata fatta una sorta di giustizia. Maimonide, tuttavia, non concepisce la legge delle città rifugio in termini di colpa o punizione. L’unica considerazione rilevante è la sicurezza. Il colpevole di omicidio colposo va in esilio, non perché sia una forma di espiazione, ma semplicemente perché è più sicuro per lui essere lontano da coloro che potrebbero cercare vendetta. Rimane lì fino alla morte del Sommo Sacerdote, perché solo dopo una tragedia nazionale si può pensare che la gente abbia rinunciato a vendicarsi del proprio familiare morto. Questa è una differenza fondamentale nel modo in cui concepiamo le città rifugio.
Tuttavia, c’è un’altra differenza fondamentale tra le due. Il Talmud babilonese presuppone un certo livello di realtà soprannaturale. Si dà per scontato che se il Sommo Sacerdote avesse pregato con impegno e devozione, non ci sarebbero state morti accidentali. La spiegazione del Maimonide non è soprannaturale. Appartiene in generale a quella che chiamiamo psicologia sociale. Le persone sono più capaci di fare i conti con il passato quando non se lo ricordano quotidianamente vedendo la persona che, forse, guidava l’auto che ha ucciso il loro figlio mentre attraversava la strada in una notte buia, sotto una forte pioggia, in una curva a gomito.
Ci sono morti – come quelle della Principessa Diana e della Regina Madre in Gran Bretagna – che evocano un diffuso e profondo dolore nazionale. Ci sono momenti – dopo l’11 settembre, per esempio, o lo tsunami nell’Oceano Indiano del 26 dicembre 2004 – in cui le nostre rimostranze personali sembrano semplicemente troppo piccole per preoccuparsene. Questo, come dice Maimonide, è “un fenomeno naturale”.
Questa differenza fondamentale tra una comprensione naturale e soprannaturale dell’ebraismo, attraversa molte epoche della storia ebraica: I saggi contro i sacerdoti, i filosofi contro i mistici, Rabbi Ishmael contro Rabbi Akiva, Maimonide in contrasto con Judah Halevi, e così via fino ad oggi.
È importante rendersi conto che non tutti gli approcci alla fede religiosa nell’ebraismo presuppongono eventi soprannaturali – eventi, cioè, che non possono essere spiegati entro i parametri della scienza, intesa in senso lato. Dio è al di là dell’universo, ma le sue azioni all’interno dell’universo possono comunque essere in accordo con la legge naturale e la causalità.
Secondo questa visione, la preghiera cambia il mondo perché cambia noi. La Torà ha il potere di trasformare la società, non per mezzo di miracoli, ma con effetti pienamente spiegabili in termini di teoria politica e scienza sociale. Questo non è l’unico approccio all’ebraismo, ma è quello di Maimonide e rimane uno dei due grandi modi di intendere la nostra fede. Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl
(Bet Magazine Mosaico, 2 agosto 2024) ____________________
Confermata l'uccisione a Gaza del "fantasma" Deif, stratega di Hamas
L'annuncio di Israele: è morto in un raid sul sud della Striscia lo scorso 13 luglio. Era sopravvissuto a diversi tentativi di ucciderlo. Era considerato lo stratega dei tunnel e del lancio di razzi
Mohammed Deif, il "fantasma" di Gaza che per anni era riuscito a sfuggire ai tentativi di eliminarlo da parte di Israele, è stato ucciso. Lo hanno confermato le forze israeliane (Idf) spiegando che quello che per anni è stato considerato tra i nemici più acerrimi dello Stato ebraico, è stato colpito in un raid sul sud della Striscia lo scorso 13 luglio insieme al capo della Brigata Khan Yunis di Hamas, Rafa'a Salameh.
La conferma della morte di Deif arriva a 300 giorni esatti dal massacro del 7 ottobre e dalla presa degli ostaggi nell'assalto di Hamas a Israele e all'indomani dell'uccisione in un raid a Teheran del capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh.
Capo delle Brigate Ezzedin al-Qassam dal luglio 2002, Deif si era unito a Hamas nel 1990 e negli ultimi 20 anni era sopravvissuto a diversi tentativi israeliani di assassinarlo. In un raid nel 2014 aveva perso la moglie e il figlio di sette mesi, mentre il più recente tentativo conosciuto di eliminarlo risaliva all'operazione 'Guardiano delle Mura' nel 2021.
Deif, con il quale pochissimi quando era in vita avrebbero avuto contatti diretti, era considerato la mente della strategia del lancio di razzi contro Israele e della costruzione dei tunnel per infiltrare uomini e armi. Nei mesi scorsi era stato indicato come il più inflessibile oppositore al cessate il fuoco con Israele.
Nato a Khan Yunis una sessantina di anni fa, Deif è stato un "fantasma" sia per gli israeliani sia per i palestinesi: per anni non ci sono state sue foto se non una scattata nel 2001, quando fu rilasciato da un carcere dell'Anp. In passato c'è stato chi ha sostenuto fosse nato con il nome di Mohammed al-Masri e che avesse assunto il nome di battaglia con cui è noto da un personaggio che aveva interpretato a teatro ai tempi dell'università. Perché a Deif, da studente di Scienze all'Università islamica di Gaza, piaceva molto fare l'attore e aveva fondato un gruppo, chiamato "Coloro che tornano", in riferimento al desiderio dei palestinesi di tornare nella terra in cui vivevano prima della nascita dello Stato di Israele. Una passione, quella della recitazione, che Deif aveva mantenuto anche dopo essere diventato un militante di Hamas - dopo l''iniziazione' con la Fratellanza musulmana, di cui il movimento di resistenza islamico è una costola - prestando il proprio volto nei video di propaganda del gruppo.
Nel 1990 venne arrestato per la prima volta dagli israeliani, che però lo rilasciarono poco dopo. Fu allora che iniziò a partecipare attivamente alla creazione delle Brigate al-Qassam, dimostrando un'abilità particolare con le armi, a cominciare da razzi e bombe.
Nel 1996, dopo la morte dell''ingegnere' di Hamas, Yahya Ayash, Deif - il cui nome in arabo significa 'ospite' - assunse un ruolo sempre più centrale nelle Brigate e nell'ideazione degli attacchi contro Israele. Parallelamente sparì dalla circolazione, mentre nel 2002 riapparve come leader del braccio armato di Hamas, diventando, secondo l'intelligence israeliana, la mente di tutti i più sanguinosi attentati suicidi contro autobus e ristoranti israeliani degli anni Duemila.
È in quel periodo che sopravvive a numerosi tentativi di ucciderlo, tentativi in cui avrebbe perso la vista a un occhio e che lo avrebbero lasciato su una sedia a rotelle. E che hanno contribuito ad accrescere la leggenda intorno al suo 'personaggio', che i palestinesi consideravano un eroe anche per il suo stile di vita frugale. Nella sua strategia, oltre allo sviluppo di razzi sempre più sofisticati, rientrava anche la costituzione di una forza di combattenti addestrati per infiltrarsi attraverso i tunnel e colpire Israele.
«L'uccisione dell'assassino Muhammad Deif, il 'Bin Laden di Gaza', il 13 luglio 2024, è un grande passo verso lo sradicamento di Hamas come organizzazione militare e governativa e verso il raggiungimento degli obiettivi della guerra che ci siamo prefissati», ha scritto il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant su X, postando una foto in cui cancella Deif con un pennarello da un grafico con la struttura del gruppo terroristico. «L'operazione di alta qualità e precisione che è stata condotta è stata resa possibile dalla migliore cooperazione tra l'Idf e lo Shin Bet, e coloro che li guidano», ha scritto. «I risultati dell'operazione chiariscono che Hamas è un'organizzazione in disintegrazione, e che i terroristi devono scegliere tra la resa e la morte». E ha concluso: il sistema di sicurezza perseguiterà i terroristi di Hamas - dai pianificatori del massacro del 7 ottobre agli esecutori - e non si fermerà finché la missione non sarà completata».
L’eliminazione dei capi terroristi: un grande successo per Israele
di Ugo Volli
• Una straordinaria impresa Nel giro di poche ore, Israele ha eliminato due dei capi terroristi più temibili: prima nel bel centro della roccaforte degli Hezbollah a Beirut Fuad Shukr, numero due di Hezbollah, organizzatore della strage dei marines a Beirut del 1983 e da ultimo dell’assassinio di dodici ragazzi drusi quattro giorni fa in Israele; e subito dopo in un palazzo di Teheran Ismail Haniyeh, leader di Hamas in quanto capo del suo ufficio politico. È un risultato impressionante di intelligence e precisione tecnica, che mostra come nessuno, letteralmente nessun nemico di Israele possa pensare di essere immune dal “braccio lungo” dello Stato ebraico, se i suoi crimini diventano insopportabili. Un successo dunque importante che Israele aspettava da tempo. Per capirne appieno il significato è opportuno porsi alcune domande.
• Israele aveva diritti di farlo? Assolutamente sì, sulla base della morale e del diritto. I due giustiziati erano capi di organizzazioni terroristiche, responsabili di innumerevoli delitti. Anche prima del 7 ottobre Hamas ha ucciso, rapito, violentato cittadini israeliani e stranieri e Haniyeh come capo dell’organizzazione criminale ne porta la responsabilità ultima. Da nove mesi a questa parte è stato, se non direttamente l’organizzatore, certamente il dirigente politico che ha avvallato, giustificato, ordinato tutto il sangue sparso dai terroristi di Gaza. Anche in termini puramente militari, è il capo della principale fra le bande che stanno facendo la guerra allo stato ebraico e dunque un suo bersaglio legittimo. Shukr, che ha un’immagine molto meno conosciuta, era il vero capo militare di Hezbollah e ha a sua volta le mani sporche del sangue di centinaia di vittime. Anche lui, come comandante di una banda militare che fa la guerra a Israele, è un obiettivo assolutamente legittimo.
• Perché solo ora? Netanyahu l’ha spiegato subito dopo la strage dei bambini drusi: si sono superate tutte le linee rosse, Israele non poteva sopportare ulteriormente senza una reazione pesante. Era possibile, è ancora possibile, che si rendesse necessaria un’operazione di terra, che voleva dire una guerra vera e propria in Libano. Israele ha scelto di cercare di evitarla dando un segnale altrettanto forte. Non è detto che funzioni, ma il tentativo di fronte al mondo è di mostrare che Israele vuole la distruzione dei terroristi e non la guerra con gli stati vicini. Bisogna anche aggiungere che probabilmente, quando subito dopo il 7 ottobre Netanyahu aveva promesso che avrebbe dato la caccia ai responsabili della strage fino a eliminarli tutti come era accaduto per i colpevoli dell’eccidio delle Olimpiadi di Monaco, si era dovuto impegnare con gli americani a non colpire Hamas sul territorio del Qatar; ora però Haniyeh aveva pensato bene di andare a Teheran per incontrare il nuovo presidente dopo la morte (su cui forse ora varrebbe la pena di fare qualche pensiero retrospettivo) del suo predecessore Ebrahim Raisi.
• Come si è potuto fare? Tradizionalmente ai servizi segreti israeliani si sono attribuite grandissime capacità. Questa fama è stata messa in dubbio dal fallimento del 7 ottobre, che però ha coinvolto soprattutto il servizio informazioni militari (“Haman”) e quello interno (lo “Shin Bet”), i quali non hanno compreso fino all’ultimo la minaccia in corso. Il Mossad non è competente su Gaza, si occupa di spionaggio e operazioni internazionali a largo raggio; ancora una volta ha dimostrato la sua straordinaria efficacia. Sapere esattamente in che stanza di un edificio di Teheran dormisse Hanyeh o dove si svolgesse la riunione con gli iraniani di Shukr, come per altre operazioni analoghe precedenti, implica una capacità di penetrazione straordinaria negli apparati di sicurezza dei terroristi, o apparati tecnologici di localizzazione al di là dell’immaginabile; poi c’è stata l’esecuzione, con aerei o droni che hanno violato in profondità il territorio nemico, anche un luogo sorvegliatissimo come Teheran, sparando missili a corto raggio esattamente sul bersaglio e sono tornati indietro senza lasciare tracce.
• Questa strategia di eliminazioni può portare alla vittoria? Purtroppo è improbabile. I capi terroristi non escono da accademie e studi sofisticati, si formano sul campo e sono selezionati per il loro fanatismo. Probabilmente non mentono quando dicono di non aver paura della morte, anzi di amarla come gli israeliani amano la vita. Se sono eliminati l’organizzazione perde esperienza, rete di rapporti, autorità, pianificazioni segrete in corso; ma trovare chi li sostituisce purtroppo non è difficile. Chi dice che Israele doveva subito eliminare i capi nemici e non entrare a Gaza non capisce che allora e anche ora la vittoria sul campo, l’eliminazione del potenziale militare dei terroristi è essenziale.
• Che succede ora? Difficile dirlo. Ci potrebbe essere una guerra col Libano, forse anche una guerra regionale se l’Iran cercherà di vendicare lo sgarro subito con l’eliminazione di Haniyeh nella sua capitale. È improbabile però, se si considera quel che è accaduto per esempio ad aprile, quando Israele giustiziò a Damasco il suo generale responsabile per la guerra a Israele, Mohammad Reza Zahedi: il tentativo iraniano di massiccia rappresaglia missilistica fallì miseramente, coprendo gli ayatollah di vergogna. E poi misteriosamente morì anche Raisi. Un’altra possibilità simmetrica è che Hamas e Hezbollah capiscano che a continuare la guerra con Israele hanno solo da perdere e che si mettano seriamente sul tavolo delle trattative, per esempio negoziando la garanzia della vita dei loro capi e il loro esilio (o per Hezbollah, il ritiro sulle linee della delibera dell’Onu del 2006) in cambio della liberazione dei rapiti e della consegna delle armi. Anche questa è una soluzione improbabile, purtroppo. Quel che più probabilmente accadrà nell’immediato futuro è che ci sarà una fiammata di lanci missilistici e di tentativi di rappresaglia, non così gravi da portare alla guerra aperta, e che Israele andrà avanti nella ripulitura di Gaza e nel compito assai più difficile di liberare il Nord dalla minaccia di Hezbollah.
Nel 2020, Mohsen Fakhrizadeh, uno dei principali artefici del programma nucleare iraniano venne ucciso in Iran da agenti del Mossad. Sempre nel 2020 due sicari in moto uccisero a Teheran il numero due di Al Qaeda Ahmed Abdullah Abdullah.
Due anni prima il Mossad fu in grado di trafugare l’intero archivio segreto iraniano relativo ai documenti sulla ricerca nucleare, che si trovava custodito in un magazzino. Ieri, un razzo ha centrato in pieno Ismail Hanyiah, uno dei più noti maggiorenti di Hamas mentre si trovava nella sua stanza in un edificio di Teheran dove era giunto in visita per rendere omaggio al neo presidente iraniano Masoud Pezeshkian. Solo poche ore prima di essere ucciso, Hanyiah era stato ricevuto con tutti gli onori da Ali Khamenei, suo interlocutore abituale.
Sono tutti episodi che mostrano con evidenza quanto sia presente l’intelligence israeliana in Iran e vasta la sua capacità di raccogliere informazioni precise per poi poterle utilizzarle al momento più opportuno. Sono episodi che rivelano altresì la vulnerabilità dell’Iran, la sua permeabilità.
L’uccisione di Hanyiah , avvenuta in un momento di celebrazione pubblica, mentre era ospite nel paese, rappresenta per l’Iran un’ulteriore umiliazione e la conferma che in Iran nessuno può dirsi realmente al sicuro, nemmeno Khamenei. L’Iran minaccia prevedibili ritorsioni ma sa che, se ci saranno, la risposta non si farà attendere. Il nemico “sionista” non si trova solo all’esterno ma dentro nel paese, dove può godere di appoggi informativi che nessuno è in grado di sapere quanto siano estesi e fino a quali livelli.
Dormiva forse Hanyiah mentre il razzo lo ha centrato. Per i terroristi non è più tempo di dormire.
Trecento giorni di guerra «sono abbastanza». O arriverà un «accordo» o si avrà la percezione di un «abbandono».
“A Deal or Abandonment”, recita lo slogan con cui le famiglie degli ostaggi israeliani sequestrati da Hamas hanno convocato per stasera un nuovo sit in a Tel Aviv, in quella che dopo il 7 ottobre è conosciuta come «la piazza degli ostaggi». L’iniziativa inizierà con una simbolica marcia, nel segno del colore giallo simbolo della loro battaglia, per proseguire con gli interventi di alcuni artisti. «Serve un accordo», chiedono gli organizzatori.
Alcuni manifestanti hanno bloccato stamane il traffico sull’autostrada, all’ingresso di Tel Aviv. Alla protesta, riporta la stampa israeliana, era presente Einav Zangauker, la madre di un ostaggio. «Mio figlio Matan e altri 114 ostaggi sono abbandonati nei tunnel di Hamas», ha dichiarato la donna ai giornalisti, puntando il dito contro l’azione del governo israeliano. «I cittadini dello Stato di Israele sono a corto di ossigeno; più Netanyahu trascina la guerra e ostacola gli accordi, più la situazione nel Nord si surriscalda. Siamo a un passo da un conflitto su più fronti, ma ciò di cui abbiamo bisogno è un accordo che riporti indietro i nostri cari e gli sfollati nelle loro case».
Alla protesta ha partecipato anche Natalie Zangauker, la sorella di Matan. Con uno spray ha scritto 300 su uno dei ponti che sovrastano l’autostrada.
(moked, 1 agosto 2024) ____________________
"Mio figlio Matan ... abbandonati nei tunnel [abbandonati da chi? da Netanyahu, si capisce, non segregati da Hamas] ... serve un accordo [con chi? con Hamas naturalmente].. Netanyahu trascina la guerra e ostacola gli accordi ... [al contrario di Hamas che invece vuole la pace ed è pronto a fare accordi] ciò di cui abbiamo bisogno è un accordo che riporti indietro i nostri cari [non è Hamas che deve liberare gli ostaggi, è Netanyahu che deve "riportarli indietro", come se fosse stato lui a portarli nei tunnel]". Un irresponsabile, egoistico atteggiamento infantile. E' l'Occidente del voglio tutto e subito che protesta. Un Occidente penetrato come un malefico virus nel corpo di Israele. Yahya Sinwar l'ha capito e sta giocando bene le sue carte. M.C.
I volontari hanno salvato 50 milioni di dollari di prodotti israeliani durante la guerra
Centinaia di migliaia di volontari israeliani e di tutto il mondo hanno contribuito a salvare più di 35.000 tonnellate di frutta e verdura, secondo l'associazione benefica israeliana Leket.
Riservisti israeliani aiutano i contadini a raccogliere le arance a Moshav Beit Hillel, non lontano dal confine israeliano con il Libano, 10 nov 2023
Secondo uno studio pubblicato questa settimana, i volontari israeliani hanno salvato 50 milioni di dollari di prodotti agricolidall'inizio della guerra contro Hamas a Gaza, nonostante i danni significativi al settore agricolo del Paese.
Oltre ai volontari israeliani, centinaia di migliaia di volontari di tutto il mondo hanno contribuito a salvare più di 35.000 tonnellate di cibo, secondo Leket Israel, la Banca Nazionale del Cibo, un ente di beneficenza israeliano registrato.
Secondo precedenti indagini, quasi un israeliano su due si è offerto volontario nei primi mesi della guerra, e volontari ebrei e cristiani da tutto il mondo sono venuti in Israele per aiutare i contadini colpiti con il raccolto.
Secondo il rapporto, i prezzi dei prodotti freschi in Israele sono aumentati fino al 18% nei primi sei mesi di guerra, mentre i prezzi della frutta sono aumentati fino al 12%.
Quasi un terzo dei terreni agricoli israeliani si trova nelle zone del fronte, di cui circa il 22% nella zona di confine con la Striscia di Gaza e il 10% al confine settentrionale con il Libano.
Lo studio ha rilevato che l'aumento degli sprechi alimentari a seguito della guerra è costato all'economia circa 275 milioni di dollari, di cui 185 milioni di dollari di cibo sprecato.
Secondo lo studio, oltre il 20% dei prodotti è stato sprecato a causa della guerra, rispetto a meno del 10% prima dello scoppio del conflitto.
"La guerra ha causato gravi danni all'agricoltura israeliana e le sue conseguenze si faranno sentire per molti anni a venire", ha dichiarato Gidi Kroch, CEO di Leket Israel. "Rafforzare l'agricoltura locale non è solo un'esigenza economica essenziale, ma anche una condizione necessaria per garantire la sicurezza alimentare e rafforzare la resilienza nazionale dei cittadini israeliani".
(Israel Heute, 1 agosto 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Il capo di Hamas Ismail Haniyeh, “mente” del 7 ottobre, ucciso a Teheran
Aveva detto: “Il sangue dei bambini palestinesi è utile alla causa”
«Abbiamo bisogno del sangue delle donne, dei bambini e degli anziani palestinesi»
Il 27 ottobre aveva detto, dal suo “esilio” dorato di Doha: “Il sangue delle donne, dei bambini e degli anziani palestinesi… siamo noi che abbiamo bisogno di questo sangue per risvegliare lo spirito rivoluzionario dentro di noi, per spingerci avanti”. Ecco chi era Ismail Haniyeh, capo del movimento terroristico Hamas, responsabile della strage perpetrata il 7 ottobre 2023 in Israele, 1300 uccisi in modo efferato, quasi 300 rapiti di cui ormai centinaia morti, oltre 7000 feriti.
Un missile lo ha ucciso a Teheran, questa notte alle 2.00, dove si trovava per partecipare alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente iraniano Massoud Pezeshkian e dove aveva incontrato la Guida suprema iraniana Ali Khamenei.
Un omicidio mirato in territorio iraniano è un duro colpo per la rappresentazione che l’IRAN dà di sé, come Stato che si vuole leader regionale. Fonti del New York Times hanno riferito che i funzionari iraniani sono «in stato di shock totale» per l’assassinio del leader di Hamas Ismail Haniyeh. Lo scrive su X un giornalista del Nyt. Secondo le fonti, l’omicidio è un «duro colpo alla reputazione dell’Iran» in un momento in cui il paese sta cercando di proiettare il suo potere nella regione.
(Bet Magazine Mosaico, 31 luglio 2024)
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Morti che camminano
A due settimane dalla presunta uccisione a Gaza di Mohammed Deif, “l’ombra”, uno dei più imprendibili leader di Hamas, ora è il turno di Ismail Haniyeh a Teheran, dove si era recato ieri per rendere omaggio al nuovo presidente eletto.
Haniyeh una delle figure principali del politburo di Hamas insieme a Kaled Meshal, il 29 ottobre scorso, da Doha, esilio dorato condiviso con Meshal, proclamava «Abbiamo bisogno del sangue di donne, bambini e anziani palestinesi. Abbiamo bisogno di questo sangue per risvegliare dentro di noi lo spirito rivoluzionario, per risvegliare in noi la sfida, per spingerci avanti».
Poche ore prima, a Beirut, con un attacco mirato come quello a Teheran, Israele eliminava Faud Shukr, braccio destro di Hassan Nasrallah e il responsabile principale dell’ala militare di Hezbollah, ritenuto responsabile del lancio del razzo che ha colpito Majdal Shams, villaggio druso nel Golan, causando la morte di dodici tra bambini e ragazzi drusi.
Si tratta di uccisioni mirate, una specialità di Israele, atte a decapitare la leadership del terrore sponsorizzata da Teheran, e che seguono episodi analoghi verificatosi nei mesi precedenti.
L’uccisione di Haniyeh direttamente a Teheran dopo il suo incontro con Ali Khamenei è un ulteriore messaggio recapitato all’Iran dall’inizio della guerra a Gaza, a seguito della distruzione del consolato iraniano a Damasco il primo aprile scorso. Evidenzia come sia solo questione di tempo e di opportunità, prima che Israele colpisca bersagli umani ritenuti legittimi. Non è certo un mistero che, da dopo il 7 ottobre, i leader di Hamas vengano considerati da Israele, morti che camminano.
(L'informale, 31 luglio 2024)
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Chi era Ismail Haniyeh, il leader terrorista di Hamas eliminato a Teheran
di Daniele Toscano
Nella notte Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas, è stato ucciso a Teheran, dove si trovava per il giuramento del nuovo presidente della repubblica islamica, Masoud Pezeshkian. Fonti vicine ad Hamas e ai pasdaran parlano di un attacco aereo, probabilmente un drone. Morta anche una guardia del corpo. Questo evento rappresenta un ulteriore passo significativo nel conflitto mediorientale, che va oltre il mero confronto tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza e si sviluppa su più fronti. Quali saranno i prossimi passi chiaramente non è ancora possibile stabilirlo, ma si può tracciare il profilo politico di Haniyeh per capire quali fossero le sue posizioni, presunte moderate, e cosa significhi la sua morte.
Haniyeh era nato il 29 gennaio 1963 nel campo profughi di Al-Shati a Gaza. Ha studiato nelle scuole dell’Unrwa e si è laureato in letteratura araba all’Università islamica di Gaza. Ha iniziato la sua carriera politica in stretta collaborazione con il fondatore di Hamas, Sheikh Ahmed Yassin, di cui è stato anche segretario personale. Negli anni ’80 e ’90 e stato più volte nelle carceri israeliane. Un curriculum che gli è valso un’ascesa nelle gerarchie del movimento terroristico.
Nel 2003 Israele tentò di ucciderlo insieme al suo mentore; Yassin fu eliminato l’anno successivo. “Non dovete piangere”, disse allora Haniyeh a una folla davanti all’ospedale al Shifa a Gaza City. “Preparatevi alla vendetta”.
Fu nominato leader di Hamas nella Striscia nel 2006; in quell’anno salì alla ribalta internazionale dopo la vittoria elettorale di Hamas nella Striscia, quando divenne primo ministro del governo di unità nazionale. Questa esperienza ebbe però la durata solo di alcuni mesi, visto che fu interrotta dal violento colpo di stato e da una cruenta guerra civile con cui gli stessi terroristi di Hamas eliminarono Fatah da Gaza. Dal 2014 al 2017 è stato capo dell’amministrazione della Striscia di Gaza. Nel 2017 è stato eletto capo dell’ufficio politico di Hamas, prendendo il posto di Khaled Meshaal, mentre al comando del gruppo a Gaza gli successe Yahya Sinwar: il ruolo sempre più apicale nelle gerarchie politiche del movimento lo ha reso uno dei leader più influenti, tanto da renderlo nel corso degli anni anche protagonista di varie negoziazioni e conflitti con Israele, incluse le trattative durante il conflitto degli ultimi mesi.
In questi anni, in virtù del suo ruolo, Haniyeh ha lasciato la Striscia e si era stabilito tra il Qatar, a Doha, dove Hamas ha la sua sede politica, con frequenti sortite nella Turchia di Erdogan, a cui lo lega la vicinanza ai Fratelli Musulmani. In questi anni di residenza all’estero ha potuto condurre una vita agiata, che gli ha procurato alcune critiche anche dai palestinesi stessi.
Nonostante la sua vicinanza ai Fratelli Musulmani (sunniti), era interlocutore anche dell’estremismo sciita: curava l’alleanza con l’Iran, tanto che nel gennaio 2020 partecipò al funerale del generale Qassem Soleimani, il capo della forza Quds dei Guardiani della rivoluzione, ucciso dagli Stati Uniti; da quel momento le sue visite a Teheran furono sempre più frequenti, a conferma dell’alleanza tra Hamas e Iran, nota da tempo a intelligence e analisti ma fino ad allora non sancita pubblicamente. Nell’ottobre 2022 incontrò anche il presidente siriano Bashar Assad, stretto alleato di Teheran. Il legame con la repubblica islamica è stato testimoniato una volta di più dal recente soggiorno, volto a partecipare alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente Masoud Pezeshkian.
Il 7 ottobre 2023 ha celebrato e benedetto gli attacchi terroristici che hanno devastato il sud di Israele, con oltre mille morti, feriti, devastazioni e il rapimento di più di 250 ostaggi. Nei mesi successivi è stato tra i principali artefici dei negoziati con Israele per il rilascio dei rapiti: incarnava la linea più “moderata”, rispetto all’ala militare guidata da Sinwar, ma la moderazione nel contesto terrorista di Hamas è un concetto relativo, tanto che Haniyeh non ha esitato a ribadire più volte che il “sangue dei palestinesi” era necessario alla “causa”.
La sua eliminazione implica la fine di un leader terrorista e apre nuovi scenari nel contesto mediorientale, dove Israele deve fronteggiare diversi nemici che hanno il comune denominatore nell’Iran che dello Stato ebraico vuole la distruzione.
Israele reagisce: bombe su Beirut. Nel mirino un leader di Hezbollah
Arriva la risposta alla strage nel campo di calcetto: raid di Gerusalemme sulla roccaforte del Partito di Dio. L'obbiettivo era il braccio destro di Nasrallah, Pioggia di razzi verso lo Stato ebraico. Ora è rischio escalation
di Flaminia Camilletti
Era nell'aria. Ci si aspettava una reazione israeliana come rappresaglia per i 12 bambini e adolescenti uccisi da un razzo lanciato dal Libano sabato scorso sul villaggio druso di Majdal Shams. Così è stato. Intorno alle 19 ora italiana, l'esercito israeliano ha effettuato un raid in un sobborgo meridionale di Beirut, Da'aheh, roccaforte di Hezbollah. Secondo quanto riferito, l'obiettivo dell'attacco era un comandante di alto rango di Hezbollah, preso di mira da un drone israeliano. Si tratta del responsabile della strage del Golan, Fouad Shukr, noto anche come Al Hajj Mohsin, considerato il numero due dell'organizzazione guidata da Hassan Nasrallah. Obiettivo mirato dunque. Poco dopo i media vicini a Hezbollah hanno confermato la morte di un comandante, senza però specificarne il nome, mentre fonti dei miliziani sciiti rendono noto che ci sarebbero almeno due morti. Altre ancora che Shukr si sia salvato. Secondo il Dipartimento di Stato Usa, Shukr ha fatto anche parte del Consiglio della Jihad, il corpo militare di Hezbollah e, secondo la stessa fonte ha avuto un «ruolo centrale» nell'attacco nel 1983 alla caserma dei marines americani a Beirut che uccise 241 militari. Durante la guerra civile siriana «aiutò i combattenti e le truppe pro-regime».
Chiuse le strade intorno alla zona bombardata e crollato l' edificio preso di mira. Secondo il canale saudita Al-Hadth nel luogo dell'attacco si trova un ufficio di coordinamento di Hezbollah e delle Guardie rivoluzionarie iraniane.
Si tratta del primo attacco aereo dell'Idf contro un obiettivo Hezbollah nella capitale libanese dall'inizio della guerra a Gaza, il 7 ottobre.
Non si fa quindi attendere l'annunciata risposta di Hezbollah: dozzine di razzi Katyusha sono stati lanciati verso il Nord di Israele. «Hezbollah ha oltrepassato la linea rossa»: così il ministro della Difesa israeliana, Yoav Gallant. Eppure un alto funzionario israeliano riferisce che Israele spera che questa sia la fine di questo round: «Non vogliamo vedere tutto ciò degenerare in una guerra più ampia. Vogliamo inviare un messaggio molto chiaro che non tollereremo danni ai civili. Faremo tutto ciò che è necessario per difenderci, ma non vogliamo vedere questo trasformarsi in una guerra più ampia. Se la cosa si intensificherà, ora è nelle mani di Hezbollah».
In ogni caso la reazione di Israele era talmente prevedibile che per tutto il giorno la diplomazia internazionale ha invitato Hezbollah a non rispondere a un eventuale attacco israeliano. «La leadership della resistenza deciderà la forma e la portata della risposta a qualsiasi potenziale aggressione», era stata la replica. La milizia libanese risponderà a qualsiasi « aggressione» israeliana, anche se di natura e dimensioni limitate. Così infatti è stato. L'ennesima escalation di questo conflitto, pur attesa, è stata scongiurata da tutti, compresa la premier italiana Giorgia Meloni che ieri invitava Israele a non cadere nella trappola.
«Ogni volta che ci sembra di essere un po' più vicini all'ipotesi di un cessate il fuoco accade qualcosa. Significa che ci sono diversi soggetti regionali che puntano a un'escalation e che puntano sempre a costringere Israele a una reazione», il suo commento.
E c'è preoccupazione per i soldati italiani impegnati nella missione Unifil. «Abbiamo due contingenti, uno a Beirut e un altro al confine tra Hezbollah e Israele. Adesso sono messi in sicurezza, però come ha chiesto il ministro della Difesa Crosetto vogliamo sapere dalle Nazioni Unite cosa intendono fare, forse le regole d'ingaggio vanno modificate visto che la situazione sta cambiando di giorno in giorno». Così il ministro degli Esteri Antonio Tajani.
Ora resta da capire che dimensioni assumerà il conflitto con gli Stati Uniti che ieri promettevano di aiutare Israele in caso di attacco libanese. Allo stesso tempo l'amministrazione Biden aveva messo in guardia privatamente Israele dal prendere di mira Beirut, sottolineando che ciò potrebbe portare a un'escalation incontrollabile.
Il razzo sulle alture del Golan oltre ai 12 bambini e adolescenti morti ha causato 16 feriti di cui sette ancora in gravi condizioni. Otto dei feriti sono allo Ziv Medicai Center, di cui tre in gravi condizioni; due di loro sono ancora sedati e ventilati. Tutti e tre hanno ferite addominali, ferite al torace e fratture agli arti, afferma l' ospedale. Un bambino è in condizioni moderate e altri quattro sono leggermente feriti, principalmente affetti da ferite da schegge. Il Rambam Medical Center di Haifa afferma che 5 bambini sono ancora ricoverati in ospedale.
Inoltre, ieri pomeriggio un uomo di 30 anni è morto in seguito alle ferite riportate nel lancio di razzi dal Libano sul kibbutz Ha Goshrim, nel Nord di Israele. Secondo l'esercito, nell'attacco sono stati lanciati 10 razzi dal Libano, la maggior parte dei quali è stata intercettata dall'Iron Dome.
(La Verità, 31 luglio 2024)
Scrivo questa newsletter da Washington, DC, la capitale degli Stati Uniti. Sto partecipando al vertice annuale del CUFI (Christians United For Israel), dove ogni anno migliaia di sionisti cristiani si riuniscono per esprimere la loro solidarietà con Israele, anche ai membri del Congresso, mentre i partecipanti alla conferenza incontrano i loro rappresentanti e membri dello staff. Partecipo a questa conferenza ogni anno, soprattutto per applaudire gli sforzi di questa importante organizzazione nel raccogliere sostegno per Israele e nell’istruire i i suoi membri riguardo a Israele. Ma è anche un'opportunità straordinaria per me di interagire personalmente con tanti sionisti cristiani, tra cui molti amici e sostenitori della CFOIC (Christian Friends of Israeli Communities) Heartland.
La conferenza di quest'anno è totalmente diversa da quelle precedenti, sotto molti aspetti. Prima di tutto, l'atmosfera. Di solito, la conferenza è un'occasione per celebrare Israele, gioire della sua esistenza e ringraziare Dio per tutto ciò che ha fatto per la mia nazione. Ma quest'anno, sulla scia del terribile massacro del 7 ottobre e della sanguinosa guerra che ne è seguita e in cui siamo ancora impegnati, l'atmosfera è cupa. I sopravvissuti agli attacchi del 7 ottobre hanno raccontato il loro personale orrore. I familiari degli ostaggi hanno raccontato le loro storie. E come ha riassunto un leader cristiano ieri sera - dobbiamo immaginarci come madre, sorella, padre, fratello di un giovane tenuto in ostaggio a Gaza, di un giovane soldato caduto o ferito, di una famiglia terribilmente ferita da questa guerra. Come israeliana, mi sento distrutta dal 7 ottobre. Il mio spirito rimane forte, ottimista e determinato. Ma c'è qualcos'altro che ci accompagna costantemente. Un fardello che portiamo tutti con noi, quando ogni giorno accendiamo il telegiornale, chiedendoci se qualcun altro è stato ucciso, sperando in una vittoria, nel rilascio degli ostaggi. Ma l'esperienza di stare con dei cristiani, provenienti da un Paese così lontano dal mio, ma che sono veramente con noi, che piangono con noi, pregano con noi, agiscono per noi - è stata davvero sorprendente! Ieri mattina, però, sono stata anche esposta, da vicino, al lato brutto di questa guerra, che si sta manifestando anche negli Stati Uniti. Mentre uscivo dall'ascensore per recarmi alla sessione mattutina della conferenza, ho sentito cantare. Sembrava un coro, che cantava belle canzoni, ma non riuscivo a capire le parole. Qualcuno ha suggerito che potevano essere i partecipanti alla conferenza che pregavano per Israele. Non poteva sbagliarsi di più. Ho seguito la musica e mi sono imbattuta in un gruppo di circa 100 persone, in piedi in una delle hall dell'hotel, con in mano cartelli che accusavano CUFI di genocidio e criticavano Israele per la sua guerra a Gaza. Ho colto parole come "Palestina libera". Queste persone cantavano belle canzoni, ma avevano cambiato le parole per esprimere odio. Erano venuti a distruggere la bellezza che CUFI stava creando.
Sono rimasta scioccata dal fatto che gli sia stato permesso di stare in mezzo alla hall di un hotel e di manifestare in questo modo, senza ostacoli. Grazie a un amico israeliano all'erta, avevo visto sui social media un annuncio di questa manifestazione qualche settimana fa e avevo avvertito la leadership del CUFI, che si era preparata con un rafforzamento della sicurezza. Ma quello che non riuscivo a capire era come l'hotel permettesse una manifestazione nel bel mezzo della sua hall.
Alla fine sono usciti pacificamente. Ma io ero lì in piedi e quando i marciatori sono passati proprio davanti a me, ho perso la testa. Ho gridato "Vergognatevi!". Mi sono avvicinata a uno di loro e gli ho chiesto se aveva parenti che erano stati massacrati in Israele. Ho detto a un altro gruppo che avrebbero dovuto portare la loro manifestazione a Gaza e vedere se ne sarebbero usciti vivi. Le mie parole non sono riuscite a penetrare la loro folle causa, ma dovevo dire qualcosa, per protestare contro la loro terribile posizione. Mentre se ne andavano, mi sono ritrovata a tremare, con rabbia, con angoscia, con un dolore terribile. Continuavo a pensare a mio nipote che era caduto in questa guerra, alle innumerevoli altre persone che conoscevo o che non avevo mai incontrato che avevano pagato il prezzo più alto per proteggere Israele dal male che è Hamas. Ai bambini israeliani che non cresceranno mai, al bambino Bibas dai capelli rossi tenuto in ostaggio a Gaza. Come si può stare dalla parte dei loro assassini e rapitori?
Hanno lasciato l'hotel e noi siamo andati alle sessioni della conferenza. La sicurezza era stretta, ma qualcosa è andato storto. Diversi gruppi di manifestanti, che nascondevano la loro vera identità, si erano registrati alla conferenza ed erano presenti alla sessione della conferenza. John Hagee si è alzato per parlare e ogni pochi minuti un gruppo di manifestanti in mezzo al pubblico si alzava in piedi e gridava "Palestina libera" o qualche altro slogan simile. Ogni volta la sicurezza li accompagnava fuori dalla porta e dall'edificio, mentre i partecipanti alla conferenza continuavano a cantare "Israel Lives" per soffocare i loro orribili messaggi.
L'ultimo gruppo dei manifestanti era seduto proprio accanto a me. Quando ho cercato un posto a sedere, ho visto tre posti vuoti vicino al corridoio centrale. Ho chiesto alla donna seduta lì se i posti erano disponibili e lei mi ha risposto molto dolcemente di sì. L'ho scambiata per un'adorabile sionista cristiana, che si univa a me per sostenere Israele. E poi, all'improvviso, lei e le quattro persone alla sua sinistra sono esplose in canti e grida. La sicurezza mi ha letteralmente scavalcato per raggiungerli e li ha spinti fuori dalla porta, mentre continuavano a urlare e a gridare. Mi sono sentita infangata, sporca. Mi ero seduta accanto a chi sostiene il male che è Hamas. Come hanno potuto entrare nelle sale di una conferenza così degna, cercando di avvelenare i bei messaggi espressi dai nostri amici sionisti cristiani?
Domenica sera abbiamo ascoltato le testimonianze di studenti universitari cristiani ed ebrei che hanno sperimentato il terribile antisemitismo che imperversa nei campus di tutti gli Stati Uniti, compresi alcuni campus "cristiani". Naturalmente avevo seguito tutto questo al telegiornale in Israele, ma vedere gli studenti da vicino e ascoltare le loro storie è stato straziante.
Negli Stati Uniti e nel mondo stanno accadendo cose terribili. Israele sta combattendo una guerra terribile per la sua stessa sopravvivenza, ma molti hanno scelto la strada dell'antisemitismo, del male, delle bugie e delle distorsioni della verità. Ma ci sono persone buone ovunque. Mi sento benedetta per aver partecipato al summit CUFI di quest'anno e per aver potuto crogiolarmi nell'amore per il mio Paese, per il mio popolo e per il nostro Dio, così liberamente e onestamente espresso dai meravigliosi sionisti cristiani presenti quest'anno. Dio vi benedica tutti!
(CFOIC, 30 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Kiryat Shmona - una città fantasma segnata dalla guerra
Case, fermate di autobus enegozi di questa città, ormai in gran parte priva di vita, testimoniano gli attacchi di razzi e droni che si sono abbattuti su di essa incessantemente per quasi dieci mesi.
di Edgar Lefkovits
KIRYAT SHMONA - Le strade sono deserte, i centri commerciali, i negozi e le aziende sono chiusi da tempo, le tracce della guerra sono ovunque. Anche per la città di confine più settentrionale di Israele, che negli ultimi decenni ha sopportato il peso degli attacchi missilistici di Hezbollah in Libano e dei precedenti noti attacchi terroristici palestinesi, i quasi dieci mesi trascorsi dallo scoppio della guerra in seguito al massacro di Hamas del 7 ottobre sono stati un'anomalia.
"Ho vissuto qui tutte le guerre dell'ultimo mezzo secolo, ma non abbiamo mai vissuto nulla di simile", dice Nahum Cohen, 54 anni, agente di polizia di Kiryat Shmona, che vive in città da sempre. Non siamo mai stati separati dalla nostra casa per un periodo così lungo".
L'8 ottobre - il giorno dopo il peggior attacco al popolo ebraico dai tempi dell'Olocausto, con i terroristi di Hamas che si sono infiltrati al confine meridionale con Israele e hanno massacrato 1.200 persone, ne hanno ferite migliaia e ne hanno rapite altre 250 - il gruppo terroristico libanese ha iniziato a lanciare razzi e successivamente droni verso il nord di Israele. Questo ha spinto il governo israeliano a ordinare l'evacuazione di decine di migliaia di israeliani dalle città e dai villaggi dell'area a novembre.
Più di nove mesi e 7.000 proiettili dopo, l'area è ancora deserta: il paesaggio è stato distrutto e la maggior parte dei residenti si è rintanata in stanze d'albergo e rifugi in altre parti d'Israele, mentre le forze di sicurezza sorvegliano la città in loro assenza.
"Gestire una stazione di polizia municipale sotto il fuoco è già molto strano, ma farlo quando quasi tutti i residenti se ne sono andati è una novità assoluta", dice Arik Berkovitch, capo della polizia di Kiryat Shmona. "Niente ti prepara a una cosa del genere".
• IN LINEA VISIVA DIRETTA CON HEZBOLLAH Situata sulle pendici della Valle di Hula, sotto le montagne del Libano, la città di 25.000 abitanti, conosciuta come la "Città degli Otto" per la morte di otto ebrei, tra cui il famoso attivista sionista Joseph Trumpeldor nella battaglia di Tel Hai del 1920 in Galilea, è in linea di vista diretta con Hezbollah, che troneggia sopra di essa, cosicché i circa 3.000 abitanti, per lo più anziani o malati, che sono rimasti o si sono ritirati, non hanno il tempo di cercare un riparo quando i razzi vengono sparati contro la città duramente colpita.
"Nella maggior parte dei casi, si viene a conoscenza di un attacco imminente da due o tre esplosioni", ha detto l'ufficiale di polizia di Kiryat Shmona, Loae Fares, in un'intervista rilasciata a JNS mercoledì. "Nel migliore dei casi, si sentono le sirene e le esplosioni nello stesso momento".
Fares, che è a capo delle operazioni della polizia israeliana nella città, dice che dopo la sua giornata di lavoro nella città deserta, si reca nel suo villaggio druso di confine, nella vicina Horfesh, che ha deciso all'unanimità di non fuggire nonostante le minacce alla sicurezza.
"È davvero triste venire al lavoro ogni giorno e non vedere fuoriquasi nessuno", dice. "Dopo aver corso di casa in casa per salvare le persone dai razzi, torno a casa come civile e devo abbracciare mia figlia di 6 anni che è terrorizzata dal suono delle sirene.
• NON ABBIAMO MAI VISTO NULLA DI SIMILE
Le strade della città di confine sono disseminate dei danni causati dalle centinaia di proiettili caduti da ottobre. I crateri sulla strada principale della città, Herzl Boulevard, vengono riparati rapidamente per consentire alla polizia e ai servizi di emergenza di viaggiare senza ostacoli, ma si vedono danniovunque. Le case, le fermate degli autobus e i negozi di questa città ormai in gran parte spopolata testimoniano i continui attacchi.
Il capo della polizia ha dichiarato che la qualità e la quantità dei razzi e dei missili, così come dei droni, sono senza precedenti.
“Una cosa simile, non l’abbiamo mai vista”, ha detto semplicemente.
I razzi lanciati, di vari tipi e dimensioni, trasportano fino a 150 chili di esplosivo, secondo un esperto artificiere della polizia cittadina.
"Tutti continuano a chiamare per chiedere informazioni sulle loro case", riferisce l'ufficiale di polizia israeliano Shlomi Ben-Hemo, 49 anni, che il 24 luglio ha accompagnato la JNS in un giro di perlustrazione della città e che si occupa anche di controllare e aiutare gli anziani e gli infermi intrappolati nelle loro case.
• OGNI MOMENTO UN ATTACCO Un silenzio inquietante pervade l'aria calda e secca del pomeriggio. Nemmeno i di solito onnipresenti gatti randagi della città si vedono. Passano una o due auto, tra cui una che porta donazioni di cibo per gli anziani rimasti qui e un'altra, del movimento chassidico Chabad-Lubavitch, che distribuisce bevande energetiche ghiacciate e adesivi del Messia ai soldati e ai poliziotti in servizio sotto il sole cocente del pomeriggio.
"Non avremmo mai immaginato di arrivare a questo", dice Ben-Hemo, che ha vissuto in città per tutta la vita, mentre risponde alle telefonate dei suoi familiari, che sono stati evacuati e si informano sulla sua sicurezza.
Dopo che martedì sera numerosi razzi lanciati contro la città sono stati intercettati con successo, mercoledì il livello di minaccia era di livello medio, due su tre. Si temeva che il discorso di Benjamin Netanyahu al Congresso nel pomeriggio potesse essere usato come pretesto per un nuovo attacco.
Alla fine la serata è trascorsa tranquillamente, ma le autorità di sicurezza sono rimaste in allerta per un attacco che potrebbe arrivare "in qualsiasi momento", soprattutto dopo un attacco israeliano riuscito contro i comandanti di Hezbollah in Libano, per vedere se il gruppo terroristico risponderà con una salva di razzi più grande del solito verso il nord di Israele.
• A PENSARCI MI VIENE LA PELLE D'OCA
L'ufficiale di polizia israeliano indica un condominio che è stato recentemente colpito e dove quattro bambini erano ancora nel vecchio rifugio, con le mani sulla testa e tremanti sul pavimento mentre lui entrava.
"Mi viene la pelle d'oca solo a pensarci", dice.
A differenza del sud di Israele, che quest'anno è diventato un epicentro del turismo di guerra per le persone che visitano i luoghi degli attacchi terroristici del 7 ottobre, la situazione al confine settentrionale di Israele è molto diversa.
“Chiqui non ha niente da fare, non dovrebbe venire”, dice Ben-Hemo.
Un'altra casa nella stessa strada è stata colpita due volte nel giro di una settimana; anche un edificio residenziale e una base militare alla periferia della città - a poca distanza da una città al confine con il Libano - sono stati colpiti dal lancio di razzi.
E le ferite non sono solo fisiche. Ben-Hemo dice che sua figlia di 15 anni ha troppa paura di tornare a casa, anche quando la guerra sarà finita, mentre sua moglie teme che senza un'operazione militare contro Hezbollah al confine, la situazione non sarà tranquilla per molto tempo.
"Abbiamo vissuto tutto questo nella nostra infanzia", dice Yaniv Azulay, 47 anni, rimasto a lavorare in un capannone comunale di fronte al luogo di un attacco missilistico mortale, mentre elenca le varie guerre e operazioni militari degli ultimi decenni. "Cosa posso dirvi? Sono giorni difficili. Noi preghiamo".
Anche i ricordi delle guerre passate, tra cui la seconda guerra del Libano, durata un mese, nel 2006, quando i residenti evacuarono le loro case; e l'infame massacro avvenuto in città esattamente mezzo secolo fa, in cui terroristi palestinesi provenienti dal Libano uccisero 18 residenti, tra cui otto bambini, impallidiscono in confronto all'attuale più lunga guerra di Israele dalla guerra di indipendenza del 1948.
"Il mio sogno, e quello di tutti gli agenti di polizia, è che i bambini tornino in città quando la situazione si sarà normalizzata", afferma il capo delle operazioni di polizia della città.
"Non sappiamo quanto durerà, ma resteremo qui fino ad allora".
(Israel Heute, 30 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
La rappresaglia israeliana contro Hezbollah sarà dura ma “contenuta”
Israele sembra cedere alle decine di richieste da tutto il mondo affinché si eviti una escalation con Hezbollah
Con il Medio Oriente in tensione in vista della prevista rappresaglia israeliana contro Hezbollah per il micidiale attacco missilistico di sabato, i diplomatici occidentali hanno esortato alla de-escalation.
Sembra raccogliere l’invito Israele. Alcune fonti israeliane parlando con la Reuter hanno detto infatti che la risposta sarà seria ma non porterà a una conflagrazione totale.
I funzionari israeliani che hanno parlato con la Reuters hanno detto che Israele vuole colpire Hezbollah, ma non trascinare il Medio Oriente in una guerra regionale,
Altre fonti israeliane hanno detto che l’IDF si sta preparando per la possibilità di alcuni giorni di combattimenti con il gruppo terroristico libanese sostenuto dall’Iran.
Nell’attacco di Hezbollah alla città drusa di Majdal Shams, sulle alture del Golan, sabato pomeriggio, 12 bambini sono stati uccisi mentre giocavano in un campo di calcio, quando sono stati colpiti da quello che Israele ha detto essere un razzo Falaq-1 di fabbricazione iraniana con una testata di oltre 50 kg di esplosivo.
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha visitato Majdal Shams lunedì, affermando che “questi bambini sono i nostri figli, sono i figli di tutti noi”.
Netanyahu ha affermato che “Israele non lascerà e non può lasciare che questo passi semplicemente sotto silenzio. La nostra risposta arriverà, e sarà dura”.
Una fonte diplomatica israeliana, parlando a condizione di anonimato, ha detto a Reuters che “la stima è che la risposta non porterà a una guerra totale… Non sarebbe nel nostro interesse a questo punto”.
Il Segretario di Stato americano Antony Blinken lunedì ha parlato con il presidente Isaac Herzog per esortare Israele ed Hezbollah a fare un passo indietro rispetto a qualsiasi escalation.
In un comunicato del Dipartimento di Stato si legge che nella telefonata con Herzog, Blinken “ha sottolineato l’importanza di evitare un’escalation del conflitto e ha discusso gli sforzi per raggiungere una soluzione diplomatica che permetta ai cittadini di entrambi i lati del confine tra Israele e Libano di tornare a casa”.
Secondo un anonimo diplomatico libanese, i funzionari libanesi hanno avuto una lunga serie di telefonate con Amos Hochstein, un consigliere anziano del Presidente degli Stati Uniti Joe Biden che spesso si occupa di negoziati delicati in Libano, nel tentativo di evitare l’escalation.
La Casa Bianca ha poi ribadito che Israele ha tutto il diritto di rispondere a Hezbollah dopo l’attacco di sabato, ma che è “fiduciosa” che si possa evitare una conflagrazione più ampia.
Il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale, John Kirby, ha dichiarato ai giornalisti che i funzionari statunitensi e israeliani hanno avuto conversazioni a “più livelli” durante il fine settimana e che il rischio di un conflitto totale è “esagerato”.
“Nessuno vuole una guerra più ampia e sono fiducioso che saremo in grado di evitare questo esito”, ha detto Kirby in una telefonata con i giornalisti. “Abbiamo tutti sentito parlare di questa ‘guerra totale’ in più momenti negli ultimi 10 mesi, quelle previsioni erano esagerate allora, francamente pensiamo che siano esagerate anche adesso”.
La missione di pace UNIFIL nel sud del Libano ha dichiarato di aver intensificato i contatti con Israele e le autorità libanesi per stemperare le tensioni. “Nessuno vuole iniziare un conflitto più ampio, ma un errore di calcolo potrebbe scatenarlo. C’è ancora spazio per una soluzione diplomatica”, ha dichiarato il portavoce dell’UNIFIL Andrea Tenenti.
Un diplomatico occidentale, il cui Paese è coinvolto negli sforzi diplomatici per evitare una grave escalation, ha dichiarato all’Associated Press di non credere che la risposta israeliana sfocerà in una guerra totale.
“È chiaro che [Israele] vuole prendere posizione, ma senza sfociare in un conflitto generalizzato”, ha detto il diplomatico. “È sicuro che ci sarà una rappresaglia. Sarà simbolica. Potrà essere spettacolare, ma non sarà un motivo per entrambe le parti di impegnarsi in un’escalation generale”.
Il presidente iraniano Masoud Pezeshkian, nel frattempo, ha minacciato che un attacco israeliano al Libano avrà gravi conseguenze per lo Stato ebraico.
I media iraniani hanno riferito che parlando con il presidente francese Emanuel Macron, Pezeshkian ha affermato che “qualsiasi eventuale attacco israeliano al Libano avrà gravi conseguenze per Israele”.
All’inizio di quest’anno, l’Iran ha lanciato il suo primo attacco diretto a Israele, lanciando più di 300 missili e droni verso lo Stato ebraico. La maggior parte di essi è stata abbattuta dalle difese aeree israeliane e dal coinvolgimento dei suoi alleati.
L’attacco iraniano è arrivato in risposta a un presunto attacco aereo israeliano su un edificio vicino al consolato di Teheran a Damasco due settimane prima, che ha ucciso sette membri del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche, tra cui due generali.
All’interno del Libano, lunedì si è svolta un’intensa attività diplomatica, mentre il Paese si preparava alla risposta israeliana all’attacco di Hezbollah.
Il primo ministro libanese ad interim Najib Mikati ha tenuto “intensi contatti diplomatici dopo le recenti minacce israeliane contro il Libano”, tra cui una telefonata con il ministro degli Esteri britannico David Lammy, che ha “rinnovato l’invito a tutte le parti a esercitare la moderazione per evitare un’escalation”, ha dichiarato l’ufficio di Mikati in un comunicato.
Lammy ha scritto sui social media di aver chiamato Mikati “per esprimere la mia preoccupazione per l’escalation della tensione e di aver accolto con favore la dichiarazione del governo libanese che invita a cessare ogni violenza”.
“Entrambi abbiamo convenuto che l’allargamento del conflitto nella regione non è nell’interesse di nessuno”, ha dichiarato.
Sempre lunedì, il capo delle relazioni estere di Hezbollah, Ammar Moussawi, ha incontrato il Ministro degli Esteri libanese Abdallah Bou Habib, secondo quanto riferito da un diplomatico libanese e da un funzionario di Hezbollah.
Bou Habib ha sottolineato la necessità di “autocontrollo per evitare una guerra regionale”, anche durante i colloqui con il coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il Libano Jeanine Hennis-Plasschaert.
Domenica sera, i ministri israeliani hanno autorizzato Netanyahu e il suo capo della difesa a decidere “modalità e tempi” della risposta.
I terroristi di Hezbollah lanciano razzi nel nord di Israele dall’8 ottobre, attirando attacchi di rappresaglia israeliani e minacciando di allargare il conflitto tra Israele e Hamas oltre i confini di Gaza.
Finora, le schermaglie hanno provocato 24 morti civili da parte israeliana, oltre alla morte di 18 soldati e riservisti dell’IDF. Ci sono stati anche diversi attacchi dalla Siria, senza alcun ferito.
Hezbollah afferma che 383 sui membri sono stati uccisi da Israele durante le schermaglie in corso, soprattutto in Libano ma anche in Siria. In Libano sono stati uccisi altri 68 agenti di altri gruppi terroristici, un soldato libanese e decine di civili.
La tragedia di Majdal Shams ha scosso profondamente Israele e tutto il mondo ebraico. Sabato pomeriggio, un colpo diretto di un missile Falaq 1 di produzione iraniana, inviato da Hezbollah sul campo sportivo di Majdal Shams – il principale centro druso in alta Galilea – ha portato alla morte di dodici cittadini arabi israeliani appartenenti alla comunità locale. Erano tutti adolescenti di età compresa tra dieci e vent’anni. Nell’attacco sono rimasti feriti altri diciannove ragazzi. I funerali delle piccole vittime si sono svolti domenica, in un’atmosfera di dolore e rabbia che alberga ormai nella devastata comunità drusa. Shalom ha intervistato Angelica Edna Calò Livnè – Docente a Tel Hai e fondatrice di Beresheet LaShalom, che per tempo ha seguito la comunità drusa in numerose attività artistico-culturali.
- Come definiresti gli eventi di sabato? Quella di sabato rappresenta per tutti una disgrazia da cui non ci riprenderemo. Noi, del kibbutz Sasa abbiamo una bellissima relazione con i drusi, un terzo dei miei studenti vengono da lì, è un luogo che dista solo 5 km da noi. I drusi sono Israele e l’attacco di sabato è a tutti gli effetti un attacco al cuore d’Israele. Il campo da calcio, dove ha avuto luogo la strage era pieno, i ragazzi erano lì per fare un torneo e quelle vite sono state spezzate proprio mentre giocavano. Questa è una tragedia inenarrabile. Loro non hanno colpito solo ragazzi drusi, hanno colpito Israele nel cuore.
- Cosa rappresenta la comunità drusa per il Paese? Posso fare un esempio sulla mia esperienza. All’inizio del periodo pandemico sono stata consulente di una scuola drusa. La loro cultura è molto affascinante ma al contempo introversa, hanno ancora una mentalità molto chiusa. Così, l’allora preside della scuola si rivolse a me, chiedendomi se attraverso il teatro potevo aiutare gli studenti ad aprirsi di più, specialmente perché la loro ambizione li spingeva a cominciare percorsi accademici importanti per cui era importante sviluppare le abilità legate alla socializzazione. Così abbiamo iniziato questo progetto teatrale e abbiamo inserito per 8 anni attività di arte, danza, musica e teatro. La scuola è divenuta la prima scuola in lingua araba in Israele con una proposta molto ampia di attività culturali. Insieme abbiamo realizzato cose straordinarie. I drusi sono una comunità profondamente radicata in Israele, che si sente molto israeliana e noi li sentiamo come tali. Vicino a dove abito ci sono moltissimi villaggi pieni di ragazzi drusi morti in questa guerra. Parlando l’arabo fanno un enorme lavoro per la nostra intelligence, loro sono israeliani a tutti gli effetti. È un popolo che fa parte di noi.
- Cosa aspettarsi dal futuro? Questo attacco dove porterà? Sono nove mesi che siamo sotto i missili e mezza Galilea ad oggi è distrutta, mentre nella regione la maggior parte della popolazione è rimasta senza dimora. Mi chiedo con che diritto si permette l’Iran o il Libano di mandarci più di 500 missili? E perché tutti rimangono in silenzio? In Europa nessuno si permetterebbe una cosa del genere. Ad oggi Israele ha 7 fronti aperti, senza pensare al fronte della Golà, che è un altro discorso importante. Il terribile antisemitismo che dilaga in tutto il mondo è un fronte di guerra che Israele sa di avere aperto. Non so cosa accadrà, ma la tragedia dei drusi ha sconvolto la loro e la nostra comunità. Gente modesta, dalla forte educazione e il cuore buono che ha promesso però una risposta a quanto accaduto sabato.
In febbraio Yuval Shalom Freilich, schermidore israeliano di fama, aveva conquistato la ribalta mediatica. Merito di una vittoria un po’ più speciale di altre, al Doha Gran Prix, in un palazzetto dello sport non proprio entusiasta di ascoltare a fine gara le note dell’inno di Israele.
Già medaglia d’oro nella spada maschile agli Europei del 2019, Freilich aveva la speranza di lasciare un segno anche ai Giochi olimpici di Parigi, forte anche del suo status di numero otto al mondo del ranking. Non è andata così, visto che la sua avventura a cinque cerchi si è conclusa ai sedicesimi di finale del torneo, dove è stato eliminato a sorpresa dall’italiano Andrea Santarelli, poi sconfitto a sua volta negli ottavi.
Sportivamente parlando, il bilancio è negativo. Ma tutto passa in secondo piano rispetto al fatto di esserci stati, a testa alta, tenendo alto anche il nome di Israele oggi spesso delegittimato, ha sostenuto Freilich in una intervista con l’agenzia di stampa francese AFP. «La delusione è forte e sono certo che aumenterà con il trascorrere del tempo», ha riconosciuto a proposito della sconfitta lo schermidore, cresciuto in una famiglia ebraica osservante di origine australiana e nipote di un celebre rabbino. «Ma in una visuale più ampia, mettendo tutto in prospettiva, non posso che dirmi contento. Soprattutto pensando ai miei connazionali: per loro è importante che ci siano degli atleti israeliani a rappresentarli ai Giochi».
• LA PREPARAZIONE
Arrivarci d’altronde non è stato semplice, anche se Freilich non cerca alibi per la sua eliminazione prematura: «Prima che iniziasse la guerra avevamo sparring partner con i quali potevano allenarci in Israele. Dallo scoppio del conflitto non è stato più possibile e quindi sono stato io a dover viaggiare all’estero. Ma va bene così, ciò non ha compromesso in alcun modo la mia preparazione. Il fatto di essere arrivato qui, alle Olimpiadi, resta un risultato fantastico». La corsa per una medaglia olimpica non è comunque finita, assicura l’atleta: Freilich ci riproverà a Los Angeles nel 2028 e non esclude di prolungare la sua carriera fino al 2032, quando i Giochi sono in programma nell’australiana Brisbane. a.s.
Imminente l’uscita del sequel estivo della hit “E’ tutta colpa di Israele”, in voga dal 7 ottobre
Nessuna sorpresa: quando Israele sarà costretto a reagire contro Hezbollah vedremo rilanciare le stesse menzogne già in circolazione da quando si difende contro Hamas
di Jay Tcath
L’attacco di sabato ad opera di Hezbollah contro un campetto di calcio, e il suo tragico bilancio di vittime fra i 10 e 16 anni, potrebbe segnare il punto di svolta della latente guerra tra Israele e la formazione terroristica libanese sponsorizzata dall’Iran.
L’attacco di Hamas del 7 ottobre contro Israele è stato una sorpresa. Al contrario, da mesi appare inesorabile che Hezbollah e Israele siano avviati verso una guerra aperta. L’unica cosa che restava da chiedersi era cosa l’avrebbe scatenata e quando. Tragicamente, ora sembra che abbiamo la risposta.
Allo stesso modo, appare inesorabile che 10 mesi di critiche ingiuste rivolte alle azioni difensive di Israele contro Hamas verranno riciclate per calunniare e demonizzare la sua controffensiva dopo gli attacchi crescenti e non provocati di Hezbollah.
Le menzogne si muoveranno lungo alcune direttrici ormai familiari.
CESSATE IL FUOCO. Il 7 ottobre Hamas ha vilmente e coscientemente violato un cessate il fuoco che era in vigore. Nel giro di poche ore l’ha fatto anche Hezbollah dal Libano. I terroristi e i loro fan non invocano mai il cessate il fuoco quando sono all’offensiva. Si mettono a invocarlo a gran voce solo quando Israele reagisce. E chiedono un cessate il fuoco – lo dimostrano i precedenti, come appunto il 7 aprile – al solo scopo di riarmarsi, ricaricarsi e attaccare di nuovo quando è per lo più opportuno (cosa che peraltro dichiarano apertamente). Come per Hamas, anche per Hezbollah il cessate il fuoco è solo una tattica dilatoria, non un passo verso la pace.
GENOCIDIO. Da decenni, ogni volta che Israele reagisce agli attacchi di Hamas e Hezbollah si scatenano accuse infondate di genocidio. Ogni volta, quando le armi tacciono, si registra un ennesimo tragico bilancio di sangue (che si poteva evitare non attaccando Israele), ma non si registra nessun genocidio. Da quando esiste un conflitto fra Israele e arabi palestinesi, la popolazione araba palestinese (così come quella del Libano meridionale) non ha fatto che aumentare. Ovviamente una vistosa crescita della popolazione è incompatibile con un genocidio. Anche il modo in cui combattono le Forze di Difesa israeliane è incompatibile con un genocidio, così come il fatto che Israele facilita l’afflusso di aiuti umanitari, una pratica mai vista né prevista in altre analoghe zone di guerra. Ma non ci sarà da sorprendersi quando in Libano, come a Gaza, il genocidio israeliano verrà di nuovo non commesso, ma denunciato.
DIRITTO INTERNAZIONALE. Come l’attacco del 7 ottobre di Hamas, anche i 10 mesi di attacchi di Hezbollah hanno violato un confine riconosciuto a livello internazionale. Come Hamas, anche Hezbollah prende deliberatamente di mira i civili israeliani: ebrei, cristiani, musulmani e, come è stato con il missile di sabato, drusi. Sia Hamas che Hezbollah si vantano senza vergogna di usare i loro civili come scudi umani, proclamando che tali vittime devono essere orgogliose di conseguire il martirio per la causa. Sia Hamas che Hezbollah tengono rintanati i loro combattenti all’interno di moschee, ospedali, scuole e agenzie umanitarie. Sia Hamas che Hezbollah scatenano guerre senza approntare nessun rifugio per la propria popolazione, ma proteggono accuratamente i loro grandi capi dentro bunker o all’estero. Tutte queste pratiche di Hamas e Hezbollah costituiscono violazioni del diritto di guerra internazionale e dei diritti umani. Ma è Israele che verrà nuovamente accusato di violare quei diritti e quelle leggi.
STOP AGLI AIUTI AMERICANI “INCONDIZIONATI” A ISRAELE. Come la sua guerra difensiva contro Hamas, anche la controffensiva di Israele a Hezbollah scatenerà la richiesta di porre fine delle “incondizionate” forniture di armi dagli Stati Uniti a Israele. La richiesta viene avanzata da chi non sa come funziona la vendita di armi americane a qualsiasi paese, o da chi lo sa ma conta sul fatto che non la sa il grosso dell’opinione pubblica. La legislazione del Congresso che autorizza tali vendite, i sovraimposti regolamenti del Pentagono e i termini aggiuntivi prescritti da produttori e distributori americani sconfessano l’idea che tali vendite di armi siano “incondizionate”. In realtà, Israele rispetta di buon grado tutte le condizioni, il che evidenzia un altro motivo per cui, in quanto unica democrazia nella regione, rimane il più affidabile alleato degli Stati Uniti in Medio Oriente.
LIBERTÀ DI PAROLA. Una guerra aperta tra Israele e Hezbollah vedrà aumentare ulteriormente i cortei di protesta contro Israele con folle di manifestanti che, in nome della libertà di parola, continueranno a gridare slogan a sostegno del terrorismo jihadista e della cancellazione dello stato ebraico “dal fiume al mare”, occuperanno università, strade, aeroporti, stazioni ferroviarie, vandalizzeranno monumenti storici e memoriali della Shoah, faranno annullare eventi culturali con artisti ebrei, minacceranno e aggrediranno individui e luoghi identificabili come ebraici. Il tutto in nome della “libertà di espressione”. Sarà molto spiacevole, ma non sarà una novità né una sorpresa.
Una sorpresa, invece, controintuitiva sarebbe veder prendere finalmente sul serio ciò che dicono i terroristi, anziché dare ascolto a quelli che in America e in Occidente cercano di giustificarli.
Da sempre, i motivi che adducono Hamas e Hezbollah per la loro feroce guerra contro Israele sono la nuda e cruda verità. Non si tratta di modificare questa o quella linea di confine, questa o quella politica israeliana. Si tratta, in modo tanto semplice quanto terrificante, di eliminare lo stato ebraico dalla faccia della terra.
Coloro che continuano a negare o spazzare sotto il tappeto questa dura realtà dando ogni colpa a Israele, in pratica ci dicono: “Non credete a ciò che da decenni le vostre orecchie sentono dire da Hamas e Hezbollah, non credete a ciò che da decenni i vostri occhi vedono fare da Hamas e Hezbollah”.
Nessuna sorpresa, dunque, quando la hit “è tutta colpa di Israele”, in voga dal 7 ottobre, avrà il suo sequel estivo con Hezbollah.
Purtroppo è probabile che il sequel esca presto, corredato degli stessi falsi argomenti imbastiti dagli stessi attori, il tutto coreografato da terroristi convinti (a ragione?) di poterci propinare ancora una volta le stesse bugie.
(Da: Times of Israel, 28.7.24)
Perché per Israele una vittoria di Trump è necessaria
di Niram Ferretti
• I risultati dell’Amministrazione Trump I fatti non hanno colore né ideologia, si impongono nella loro oggettiva perentorietà. Nessuna amministrazione americana, dal 1948 ad oggi, nel corso di un solo quadriennio ha assommato una serie di decisioni così dirompenti a favore di Israele, come l’Amministrazione Trump.
L’elenco è eloquente: dalla decisione di dichiarare Gerusalemme capitale di Israele con conseguente spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, decisione che secondo numerosi accreditati “esperti” avrebbe incendiato il Medio Oriente, al riconoscimento della sovranità israeliana sulle alture del Golan. Dalla specificazione, esatta e inequivocabile, che gli insediamenti ebraici in Cisgiordania non violano alcuna norma legale, alla decisione presciente di togliere all’UNRWA, mano longa di Hamas all’ONU i fondi necessari alla sua sopravvivenza. Dalla doverosa decisione di dare seguito alla legge conosciuta come Taylor Force Act, dal nome del giovane ex cadetto di Westpoint assassinato nel 2016 da un terrorista palestinese sul lungomare di Giaffa, che sottrae all’Autorità Palestinese i fondi per remunerare i terroristi, alla chiusura dell’ufficio della medesima a Washington. Dalla decisione di uscire dall’UNESCO dopo le vergognose delibere filoislamiche che hanno privato gli ebrei di ogni legame storico con il Monte del Tempio, il Muro occidentale e la tomba dei Patriarchi a Hebron, all’uscita dal Consiglio per i diritti umani di Ginevra, oggi presieduto dall’Iran, dove sussiste sotto forma della cosiddetta Agenda 7, un dispositivo esclusivamente dedicato alla criminalizzazione di Israele.
A tutto ciò si aggiunge la decisione presa nel 2018 di uscire dall’JCPOA, l’accordo sul nucleare iraniano siglato da Barack Obama nel 2015 all’insegna della politica filoislamica della sua amministrazione, e di seguito la stipula degli Accordi di Abramo, iniziati dal riconoscimento diplomatico nei confronti di Israele da parte degli Emirati, del Sudan e del Marocco e che sarebbe dovuto culminare con quello da parte dell’Arabia Saudita.
• I passi indietro dell’Amministrazione Biden Con la vittoria di Joe Biden nel 2021, ognuna delle decisioni prese dall’Amministrazione Trump, salvo quella relativa allo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme e agli Accordi di Abramo, è stata rovesciata. Il rientro nell’accordo sul nucleare iraniano non è avvenuto, soprattutto a causa del subentro della guerra in Ucraina visto che l’Iran, alleato della Russia, ha provveduto a fornirle i droni per colpire le città del paese sostenuto dall’Amministrazione Biden, anche se, recentemente, sono ripresi i colloqui in Yemen.
Ma il passo indietro gigantesco rispetto a quello fatto in avanti da Trump, è stato di riproporre il più consolidato feticcio di tutte le amministrazioni americane dal 1993 ad oggi, ovvero la nascita di uno Stato palestinese in Cisgiordania, nonostante il fatto che i più persistenti oppositori alla sua nascita siano sempre stati i palestinesi stessi, dal 1993 ai giorni nostri. La sua effettiva nascita, infatti, metterebbe fine definitivamente al lucrosissimo ruolo di vittime e vessati che essi si sono attribuiti, e costringerebbe la cleptocrazia palestinese di Ramallah a mostrare di essere in grado di fare funzionare una efficiente macchina statale, per non parlare del requisito fondamentale al suo venire in essere, il riconoscimento non della mera esistenza di Israele, ma della sua legittimità di esistere.
Donald Trump, consapevole dell’inutilità di aprire un tavolo negoziale con l’Autorità Palestinese, aveva deciso di metterla in un angolo rivolgendosi direttamente ai potentati arabi, e mirando soprattutto all’Arabia Saudita, con cui, dopo la lunga stagione di gelo con Barack Obama, si erano riattivati buoni rapporti. Non a caso, il primo viaggio internazionale che Trump fece da presidente eletto fu a Riad. Ed è l’accordo prossimo con l’Arabia Saudita, annunciato da Netanyahu come foriero di una nuova era, nel suo discorso all’ONU del 22 settembre 2023, che Hamas ha fatto saltare con l’eccidio del 7 ottobre 2023 il quale è stato la premessa della guerra a Gaza. Accordo il cui merito, se fosse andato in porto, se lo sarebbe intestato Joe Biden, mentre, se avverrà, sarà unicamente frutto della tessitura diplomatica dell’Amministrazione Trump.
• Le conseguenze di una Amministrazione Harris Una vittoria di Kamala Harris alle presidenziali americane, per Israele significherebbe una costante pressione per i prossimi quattro anni finalizzata alla nascita di uno Stato palestinese, significherebbe la continua delegittimazione di Netanyahu se restasse al potere, significherebbe l’appoggio diretto o indiretto a tutte le iniziative internazionali volte a mettere Israele sul banco degli imputati per la violazione inesistente del diritto internazionale, significherebbe continuare a dare credito all’idea falsa, giù ampiamente mostratosi fallimentare, che Israele può solo cedere terra in cambio di pace, come ha fatto a Gaza e come ha fatto in Cisgiordania anche se non in modo definitivo, consentendo all’Autorità Palestinese di amministrare totalmente l’Area A e in parte sostanziale l’Area B. Significherebbe in altre parole continuare a ripetere vecchi errori, a percorre una via che non può portare a nessun risultato se non quello di indebolire ulteriormente lo Stato ebraico.
L’Iran, che solo Trump ha provveduto a colpire severamente con le sanzioni, e, quando lo ha reputato necessario, mostrandogli, con l’uccisione di uno dei suoi pezzi da novanta, il generale Qasem Soleimani, fatto eliminare il 3 gennaio del 2020, che non avrebbe esitato ad usare le maniere forti, con una Amministrazione Harris, continuerebbe a essere blandito, permettendogli, come è accaduto sotto l’Amministrazione Obama e quindi Biden, di continuare a rafforzarsi a spese di Israele e di tutti gli altri Paesi mediorientali.
• Il vantaggio di riavere Trump alla Casa Bianca La vittoria di Trump rappresenta dunque per Israele una necessità fondamentale. Avrebbe la possibilità di potere gestire Gaza in uno scenario postbellico per tutto il periodo necessario alla sua completa bonifica dai jihadisti di Hamas, di cui, tra i primi a volere la scomparsa ci sono certamente i sauditi. Allo stesso tempo vedrebbe accantonato per i prossimi quattro anni lo spettro dello Stato palestinese, e al suo posto, il proseguimento degli Accordi di Abramo con l’Arabia Saudita, che, va ricordato, non implicavano il venire in essere di uno Stato palestinese, mentre l’Autorità Palestinese verrebbe relegata ad attore subalterno, e soprattutto avrebbe di nuovo un alleato in grado di tenere a bada il principale agente di destabilizzazione del Medio Oriente, l’Iran, a cui sicuramente Trump non concederebbe alcuno sconto, mai come adesso, dopo avere saputo che il regime di Teheran stava progettando un piano per assassinarlo.
Harris e Biden rincorrono Trump sugli ostaggi in mano ad Hamas
Qualche giorno prima di beccarsi la fucilata che per un pelo non lo ammazzava, Donald Trump – in una delle sue quotidiane fanfaronate – dice ai macellai di Gaza: vedete di liberare i “nostri ostaggi” prima che io assuma l’incarico, altrimenti sono cavoli amari. Le parole di un fanfarone, appunto. Ma dotate di qualche innegabile furbizia (“i nostri” ostaggi) e, soprattutto, capaci di parecchia efficacia se – qualche settimana dopo – lo staff del recessivo Joe Biden si affrettava a convocare le televisioni per riprendere il vecchio presidente seduto al tavolo con le famiglie dei sequestrati. E a ruota la regina del contro-deep state delle bellurie obamiane “post-yes, we can” – Kamala Harris – impegnata nell’equilibristica conferenza stampa che in modo penosamente intempestivo recupera ed enumera i profili degli ostaggi americani dopo aver disertato il discorso di Benjamin Netanyahu.
Il tutto mentre il bifolco con in testa quella scopa di mais sbertuccia agevolmente il duo democratico in avvicendamento, dicendosi stupefatto per l’ipotesi che gli ebrei – dopo essere stati trattati così irrispettosamente – possano votare per quelli che solo obtorto collo trovano parole per ricordare i corpi vivi e i cadaveri trattenuti dai mostri del 7 ottobre. Hai un bel dire che era legittimo non tributare onori a Benjamin Netanyahu. Ma è un’intelligenza pigra quella che non capisce che le ragioni di accusa nei confronti di chi rappresenta Israele sono adoperate da coloro che non contestano allo Stato ebraico di avere quel primo ministro, ma puramente e semplicemente di esistere.
Ed è una coscienza malandata quella che non capisce che Netanyahu, l’altro giorno, al Congresso degli Stati Uniti non rappresentava un paio di ministri fondamentalisti né i manipoli di coloni che in nome della Bibbia sradicano gli ulivi dei contadini palestinesi: rappresentava il diritto degli ebrei – molti dei quali totalmente avversi a Netanyahu – di vivere nella terra che hanno acquistato, lavorato e reso florida. E per la quale hanno combattuto contro chi non vuole libertà per la Palestina, ma una Palestina libera dagli ebrei. Una Palestina Judenfrei.
Scoperchiando questioni che vanno ben oltre la guerra di Gaza, il pellegrinaggio statunitense di Benjamin Netanyahu ha reso plateale il disastro di un’America votata alternativamente alle uscite rozze e furbesche – ma spiazzanti e possibilmente ficcanti – di quello sbruffone o alle inadeguatezze desolanti, agli imbarazzi e ai biascicamenti di un establishment democratico inadeguato per motivi certamente diversi, ma certamente non meno gravi.
La cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Parigi 2024 di venerdì 26 luglio sarà ricordata come un evento maestoso, degno della grandeur francese e inedito per il suo svolgimento sulle acque della Senna e non all’interno di uno stadio olimpico come avvenuto in tutte le edizioni passate. Le barche, con a bordo i 204 paesi partecipanti e la squadra degli atleti rifugiati hanno attraversato il blindatissimo centro di Parigi per concludere il loro percorso di sei chilometri al Trocadero. Il coloratissimo e sfavillante spettacolo di grande suggestione, originale e raffinato, malgrado la pioggia, è partito dal ponte Austerlitz, accanto al Jardin des Plantes, ha toccato l’Ile Saint Luis e l’Ile de la Cité, è passato poi sotto i ponti parigini per permettere agli atleti e agli spettatori di tutto il mondo di ammirare la Ville Lumière in tutta la sua bellezza e i luoghi in cui si svolgeranno alcuni degli sport olimpici: dalla Concorde, alla spianata des Invalides, al Gran Palais. La sfilata delle squadre è stata aperta, come di consueto, dalla Grecia, paese in cui sono nati i Giochi Olimpici, seguita dagli atleti rifugiati, che hanno sventolato la bandiera olimpica. L’Italia ha sfilato per novantunesima dopo Israele. La squadra israeliana, con il Presidente dello Stato d’Israele Herzog sugli spalti, è composta da 88 atleti che gareggiano in 15 discipline sportive, con la speranza di conquistare quattro o cinque medaglie. Portabandiera il judoka Peter Paltchik, ucraino di nascita, vincitore ai Giochi di Tokio del 2020 della medaglia di bronzo nel judo a squadre e la nuotatrice americana di nascita Andi Mure.
Oren Smadga, allenatore della squadra maschile di judo, ha deciso di partecipare ai Giochi nonostante il figlio, Omer, sergente di I classe di 25 anni, sia stato ucciso in combattimento a Gaza poche settimane fa. Oren aveva vinto la medaglia di bronzo per Israele ai Giochi Olimpici di Barcellona del 1992 ” tra tutte le difficoltà e il dolore che devo fronteggiare – ha detto – voglio far sapere al mondo la mia missione e il mio impegno, in particolare in questo momento. Parteciperemo alle gare a testa alta, per raggiungere i nostri obiettivi con lo spirito di fratellanza che ci rafforza.”
“Ci sentiamo come emissari dello Stato d’Israele: i nostri atleti, ogni singolo atleta, sono qui per realizzare i propri sogni, ma c’è un altro livello, una missione nazionale cui ottemperiamo – ha fatto eco Yael Arad, presidente del Comitato Olimpico di Israele – Abbiamo già conquistato la nostra prima vittoria: siamo qui, non ci siamo arresi, dal 7 ottobre abbiamo partecipato a centinaia di gare. Ciò che ci guida è la bandiera di Israele”. Mostrando la spilla gialla che ricorda gli ostaggi ancora nelle mani di Hamas Yael Arad ha aggiunto: “Questo è ciò che ci guiderà durante l’intera durata delle Olimpiadi. Ognuno di noi è espressione di tutta la forza del popolo israeliano. Portiamo con noi gli ostaggi, i caduti, le famiglie, tutto ciò che rimanda a quanto accaduto il 7 ottobre sarà con noi, nei nostri cuori”.
Il 28 luglio 1904: esattamente 120 anni fa, veniva inaugurato il Tempio Maggiore di Roma. L’anniversario sarà celebrato anche in occasione della prossima Giornata Europea della Cultura Ebraica, il 15 settembre, con una mostra che, proprio nei giardini della sinagoga, racconterà le vicende di una collettività attraverso il suo beth hakneseth.
Il Tempio Maggiore agli inizi del XX secolo rappresentava il simbolo dell’emancipazione degli ebrei di Roma dopo la fine dell’età del ghetto (1555-1870). Dalla Breccia Porta di Pia alle leggi del 1938 gli ebrei sperimentarono una libertà mai vissuta nei secoli precedenti, che permise loro di inserirsi nel tessuto sociale, economico, politico e culturale romano, così come avveniva in moltealtre parti d’Italia e d’Europa. Il Tempio Maggiore segnò anche una cesura rispetto ai modelli cultuali dell’Antico Regime, quando le cosiddette Cinque Scole (Castigliana, Catalana, Nova, Siciliana e Tempio) rappresentavano le diverse collettività ebraiche presenti sul territorio romano. L’architettura della nuova sinagoga rispecchiava lo stile di vita dell’epoca. Se nei secoli precedenti la Scola aveva costituito il centro di tutta la vita ebraica, mentre la nuova struttura monumentale era vissuta prevalentemente per gli aspetti più strettamente cultuali. Il Tempio Maggiore presentava un altare non più al centro della sinagoga,ma sotto l’Aron HaKodesh (l’armadio che contiene i rotoli del Pentateuco); il rabbinato era delegato in tutto e per tutto a svolgere le funzioni religiose, visto che la maggioranza della popolazione stava perdendo la conoscenza dell’ebraico e delle preghiere ad esso associate.
La nuova conformazione poneva anche una certa distanza, fisica e culturale, fra il chazan (cantore) e la keillah (comunità), simboleggiata dagli scalini che conducono alla Tevà(altare). Questi aspetti simbolici sono correlati alla nuova identità e ai relativi comportamenti degli ebrei nell’età post risorgimentale, che producevano, oltre al processo di integrazione, anche quello dell’assimilazione. Peraltro, quella dell’equiparazione dei diritti fu solo un’illusione, come dimostrarono le leggi del 1938 che avrebbero privato gli ebrei di molti dei diritti acquisti nei decenni precedenti e che furono preludio alla Shoah. Proprio il Tempio Maggiore di Roma fu il crocevia di questa falsa speranza: al momento della sua inaugurazione, il 28 luglio 1904, vide la partecipazione del re Vittorio Emanuele III, proprio colui che, 34 anni dopo, firmò le suddette leggi antiebraiche. Durante l’occupazione di Roma, alla sinagoga furono apposti i sigilli. La nuova inaugurazione avvenne con una solenne cerimonia il 9 giugno 1944, a pochi giorni dalla liberazione della città dai nazifascisti. Dopo l’orrore, riprendeva lentamente la vita della comunità ebraica romana e il Tempio Maggiore ne era uno dei principali scenari. Negli anni successivi divenne teatro di altri episodi destinati a segnare la storia degli ebrei e dell’Italia e non solo: proprio qui, il 9 ottobre 1982, si verificò il terribile attentato terroristico di matrice palestinese che tolse la vita al piccolo Stefano Gaj Taché di soli due anni e ferì 42 persone. Ancora una volta gli ebrei furono lasciati soli, soprattutto dalle istituzioni italiane, ancora una volta traditi.
Parallelamente, il Tempio Maggiore fu emblema della forte ripresa della collettività ebraica capitolina che, fra l’altro, tra il 1967 e il 1970 accolse gli ebrei espulsi dalla Libia. Il Tempio Maggiore ha accolto tre papi: Giovanni Paolo II nel 1986, Benedetto XVI nel 2010, Francesco nel 2016. Tali eventi hanno segnato un passaggio epocale nelle relazioni ebraico-cristiane. Più di recente, nei mesi della primavera 2020, durante il lockdown causato dalla nota pandemia il bethhakneseth è stato chiuso per la seconda volta nella sua storia, per un altro motivo tragico e non previsto.
Oggi ci attende un futuro pieno di incognite ma anche di speranze. Alle tante sfide da affrontare dovremo rispondere con una forte coesione interna e con la capacità di aprirci all’esterno senza perdersi. Il Tempio Maggiore sarà nuovamente testimone e protagonista del nostro presente e del nostro futuro.
Hezbollah colpisce il Nord di Israele: Strage di bambini in un campo da calcio
Dal 7 ottobre, i bombardamenti di Hetzbollah dal Libano non sono mai cessati, costringendo all’evacuazione oltre 80.000 israeliani, facendo morti e feriti e causando vasti incendi. Ma ieri hanno toccato il punto estremo con l’attacco a Majdal Shams, dove sono morti 12 bambini e ragazzi che giocavano, oltre 30 i feriti. Hetzbollah (e l’Iran) vuole l’escalation.
Tra le vittime Alma Ayman Fakher Eldin, 11; Milad Muadad Alsha’ar, 10; Vinees Adham Alsafadi, 11; Iseel Nasha’at Ayoub, 12; Yazan Nayeif Abu Saleh, 12; Johnny Wadeea Ibrahim, 13; Ameer Rabeea Abu Saleh, 16; Naji Taher Alhalabi, 11; Fajer Laith Abu Saleh, 16; Hazem Akram Abu Saleh, 15; Nathem Fakher Saeb, 16
Ciao mamma, vado a giocare a calcio. Ci vediamo più tardi. O forse no. Forse non ci vediamo più. Forse non torno più a casa e questo pomeriggio verrai al cimitero a seppellirmi.
Perché questa è la realtà in Israele, specialmente nelle terre più a nord, vicine al confine, verso cui Hezbollah – gruppo terroristico sciita che occupa illegalmente il Libano meridionale – ha lanciato migliaia di munizioni dall’8 ottobre.
Così, sabato 27 luglio, un Falaq-1 iraniano con una testata di oltre 50 chilogrammi di esplosivo ha colpito il villaggio druso di Majdal Shams, sulle alture del Golan, uccidendo 12 bambini e adolescenti che si allenavano in un campo da calcio. Si tratta dell’attacco più mortale dal 7 ottobre.
Le sirene hanno suonato, ma, come spesso accade vicino al confine, tra quando le sirene suonano e quando il razzo colpisce passano solo pochi secondi, un minuto al massimo: un tempo insufficiente per mettersi al riparo. I soccorritori del Magen David Adom hanno descritto scene di carneficina sanguinosa e brandelli di corpi. Il residente druso Zola Abu Salah ha raccontato alla radio militare: «Stiamo parlando di 12 bambini al cimitero in un giorno. C’è tristezza, c’è disastro, c’è tragedia, e poi c’è quello che è successo ieri a noi». Delle 12 vittime, i nomi di 11 sono stati resi pubblici:
Milad Muadad Alsha’ar, 10 anni
Alma Ayman Fakher Eldin, 11 anni
Vinees Adham Alsafadi, 11 anni
Naji Taher Alhalabi, 11 anni
Iseel Nasha’at Ayoub, 12 anni
Yazan Nayeif Abu Saleh, 12 anni
Johnny Wadeea Ibrahim, 13 anni
Hazem Akram Abu Saleh, 15 anni
Ameer Rabeea Abu Saleh, 16 anni
Fajer Laith Abu Saleh, 16 anni
Nathem Fakher Saeb, 16 anni
Inoltre, lo Ziv Medical Center di Safed ha dichiarato di aver ricoverato 32 feriti, alcuni in condizioni gravi.
Il municipio di Tel Aviv illuminato con la bandiera drusa
Hezbollah ha inizialmente rivendicato una raffica di razzi Katyusha e di un razzo pesante Falaq contro Israele come risposta all’eliminazione da parte di Israele di un agente della forza d’élite Radwan dell’organizzazione terroristica.
Anche Tasnim News, l’outlet del regime islamico iraniano – che finanzia e sostiene Hezbollah -, ha inizialmente pubblicato la notizia celebrando la morte di “una decina di sionisti”.
Ma i drusi non sono sionisti, bensì un gruppo etnoreligioso arabo propaggine dell’Islam sciita, e appena si è saputa l’appartenenza drusa delle vittime Hezbollah ha rinnegato ogni responsabilità: «La Resistenza islamica non ha alcun legame con questo incidente», ha dichiarato.
Secondo alcuni, Siria occupata, per altri, Palestina occupata, le alture del Golan sono state conquistate da Israele durante la guerra dei sei giorni nel 1967 e annesse ufficialmente nel 1981. Tra gli arabi non c’è un vero consenso su chi debbano appartenere quelle terre, ma solo sul fatto che, lì come altrove, Israele non dovrebbe esistere. E per questo, nonostante metà della popolazione sia araba, le milizie di Hezbollah continuano a colpire l’area.
Un’analisi dell’IDF indica che il razzo che ha colpito Majdal Shams è stato lanciato da un’area situata a nord del villaggio di Chebaa, nel Libano meridionale.
Il colonnello Avichay Adraee ha identificato il direttore dell’attacco nel comandante libanese Ali Muhammad Yahya: «Nonostante i suoi tentativi di negarlo, Hezbollah è responsabile del massacro di Majdal Shams e dell’uccisione di bambini e ragazzi nel campo di calcio». Hagari, il portavoce dell’IDF, ha avvalorato tali dichiarazioni: «La nostra intelligence è chiara: Hezbollah è responsabile dell’uccisione di bambini innocenti, e ancora una volta la brutalità di Hezbollah come organizzazione terroristica è stata esposta».
Preoccupato per le ritorsioni previste, il governo libanese ha condannato pubblicamente «tutti gli attacchi di violenza contro i civili, palese violazione del diritto internazionale, contraria ai principi dell’umanità», e ha chiesto «una cessazione immediata delle ostilità su tutti i fronti». Il leader spirituale della comunità drusa in Israele, Sheikh Mowafaq Tarif: “Siamo profondamente scioccati per il terribile massacro nell’orribile attacco terroristico. Uno stato governato dallo stato di diritto non può permettersi di mettere in pericolo i propri cittadini. Finora Israele ha cercato di non reagire ma è stata superata ogni possibile linea rossa e nera”. Le sue parole sono destinate a generare solidarietà tra i drusi in Libano. Circa 150.000 drusi vivono in tutto Israele, 25.000 dei quali sulle alture del Golan, 10.000 dei quali vivono a Majdal Shams. Ci sono quattro villaggi drusi sulle alture del Golan. L’attacco di sabato fa ulteriormente leva sul già preponderante malcontento della popolazione del nord di Israele, che percepisce il governo come incapace di garantire la sicurezza dei cittadini, anche dopo nove mesi di combattimenti. Il disordine interno al Paese che spinge per le dimissioni di Netanyahu è peraltro uno degli obiettivi della Repubblica Islamica, la cui stabilità è minacciata da una probabile coalizione del premier israeliano con Trump, qualora rieletto.
Il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale americano ha condannato l’attacco e ribadito il sostegno a Israele in una dichiarazione scritta alla CNN:
«Israele continua ad affrontare gravi minacce alla sua sicurezza, come il mondo ha visto oggi, e gli Stati Uniti continueranno a sostenere gli sforzi per porre fine a questi terribili attacchi lungo la Blue Line, che deve essere una priorità assoluta. Il nostro sostegno alla sicurezza di Israele è ferreo e incrollabile contro tutti i gruppi terroristici sostenuti dall’Iran, incluso Hezbollah libanese».
Appreso l’accaduto, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, che si trovava negli Stati Uniti, ha ordinato di anticipare il suo ritorno in patria. In una telefonata con lo sceicco Tarif – leader spirituale della comunità drusa israeliana – ha promesso che Hezbollah «pagherà un alto prezzo per questo grave incidente, più di quanto non abbia mai pagato: agiremo di conseguenza».
Il presidente israeliano Isaac Herzog ha condannato l’attacco come un «terribile e scioccante disastro» e ha giurato che Israele avrebbe difeso i suoi cittadini: «Non ci sono parole che possano confortare le famiglie delle giovani vittime che hanno perso la vita senza alcuna colpa».
Anche il ministro degli Esteri Katz ha promesso che Hezbollah, che ha oltrepassato tutte le linee rosse, avrebbe ricevuto una risposta adeguata: «Un paese civile non può permettere che i suoi cittadini e residenti continuino a subire danni. Questa è stata la realtà per nove mesi nelle comunità del nord. Ci stiamo avvicinando al momento di una guerra su vasta scala con Hezbollah e il Libano».
L’esercito ha infatti affermato che durante la notte l’aeronautica israeliana ha colpito una serie di obiettivi terroristici di Hezbollah sia nel profondo del territorio libanese che nel Libano meridionale, tra cui depositi di armi e infrastrutture terroristiche nelle aree di Chabriha, Borj El Chmali e Beqaa, Kfarkela, Rab El Thalathine, Khiam e Tayr Harfa.
La terribile strage dei bambini drusi israeliani apre una nuova fase delle guerra
di Ugo Volli
• L’ecatombe dei bambini In seguito a un colpo diretto di un missile Falaq 1 di produzione iraniana con 50 chilogrammi di esplosivo sparato sabato sera da Hezbollah dall’area di Chebaa in Libano su un campo sportivo di Majdal Shams, il principale centro druso in alta Galilea ai piedi del Monte Hermon, almeno dodici cittadini israeliani appartenenti alla comunità drusa sono stati uccisi, tra cui bambini e adolescenti di età compresa tra dieci e vent’anni. Almeno altri diciannove sono rimasti feriti in vari gradi, tra cui sei sono gravi, e sono trattati all’ospedale Rambam di Haifa. Il missile dei terroristi, uno fra le decine sparate nel pomeriggio e nella serata, ha colpito un campetto di calcio, dove i ragazzi stavano facendo una partita di calcio. È la perdita più pesante che colpisce Israele dopo il 7 ottobre, un crimine orrendo anche perché le vittime sono ragazzi. Ma non si tratta di un caso o di un errore, sia perché i missili di Hezbollah non sono sparati in direzioni approssimative come quelli di Hamas, ma diretti con guida elettronica, sia perché c’è una lunga storia di attacchi diretti ai paesi della Galilea, che per la maggior parte sono stati evacuati per questa ragione. Purtroppo ciò non è accaduto per volontà degli abitanti a Majdal Shams e il tiro diretto da meno di quattro chilometri di distanza non ha permesso l’intervento degli antimissili come Iron Dome.
• Chi sono i drusi I drusi sono una comunità etnico-religiosa sparsa in tutto il Medio Oriente, in Israele sul Carmelo e in Galilea, ma anche in Siria e in Libano. Appartengono a una corrente religiosa iniziatica e molto chiusa che si è distaccata parecchi secoli fa dall’Islam sciita. In generale la loro politica è di appoggiare gli stati in cui sono insediati, per esempio in Israele militano nell’esercito con grande coraggio e distinzione; ma in Siria sono fedeli al regime e in Libano sono per lo più alleati degli sciiti. Questa differente collocazione politica non impedisce alle diverse comunità di essere legate da una grande solidarietà. Abitanti delle montagne, fortemente minoritari dappertutto, sono sopravvissuti nei secoli grazie alla loro compattezza sociale e all’eroismo militare. Sono quindi rispettati e spesso temuti da tutto il mondo arabo. Questa è la ragione per cui Hezbollah, che pure aveva rivendicato la cinquantina di missili sparati ieri sul territorio israeliano, si è affrettato a negare di essere coinvolto in questo orrendo crimine. Ma le prove sono chiare, Israele ha i tracciati dello sparo e i frammenti del missile e ha già compiuto una rappresaglia iniziale sulla batteria di lancio del missile.
• Una situazione intollerabile Questo terribile episodio non si può concludere con la distruzione della rampa di lancio, com’è accaduto decine di volte per i colpi sparati da Hezbollah. Israele non può accettare che la propria popolazione civile sia continuamente minacciata e colpita da Hezbollah, non può subire lo spopolamento della Galilea trasformata nel bersaglio dei missili di Hezbollah, anche perché questo territorio si sta estendendo fino alle città del nord come Tzafat e perfino Haifa. I drusi non accetterebbero l’inazione di Israele e se non fossero tutelati metterebbero in crisi la loro lealtà e tenderebbero a farsi giustizia da soli. Insomma, mentre gli Usa parlano insistentemente di fine della guerra al Sud, quel che questo episodio potrebbe probabilmente provocare è l’accensione del fronte settentrionale. Hezbollah ha già ordinato alle proprie truppe e ai capi di nascondersi in assetto di guerra, l’Iran ha minacciato rappresaglie nel caso di un intervento in Libano, gli alti gradi delle forze armate israeliane hanno segnalato da tempo che l’esercito israeliano è pronto al combattimento. Vari governi occidentali, prima di tutto gli Usa, hanno dichiarato solidarietà a Israele.
• Le ipotesi di risposta È impossibile dire che cosa il governo israeliano deciderà di fare. Netanyahu ha interrotto in anticipo la visita americana e sta tornando in Israele. Questo pomeriggio alle 16 si riunisce il governo per prendere le decisioni definitive. Ci sono diverse strategie possibili. La più limitata è un’ondata di bombardamenti che faccia terra bruciata per i terroristi del territorio vicino al confine, da cui è stato sparato il missile che ha fatto strage a Majdal Shams. Hezbollah non avrebbe il diritto di stare lì, secondo gli accordi presi all’Onu dopo la fine dell’ultima guerra in Libano il territorio a sud del fiume Litani a 10 chilometri circa dal confine, dovrebbe essere smilitarizzato e sotto il controllo di una forza dell’Onu (Unifil, cui partecipa anche un contingente italiano). Ma questo non è avvenuto, anche perché Unifil ha sempre ceduto alla violenza dei terroristi, fino a farsi spesso disarmare e a veder uccisi i propri militari senza reagire. Una seconda possibile scelta è che i bombardamenti si estendano a tutto il Libano, colpendo le infrastrutture e in particolare i quartieri sciiti dove ha sede Hezbollah. È un’ipotesi che rischia di produrre molte perdite anche fra la popolazione civile in mezzo a cui i terroristi si nascondono. Una terza ipotesi è un’operazione di terra, forse limitata fino al Litani, che seguirebbe le tracce di precedenti operazioni israeliane in Libano. Certamente però in ognuna di queste ipotesi bisogna tener conto che ci sarà certamente una reazione di Hezbollah e forse dell’Iran, che significa migliaia di missili sparati su tutto il territorio israeliano, con successive conseguenze, che oggi non si possono prevedere. La guerra iniziata il 7 ottobre sta entrando in una nuova fase, e non certo per una decisione di Israele.
L’attacco di Hezbollah a Majdal Shams e le sue conseguenze
L’attacco a Majdal Shams nella parte settentrionale del Golan, dove sono rimasti uccisi undici tra bambini e ragazzi drusi tra dai dieci ai i vent’anni che si trovavano in un campo di calcio preso di mira dai terroristi proxies del regime di Teheran, è finora il più grave registrato dall’inizio delle ostilità tra il gruppo sciita libanese e Israele e segna una escalation dalle conseguenze imprevedibili.
Quale sarà la reazione israeliana lo si vedrà a breve. Benjamin Netanyahu, saputo dell’attacco ha chiesto di rientrare in Israele anticipatamente dagli Stati Uniti. Una cosa, tuttavia, ci sentiamo di prevederla, l’Amministrazione Biden, cercherà di mitigare la reazione israeliana come ha già fatto il 13 aprile dopo l’attacco dell’Iran, soprattutto ora che è in corso l’ennesimo round negoziale con Hamas, che la Casa Bianca vuole concludere ad ogni costo impedendo ad Israele di raggiungere l’obiettivo militare prefissato, la smilitarizzazione di Hamas all’interno della Striscia.
a guerra vera, quella che si profila con Hezbollah, è inevitabile, e sarà una guerra che metterà a dura prova lo Stato ebraico, diminuendo per importanza e vastità l’operazione militare in corso a Gaza. Si tratterà del fronte più diretto che si aprirà contro l’Iran, il principale destabilizzatore del Medio Oriente, e sponsor diretto di Hezbollah, di Hamas, e degli Houti. L’Iran, che l’Amministrazione Biden ha trattato, fin dal suo insediamento, con i guanti bianchi.
Mancano solo quattro mesi alle elezioni americane di novembre, e mai come in questo frangente, chi siederà nello Studio Ovale avrà un ruolo decisivo per il futuro di Israele. È tutto da vedere se Israele sarà in grado di aspettare fino ad allora prima che scoppi la guerra contro Hezbollah.
Il nuovo Governo britannico non si opporrà più al mandato di arresto contro Netanyahu
Venerdì il Governo britannico ha confermato di aver abbandonato l’idea di contestare il perseguimento di un mandato internazionale contro il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, presso la Corte penale internazionale, sottolineando un cambiamento nella politica estera del nuovo primo ministro del Paese, Keir Starmer.
La decisione segna una evidente divergenza dalla politica statunitense su Israele, che il precedente governo conservatore aveva invece seguito.
Venerdì Downing Street ha reso noto che Starmer, ex avvocato per i diritti umani, aveva deciso che la Gran Bretagna non si sarebbe presentata alla Corte come previsto dal governo di Sunak.
“Questa era una proposta del precedente governo che non è stata presentata prima delle elezioni e che posso confermare che il governo non porterà avanti, in linea con la nostra posizione secondo la quale è una questione che spetta alla corte decidere”, ha detto una portavoce ufficiale di Starmer.
“Il governo crede fermamente nello stato di diritto e nella separazione dei poteri”, ha aggiunto.
A maggio, Karim Khan, il procuratore della Corte penale internazionale, ha annunciato di aver richiesto i mandati di cattura per Netanyahu e per il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, accusandoli di crimini di guerra e crimini contro l’umanità durante l’operazione militare israeliana a Gaza, tra cui la morte per fame dei civili.
Khan ha contemporaneamente richiesto i mandati per tre leader di Hamas, accusandoli di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Sunak ha descritto la richiesta di mandati contro funzionari israeliani come “profondamente inutile” e un ministro del governo, Andrew Mitchell, ha dichiarato al Parlamento: “Non riteniamo che il CIC abbia giurisdizione in questo caso”.
All’inizio di giugno, il governo ha chiesto alla Corte internazionale il diritto di presentare obiezioni, e gli è stato chiesto di presentare le proprie argomentazioni entro il 12 luglio. La scadenza è stata prorogata a venerdì, dopo che Sunak ha indetto le elezioni generali.
La decisione di non intervenire nel procedimento del tribunale internazionale segna il secondo allontanamento del nuovo governo britannico dalla politica statunitense su Israele dopo le elezioni generali di questo mese.
La scorsa settimana, David Lammy, nuovo segretario agli Esteri britannico, ha dichiarato che avrebbe ripristinato i finanziamenti alla principale agenzia di soccorso delle Nazioni Unite che aiuta i palestinesi, l’UNRWA.
Il governo sta anche valutando se continuare a vendere armi a Israele, una decisione che dipenderà da un parere legale ufficiale sul fatto che Israele abbia violato il diritto internazionale a Gaza. Husam Zomlot, il cosiddetto “ambasciatore palestinese” nel Regno Unito, ha accolto con favore la decisione di non intervenire nel caso I.C.C., descrivendola come un “passo significativo per allineare il Regno Unito allo stato di diritto”.
Ora nel corso di quel tempo, che fu lungo, avvenne che il re d'Egitto morì; e i figli d'Israele sospiravano a motivo della schiavitù, e alzavano delle grida; e le grida che il servaggio strappava loro salirono a Dio.
E Dio udì i loro gemiti; e Dio si ricordò del suo patto con Abraamo, con Isacco e con Giacobbe.
E Dio vide i figli d'Israele, e Dio ebbe riguardo alla loro condizione.
ESODO 4
Mosè ed Aaronne dunque andarono, e radunarono tutti gli anziani dei figli d'Israele.
E Aaronne riferì tutte le parole che l'Eterno avea dette a Mosè, e fece i prodigi in presenza del popolo.
Ed il popolo prestò loro fede. Essi intesero che l'Eterno aveva visitato i figli d'Israele e aveva veduto la loro afflizione, e si inchinarono e adorarono.
ESODO 5
Dopo questo, Mosè ed Aaronne vennero a Faraone, e gli dissero: 'Così dice l'Eterno, l'Iddio d'Israele: Lascia andare il mio popolo, perché mi celebri una festa nel deserto'.
Ma Faraone rispose: 'Chi è l'Eterno ch'io debba ubbidire alla sua voce e lasciar andare Israele? Io non conosco l'Eterno, e non lascerò affatto andare Israele'.
Ed essi dissero: 'L'Iddio degli Ebrei si è presentato a noi; lasciaci andare tre giornate di cammino nel deserto per offrir sacrifizi all'Eterno, ch'è il nostro Dio, onde ei non abbia a colpirci con la peste o con la spada'.
E il re d'Egitto disse loro: 'O Mosè e Aaronne, perché distraete il popolo dai suoi lavori? Andate a fare quello che vi è imposto!'
E Faraone disse: 'Ecco, il popolo è ora numeroso nel paese, e voi gli fate interrompere i lavori che gli sono imposti'.
I sorveglianti dei figli d'Israele si videro ridotti a mal partito, perché si diceva loro: 'Non diminuite per nulla il numero dei mattoni impostovi giorno per giorno'.
E, uscendo da Faraone, incontrarono Mosè e Aaronne, che stavano ad aspettarli,
21 e dissero loro: 'L'Eterno volga il suo sguardo su voi, e giudichi! poiché ci avete messi in cattivo odore dinanzi a Faraone e dinanzi ai suoi servitori, e avete loro messa la spada in mano perché ci uccida'.
Allora Mosè tornò dall'Eterno, e disse: 'Signore, perché hai fatto del male a questo popolo? Perché dunque mi hai mandato?
Poiché, da quando sono andato da Faraone per parlargli in tuo nome, egli ha maltrattato questo popolo, e tu non hai affatto liberato il tuo popolo'.
ESODO 6
L'Eterno disse a Mosè: 'Ora vedrai quello che farò a Faraone; perché, forzato da una mano potente, li lascerà andare; anzi, forzato da una mano potente, li caccerà dal suo paese'.
E Dio parlò a Mosè, e gli disse:
'Io sono l'Eterno, e apparii ad Abraamo, ad Isacco e a Giacobbe, come l'Iddio onnipotente; ma non fui conosciuto da loro sotto il mio nome di Eterno.
Stabilii pure con loro il mio patto, promettendo di dar loro il paese di Canaan, il paese dei loro pellegrinaggi, nel quale soggiornavano.
Ed ho anche udito i gemiti dei figli d'Israele che gli Egiziani tengono in schiavitù, e mi son ricordato del mio patto.
Perciò di' ai figli d'Israele: Io sono l'Eterno, vi sottrarrò ai duri lavori di cui vi gravano gli Egiziani, vi emanciperò dalla loro schiavitù, e vi redimerò con braccio steso e con grandi giudizi.
E vi prenderò per mio popolo, e sarò vostro Dio; e voi conoscerete che io sono l'Eterno, il vostro Dio, che vi sottrae ai duri lavori impostivi dagli Egiziani.
E v'introdurrò nel paese, che giurai di dare ad Abrahamo, a Isacco e a Giacobbe; e ve lo darò come possesso ereditario: io sono l'Eterno'.
E Mosè parlò a quel modo ai figli d'Israele; ma essi non dettero ascolto a Mosè, a motivo dell'angoscia dello spirito loro e della loro dura schiavitù.
E l'Eterno parlò a Mosè, dicendo:
'Va', parla a Faraone re d'Egitto, ond'egli lasci uscire i figli d'Israele dal suo paese'.
Ma Mosè parlò nel cospetto dell'Eterno, e disse: 'Ecco, i figli d'Israele non mi hanno dato ascolto; come dunque darebbe Faraone ascolto a me che sono incirconciso di labbra?'
E l'Eterno parlò a Mosè e ad Aaronne, e comandò loro d'andare dai figli d'Israele e da Faraone re d'Egitto, per trarre i figlid'Israele dal paese d'Egitto.
Le Forze di difesa israeliane: “Colpito un centro di comando di Hamas in una scuola a Deir al Balah”
I caccia delle Forze di difesa israeliane (Idf) hanno colpito oggi un centro di comando e controllo attribuito al movimento islamista palestinese Hamas all’interno di una scuola a Deir al Balah, nel centro della Striscia di Gaza. Lo hanno dichiarato le stesse Idf in una nota, aggiungendo di aver ucciso nell’attacco membri di Hamas che si nascondevano all’interno della scuola delle Nazioni Unite utilizzata come rifugio per i palestinesi sfollati. In precedenza, il ministero della Sanità di Gaza, gestito da Hamas, ha riferito che le forze israeliane hanno attaccato l’ospedale da campo della scuola di Khadija, situata nell’ovest di Deir al Balah, uccidendo almeno 30 persone e ferendone più di 100, molte delle quali in modo grave.
Secondo quanto affermato dalle Idf, il centro di comando colpito era utilizzato dai miliziani di Hamas per pianificare ed eseguire attacchi contro i militari israeliani operativi a Gaza e contro Israele, e per sviluppare e conservare armi. Per rendere minimi i danni ai civili, le Idf hanno dichiarato di aver compiuto “molti passi”, tra cui l’uso di “munizioni adatte al tipo di attacco” e la sorveglianza aerea. “Questo è un ulteriore esempio della sistematica violazione del diritto internazionale da parte dell’organizzazione terroristica di Hamas e dello sfruttamento delle strutture e della popolazione civile come scudi umani per i suoi attacchi contro lo Stato di Israele”, hanno affermato le Idf nel comunicato. Nelle ultime settimane, secondo quanto riportato dalle Idf, sono stati condotti più di 50 attacchi aerei contro siti di Hamas incorporati in scuole e altre strutture utilizzate come rifugi per i civili.
Sempre le Forze di difesa israeliane (Idf) nelle ultime ore hanno emesso nuovi ordini di evacuazione per i palestinesi della città di Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza, perché il movimento islamista Hamas starebbe operando nella zona umanitaria designata da Israele. In una nota, le Idf hanno ordinato ai palestinesi rifugiati nell’area di evacuare temporaneamente verso la zona vicina di Al Mawasi, avvertendo che saranno effettuati pesanti attacchi contro gli operatori e le infrastrutture del gruppo islamista. Attraverso sms, messaggi vocali, telefonate e i media, le Forze di difesa israeliane hanno ordinato ai civili che si trovano nella zona umanitaria designata di spostarsi altrove, sottolineando che “rimanere nell’area è diventato pericoloso”. Una fonte militare citata dal quotidiano “The Times of Israel” afferma che gli ospedali dell’area non hanno bisogno di essere evacuati e che le Idf lo hanno comunicato ai funzionari sanitari palestinesi e a quelli della comunità internazionale.
In una nota, le Idf hanno inoltre dichiarato che i caccia hanno colpito decine di obiettivi nella Striscia di Gaza nelle ultime 24 ore. Secondo le Idf, gli obiettivi includevano un sito di lancio di razzi nel quartiere Zeitoun di Gaza City, nel nord della Striscia, oltre a edifici attribuiti a gruppi terroristici e cellule di miliziani.
Nel frattempo, nel sud di Gaza, la 98ma Divisione delle Idf avrebbe fatto irruzione in diversi siti attribuiti al movimento islamista palestinese Hamas a Khan Yunis, compresi i tunnel, e avrebbe localizzato numerose armi. Infine, nella città meridionale di Rafah, la 162ma Divisione delle Idf ha fatto irruzione in altri siti attribuiti a Hamas e ha ucciso diversi presunti miliziani, si legge nella nota.
Da ritiro Idf a cessate il fuoco, Hamas conferma richieste per accordo
Hamas non indietreggia e insiste sulle ultime richieste contenute nell’ultima proposta di accordo presentata ai mediatori, in particolare sul fatto che ci debba essere un ritiro completo delle Forze di difesa israeliane (Idf) dalla Striscia di Gaza per la liberazione di tutti gli ostaggi. Lo scrive il quotidiano Al-Mayadeen, vicino a Hezbollah, citando una propria fonte, a condizione di anonimato, alla vigilia del vertice previsto per domenica a Roma tra il direttore della Cia Bill Burns, il capo del Mossad Dedi Barnea, il primo ministro del Qatar Mohammed bin Abdel Rahman al-Thani e il capo dell’intelligence egiziana Abbas Kamal.
Secondo la fonte citata dal quotidiano vicino a Hezbollah, Hamas ha chiesto che il ritiro dei militari di Israele dalla Striscia includa il corridoio di Netzarim e quello di Filadelfia. Inoltre Hamas non accetterebbe alcun nuovo accordo per il rilascio degli ostaggi che non includesse un testo chiaro sul raggiungimento di un cessate il fuoco permanente, ha aggiunto la fonte.
Al-Mayadeen scrive anche che la fonte ha affermato che Hamas non è contrario ad assumere temporaneamente l’amministrazione governativa della Striscia con un consenso nazionale, qualora non si dovesse raggiungere un accordo sulla governance di Gaza e della Cisgiordania.
Il ministero della Sanità di Gaza controllato da Hamas ha denunciato che un attacco israeliano contro una scuola, che fungeva da rifugio per sfollati nella città di Deir al Balá, ha provocato almeno 30 morti e un centinaio di feriti. L’agenzia di stampa ufficiale palestinese Wafa riferisce che sono stati colpiti un centro medico e un luogo di preghiera all’interno della scuola Khadija, a ovest della città. Israele ha confermato solo gli attacchi nel sud dell’enclave, a Rafah e Khan Yunis, così come nel quartiere Zeitun a Gaza City.
La direzione del vicino ospedale dei Martiri di Al Aqsa ha confermato al quotidiano ‘Filastin’, affiliato ad Hamas, l’arrivo di “decine di morti e feriti” in seguito all’attacco israeliano, anche se non ha potuto fornire un numero preciso vittime. Le squadre di ambulanze e di protezione civile continuano a soccorrere i cittadini e “il numero dei morti potrebbe aumentare in qualsiasi momento”, secondo la Wafa.
Sono almeno 39.258 i palestinesi che sono stati uccisi nella Striscia di Gaza dallo scorso 7 ottobre secondo il ministero della Sanità di Gaza aggiungendo che 90.589 sono rimasti feriti nell’offensiva militare israeliana. Solo nelle ultime 24 ore sono stati uccisi 41 palestinesi e 103 sono rimasti feriti, aggiungono le autorità di Gaza accusando Israele di aver compiuto nell’ultima giornata ”quattro massacri contro le famiglie”.
Israele ha annunciato dal canto suo che “agirà con forza” nel sud di Khan Younis e ha ordinato una nuova evacuazione dei residenti. L’esercito israeliano ha dichiarato di aver annunciato l’ultima evacuazione di massa per le aree meridionali della città di Khan Younis tramite Sms, telefonate, messaggi audio registrati e trasmissioni in lingua araba.
L’ultimo ordine di evacuazione si aggiunge all’evacuazione della scorsa settimana delle aree orientali della città meridionale devastata dalla guerra, che ha costretto circa 180.000 palestinesi a fuggire entro quattro giorni e con pochi beni. Nel suo ultimo ordine, l’esercito israeliano ha affermato che “agirà con forza contro l’organizzazione terroristica” a Khan Younis e ha accusato Hamas di utilizzare “gli abitanti di Gaza come scudi umani”.
Le agenzie delle Nazioni Unite hanno aspramente criticato la politica israeliana di sfollamento di massa della popolazione civile di Gaza e gli attacchi da parte dei suoi militari su aree precedentemente dichiarate da Israele come le cosiddette “zone sicure”.
Quattro raid aerei Usa-Regno Unito hanno colpito l’aeroporto di Hodeidah nello Yemen, ha riferito la televisione Al Masirah, un canale controllato dagli Houthi. Le forze armate statunitensi e britanniche hanno effettuato attacchi congiunti contro gli Houthi dal 12 gennaio in risposta agli attacchi dei ribelli contro le navi nel Mar Rosso.
Una nave militare israeliana, impiegata dalla Shayetet 3 della Marina Militare, in coordinamento con l’Iaf, ha intercettato con successo un drone entrato nelle acque israeliane proveniente dal territorio libanese riporta il Jerusalem Post.
A Parigi tutto è pronto per l’avvio della cerimonia inaugurale delle Olimpiadi. Tra minacce di attacchi terroristici e sabotaggi delle rete ferroviaria, la capitale si appresta a salutare sfilata degli atleti. Per la prima volta non avverrà all’interno di uno stadio: sulla Senna compariranno 85 imbarcazioni con a bordo le delegazioni dei diversi paesi partecipanti. Israele e Italia, per una questione alfabetica, saranno sullo stesso battello rappresentati dai rispettivi portabandiera. A tenere in alto la bandiera con la Stella di Davide saranno il nuotatore Andi Murez e il judoka Peter Paltchick; il tricolore sarà affidato al saltatore in alto Gianmarco Tamberi e alla schermitrice Arianna Errigo. Tutti e quattro puntano a una medaglia, così come l’australiana Jessica Fox, considerata la più grande canoista di slalom individuale di sempre. Per lei è la quarta Olimpiade e quattro sono le medaglie fino ad ora conquistate. Un bottino che Fox, scelta dal suo paese come portabandiera, spera di aumentare in questa edizione parigina. Per lei, figlia dell’atleta ebrea francese Myriam Jerusalmi e del britannico Richard Fox, competere in Francia rappresenta un ritorno alle origini. Nata a Marsiglia nel 1994, a quattro anni si trasferì con la famiglia in Australia, iniziando a undici anni la sua carriera da canoista, allenata dalla madre, bronzo per la Francia alle Olimpiadi di Atlanta. «Ovviamente il legame con la Francia è molto forte e sarà un momento meraviglioso, speciale e unico poter unire le mie due culture: quella francese e quella australiana», ha sottolineato Fox. Due identità a cui si unisce quella ebraica. «È bello avere il supporto della comunità», ha raccontato la campionessa al sito Kveller nel 2021. Parole pronunciate prima delle Olimpiadi di Tokyo in cui poi ha conquistato il suo primo oro. A Parigi è pronta a ripetersi e al suo fianco ci sarà, oltre alla madre allenatrice, anche la sorella Noemi.
Per molti atleti Parigi rappresenta il debutto ai Giochi. Ad esempio lo sarà per la nuotatrice americana Claire Weinstein, 17 anni. Il 28 luglio si tufferà in vasca per strappare un buon piazzamento nella 200 m stile libero. Su di lei il team Usa punta molto, soprattutto per il futuro. Ma già a Parigi potrebbe salire sul podio. Del resto alle qualificazioni nazionali è arrivata a pochi centesimi da Katie Ledecky, sette volte medaglia d’oro olimpica, che punta a riconfermarsi. Insieme le due parteciperanno alla staffetta 4×200 stile libero. L’agenzia di stampa ebraica Jta ricorda che per il suo bat mitzvah Weinstein ha sposato un progetto di volontariato per avviare i bambini al nuoto, oltre a sostenere un’associazione che aiuta i giovani nuotatori ad allenarsi.
Altra debuttante sarà Sarah Levy, titolare della selezione femminile Usa del rugby a sette. Nata a Cape Town, come per Fox lo sport fa parte dell’eredità di famiglia. Il nonno Louis Babrow è stato una star della squadra sudafricana degli anni Trenta. Di lui il canale Espn ha ricordato un episodio legato a Yom Kippur: nel 1937 la selezione sudafricana – Sprinboks – doveva recarsi in Nuova Zelanda per un match chiave contro gli All Blacks. La partita coincideva però con il giorno più sacro per l’ebraismo e Babrow, per rispettarlo, non sarebbe potuto scendere in campo. Per aggirare il divieto, trovò una sua risposta alla questione, non fondata sulla legge ebraica. Al suo allenatore disse: «Sono un ebreo sudafricano, non un ebreo neozelandese e c’è un fuso orario di otto ore tra Nuova Zelanda e Sudafrica. Quando giocheremo, Yom Kippur non sarà ancora iniziato in Sudafrica». Gli Springboks vinsero quella partita e Babrow fu uno degli uomini chiave. Ma, per sua scelta, quella fu la sua ultima apparizione da rugbista professionista. Tornato in patria divenne medico ed entrò nell’esercito britannico, servendo nella seconda guerra mondiale. Partecipò alla battaglia di Dunkerque, fu ferito a El Alamein, servì anche in Italia. Tornato in Sudafrica, divenne uno strenuo oppositore del sistema dell’apartheid. Un uomo di grande tenacia e valori, ha raccontato la nipote, fonte per lei d’ispirazione.
Fedriga, Fvg concede il patrocinio alla partita Italia-Israele
Il sindaco di Udine lo aveva negato perché 'l'evento è divisivo'
TRIESTE – "Con soddisfazione e orgoglio la Regione Friuli Venezia Giulia patrocinerà la partita Italia-Israele, come avviene regolarmente per eventi internazionali di questa rilevanza. La decisione, già annunciata, è ora concretizzata dando risposta positiva alla richiesta della Federazione italiana gioco calcio ed è stata assunta con la convinzione che, nello sport, non debba esserci spazio per alcun tipo di discriminazione". Lo ha detto il governatore del Fvg Massimiliano Fedriga confermando la disponibilità dell’amministrazione regionale. La partita, valida per la Nations League, è in programma il 14 ottobre allo stadio di Udine e il sindaco Alberto Felice De Toni (centrosinistra) aveva negato il patrocinio considerando l’evento "divisivo".
Per Francesca Albanese, Netanyahu è uguale a Hitler
E’ questa la statura etica e la profondità storico-politica degli esperti dell’Onu che vanno in giro a calunniare Israele su “apartheid” e “genocidio”?
Il post con cui Francesca Albanese approva
e sottoscrive il paragone fra Hitler e Netanyahu
La sedicente esperta di diritti umani per le Nazioni Unite Francesca Albanese ha sottoscritto un post sui social network che paragona esplicitamente il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ad Adolf Hitler. Francesca Albanese, che è Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti nei territori palestinesi, ha reagito con piena approvazione a un post su X che accosta un’immagine di Hitler, celebrato da una folla acclamante con saluti nazisti, a uno scatto di Netanyahu accolto questa settimana da membri del Congresso degli Stati Uniti.
“La storia è sempre lì che guarda” era la scritta che accompagnava il post di Craig Mokhiber, un ex funzionario Onu per i diritti umani che lo scorso 28 ottobre, quattro giorni prima del suo pensionamento, si è dimesso dalla carica di direttore dell’ufficio di New York dell’Alto Commissariato Onu per i diritti umani accusando l’organismo mondiale di non aver saputo impedire il “genocidio” dei civili palestinesi a Gaza (Nota: la controffensiva di terra israeliana nella striscia di Gaza era iniziata da un giorno). “Questo è esattamente ciò che pensavo oggi” ha scritto giovedì Francesca Albanese a commento del post di Craig Mokhiber che equipara Netanyahu a Hitler.
Giovedì sera, il Ministero degli esteri israeliano ha attaccato Francesca Albanese definendola “irrecuperabile”. “Ancora una volta diffonde odio ignobile e abusa della memoria della Shoah – afferma il post su X del Ministero di Gerusalemme – È inconcepibile che ad Albanese sia ancora consentito usare l’Onu come scudo per diffondere antisemitismo”.
E’ intervenuta anche la missione di Israele presso l’Onu a Ginevra, affermando: “Quando un ‘esperto’ delle Nazioni Unite in carica approva la distorsione della Shoah diffusa dall’ex direttore di New York vuol dire che il sistema è marcio fino al midollo. È giunto il momento di #UNseatAlbanese” (rimuovere Albanese dall’Onu).
Il nuovo ambasciatore di Israele a Ginevra, Daniel Meron, ha usato lo stesso hashtag per denunciare che “Francesca Albanese abusa del suo titolo per diffondere odio e retorica incendiaria”.
Dal canto suo, l’ambasciatrice statunitense presso il Consiglio Onu per i diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra, Michele Taylor, ha scritto su X che il paragone tra Netanyahu e Hitler è “riprovevole e antisemita”. “Non dovrebbe esserci spazio per una retorica così disumanizzante – ha aggiunto la rappresentante di Washington – I relatori speciali (dell’Onu) dovrebbero impegnarsi a migliorare le sfide sui diritti umani, non a infiammarle”.
Tra i vari esempi citati dalla definizione operativa di antisemitismo redatta dell’Alleanza Internazionale per la Memoria della Shoah, si legge: “Fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei nazisti”.
Venerdì sera, l’ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite Linda Thomas-Greenfield ha detto che Francesca Albanese “non è adatta a questa o a qualsiasi altra posizione alle Nazioni Unite”. “Non c’è posto per l’antisemitismo da parte di funzionari affiliati alle Nazioni Unite incaricati di promuovere i diritti umani – ha scritto Linda Thomas-Greenfield su X – Anche se gli Stati Uniti non hanno mai sostenuto il mandato di Francesca Albanese, è chiaro che non è adatta a questa o a qualsiasi altra posizione all’Onu”.
(Da: Times of Israel)
(israele.net, 26 luglio 2024)
La squadra olimpica israeliana all'aeroporto Ben Gurion in partenza per Parigi
Misure di sicurezza senza precedenti nella capitale francese, già blindata alla vigilia della cerimonia inaugurale dei Giochi olimpici di Parigi 2024, mentre arrivano potenziali minacce di attentati durante l’atteso evento sportivo. Il livello di allerta è altissimo soprattutto per il rischio di un atto terroristico di matrice islamista, ancora di più dopo l’avviso trasmesso a Parigi da Israele.
• La lettera al ministro degli Esteri francese Il capo della diplomazia israeliana, Israel Katz, ha avvisato la Francia del rischio di attentati terroristici contro la delegazione israeliana da parte di terroristi legati all’Iran. Una lettera al ministro degli Esteri francese Stephane Sejournè, citata dal Times of Israel, paventa un possibile «complotto sostenuto dall’Iran per attaccare la delegazione israeliana alle Olimpiadi di Parigi» da parte di chi «cerca di minare il carattere celebrativo di questo gioioso evento». Gli 88 atleti israeliani presenti ai Giochi di Parigi sono soggetti a protezione 24 ore su 24 da parte dei servizi di sicurezza francesi e sono anche sorvegliati da funzionari dello Shin Bet, per le minacce di cui sono oggetto a causa della guerra a Gaza.
«Attualmente disponiamo di valutazioni riguardanti la potenziale minaccia rappresentata dai terroristi iraniani e da altre organizzazioni terroristiche che mirano a compiere attacchi contro i membri della delegazione israeliana e i turisti israeliani durante le Olimpiadi», ha scritto Katz.
Nelle scorse ore, la procura federale belga ha annunciato l’arresto di sette persone nell’ambito di una serie di perquisizioni in tutto il Paese che avevano come obiettivo le attività di un terrorista e la possibile preparazione di un attentato. «In questa fase non abbiamo dettagli sui luoghi o sugli obiettivi, ma ciò che è stato trovato suggerisce che si stava preparando un attacco», ha detto Arnaud d’Oultremont, un portavoce dell'ufficio del pubblico ministero.
Inoltre, da qualche giorno è in circolazione sui social media un video con un militante di Hamas che minaccia la Francia, ma per esperti di sicurezza sarebbe «un falso» da attribuire alla propaganda filorussa. Nel filmato un uomo, con il volto nascosto da una kefiah e con una bandiera palestinese sul petto, accusa la Francia di sostenere Israele, prima di brandire quella che sembra la testa di Marianna, figura simbolica della Repubblica francese, con un berretto frigio, decapitata e insanguinata. E' stato diffuso da siti e profili social spesso non autenticati e utilizzati per scopi di propaganda e disinformazione da parte di reti russe, anche in Africa.
• La visita alla Casa Bianca Dopo il grande discorso al Congresso, per Netanyahu ieri è stato il giorno degli incontri alla Casa Bianca, prima con il presidente Biden e poi separatamente con la vicepresidente e probabile candidata democratica Kamala Harris. Da quando nel dicembre del 2022 si è costituito il governo israeliano di centrodestra, Netanyahu non era mai stato invitato nella sede della presidenza americana, com’è consueto per i primi ministri di Israele, anche se in questo periodo si è incontrato alcune volte con Biden. Dunque la visita stessa ha un significato politico di riconoscimento e di accordo, pur nelle differenze emerse fra gli alleati in questi mesi.
• Il colloquio con Biden L’incontro di Netanyahu con Biden, probabilmente l’ultimo durante questa presidenza, ha avuto un tono soprattutto affettuoso. Il primo ministro di Israele ha ringraziato di nuovo, come aveva fatto nel discorso al Congresso, il presidente per il suo lungo impegno, esprimendo apprezzamento per una collaborazione durata decenni; Biden ha iniziato il suo intervento ricordando il suo incontro con Golda Meir, cui assisteva un giovane suo collaboratore di nome Rabin. Sono passati più di cinquant’anni… Dopo un colloquio personale, all’incontro hanno partecipato le delegazioni e Netanyahu, inclusi i rapiti e le loro famiglie. Per quel che se ne sa non ci sono state decisioni politiche nuove: Biden ha insistito sulla possibilità di un accordo di cessate il fuoco e Netanyahu ha illustrato la posizione israeliana, che accetta in linea di principio la proposta americana, con le note condizioni. Ma è evidente che le trattative con l’attuale amministrazione non avvengono al livello del presidente, semmai passano per il segretario di stato Blinken, anche lui presente alla Casa Bianca, ma che interagisce continuamente con la leadership israeliana, anche con frequenti visite in Medio Oriente.
• Incontro con Kamala Harris Più nuovo e più delicato era l’incontro con Kamala Harris, personaggio nuovo che potrebbe diventare il prossimo presidente degli Stati Uniti, con cui Netanyahu non ha avuto quasi contatti in passato. Harris ha un marito ebreo, ma si appoggia ai settori più di sinistra del partito democratico e viene da uno stato, la California, che è la culla dell’atteggiamento “woke” che è tendenzialmente anti-israeliano L’incontro personale, a quanto dicono le indiscrezioni è andato bene, ma subito dopo Harris ha fatto una dichiarazione in cui precisa la posizione sulla guerra, evidentemente pensando alla campagna elettorale.
• La dichiarazione di Harris “Ho avuto un incontro onesto e costruttivo con il primo ministro Netanyahu, gli ho detto che mi assicurerò sempre che Israele possa difendersi, anche contro l’Iran e le sue milizie, come Hamas e Hezbollah. Ho sempre avuto un impegno per l’esistenza e la sicurezza dello Stato di Israele, che ha il diritto di difendersi, ma è importante il modo in cui lo fa. Hamas ha iniziato la guerra massacrando 1.200 persone, alcuni americani sono tuttora tenuti in ostaggio. Ho espresso la mia preoccupazione per la sofferenza a Gaza, l’uccisione di civili e la terribile situazione umanitaria. Ciò che è accaduto a Gaza è devastante: immagini di persone affamate in fuga verso la salvezza, non possiamo ignorarne la sofferenza e la tragedia, non starò in silenzio. Grazie al presidente, ora c’è un accordo sul tavolo. È giunto il momento che la guerra finisca in modo che Israele sia al sicuro, gli ostaggi siano liberati, la sofferenza a Gaza finisca e i palestinesi ricevano il loro diritto alla libertà, alla dignità e all’autodeterminazione. Ho detto a Netanyahu che era ora di concludere l’accordo di tregua”.
• Delusione israeliana La reazione israeliana a questo discorso, in particolare alla richiesta di “terminare subito la guerra” è stata molto criticata. E’ uscita una indiscrezione attribuita a “funzionari israeliani” in cui si dice, fra l’altro: “La dichiarazione di Kamala dopo l’incontro è stata molto più critica di ciò che ha detto a Netanyahu a porte chiuse”, aggiungendo che Netanyahu è turbato dal fatto che Kamala abbia identificato l’obiettivo della trattativa sugli ostaggi come la fine della guerra, mentre Israele sostiene che deve poter riprendere i combattimenti per completare lo smantellamento di Hamas. “Quando i nostri nemici vedono che c’è un divario tra Stati Uniti e Israele, non si impegnano a cercare accordi e puntano verso l’escalation regionale. Ci auguriamo che le critiche pubbliche di Harris nei confronti di Israele non diano ad Hamas l’impressione che ci sia un divario tra Stati Uniti e Israele e di conseguenza rendano difficile il raggiungimento dell’accordo”. In sostanza è chiaro che Harris intende muoversi già in campagna elettorale accentuando la distanza fra Israele e Usa e che se venisse eletta i rapporti fra i due alleati sono destinati a incontrare un periodo difficile. Oggi Netanyahu vola in Florida a incontrare l’altro candidato ed ex presidente Donald Trump.
Kamala Harris danneggia gli sforzi per un accordo sugli ostaggi
di Gabor H. Friedman
Secondo un alto funzionario israeliano, il fatto che Kamala Harris abbia sottolineato pubblicamente la “terribile crisi umanitaria” a Gaza e la necessità di “porre fine alla guerra” è stato dannoso per i negoziati sugli ostaggi arrivati ad un punto cruciale.
La vicepresidente ha sollevato la sua preoccupazione anche riguardo alla situazione umanitaria di Gaza durante il suo incontro con Netanyahu, osserva il funzionario israeliano, aggiungendo che il premier ha offerto ad Harris un resoconto “dettagliato e fattuale” della situazione sul campo a Gaza, e che ha respinto le sue affermazioni riguardo all’acuta insicurezza alimentare, alla sofferenza dei civili e all’alto numero di persone innocenti uccise.
Il funzionario fa riferimento a una direttiva impartita da Netanyahu dopo che Israele era finito sotto tiro all’inizio della guerra per le foto di uomini palestinesi legati e spogliati fino alla biancheria intima dopo essere stati arrestati dalle truppe israeliane. I sospetti erano combattenti di Hamas che Israele voleva confermare non avessero addosso esplosivi. In seguito al clamore suscitato dal filmato, Netanyahu ha ordinato all’IDF di permettere ai sospetti di rivestirsi immediatamente dopo il completamento delle ispezioni.
“Il problema è davvero il danno ai civili palestinesi?”, si chiede il funzionario israeliano.
“Cosa dovrebbe pensare Hamas quando sentirà questo?”, continua il funzionario, suggerendo che tali discorsi porteranno il gruppo terroristico ad inasprire le sue richieste. “Spero che non porti a una regressione nei colloqui, perché abbiamo fatto molti progressi”.
Nonostante la delusione dei funzionari israeliani per le dichiarazioni pubbliche di Harris, essi ipotizzano che i legami con l’amministrazione Biden non si deterioreranno man mano che il vicepresidente e presunto candidato democratico assumerà un ruolo più ampio.
“Siamo su un percorso di cooperazione e di chiusura delle lacune e perfezionamento dei dettagli… ma è per questo che la conferenza stampa di Harris è stata così problematica”, afferma il funzionario israeliano.
Poco prima in un briefing con i giornalisti con riferimento alla conferenza stampa di Kamala Harris dove la vice-presidente aveva espresso “perplessità” sulla guerra a Gaza, un alto funzionario israeliano aveva affermato: “Spero che le dichiarazioni rilasciate da Harris nella sua conferenza stampa non vengano interpretate da Hamas come un chiaro segnale di disaccordo tra Stati Uniti e Israele, rendendo così più difficile la conclusione di un accordo”.
“Quanto più i nostri nemici vedono che c’è un completo allineamento di posizioni tra Israele e gli Stati Uniti, tanto più aumentiamo le possibilità di garantire il rilascio degli ostaggi e diminuiamo le possibilità di una guerra regionale”, ha aggiunto il funzionario israeliano. “Quanto più il divario si allarga tra i nostri paesi, tanto più ci allontaniamo da un accordo e quindi aumentiamo anche la possibilità di un’escalation regionale”.
Nel discorso che ha tenuto ieri al Congresso degli Stati Uniti, interrotto ripetutamente da applausi e standing ovation nei suoi punti più salienti, Benjamin Netanyahu ha messo in luce con chiarezza e determinazione alcuni punti salienti della guerra a Gaza che si appresta a entrare nel suo decimo mese, come conseguenza dell’eccidio perpetrato da Hamas in Israele il 7 ottobre scorso.
Il premier israeliano ha evidenziato che si tratta di una guerra che pone il confronto tra la barbarie e la civiltà. Da una parte i jihadisti che il 7 ottobre hanno fatto il loro ingresso in Israele uccidendo barbaramente 1200 cittadini, uomini, donne, bambini, entrando nei kibbuzim a sud, e, casa per casa, cercando e assassinando nel modo più atroce gli abitanti, quindi rapendone 255, dall’altra, l’esercito israeliano, che, con il massimo impegno di minimizzare la morte dei civili, ha risposto all’attacco subito dichiarando guerra a Hamas. A questo proposito, Netanyahu ha voluto menzionare il colonnello John Spencer, tra i massimi esperti di guerra urbana, il quale ha evidenziato come Israele abbia adottato
“più precauzioni per prevenire danni ai civili di qualsiasi esercito nella storia e oltre quanto richiesto dal diritto internazionale”.
Questo confronto tra barbarie e civiltà, ed è questo uno degli aspetti fondamentali dell’intervento di Netanyahu, pone strutturalmente sullo stesso versante Israele e gli Stati Uniti, e dall’altro l’Iran, la principale forza destabilizzatrice del Medio Oriente, finanziatore di Hamas, di Hezbollah e degli Houti. Netanyahu ha voluto ricordare che il principale avversario dell’Iran non è Israele ma sono gli Stati Uniti.
“Il regime iraniano ha combattuto gli Stati Uniti dal momento in cui è salito al potere. Nel 1979 prese d’assalto l’ambasciata americana e tenne in ostaggio decine di americani per 444 giorni. Da allora, i terroristi per procura dell’Iran hanno preso di mira gli Stati Uniti in Medio Oriente e altrove. A Beirut hanno ucciso 241 militari americani. In Africa hanno bombardato le ambasciate americane. In Iraq hanno fornito esplosivi per mutilare e uccidere migliaia di soldati americani. Negli Stati Uniti mandarono addirittura gli squadroni della morte. Hanno inviato qui gli squadroni della morte per assassinare un ex segretario di stato e un ex consigliere per la sicurezza nazionale. E come abbiamo appreso di recente, hanno persino minacciato sfacciatamente di assassinare il presidente Trump”.
Nel combattere Hamas a Gaza, Israele non sta solo combattendo per se stesso, ma anche per gli Stati Uniti, questo è un concetto che Netanyahu ha voluto ribadire, così come ha sottolineato che gli Stati Uniti, nei decenni hanno provveduto a fornire ad Israele sostegno militare, ma non senza una contropartita rilevante da parte dello Stato ebraico.
“Per decenni, l’America ha fornito a Israele una generosa assistenza militare, e un Israele grato ha fornito all’America informazioni decisive che hanno salvato molte vite. Abbiamo sviluppato congiuntamente alcune delle armi più sofisticate sulla Terra. Scelgo attentamente le mie parole: abbiamo sviluppato congiuntamente alcune delle armi
più sofisticate sulla Terra, che aiutano a proteggere entrambi i nostri paesi”.
La saldatura di intelligence e militare tra Israele e gli Stati Uniti è una saldatura strutturale. Ciò che si congiunge sull’asse valoriale è congiunto su quello pratico. L’Iran e tutti i suoi delegati si pone sul versante opposto, e qui va fatta una considerazione; l’Amministrazione Biden, che Netanyahu ha ritualmente ringraziato per la sua vicinanza a Israele, sta proseguendo nei confronti del regime di Teheran la stessa politica di appeasement messa in atto dall’Amministrazione Obama, e conclusasi nel 2015, con la stipula dell’accordo sul nucleare iraniano. E di fatto, in controluce al discorso di ieri, appare quello precedente a questo, del marzo 2015, in cui Netanyahu metteva in guardia dal pericolo di un simile accordo, non solo per la sicurezza di Israele ma per quella degli Stati Uniti.
Nel 2021 Joe Biden tolse le sanzioni applicate da Donald Trump dal 2018 in poi, scongelando 250 miliardi di dollari bloccati e permettendo alle esportazioni iraniane di greggio di arrivare al loro picco. Nel novembre 2020, quando Biden vinse le elezioni, l’Iran arricchiva l’uranio al 3,67%, mentre adesso è arrivato al 90%.
Auspicare sulla carta la sconfitta di Hamas, mentre, al contempo si arricchiscono le casse del suo principale sponsor e di quello che Netanyahu ha indicato giustamente come un nemico accanito di entrambi i paesi, evidenzia, se ce ne fosse ancora bisogno, come questa amministrazione americana svolga una politica dei due forni che certamente non giova agli interessi di Israele, ma nemmeno ai propri. Donald Trump, che Netanyahu ha doverosamente ringraziato per quello che ha fatto per Israele e con il quale si incontrerà venerdì, è tra coloro che lo sanno meglio.
Parashat Pinchas: il vero valore di un leader e il senso del tempo
Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
La parashà di questa settimana contiene uno dei grandi principi della leadership. Il contesto è questo: Mosè, sapendo di non essere destinato a guidare la generazione successiva attraverso il Giordano verso la terra promessa, chiese a Dio di nominare un successore. Si ricordò di ciò che era accaduto quando si era allontanato dagli israeliti per soli 40 giorni. Erano stati presi dal panico e avevano costruito un vitello d’oro. Anche quando era presente, c’erano stati momenti di conflitto e, nella memoria recente, c’era anche la ribellione di Korach e di altri contro la sua leadership. La possibilità di una spaccatura o di uno scisma se fosse morto senza un successore designato era immensa. Così disse a Dio: “Che il Signore, il Dio che dà respiro a tutti gli esseri viventi, nomini qualcuno su questa comunità che esca davanti a loro e entri davanti a loro, uno che li guidi fuori e li porti dentro. Il popolo del Signore non sia come pecore senza pastore”. (Numeri 27:16-17) Dio scelse Giosuè e Mosè lo fece entrare. Un dettaglio nella richiesta di Mosè, tuttavia, mi ha sempre lasciato perplesso. Mosè chiese un capo che “uscisse davanti a loro e rientrasse davanti a loro, uno che li guidasse fuori e li facesse rientrare”. Questo è sicuramente dire due volte la stessa cosa. Se esci davanti al popolo, lo guidi fuori. Se entri davanti al popolo, lo fai rientrare. Perché allora dire due volte la stessa cosa?
La risposta viene dall’esperienza diretta della leadership stessa.Una delle arti della leadership – ed è un’arte, non una scienza – è il senso del tempo, il sapere cosa è possibile fare e quando.
A volte il problema è tecnico. Nel 1981 c’era la minaccia di uno sciopero dei minatori. Margaret Thatcher sapeva che il Paese aveva scorte di carbone molto limitate e che non avrebbe potuto sopravvivere a uno sciopero prolungato. Così negoziò un accordo. In pratica, si arrese. In seguito, in modo molto silenzioso, ordinò di aumentare le scorte di carbone. La volta successiva che ci fu una disputa tra i minatori e il governo (1984-1985), c’erano grandi riserve di carbone. La Thatcher si oppose ai minatori e, dopo molte settimane di sciopero, questi ammisero la sconfitta. I minatori possono aver avuto ragione entrambe le volte, o torto entrambe le volte, ma nel 1981 il Primo Ministro sapeva di non poter vincere, e nel 1984 sapeva di poterlo fare. Una sfida molto più temibile si presenta quando sono le persone, e non i fatti, a dover cambiare. Il cambiamento umano è molto lento. Mosè lo scoprì nel modo più drammatico, attraverso l’episodio delle spie. Un’intera generazione perse la possibilità di entrare nella terra promessa. Nati in schiavitù, non avevano il coraggio e l’indipendenza mentale per affrontare una lotta prolungata. Ci sarebbe voluta una nuova generazione nata in libertà.
Se non sfidi le persone, non sei un leader. Ma se le sfidi troppo o troppo in fretta, succederà un disastro. Prima ci sarà il dissenso. Le persone inizieranno a lamentarsi. Poi ci saranno le sfide alla tua leadership. Esse diventeranno sempre più clamorose, più pericolose. Alla fine ci sarà una ribellione o peggio. Il 13 settembre 1993, sul prato della Casa Bianca, Yitzhak Rabin, Shimon Peres e Yasser Arafat si strinsero la mano e firmarono una Dichiarazione di principi destinata a far progredire le parti verso una pace negoziata. Il linguaggio del corpo di Rabin, quel giorno, fece capire che aveva molte remore, ma continuò a negoziare. Nel frattempo, mese dopo mese, il disaccordo pubblico all’interno di Israele crebbe. Nell’estate del 1995, due fenomeni furono particolarmente eclatanti: il linguaggio sempre più offensivo usato tra le fazioni e diversi appelli pubblici alla disobbedienza civile, che suggerivano agli studenti in servizio nelle forze di difesa israeliane di disobbedire agli ordini dell’esercito se fossero stati chiamati a evacuare gli insediamenti come parte di un accordo di pace. Gli appelli alla disobbedienza civile su qualsiasi scala significativa sono un segno di una rottura della fiducia nel processo politico e di una profonda spaccatura tra il governo e una parte della società. Anche il linguaggio violento nell’arena pubblica è pericoloso. Testimonia una perdita di fiducia nella ragione, nella persuasione e nel dibattito civile. Il 29 settembre 1995 ho pubblicato un articolo a sostegno di Rabin e del processo di pace. In privato, tuttavia, gli scrissi e lo esortai a dedicare più tempo a vincere la discussione all’interno di Israele. Non bisognava essere un profeta per vedere il pericolo che correva nei confronti dei suoi concittadini ebrei.
Passarono le settimane e non ebbi sue notizie. Poi, il 4 novembre 1995, a Motzei Shabbat, sentimmo la notizia che era stato assassinato. Andai al funerale a Gerusalemme. La mattina dopo, martedì 7 novembre, mi recai all’ambasciata israeliana a Londra per porgere le mie condoglianze all’ambasciatore. Mi consegnò una lettera, dicendomi: “È appena arrivata questa per lei”.
L’abbiamo aperta e l’abbiamo letta insieme in silenzio. Era di Yitzhak Rabin, una delle ultime lettere che ha scritto. Era la sua risposta alla mia lettera. Era lunga tre pagine, profondamente commovente, un’eloquente riaffermazione del suo impegno per la pace. Ancora oggi è conservata, incorniciata, sulle pareti del mio ufficio. Ma era troppo tardi. Questa, nei momenti critici, è la più difficile delle sfide della leadership. Quando i tempi sono normali, il cambiamento può avvenire lentamente. Ma ci sono situazioni in cui la leadership richiede che le persone cambino, e questo è qualcosa a cui resistono, soprattutto quando vivono il cambiamento come una forma di perdita. I grandi leader vedono la necessità di cambiare, ma non tutti lo fanno. Le persone si aggrappano al passato. Si sentono al sicuro nel modo in cui le cose erano. Vedono la nuova politica come una forma di tradimento. Non è un caso che alcuni dei più grandi leader – Lincoln, Gandhi, John F. e Robert Kennedy, Martin Luther King, Sadat e lo stesso Rabin – siano stati assassinati. Un leader che non riesce a lavorare per il cambiamento non è un leader.Ma un leader che tenta un cambiamento eccessivo in un tempo troppo breve fallirà. Questo, in definitiva, è il motivo per cui né Mosè né tutta la sua generazione (con una manciata di eccezioni) erano destinati ad entrare nella terra. È un problema di tempi e ritmi, e non c’è modo di sapere in anticipo cosa sia troppo veloce e cosa troppo lento, ma questa è la sfida che un leader deve sforzarsi di affrontare. Questo è ciò che Mosè intendeva quando chiese a Dio di nominare un leader “che li preceda e avanzi, che li conduca fuori e li faccia rientrare”. Si trattava di due richieste distinte. La prima – “uscire davanti a loro ed entrare davanti a loro” – riguardava qualcuno che li guidasse dando l’esempio personale senza aver paura di affrontare nuove sfide. Questa è la parte più facile.
La seconda richiesta – quella di qualcuno che “li conduca fuori e li riporti dentro” – è più difficile. Un leader può essere davanti e al contempo vedere, quando si gira, che nessuno lo segue. È uscito “davanti” alla gente, ma non l’ha “condotta fuori”. Ha guidato, ma la gente non l’ha seguito. Il suo coraggio non è in dubbio. E nemmeno la sua visione. Ciò che è sbagliato in questo caso è semplicemente il suo senso del tempo. Il suo popolo non è ancora pronto. Sembra che alla fine della sua vita Mosè si sia reso conto di essere stato impaziente, aspettandosi che le persone cambiassero più velocemente di quanto fossero in grado di fare. Questa impazienza è evidente in diversi punti del libro dei Numeri, soprattutto quando perse le staffe a Merivà, si arrabbiò con il popolo e colpì la roccia, perdendo così la possibilità di guidare il popolo attraverso il Giordano e nella terra promessa.
Guidando il popolo, troppo spesso ha trovato persone non disposte a seguirlo. Rendendosene conto, è come se avesse esortato il suo successore a non commettere lo stesso errore. La leadership è una battaglia costante tra i cambiamenti necessari e quelli che le persone sono disposti a fare. È per questo che i leader più visionari sembrano, nel corso della loro vita, di aver fallito. Così è stato. E così sarà sempre. Ma in realtà non hanno fallito. Il loro successo arriva quando, come nel caso di Mosè e Giosuè, altri completeranno ciò che hanno iniziato. Di Rabbi Jonathan Sacks 5771, 5484
(Bet Magazine Mosaico, 26 luglio 2024) ____________________
Netanyahu negli Usa parla al Congresso: “Batteremo l’Iran anche per gli alleati”
Il premier israeliano a Washington pronuncia discorso bipartisan. Il ricordo del 7 ottobre, con lui Noa Agamani e i soldati feriti. Intanto negli Emirati avanza un piano per Gaza che coinvolge l’Italia.
NEW YORK — «Questo non è uno scontro tra le civiltà, ma tra la civiltà e la barbarie». E la barbarie è manovrata dall’Iran, nemico comune di Israele, Usa e Occidente, contro cui bisognerebbe costruire una “Alleanza di Abramo” per sconfiggere il terrorismo e ridisegnare il Medio Oriente. È il cuore del messaggio lanciato ieri da Netanyahu, nel discorso tenuto al Congresso.
Il premier dello Stato ebraico era stato accolto da scetticismo e proteste, anche per le spaccature della campagna presidenziale, al punto che la candidata democratica Harris e il vice repubblicano Vance hanno disertato l’appuntamento. Però ha scelto un tono bipartisan, ringraziando Biden e Trump, perché l’obiettivo era rinsaldare l’alleanza con gli Usa, chiunque vinca il 5 novembre.
Netanyahu ha iniziato raccontando gli orrori del 7 ottobre, ricordando gli ostaggi come Noa Argamani presente in aula, ed esaltando l’eroismo dei soldati intervenuti a salvare i civili. Poi però si è rivolto contro i manifestanti che fuori dal Congresso contestavano il suo intervento, perché «si sono schierati col male».
Hamas, come Hezbollah o gli Houti, è solo il braccio di questo male, che ha la mente altrove: «L’Iran finanzia le proteste, perché vuole provocare il caos negli Usa». Perciò gli studenti che hanno paralizzato le università americane, e i docenti che li hanno difesi, «sono gli utili idioti» di Teheran. Discorso simile per la Corte dell’Aia, che vorrebbe arrestarlo per crimini contro l’umanità, mentre lui sostiene che «il nostro esercito ha fatto più di quanto richiesto dalla legge per proteggere i civili», usati invece da Hamas come scudi.
Il premier ha inquadrato questi fenomeni nell’antisemitismo risorgente, ma ha puntato il dito soprattutto contro l’Iran, che è il regista degli attacchi, ma dopo Israele mira all’America e all’intero Occidente, come aveva anticipato l’ayatollah Khomeini minacciando l’esportazione della rivoluzione islamica. Perciò ha spiegato che «la nostra lotta è la vostra lotta», e ha usato le parole di Churchill durante la Seconda Guerra Mondiale per chiedere aiuto: «Dateci gli strumenti per finire il lavoro. Vinceremo, e la nostra vittoria sarà la vostra».
Per il futuro ha detto che «non vogliamo occupare Gaza, ma demilitarizzarla, consegnandola ad un’autorità civile palestinese che non abbia l’obiettivo di uccidere gli ebrei». Da qui si potrebbe partire per ridisegnare l’intero Medio Oriente, partendo dalla “Alleanza di Abramo” che isoli l’Iran.
Sullo sfondo del discorso, e degli incontri di oggi con Biden e Harris, e domani Trump, si muovono passi per cercare una soluzione di lungo termine. Il sito Axios ha rivelato che giovedì gli Emirati Arabi Uniti hanno ospitato ad Abu Dhabi un incontro a cui hanno partecipato il ministro degli Esteri Abdullah Bin Zayed, l’inviato del presidente Biden per il Medio Oriente Brett McGurk e del dipartimento di Stato Tom Sullivan, e il ministro israeliano per gli Affari Strategici Ron Dermer, ex ambasciatore negli Usa e stretto consigliere del premier.
Sul Washington PostDavid Ignatius ha spiegato che lo scopo era discutere un piano per il dopoguerra, partendo dal meccanismo già usato con gli Accordi di Abramo, che potrebbe coinvolgere l’Italia. Il primo passo sarebbe la formazione di un governo unitario gestito dall’Autorità Palestinese, affidato all’ex premierSalam Fayyad. Ciò consentirebbe di avviare la “fase due” del piano di pace illustrato da Biden e passare alla riorganizzazione della regione. L’autorità guidata da Fayyad avrebbe il potere di invitare partner internazionali, col mandato di un anno per stabilizzare Gaza. Si tratterebbe di fornire intelligence, aiuti, ma anche sicurezza.
I Paesi considerati sono Emirati, Egitto, Marocco e Qatar tra gli arabi, mentre fra gli altri sono menzionati Italia, Ruanda, Brasile, Indonesia e un paese dell’Asia centrale. L’operazione verrebbe approvata dall’Assemblea Generale dell’Onu, per evitare il veto della Russia nel Consiglio di Sicurezza. Seguendo la proposta avanzata dal ministro della Difesa israeliano Gallant, la zona di sicurezza garantita dalla presenza internazionale si espanderebbe progressivamente dal Nord della Striscia verso Sud. L’accordo non c’è ancora, ma il fatto che Dermer abbia aperto la porta lascia sperare che anche Netanyahu non sia contrario.
(la Repubblica, 25 luglio 2024)
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Harris e Vance disertano l’aula durante il discorso di Netanyahu. Scontri alle proteste pro Palestina
La democratica e il vice di Trump si contendono il voto musulmano.
di Anna Lombardi
NEW YORK — Decine di banchi vuoti, almeno un cartello con scritto “criminale di guerra” — stretto fra le mani della deputata del Michigan di origini palestinesi Rashida Tlaib, che per questo ha litigato con la collega della Florida Anna Paulina Luna — applausi bipartisan con tanto di standing ovation (con legislatori rimasti però ostinatamente seduti), e consensi meno caldi dal lato dell’aula dove sedevano i dem.
È un Congresso diviso quello che ieri ha accolto il primo discorso davanti alle camere riunite dal 2015 che il premier Benjamin Netanyahu ha pronunciato in una Washington blindata dove già da martedì si susseguono manifestazioni, scontri ed arresti. Fragorose proteste di migliaia di manifestanti filo palestinesi che hanno assediato il premier israeliano anche davanti al suo hotel, l’iconico Watergate, contro i quali la polizia ha usato anche spray al peperoncino.
Ci sono state defezioni importanti soprattutto fra le file dei dem, ma anche qualche repubblicano si è defilato: come il deputato Thomas Massie del Kentucky, un trumpiano che però ha spesso posizioni di politica estera diverse da quelle del partito. Circa cinquanta erano già state annunciate, altre sono avvenute mentre l’oratore, che ha parlato per circa un’ora, era sul podio. Grande e criticata assente la vicepresidente Kamala Harris che, per ruolo, avrebbe potuto moderare la seduta. «Impegni elettorali presi in precedenza» si è giustificata, ma qualcuno insinua che in un momento politicamente delicato la neocandidata alla Casa Bianca abbia preferito non farsi ritrarre col primo ministro israeliano che incontrerà comunque oggi in privato.
«Una decisione irragionevole e inconcepibile» l’ha attaccata lo speaker della Camera, il repubblicano Mike Johnson, dimenticando di bacchettare l’altro grande assente in ordine d’importanza, il candidato repubblicano alla vicepresidenza J.D. Vance. Anche lui ufficialmente altrove per motivi elettorali ma c’è chi sussurra che la vera ragione dell’assenza sia quella di non lasciare a Harris le intere simpatie dell’elettorato arabo. «Sono solidamente schierato con il popolo di Israele», si è limitato a far sapere.
Tra i numerosi big dell’asinello a non partecipare in tanti avevano definito la loro scelta una «forma di protesta contro i sanguinosi bombardamenti di Gaza». Tra gli assenti anche l’ex speaker della Camera Nancy Pelosi, che invece ha preferito incontrare le famiglie israeliane vittime delle azioni di Hamas, la pasionariaAlexandria Ocasio-Cortez, la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren. Insieme a figure più moderate come il deputato californiano di origini indiane Ami Bera e il potente leader afroamericano della Carolina del Sud James Clyburn. Parole molto dure erano state pronunciate dal senatore “socialista” Bernie Sanders: «Sono d’accordo con la Corte penale internazionale e con la commissione indipendente dell’Onu sul fatto che Netanyahu e Yahya Sinwar siano criminali di guerra». I leader dem di Camera e Senato erano lì al suo ingresso, lo hanno salutato solo con un cenno del capo e se ne sono andati poco dopo; mancavano anche tutti i membri democratici della commissione Esteri del Senato: «Vuol solo rafforzare il suo sostegno in patria e noi non vogliamo essere parte di propaganda politica», hanno detto.
Non uno schieramento compatto, comunque: il senatore moderato della Virginia Joe Manchin e quello della Pennsylvania John Fetterman sono stati gli unici non repubblicani a stringere la mano a Netanyahu dopo il discorso.
(la Repubblica, 25 luglio 2024)
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Il discorso di Netanyahu al Congresso Usa
di Ugo Volli
• UNA PROVA DIFFICILE Con un grande discorso al Congresso americano riunito per ascoltarlo, Benjamin Netanyahu ha superato con successo una delle prove più difficili della sua lunga carriera politica. Era la quarta volta che Netanyahu parlava al Congresso, un record che nessun altro leader straniero ha uguagliato nella storia. Ma le circostanze erano particolarmente difficili. Metà dei democratici, a partire dalla vicepresidente Kamala Harris che per ufficio presiede il Senato, avevano annunciato la loro assenza, con pretesti vari o esplicitamente per boicottarlo. L’America è profondamente divisa in due fronti contrapposti su tutto e purtroppo anche sulla valutazione della guerra di autodifesa di Israele. L’annuncio di qualche giorno fa della rinuncia di Joe Biden a correre per le elezioni presidenziali ha completamente cambiato il quadro politico, vincolando ogni tema a una campagna elettorale estremamente polarizzata e polemica. Il compito di Netanyahu era di cercare di mostrare ai parlamentari e al popolo americano che il sostegno a Israele è essenziale e dev’essere condiviso da tutti. Ci è riuscito con un discorso di quasi un’ora, interrotto da grandi applausi in piedi quasi ad ogni frase.
• IL 7 OTTOBRE Il punto di partenza dell’intervento è che la guerra fra Israele e Hamas “non è uno scontro di civiltà” (secondo la nota analisi di Samuel P. Huntington che un paio di decenni fa ha identificato i conflitti culturali come matrice della politica internazionale contemporanea), ma “uno scontro fra civiltà e barbarie”. Netanyahu ha paragonato il 7 ottobre all’attacco di Pearl Harbour e all’attentato alle Twin Towers (solo “20 volte più grande in rapporto alla popolazione”), ha riassunto i terribili eventi di quel giorno, ha presentato ai deputati Noa Argamani, la ragazza rapita e liberata dopo una lunga prigionia dall’intervento dell’esercito israeliano, e anche alcuni soldati che hanno compiuto in quel giorno atti di eroismo, ha polemizzato molto duramente coi manifestanti anti-israeliani (che “non conoscono la differenza fra bene e male e si schierano dalla parte degli assassini”). Ma ha evitato di polemizzare direttamente coi democratici che li sostengono o “comprendono il loro impulso morale”, come ha detto Kamala Harris di recente.
• RINGRAZIAMENTI Anzi il Primo Ministro israeliano non ha lesinato ringraziamenti al presidente Biden, ricordando la sua visita in Israele dieci giorni dopo il 7 ottobre, il suo autodefinirsi “sionista”, l’appoggio americano da lui deciso in occasione degli attacchi. Lo spirito “bipartisan” è stato rispettato quando poco dopo nel discorso Netanyahu ha citato Trump, non solo per esprimergli solidarietà per l’attentato di pochi giorni fa, ma anche per ringraziarlo di quel che ha fatto durante la sua presidenza: gli accordi di Abramo, lo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme, il riconoscimento della sovranità israeliana sul Golan.
• L’IRAN Il nucleo del ragionamento politico ha occupato la seconda parte del discorso. La guerra non è solo contro Hamas, ha detto Netanyahu, e neppure contro Hezbollah e gli Houti. Dietro a questi e agli altri gruppi terroristi c’è l’Iran. E l’obiettivo vero dell’Iran non è Israele ma gli Stati Uniti. L’Iran ha capito dalla “rivoluzione islamica” di Khomeini che deve innanzitutto distruggere Israele per unificare sotto il suo dominio tutto il Medio Oriente e poter usare il suo potere per combattere il sistema occidentale guidato dagli Usa e conquistare il mondo all’Islam. Dunque è l’Iran che va sconfitto. Per questo “quando noi combattiamo questa guerra, lo facciamo per noi, ma anche per voi, la nostra guerra è anche la vostra guerra, la nostra vittoria sarà anche la vostra vittoria”. Noi combattiamo, i nostri soldati sono eroici. Ma abbiamo bisogno dell’appoggio dell’America: devo ripetere quel che ottant’anni fa ha detto Churchill: dateci gli strumenti necessari, cioè le armi e noi ci difenderemo e vinceremo anche per voi.
• VISIONI PER IL DOPOGUERRA Dopo aver difeso l’azione dell’esercito israeliano dalle accuse false e infamanti di genocidio a Gaza (perché “è Hamas che usa i civili come scudi umani, che spara da ospedali, scuole, moschee”, mentre Israele si sforza in tutti i modi di evitare i danni ai civili), Netanyahu ha esposto per la prima volta in modo chiaro la sua prospettiva per il dopoguerra. Israele non vuole governare Gaza, ma deve avervi libertà di movimento militare per impedire il ritorno del terrorismo; vi sarà un’amministrazione civile composta da palestinesi non coinvolti con il terrorismo. Sul piano geopolitico più vasto del Medio Oriente, il primo ministro israeliano ha proposto la costituzione di un’ “alleanza di Abramo”, composta da tutti i paesi amici di Israele (o che facciano la pace con esso) e dell’America: come dopo la seconda guerra mondiale l’America costituì la Nato per sconfiggere l’imperialismo sovietico, così bisogna fare ora in Medio Oriente.
• “VI PROMETTO CHE VINCEREMO” Tutta il discorso è stato punteggiato dall’impegno fondamentale di Netanyahu: “vi prometto che vinceremo, sconfiggeremo Hamas e libereremo i rapiti, non avrò riposo fino a che non li avrò riportati a casa. La conclusione del discorso è stato il riconoscimento degli Stati Uniti come garanzia della libertà in tutto il mondo, l’appello a “democratici e repubblicani” a continuare ad appoggiare Israele, l’espressione della gratitudine dello stato ebraico al suo grande alleato, La promessa di fedeltà, la convinzione che “quando stiamo assieme, vinciamo contro tutti i nemici della civiltà”. Un grande discorso, il migliore che si potesse fare in queste circostanze, con l’obiettivo di toccare il cuore dell’America più vera e profonda. Oggi Netanyahu vedrà Biden e domani Trump.
Gli Stati Uniti si oppongono alla designazione dell'UNRWA come "organizzazione terroristica”
Miller ha sottolineato la natura controproducente di queste azioni, affermando che non facilitano in alcun modo la consegna di aiuti umanitari ai civili di Gaza.
Una proposta di legge israeliana per etichettare l'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA) come "organizzazione terroristica" ha suscitato una forte reazione da parte degli Stati Uniti. Il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Matthew Miller, ha respinto con fermezza questa descrizione mercoledì, invitando il governo israeliano e la Knesset ad abbandonare la proposta di legge.
Miller ha sottolineato la natura controproducente di queste azioni, affermando che non facilitano in alcun modo la consegna di aiuti umanitari ai civili di Gaza. Ha ribadito il continuo sostegno di Washington al lavoro dell'UNRWA, nonostante le attuali tensioni.
La proposta di legge, che ha superato una prima lettura nel parlamento israeliano lunedì, chiede di interrompere tutti i legami con l'agenzia delle Nazioni Unite. Il testo dovrà ora essere esaminato più dettagliatamente in commissione. Israele accusa l'UNRWA, che impiega più di 30.000 persone al servizio di 5,9 milioni di palestinesi nella regione, di avere "più di 400 terroristi" tra il suo personale a Gaza. Queste accuse hanno portato gli Stati Uniti a sospendere i finanziamenti all'agenzia, in seguito alle accuse di un possibile coinvolgimento di alcuni dipendenti dell'UNRWA negli attacchi di Hamas del 7 ottobre. Da allora, tuttavia, diversi Paesi hanno ripreso a sostenere finanziariamente l'agenzia, tra cui Regno Unito, Germania, Unione Europea, Svezia, Giappone e Francia.
(i24, 25 luglio 2024)
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Giovane soldato della mia comunità in condizioni critiche
Adesso hanno colpito uno di noi. Preghiamo per la guarigione del nostro amico Yoni.
I nostri giovani combattenti non sono mai al sicuro a Gaza
GERUSALEMME - Di Shabbat, come fanno gli ebrei ortodossi, passo molto tempo in sinagoga. Ho il mio posto fisso dove mi siedo al mattino durante le preghiere e di pomeriggio nel mio studio della Torah.
Qualche settimana fa, durante la preghiera del mattino, improvvisamente una famiglia israeliana si è venuta a sedere nei posti dietro di me, cosa che non mi è affatto piaciuta. La mia congregazione è composta per lo più da "chutznikim", persone che come me sono immigrate in Israele da adulte. Quindi, rispetto ai "sabra”, gli israeliani autentici, siamo più civilizzati. Durante la preghiera non si parla, si resta al proprio posto e si cerca di concentrarsi nel colloquio con Dio.
• Una caotica famiglia sacerdotale Questa famiglia invece è composta da alcuni ragazzi che evidentemente hanno difficoltà a stare seduti in silenzio, il che mi disturba durante la mia santa meditazione. Devo dire però che sono molto simpatici, sempre di buon umore. E sono anche Kohanim. In altre parole, sono discendenti del biblico Aron, il primo sacerdote (Kohen) del popolo di Israele.
In quanto Kohanim, questa famiglia ha il compito di recitare la benedizione sacerdotale sulla congregazione durante la preghiera del mattino, e uno di loro è invitato per primo a pronunciare la benedizione sulla Torah prima della sua lettura. In passato, nella nostra congregazione purtroppo non avevamo sempre dei Kohanim durante le preghiere dello Shabbat, adesso invece ne abbiamo regolarmente tre, il che ci fa molto piacere.
Qualche settimana fa ho chiesto al padre come mai il figlio maggiore non era venuto alla preghiera del mattino e lui mi ha risposto che in quel momento era in missione a Rafah, a Gaza. "Kol HaKavod!" (Complimenti!) ho detto: “Possa egli essere sicuro e avere successo!".
Lo Shabbat prima avevo visto il giovane durante le preghiere di mezzogiorno, quando era stato il primo a essere chiamato a recitare la benedizione sulla Torah. Indossava pantaloncini corti, infradito, sorrideva e non sembrava per niente un terrificante militare. Ma quanti diciannovenni con il loro viso lattiginoso hanno l'aspetto di soldati incalliti?
• La terribile notizia Quella domenica mattina, come prima cosa mia moglie mi ha chiesto: "Conosci quel ragazzo della nostra congregazione che è stato gravemente ferito a Rafah?".
"Come, scusa?" Ho pensato di non aver sentito bene e ho subito guardato i messaggi nel gruppo WhatsApp della nostra comunità. Sì, era lì. Il soldato senza nome e gravemente ferito di cui avevo letto la notizia la sera prima era il nostro Kohen! L'avevo visto il giorno prima e in quel momento si trovava in condizioni critiche in ospedale. Probabilmente, al termine dello Shabbat era tornato nella sua unità nella Striscia di Gaza .
Sembra che l'edificio di Rafah dove si trovava sia stato colpito da un missile anticarro.
La nostra congregazione ha immediatamente organizzato incontri di preghiera e persino un autobus per portarci al Muro Occidentale a pregare per il nostro giovane. Da allora recitiamo salmi, preghiamo regolarmente per la sua guarigione e cerchiamo di sostenere la famiglia come possiamo.
Sono passati alcuni giorni e non ho ancora notizie sulle condizioni del nostro santo militare. E devo ammettere che ho paura di chiedere. Finché non sento niente, vuol dire che è ancora vivo, e così deve rimanere.
Se volete unirvi anche voi alle nostre preghiere per Yoni, pregate per una completa guarigione di Yehonatan Aharon ben (figlio di) Yisraela.
(Israel Heute, 25 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
«Abbiamo fornito armi a Israele e non abbiamo deciso di smettere di farlo», ha dichiarato il cancelliere tedesco Olaf Scholz nel corso del consueto incontro estivo a Berlino con la stampa. Al cancelliere è stato chiesto se il recente parere della Corte internazionale di Giustizia – secondo cui Israele deve «porre fine alla sua presenza illegale nei Territori palestinesi occupati» – possa incidere sul sostegno militare di Berlino a Gerusalemme. Scholz ha replicato che il suo esecutivo non ha preso una decisione in merito e per il momento nulla è cambiato. «Ma naturalmente decidiamo caso per caso», ha aggiunto.
Secondo l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma tra il 2019 e il 2023 Israele ha importato il 69% delle armi dagli Stati Uniti e il 30% dalla Germania.
Intanto il governo Scholz prosegue nella stretta contro le organizzazioni islamiche ritenute pericolose. Dopo aver messo al bando due associazioni legate a Hamas a novembre, ora ha ordinato la chiusura del Centro islamico di Amburgo, accusato di fare propaganda per il regime iraniano e di sostenere il gruppo terroristico libanese Hezbollah. La polizia ha perquisito e chiuso la Moschea Blu di Amburgo, una delle più grandi e antiche del paese e gestita dal Centro islamico.
Secondo i servizi di intelligence tedeschi, ha spiegato la ministra dell’Interno Nancy Faeser, l’organizzazione «diffonde un antisemitismo aggressivo» e «propaga in modo aggressivo e militante l’ideologia della cosiddetta “rivoluzione islamica”» in Germania.
Anche altre tre moschee, a Berlino, Francoforte e Monaco, sono state perquisite e chiuse. «È molto importante per me fare chiarezza: non stiamo agendo contro una religione. Facciamo una netta distinzione tra gli islamisti, contro i quali intraprendiamo azioni dure, e i molti musulmani che appartengono al nostro paese e vivono liberamente la loro fede», ha affermato Faeser.
La Moschea Blu è sotto osservazione dal 1993 e nel 2017 è stata formalmente indicata dalle autorità di sicurezza come «strumento» del regime iraniano. Secondo l’intelligence di Berlino, negli ultimi anni il Centro islamico che la gestisce ha «lavorato attentamente per creare una falsa immagine di tolleranza», mentre in segreto promuoveva «la rivoluzione islamica».
Per Ulricke Becker, direttrice di ricerca del Mideast Freedom Forum di Berlino, il bando del Centro islamico sarebbe dovuto avvenire molto prima. «Non è un centro religioso, ma il più importante avamposto della Repubblica islamica dell’Iran in Europa. Serviva come centro di diffusione dell’ideologia rivoluzionaria ed era direttamente subordinato alla dittatura islamista in Iran», spiega Becker sulla Jüdische Allgemeine. Ora, aggiunge l’esperta, «tutti gli agenti iraniani devono essere espulsi e le strutture del regime in Germania devono essere distrutte». d.r.
Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha trovato il tempo, durante la sua fitta agenda a Washington questa settimana, di incontrare i leader delle due principali comunità di fede che rappresentano il sostegno americano a Israele: la leadership comunitaria ebraica e i leader cristiani evangelici.
In due eventi separati, mercoledì sera, il Primo Ministro ha ringraziato i leader delle comunità per il loro forte sostegno a Israele.
Il Primo Ministro ha sentito che stanno pregando per la restituzione degli ostaggi detenuti da Hamas a Gaza, per la protezione dei soldati israeliani e per la sicurezza dello Stato di Israele.
Netanyahu ha anche ringraziato gli evangelici per le loro energiche attività tra i giovani delle loro comunità, incoraggiandoli a continuare a sostenere Israele.
Il Primo Ministro ha affermato di essere molto consapevole del loro profondo impegno nei confronti di Israele e della forza del loro sostegno alla verità e ai valori condivisi.
All'evento cristiano hanno partecipato circa 15-20 leader evangelici pro-Israele. Tra i partecipanti c'erano il pastore di Christians United for Israel (CUFI) John Hagee, il presidente del Family Research CouncilTony Perkins, il direttore esecutivo del Philos ProjectLuke Moon, la televangelista Paula White, il presidente di Friends of ZionMike Evans e Jordanna McMillen, direttrice della Israel Allies Caucus Foundation.
Era presente anche un gruppo di pastori evangelici latini, tra cui Carlos Ortiz.
Sebbene i due gruppi condividano la fede in Dio e siano entrambi incrollabili nel loro amore e preoccupazione per lo Stato ebraico e nella sua difesa, vi sono alcune importanti differenze tra loro. Mentre per quanto riguarda la scelta politica il gruppo ebraico è diviso, i leader cristiani pro-Israele votano quasi unanimemente i Repubblicani.
E mentre la comunità ebraica è al primo posto per lo Stato ebraico, sia in termini di parentela che di responsabilità, la comunità cristiana che sostiene Israele, più numerosa,fa molto di più per assicurare il sostegno politico dell'America a Israele.
"Il nostro messaggio oggi al primo ministro e al popolo ebraico di Israele e degli Stati Uniti è che i cristiani d'America sono fermamente al fianco di Israele", ha detto il pastore Hagee.
"Siamo sconvolti dal modo in cui il nostro governo ha trattato il popolo ebraico e vogliamo che il popolo israeliano sappia che lo sosteniamo fermamente. Riteniamo che abbiano tutto il diritto di essere completamente vittoriosi in questo conflitto militare e siamo qui per dirglielo", ha aggiunto.
Alla domanda se Netanyahu abbia fatto un buon lavoro nel costruire forti legami tra i cristiani pro-Israele, Hagee ha risposto: "Penso che il primo ministro abbia fatto un buon lavoro, punto e basta. Penso che [lo abbia fatto] in un'atmosfera di ostilità in molti ambienti che non merita. Ha fatto un ottimo lavoro nel gestire gli affari dello Stato di Israele. Ma soprattutto con la comunità cristiana. Siamo amici dal 1985 e abbiamo sempre avuto un ottimo rapporto, e lui ha sempre teso la mano in amicizia".
Il pastore Tony Perkins ha spiegato: "Penso che Israele e il popolo ebraico non abbiano un sostenitore, un alleato e un amico più grande dei cristiani evangelici e credenti nella Bibbia in questo Paese".
"Condividiamo il libro e i valori. E come credenti, crediamo in ciò che dice Genesi 12: 'Coloro che benedicono Israele saranno benedetti'. E così, mentre molti nel mondo si stanno allontanando, noi non lo faremo", ha proseguito.
"Il nostro messaggio al Primo Ministro è: preghiamo per te e crediamo", ha detto. "Io prego per il Primo Ministro ogni mattina, per nome, e prego che, come Dio ha fatto in passato, dove ha manifestato la sua potenza a favore di Israele, lo faccia di nuovo", ha aggiunto.
Perkins ha spiegato perché la maggior parte dei cristiani pro-Israele vota repubblicano e sostiene l'ex presidente Donald Trump alle prossime elezioni.
"Come evangelici, votiamo per i candidati che sono più vicini ai principi e alle verità bibliche secondo cui viviamo. E abbiamo visto una netta divisione tra i due partiti in questo Paese. E l'ultima amministrazione del presidente Trump è stata quella più chiaramente in linea", ha detto.
Il pastore Mario Bramnick ha detto che il suo messaggio al primo ministro è semplice: "Mantenete la linea". Ha aggiunto che la comunità è "così contenta che egli sia forte come leader della nazione di Israele e protegga la sua sovranità e sicurezza".
"A nome di milioni di cristiani, preghiamo per lui. Siamo al suo fianco. Siamo onorati che sia qui e siamo molto orgogliosi che si rivolga al nostro Congresso".
Per Bramnick, le strette relazioni tra le comunità religiose ebraiche e cristiane sono estremamente importanti.
"Lavoriamo molto con la comunità ebraica. Organizziamo molti eventi cristiano-ebraici. Penso che la comunità cristiana, che è a favore di Israele, abbia mostrato per la maggior parte la sua solidarietà e il suo sostegno a Israele. E penso che sia molto importante stare uniti a sostegno del Primo Ministro e del diritto di Israele a difendersi", ha dichiarato.
Bramnick ha sostenuto che la chiave per proteggere la sicurezza di Israele è non cedere alle pressioni dell'attuale governo per la creazione di uno Stato palestinese.
"Una soluzione a due Stati sarebbe molto dannosa e servirebbe solo a premiare il terrorismo che abbiamo visto il 7 ottobre".
Evans, che dirige il Museo degli Amici di Sion a Gerusalemme ed è un amico di lunga data di Netanyahu, ha spiegato che "senza il sostegno dei cristiani negli Stati Uniti, ci sarebbe poco sostegno per Israele".
Gli evangelici, ha detto, "sono il fondamento del sostegno all'intero Stato di Israele. Sì, la comunità ebraica è forte in una certa misura, ma gli evangelici sono impegnati al 100% in Israele. E questo perché per noi è un fatto biblico”.
“Tra gli evangelici di tutto il mondo Netanyahu ha più sostegno di Donald Trump. Non c'è nessuno che sia più rispettato dagli evangelici di Benjamin Netanyahu, e questo è in parte dovuto al fatto che ci capisce e si è impegnato a intrattenere strette relazioni con noi fin dall'inizio".
Oltre al discorso al Congresso di mercoledì, Netanyahu ha programmato incontri con il presidente Joe Biden e la vicepresidente Kamala Harris a Washington e con Donald Trump in Florida.
(Israel Heute, 24 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Il parere consultivo espresso dalla Corte Internazionale di Giustizia, venerdì 19 luglio scorso, è solo l’ultimo – per ora – capitolo dell’incessante attacco portato avanti dall’ONU ai danni di Israele. Ancora una volta, quello che sorprende, non è tanto il parere della Corte, ma, la reazione di sdegno e sorpresa espressa dal governo di Israele che, ad ogni chiodo messo, da un organo dell’ONU, su quella che dovrebbe essere la bara dello Stato ebraico, esprime stupore e rabbia ma nel concreto non fa nulla per proteggersi. Si ha la netta sensazione che i politici israeliani sottostimino la portata del lawfare intrapreso dai paesi islamici e dai loro alleati all’ONU. Quando un giorno dovranno affrontare le conseguenze di embarghi, sanzioni economiche e boicottaggi decisi dall’ONU, la situazione sarà così grave che rimediare sarà impossibile.
Quello che stupisce più di ogni altra cosa è che la classe politica israeliana sembra del tutto ignara che i paesi islamici, non potendo distruggere Israele militarmente, lo stanno facendo un poco alla volta per mezzo dell’ONU e in maniera apparentemente “democratica e legittima”.
Qui ci occuperemo di uno “strano” legame che intercorre tra le amministrazioni democratiche USA e i passi compiuti dall’ONU contro Israele. Si intende dimostrare che l’ONU sta portando avanti l’agenda politica del partito democratico americano relativo al conflitto tra Israele e gli arabi, impersonificati dai “palestinesi”. La regia di questa agenda politica ha avuto una potente accelerazione con le due amministrazioni Obama (2009-2017) e con quella Biden (2021-2025), che di fatto, per quanto concerne la politica mediorientale, ne è la continuazione.
I capitoli principali di questo legame sono iniziati con Obama e proseguono oggi con Biden, con l’interruzione rappresentata dall’Amministrazione Trump. Si tratta di una agenda politica volta a fare scomparire Israele un po’ alla volta e ha il nome accattivante e seducente di “due popoli per due Stati”, ma, nella realtà, prevede alla conclusione del suo percorso la creazione di un solo Stato per un popolo e questo non è quello ebraico.
• Gettare le basi: Barack Obama Barack Obama, fin dal suo insediamento aveva le idee molto chiare in merito al conflitto israelo-palestinese: fare pressioni politiche unicamente su Israele affinché accondiscendesse a tutte le richieste arabe. Tuttavia, la sua agenda politica incontrò un grosso ostacolo: Benjamin Netanyahu. Siccome il premier israeliano dimostrò fin da subito poco incline a “suicidare” il proprio paese, Obama attuò una duplice strategia: utilizzare l’ONU come mezzo per portare avanti la propria agenda politica e demonizzare Netanyahu fino a renderlo pari al “male assoluto”, trasformandolo in un “ostacolo alla pace” a livello politico e mediatico.
Con Obama presidente si assistette dunque ai seguenti passi:
Riconoscimento dell’inesistente “Stato” di Palestina all’ONU, come Stato osservatore nel 2012.
Ammissione dell’inesistente “Stato” di Palestina presso il Tribunale Penale Internazionale, aprile 2015.
Apertura delle indagini presso il Tribunale Penale per crimini di guerra per l’operazione Margine Protettivo del 2014 e la “questione degli insediamenti”.
Approvazione di una blacklist di aziende che operano in Giudea e Samaria da parte del Consiglio per i diritti umani dell’ONU (unico caso al mondo).
Approvazione della risoluzione 2334 nel dicembre 2016 (quando Trump aveva già vinto le elezioni presidenziali) nella quale si dichiaravano gli “insediamenti ostacolo alla pace”.
Con l’amministrazione Trump (2017-2021) questa agenda politica venne di fatto “congelata” così come vennero congelati i fondi USA all’UNRWA e ai terroristi dell’Autorità Palestinese, e, di conseguenza, si fermarono gli atti di terrorismo nei confronti degli israeliani. Infine, si trovò arenato “congelato” anche il procedimento penale a carico di Israele presso il Tribunale Penale Internazionale. Procedimento ripreso nel febbraio 2021 dopo solo un mese dall’insediamento dell’Amministrazione Biden. Alcune settimane fa il procuratore Karim Khan – insediato con il benestare di Biden – ha avanzato una richiesta di arresto nei confronti di Netanyahu e del ministro della Difesa Yoav Gallant.
Con Biden presidente abbiamo assistito ai seguenti passi:
Rifinanziamento americano dell’Autorità Palestinese e dell’UNRWA e un conseguente drastico aumento del terrorismo antiebraico sfociato nell’eccidio del 7 ottobre 2023.
Creazione da parte del Consiglio per i diritti umani dell’ONU, nel maggio del 2021, di una “commissione perpetua” (unico caso al mondo) per investigare i “crimini” di Israele.
Risoluzione dell’Assemblea Generale, il 30 dicembre 2022, con la quale si chiedeva alla Corte Internazionale di Giustizia un parere consultivo (quello formulato venerdì 19 luglio) in merito alla legalità dell’occupazione dei “territori palestinesi” da parte di Israele.
Accusa di genocidio a carico di Israele presso la Corte di Giustizia Internazionale, gennaio 2024, presentata dal Sud Africa e non cassata dalla Corte.
Riconoscimento, nel maggio 2024, dell’inesistente “Stato” di Palestina, come Stato membro dell’Assemblea Generale e non più come Stato osservatore. Questo ha portato, come conseguenza politica, al riconoscimento dell’inesistente “Stato” di Palestina da parte di Irlanda, Norvegia, Spagna e Slovenia.
Questi sono, solo, i capitoli principali del libro sulla delegittimazione di Israele che si sta scrivendo all’ONU con la compiacenza americana, ma molto altro è avvenuto e sta avvenendo.
L’agenda politica portata avanti dai democratici americani non ha programmaticamente lo scopo di distruggere Israele ma tuttavia è ampiamente utilizzata dai paesi islamici per il loro intento programmatico: cancellare l’unico Stato ebraico esistente. In pratica, le amministrazioni democratiche sono diventate un strumento politico in mano alle teocrazie islamiche che vogliono perseguire la distruzione di Israele e non la pace nella regione, a meno che essa non coincida con la distruzione dello Stato ebraico (cosa sempre più evidente).
• Soluzione Israele è troppo piccolo e debole per vincere la guerra all’ONU. Solo gli USA possono farlo. Come?
Per prima cosa sperando che non vinca una amministrazione democratica alle prossime elezioni di novembre. Perché l’accelerazione che ha avuto, all’ONU, la guerra di delegittimazione contro Israele non ha precedenti e altri 4 anni a guida democratica potrebbero essere fatali per Israele. Solo un personaggio come Donald Trump, completamente fuori dagli schemi e imprevedibile, potrebbe portare gli Stati Uniti a sospendere tutti i finanziamenti che gli USA danno ai terroristi arabi, e alle organizzazioni internazionali, ad iniziare dall’ONU, le quali, unite, stanno facendo una guerra legale (lawfare) sempre più serrata nei confronti di Israele. Se questo non bastasse gli USA dovrebbero lasciare l’ONU e chiudere il Palazzo di Vetro di New York. Lasciare che l’ONU si trasferisca altrove, magari a Ginevra, come negli anni ’20 e ’30 durante l’esistenza della Società delle Nazioni, e aspettare che imploda e si autodistrugga essendo ormai capitanata da Stati canaglia sempre meno contrastati dalla UE. Infine, rifondarne una nuova attuando le riforme necessarie che impediscano agli Stati che non rispettano i basilari diritti umani di farne parte. Questa è l’unica concreta alternativa al tentativo lento ma inesorabile di distruggere Israele, grazie all’ONU ostaggio dei suoi nemici.
Com’è lontana la Cina se sceglie Mosca, Teheran e Hamas: la crisi di una diplomazia decennale
Cina e Israele: dalla collaborazione economica alla distanza politica. Strette relazioni commerciali con Israele, una “intesa cordiale” e interessi comuni: porti, commerci, high-tech… Un’amicizia che rischia di sfumare a causa della vicinanza della Cina all’Iran e dal rifiuto di riconoscere il massacro del 7 ottobre. Ma oggi la Cina rivendica un ruolo da protagonista sullo scacchiere mediorientale e non rinuncia ad affermare la propria leadership anche qui
di Giovanni Panzeri
Da sempre, la Cina ha tradizionalmente mantenuto un approccio cauto verso gli equilibri mediorientali, adattando la sua politica alla realtà di una regione normalmente soggetta alla supremazia statunitense. Ecco perché, fino a poco tempo fa, la Cina si era generalmente limitata a sviluppare rapporti commerciali ed economici con tutte le potenze della regione, in particolare Iran, Israele e Paesi del Golfo, senza tuttavia cercare di diventarne un referente militare e diplomatico.
La situazione è tuttavia cambiata e, nel corso dell’ultimo decennio, Pechino ha iniziato a mettere gradualmente in discussione la supremazia americana, accompagnando al lancio della Nuova via della Seta (Belt and Road Initiative) una serie di iniziative diplomatiche volte a espandere la propria influenza nella regione e rendere la Repubblica Popolare il principale arbitro nel gestire i conflitti mediorientali. È in questo senso che si possono leggere, ad esempio, la sua partecipazione alle trattative sul nucleare iraniano nel 2015, la riconciliazione tra Iran e Arabia Saudita nel 2023, il riconoscimento del regime talebano in Afghanistan e il recente tentativo di ricomporre il conflitto tra le due principali fazioni palestinesi, Hamas e Fatah.
Il cambio di passo, compiuto da Xi Jinping nel 2014, è stato determinato dal fatto che la Cina ha iniziato a vedere l’estensione della sua influenza nella regione come una necessità fondamentale per la sicurezza nazionale. “Nel tempo -, spiega Alexandra Tirziu nel suo report al GIS (Geopolitical Intelligence Service) –, quest’influenza crescente potrebbe permettere alla Cina (…) di stringere trattati regionali in linea con la necessità di proteggere il suo Stato-partito e perseguire l’obiettivo di formare un ordine globale alternativo”. È da sottolineare che pur intervenendo in modo sempre più deciso nella regione la Cina è finora riuscita a mantenere buone relazioni con tutte le parti in causa, incluso lo stato d’Israele, il principale alleato del rivale americano nel settore, con cui Pechino ha sviluppato nell’ultima decade rapporti economici e commerciali sempre più stretti, nonostante il suo sostegno formale alla causa palestinese e i rapporti con l’Iran. Proprio questa relazione tuttavia rischia di essere messa in forse dallo scoppio del recente conflitto tra Israele, palestinesi e iraniani.
Ma come versa lo stato delle relazioni sino-israeliane oggi? Nel corso dell’ultimo decennio i rapporti commerciali ed economici tra Cina e Israele si sono fatti sempre più stretti e fitti. La Repubblica Popolare è infatti diventata nel giro di pochi anni il principale partner commerciale dello Stato ebraico in Asia e il secondo, dopo gli Stati Uniti, a livello mondiale. Gli investimenti cinesi in vari settori dell’economia israeliana, dall’hi-tech alle infrastrutture fino agli scambi culturali, sono fioriti soprattutto tra il 2013 e il 2019 per poi essere limitati pesantemente dalle pressioni statunitensi sul loro alleato mediorientale. Al contrario i rapporti prettamente commerciali sono rimasti fiorenti, e caratterizzati da una forte esportazione in Israele di prodotti cinesi, aumentata fortemente durante gli anni della pandemia.Tuttavia se i rapporti commerciali sono, per ora, rimasti stretti, negli ultimi anni i rapporti diplomatici si sono fatti gradualmente più freddi, in parte in seguito alle pressioni degli USA, in parte a causa del deciso sostegno cinese alla causa palestinese e all’Iran, anche in seguito allo scoppio del nuovo conflitto il 7 ottobre 2023.
Gli israeliani sono infatti rimasti oltraggiati dall’esitazione cinese nel condannare gli attacchi di Hamas e dal rifiuto di condannare il contrattacco iraniano dello scorso aprile. Di contro, invece, la Cina ha disapprovato fermamente l’intervento israeliano nella Striscia di Gaza, l’attacco israeliano alla sede dei pasdaran iraniani in Siria e sostenuto la denuncia di Israele per genocidio presentata dal Sudafrica alla Corte di Giustizia Internazionale. Una serie di azioni che lo Stato ebraico vede come una negazione del suo diritto a difendersi da parte della Repubblica Popolare.
Inoltre la Cina ha ospitato una delegazione di Hamas e Fatah a Pechino lo scorso aprile, con lo scopo di promuovere la riconciliazione delle due fazioni palestinesi. Come spiega il quotidiano Guardian, Xi Jinping ritiene infatti che “l’unità palestinese sia una precondizione necessaria alla formazione di un coerente piano di governo di Gaza e della Cisgiordania, in qualunque modo si risolva il conflitto”. Dal canto loro, gli israeliani hanno inviato una delegazione parlamentare a Taiwan, firmato una dichiarazione congiunta all’Onu che condanna la Cina per violazioni dei diritti umani contro gli uiguri, sembrerebbe stiano pensando a modi di diminuire la dipendenza dalla Cina nel settore hi-tech e fermare l’acquisizione cinese di una parte del porto di Haifa.
Un sondaggio rilasciato a maggio dall’Institute for National Security Studies (INSS) di Tel Aviv rivela inoltre che il 54% della popolazione israeliana considera la Cina un paese ostile, mentre solo il 15% la vede come un alleato. Una tendenza completamente invertita rispetto al 2017.
• Le relazioni sino-iraniane Le sempre più strette relazioni diplomatiche e militari sino-iraniane sono inoltre un altro dei fattori che mettono a rischio i rapporti tra lo Stato ebraico e la Repubblica Popolare.
Non a caso, nonostante si fosse precedentemente schierata contro gli esperimenti nucleari iraniani, Pechino si è molto avvicinata al regime persiano negli ultimi anni, sperando di usarlo per contrastare l’influenza americana nella regione. Nel 2021 la Cina ha infatti stretto un accordo di cooperazione venticinquennale con lo Stato iraniano che, come riportato su Limes, prevede “l’investimento di 280 miliardi di dollari nelle industrie iraniane di petrolio, gas e petrolchimica e altri 120 miliardi nelle strutture delle telecomunicazioni e dei trasporti del paese”. A questo accordo è seguita, nel 2023, una serie di 20 accordi bilaterali stretti con il defunto presidente persiano Raisi, durante “la prima visita di stato in Cina di un leader persiano negli ultimi 20 anni”. Dal punto di vista della cooperazione militare, sempre secondo Limes, Pechino rifornisce l’Iran di armi e carburante per missili, oltre ad organizzare esercitazioni militari navali trilaterali con Iran e la Russia, l’ultima delle quali si è tenuta nel 2024.
Questa crescente cooperazione si è sviluppata nonostante le riserve cinesi verso le operazioni degli Houti, sostenute dall’Iran, che hanno bloccato ai commerci navali la rotta che per raggiungere l’Europa passava attraverso lo stretto di Hormuz.
Conclusioni? È difficile prevedere come le relazioni evolveranno in futuro, ma è bene ricordare che, nonostante le tensioni, Israele e Pechino rimangono tuttora stretti partner commerciali, come testimonia tra l’altro il fatto che la Cina sia diventata il principale fornitore di automobili per Israele nel 2024.
Tuttavia, come scrive il Guardian, è chiaro “che siamo ben lontani dal 2017, quando Netanyahu si recava a Pechino parlando di ‘un matrimonio in paradiso’”.
A Londra tutto pronto per accogliere i primi Giochi Europei giovanili Maccabi
di Claudia De Benedetti
Londra ospiterà i primi EMYG, Giochi Europei Giovanili del Maccabi. Dal 30 luglio al 6 agosto, giungeranno nella capitale del Regno Unito giovani provenienti da tutta Europa, da Israele, dagli Stati Uniti e dall’Argentina per un appuntamento in cui alle gare sportive saranno affiancate visite turistiche, incontri culturali e ricreativi, senza naturalmente trascurare la celebrazione dello Shabbat e la conoscenza dell’ebraismo britannico con la sua storia e le sue numerose comunità.
Il Presidente del Maccabi Italia Vittorio Pavoncello è riuscito nella non facile impresa di comporre una delegazione numerosa e motivata che sarà guidata dal Presidente del Maccabi Milano Alfonso Nahum. 43 atleti provenienti da Milano e Roma e 5 dirigenti rappresenteranno l’Italia, partecipando alle competizioni di futsal under 16 e under 18 anni, di basket e di tennis.
I Giochi sono stati progettati dai giovani per i giovani, con l’intento di limitare le formalità e infondere nei partecipanti la condivisione degli ideali del Maccabi, del sionismo, della vicinanza allo Stato d’Israele, alle famiglie degli ostaggi, delle vittime dei pogrom di Hamas del 7 ottobre e della guerra.
Degna di nota è l’attenzione per gli atleti con esigenze speciali per cui sono stati organizzati eventi dedicati e inclusivi in collaborazione con enti ebraici inglesi altamente qualificati e con l’organizzazione dedicata allo sport disabili Special Olympics Great Britain. Il programma educativo e culturale per l’EMYG è stato preparato dal team educativo del Maccabi GB in collaborazione con il dipartimento educativo del Maccabi mondiale e con gli educatori più attivi e stimati dell’ebraismo britannico.
Jonathan Prevezer, presidente del Maccabi Gran Bretagna, ha spiegato: “Siamo entusiasti di poter offrire ai partecipanti un’esperienza straordinaria, crediamo fermamente nello sport come strumento per rafforzare l’identità ebraica e il legame tra comunità ebraiche”. Il Maccabi inglese ha collaborato con il Maccabi Europa per la realizzazione dei Giochi che, nelle edizioni precedenti aperte a tutte le categorie, erano stati ospitati a Roma nel 2007, poi a Vienna, Berlino e Budapest.
“Sono stati anni molto difficili – ha detto David Beesemer, Presidente del Maccabi Europa – La pandemia del Covid, la guerra in Ucraina, i massacri perpetrati da Hamas, la guerra in Israele sono state le sfide cui abbiamo dovuto rispondere senza esitazioni. Il Maccabi GB è un solido partner che annovera una delle nostre più forti organizzazioni territoriali”.
Parigi 2024, la sinistra radicale di Mélenchon getta la maschera: “Niente atleti ebrei ai Giochi”
di Stefania Campitelli
Antifà, pro Palestina e, neanche a dirlo, orgogliosamente antisemiti. A Parigi la gauche radicale guidata da Jean-Luc Mélenchon si prepara alla crociata antiisraeliana ai Giochi Olimpici. Come se non bastassero i guai del dopo voto, con Emmanuel Macron alle prese con il grattacapo della composizione del governo (“si farà ad agosto, ha detto) dalle file della France Insoumise piovono strali contro i ‘nemici ebrei’.
• Giochi olimpici di Parigi, sinistra choc: niente ebrei “Siamo a pochi giorni da un evento internazionale che si terrà a Parigi, i Giochi Olimpici. E sono qui per dire no, la delegazione israeliana non è la benvenuta a Parigi. Gli atleti israeliani non sono i benvenuti ai Giochi Olimpici di Parigi. Dobbiamo usare questo evento e tutte le leve che abbiamo per mobilitarci”. Così uno scatenato Thomas Portes, deputato dell’ultrasinistra. Prima del comizio antisionista in un raduno propalestinese nella Seine-Saint-Denis, intervistato da Le Parisien ha detto la diplomazia francese “deve esercitare pressioni sul Cio affinché la bandiera e l’inno israeliani non siano ammessi durante questi Giochi Olimpici, come avviene per la Russia”. Anche il compagno di partito Aymeric Caron la pensa così: “La bandiera israeliana, macchiata dal sangue degli innocenti di Gaza, non dovrebbe essere sventolata a Parigi”.
• Intimidazioni e minacce di morte agli atleti Il clima per la delegazione israeliana, partita per Parigi in vista dell’apertura dei Giochi di venerdì, è pessimo. Nel weekend alcuni atleti hanno ricevuto minacce di morte e telefonate minatorie. Il primo messaggio inviato per mail è firmato da un’entità che si è identificata come “l’Organizzazione di Difesa del Popolo” (che non esiste). “L’Organizzazione per la Difesa del Popolo annuncia che intende danneggiare qualsiasi presenza israeliana alle Olimpiadi. Se verrete, tenete conto che intendiamo ripetere gli eventi di Monaco 1972”. Addirittura tra cui il portabandiera della Cerimonia di apertura, il judoka Peter Paltchik, e il nuotatore Meiron Amir Cheruti, hanno ricevuto inviti ai loro funerali.
• Arad: ci sentiamo emissari dello Stato di Israele “Ci sentiamo come emissari dello Stato di Israele. I nostri atleti, ognuno di loro è qui per realizzare i propri sogni, ma c’è un altro livello, di missione nazionale”, ha detto Yael Arad, presidente del Comitato Olimpico di Israele, durante una conferenza stampa all’aeroporto Ben Gurion prima del volo. “La delegazione spera ovviamente di tornare in Israele con delle medaglie, ma la nostra prima vittoria è che siamo qui, che non ci siamo arresi, che dal 7 ottobre abbiamo partecipato a centinaia di gare… Ciò che ci guida è la bandiera di Israele”. Le parole dei parlamentari di Mélenchon hanno scatenato la reazione della comunità ebraica francese.
• La comunità ebraica: stanno mettendo un bersaglio sui nostri sportivi Yonathan Arfi, presidente del Consiglio rappresentativo degli ebrei di Francia, ha detto che dal 7 ottobre France Insoumise legittima Hamas e “sta mettendo un bersaglio sulla schiena degli sportivi israeliani”. Poi ha ricordato gli undici atleti israeliani uccisi dai terroristi palestinesi ai Giochi Olimpici di Monaco nel 1972. Il ministro degli Esteri francese, Stéphane Séjourné, ha definito le parole del deputato di France Insoumise “irresponsabili e pericolose” affermando che la delegazione israeliana «è benvenuta». Il ministro dell’Interno francese, Gérald Darmanin, ha aggiunto che le prese di posizione di Portes “puzzano di antisemitismo” e ha annunciato un dispositivo di sicurezza rafforzato h24 per gli sportivi israeliani.
Nessuno deve entrare nel Monte del Tempio prima della venuta del Messia
La tensione spirituale nel popolo d'Israele è sempre parte della politica del Paese. Per molti all'estero, questo è semplicemente incomprensibile.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Perché i politici israeliani citano versetti della Bibbia e promesse dei profeti nei loro discorsi? Perché l'esistenza di Israele in questa terra viene confermata dalla legge biblica e non dal diritto internazionale? Questo e molto altro continua a emergere nei media israeliani e anche noi ne diamo notizia. Negli ultimi giorni i media del Paese, soprattutto quelli religiosi, sono tornati a tuonare. Che c'entra il redentore con un ministro che entra nel Monte del Tempio?
Il ministro israeliano della Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, dopo la sua visita al Monte del Tempio, il 18 luglio 2024
Il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, si è nuovamente recato sul Monte del Tempio accompagnato da numerosi agenti di polizia. In una dichiarazione, ha affermato di pregare per il ritorno dei rapiti, in modo che "non si verifichino prese di ostaggi o sottomissioni spietate". Il Ministro degli Interni israeliano Moshe Arbel ha condannato la visita del suo collega di governo Itamar Ben-Gvir al Monte del Tempio ebraico, poche ore dopo che il suo partito ortodosso Shas aveva invitato il Primo Ministro Benjamin Netanyahu a non preoccuparsi dei voti nella coalizione, ma a far tornare gli ostaggi israeliani adesso, il più presto possibile.
"Sono venuto qui, nel luogo più importante per lo Stato di Israele, per il popolo di Israele", ha detto Ben Gvir sul posto, "per pregare per le donne e gli uomini rapiti nella Striscia di Gaza, affinché possano tornare a casa, ma senza accordi avventati e senza sottomissione". Il contesto reale della sua visita alla spianata del Tempio era l'imminente visita del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu negli Stati Uniti. Subito dopo la dichiarazione dello Shas, ha inviato un messaggio a Netanyahu esortandolo a "raggiungere un accordo e a non preoccuparsi dei voti della coalizione". In cambio, Ben-Gvir ha detto di pregare e di lavorare duramente affinché il Primo Ministro continui ad avere la forza di resistere alle pressioni politiche interne e di lottare fino alla vittoria. Ben-Gvir ha chiesto un aumento della pressione militare e l'interruzione delle forniture di carburante a Hamas e ai palestinesi, al fine di vincere.
Il Ministro degli Interni Moshe Arbel, membro di spicco del partito ortodosso di Arie Deri, ha reagito con critiche alla visita di Ben-Gvir al Monte del Tempio . "È già stato deciso e stabilito, i grandi rabbini di Israele e il Consiglio Rabbinico Capo hanno insistito fortemente affinché fossero erette recinzioni e hanno solennemente avvertito che nessuno può entrare nell'area del Monte del Tempio fino alla venuta di Shiloh (il Messia), che allora sarà in mezzo a noi, e come è scritto: 'Verserò su di voi acqua pura e sarete purificati'". Arbel ha attaccato personalmente Ben-Gvir: "Verrà un giorno in cui il tempo delle continue provocazioni del signor Ben-Gvir finalmente finirà. La Torah - la parola di Dio - non passerà".
Il ministro israeliano della Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, prega al Muro occidentale nella Città Vecchia di Gerusalemme il 18 luglio 2024 dopo la sua visita al Monte del Tempio.
Fino a una decina di anni fa, era normale per gli ebrei non entrare nella spianata del Tempio, per non entrare inavvertitamente nel luogo del Santo dei Santi. Dopo la riunificazione di Gerusalemme nel 1967, questa era la regola del Gran Rabbinato. Tuttavia, con lo spostamento a destra dopo il fallimento degli accordi di Oslo, i coloni ebrei sono entrati sempre più spesso nella spianata del Tempio, contro il volere della leadership ortodossa del Paese. Il Gran Rabbinato e i coloni religiosi del Paese sono in disaccordo su questo punto. Gli ebrei ortodossi vogliono aspettare la venuta del Messia per costruire il Tempio ed entrarvi insieme a lui. Invece icoloni, come Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, non sono d'accordo e vogliono affrettare la venuta del Messia.
Shiloh (שילו) è un nome dell'Antico Testamento che indica il Messia. Il nome è menzionato solo una volta in tutta la Bibbia, in Genesi 49, dove Giacobbe benedice i suoi dodici figli con parole profetiche poco prima della sua morte e si riferisce al Re e Redentore che verrà:
"Lo scettro non si allontanerà da Giuda, né il bastone del sovrano dai suoi piedi, finché non venga Shiloh, e le nazioni gli obbediranno".
Tradotto, Shiloh significa: portatore di pace, operatore di pace, eroe forte, Messia. In Giosuè 18, Shiloh (שילה) è menzionato come luogo del tempio dopo che i figli di Israele hanno iniziato a conquistare la Terra Promessa:
"E tutta la comunità dei figli d'Israele si radunò a Shiloh e vi eresse il tabernacolo; e il paese fu loro sottomesso".
Chiunque abbia ragione, il punto è che il Redentore d'Israele, il Messia, e Shiloh interessano il popolo di Sion e sono una parte vibrante della politica del Paese.
Il ministro religioso della cultura Amichai Eliyahu, che appartiene al partito di Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, ha attaccato il suo collega ortodosso Arbel per le sue critiche a Ben-Gvir e ha detto: "Signor Arbel, per duemila anni il popolo d'Israele ha lottato per tornare nella terra dei suoi padri e non ha mai smesso di desiderare il restauro del Monte del Tempio, la casa del nostro Dio. Il tempo della sottomissione di fronte ai media e dell'umiliazione di fronte al nostro nemico passerà più rapidamente di quanto durerà la potenza ebraica e di la capacità di resistere fieramente contro coloro che vogliono distruggerci". Sia Eliyahu che Ben-Gvir sono a favore di una posizione chiara nei confronti dei palestinesi. Non si tratta di una questione politica, ma spirituale. Così la intendono i musulmani e così la intende gran parte della popolazione ebraica del Paese.
Nelle reti palestinesi, la visita di Ben-Gvir al Monte del Tempio è stata presentata nel seguente modo:
Il momento in cui il ministro della Sicurezza nazionale della potenza occupante, Itamar Ben Gvir, fa irruzione nel complesso della Moschea di Al-Aqsa (al-Haram al-Sharif) sotto la pesante protezione delle forze di occupazione.
Per questo motivo i palestinesi hanno riportato la visita del ministro religioso Ben-Gvir alla Piazza del Tempio ebraica in un momento delicato, nel bel mezzo della guerra, cosa che non avveniva per la prima volta. L'agenzia di stampa palestinese ha riferito che Ben-Gvir era accompagnato da numerosi poliziotti; e che i poliziotti israeliani hanno impedito ai fedeli musulmani di entrare nella moschea di Al-Aqsa mentre il ministro visitava il Monte del Tempio. Non so se questo sia vero, ma quello che so è che il Monte del Tempio ebraico è al centro dell'intero conflitto tra Israele e i suoi nemici musulmani. I musulmani non vogliono vedere ebrei sulla spianata accanto alla moschea di Al-Aqsa, e in Israele una parte dell'attuale governo insiste nel far capire ai palestinesi che la spianata del Tempio fa parte della storia biblica e quindi appartiene politicamente a Israele. Questa tensione spirituale nella popolazione si è espressa ancora una volta qualche giorno fa.
(Israel Heute, 23 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
In occasione dei 110 anni dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale, la Knesset ha celebrato i battaglioni militari ebraici, composti da migliaia di soldati, che hanno combattuto durante il conflitto. All’interno del parlamento israeliano è stata allestita una mostra di oggetti unici provenienti dalla tenuta di Ze’ev Jabotinsky che fanno luce sulla fondazione della legione ebraica.
Moshe Foxman Shaal, direttore del Knesset Museum, ha sottolineato l’influenza dei battaglioni ebraici sulla coscienza ebraica. “Hanno distrutto l’immagine dell’ebreo perseguitato e indifeso e hanno presentato al mondo soldati ebrei pronti a combattere per il loro paese e per l’istituzione della loro patria”.
Tra gli oggetti esposti, oltre a varie lettere e telegrammi, ci sono anche diversi oggetti personali di Jabotinsky, tra cui una bussola militare realizzata dalla S. & Mordan Co., che utilizzò durante il suo servizio nel battaglione ebraico, e il distintivo del suo cappello risalente al periodo del servizio. Il distintivo fu progettato in seguito alla pressione esercitata da Jabotinsky sul generale Geddes, comandante del dipartimento di reclutamento dell’esercito britannico. L’unità di combattimento ebraica portava il suo emblema, a forma di menorah a sette bracci, con il motto coniato da Jabotinsky: la parola ebraica “Kadima” (Avanti).
Tra i documenti presenti alla mostra ci sono anche un telegramma di Joseph Trumpeldor a Ze’ev Jabotinsky e una lettera dei soldati del battaglione di Gerusalemme, allora in Egitto, alla Commissione sionista, in cui si richiedeva cibo kasher, accordi per la preghiera e altro ancora.
La Knesset espone anche una lettera inviata dal comandante del Battaglione dei Muli di Sion, John Henry Patterson, pochi giorni dopo la pubblicazione della Dichiarazione Balfour. Nella lettera, Patterson esorta Edmond James de Rothschild a fare pressione sul War Cabinet inglese affinché invii un battaglione di soldati ebrei addestrati al fronte e consenta loro di partecipare alle battaglie in Israele contro l’esercito ottomano.
La mostra include una rara fotografia di gruppo che mostra Ze’ev Jabotinsky (al centro) con un gruppo di soldati del 38th Royal Fusiliers Battalion. I soldati hanno una Stella di David blu ricamata sulle maniche.
Derek Gee nella cronometro conclusiva del Tour de France – Foto: Noa Arnon
Se ci si dovesse basare sulle speranze della vigilia, l’obiettivo non è stato raggiunto. La Israel Premier Tech (IPT) aveva l’ambizione di vincere almeno una tappa al Tour de France partito da Firenze a fine giugno e appena conclusosi a Nizza. La squadra israeliana ci è andata vicina varie volte, raggiungendo piazzamenti significativi in più di una frazione. Soprattutto con il suo sprinter tedesco Pascal Ackermann due volte terzo.
Ma in casa IPT l’umore non è mai stato così alto. Perché per la prima volta nella sua ancora giovane storia, impresa impensabile appena poche settimane fa, il team israeliano è riuscito a piazzare un suo ciclista nella top 10 della classifica generale. «È solo l’inizio», ha esultato la Israel Premier Tech celebrando la Grande Boucle da inaspettato protagonista del suo Derek Gee, 26 anni, tra gli atleti più competitivi di questa edizione, almeno tra quelli “normali” che hanno fatto altra corsa rispetto ai “marziani” Pogacar, Vingegaard ed Evenepoel. Il canadese Gee le prime scintille del suo talento le aveva già sprigionate al Giro d’Italia dello scorso anno, al suo esordio tra i professionisti, conquistando il simbolico titolo di corridore più combattivo. Anche al Tour la combattività è stata la sua cifra, ma più sapientemente gestita nel corso delle tre settimane di gara. Merito anche dei suoi compagni di squadra, che si sono sacrificati per assisterlo al meglio nelle tappe più dure tra Alpi e Pirenei. Sulle salite del Tour 2024, Gee ha a lungo combattuto con l’italiano Giulio Ciccone, distintosi soprattutto nella prima parte della corsa e beffardamente uscito dai primi dieci all’ultima tappa, per via della deludente prestazione nella cronometro finale.
La Israel Premier Tech festeggia il miglior risultato mai conseguito a un Tour. In passato era già arrivata nella top 10 di una grande corsa a tappe due volte, entrambe con l’irlandese Daniel Martin giunto quarto alla Vuelta di Spagna del 2020 e decimo al Giro d’Italia del 2021. Un’altra top 10 ora alla portata è quella della classifica a punti dei team professionistici che determina anche la presenza nel World Tour, l’élite del movimento ciclistico. In virtù degli ottimi risultati d’inizio stagione, cui lo stesso Gee ha contribuito arrivando terzo al Giro del Delfinato, la Israel ha scalato ben sette posizioni in graduatoria rispetto al 2023. È al momento l’11esima squadra al mondo e in una sfida tutta “mediorientale” punta a scalzare al decimo posto la Bahrain – Victorious, in precedenza quinta. Vento in poppa invece per l’altra squadra del Golfo, la UAE Team Emirates, saldamente prima grazie alle imprese di Pogacar.
Che cosa significa la rinuncia di Biden per Israele
di Ugo Volli
• Un cambiamento significativo
La decisione di Biden di non ripresentarsi alle elezioni presidenziali è una notizia importante per tutto il mondo, ma soprattutto per Israele, impegnata in una guerra difficilissima con un appoggio americano che è stato sì militarmente decisivo in alcuni momenti del conflitto (per esempio all’inizio, quando si temeva un attacco di grandi dimensioni degli Hezbollah in contemporanea con l’inizio della campagna di Gaza, oppure quando ad aprile scorso l’Iran ha cercato di bombardare direttamente lo Stato ebraico), ma per lo più ha agito da freno alla capacità di Israele di difendersi, per esempio impedendo a lungo l’ingresso a Rafah o addirittura bloccando gli indispensabili rifornimenti di munizioni e ricambi. Il giudizio sugli effetti di questo improvviso cedimento di Biden alle pressioni del suo partito sono difficili da determinare oggi.
• La visita di Netanyahu
Per gli americani non è la cosa più importante, ma per Israele è molto significativo che la rinuncia sia avvenuta subito prima della visita di Netanyahu, che parte oggi per gli Stati Uniti e ha un appuntamento con Biden proprio domani alla Casa Bianca, il primo da quando è tornato primo ministro nel 2022. Il viaggio di Netanyahu, che mercoledì parlerà al Congresso in seduta comune, cambia completamente significato in questo contesto. È vero che Biden resta presidente e avrà la responsabilità delle politica americana ancora per quasi sei mesi: è dunque importante chiarirgli direttamente il punto di vista di Israele sulla guerra. Ma anche in questo ruolo è ormai chiaramente una “anatra zoppa” (lame duck, come si dice nel gergo politico americano) che tenderà ad avere sempre meno potere decisionale vero. L’intervento parlamentare di Netanyahu poi si svolgerà nel contesto di una campagna elettorale tornata molto incerta e sarà valutato soprattutto per questo.
• Il difficile giudizio su Biden
È presto per valutare Biden e la sua presidenza. Probabilmente il vecchio politico, che ha frequentato Israele fin dai tempi di Golda Meir, è sincero quando si proclama sionista, cosa che ha fatto ancora due giorni fa. È vero che tiene all’esistenza di Israele, come ha dimostrato anche visitando il Paese in guerra poco dopo il 7 ottobre – un gesto che nessun presidente americano aveva mai fatto. Ma il suo appoggio per lo Stato ebraico si inquadra entro una politica di “equilibrio” con i nemici che lo vogliono distruggere, prima di tutto l’Iran. La sua ideologia è ancora quella di Obama e prima di Carter, con l’obiettivo di una pacificazione con l’Islam e con l’idea che l’America e in generale l’Occidente debba “pagare dei debiti” al Terzo Mondo e che il “rispetto dei diritti umani” venga prima di ogni altra considerazione, incluse le condizioni concrete che li rendono possibili, vale a dire la capacità della democrazia di difendersi.
• Le prospettive
Che cosa avverrà ora nella politica americana è difficile da prevedere. È possibile che la candidatura di Kamala Harris, che come vicepresidente è la scelta più ovvia per sostituire Biden, si consolidi e che dunque le elezioni di ottobre si giochino fra lei e Trump. Il profilo politico della Harris non è ben definito, fra la linea dura contro il crimine e l’immigrazione di certe fasi della sua carriera e l’alleanza implicita con i settori più radicali del partito democratico che sembra perseguire nell’ultimo periodo. Alcune dichiarazioni recenti di “comprensione” per le proteste universitarie contro Israele vanno purtroppo in questa direzione. Il fatto che abbia un marito ebreo non è probabilmente molto rilevante. Ma è possibile anche che emergano nuove candidature di personalità politicamente meglio definite come i governatori di alcuni stati, ma meno note al grande pubblico. È chiaro che il rischio per Israele è la prevalenza dell’ala sinistra dei democratici, chiaramente contraria ormai allo Stato ebraico, che ha avuto parecchia influenza durante gli ultimi anni. Se questo fosse il risultato della nuova candidatura, verrebbe a cadere anche la garanzia parziale offerta dall’orientamento personale di Biden. Non a caso il voto ebraico, tradizionalmente allineato con i democratici, si è riorientato verso Trump, in particolare quello dei molti israeliani che dopo l’immigrazione hanno conservato la cittadinanza americana.
• Il rischio immediato
Oltre alle prospettive future, vi è anche un rischio immediato. La guerra contro Israele guidata dall’Iran si è scontrata in questi mesi coi limiti stabiliti dall’amministrazione americana, ribaditi sul terreno dalla presenza di importanti gruppi aeronavali. Questa è forse la ragione per cui Hezbollah e direttamente l’Iran hanno evitato di utilizzare la maggior parte delle loro forze, limitandosi finora a un conflitto di intensità relativamente bassa sul fronte libanese e siriano. La turbolenza politica negli Usa potrebbe indurre gli strateghi iraniani a sfidare questi ostacoli cercando di forzare la situazione e aprire un secondo fronte di guerra sul terreno mentre le truppe israeliane sono ancora massicciamente impegnate a Gaza. Insomma è possibile il primo risultato della rinuncia di Biden siano degli attacchi per testare la risolutezza americana (e quella israeliana).
Olimpiadi a Parigi, si parte il 26 luglio. Israele è nella stessa barca dell'Italia
La cerimonia di apertura conterà oltre cento leader mondiali attesi in tribuna secondo l'Eliseo
Mancano quattro giorni all'inaugurazione delle Olimpiadi di Parigi. E sono Giochi di pace in tempi di guerra: perché Parigi 2024 si aprirà in un contesto di forti tensioni geopolitiche, tra il conflitto in Ucraina, la guerra tra Israele e Hamas, e l'allerta terrorismo sempre alta in Francia, tra minacce endogene di 'lupi solitari' che potrebbero entrare in azione o il rischio attentati in larga scala da parte di organizzazioni terroristiche internazionali. Nella République già segnata in quest'ultimo decennio dalla lunga scia di attentati jihadisti che ha straziato la Francia e l'Europa, dalla redazione di Charlie Hebdo fino alla strage sulla Promenade des Anglais a Nizza, passando per Bataclan, Hypercacher, e tanti altri episodi di ultraviolenza e terrorismo, l'attuale amministrazione di Emmanuel Macron promette un dispositivo senza precedenti per garantire la sicurezza di Paris 2024.
Solo per la cerimonia di apertura, il 26 luglio con oltre cento leader mondiali attesi in tribuna secondo l'Eliseo, il ministro dell'Interno, Gérald Darmanin, ha annunciato uno schieramento di 45.000 agenti nell'Ile-de-France, la regione iper-centralizzata di Parigi che concentra in sé quasi il 20% della popolazione d'Oltralpe. Tra le 90 imbarcazioni con a bordo 206 delegazioni che sfileranno lungo la Senna, per sei chilometri, tra la zona di Bercy (est) e la Tour Eiffel (Ovest), uno dei natanti più sorvegliati sarà quello con a bordo le delegazioni di Italia e Israele sulla stessa barca per questioni di ordine alfabetico,.
Nel Paese che conta le comunità musulmana ed ebraica più folta d'Europa, gli israeliani verranno sorvegliati 24 ore su 24, sia nelle gare, sia al Villaggio olimpico e negli spostamenti, incluso da forze di sicurezza inviate da Israele. E a quattro giorni dal via, il ministro degli esteri Stéphane Séjourné ha rassicurato tutti dopo le polemiche sul crescente antisemitismo in Francia: «garantiremo la sicurezza della delegazione israeliana e assicureremo che sia la benvenuta per i Giochi olimpici».
Sopravvissuti a Ostia nel 1946 (Modiano è il quarto da sinistra)
«La vita a Rodi era un paradiso. La città divisa in quattro quartieri: quello ebraico, quello turco, quello greco e poi col tempo vennero gli italiani». (Rahamin Cohen). «Era una vita bellissima, quieta, calma, nessuno ci disturbava» (Stella Franco). «Il nostro non era un ghetto, era un quartiere liberissimo; ognuno poteva uscire liberamente come qualsiasi non ebreo» (Joseph Varon). «A Rodi, c’erano le prigioni. Nessun ebreo è mai entrato in una prigione, mai. Neanche uno» (Alberto Israel). Questo il ricordo di Rodi, l’“isola delle rose”, di alcuni ebrei sopravvissuti alla deportazione ad Auschwitz. Rodi, per secoli parte dell’Impero Ottomano, con le isole del Dodecaneso nel 1912era stata occupata dagli italiani, che nel 1924 ne ottennero la sovranità. Questi, da subito, giudicarono la comunità ebraica locale, composta da oltre 4.500 persone, «ligia alle leggi», dunque affidabile. Quando ne ebbero la possibilità, quasi tutti gli ebrei scelsero la cittadinanza italiana, pur mantenendo come madrelingua il ladino (giudeo-spagnolo). «Abbiamo passato degli anni bellissimi con gli italiani» (Rachele Cohen).
Sami Modiano, deportato e sopravvissuto, con la moglie Selma, che riuscì a nascondersi dai nazisti
Nonostante gli ottimi rapporti con l’amministrazione italiana, a causa della mancanza di lavoro molti giovani emigrarono negli Usa, in Sudamerica, nel Congo Belga, in Rhodesia del Sud e in Palestina, per cui la comunità si dimezzò. «La maggior parte dei ragazzi partiva perché non c’era avvenire per loro sull’isola. Incominciavano a lavorare e una volta più o meno sistemati mandavano a cercare una ragazza di Rodi» (Lea Gattegno). La situazione cambiò bruscamente nel 1938, quando venne estesa anche nel Dodecaneso la legislazione antiebraica. «Mi hanno detto: “Tu non sei più italiano, non vai più alla scuola italiana, sei fuori dalla scuola, fuori dal palazzo del fascio, fuori da tutto!”. Ti tolgono qualcosa a cui vuoi bene… fa male, fa molto male» (Alberto Israel). Nel 1943, nei giorni successivi all’8 settembre, gli italiani – 35mila militari contro poco più di 7mila tedeschi – incredibilmente capitolarono e l’isola passò saldamente nelle mani delle forze di occupazione tedesche, che lasciarono comunque in vita un governo italiano collaborazionista. Per dieci mesi, tuttavia, le autorità naziste non diedero l’impressione di occuparsi della comunità ebraica locale, che visse questo periodo nella più irreale ingenuità.
Rachele Capelluto con le sorelline gemelle Giulia Gioia e Fortunata, uccise ad Auschwitz
Il pericolo sembrava venisse solo dai bombardamenti degli inglesi, che nella primavera del 1944 colpirono più volte il quartiere ebraico, vicinissimo al porto, provocando diversi morti. Molti ebrei, conseguentemente, abbandonarono il quartiere e si rifugiarono nei villaggi vicini. Nel frattempo, in quelle settimane gli italiani completarono un elenco degli ebrei residenti nell’isola, per passarlo alle autorità tedesche. I nazisti avevano in ogni caso già stabilito la sorte che sarebbe toccata alla comunità ebraica, nonostante la guerra fosse ormai persa.
Ad organizzare gli arresti e la deportazione furono il responsabile del Servizio di sicurezza di Atene Anton Burger, uomo di Eichmann, già Comandante del campo-ghetto di Theresienstadt, e il Comandante delle forze armate tedesche dell’isola, il generale Ulrich Kleemann. Il 18 luglio fu diffuso l’ordine, per tutti gli ebrei dell’isola di sesso maschile di età superiore ai 15 anni, di presentarsi alla Kommandantur per un controllo dei documenti di identità. «È venuta una macchina decappottabile e c’erano due o tre tedeschi delle Ss, della Gestapo e un ebreo greco. Lui parlava il ladino e disse: “Dovete fare un controllo delle carte d’identità perché siete tutti sparsi. Venite domani all’aviazione e vi daremo la nuova carta d’identità. Era un traditore, quel figlio di puttana» (Alberto Israel).
Il giorno seguente toccò alle donne e ai bambini. «Fuori dalla caserma c’erano un sacco di donne che piangevano e si disperavano. Poi esce il presidente della Comunità e dice che anche tutte le donne con i figli avrebbero dovuto presentarsi il giorno dopo, con il necessario, piccoli bagagli e tutti i gioielli» (Stella Levi). «Quello che faceva l’interprete diceva “non succederà niente, i tedeschi si comporteranno bene con voi, vi porteremo in un’isola presso Rodi e starete lì fino alla fine della guerra…”. Eravamo brava gente… e ci abbiamo creduto» (Stella Franco). «Ci siamo consegnati, che altro ci rimaneva da fare? Non è che ci fosse un posto poi dove scappare, dove nascondersi» (Virginia Gattegno). «E dopo, man mano, dovevamo passare in fila a depositare i preziosi» (Rosa Levi). «Sa cosa hanno fatto molti? Sono andati nei bagni e hanno buttato lì tutti i gioielli. Perché avevano capito…» (Rachele Alhadeff). «Che sappia io, nessun italiano ha nascosto ebrei. E questo è grave: questo popolo che io ammiravo tanto, così pieno di umanità in tante occasioni, ci ha abbandonato» (Stella Levi).
Un gruppo di giovani ebrei di Rodi (archivio Stella Levi)
In quegli stessi giorni, il giovane console turco, Selâhattin Ülkümen, intervenne con notevole coraggio presso le autorità naziste per impedire la deportazione degli ebrei in possesso della cittadinanza turca, facendo leva sulla neutralità del suo Paese. Ne furono individuati 42, e questi si salvarono. Il 22 luglio, con le vittime ancora sull’isola, venne ordinato il sequestro di tutti i loro beni, mobili e immobili. Il 23 luglio, nello stesso giorno in cui le truppe sovietiche liberavano il campo di sterminio di Majdanek, fu dato l’ordine di imbarco. «Domenica 23 luglio i signori tedeschi fanno partire le sirene, come se ci fosse un bombardamento. Tutti dovevano andare in un rifugio, ma era una messa in scena. Noi, ci hanno messi in fila per cinque, e dovevamo tenere la testa bassa» (Sami Modiano). «La città era morta. Al porto c’erano tre caicchi e hanno messo quasi 600 persone in ognuno» (Alberto Israel). Ed ebbe inizio il viaggio più lungo di tutte le deportazioni naziste. «C’erano ancora gli escrementi delle bestie che avevano portato prima, e urina dappertutto. Ma là dentro non c’erano animali, maiali, capre, ma persone, vecchi con i loro malanni, bambini, neonati, mamme che allattavano, donne che aspettavano…» (Sami Modiano). «Dove ci hanno messi dentro, pidocchi grandi così…» (Stella Benveniste). «Dormivamo a turno sopra le spalle di mamma e di papà» (Rosa Cappelluto). «Ci sono stati morti… abbiamo dovuto buttarli a mare» (Sami Modiano). «Eravamo lì come ipnotizzati. Non capivamo più cosa succedeva» (Alberto Israel).
All’arrivo al Pireo, il responsabile dell’Ufficio dei trasporti annunciò, dopo un controllo, l’arrivo di navi con il seguente carico: «Otto tonnellate di uvette, 37 di vitelli, 82 di carbone, 37 di attrezzi, 14 di oggetti di valore 298 di recipienti vuoti e rottami, 33 soldati e 1733 ebrei». Vennero portati tutti nel carcere ateniese di Haïdari, per gli ebrei del territorio il campo di transito per Auschwitz. Qui, dove non pochi morirono, rimasero dal 31 luglio al 3 agosto.
«Il primo morto ammazzato l’abbiamo avuto ad Haïdari: un uomo che ha cercato di prendere dell’acqua da una fontanella per i suoi figli piccoli» (Sami Modiano). «Non c’era l’acqua, non ci siamo lavati neanche la faccia. Tutto puzzava, tutto sporco, ma non era colpa nostra» (Stella Franco). «Mio nonno è morto di sete lì a Haïdari» (Matilde Cohen).
Il 3 agosto, dalla stazione ferroviaria di Atene iniziò l’ultima parte del trasporto, forse ancor più allucinante, che sarebbe durata quasi 10 giorni. «Tutti ammassati, ci si sdraiava a turno. Non mi ricordo che abbiamo parlato. Ci si teneva vicini e basta» (Virginia Gattegno). «Mia mamma è stata tutti quei giorni seduta per terra abbracciata a me che ero tra le sue gambe, con le mani attorno alla mia testa, senza muoversi, con una temperatura nel vagone di oltre 40 gradi» (Alberto Israel). «La disgrazia che è capitata più forte è questa: eravamo accompagnati anche da soldati italiani che avevano aderito ai tedeschi» (Rahamin Cohen).
E poi, il 16 agosto, l’arrivo ad Auschwitz-Birkenau. «Poi siamo arrivati... eravamo già più morti che vivi...» (Virginia Gattegno). Sulla rampa, il medico delle Ss di turno eseguì la tristemente famosa “selezione iniziale”: i giovani vennero divisi dagli anziani e dai “non abili al lavoro”, e alcune giovani madri dai loro piccoli. Degli oltre 1.700 ebrei “selezionati”, 346 uomini e 254 donne furono immessi nel campo; gli altri vennero inviati alla morte col gas. Tornarono in 178, 135 donne e 43 uomini. Il 16 agosto l’antica e mite comunità ebraica di Rodi finì di esistere.
(la Repubblica, 22 luglio 2024)
Teorie di un complotto ebraico dietro al tentato omicidio di Trump raggiungono milioni di persone
di David Fiorentini
L’antisemitismo rimane probabilmente la forma di odio più longeva ancora in circolazione. In ogni epoca ha trovato una nuova maschera dietro la quale nascondersi, evolvendosi in ogni contesto per riproporsi come la profetica soluzione ai più disparati problemi sociali. L’ossessione per un presunto complotto globale dietro le quinte delle principali aule parlamentari, con a capo la setta segreta di turno, è un mito senza tempo, che molto spesso ha individuato nel popolo ebraico il suo principale protagonista. Ormai sono ben note ad esempio le bufale secondo cui gli ebrei avrebbero creato il Covid-19 per manipolare le dinamiche economiche mondiali e poi poter vendere il vaccino per un ulteriore guadagno.
La speculazione più recente oggi giunge dagli Stati Uniti, quando in seguito all’attentato all’ex presidente e candidato repubblicano Donald J. Trump, non si è perso neanche un secondo per additare gli ebrei.
Come riporta a Jewish News il Centre for Countering Digital Hate (CCDH) di Washington DC, svariati post sulla piattaforma X che “hanno falsamente promosso il coinvolgimento ebraico nel tentativo di assassinio sostenendo che un cecchino dei servizi segreti presente al momento indossava un filo rosso al polso, associato alla Kabbalah” hanno ricevuto più di 8,8 milioni di visualizzazioni.
Numeri molto preoccupanti, che mostrano da un lato la crescente presenza di un antisemitismo sempre meno velato, e dall’altro l’incapacità delle piattaforme di social media di moderare e contrastare queste palesi manifestazioni di odio, con il 95% dei post presi in esame che non presentava alcun tipo di fact checking.
“Nel mercato della disinformazione, che in effetti è ciò a cui molte piattaforme di social media si sono ridotte, un mercato di menzogne, i contenuti estremisti sono la tua moneta di scambio”, ha spiegato Imran Khan, amministratore delegato e fondatore del CCDH, auspicando una forte legislazione in grado di costringere i colossi dei social a cambiare le proprie linee guida e prevenire la diffusione dell’odio.
Si accende lo scontro fra Israele e i ribelli Houti dello Yemen
di Ugo Volli
• Il bombardamento
Nella giornata di sabato una potente squadra dell’aviazione israeliana composta di 18 bombardieri F35 e F15 ha attaccato il porto strategico di Hodeida affacciato sul Mar Rosso nello Yemen occidentale. È il principale porto militare degli Houti, i ribelli yemeniti appoggiati dall’Iran, il centro logistico in cui essi ricevono le armi dall’Iran ed è anche la sede della principale raffineria del paese. Il bombardamento è stata la risposta all’attacco di un drone lanciato dagli Houti nella notte fra giovedì e venerdì, che ha colpito il centro di Tel Aviv a pochi passi dall’ex ambasciata americana – un luogo altamente simbolico. Il drone ha ucciso un cittadino israeliano, da poco immigrato dalla Bielorussia e ne ha feriti diversi altri.
• Perché la risposta
Il colpo del drone non sorprende. Si tratta dell’attacco numero 220 proveniente dallo Yemen sul territorio israeliano in questi mesi di guerra. Israele non aveva mai risposto direttamente, in seguito a un accordo con gli Stati Uniti che guidano una coalizione internazionale che cerca di impedire ai pirati yemeniti di bloccare la navigazione internazionale sul braccio di mare che porta al canale di Suez, causando gravi danni all’economia di mezzo mondo. Tutti questi attacchi aerei dallo Yemen non avevano prodotto gravi danni. Ma questa volta gli Houti sono riusciti a raggiungere la capitale economica di Israele, anche perché il loro drone era stato sì rilevato dall’antiaerea ma non riconosciuto come ostile forse in quanto proveniente dal Mediterraneo, cioè da Ovest. C’è stata fra venerdì e sabato una discussione fra chi, soprattutto negli alti gradi militari, voleva una risposta quasi solo simbolica, come fu quella all’attacco missilistico iraniano il 14 aprile, e chi come Netanyahu riteneva necessaria una risposta concreta e dunque pesante. Alla fine è prevalsa l’opinione del primo ministro e l’attacco è stato duro ed efficace. Gli Houti hanno subito minacciato rappresaglie, ma non è detto che ne siano davvero in grado. Un missile sparato dallo Yemen contro Israele nella notte fra sabato e domenica è stato abbattuto da un antimissile israeliano “Arrow”.
• Lontananza
La distanza fra Israele e lo Yemen è di oltre 1800 chilometri (come, per intenderci, fra Roma e Stoccolma). Gli aerei israeliani sono riusciti a percorrerla in andata e in ritorno portandosi le decine di tonnellate di bombe scaricate su Hudeida e tornando sani e salvi. Determinante è stato il rifornimento in volo non solo di aerei cisterna israeliani, ma anche di forze della Nato, fra cui almeno un velivolo italiano; il che significa che al di là delle posizioni politiche, la coalizione occidentale funziona ed è in grado di mettersi in opera velocemente. Bisogna anche tener conto che la distanza fra Israele e i luoghi strategici dell’Iran è inferiore a quella con lo Yemen. Oltre che una lezione per gli Houti, questa operazione è stata dunque anche un avvertimento implicito agli ayatollah: l’aeronautica israeliana è in grado di fare sul loro territorio non solo spedizioni dimostrative come quella di aprile, ma anche bombardamenti pesanti, contro cui le loro armi antiaeree sono impotenti, come si è visto in questi due casi. È un avvertimento importante non solo perché l’Iran è la centrale di comando da cui dipendono tanto gli Houti quanto Hamas, ma anche perché, come ha detto il Segretario di Stato Blinken in un comunicato di sabato cui pochi hanno prestato la giusta attenzione, all’Iran mancano solo due settimane per realizzare le componenti decisive del suo armamento atomico.
• Il quadro strategico
Lo scambio di colpi con gli Houti, atteso da tempo dato che la coalizione internazionale si è mostrata incapace di bloccare l’aggressione dei ribelli yemeniti alla libertà di navigazione nel Mar Rosso, rende evidente uno dei fronti su cui deve combattere Israele. Contemporaneamente, fra giovedì e sabato, vi sono state importanti azioni contro Hamas a Rafah e Gaza City, scambi di colpi molto intensi con Hezbollah in Libano, diverse operazioni antiterrorismo nel territorio dell’Autorità Palestinese; vi è stato poi un tentativo di bombardamento su Haifa partito dall’Iraq ed è stata anche pubblicata la deliberazione del tribunale dell’Aia che ha dichiarato illegittima la presenza israeliana in Giudea e Samaria. Insomma, è sempre più chiaro che quella in corso non è una semplice operazione antiterroristica o una guerra con Hamas, che si potrebbe chiudere con un cessate il fuoco che liberasse i rapiti. Si tratta di una guerra su sei o sette fronti militari e altri politici e giuridici, la cui posta è l’esistenza stessa dello Stato di Israele. È una guerra diretta dall’Iran, di cui pochi in Occidente capiscono l’estensione e l’obiettivo. Israele ha i mezzi e la volontà per vincere. È importante che l’Europa e gli Usa non lo lascino solo, perché il pericolo è grande.
Dopo decenni di lotte e di fronte alla feroce opposizione della leadership ultraortodossa, oggi l’IDF inizierà a inviare gli avvisi di leva alle reclute degli studenti delle yeshiva.
Gli ordini di leva saranno inviati questa settimana a circa 1.000 giovani ultraortodossi in età di leva. A questi ultraortodossi verrà chiesto di partecipare alla procedura di tzav rishon (primo ordine) presso gli uffici di reclutamento. L’IDF sta cercando di evitare un confronto con la società ultraortodossa e ha messo in atto un processo di selezione in cui ha cercato di identificare gli uomini Haredi che sarebbero stati i più facili da arruolare.
Tra le persone identificate dall’IDF come potenziali arruolati ci sono uomini che ricevono una busta paga che indica che lavorano e non passano la maggior parte del tempo in yeshiva, uomini che possiedono uno smartphone e uomini che non erano presenti in una yeshiva durante le verifiche delle presenze effettuate dal Ministero dei Servizi Religiosi.
Nonostante questi tentativi, la leadership spirituale del settore ultraortodosso non accetta il provvedimento. Sul giornale Yated Ne’eman, di orientamento religioso, venerdì è apparsa una vignetta in cui si vedono gli ordini di arruolamento gettati in un cestino all’interno di una yeshiva, mentre gli studenti siedono davanti a un Talmud aperto, un’interpretazione visiva delle istruzioni dei rabbini haredi lituani, guidati da Rabbi Dov Lando, secondo cui gli studenti delle yeshiva non dovrebbero presentarsi per l’arruolamento nell’IDF.
Nei giorni scorsi, anche i rabbini del Consiglio dei Saggi della Torah di Shas si sono uniti all’ordine di non presentarsi, pubblicando una lettera che recita: “A partire da ora, quando non è ancora stata stabilita una nuova legge che regoli lo status dei membri delle Yeshiva, non si deve obbedire a nessun ordine di leva o di arruolamento, nemmeno a uno tzav rishon (primo ordine), e quindi non ci si deve presentare affatto agli uffici di reclutamento”.
I rabbini dello Shas hanno anche aggiunto che “ci sono elementi, guidati dall’Alta Corte di Giustizia e da funzionari legali, che stanno lavorando per danneggiare il mondo della Torah e per danneggiare il popolo della Torah, e quindi è doveroso per noi ora rimanere fermi, e chiarire a queste persone e al mondo che non c’è nessun potere al mondo che possa riuscire, Dio non voglia, a disconnettere gli studiosi della Torah dal Talmud”.
Coloro che non hanno aderito al messaggio sono i rabbini dei principali movimenti chassidici in Israele, i rebbes dei movimenti Gur, Belz e Vizhnitz. I tre non hanno firmato tali lettere e hanno anche detto a coloro che li hanno consultati che in questa fase un giovane ultraortodosso che riceve uno tzav rishon dovrebbe recarsi all’ufficio di reclutamento per non litigare con l’esercito, e che in seguito esamineranno come mantenere l’esenzione per chi studia in yeshiva.
Un’altra voce che si è sentita negli ultimi giorni è quella del rabbino Dovid Leibel, capo della rete di kollel Achvas Torah, che negli ultimi anni ha cercato di creare percorsi personalizzati per gli ultraortodossi nell’esercito. La scorsa settimana, una manifestazione di manifestanti ultraortodossi si è svolta intorno alla sua casa, dopo aver scoperto che egli si sarebbe incontrato con alti ufficiali dell’esercito per discutere del reclutamento di giovani ultraortodossi.
Leibel ha anche tenuto una lezione ai suoi studenti in cui si è opposto allo spirito militante dei rabbini Haredi, dicendo: “A lungo andare, tutto il nostro settore dovrà trovare una sorta di accordo, non è possibile vivere nel Paese e stringere la mano al governo, all’esercito e alla legge e vedere chi batterà per primo le ciglia”.
Il rabbino ha anche fatto riferimento all’opinione di alcuni ultraortodossi che dicono di non arruolarsi perché non fanno parte dello Stato, che non riconoscono. Questi ultraortodossi credono che l’esilio non sia ancora finito, fino alla venuta del Messia ebraico. Il rabbino ha detto: “Ci siamo seduti in esilio con i sionisti, quindi ora dovremmo comportarci come in esilio, chinare la testa davanti ai proprietari terrieri, non andare a ubriacarci e gridare ‘Siamo noi a gestire il Paese’”.
L’IDF ha avuto difficoltà a stimare quanti giovani avrebbero risposto al primo bando di leva. I primi 3.000 ordini decisi nell’ambito della sicurezza saranno distribuiti dall’IDF in tre lotti, ciascuno a distanza di due settimane.
Il generale di brigata Shay Taib questa settimana ha giustificato la decisione di agire in questo modo, dicendo: “Si tratta di una popolazione su cui abbiamo essenzialmente zero dati. Se mi chiedete quanti della popolazione generale si faranno avanti, so come tirare fuori una cifra che si avvicina alla realtà. Questa è una popolazione per la quale non abbiamo dati e non posso stimare quanti si presenteranno. Dopo un ciclo, avremo due settimane di apprendimento e miglioramento, un altro ciclo e un’altra procedura di miglioramento”.
I protocolli dei medici israeliani per assistere gli ostaggi liberati
Allo Sheba Center di TelAviv uno staff di esperti ha elaborato procedure ad hoc per curare i rapiti da Hamas Si credeva che i ricoverati volessero stare da soli, invece desideravano il contatto fisico con dottori e famiglie.
di Luciano Bassani
Il ritorno a casa di persone che sono state rapite e tenute in cattività pone dei problemi inusuali e di difficile gestione sia sanitaria che etico comportamentale. Qual è la prima cosa che dici a un rapito che scende da un elicottero? Che tono di voce usi? Lo abbracci? Lo tocchi? Cosa dici quando ti chiede «Perché mia madre non è qui per incontrarmi?».
«Abbiamo fatto pratica più e più volte finché non abbiamo trovato le soluzioni migliori e le persone più adatte a soddisfare ogni prigioniero», ha affermato il dottor Itai Pessach, medico di terapia intensiva pediatrica, direttore dell'ospedale pediatrico Edmond and Lily Safra presso lo Sheba Medicai Center (Tel Aviv). Pessach dirige la squadra medica speciale dello Sheba che si prende cura degli ostaggi di ritorno. Si stima che delle 251 persone rapite a Gaza dai terroristi di Hamas il 7 ottobre, 120 sono state rilasciate nel corso del tempo. Tutti sono stati trasportati direttamente negli ospedali israeliani, di cui 36 allo Sheba, più che in qualsiasi altro ospedale. In un webinar organizzato dall'American Friends of Sheba Medicai Center il 1° luglio, Pessach ha spiegato che l'ospedale pediatrico è stato ritenuto il centro medico più adatto per prendersi cura di ostaggi di qualsiasi età. «Fin dall'inizio, abbiamo capito che i rapiti avrebbero avuto bisogno di un ambiente tranquillo e protettivo per ridurre l'ansia e di un posto in cui avremmo potuto ospitare anche le loro famiglie, cosa che facciamo sempre nel nostro ospedale pediatrico», ha detto. Inoltre, davamo per scontato - purtroppo erroneamente - che i bambini rapiti sarebbero stati liberati per primi e in tempi rapidi.
«Pensavamo che ci sarebbero voluti alcuni giorni prima che i bambini rapiti venissero restituiti e abbiamo iniziato a prepararci per fornire loro le cure specifiche e delicate di cui avrebbero avuto bisogno. Non potevamo immaginare che persino un'organizzazione terroristica feroce come Hamas avrebbe tenuto prigionieri i bambini per un lungo periodo», ha detto Pessach. Se poi pensiamo che tra i rapiti c'era un neonato di dieci mesi, Kfir Bibas, è difficile farsi qualche illusione con questi personaggi. Circa 120 professionisti sono stati selezionati con cura per essere addestrati nella squadra speciale che ha aiutato gli ostaggi liberati. Tra loro ci sono psichiatri specializzati nei traumi dei soldati e dei prigionieri di guerra, esperti nel trattamento delle donne che hanno subito aggressioni sessuali e personale con esperienza nel lavoro con bambini vittime di violenza. «Abbiamo dovuto raccogliere molto knowhow perché nessun operatore sanitario lo aveva mai fatto prima, né in Israele né in nessun altro posto al mondo», ha detto Pessach. «Non c'era un protocollo basato sulle prove, quindi abbiamo dovuto crearlo». Lo Sheba ha persino chiesto il parere di esperti in traumatologia che avevano avuto a che fare con ragazze rapite da Boko Haram in Nigeria, bambini rapiti dai cartelli della droga in Messico e bambini in zone di guerra come Bosnia e Ucraìna.
«Abbiamo simulato diversi tipi di scenari di ritorno e li abbiamo messi in pratica più volte. Abbiamo svolto un processo approfondito per comprendere il modo giusto di accogliere le persone che hanno subito un'esperienza così orribile e impedire che si verificassero ulteriori danni psicologici». Sulla base delle raccomandazioni raccolte, l'ospedale pediatrico Safra ha predisposto con cura un'area apposita, protetta dalla stampa e dal pubblico, per accogliere gli ostaggi. «Ci siamo assicurati che le luci fossero soffuse perché alcuni di loro erano stati tenuti sottoterra e avevano dovuto acclimatarsi lentamente alla luce», ha detto Pessach.
«Abbiamo sostituito molti mobili per farla sembrare più una stanza di un boutique hotel che una stanza di un paziente. Non sapevamo quali sarebbero state le loro condizioni mediche, ma dovevamo essere pronti a fornire cure avanzate. Siamo stati in grado di passare da una terapia intensiva a una «stanza di hotel» in pochi minuti per fornire le cure mediche necessarie in un ambiente sicuro», ha aggiunto. Il team ha persino pensato di allestire una cucina con chef in cui preparare qualsiasi piatto desiderato dai rapiti rimpatriati, nonché un salone per capelli, unghie e trattamenti per il viso per le ex prigioniere che potessero aver bisogno di questi servizi per «sentirsi esseri umani», ha affermato Pessach. Sono state esaminate le cartelle cliniche di ogni prigioniero per determinare le probabili necessità, come ad esempio occhiali da vista rotti o portati via. Pesach si ricordò di un prigioniero la cui prescrizione specifica per occhiali non era immediatamente disponibile. «Così una persona ha chiesto a un'altra che ha chiesto a un'altra ancora - è così che funzionano le cose in Israele - e in meno di un'ora, nel cuore della notte, abbiamo trovato un optometrista che è andato nel suo negozio, ha preparato gli occhiali e li ha portati allo Sheba».
Un altro motivo per cui l'ospedale pediatrico era il luogo più appropriato per accogliere gli ostaggi è che il personale è esperto nel dare con delicatezza le brutte notizie. «Avevamo molte brutte notizie da dare ad alcuni dei prigionieri, soprattutto ai primi ad essere rilasciati dopo 50 giorni», ha detto «Non sapevano che altri erano stati rapiti. Non sapevano che altre comunità erano state aggredite il 7 ottobre. Non sapevano che alcuni dei loro familiari erano morti e altri erano stati fatti prigionieri. «Volevamo dare questa notizia in modo molto controllato e sicuro, su misura, consultandoci con i loro familiari». Nonostante tutta questa meticolosa preparazione, Pessach ha detto che i protocolli sono stati modificati in base all'esperienza effettiva. La conoscenza accumulata è stata condivisa con altri ospedali che hanno ricevuto ostaggi, e viceversa. Lo staff aveva dato per scontato, ad esempio, che i rapiti di ritorno non avrebbero voluto parlare o essere toccati, come è tipico delle vittime di violenza. Avevano dato per scontato che inizialmente i rapiti avrebbero voluto avere contatti solo con persone selezionate e che avrebbero dovuto essere protetti dagli altri. «Ma invece era il contrario; desideravano ardentemente il contatto fisico con noi e le loro famiglie, e volevano condividere le loro esperienze e il loro dolore. Volevano parlare, e volevano vedere gli amici il più velocemente possibile, per provare gioia e felicità. Non volevano essere lasciati soli», ha detto Pessach. «Ora sappiamo che dobbiamo ancora proteggerli in una certa misura, ma dobbiamo anche dare loro molta scelta. Gli ultimi quattro rapiti che sono tornati volevano davvero interagire con i loro amici e familiari, quindi glielo abbiamo permesso fin dall'inizio», ha aggiunto. «Si tratta di un processo continuo di apprendimento della soluzione esatta appropriata per ogni prigioniero che ritorna». Pessach ha affermato che tutti gli ostaggi hanno subito un trauma psicologico e fisico significativo. E sebbene ognuno abbia sofferto in prigionia, le esperienze e le reazioni individuali sono state molto diverse. «Le loro condizioni dipendevano da dove venivano trattenuti e con chi venivano trattenuti. Quelli trattenuti da soli (alcuni sono stati trattenuti da soli per 50 giorni, quasi senza alcuna interazione umana) hanno avuto un'esperienza molto diversa a livello fisico e psicologico rispetto a quelli trattenuti con altri ostaggi o con familiari», ha spiegato. «Quelli tenuti sottoterra erano esposti a condizioni più dure di quelli tenuti in appartamenti. Anche le persone nello stesso gruppo avevano esperienze diverse a seconda di come i loro rapitori si relazionavano con ciascuno di loro». I bambini che sono tornati a casa, ha aggiunto, erano generalmente più resilienti degli adulti. «Ci sono almeno altri 120 ostaggi ancora a Gaza», ha detto Pessach. «Non possiamo semplicemente sederci e aspettare che tornino. Ogni secondo, le loro vite sono a rischio e la loro salute è compromessa. Noi in Israele e in tutto il mondo dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per assicurarci che tornino. Siamo pronti a riceverli in qualsiasi momento e a dare loro la migliore assistenza possibile, ma non è abbastanza. Abbiamo solo bisogno che tornino qui».
Magdi Allam, o meglio, Magdi Cristiano Allam, da quando, nel 2008, si convertì al cristianesimo, uscendo definitivamente dal perimetro dell’Islam, e dunque diventando apostata, scelta per la quale è prevista la condanna a morte, è da molti anni schierato a fianco di Israele e delle sue ragioni, al punto che Hamas lo ha designato come legittimo bersaglio. Ciò nonostante, con coraggio e determinazione, ha sempre continuato a dire ciò che ritiene necessario dire.
- Nel 2003 ti è stata concessa la scorta a seguito di quello che è stato valutato come un pericolo concreto riguardo alla tua persona. Vorresti brevemente ricordare quali sono le ragioni di questa decisione? «Nel marzo del 2003 ero editorialista ed inviato speciale del quotidiano “La Repubblica”. Mi trovavo a Kuwait City per seguire gli sviluppi della seconda guerra del Golfo, culminata con l’uccisione di Saddam Hussein e il sovvertimento dell’Iraq. L’allora Direttore del Sisde, i Servizi segreti interni, il generale dei Carabinieri Mario Mori, comunicò all’allora Direttore di “La Repubblica”, Ezio Mauro, che dovevo rientrare immediatamente in Italia. Il Sisde era stato informato dai Servizi segreti egiziani, ben presenti a Gaza che fu occupata e amministrata dall’Egitto dal 1948 al 1967, che Hamas mi aveva di fatto condannato a morte per le mie pubbliche denunce sulla stampa e in televisione degli attentati terroristici suicidi perpetrati da Hamas contro i civili israeliani. È da allora che lo Stato mi ha affidato una scorta. La mia esplicita e totale denuncia del terrorismo islamico e della predicazione d’odio dai pulpiti delle moschee contro ebrei e cristiani, Israele e l’Occidente, mi ha portato successivamente a subire condanne e minacce di morte anche da parte di supposti rappresentanti di un “islam moderato” in Italia, legati ideologicamente a Hamas e ai Fratelli Musulmani. Nel 2007, dopo la pubblicazione del mio saggio “Viva Israele”, e nel 2008, dopo la mia conversione dall’islam al cristianesimo ricevendo il battesimo dalle mani del Papa Benedetto XVI, sono stato il civile più scortato d’Italia, a causa dell’impennata delle condanne e delle minacce da parte dei terroristi e degli estremisti islamici».
- Veniamo all’attualità. Recentemente sei stato oggetto di attacchi diretti da parte di Zulfiqar Khan, un predicatore pakistano che si trova a Bologna già noto per le sue invettive contro Israele e per considerare Hamas in modo favorevole. A seguito di ciò hai scritto una lettera aperta al ministro degli Interni Piantedosi. Cosa hai da dire su questa vicenda? Il 30 giugno 2024 ho partecipato a un convegno dal titolo “Il 7 ottobre nella geopolitica di Israele”, a San Miniato, in provincia di Pisa, organizzato dal “Centro Ghesher”. Il 6 e il 7 luglio, sul profilo Facebook del Centro islamico Iqraa, sono stati pubblicati due video di altrettanti sermoni del sedicente imam pachistano Zulfiqar Khan, tenuti di fronte ai fedeli della sua moschea, dal titolo “Scarsa conoscenza di Magdi Allam”, in cui mi condanna e mi rivolge degli avvertimenti. Mi preoccupa il fatto che, nonostante questo sedicente imam, sia già stato diffusamente denunciato dalla stampa per le sue affermazioni violente soprattutto contro gli ebrei, Israele e Stati Uniti, ma anche nei confronti degli omosessuali e della nostra civiltà laica; nonostante il Ministero dell’Interno abbia specificato che è un soggetto “attenzionato” dalle Forze dell’ordine; nonostante sia stata chiesta la sua «espulsione immediata» da parte del vice-Presidente del Consiglio, Segretario federale della Lega ed ex Ministro dell’Interno Matteo Salvini; nonostante sia stato oggetto di un’interpellanza parlamentare da parte del Senatore Marco Lisei e del Deputato Sara Kelany del Partito di maggioranza al Governo, Fratelli d’Italia, in cui si chiede al Ministro dell’Interno di intraprendere delle azioni nei suoi confronti; ebbene, ciononostante, questo sedicente imam mi ha voluto riservare due sermoni e altrettanti video in 48 ore per condannarmi sostanzialmente come “nemico dell’islam” e “collaborazionista di Israele”. Ho pertanto deciso il 15 luglio di pubblicare una “Lettera aperta” al Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, evidenziando che negli ultimi anni, senza una carica pubblica e scarsa visibilità televisiva, la scorta assegnatami si è ridotta notevolmente, a un livello che reputo inadeguato alla mia condanna a morte che resta immutata. Ho fatto presente che lo scrittore Salman Rushdie, condannato a morte nel 1989 per il suo romanzo “I versi satanici” dal Fondatore della Repubblica Islamica dell’Iran, l’imam Khomeini, si è salvato miracolosamente da un attentato terroristico islamico ben 33 anni dopo, il 12 agosto 2022. Perché la condanna del “nemico dell’islam” non decade mai, così come l’obbligo di ucciderlo resta valido fino alla sua morte.
- Il tuo impegno a favore di Israele è un impegno di vecchia data e ben noto. Quali sono, se puoi riassumerle, le ragioni essenziali della tua vicinanza? «Sono nato e cresciuto nei primi vent’anni in un Egitto impregnato di odio assoluto nei confronti di Israele e di un pregiudizio viscerale nei confronti degli ebrei. Sulla carta geografica nei testi di Storia in lingua araba il territorio che va dal Giordano al Mediterraneo e dal Libano al Sinai, veniva indicato come “Palestina”. Israele veniva additato come “entità sionista”, creata dall’imperialismo americano. Il regime autoritario e guerrafondaio di Nasser concepiva Israele come un cancro da estirpare, mobilitando il popolo e investendo tutte le risorse per annientarlo e far trionfare un’unica “Nazione araba”, dal Marocco ad ovest all’Iraq ad est. Ero al Cairo il 5 giugno 1967. Scoppiò la “Guerra dei sei giorni” voluta da Nasser. La Radio annunciava l’approssimarsi della “eliminazione del nemico sionista”. Sentii il fragore delle bombe con cui l’aviazione israeliana distrusse gli aerei militari egiziani a terra, determinando in poche ore la sconfitta dell’Egitto. Avevo 15 anni ed una fidanzatina che, soltanto allora, scoprii che era ebrea. In una società laica non ci si declinava per identità religiosa. Ma allora esplose la caccia all’ebreo. Fui prelevato da casa, trasferito in un centro dei Servizi segreti, mi accusarono di essere una spia di Israele.Presi atto che dall’odio nei confronti di Israele si era rapidamente passati all’odio nei confronti degli ebrei, a prescindere che fossero cittadini egiziani o di altri Stati. Successivamente si è passati all’odio di tutti i “diversi”. Prima i cristiani, anche se sono gli autentici egizi non islamizzati. Poi i musulmani eterodossi, non praticanti, sostanzialmente laici. Infine l’odio contro tutti i musulmani che non si sottomettono all’arbitrio e alla tirannia dei gruppi estremisti e terroristici islamici. Ho così compreso che solo riconoscendo il diritto di Israele ad esistere come Stato del popolo ebraico, si garantisce il diritto alla vita di tutti, ebrei, cristiani, musulmani eterodossi e musulmani praticanti ma non sottomessi ai terroristi islamici. Ecco perché “Viva Israele” è un inno alla vita di tutti.
- Dopo l’eccidio di Hamas perpetrato in Israele il 7 ottobre scorso, abbiamo assistito a un rigurgito di antisemitismo senza precedenti. È qualcosa che ti ha meravigliato o te lo aspettavi? «L’antisemitismo, o più chiaramente anti-ebraismo, ha sempre covato sotto la cenere in Italia e nell’Europa dove si è consumata la Shoah, l’Olocausto di sei milioni di ebrei. Di fatto c’è stata una continuità tra la partecipazione del regime fascista di Mussolini alla Shoah, e la politica filo-araba e filo-islamica dell’Italia repubblicana, dettata dalla strategia dell’Eni, l’Ente nazionale idrocarburi. La necessità di acquisire il petrolio e il gas degli Stati arabi ed islamici, ha forgiato sin dal dopoguerra la politica estera dell’Italia e dell’Europa, a scapito di Israele. L’anti-ebraismo è radicato nel cristianesimo, fondato sul pregiudizio che sarebbero stati gli ebrei a uccidere Gesù. Così come è radicato nelle ideologie della destra nazista e fascista e della sinistra comunista, rappresentando gli ebrei come una casta oligarchica che controllerebbe la ricchezza del mondo e determinerebbe le sorti dell’umanità. Il pregiudizio nei confronti degli ebrei si è riverberato su Israele, gettando ombre sulla sua nascita e mettendo in discussione il suo diritto ad esistere. Si tratta di un pregiudizio radicato e diffuso, presente sia ai vertici delle istituzioni, anche se non palesato, sia tra le masse dove invece viene manifestato esplicitamente e persino violentemente. La conferma la si è avuta quando Israele ha legittimamente reagito alla strage perpetrata dai terroristi islamici di Hamas il 7 ottobre 2023, con 1200 israeliani massacrati in poche ore. Ebbene, si sono capovolte le responsabilità, incolpando non Hamas ma Israele di crimini contro l’umanità e persino di “genocidio del popolo palestinese”.
- Nell’islam ci sono due filoni di antisemitismo, quello originario che troviamo nel Corano e negli hadit e quello di importazione occidentale che soprattutto in Medio Oriente è stato diffuso capillarmente dalla propaganda del Terzo Reich, a partire dalla metà degli anni ’30. Entrambi li troviamo esemplificati nello Statuto di Hamas del 1989. Cosa hai da dire in proposito? Maometto è stato uno stragista degli ebrei, così come il Corano è il testo più anti-ebraico della Storia. Nel 627 a Medina Maometto partecipò personalmente allo sgozzamento e alla decapitazione di circa 900 ebrei maschi adulti della tribù ebraica dei Banu Quraiza, mentre i bambini e le donne furono catturati, seviziati e venduti come schiavi. I terroristi islamici non sono delle “schegge impazzite” che violano e oltraggiano il “vero islam”, ma all’opposto sono i musulmani che più di altri ottemperano letteralmente e integralmente a ciò che Allah prescrive nel Corano e a ciò che ha detto e ha fatto Maometto. Tutto ciò che fanno i terroristi islamici corrisponde all’attuazione di “fatwe”, responsi giuridici islamici emessi da autorità religiose, vincolanti per i fedeli. Le fatwe si fondano sulla “sharia”, la legge islamica, basata sul Corano, il loro testo sacro che sostanzia e invera Allah; sulla Sunna, la raccolta dei detti e dei fatti attribuiti a Maometto; e sulla Sira, la biografia di Maometto. Anche la decapitazione di neonati e bambini trova una sua legittimazione in delle fatwe emesse dal “Grande imam” dell’Università islamica di Al Azhar, concepita come l’equivalente del “Vaticano dell’islam sunnita”, in quanto principale riferimento sul piano della sharia per la stragrande maggioranza dei musulmani nel mondo che appartengono alla comunità sunnita. Queste fatwe si basano sui seguenti principi: 1) Tutti gli israeliani sono forze di occupazione. 2) Gli attentati terroristici, compresi gli attentati terroristici suicidi, sono operazione di “martirio” e sono legittime sul piano della sharia. 3) L’islam legittima gli attentati terroristici anche per uccidere i bambini e le donne. Il 4 aprile 2002 Ahmed Al Tayeb, attuale Grande imam dell’Università islamica di Al Azhar, equiparabile al “Papa dell’islam sunnita”, quando all’epoca era il Mufti d’Egitto, massimo giureconsulto islamico, legittimò il terrorismo suicida affermando: “Le operazioni di martirio in cui i palestinesi si fanno esplodere sono permesse al cento per cento secondo la legge islamica. La soluzione al terrore israeliano risiede nella proliferazione degli attacchi suicidi che diffondono terrore nel cuore dei nemici di Allah. I paesi, governanti e sovrani islamici devono sostenere questi attacchi”. Sempre il 4 aprile 2002, lo scheikh Mohammad Sayed Tantawi, nella sua veste di Grande imam dell’Università islamica di Al Azhar, ricevendo al Cairo il deputato arabo-israeliano Abdel Wahhab Darawsheh, emise una fatwa in cui sentenziò: “I cittadini israeliani sono forze di occupazione. Quindi le operazioni di martirio sono la più elevata forma di Jihad. Gli attacchi suicidi sono un precetto islamico finché il popolo della Palestina riconquisterà la sua terra e farà arretrare la crudele aggressione israeliana. I giovani che le attuano hanno venduto a Allah la cosa più preziosa. Le operazioni di martirio contro qualsiasi israeliano, inclusi i bambini, le donne e i giovani, sono legittime dal punto di vista della legge islamica. Il popolo palestinese intensifichi le operazioni di martirio contro il nemico sionista, in quanto la manifestazione più alta del Jihad”.Lo Statuto di Hamas ricalca il Corano, Maometto e la storia di 1400 anni di odio islamico nei confronti degli ebrei. Vi si afferma che la Palestina non potrà essere ceduta, anche per un solo pezzo, poiché essa appartiene all’islam fino al Giorno del giudizio. “Il Movimento di Resistenza Islamico crede che la terra di Palestina sia un bene inalienabile (waqf), terra islamica affidata alle generazioni dell’islam fino al Giorno della resurrezione. Non è accettabile rinunciare ad alcuna parte di essa”.L’articolo 7 dello Statuto presenta il Jihād contro il sionismo come rispondente alle parole, proferite secondo Bukhari e Muslim dallo stesso Maometto, per le quali i musulmani combatteranno ed uccideranno gli ebrei. “Benché […] molti ostacoli siano stati posti di fronte ai combattenti da coloro che si muovono agli ordini del sionismo così da rendere talora impossibile il perseguimento del jihād, il Movimento di Resistenza Islamico ha sempre cercato di corrispondere alle promesse di Allah, senza chiedersi quanto tempo ci sarebbe voluto. Il Profeta – le benedizioni e la salvezza di Allah siano su di Lui – dichiarò: “L’Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno, e fino a quando gli ebrei si nasconderanno dietro una pietra o un albero, e la pietra o l'albero diranno: ‘O musulmano, o servo di Allah, c’è un ebreo nascosto dietro di me – vieni e uccidilo.”
- Sono anni che la tua voce si fa sentire relativamente all’Islam, di cui denunci senza tentennamenti la sua incompatibilità con l’ordine democratico liberale, esattamente quello che diceva tra gli altri, Giovanni Sartori. Quindi, per te, il problema non è il cosiddetto “islamismo” la presunta degenerazione jihadista dell’Islam, ma l’islam stesso? «Sono stato musulmano per 56 anni. Ho sempre detto che bisogna distinguere tra i musulmani come persone e l’islam come religione. Sono consapevole che ci sono i “musulmani moderati”, persone che antepongono la ragione e il cuore ad Allah e a Maometto. Il problema è l’islam, che è un sistema di potere che salda in modo indissolubile la dimensione religiosa e quella secolare, dove pertanto il peccato diventa reato. L’islam nasce nel 622 quando Maometto, cacciato dai suoi concittadini della Mecca perché si ostina a affermare che bisogna adorare solo il dio pagano arabo Allah, uno dei 360 idoli che componevano il Pantheon politeista arabo, costituisce a Medina la “tribù dei musulmani”, di cui lui assume sia la guida politica, sia la guida religiosa essendosi auto-insignito a “Messaggero di Allah”. Il Corano è concepito come un testo increato al pari di Allah. Pertanto, da 1400 anni i musulmani ottemperano letteralmente e integralmente a ciò che Allah vi prescrive. Mentre fede e ragione convivono armoniosamente nell’ebraismo e nel cristianesimo, l’islam si fonda sulla sola fede.In questo contesto, sono proprio gli integralisti, gli estremisti e i terroristi islamici coloro che più di altri ottemperano letteralmente e integralmente al Corano e a Maometto. Il Corano legittima e ordina di odiare, discriminare e uccidere i miscredenti, a partire dagli ebrei e dai cristiani. Maometto ha perpetrato crimini contro l’umanità, uccidendo, sgozzando e decapitando personalmente i suoi nemici. È stato il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan, il vero leader politico dei “Fratelli Musulmani” a livello mondiale, il grande burattinaio del radicalismo e del terrorismo islamico, a dire correttamente: “Non c’è un islam moderato e un islam non moderato. L’islam è l’islam”.
- L’Europa di oggi è un continente che sembra del tutto incapace di affrontare la sfida strutturale che pone l’islam, non è già, demograficamente e culturalmente, una battaglia persa? «L’Europa si trova nella condizione in cui versava nel 476, anno della caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Siamo una civiltà decaduta, dei popoli condannati all’estinzione, degli Stati nazionali collassati. Oggi, come allora, la causa scatenante del declino è il tracollo demografico. L’Imperatore Caracalla, figlio dell’Imperatore Lucio Settimio Severo, berbero africano di Leptis Magna, nel 212 con la “Constitutio Antoniana” concesse la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’Impero. Era lo “ius soli” dell’epoca. Da Sud arrivarono i berberi per colmare la carenza di contadini nelle campagne. Da Nord affluirono i barbari per consolidare le fila dell’Esercito. E fu proprio un barbaro inquadrato nell’Esercito romano, il generale Odoacre, a destituire con un colpo di stato militare nel 476 l’ultimo Imperatore Romano d’Occidente Romolo Augusto o Augustolo, perché aveva appena 15 anni. L’Impero Romano d’Occidente finì non per la forza dei barbari, ma per la propria intrinseca debolezza. Non fu un omicidio, ma un suicidio. È la stessa realtà che si sta verificando in questa Europa. A fronte di un tracollo demografico senza pari nella Storia, sono gli stessi europei che spalancano le proprie frontiere agli islamici, i nuovi barbari, favorendo la sostituzione etnica e accelerando l’islamizzazione demografica. Di fatto l’Europa è già a un livello avanzato di islamizzazione, innanzitutto a causa della proliferazione delle moschee e delle scuole coraniche, che non sono luoghi di culto pari alle sinagoghe e alle chiese, ma dei presidi territoriali al cui interno si forma la “comunità islamica”, si pratica il lavaggio di cervello per forgiare i combattenti alla “Guerra santa islamica”, si inculca l’odio e si predica la sottomissione all’islam dell’insieme dell’umanità. La differenza è che mentre i barbari europei recepirono la civiltà romana e parteciparono alla fondazione del Sacro Romano Impero, costituito grazie al miracolo di San Benedetto e della rete dei monasteri benedettini, i nuovi barbari islamici rigettano pregiudizialmente la nostra civiltà laica e liberale dalle radici ebraico-cristiane e finiranno per sottometterci alla tirannia dell’islam».
A Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio
Il 18 febbraio 1984 fu rinnovato il Concordato tra lo Stato Italiano e la Santa Sede, originariamente concluso nel 1929 sotto il governo fascista. Dopo quarant'anni di Repubblica democratica, il vecchio Concordato era diventato un oggetto talmente osceno nella sua formulazione clericale che nel paese si cominciava seriamente a parlare dell'opportunità di abolirlo. Tenuto presente che in quegli anni a capo del governo si trovava il socialista Bettino Craxi, fu la stessa Chiesa Cattolica che, nel timore si arrivasse davvero ad abolirlo, spinse la Democrazia Cristiana ad attivarsi per arrivare ad un aggiornamento dello strumento concordatario che lo rendesse presentabile a una popolazione ormai pronta a sganciarsi da certe indicazioni dell'autorità ecclesiastica.
La parte socialista del governo però era meno desiderosa di aggiornare il Concordato, perché moltiavrebbero preferito la sua pura e semplice abolizione. Per qualcuno infatti la presenza nella Costituzione di un paese democratico di un rudere come il Concordato fascista era considerata un vulnus, un'anomalia costituzionale da risanare con la pura e semplice abolizione dell'articolo 7 della Carta che ne regola la presenza.
Poiché però i democristiani si appoggiavano proprio su questo articolo per la difesa del Concordato,altre forze di governo fecero notare che nella Carta esiste anche un articolo 8, ancora inattuato, che prevede la possibilità per lo Stato di fare intese con confessioni religiose non cattoliche, cosa che fino a quel momento non era mai avvenuta. Si arrivò dunque a richiedere l'attuazione dell'articolo 8 come condizione per il mantenimento dell'articolo 7.
Intuito il pericolo, le forze cattoliche di governo corsero ai ripari e si misero a cercare organizzazioni religiose non cattoliche a cui offrire la possibilità di fare intese con lo Stato. La prima in assoluto fu la Chiesa Valdese, che dopo un serio lavoro di elaborazione presentò il testo di una formale richiesta di un'Intesa con lo Stato.
I Valdesi erano consapevoli di assumere una posizione diversa da quella degli altri evangelici, e di poter essere accusati di voler partecipare agli illeciti vantaggi di una posizione di privilegio dei cattolici. Vollero allora che nel testo dell'Intesa fosse ripetuta quasi in ogni articolo la dizione "senza oneri per lo Stato", a marcare la differenza con la Chiesa Cattolica, a cui molti laici rimproveravanoil privilegiato e illecito uso di finanze pubbliche. Purtroppo, dopo pochi anni la Chiesa Valdese non riuscì più a conformarsi a quella solenne dichiarazione, perché si lasciò attrarre dalla ghiotta possibilità di avvalersi dei soldi dell'8 per mille. All'inizio ci fu contrasto interno fra i Valdesi, tanto che lo stesso Moderatore della Tavola Valdese di quel momento si rifiutò, per motivi personali, di sottoscrivere la clausola relativa all'8 mille e si fece sostituire nella firma. Ma il risucchio del Concordato ebbe comunqueil suo effetto e la prebenda istituita dallo Stato per i sottoscrittori di intese fu ricevuta con soddisfazione.
La possibilità di arrivare a concludere intese fu offerta nei primi anni anche ad altri evangelici, tra cui il movimento delle "chiese dei Fratelli". Si aperse allora anche in quelmovimento un intenso dibattito, che in certi momenti prese la forma di una netta contrapposizione: intesa sì o intesa no?
Nel 1986 fu deciso allora di preparare un convegno per discutere il tema, cosa che poi avvenne nel 1989, dopo diversi seminari e studi in sedi locali. Per il convegno furono indicati due relatori: uno a favore delle intese, uno contro.Alla fine, anche per altre ragioni, la richiesta di intesa con lo Stato non ci fu.
Nella convinzione cheal di là della particolare situazione storica di quel tempo, la questione di allora continua a presentarsi in altra forma in ogni generazione, riportiamo il testo della relazione contro l'intesa. Il tema in sostanza riguarda il rapporto fra Dio e Cesare, fra i credenti in Cristo e le Autorità civili. Non è un argomento di poco conto, perché il variare dell'atteggiamento delle Autorità, come sta avvenendo anche negli ultimi anni, pone a tutti domande nuove a cui il credente in Cristo è chiamato a rispondere sulla base di un fondamento antico: le Sacre Scritture. M.C.
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I motivi biblici, teologici e storici per cui non è bene fare intese con lo Stato
• PREMESSA Si può dire ancora qualcosa di nuovo sui rapporti tra chiesa e stato? I passi della Bibbia che ne parlano non sono forse sempre gli stessi? E le interpretazioni che ne sono state date nella storia della chiesa non sono ormai ben note? Non sarebbe più semplice limitarsi a dichiarare da che parte si sta, mettendosi all'ombra di qualche grande dottore della chiesa o di qualche corrente teologica ben assestata?
Effettivamente, non è facile dire cose originali su questo argomento; ma poiché in tutte le cose veramente importanti l'originalità non è affatto importante, anche in questo caso non si tratta di riuscire a sorprendere gli uditori con qualche idea brillante e nuova, ma semplicemente di cercare la verità. Non una verità astratta e teorica, ma, più concretamente, la vera, la giusta strada da percorrere oggi per rimanere nell'itinerario preparato da Dio per i suoi figli.
Questo itinerario dobbiamo percorrerlo noi, e non i nostri progenitori: è naturale quindi che siamo noi a interrogare la Bibbia e a verificare se le risposte trovate nel passato sono proprio autentiche e se, comunque, si adattano alla situazione di oggi. Se le risposte del passato si riveleranno ancora valide e percorribili, sarebbe da pazzi cercarne altre. Se invece non sarà così, lo stesso fatto di averlo capito ci darà indicazioni sufficienti per imboccare quella strada nuova che ci apparirà essere la strada giusta.
La costituzione italiana e la situazione politica del nostro paese ci spingono a considerare di nuovo i rapporti della chiesa con lo stato, a causa della ormai nota questione delle "intese". Siamo quindi costretti a cercare nella Bibbia, con passione, quello che Dio ha da dirci. Dobbiamo farlo con umiltà e fiducia.
Con umiltà, perché dobbiamo lasciare che la Bibbia resti parola di Dio, e quindi non parola nostra, e tanto meno parola nostra a cui abbiamo posto in calce la firma falsa di Dio.
Con fiducia, perché possiamo essere certi che quando apriamo la Bibbia per prendere insieme una decisione di fondamentale importanza, Dio non ci lascia privi della capacità di intendere chiaramente il giusto senso delle sue parole. Se veramente desideriamo fare la volontà del Signore, possiamo accogliere con fiducia l'invito di Giacomo: "Chi manca di saggezza, la chieda a Dio che dona a tutti generosamente senza rinfacciare, e gli sarà data" (Giacomo 1:5).
Nel tempo della scelta una sola è l'interpretazione giusta delle Scritture; tutte le altre sono sbagliate, anzi ingannevoli, perché sono altrettanti messaggi falsi con cui il Nemico tenta di mettere fuori strada il popolo di Dio.
Rispetto alla vastità del tema, una relazione come questa non può che essere stringata e incompleta, ma vuol essere almeno un tentativo di pensare biblicamente su un argomento che ci riguarda tutti, senza alcuna preoccupazione di apparire conservatore o progressista, di destra o di sinistra. E anche quando le cose vengono dette con forza e convinzione, il desiderio fondamentale è che i lettori facciano come i credenti di Berea, che "esaminavano ogni giorno le Scritture per vedere se le cose stavano così" (Atti 17:11).
• LE AUTORITÀ SONO DA DIO Quando il Nuovo Testamento prende in considerazione la società civile organizzata, ne parla quasi sempre in termini di "autorità". In questo articolo verrà usato spesso anche il termine "stato", senza attribuire ad esso particolari significati giuridico-filosofici, ma solo per intendere quel complesso di istituzioni civili che hanno autorità sul singolo cittadino.
La prima affermazione fondamentale che ci viene dalle Scritture è che le autorità sono da Dio. Questo non è mai stato un fatto ovvio e scontato, e non lo è neppure oggi. Anzi, se non ci fossero nella Bibbia affermazioni così chiare, forse molti di noi avrebbero già concluso che le autorità sono dal diavolo.
A rigor di logica la conclusione potrebbe anche essere corretta: se tutto il mondo "giace nel maligno" (1Giovanni 5:19) e Satana è "il principe di questo mondo" (Giovanni 14:30), sarebbe naturale dedurne che i potenti di questa terra sono soltanto dei semplici vassalli che esercitano il potere in nome del "principe".
Ma la Bibbia non dice questo, e noi dobbiamo prenderne atto con tutte le dovute conseguenze.
Se le autorità fossero dal diavolo, i credenti non solo non avrebbero obblighi di ubbidienza nei loro confronti, ma anzi, sarebbero loro ad avere autorità sulle "autorità", perché Gesù Cristo ha vinto il maligno e ha dato ai suoi discepoli il potere di cacciare i demoni (Marco 16:17) e "su tutta la potenza del nemico" (Luca 10:19).
Invece, proprio perché le autorità sono da Dio, i credenti non solo non hanno alcun potere su di loro, ma anzi devono esprimere la loro sottomissione al Signore anche nella doverosa sottomissione alle autorità umane che Dio ha stabilito.
E' notevole il fatto che la Bibbia parli di autorità solo per sottolineare i doveri dei credenti. Ai cristiani si chiede sottomissione, onore e preghiere. Alle autorità non si chiede nulla. E soprattutto, non si chiede nulla che riguardi la chiesa. Non si dice, per esempio, che le autorità debbano essere moralmente sottomesse alla chiesa; non si dice neppure che la debbano onorare standola rispettosamente a sentire tutte le volte che parla di problemi sociali.
La Bibbia presenta con pochi tratti i compiti assegnati da Dio alle autorità, ma non dice che cosa si deve fare quando queste non assolvono i loro compiti. Certamente non conferisce alla chiesa l'incarico di sorvegliarle e di rimproverarle quando si comportano male. Anche se le autorità un giorno dovranno rispondere delle loro opere, la loro fedeltà è un fatto che riguarda Dio e non la chiesa.
• TRA SPIRITUALISMO E CLERICALISMO Tra i diversi errori in cui è caduta la chiesa nei suoi rapporti con lo stato, se ne possono schematizzare due, di tipo contrapposto, che per semplicità denoteremo con i termini “spiritualismo" e "clericalismo".
Per spiritualismo si intende il modo di pensare di coloro che, volendo dare molta importanza alla nuova nascita, tendono a trascurare e svalutare tutto ciò che fa ancora parte della vecchia creazione. Quello che non può essere esplicitamente ricondotto all'opera rinnovatrice dello Spirito Santo nel cuore degli uomini, rischia di essere inglobato complessivamente nel concetto biblico di "carne", e quindi considerato come espressione di peccato.
Poiché è indubitabile che le autorità fanno parte della vecchia creazione, il primo impulso degli spiritualisti è quello di rifiutarle, anche perché non è certo difficile riconoscere in esse delle effettive manifestazioni di peccato.
E' chiaro però che, sia per motivi biblici sia per motivi pratici, le autorità non possono essere tanto facilmente ignorate. Si arriva così ad un atteggiamento di generica riluttanza: i rapporti con le autorità civili sono tendenzialmente pochi e quasi tutti strumentali; dei personaggi pubblici si parla poco, e quando se ne parla, se ne parla male.
L'atteggiamento spiritualistico è molto diffuso tra gli evangelici risvegliati, e bisogna dire chiaramente che esso è peccato. Con un atteggiamento di questo generenon si dà alle autorità quell'onore che la parola di Dio richiede, e che è loro dovuto per la funzione e il rango di "superiori" che hanno ricevuto da Dio nell'ambito della sua opera di conservazione del mondo, fino al compimento dell'opera di salvezza in Gesù Cristo.
Per clericalismo si intende invece l'errore opposto. Il ragionamento dei clericali è più o meno questo: le autorità sono da Dio, e poiché la maggiore esperta in fatto di cose di Dio è la chiesa, le autorità devono stare a sentire quello che dice la chiesa.
Anche questo è un atteggiamento di peccato: perché quando i cristiani ragionano in questo modo rifiutano di dare alle autorità quella sottomissione che la parola di Dio esplicitamente ordina.
Questo peccato assume la sua forma più evidente nella chiesa cattolica romana, che nei secoli passati ha realizzato concretamente il suo clericalismo riuscendo a conquistare, in una società cristianizzata, una superiorità giuridicamente riconosciuta nei confronti dello stato.
Oggi la chiesa cattolica, pur avendo rinunciato per motivi di forza maggiore ad esercitare un potere giuridico sulle nazioni, non ha tuttavia rinunciato a pretendere per sé un'autorità morale. L'attuale papa illustra in modo efficacissimo questa pretesa ecclesiastica, andando in giro per il mondo a dire a ciascuno il suo, come uno che avendo ricevuto da Dio una particolare sapienza e autorità, può legittimamente pretendere che re, presidenti e governanti di tutte le nazioni della terra stiano ad ascoltare con deferente rispetto le esortazioni, gli ammonimenti e i rimbrotti che lui, suprema autorità spirituale del mondo, si sente in dovere di fare.
Se questo tipo di clericalismo è intimamente connaturato con l'ecclesiologia cattolica, esso è presente anche nella tradizione riformata, sia pure in forme diverse. Anche per i riformati la chiesa può parlare ai re e trattare con i potenti della terra, in forza della sua autorità spirituale. Limitarsi a pretendere per la chiesa un'autorità soltanto morale sullo stato, era un fatto che una volta distingueva nettamente le chiese riformate dalla chiesa cattolica, che invece continuava a restare teologicamente attaccata ai suoi eserciti e ai suoi sbirri. Oggi invece questa differenza si è molto attenuata, perché anche la chiesa cattolica si limita a chiedere per sé il riconoscimento di un'autorità soltanto morale sulla società civile. Il clericalismo protestante trova quindi espressione in quel desiderio intenso di entrare in concorrenza con la chiesa cattolica in fatto di autorità morale sul mondo. Se la chiesa cattolica proclama al mondo certe cose, le chiese protestanti ne proclamano altre; se la chiesa cattolica fa parlare il papa dalla finestra di San Pietro, i protestanti fanno parlare qualche loro personaggio rappresentativo da uno dei loro convegni; se la chiesa cattolica chiede allo stato di riconoscere giuridicamente la sua alta funzione spirituale attraverso le clausole di un concordato, le chiese protestanti fanno vedere al mondo come una chiesa cristiana può accordarsi con le autorità civili per mezzo di intese, senza pretendere per sé privilegi e senza costituire un onere per lo stato; e così via.
E' un tipo di clericalismo che non fa parte della tradizione risvegliata, ma per il suo sapore di novità e per la sua veste dignitosa oggi potrebbe destare un certo interesse anche in questo ambiente.
Ma la pretesa della chiesa di avere autorità morale sullo stato non ha basi bibliche. Da nessuna parte nel Nuovo Testamento sta scritto che la chiesa ha un compito pedagogico nei confronti dello stato. Se la chiesa, in quanto tale, potesse legittimamente insegnare allo stato l'arte del governo, essa gli sarebbe "superiore", perché chi insegna è in una posizione di superiorità rispetto a chi viene istruito. La Scrittura afferma invece che nell'amministrazione delle cose pubbliche i superiori sono le autorità civili, non le autorità ecclesiastiche.
Si può essere certi allora che tutti i fervorini moralistico-paterni che il papa rivolge quasi ogni giorno ai popoli della terra, e tutti i documenti moralistico-politici che certi cristiani si ostinano a indirizzare ai responsabili della politica, non spostano il male che è nel mondo neppure di un millimetro.
Dio non è distratto, e non perde di vista il male che imperversa sulla terra. Ma Dio ha per il mondo il suo piano di salvezza e di giudizio, e in questo piano ognuno è chiamato ad occupare il suo posto. Nessuno può illudersi di contribuire alla causa della giustizia da una posizione che non è la sua, perché se uno dice una cosa vera da una posizione falsa, è la falsità che si diffonde, non la verità.
Nel programma di Dio per la sua chiesa è anche prevista, in casi estremi, la disubbidienza alle autorità civili; ma non è previsto l'atteggiamento di tutela e di giudizio nei loro confronti. Nel capitolo 13 della lettera ai Romani, Paolo presenta i magistrati come "ministri di Dio", adoperando i termini "diaconos" e "leiturgos", usati di solito per indicare coloro che servono il Signore nella chiesa. Se dunque anche i magistrati sono, volenti o nolenti, servitori di Dio, con quale diritto i credenti si azzardano a "giudicare i domestici altrui?" (Romani 14:4)?
• LA FUNZIONE DELLE AUTORITÀ Lo stato, con le sue leggi, i suoi tribunali e le sue carceri, è chiaramente un ordinamento provvisorio. Non era necessario prima della caduta e non sarà più necessario dopo la discesa della nuova Gerusalemme, quando Dio stesso porrà "il suo tabernacolo tra gli uomini" ed "Egli abiterà con loro, ed essi saranno suoi popoli, e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio" (Apocalisse 21:3). Ma oggi, nel tempo della sua pazienza, fino a che Egli è disposto ad esercitare il suo potere in forma nascosta e indiretta, Egli vuole che su questa terra abitata da giusti e ingiusti ci sia un'istituzione, formata da giusti e ingiusti, che abbia la necessaria autorità per mantenere in una certa misura l'ordine e la giustizia.
Le funzioni assegnate da Dio allo stato sembrano essere essenzialmente tre:
Ordinare la convivenza umana per mezzo di apposite leggi;
Porre un argine al male attraverso il meccanismo dello spavento preventivo e della punizione;
Tenere desto il ricordo del giudizio di Dio su tutti gli uomini.
Queste funzioni sono state delegate da Dio alle autorità civili; esse quindi ci rimandano a Lui, e la loro presenza serve a mantenere desto negli uomini il ricordo di Dio nella sua funzione di legislatore e giudice. I parlamenti sono lì a ricordarci che gli uomini non possono vivere senza leggi; i tribunali sono lì a ricordarci che esiste una giustizia e che sul suo metro saranno misurate tutte le azioni degli uomini; le carceri sono lì a ricordarci che il male non resterà impunito, ma ricadrà sulla testa di colui che lo compie.
Queste funzioni non possono e non devono essere svolte dalla chiesa: essa non ha autorità su queste cose. Non ha neppure ricevuto la promessa di una particolare sapienza in merito. Quindi c'è da insospettirsi quando si vedono dei cristiani che, senza ricoprire nessuna carica pubblica, parlano e agiscono come se avessero ricevuto doni di particolare acutezza in fatto di amministrazione della società civile. I cristiani devono sottomettersi alle autorità come tutti gli altri; anzi, devono essere molto più scrupolosi degli altri, perché sanno a Chi realmente essi si sottomettono, e quindi devono farlo "non soltanto a motivo della punizione, ma anche per motivo di coscienza" (Romani 13:5).
L'incarico che lo stato ha ricevuto da Dio serve dunque a conservare questo mondo e a ricordare agli uomini l'autorità di Dio. Nello svolgimento di questo compito, lo stato non può essere né sostituito né istruito dalla chiesa, perché l'opera dello stato riguarda tutti gli uomini, e la responsabilità che ne porta riguarda Dio. Per la chiesa non c'è nessun posto speciale. Lo stato anzi non ha neppure ricevuto da Dio la capacità di riconoscere la vera chiesa, semplicemente perché non era necessario.
• I LIMITI DELLE AUTORITÀ Ma oltre alla possibilità di un'indebita invasione della chiesa nel territorio dello stato, c'è anche la possibilità opposta: cioè che lo stato si assuma compiti che sono di specifica competenza della chiesa.
Il limite fondamentale dello stato è che a lui non è stato affidato alcun compito di salvezza, cioè non ha nessun vangelo da annunciare, nessuna speranza universale da proporre. Quando uno stato, un partito, un movimento politico si presentano come portatori di un nuovo messaggio di salvezza per l'umanità; quando additano agli uomini alti ideali e nobili mete; quando si propongono di curare alla radice i mali della società, e in vista di tali fini chiamano a raccolta tutti gli uomini di buona volontà, ivi compresi i cristiani, si può ragionevolmente pensare che dietro a tutto questo nobile fervore si nasconda lo spirito dell'anticristo, che prima o poi viene fuori nei lutti, nelle stragi e nelle barbarie che inevitabilmente accompagnano questi umani progetti di rinnovamento universale.
La nuova creazione, in cui trova posto la nuova società, ha avuto inizio con Gesù Cristo; e il corpo di Gesù Cristo su questa terra è la chiesa. Alla chiesa quindi, e non allo stato o a qualsiasi altra istituzione pubblica, compete l'incarico di annunciare e di vivere in prima persona l'unica, vera salvezza che Gesù ha portato nel mondo.
Ma la chiesa, che è il germe della nuova società, oggi deve esprimere la signorìa di Gesù partecipando al suo abbassamento e alla sua umiliazione. Quindi deve guardarsi bene dalla tentazione di parlare tanto di "gloria di Dio", solo per innalzare sé stessa. Il suo posto, oggi, è in basso.
• SIATE SOTTOMESSI L'ordine biblico della sottomissione alle autorità deve essere ristabilito in tutta la sua forza. Ben lungi dal favorire il disinteresse egoistico, questo insegnamento della Scrittura è un'esortazione alla partecipazione impegnata, serena e leale alla vita della società. Per esempio, non si può essere sottomessi senza conoscere quello che le leggi richiedono. Quindi, come prima cosa bisogna essere informati.
Essere sottomessi significa poi prendere in seria considerazione gli appelli diretti o indiretti che le istituzioni pubbliche rivolgono ai cittadini affinché collaborino al buon andamento delle attività di interesse sociale.
Essere sottomessi significa anche adoperarsi, con correttezza e lealtà, affinché nel proprio paese vengano abolite leggi inique e introdotte leggi eque, in modo che venga migliorata la qualità morale della convivenza umana.
Infine, essere sottomessi non significa essere servili, perché in qualche caso il buon cittadino è tenuto a denunciare alle autorità competenti le violazioni della legge di cui è testimone e che causano disordini e ingiustizie. Se necessario, il cristiano può e deve fare questo senza timori di svantaggi personali, perché lo fa "per motivi di coscienza", servendo il Signore da uomo libero.
Ma tutto questo i cristiani devono farlo come coscienziosi cittadini, insieme a tutti gli altri cittadini. La conoscenza delle Scritture e la guida dello Spirito Santo saranno per loro un aiuto fondamentale nelle scelte che dovranno fare; ma dovranno guardarsi bene dal pretendere che sia loro riconosciuto uno "status" particolare a causa della loro identità di cristiani.
• IN MANO DEI TRIBUNALI Le autorità sono da Dio, nel senso che è volontà di Dio che in ogni comunità sociale ci siano delle autorità pubbliche. Questo però non significa che l'operato delle autorità rifletta le intenzioni e la natura di Dio. I potenti della terra non portano l'aureola del divino; anzi, tutte le loro opere saranno un giorno giudicate dal Signore, ivi compresi gli abusi e le ingiustizie che avranno commesso nell'esercizio delle loro funzioni.
Tuttavia, anche dietro alle autorità particolarmente ingiuste (perché nei confronti di Dio sono sempre ingiuste) bisogna scorgere la volontà di Dio che permette che ciò accada. Paolo dice: "Le autorità che esistono sono stabilite da Dio": dunque non quelle ideali, ma proprio quelle con cui dobbiamo fare i conti tutti i giorni.
Non occorre certo una grande acutezza per accorgersi che le autorità, che pure hanno il compito di mantenere l'ordine ed esercitare la giustizia, spesso sono le prime a non osservare le leggi della società. Ma questo, Dio lo sapeva fin dall'inizio. Non è quindi il caso di indignarsi troppo e di compiacersi intimamente del proprio elevato senso di giustizia. Tanto meno è il caso di muovere velati rimproveri a Dio perché non fulmina subito il tiranno. Molto meglio è cercare di capire le vie del Signore, chiedendo a Lui la sapienza e la forza per camminare in esse.
Senza pretendere di sondare i misteri della volontà divina, che spesso restano chiusi alla nostra comprensione, si possono indicare almeno due motivi per cui Dio sopporta le autorità particolarmente ingiuste.
Per punire l'iniquità degli uomini e risvegliare la coscienza di alcuni di loro.
Dio permette talvolta che la malvagità esercitata nel privato, diffusa nella popolazione e tollerata da tutti, trovi un'espressione pubblica nella violenza oppressiva dei governanti. In casi come questi la chiesa non è chiamata a scindere frettolosamente le sue responsabilità e ad ergersi a maestra, rivolgendo solenni rimproveri a destra e a sinistra o, addirittura, caldeggiando "la morte del tiranno". Poiché conosce la santità di Dio e la malvagità degli uomini, la chiesa deve essere la prima a ravvedersi, a fare cordoglio, a chiedere perdono a Dio per i suoi peccati e per quelli degli altri. La chiesa è chiamata a santificarsi, a cambiare stile di vita e a cercare la fedeltà al Signore nelle difficili condizioni che Egli permette.
Per mettere alla prova la sua chiesa e darle la possibilità di testimoniare pubblicamente del Signore Gesù Cristo.
La chiesa deve aspettarsi la persecuzione proprio da quegli stati che si sentono chiamati a grandi compiti di salvezza universale. Gli stati che si fondano su ideologie totalizzanti prima o poi s'accorgono che molti cristiani non collaborano, o collaborano con scarso entusiasmo. Essendo dominati da uno spirito di anticristo, le autorità di queste nazioni vedono nella chiesa fedele un'antagonista, e non appena la situazione si fa critica comincia la persecuzione.
Naturalmente la persecuzione arriva perché i cristiani cominciano a disubbidire, a rifiutarsi di sottostare a certe disposizioni delle autorità. I cristiani arrivano quindi al punto in cui la loro coscienza è tesa tra l'ubbidienza a Dio e la sottomissione alle autorità, che pure sono volute da Dio.
Abituati come siamo a parlare con disinvoltura di disubbidienza civile, soprattutto oggi che non costa molto, forse non ci rendiamo conto di quanto sia tragico il momento in cui la chiesa deve opporsi, in nome di Dio, alle autorità che pure sono ordinate da Dio. La società umana vive il suo dramma più intenso quando le due autorità che Dio ha stabilito sulla terra, con compiti e funzioni diverse, arrivano a scontrarsi, o meglio, quando una delle due usa il potere conferitole da Dio per colpire l'altra, opponendosi così, con la violenza e l'ingiustizia, all'azione salvifica di Dio.
E' il momento in cui le autorità, da malvagie diventano demoniache, perché la caratteristica di ciò che è demoniaco sta proprio nell'opporsi a Dio con la forza che viene da Dio. E' il momento in cui si ripete il dramma di Gesù davanti a Pilato.
Pilato dice a Gesù: "Non sai che ho potestàdi liberarti e di crocifiggerti?" (Giovanni 19:10). Gesù non nega questa autorità, ma si limita a ricordare al governatore romano da Chi egli l'ha ricevuta. Gesù non si ribella a Pilato e lascia che eserciti la potestà di crocifiggerlo. Ma riserva a sé stesso l'autorità della parola e del silenzio.
Gesù ha l'autorità della parola. Davanti alle massime autorità di quel tempo, il sinedrio ebraico e il governatore romano, nella posizione di imputato, Gesù dà di sé stesso la testimonianza pubblica più chiara e inequivocabile: Egli proclama di essere il Figlio di Dio e il Re dei giudei. E proprio in questo momento, nella posizione di massima debolezza umana, Gesù esprime la sua vera autorità su Pilato. Gesù ha l'autorità di far giungere al governatore romano la parola di Dio, Egli è la parola di Dio per lui. Gesù è l'unico che comunica la verità a un potente della terra che non sa di essere irretito nella menzogna.
Gesù ha l'autorità del silenzio. Quando Pilato ordina a Gesù di dirgli da dove viene, Gesù tace. Pilato può pretendere l'ubbidienza dai suoi sudditi per tutto ciò che riguarda la convivenza umana, ma non ha l'autorità di pretendere da Gesù informazioni sul Padre celeste. Pilato non ha autorità in questo campo. E Gesù gli disubbidisce, tacendo.
In questo modo Gesù stabilisce il limite che le autorità terrene non possono valicare: la parola di Dio. I potenti della terra possono arrestare, imprigionare, uccidere, ma quando si tratta della parola di Dio essi non possono costringere i testimoni di Gesù Cristo né a parlare né a tacere. I re e i governatori, come tutti gli altri uomini peccatori, sono chiamati a sottomettersi alla parola di Dio, a riconoscerne l'autorità nel momento in cui arriva a loro e li chiama a ravvedimento e a salvezza, perché da quella parola saranno salvati o giudicati.
Se è vero che "il servitore non è da più del suo signore" (Giovanni 15:20), dall'esempio di Gesù davanti a Pilato bisogna dedurre che l'unico momento in cui la chiesa esercita un'autentica autorità sullo stato è quando i cristiani si trovano davanti ai tribunali, accusati per il nome di Gesù Cristo. Gesù l'aveva detto:
"... vi metteranno in mano dei tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete menati davanti a governatori e re per cagion mia, per servir di testimonianza dinanzi a loro e ai Gentili" (Matteo 10:1718).
In tempi normali il compito della chiesa è di ubbidire alle autorità, e non di parlare con loro. Ma in tempi di persecuzione i cristiani sono chiamati a dare la loro testimonianza ai governanti. E sarà una testimonianza autorevole, perché in quei momenti Gesù concede ai suoi discepoli l'autorità che Egli aveva davanti a Pilato. Essi dunque non hanno bisogno di preparare lunghi ed elaborati discorsi in difesa della fede, perché hanno la promessa di Gesù di una particolare assistenza da parte dello Spirito Santo (Matteo 10:19-20).
• DUE LINGUAGGI DIVERSI Un'ultima cosa emerge chiara dal colloquio di Gesù con Pilato: i loro linguaggi sono completamente diversi. Ma non perché le forme espressive e i significati usati dall'uno siano inusuali e oscuri per l'altro: non si tratta di modi diversi di esprimere le stesse cose, di problemi di traduzione che possano essere superati con un po' di buona volontà. Le realtà di cui parlano Gesù e Pilato sono del tutto diverse: quindi è inevitabile che non riescano a trovare un linguaggio comune in cui possano comunicare, per così dire, da pari a pari. Quello di cui parla Gesù è radicalmente nuovo e interamente sconosciuto a Pilato. Egli tenta di costringere Gesù a parlare il suo linguaggio, e non ci riesce; ascolta Gesù che parla nel suo linguaggio, e non lo capisce. Per capirlo, avrebbe dovuto ravvedersi.
Gesù capisce il linguaggio di Pilato e ubbidisce ai suoi ordini, fino a che è giusto farlo, fino a che nell'ubbidienza a Pilato riconosce la volontà di Dio. Al di là di questo, tace. Non tenta nemmeno di spiegare a Pilato le sue buone ragioni: semplicemente, lascia cadere la comunicazione e sceglie la via del silenzio. Dopo aver detto tutto quello che il Padre gli aveva ordinato di dire, Gesù tace e si lascia crocifiggere.
In realtà, non c'è stato nessun colloquio: Dio ha parlato, e l'uomo ha rifiutato di ascoltare.
Di conseguenza non esiste nemmeno un linguaggio comune alla chiesa e allo stato. Ciascuno dei due ha il suo proprio linguaggio, e i due linguaggi sono necessariamente diversi perché si riferiscono a realtà diverse, anche se collegate tra loro nel piano complessivo di Dio.
Dire che chiesa e stato hanno linguaggi diversi non significa che le due parti non possano comunicare fra loro: significa soltanto che per comunicare devono usare o l'uno o l'altro dei due linguaggi, e che non esiste un terzo linguaggio, ottenuto per miscela, che le due parti possano usare per trattare da pari a pari, come due stati sovrani. O si parla il linguaggio dello stato, o si parla il linguaggio della chiesa. Nel primo caso i cristiani, come tutti gli altri cittadini, devono sottomettersi alle autorità, sempre nei limiti dell'ubbidienza a Dio; nel secondo caso le autorità terrene, come tutti gli altri uomini peccatori, devono ravvedersi e credere all'evangelo. In tutti i casi c'è sempre una delle due parti che deve sottomettersi all'altra. Soltanto Dio resta sempre e in ogni caso l'unico sovrano a cui tutti gli uomini devono sottomettersi.
Chiesa e stato possono dunque comunicare fra loro, ma quello che non è legittimo è proprio l'accordo paritetico tra le due parti. Quando chiesa e stato s'incontrano a mezza strada, riconoscendosi a vicenda "pari dignità nella diversità delle funzioni", c'è da temere fortemente che l'unico a cui non sia riconosciuta la dovuta dignità sia proprio Dio. Le due parti s'accordano fra di loro per non doversi sottomettere l'una all'altra nella giusta sottomissione a Dio. E prendono gloria l'una dall'altra per non dover dare gloria soltanto a Dio. E' il caso in cui la parola "intesa" sostituisce la parola "sottomissione" e, qualche volta, la parola "persecuzione". E tutto fa credere che quando chiesa e stato arrivano ad intendersi, la loro intesa non possa che essere come quella di Abramo con il Faraone d'Egitto (Genesi 12:10-20), cioè un accordo fra uomini alle spalle di Dio.
• LA POSIZIONE PARTICOLARE DELL'ITALIA E' chiaroche in questa comprensione dei testi biblici gli accordi paritetici tra stato e chiesa, si chiamino essi "concordati" o "intese", non trovano posto. Nel caso particolare del nostro paese la situazione è poi aggravata dalla presenza di un'istituzione ecclesiastica che svolge un ruolo unico nella cristianità mondiale: la chiesa cattolica romana, con il suo papa che pretende di essere il vicario di Cristo e il suo stato del vaticano che pretende di essere il simbolo e l'anticipazione del governo di Dio sulla terra. La vicinanza di questa istituzione religiosa, dalle sembianze sempre più simili a quelli della donna vestita di porpora e di scarlatto dell'Apocalisse (cap.17), dovrebbe rendere i cristiani che vivono in Italia particolarmente attenti e vigili. E' proprio con questa organizzazione religiosa di peso mondiale che il nostro stato ha dovuto stringere un patto. Un patto che esprime la volontà dell'organizzazione cattolica di mantenere, nel nome di Gesù Cristo, un posto di dominio sulla società civile. Al di là di tutte le valutazioni etiche e politiche che si possono fare, per noi cristiani c'è soltanto una parola che esprime adeguatamente questa situazione: "peccato". Il concordato è peccato, ribellione contro Dio fatta in nome di Dio, presunzione di uomini che si richiamano al nome di Gesù Cristo per non sottomettersi alle autorità civili volute da Dio ed esercitare subdolamente il dominio su altri uomini, inducendoli così a bestemmiare il nome di Gesù Cristo.
Le intese sono una conseguenza di questo peccato. Sono un tentativo umano di porre rimedio a ciò che molti, anche tra gli uomini politici, hanno fin dall'inizio avvertito come un'ingiustizia. Ma una volta che il concordato si è rivelato inevitabile, le autorità politiche non hanno saputo andare al di là di un maldestro tentativo di giustizia perequativa concedendo anche ad altri enti religiosi la possibilità di stipulare accordi con il governo, sia pure in forme e a condizioni ben diverse.
All'origine di tutta la questione delle intese c'è quindi un peccato: il concordato. E adesso, dopo che il peccato è stato commesso e rinnovato, e dopo che i suoi deleteri influssi continuano a farsi sentire su tutta la popolazione, ci sono ancora dei cristiani evangelici che si chiedono se sia lecito o no trarre qualche vantaggio dalle conseguenze di questo peccato.
Pur con errori ed esagerazioni, le chiese dei Fratelli hanno sempre mantenuto vivo il sentimento dell'imminente venuta del Signore. Non è questo il momento di dimenticarsene e di abbassare la guardia. Consapevoli di essere negli ultimi tempi, è nostro dovere rimanere vigili e attenti anche quando, come in questo caso, la tentazione non ci arriva in forma di persecuzione da parte del mondo religioso, ma in forma di seduzione da parte del mondo laico. Una seduzione che potrebbe essere una trappola dell'Avversario per allentare le difese del popolo di Dio e renderlo più vulnerabile per altre tentazioni ben più gravi e rovinose.
Gesù però l'aveva detto: "Guardate che nessuno vi seduca" (Matteo 24:4).
I danni e le vittime del drone che ha colpito al cuore Tel Aviv. Come è riuscito ad arrivare sin lì? Ed è solo uno degli attacchi di prova, condotti dai nemici di Israele, satelliti dell'Iran.
Alle tre di notte di venerdì, un drone è riuscito ad attraversare il cielo di Tel Aviv, sorvolare il mare, entrare in città dalla costa e colpire un edificio che si trova in una zona con alberghi, bar, ristoranti, a pochi passi dalla sede locale dell’ambasciata americana, e uccidere un civile. Poche ore dopo l’attacco gli houthi, il gruppo yemenita armato e pagato dall’Iran, ha dichiarato di aver eseguito l’attacco con una nuova arma, un drone Yaffa, concepito appositamente per colpire Tel Aviv per superare le difese israeliane e non essere intercettato dai radar: Yaffa è il nome della città in arabo.
Il drone è entrato indisturbato e due persone che si trovavano sulla spiaggia di Tel Aviv hanno avuto il tempo di accorgersene, filmarlo, seguirlo fino allo schianto. L’esercito israeliano ha parlato di un errore umano: la sirena che avvisa i cittadini di mettersi nei rifugi non è partita perché i sistemi di difesa sono rimasti immobili di fronte al passaggio del drone che proveniva dallo Yemen. Gli houthi hanno fatto un annuncio trionfante, hanno detto che il loro Yaffa è stato pensato per volare a lungo e a bassa quota.
In questi mesi i nemici di Israele stanno portando avanti attacchi di prova per testare le difese dello stato ebraico con nuove armi. Non fa eccezione il drone che ha ucciso un uomo a Tel Aviv, un Samad di fabbricazione iraniana modificato per l’attacco. La guerra dei droni dell’Iran e delle sue milizie contro Israele è metodica, da quando Hamas ha attaccato Israele il 7 ottobre, il gruppo libanese Hezbollah ha attaccato Israele con circa mille droni. Anche le milizie irachene, sempre sostenute dall’Iran, hanno rivendicato diversi attacchi con droni contro Israele. Gli houthi conducono una guerra contro l’occidente nel Mar Rosso, colpendo le navi che passano per il trasporto commerciale, e finora hanno lanciato tredici droni contro Israele. Tutte queste armi usate per colpire lo stato ebraico sono finanziate da Teheran, che il 14 aprile per il suo attacco combinato contro il territorio israeliano ha usato anche duecento droni oltre a missili balistici e da crociera.
La minaccia di Hamas si è affievolita, il gruppo della Striscia è quasi disarmato e sempre più sotto pressione, tanto che i negoziati per la liberazione degli ostaggi rapiti il 7 ottobre e il cessate il fuoco stanno motivando una speranza mai sentita prima, ma tutti gli altri fronti che circondano Israele stanno facendo prove per una guerra con armi migliorate, che prima o poi potrebbero essere utilizzate per un attacco coordinato, più grande e da vari lati.
Il mondo ebraico prima dell’Olocausto, mostra a Trani
Opere di tre artisti sopravvissuti ai campi di sterminio
di Fabrizio Ricciardi
Il mondo degli ebrei dell’Europa dell’Est prima dell’Olocausto: i villaggi, le cerimonie, le feste e lo stile di vita di una cultura che stava per conoscere uno degli orrori più grandi della storia dell’umanità. È questo il filo conduttore della mostra dal titolo “La notte dipingevo quadri rossi”, ospitata a partire dallo scorso 18 luglio nell’ex Sinagoga Scola Grande di Trani.
In esposizione 23 tele di tre artisti yiddish provenienti dalla collezione del poeta e scrittore Roberto Malini, che comprende oltre 200 opere di ebrei vittime della Shoah o sopravvissuti ai campi di sterminio.
Un’iniziativa promossa da Fondazione S.E.C.A. e Polo Museale di Trani.
Le opere sono state donate alla Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria che, grazie al grande lavoro compiuto negli ultimi 35 anni da Francesco Lotoro nella salvaguardia della musica scritta nei campi di prigionia, ha dato vita ad un archivio e ad una biblioteca che saranno ospitati, come la stessa collezione, presso la Cittadella di Barletta, negli spazi della ex distilleria.
La sentenza con la quale venerdì, la Corte Internazionale dell’Aja, ha deliberato che Israele occupa abusivamente i territori della Cisgiordania, violando di fatto il diritto internazionale, non rappresenta altro che un ulteriore capitolo della lawfare, l’offensiva giuridica contro lo Stato ebraico, che iniziò a prendere corpo a partire dal 1967, ovvero subito dopo l’esito della Guerra dei sei giorni, quando, contrariamente alle previsioni, Israele vinse la guerra scatenata dagli eserciti arabi guidati da Nasser, che avevano come obiettivo dichiarato la sua distruzione.
A guerra terminata, Israele aveva conquistato Gaza, la Cisgiordania, Gerusalemme Est, e parte della penisola del Sinai. Sia Gaza che la Cisgiordania erano state destinate alla abitabilità ebraica dal Mandato Britannico per la Palestina del 1922. Questi territori, a seguito della guerra araba di aggressione del 1948, furono rispettivamente occupati da Egitto e Giordania che li detennero illegalmente fino al 1967, anno, appunto, della seconda guerra di aggressione araba ai danni di Israele.
Nel 1951, la Giordania fece un passo ulteriore, annettendosi la Cisgiordania, avendo provveduto nel frattempo a cacciare da essa tutta la popolazione ebraica.
Successivamente, l’ONU produsse la Risoluzione 242, con la quale si stabiliva che Israele doveva ritirarsi da una parte dei territori conquistati, contestualmente al suo riconoscimento da parte degli Stati aggressori, Egitto, Giordania e Siria e degli specifici accordi di pace che avrebbero sancito i confini.
La Risoluzione 242 venne riconfermata in toto dal Consiglio di Sicurezza con la Risoluzione 338 del 1973. Non veniva fatto alcun utilizzo della designazione “territori palestinesi occupati”. Solo dal 1995 con gli Accordi di Oslo, le rivendicazioni palestinesi iniziarono ad avere una loro legittimità come conseguenza dell’accettazione da parte di Israele dell’OLP nella veste di interlocutore. Con il venire in essere degli Accordi di Oslo i territori vennero disciplinati amministrativamente e suddivisi in tre aree distinte, l’Area A, l’Area B e l’Area C.
Alla luce del diritto internazionale e successivamente alla stipula dei trattati di pace tra Israele, Egitto e Giordania e con quella degli Accordi di Oslo, la definizione “territori occupati” o “territori palestinesi occupati”, perde completamente di legittimità. I territori, infatti, non possono dirsi “palestinesi” in quanto manca ad essi qualsivoglia base giuridica per rivendicarne la detenzione sovrana, così come, con la ripartizione del territorio stabilita dagli Accordi di Oslo, la presenza militare e civile israeliana è strutturalmente concentrata nell’Area C, dove, sempre nel rispetto del dispositivo degli accordi, Israele ha diritto a permanervi e a consentirne lo sviluppo abitativo senza che esso violi alcuna norma contenuta nei medesimi.
La sentenza della Corte Internazionale, ha una valenza squisitamente politica, e va inquadrata nell’ambito dell’incessante operazione di delegittimazione dello Stato ebraico che prosegue senza sosta da quasi sessanta anni.
Due chiacchiere con Israel Katz, Ministro degli esteri di Israele
di Elliot Kaufman
Qualcosa è cambiato a Gaza. Dopo aver rifiutato per mesi le proposte israeliane di cessate il fuoco e aver chiesto ulteriori concessioni, Hamas ha iniziato a offrire le proprie concessioni. Israele è più vicino che mai alla liberazione di molti degli ostaggi rimasti e ha acquisito la capacità di chiedere condizioni che proteggano i vantaggi strategici della guerra.
Se si crede al ritmo dei media – che lo sforzo bellico di Israele è inutile, la sua strategia assente e il suo isolamento politico crescente – è impossibile spiegare questa svolta. Perché, dopo mesi di sprezzante temporeggiamento, Hamas ha iniziato a piegarsi?
“Per due motivi”, dice Israel Katz, ministro degli Esteri israeliano. “Uno: ora capiscono che non ci sarà un cessate il fuoco senza un accordo sugli ostaggi. Secondo, l’IDF sta agendo in modo aggressivo contro i terroristi di Gaza. Particolarmente importante è stato l’ingresso a Rafah”, la roccaforte di Hamas all’estremità meridionale della Striscia.
Israele ha tagliato le vie di rifornimento di Hamas e ora tiene Hamas “per la gola”, come ha detto recentemente il Primo Ministro Benjamin Netanyahu. I terroristi di alto livello cadono a un ritmo più rapido, mentre l’intelligence israeliana ottiene successi a ripetizione; metà della leadership militare di Hamas è stata eliminata. Anche dopo un grande bombardamento israeliano per uccidere il capo militare di Hamas, Mohammed Deif, che è considerato improbabile che sia sopravvissuto, Hamas ha a malapena attaccato in risposta e si è affrettato a chiarire che non sta abbandonando i negoziati. “Hamas è ora molto più sotto pressione”, afferma Katz. “È questo che ha fatto la differenza”.
L’intelligence israeliana lo conferma. “Vediamo ora i segni di una forte pressione da parte del braccio militare di Hamas. Spingono i leader negli hotel all’esterno – i politici di Hamas, che vivono nel lusso in Qatar – a raggiungere un accordo. Prima non era così”, dice Katz. Il leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, “non voleva un accordo prima. Nemmeno quando gli abbiamo offerto tutto”.
Non dovrebbe essere una sorpresa che la pressione su Hamas possa portare a dei vantaggi nei negoziati. Eppure, per mesi le potenze occidentali hanno adottato l’approccio opposto, facendo pressione su Israele affinché ponesse fine alla guerra e lasciasse Hamas vittorioso. Hanno chiesto un “cessate il fuoco immediato”, sempre più slegato da un accordo sugli ostaggi. I gruppi umanitari hanno denunciato Israele e taciuto su Hamas. La Corte internazionale di giustizia e la Corte penale internazionale hanno minacciato Israele con procedimenti e tribunali fasulli.
“Il motivo principale per cui questo assassino, Sinwar, non ha fatto l’accordo sugli ostaggi è che si aspettava che il mondo fermasse Israele”, dice Katz. “Si aspettava che la Corte internazionale di giustizia, la Corte penale internazionale, il Consiglio di sicurezza, forse un conflitto tra le Nazioni Unite, Israele e l’Unione europea, sicuramente uno di questi avrebbe costretto Israele a capitolare”. Il tempo era dalla parte di Hamas, indipendentemente dal numero di ostaggi trattenuti o uccisi.
Katz ha ricevuto molte lezioni dai funzionari occidentali. “Mi sono seduto con i ministri degli Esteri e mi hanno detto: Non andare a Rafah, non andare a Rafah. Sarà un casino. E io ho detto loro: Cosa state dicendo? Credete che possiamo lasciare Hamas a Rafah e che cinque minuti dopo il nostro ritiro, prenderanno tutta Gaza?”.
L’operazione di Rafah è stata ritardata di mesi, durante i quali Hamas sembrava essere meno sotto pressione che mai. La Casa Bianca ha trattenuto le armi da Israele. Gli avvertimenti di un disastro umanitario si sono riversati da tutte le parti. Il 6 maggio, Israele invase comunque Rafah.
“E avevamo ragione”, dice Katz. “Ora lo sanno tutti, anche gli Stati Uniti, perché tutti avevano avvertito che sarebbe stata una catastrofe. È una guerra, sì. Non è una passeggiata. Ma avevano detto che ci sarebbero voluti quattro mesi per evacuare la popolazione. Ci sono voluti solo giorni”. Più di un milione di gazesi ha rapidamente evacuato Rafah verso le zone sicure designate.
Nessun critico ha ritrattato, ma la pressione su Israele è diminuita silenziosamente. Come se fosse imbarazzato, il mondo ha improvvisamente preso atto che Hamas è l’ostacolo a un accordo sugli ostaggi. La Casa Bianca ha sottolineato il punto, soprattutto dopo aver diffuso il 31 maggio un’offerta israeliana che Hamas ha poi rifiutato. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha ratificato quell’offerta. Persino l’Autorità Palestinese, che ha esaltato il massacro del 7 ottobre, ora incolpa Hamas per la continuazione dei combattimenti. Hamas, l’escluso, ha dovuto ammettere che non c’è alcun cessate il fuoco all’orizzonte a meno che non rilasci gli ostaggi.
Katz sa che un accordo non è ancora garantito. “Si tratta di Hamas, dopo tutto”, dice. “Ci sarà un accordo solo se Sinwar capirà che non ha altra scelta”. Questo significa che non c’è pace per i malvagi. “Le persone che si occupano dei negoziati ci stanno dicendo ora: ‘Non fermatevi, continuate’” – spingono Hamas ancora di più. Il confronto con la realtà del nazionalismo palestinese ha cambiato Israele. “La gente dei kibbutzim del sud – molti erano socialisti e credevano in tutte le idee”, dice Katz. Ora ci dicono: “Siamo contro uno Stato palestinese”. Il 7 ottobre hanno visto a quali scopi sarebbe stato destinato uno Stato del genere”.
I ministri degli Esteri occidentali dovrebbero saperlo bene. “Vi sedete lì, tra i fiordi della Norvegia, e decidete che ci sarà uno Stato palestinese?”. dice il signor Katz. “Non succederà. Noi vogliamo la pace più di voi”. Gli israeliani si oppongono al suicidio. “Nessuno può costringere Israele a farlo, nemmeno il saggio vice primo ministro spagnolo”, dice, riferendosi a Yolanda Diaz, che usa lo slogan di protesta per la distruzione di Israele: “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”. Katz afferma: “Ho detto loro che i giorni dell’Inquisizione sono passati”.
Il 7 ottobre ha cambiato il modo in cui il mondo vede il conflitto? “Non abbastanza”, risponde Katz. “Dimenticano. Ma una cosa che non possono dimenticare sono gli ostaggi”, dice. “Non permettiamo loro di dimenticare”. Spesso porta le famiglie degli ostaggi nei viaggi all’estero e negli incontri con le sue controparti.
Gli statisti occidentali devono affrontare pressioni interne se appoggiano Israele contro i macellai. Alcuni europei temono le loro grandi popolazioni musulmane, dice Katz. Altri si preoccupano dei social media. “Quindi, sarà difficile”, dice loro, ‘ma voi siete dei leader’.
Katz è grato per il sostegno americano e non ha interesse a criticare l’amministrazione Biden. Sull’Iran, pensa che gli Stati Uniti si stiano muovendo nella giusta direzione. Riguardo alle armi ritardate, dice: “Penso che ora sia tutto a posto, ed è molto positivo che i nostri nemici sappiano che è tutto a posto”.
Per quanto riguarda la CPI, [Corte Penale Internazionale] punta il dito contro il procuratore. Karim Ahmad Khan aveva assicurato al Segretario di Stato Antony Blinken e all’allora Ministro degli Esteri britannico David Cameron che prima di prendere una decisione avrebbe dato a Israele la possibilità di fornire prove. “Perché molti Paesi sono arrabbiati con lui? Perché ha mentito loro”, dice Katz. Khan ha cancellato gli incontri con Israele con poco preavviso e si è presentato alla CNN per annunciare che avrebbe chiesto un mandato di arresto per i leader israeliani.
Katz è reduce dai colloqui con gli statisti occidentali alla conferenza dell’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico a Washington. “Sono andato a dire loro tre parole”, dice: ‘Iran, Iran, Iran’.
Se volete un’anteprima del discorso che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu terrà mercoledì al Congresso, iniziate da qui.
Il mondo può considerare Hamas come un problema degli ebrei, ma gli uomini che comandano a Teheran non sono così facilmente liquidabili. “L’Iran vende l’80% del suo petrolio alla Cina”, dice Katz. “Ora vendono ogni giorno circa 2 milioni di barili. Prima erano solo 300.000”, quando gli Stati Uniti hanno imposto le loro sanzioni petrolifere. La Cina ottiene il petrolio con uno sconto sostanziale.
“Capite bene qual è la competizione nel mondo tra Stati Uniti e Cina”, dice Katz. Ha esposto questo caso al Segretario del Tesoro Janet Yellen, che si è dimostrata ricettiva. “Anche questa amministrazione ha interesse, a causa del conflitto globale, ad essere aggressiva contro l’Iran”, afferma Katz. Ma ha anche un’opportunità. “Ora, poiché l’Iran sostiene la Russia e gli europei hanno paura della Russia – non solo contro, ma anche per paura – gli europei sono disposti a partecipare”.
In questi giorni, l’Europa a volte porta con sé l’America. A maggio, all’Agenzia internazionale per l’energia atomica, gli Stati Uniti non volevano fare scalpore censurando il programma nucleare di Teheran. Alla fine, però, l’hanno fatto perché Francia, Germania e Regno Unito, con l’aiuto di Israele, hanno spinto comunque per la censura.
Katz vede la Repubblica islamica vulnerabile. “L’Iran è come un uovo: duro all’esterno ma morbido all’interno. Dall’interno, la maggior parte della popolazione iraniana è contraria al regime”, afferma. “L’economia è debole, ancora debole. E dopo l’incidente dell’elicottero, in cui sono morti il presidente e il ministro degli Esteri dell’Iran, forse l’esercito iraniano non è così moderno. Quindi, imporre sanzioni efficaci contro l’Iran può cambiare le carte in tavola. Perché non ci sono organizzazioni terroristiche per procura senza l’Iran”.
Vale la pena ricordarlo mentre Israele affronta Hezbollah, l’esercito di Teheran in Libano. Ha iniziato a sparare su Israele l’8 ottobre e da allora ha avuto una lenta escalation, trasformando il nord di Israele in una no-go zone per nove mesi.
Katz avverte che la “guerra totale” è molto vicina. “Noi non la vogliamo e forse loro non la vogliono. Ma non può rimanere così”, dice. “Vi dico: fate pressione sull’Iran. Se volete evitare la guerra, il modo per evitarla è fare pressione sull’Iran e spiegare all’Iran quale sarà il costo”.
Contrariamente a quanto si pensa in Occidente, “un cessate il fuoco a Gaza e un accordo sugli ostaggi non impediranno una guerra con Hezbollah sul fronte settentrionale”, afferma. “Israele non accetterà più il silenzio per il silenzio”. La tranquillità non basterà a 70.000 israeliani evacuati per tornare alle loro case nel nord di Israele. Hanno bisogno di una vera sicurezza, che richiede che Hezbollah lasci il suo arroccamento nel sud del Libano, smilitarizzando la zona cuscinetto come richiesto dalle Nazioni Unite nel 2006.
Si può convincere Hezbollah a ritirare le sue forze? “Ne dubito”, dice Katz. “La mia opinione personale è che ciò avverrà o attraverso una risposta militare israeliana o se l’Iran ordinerà a Hezbollah di ritirarsi”.
Alla fine, dice Katz, il segretario generale di Hezbollah Hassan Nasrallah “non capisce Israele. Ha un’immagine di debolezza”, ma si sbaglia. “Non vogliamo la guerra, perché non vogliamo nulla in Libano. Ma se ci sarà una guerra, non sarà come a Gaza”, dove la presenza di ostaggi limita l’uso della forza da parte di Israele. “Circa l’80% della nostra forza aerea non viene utilizzata in questo momento”, afferma. Se l’Iran non tira fuori Hezbollah dall’orlo del baratro, lo farà.
Il signor Katz parla a nome di molti israeliani quando dice: “Non chiediamo a nessuno di combattere al posto dei nostri soldati. Per noi è un principio”. Ma Israele non può stare da solo: “Abbiamo bisogno del sostegno americano e di far sapere ai nostri nemici che l’America ci sostiene”.
“Questa non è una guerra normale. L’Iran e Hezbollah, Hamas, gli Houthi e le milizie sciite vogliono eliminare Israele. Distruggere Israele. Non è un gioco. Non abbiamo un’altra patria, ok?”. Al termine del nostro incontro, sospira e affronta la questione da un altro punto di vista: “Non è come l’Olocausto. Sono figlio di sopravvissuti all’Olocausto, che riposino in pace. Ho sentito le storie da mia madre e so tutto. Non è l’Olocausto, ma l’intento è lo stesso. Se avessero il potere di fare la stessa cosa, la farebbero”.
Biden sanziona gli israeliani e consegna miliardi all’Iran
La politica di Biden ha dell'incredibile. Emette sanzioni contro Elor Azaria, un ex soldato che nel 2016 ha sparato e ucciso un terrorista quando era a terra, fatto per cui è stato condannato in Israele e ha scontato la pena, mentre nel contempo consente all'Iran di accedere ad altri miliardi di dollari.
di Gabor H. Friedman
La politica estera degli Stati Uniti ha il pilota automatico? Mercoledì abbiamo appreso che l’Amministrazione Biden sta imponendo sanzioni a un altro israeliano, mentre riemette una deroga alle sanzioni che consente all’Iran di accedere a più di 10 miliardi di dollari di fondi congelati. Le sue priorità riflettono una politica che da tempo è stata superata dagli eventi. Ci ricordiamo dei 10 miliardi di dollari in pagamenti energetici iracheni quando il Presidente Biden li ha sbloccati per l’uso da parte dell’Iran nel luglio 2023, e di nuovo quando ha esteso la deroga alle sanzioni lo scorso novembre e marzo. Come di consueto, l’Amministrazione ha affermato in modo fuorviante che l’Iran può utilizzare il denaro solo per beni “umanitari”, come se i miliardi qui non liberassero miliardi altrove per il principale sponsor del terrorismo al mondo.
A cosa porta gli Stati Uniti questo appeasement? Una volta i funzionari di Biden hanno sussurrato che stavano ottenendo una pausa nell’attività nucleare dell’Iran. Abbiamo ottenuto il contrario. L’Iran ha aumentato le sue scorte di uranio altamente arricchito e ha messo alle strette gli ispettori. Mercoledì Axios ha riferito che l’amministrazione Biden ha inviato una lettera in cui “esprime serie preoccupazioni” sul fatto che l’Iran stia iniziando a lavorare alla costruzione di armi. Davvero? Serie preoccupazioni?
Questa è l’idea della squadra di Biden di essere dura: Inviare una lettera con parole forti, ma non tagliare i miliardi di dollari.
Un’altra speranza era che il denaro avrebbe comprato la calma regionale. Abbiamo ottenuto il contrario. Hamas – finanziato, armato, addestrato e comandato dall’Iran – ha iniziato una guerra uccidendo 1.200 israeliani. Altri proxy dell’Iran hanno attaccato le forze statunitensi. Il 13 aprile l’Iran ha sparato circa 120 missili balistici contro Israele. Biden ha detto a Israele di non rispondere.
Il fuoco continuo di Hezbollah su Israele rischia ora di scatenare una guerra più grande. L’Iran deve sentire la pressione di ritirare il suo proxy, ma perché preoccuparsi quando Biden continua a far divertire Teheran e rimprovera Israele?
L’ultimo israeliano ad essere sanzionato dagli Stati Uniti è Elor Azaria, un ex soldato che nel 2016 ha sparato e ucciso un terrorista che era già stato neutralizzato dopo aver accoltellato un altro soldato. Azaria è stato processato e condannato in Israele e ha scontato la sua pena. Questo accadeva sei anni fa. Gli Stati Uniti ora ripropongono la questione del divieto di visto per Azaria e la sua famiglia.
La mossa è stata fortemente criticata in Israele, anche dal leader dell’opposizione Benny Gantz. Perché Biden sta creando un regime di sanzioni contro gli israeliani, come se non fossero cittadini di un alleato e di una democrazia la cui sovranità e il cui sistema giudiziario esigono rispetto?
La politica mediorientale di Biden sembra paralizzata, anche se il massacro del 7 ottobre e le sue conseguenze hanno cambiato tutto. Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale, ha scritto un articolo su una rivista che è andato in stampa poco prima del 7 ottobre. “La regione è più tranquilla di quanto lo sia stata per decenni”, ha scritto. Sull’Iran, si vantava: “Abbiamo rafforzato la deterrenza, combinata con la diplomazia, per scoraggiare ulteriori aggressioni”.
Invece abbiamo avuto una guerra sostenuta dall’Iran e assalti alle forze americane e alle navi commerciali. Cosa ci vorrà perché Biden e i suoi consiglieri riconoscano il loro fallimento e cambino rotta?
Ben-Gvir visita il Monte del Tempio e prega per la restituzione degli ostaggi
Il ministro della Sicurezza nazionale ha ribadito il suo rifiuto di un accordo che escluda la distruzione di Hamas a Gaza.
Il ministro della Sicurezza nazionale israeliano Itamar Ben-Gvir sul Monte del Tempio a Gerusalemme il 18 luglio 2024
Il ministro israeliano della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, ha visitato giovedì il Monte del Tempio di Gerusalemme per pregare per la restituzione degli ostaggi detenuti da Hamas a Gaza.
"Sono andato sul Monte del Tempio questa mattina per pregare per il ritorno dei rapiti - ma senza un accordo qualsiasi, bensì aumentando la pressione militare su Hamas e schiacciandolo ulteriormente", ha dichiarato il leader del partito Otzma Yehudit in una dichiarazione video rilasciata su X dopo la visita.
Secondo un rapporto di Channel 13 di mercoledì, Ben-Gvir ha suggerito ai ministri del gabinetto di sicurezza di ritardare un accordo di cessate il fuoco che includa il rilascio dei prigionieri fino a dopo le elezioni presidenziali statunitensi di novembre, per non dare al presidente Joe Biden un vantaggio politico sullo sfidante repubblicano Donald Trump.
Ben-Gvir avrebbe dichiarato che un accordo in questa fase "sarebbe una sconfitta per Trump e una vittoria per Biden".
Molti ministri hanno attaccato Ben-Gvir per le sue affermazioni, tra cui alcuni del partito di governo Likud del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
"Dobbiamo fare una campagna per il loro rilascio immediato. I rapiti sono lì da nove mesi. Durante questo periodo, le donne possono partorire", ha dichiarato il ministro della Scienza Gila Gamliel.
Ben-Gvir e il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich hanno minacciato di far cadere il governo se verrà firmato un accordo per porre fine ai combattimenti nella Striscia di Gaza senza prima distruggere Hamas.
Ben-Gvir è un assiduo visitatore del luogo più sacro dell'ebraismo e l'ultima volta ha visitato il Monte del Tempio a maggio.
Dal luogo più sacro del popolo di Israele, che appartiene solo allo Stato di Israele, dico: questa sera riceveremo un'ulteriore testimonianza del perché Hamas deve essere completamente distrutto". I Paesi che hanno riconosciuto uno Stato palestinese oggi stanno premiando i terroristi", ha dichiarato in un video dalla cima del monte.
"E io dico che non permetteremo nemmeno la proclamazione di uno Stato palestinese. E dico un'altra cosa: per distruggere Hamas, dobbiamo andare a Rafah fino in fondo e fare un accordo radicale. Per riportare indietro i nostri ostaggi, dobbiamo fermare [le forniture di carburante a Gaza] e renderci conto che l'umanità vale solo per l'umanità. E controllare questo luogo, il più importante".
Il Monte del Tempio è il sito del Primo e del Secondo Tempio, distrutti rispettivamente dall'impero neobabilonese e da quello romano.
Israele ha liberato il Monte durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967, dopo di che ha ceduto l'amministrazione alla Fondazione islamica Waqf sotto la tutela giordana hashemita, mantenendo però il controllo di sicurezza israeliano. (JNS)
(Israel Heute, 19 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Nelle prime ore del mattino una persona è morta e altre sono rimaste ferite in seguito a un’esplosione di un drone su Tel Aviv. L’attacco è stato rivendicato ufficialmente dagli Houthi dello Yemen. Il portavoce militare dei ribelli yemeniti, scrive il Times of Israel, ha affermato che il gruppo ha attaccato Tel Aviv con un drone e continuerà a colpire Israele in segno di solidarietà con i palestinesi nella guerra di Gaza. Il forte boato, che è stato sentito in tutto il centro di Tel Aviv, è avvenuto non distante dall’Ambasciata americana, che non ha subito danni.
“L’IAF ha aumentato le sue pattuglie aeree per proteggere lo spazio aereo israeliano. Non ci sono cambiamenti nelle linee guida difensive dell’Home Front Command”
La polizia sta indagando sulla morte di un uomo di cinquant’anni, il cui corpo è stato trovato con ferite da schegge in un edificio vicino. Le squadre di emergenza hanno segnalato almeno quattro persone con ferite lievi da schegge e diverse altre in stato di shock. Sette persone sono state trasportate negli ospedali vicini per le cure.
“Quando i nostri team sono arrivati, hanno visto un uomo di 37 anni e una donna di 25 anni con ferite da schegge alle estremità e alle spalle. Stiamo anche curando persone sotto shock”, ha affermato Magen David Adom. I residenti hanno inoltre riferito che l’esplosione ha causato danni significativi alle loro case.
Parashà di Balàk: La Torà vale più della ricchezza
di Donato Grosser
Balàk, re di Moàv, vedendo la moltitudine di israeliti ai confine del suo regno e sapendo che con la forza delle armi non avrebbe potuto combattere contro di loro, mandò un’ambasciata a Bil’am affinché venisse a maledire il popolo d’Israele. In questo modo egli sperava di eliminare la minaccia. Balàk mandò a dire a Bil’am che se fosse venuto a maledire il popolo d’Israele egli l’avrebbe onorato in maniera smisurata.
I maestri nel Midràsh Rabbà (Bemidbàr, 20:10) spiegano che Balàk intendeva dire che avrebbe pagato Bil’am molto di più di quello che era abituato a ricevere in passato. Bil’am rispose agli ambasciatori di Balàk:”Anche se Balàk mi desse la sua casa piena d’argento e d’oro, non potrei violare la direttiva del Signore mio Dio, per compiere una cosa piccola o grande” (Bemidbàr, 22:18). Nel midràsh i maestri commentano:”Da qui apprendi che c’erano tre caratteristiche in lui: un occhio malvagio, uno spirito altezzoso e un’anima avida. Un’anima avida, come è detto: “Se Balàk mi desse la sua casa piena d’argento e d’oro…”. R. Yosef Slalom Elyashiv (Lituania, 1910-2012, Gerusalemme) in Divrè Aggadà (p. 302) fa notare che nei Pirkè Avòt (Massime dei padri, 6:9) viene usato un linguaggio simile: “Disse rabbi Yosè figlio di Kisma (un maestro della Mishnà contemporaneo di r. Akivà): Una volta stavo camminando in viaggio e mi venne incontro un uomo; mi salutò e io risposi al suo saluto; poi mi disse: Maestro, di dove sei? Gli risposi: sono di una grande città di maestri e di scrittori. Mi disse allora: Saresti disposto, o Maestro, a venire a stare con noi nei nostri luoghi? Ti darei migliaia di monete d’oro e d’argento. Gli risposi: Se anche tu mi dessi tutto l’argento e l’oro che c’è nel mondo, io non accetterei di risiedere altro che in un luogo ove sia studio della Torà …” (Trad. Joseph Colombo, R. Carabba, Lanciano, 1931).
R. Elyashiv fa notare che i Maestri affermarono che Bil’am aveva un’anima avida perché disse:”Se Balàk mi desse la sua casa piena d’argento e d’oro…”.
In cosa era differente r. Yosè figlio di Kisma che non venne criticato nello stesso modo? R. Elyashiv risponde: Bil’am disse che non poteva violare la direttiva del Signore anche se avesse voluto. Sarebbe stato più logico che Bil’am avesse parlato di una cosa più vitale e dicesse: “Anche se Balàk mi uccidesse non potrei violare la direttiva del Signore”. Il fatto che avesse parlato di argento e di oro dimostra che la ricchezza era per lui la cosa più importante. Quanto a r. Yosè figlio di Kisma, egli non era soggetto ad alcun impedimento. Semplicemente non aveva alcun desiderio di ricchezze e non vi era alcuna trasgressione per la quale avrebbe dovuto sacrificare la vita. Pertanto poteva dire di rinunciare alle ricchezze pur di poter abitare in una posto dove vi era lo studio della Torà.
Lo stesso quesito di rav Elyashiv venne posto trecento anni da r. Binyamin Hakohen Vitale (Reggio Emilia, 1651-1730). Nel suo commento Avòt ‘Olàm (pp. 107-108) ai Pirkè Avòt (6:9) egli risponde che r. Yosè disse che non avrebbe accettato di abitare in un posto dove non vi era lo studio della Torà per tutto l’argento e l’oro del mondo, per mostrare il valore della Torà che è superiore alle ricchezze. Egli fa notare che nella mishnà precedente dei Pirkè Avòt (6:8) viene citato rav Shimo’n figlio di Yochai che afferma: “La bellezza, la forza, la ricchezza, l’onore, la sapienza, la vecchiezza, la canizie, e i figli, convengono ai giusti e convengono al mondo”. Dopo l’affermazione di r. Shim’on, r. Yosè, dicendo che non avrebbe accettato di abitare in un posto dove non c’era lo studio della Torà per tutto l’argento e oro del mondo, voleva sottolineare che anche se la ricchezza si addice ai giusti, essi non la devono considerare superiore alla Torà. L’affermazione di r. Yosè ha come fonte i Tehillìm (Salmi, 119:72) nei quali Davide, che era re d’Israele e che pur godeva di grandi ricchezze, scrisse: “Più mi giova la legge della Tua bocca che migliaia d’oro e argento” (Trad. Lelio Della Torre, Nobile de Schmid e J.J. Busch, Vienna, 1845).
R. Yosè disse che preferiva la Tora all’oro e all’argento perché “Nel momento della morte non già l’argento nè l’oro accompagnano l’uomo, né le pietre preziose né le gemme, ma la Torà che ha studiato e le opere buone che avrà compiuto” (Avòt, 6:9, continuazione). E così, aggiunse r. Binyamin Hakohen, quando r. Yose morì, gli fecero una grande orazione funebre, come è raccontato nel primo capitolo del trattato ‘Avodà Zarà (18a), e al suo funerale parlarono della sua Torà e delle sue buone azioni, cosa che non sarebbe successa se avesse abitato in un luogo senza studio di Torà.
«Camminando per strada, ho toccato con mano l’odio per l’ebreo»
di Ludovica Iacovacci
«Voi israeliani siete degli assassini di m**, ammazzate i bambini, ammazzate le donne, ammazzate i vecchi. Andate via, vattene da qua». È con queste parole, miste a sputi e spinte, che al centro islamico in viale Jenner a Milano a fine giugno è stato aggredito Klaus Davi, al secolo Sergio Klaus Mariotti, giornalista, opinionista e saggista che sta indagando gli effetti della narrazione mediatica della guerra in Medio Oriente, nei quartieri di Milano, le “zone franche”, dove la presenza di arabi è cospicua. Per iniziare, l’autore si è recato in viale Jenner con l’intenzione di fare domande, su quanto successo dal 7 ottobre in poi, all’imam e ai fedeli del centro islamico che passeggiavano per la strada pubblica. Il giornalista si è trovato oggetto di aggressioni, insulti e sputi da parte di arabi che lo accusavano di essere “israeliano” (Davi non è né ebreo né tantomeno israeliano, ndr). Ilvideo che testimonia il suo spiacevole incontro costituisce una prima parte di un progetto più grande. Bet Magazine lo ha intervistato per saperne di più.
- Sono passate settimane dalla pubblicazione del suo lavoro. A mente fredda, quali conclusioni ne ha tratto? L’inchiesta continua. Sono previste venti puntate. Questo lavoro nasce da un senso di ribellione su un tema riguardo al quale c’è una coltre di silenzio. Ho voluto dare un segnale: nella città più celebrata e mitizzata d’Italia ci sono le stesse dinamiche che vediamo nelle banlieue delle grandi città francesi. Non mi interessa affrontare il tema dell’Islam in generale, ma quanto la narrazione e il dibattito sulla strage del 7 ottobre sta incidendo sulle comunità qui da noi. È un settore delicato dove ci sono grosse lacune narrative e di presa di coscienza. Vado sempre con un intento dialogante e voglia di imparare; e sto imparando. Preciso che voglio che questo lavoro sia mio e del mio team, e tale rimarrà. E nel momento in cui vado da solo e rischiando autonomamente, cosa mi si può dire?
- Come crede che sia stato percepito il suo lavoro dai media italiani? Intanto, rilevo che il mio lavoro non è stato criticato. Quando sono andato in viale Jenner, non ho avvisato le forze dell’ordine perché altrimenti non crei dialogo con le persone. Mi è dispiaciuto che sia uscito un comunicato attribuito alla Questura di Milano nel quale è stato detto che io abbia fatto una sorta di sondaggio: io non faccio sondaggi, sono andato lì a fare domande a frequentatori di una moschea. Ed è stato utile perché è venuto fuori quello che c’è in almeno parte di questa comunità. Su due aspetti bisogna riflettere: il primo è l’immagine dell’ebreo, non dell’israeliano. Chiunque parli bene di Israele diventa un ebreo. In secondo luogo: l’irrazionalità, a cui si aggiunge il controllo del territorio. Queste dinamiche si riscontrano allo Zen a Palermo, a Platì, comune di Reggio Calabria. E avvengono a Milano. Il filmato è molto eloquente, mancava poco perché succedesse qualcosa. Per fortuna non è successo, ma dovremmo porci qualche interrogativo su queste realtà.
- Crede che ci sia abbastanza coscienza generale riguardo a questa situazione? Io ho la netta sensazione che ci sia un deficit di coscienza generale. Milano è divisa in aree, in zone molto nette: la zona ZTL, la zona centro, semicentro, e le periferie. Quest’ultime sono realtà abbandonate, dove lo Stato non mette il naso più di tanto e quindi non c’è presa di coscienza nei termini giusti. Io sono favorevole all’immigrazione, ho vissuto sempre in questi contesti e quindi sostengo i quartieri etnici. Il mio obiettivo è andare a capire che impatto potrebbe avere una narrazione pregiudiziale verso lo Stato di Israele, e quindi verso gli ebrei, in casa nostra. Nessuno su questo si è posto il problema. Per me il punto è che, conoscendo le dinamiche dei territori della criminalità organizzata, vedo che Milano ha intere zone franche dove, secondo le mie stime, il 95% di questi concittadini sono persone per bene ma esiste un 5% – e non è poco – che risponde a strutture che fanno capo a organizzazioni. Nel primo video tutto fila liscio all’inizio: quando i fedeli arrivano, alcuni rilasciano interviste. Dopo mezz’ora giungono altri due soggetti (quelli che hanno lo hanno aggredito, ndr). Qualcuno li ha mandati, escludo l’imam perché non è suo interesse creare il caso, dev’essere stato qualcun altro. I due signori sopraggiunti sono i classici scagnozzi mandati per allontanare, indice di qualcosa all’interno di questi meccanismi di tipo organizzativo.
- Quali sono gli aspetti più allarmanti che il suo lavoro sta facendo emergere? Ho avuto due sensazioni: impunità e sdoganamento. Impunità perché comportarsi così per strada vuol dire sentirsi impunito, controlli il territorio. Sdoganamento perché un comportamento del genere, così virulento, dieci anni fa non sarebbe stato pensabile. Le autorità rassicurano, fanno il loro mestiere, ma noi facciamo i giornalisti, e vediamo che le zone franche ci sono e non sono controllate, non adeguatamente.
- Klaus, lei ha detto: “Dieci anni fa questo non sarebbe successo”. Il conflitto in Medio Oriente sta evidentemente indirizzando masse di persone verso una determinata lettura degli eventi, al punto che gli ebrei (e i non-ebrei che li sostengono) subiscono le ripercussioni di ciò che accade in quella parte di mondo. Loro non hanno detto “ebreo”, hanno detto “israeliano” quando mi hanno insultato. Le parole esatte sono state: “Sporco israeliano, ammazzate i bambini”. Poi diventa un tutt’uno.
- Crede però che da parte loro ci sia differenza a livello di accuse mosse? No. All’inizio loro distinguono perché è stato detto loro di non dire che gli israeliani sono ebrei. Poi, presi dalla foga – e questo uscirà nel corso della seconda parte del lavoro – dicono che gli ebrei controllano l’informazione, la politica, la Meloni. Non c’è distinzione, tutti vengono assimilati. La paura che ho toccato con mano è l’odio per la figura dell’ebreo. Mi sembra di vedere una vignetta degli anni ’30.
- Quali conclusioni ne trae? Sono molto preoccupato. Vedo quest’odio montare, vedo sottovalutazione. Ciò che mi fa specie è che la narrazione pubblica in Italia parla di questo tema come se l’Italia non avesse avuto un ruolo negli anni ’30 e ’40, come se non fossimo stati gli incubatori culturali del nazifascismo. La collettività e lo Stato hanno più doveri verso la Comunità ebraica. Non si può chiedere alle manifestazioni di togliere la kippah, la bandiera LGBT o quella di Israele. Lo Stato italiano è in debito con la Comunità e non può pretendere che gli ebrei tornino invisibili. Deve tutelarla nella sua unicità e peculiarità, anche nella libertà di utilizzare i simboli esteriori della propria identità. Nascondersi non è la soluzione, non si può pretenderlo da coloro che si è discriminato storicamente e che si è contribuito ad annientare. Mi appello alle istituzioni: non date più queste indicazioni agli ebrei, pensate alla loro sicurezza. Non hanno bisogno di parole o di solidarietà, hanno bisogno di fatti. Questo è un momento molto pericoloso per la Comunità. Dove ci porterà lo sdoganamento dell’antisemitismo, che non essendo osteggiato è di fatto consentito? A Worms, Meinz, cuore askenazita nel Medioevo, dicevano: “Qui non sarebbe mai accaduto”. Poi abbiamo visto cosa è successo. Idem a Berlino: “Qui non accadrà mai”, “Non vado via perché qui non succederà” si diceva e poi è accaduta la catastrofe. Colonia era il paradiso dell’ebraismo, si è trasformata in qualcosa di atroce. Mai fidarsi troppo. La differenza è che adesso c’è lo Stato di Israele, e non è da poco. Lo Stato di Israele è una garanzia ed è la differenza rispetto al passato.
(Bet Magazine Mosaico, 18 luglio 2024)
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“Gli israeliani non sono civili, sono tutti militari. E ai bambini insegnano a sparare contro di noi”
Il secondo video di Klaus Davi nei quartieri arabi a Milano
di Ludovica Iacovacci
“I media in Italia sono manipolati dalla comunità ebraica. Questa è la verità. La Meloni è governata da Israele. Come lei, tedeschi, olandesi, tutto l’Occidente. In primis, gli Stati Uniti d’America sono governati da Israele” dicono con sicumera giovani palestinesi intervistati dal giornalista Klaus Davi in via Padova, a Milano.
Dopo l’episodio alla moschea di viale Jenner, il massmediologo ha pubblicato il 16 luglio la seconda puntata dell’inchiesta sulle conseguenze della narrazione mediatica riguardo alla guerra in Medio Oriente nei quartieri delle comunità arabe milanesi. Il giornalista si è recato presso la moschea di via Padova, il cui imam è stato premiato con l’Ambrogino d’Oro nel 2009, e ha percorso la via di Milano realizzando varie interviste ai fedeli del centro islamico.
Il sentimento comune che unisce tutte le voci arabe – per lo più palestinesi ed egiziane – è il profondo odio per lo Stato di Israele. Sul riconoscimento del diritto del Paese ad esistere non c’è neanche una voce che risponda affermativamente. “Stato di Palestina”, “Israele non esiste, non è uno Stato legale” dicono gli intervistati. “Noi abbiamo problemi con gli israeliani dal 1897”, sentenzia un palestinese di Nablus risalendo all’origine temporale del sionismo e facendo attenzione ad usare il termine “israeliani” e non “ebrei”, seppur nel 1897 lo Stato di Israele ancora non fosse stato fondato dato che in quell’anno Theodor Herzl istituì il primo Congresso sionista mondiale che si tenne a Basilea dal 29 al 31 agosto 1897. “Non è antiebraismo, è antisionismo. Questi sono sionisti, usiamo i termini giusti. Non hanno diritto alla patria nel nostro Paese. Vadano in Germania, in America. Perché non vanno a vivere lì?” argomenta un giovane palestinese rispondendo al perché l’antisemitismo sia in crescita: “Noi siamo semiti”, precisa.
Secondo gli arabi non è vero che l’odio contro gli ebrei è in aumento ed il problema non è di carattere religioso: “Israele è il sionismo, la religione non c’entra”, afferma un palestinese ponendo la questione solo sul piano politico. “Come ebrei li accettiamo; li abbiamo sempre protetti in quanto musulmani, sia gli Stati sia il mondo arabo. Dove ci sono arabi, ci sono ebrei” sostiene il palestinese di Nablus, collocando l’origine dei problemi a “fino a quando non hanno messo piede in Palestina” e – questa volta – e non parla di “israeliani” bensì di “ebrei”.
Se la teoria appena enunciata dai musulmani (secondo la quale l’aspetto politico andrebbe distinto da quello religioso) fosse vera, allora sarebbe inspiegabile perché i palestinesi sostengono Hamas e il massacro del 7 ottobre, pogrom che prima di avere carattere politico ha natura religiosa e antisemita. Per i terroristi e i loro seguaci, la strage è una medaglia da appendere sul petto: “Il comportamento di Hamas è stato giustissimo, più che giusto”, afferma il palestinese di Nablus. Un altro dice di aver festeggiato quel giorno.
Quando Klaus Davi domanda cosa ne pensano dei civili rapiti, donne e bambini, il palestinese di Nablus risponde: “Gli israeliani non sono civili, sono tutti militari. Ai bambini insegnano a sparare contro di noi”. Quando il giornalista sottolinea che Hamas ha ucciso dei bambini israeliani, c’è un coro unanime da parte dei tre palestinesi presenti: “Non è vero. È morto solo un bambino, per sbaglio”.
Gli arabi vantano paragoni inesistenti tra i rapiti israeliani e i prigionieri palestinesi: “Gli ostaggi israeliani rilasciati da Hamas erano felici, sorridenti, tranquilli, dicevano che Gaza li ha trattati bene. I nostri ostaggi palestinesi tornano da Israele traumatizzati”. Del resto, per loro questa narrazione terroristica del 7 ottobre è un’invenzione della stampa “manipolata dalla comunità ebraica” e della politica occidentale “governata da Israele”. Inutile domandare se considerino i componenti di Hamas dei terroristi: “Ma stai scherzando? E i partigiani dell’Italia? Sono dei liberatori. Hamas ha vinto le elezioni nel 2006”.
Giovedì mattina la Knesset, il parlamento israeliano, ha votato a larga maggioranza una risoluzione che respinge la creazione di uno Stato palestinese.
La risoluzione è stata co-sponsorizzata dai partiti della coalizione del Primo Ministro Benjamin Netanyahu insieme ai partiti di destra dell’opposizione e ha ricevuto persino il sostegno del partito centrista di Unità Nazionale di Benny Gantz.
I legislatori del partito di centro-sinistra Yesh Atid del leader dell’opposizione Yair Lapid hanno abbandonato il plenum per evitare di sostenere la misura, nonostante lui si sia espresso a favore di una soluzione a due stati.
L’iniziativa è stata approvata pochi giorni prima della visita di Netanyahu negli Stati Uniti per parlare a una sessione congiunta del Congresso e incontrare il Presidente Joe Biden alla Casa Bianca.
Già a febbraio, la Knesset aveva approvato una risoluzione sponsorizzata da Netanyahu che rifiutava l’istituzione di uno Stato palestinese, ma la mozione riguardava specificamente l’istituzione unilaterale di tale Stato, in seguito alle notizie secondo cui i Paesi esteri stavano valutando la possibilità di riconoscere uno Stato palestinese in assenza di un accordo di pace con Israele.
La risoluzione – approvata per 68-9 – respinge in toto la creazione di uno Stato palestinese, anche come parte di un accordo negoziato con Israele.
“La Knesset di Israele si oppone fermamente alla creazione di uno Stato palestinese a ovest del Giordano. L’istituzione di uno Stato palestinese nel cuore della Terra d’Israele rappresenterà un pericolo esistenziale per lo Stato d’Israele e i suoi cittadini, perpetuerà il conflitto israelo-palestinese e destabilizzerà la regione”, si legge nella risoluzione.
“Sarà solo questione di poco tempo prima che Hamas prenda il controllo dello Stato palestinese e lo trasformi in una base del terrore islamico radicale, lavorando in coordinamento con l’asse guidato dall’Iran per eliminare lo Stato di Israele”, ha continuato. “Promuovere l’idea di uno Stato palestinese in questo momento sarà una ricompensa per il terrorismo e incoraggerà solo Hamas e i suoi sostenitori a vedere questa come una vittoria, grazie al massacro del 7 ottobre 2023, e un preludio alla presa di potere dell’Islam jihadista in Medio Oriente”.
Il voto è arrivato mentre il discorso di Netanyahu del 24 luglio stava già causando costernazione tra molti Democratici, molti dei quali sono divisi tra il loro sostegno di lunga data a Israele e la disapprovazione per il modo in cui Israele ha condotto le operazioni militari a Gaza durante la guerra con Hamas.
Mentre alcuni Democratici hanno dichiarato che parteciperanno per rispetto a Israele, una fazione più ampia e crescente non vuole partecipare, creando un’atmosfera straordinariamente carica in un incontro che normalmente equivale a una dimostrazione cerimoniale e bipartisan di sostegno a un alleato americano.
A complicare ulteriormente le cose per Biden e i Democratici c’è la situazione politica sempre più in bilico del Presidente, al quale sempre più spesso viene chiesto di ritirarsi dalla corsa, dato che nei sondaggi è in forte svantaggio rispetto allo sfidante Donald Trump.
Con un ulteriore colpo di scena, la Casa Bianca ha annunciato mercoledì che Biden si sarebbe recato nel Delaware per autoisolarsi dopo essere risultato positivo al COVID. Non è chiaro come questo sviluppo possa influire sul previsto incontro di lunedì con Netanyahu a Washington. Il medico di Biden ha detto che stava prendendo il Paxlovid, che di solito ha un regime di cinque giorni, ma non ha specificato un calendario per il suo previsto recupero.
(Rights Reporter, 18 luglio 2024)
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La risposta della Knesset a Joe Biden
Alla vigilia della sua partenza per Washington, dove parlerà al Congresso il 24 luglio, Benjamin Netanyahu incassa il voto pieno della Knesset alla risoluzione che rigetta il venire in essere di uno Stato palestinese.
La risoluzione, appoggiata dai partiti facenti parte della maggioranza di governo insieme ai partiti di destra all’opposizione, ha ricevuto l’appoggio anche del partito centrista guidato da Benny Gantz. La risoluzione è passata con l’astensione di Yesh Atid, il partito guidato da Yair Lapid e con la prevedibile e marginale opposizione della sinistra.
Il messaggio che arriva a Joe Biden e alla sua amministrazione non può essere più chiaro ed è esplicitato dal testo stesso della risoluzione:
“La Knesset di Israele si oppone fermamente alla creazione di uno Stato palestinese a ovest della Giordania. La creazione di uno Stato palestinese nel cuore della Terra d’Israele rappresenterebbe un pericolo esistenziale per lo Stato di Israele e i suoi cittadini, perpetuerebbe il conflitto israelo-palestinese e destabilizzerebbe la regione. Sarebbe solo questione di breve tempo prima che Hamas prenda il controllo dello Stato palestinese e lo trasformi in una base terroristica islamica radicalizzata, lavorando in coordinamento con l’asse guidato dall’Iran per eliminare lo Stato di Israele…Promuovere l’idea di uno Stato palestinese in questo momento sarebbe una ricompensa per il terrorismo e non farebbe altro che incoraggiare Hamas e i suoi sostenitori a vederlo come una vittoria, grazie all’eccidio del 7 ottobre 2023, e un preludio alla presa del potere dell’Islam jihadista in Medio Oriente”.
Il testo della risoluzione è finora, a nove mesi dalla guerra a Gaza, la più palese contestazione dell’intento programmatico dell’Amministrazione Biden, nonché una risposta inequivocabile al riconoscimento politico, di fatto senza alcun effetto pratico, di uno Stato palestinese da parte di paesi ostili a Israele come Spagna, Norvegia e Irlanda.
Si tratta anche di una presa di posizione che evidenzia un fatto che dovrebbe essere ovvio ma non sembra esserlo; l’unico paese in grado di decidere se e quando sussistano le condizioni per la nascita di uno Stato palestinese all’interno dei propri confini è Israele stesso. È Israele che detiene la propria sovranità, non gli Stati Uniti, né nessun altro Stato.
L’approvazione della risoluzione rispecchia il sentire della maggioranza degli israeliani, soprattutto dopo il 7 ottobre e mostra come l’opposizione alla nascita di uno Stato palestinese non sia solo una posizione di Netanyahu ma sia ampiamente condivisa.
A quattro mesi dalle elezioni, fortemente indebolito, Biden incassa questo risultato che sconfessa completamente l’impianto ideologico di una amministrazione americana che come poche altre ha lavorato fino ad oggi contro gli interessi dello Stato ebraico.
Il massacro del 7 ottobre ha stravolto ogni paradigma all’interno dell’IDF. Lo ripete più volte l’Addetto per la Difesa presso l’Ambasciata d’Israele in Italia, il Colonnello Liad Zak, riferendosi a diversi aspetti: dalle regole di ingaggio all’uso della tecnologia. Il massacro perpetrato da Hamas e la costante minaccia di Hezbollah al nord hanno stravolto ogni cosa. Per capire cosa sia cambiato in questi mesi all’interno dell’esercito israeliano, Shalom lo ha intervistato.
- Il massacro del 7 ottobre ha traumatizzato tutta la società israeliana: come ha reagito l’esercito? Stiamo combattendo per lasciare ai nostri bambini un futuro migliore. Tuttavia non possiamo ignorare ciò che ha fatto Hamas. È importante ricordare però che noi non siamo animali come i nostri nemici, a cui non importa della propria gente, ama vederla soffrire. Al contrario di quanto lascia intendere certa propaganda, in particolare sui social media, Israele si sta prendendo cura degli aiuti umanitari. Nessuno stato in guerra aiuta il proprio nemico. Noi sì, fornendo acqua, elettricità e cibo.
- La guerra a Gaza è stata, sin dal principio, oggetto di numerose discussioni all’interno dell’opinione pubblica occidentale, che considera la risposta dell’esercito sproporzionata. In che condizioni combattono i soldati nella Striscia? L’IDF sta combattendo contro un nemico che non si fa problemi a nascondersi in mezzo ai civili. Nonostante ciò, il rapporto tra le vittime civili e i terroristi è di 1:1, di gran lunga inferiore alla media di 4:1 che abbiamo visto in altri conflitti. Stiamo rispettando le leggi internazionali di guerra. Siamo un esercito professionale, educhiamo sin dal primo momento i soldati a rispettare determinati comportamenti. Ribadisco, non siamo dei mostri e non vogliamo diventarlo.
- Come mai l’IDF è considerato “l’esercito più morale al mondo”? Nel nostro esercito ci sono delle regole di ingaggio molto rigide, che vengono insegnate, ripetute e migliorate attraverso i debriefing. Ad ogni soldato inoltre viene consegnato un libricino nel quale viene descritto lo “Spirito dell’IDF”, che delinea i nostri valori e, insieme alle regole pratiche che ne derivano, costituisce il nostro codice etico, che guida i nostri soldati e comandanti nelle loro attività quotidiane e operative. Bisogna sottolineare comunque che a seconda dello scenario e del periodo, le regole di ingaggio cambiano, sempre nel rispetto dell’etica.
- Tsahal è riconosciuto e temuto per essere un esercito tecnologico, con armamenti e strumenti all’avanguardia. è sufficiente per vincere una guerra? La tecnologia non è tutto e il massacro del 7 ottobre lo ha dimostrato. Anche i nostri nemici sono migliorati strategicamente, per questo la tecnologia è importante, ma è fondamentale che questa lavori in simbiosi con il fattore umano.
- In questo momento Israele è divisa principalmente su due fronti: Gaza e il confine con il Libano. A che punto sono le operazioni nella Striscia? E al nord, cosa sta succedendo? Con il controllo del Corridoio Netzarim e del Corridoio Filadelfia, a Gaza stiamo per completare la Fase 2. La terza sarà incentrata su missioni mirate supportate dall’intelligence, volte soprattutto al salvataggio degli ostaggi e all’eliminazione dei terroristi di Hamas. Nel mentre ci stiamo preparando per lo scenario a nord. Stiamo organizzando diverse esercitazioni per i riservisti, così da essere pronti in caso di un’eventuale guerra con Hezbollah, che ricordiamo che è finanziata direttamente dall’Iran. Dobbiamo essere pronti ad ogni minaccia.
Incendi di sinagoghe, scuole ebraiche e altri luoghi della comunità ebraica, a Berlino. Il numero delle violenze antisemite è raddoppiato dal 7 Ottobre.
Prima è stata bruciata la sinagoga Kahal Adass Jisroel di Berlino, colpita con le molotov. Ieri gli studenti del ginnasio Tiergarten della capitale tedesca hanno appiccato un incendio al proprio istituto dopo la cancellazione della cerimonia di diploma decisa per paura delle proteste. Poi hanno deturpato i muri esterni del ginnasio con la scritta “Bruciate Gaza? Bruceremo Berlino”.
La direzione del Tiergarten Gymnasium era preoccupata che metà dei diplomandi intendesse utilizzare la cerimonia per manifestazioni filo palestinesi, anti israeliane e antisemite. Felix Klein, commissario federale per la lotta all’antisemitismo, questa settimana ha tenuto una conferenza in cui ha raccontato: “Oggi in pubblico molti ebrei cercano di essere quanto più invisibili possibile. Vanno in sinagoga senza dare nell’occhio, utilizzando altri ingressi per non essere riconosciuti. Gli uomini non indossano più la kippah. Le donne non mostrano più apertamente le loro collane con la Stella di David”.
Secondo un nuovo rapporto che monitora l’antisemitismo in Germania, il numero di incidenti antisemiti è raddoppiato in un anno. 4.782 episodi di antisemitismo, più 80 per cento rispetto all’anno precedente, di cui due terzi dopo il 7 ottobre. Il presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania, Josef Schuster, sullo Spiegel denuncia “zone interdette agli ebrei” nel paese. Se ne va la scrittrice Mirna Funk. Uno studente ebreo di Francoforte si arrende: “Voglio lasciare la Germania”. Hendrik Edelmann non si sente più sicuro e volta le spalle al suo paese. “Vogliono distruggere la vita di persone come me”. “Non voglio vivere in un paese il cui cancelliere porta milioni di musulmani antisemiti che attaccano gli ebrei e le istituzioni ebraiche in Germania”, ha scritto il presidente della comunità ebraica del Brandeburgo, Semen Gorelick. “Non si può vivere in un paese dove non puoi indossare una kippah per strada”.
Jüdische Allgemeine è il giornale degli ebrei tedeschi. Il caporedattore Philipp Peyman Engel in un’intervista alla Welt dice che “l’ebraismo in Germania sta diventando invisibile”. Quasi nessuno osa più uscire per strada con i simboli perché la probabilità di essere aggrediti verbalmente o fisicamente è troppo alta. Berlino si è già “ribaltata”, secondo le sue scioccanti scoperte, le cose non sono diverse in molte città della Ruhr. Ci sono “islamici ed estremisti di sinistra che ci minacciano massicciamente rendendo le nostre vite un inferno”.
Gruppi filo palestinesi e anti israeliani terrorizzano anche il campus dell’Università Johannes Gutenberg di Magonza, fondata nel 1477 e una delle più antiche d’Europa, distribuendo volantini che inneggiano alla distruzione dello stato ebraico. Gli ebrei si erano stabiliti nella città renana durante l’epoca romana. La maggior parte della popolazione ebraica della città fu deportata e completamente liquidata dai nazisti nel 1943. Oggi a Magonza, su 232 mila abitanti, vivono appena un migliaio di ebrei. Ancora troppi, per i filo Hamas.
Negli ultimi anni, nonostante il loro contributo alla liberazione dell’Italia dal nazifascismo, i vessilli della Brigata Ebraica sono sempre stati contestati dalle frange più estremiste al corteo del 25 aprile. “E quest’anno, nel contesto della guerra, si è arrivati ad un punto addirittura peggiore, associando due cose che effettivamente non c’entrano nulla l’una con l’altra, paragonando la resistenza dei partigiani a quello che è stato fatto da Hamas”. Così Luca Spizzichino, presidente dell’UGEI (Unione Giovani Ebrei d’Italia), ha introdotto l’incontro organizzato il 17 luglio dall’associazione dei giovani ebrei su Zoom con Piero Cividalli, ultimo veterano italiano ancora in vita tra coloro che durante la Seconda Guerra Mondiale si unirono alla Brigata Ebraica. Non a caso, la segretaria UGEI Ariela Di Gioacchino ha spiegato che l’incontro è stato reso aperto a tutti, proprio per fare in modo che il maggior numero di persone possibile potesse ascoltare la sua testimonianza.
• L’INFANZIA E L’ADOLESCENZA Nel raccontare la sua infanzia in Italia, Cividalli, che oggi ha 98 anni, ha raccontato che “io ero un bambino italiano come tutti gli altri negli anni ‘30”, e in un primo momento non si rendeva conto di quello che succedeva sotto il regime, anche perché i genitori lo tenevano all’oscuro. “Tutto è andato più o meno liscio fino al ’38, quando ho compiuto 12 anni. E in quel momento sono state promulgate le Leggi Razziali; nel settembre del ’38, mio padre ha riunito me e le mie sorelle, e ci ha raccontato che non potevamo più andare a scuola. La vita cominciò a cambiare; lui perse il lavoro, e siccome era già da tempo un antifascista, decise che dovevamo lasciare l’Italia”.
Ha spiegato che all’epoca erano pochi i paesi che accoglievano gli esuli ebrei; dapprima si stabilirono a Losanna, in Svizzera, e poi nel ‘39 il padre riuscì a portarli a Tel Aviv. Ha raccontato che la sua famiglia “non soltanto era antifascista, ma erano anche molto legati ai Fratelli Rosselli. Anch’io ero molto legato a loro, e quando nel ’37 ho saputo che erano stati assassinati, che il padre delle bambine con cui giocavo era stato assassinato, ho giurato che li avrei vendicati”.
Nel ’39 tornarono in Italia per passare le vacanze dai nonni, e in quel momento “è scoppiata la guerra. Ero malato di scarlattina, e quindi non potevo uscire dalla mia stanza. Siccome per fortuna l’Italia non è entrata in guerra subito, nel settembre del ’39 siamo rientrati a Tel Aviv. È stata una situazione molto traumatica: a 13 anni dovevo imparare una nuova lingua, in un paese nuovo, con usanze diverse”.
• LA BRIGATA EBRAICA Cividalli ha raccontato che nel 1944, quando la guerra era ormai prossima alla fine, “mia sorella si è arruolata nell’esercito britannico. Io non potevo fare da meno: appena compiuti 18 anni, nel dicembre del ’44, mi sono arruolato per combattere il nazifascismo e salvare il salvabile dell’ebraismo europeo”. Dapprima lo mandarono in Egitto per l’addestramento, e poi arrivò in Italia con la Brigata Ebraica, quando ormai il conflitto era già finito. “Quando sono arrivato in Italia, l’ho trovata distrutta non soltanto dalla guerra, ma anche dal fascismo stesso”. Per questo, vorrebbe che gli italiani “sapessero a che cosa li ha portati il fascismo”.
Per dare un’idea della condizione in cui versava l’Italia subito dopo la guerra, ha spiegato che dopo un primo periodo in cui era a Taranto, giunse l’ordine di trasferirsi al nord, a Padova e a Udine: durante il viaggio, durato tre giorni su un treno merci, “ogni due passi ci si doveva fermare a causa delle distruzioni. E poi, c’era tutta questa gente povera che chiedeva l’elemosina, i bambini che venivano a cercare del cibo tra i rifiuti lasciati dai soldati”. Dopo l’Italia, prima di tornare nella Palestina Mandataria venne spedito anche in Austria e in Belgio.
• LA GUERRA D’INDIPENDENZA D’ISRAELE Dopo il ritorno in quello che nel ’48 divenne lo Stato d’Israele, ha spiegato Cividalli, “ho dovuto combattere per davvero, durante la guerra d’indipendenza d’Israele. Sono stato in un kibbutz chiamato Negba, dove eravamo assediati dalle forze egiziane. Ma intorno a noi c’erano truppe di tutti i tipi: iracheni, siriani, arabi locali, tutti combattevano per distruggere questo Stato”.
Tra i ricordi della guerra, ce n’è uno in particolare che si porta dietro con dolore: “Quando sono stato ferito, in una postazione molto avanzata, c’era una ragazza con me che mi ha fasciato e curato. Il comandante mi ordinò di andare in infermeria e poi in una postazione meno pericolosa, mentre la ragazza che mi aveva curato prese il mio posto in prima linea. E la sera stessa, durante quello che avrebbe dovuto essere il mio turno di guardia, è rimasta uccisa. E questo è un dolore che mi porto dietro per tutta la vita, poiché questa ragazza che mi aveva curato è morta al posto mio”.
In seguito, Cividalli ha combattuto anche in altre guerre d’Israele, nel Sinai nel ’56 e in quella dei Sei Giorni nel ’67, fino a quando “ormai ero troppo vecchio per combattere”.
• L’ATTUALITÀ Guardando alla situazione attuale in Italia, Cividalli ha l’impressione che “questo antisemitismo che avevo sofferto nel 1938 non è scomparso, anche se non vivendo in Italia non posso esserne sicuro”. Una delle ultime volte che è venuto in Italia, ha detto di essersi sentito male quando è passato da Predappio, vedendo i negozi con i cimeli fascisti.
Ha inoltre aggiunto che “anche la sinistra italiana è diventata una sinistra fascista, violenta”. In particolare, lo ha inorridito vedere la Scuola Normale Superiore di Pisa rifiutare gli accordi con Israele, soprattutto perché “il mio bisnonno, Alessandro D’Ancona, è stato direttore della Normale, senatore del Regno e sindaco di Pisa. Io e la mia famiglia abbiamo donato alla Scuola Normale tutti i ricordi che avevamo del mio bisnonno. Sono cose così umilianti e così tristi che mi fanno pensare che gli italiani non hanno ancora preso coscienza di tutto il male che sono riusciti a fare. E che ancora stanno facendo”.
Nel 1994, il Rabbino capo di Roma, il grande e indimenticabile Elio Toaff, pubblicava un libro-intervista, Essere ebrei, edito da Bompiani, nel quale rispondeva alle domande di Alain Elkann sul significato dell’identità ebraica. Un libro di grande importanza, che aiutava non solo gli ebrei a capire cosa fossero, o potessero o dovessero essere, ma anche tutti gli uomini a capire quale sia o possa essere la loro identità, e come essa si possa forgiare, trasmettere, trasformare, attraverso un continuo confronto con se stessi e col mondo esterno. Perché ogni identità non è mai qualcosa di statico e immobile: credo che nessuno, alla fine della propria giornata, possa dirsi sicuro di essere la stessa persona che era all’inizio della stessa. E, se ciò è vero per una singola persona, ancor più lo è per un popolo, una religione e una tradizione che coinvolgono milioni di persone diverse.
Come insegnano i saggi, la parola Adam è scomponibile in due sillabe, l’alef iniziale e il successivo dam, che vuol dire sangue. Gli uomini sono tutti uguali, perché hanno tutti lo stesso sangue rosso, ma sono anche tutti diversi, perché ognuno di loro è segnato da un unico e irripetibile alef. E ciò, ovviamente, vale anche per gli ebrei, quantunque inesorabilmente condannati, da una millenaria distorsione, a essere monoliticamente raggruppati nella immaginaria prigione di un’identità fissa, piatta e unica, che, tutti insieme, li accomuna e (spesso) li condanna: sono, dicono, pensano, fanno…
Esattamente trent’anni dopo, viene oggi pubblicato un libro – frutto di un lungo percorso di investigazione e riflessione – di altrettanto interesse, molto diverso dal primo come impostazione, oggetto della ricerca, formazione culturale e impostazione ideologica dell’autore, il famoso demografo Sergio Della Pergola (che al Rabbino, com’è noto, è stato legato per lunghi decenni da uno stretto dialogo intellettuale e sodalizio familiare, essendone il genero).
Il titolo è uguale a quello del 1994, con l’aggiunta di una parola che aggancia l’indagine al momento attuale (forse il più difficile, com’è noto, per l’ebraismo mondiale, dopo la Seconda Guerra Mondiale) e che dà il segno del tempo trascorso: Essere ebrei, oggi. Continuità e trasformazioni di un’identità, Il Mulino, pp. 224.
L’autore inizia la sua investigazione con una serie di domande: «La popolazione ebraica nel mondo e nei maggiori paesi è in aumento o in diminuzione? Nel corso del tempo gli ebrei diventano più religiosi o meno religiosi? Sono più uniti fra di loro o più divisi secondo linee ideologiche, politiche e religiose? Sono sempre più integrati e assimilati nel contesto della società in cui vivono oppure sono sempre più isolati fra loro stessi? Sono maggiormente accettati dall’ambiente circostante o più contestati e discriminati?».
Fornire risposte certe a tali domande (tranne, forse, la prima, che presenta un livello di oggettività: ma forse neanche questo è vero, dal momento che la stessa concezione di chi possa dirsi o essere riconosciuto come “ebreo” è controversa) è, ovviamente, alquanto arduo, ed è difficile trovare solo due persone che la pensino allo stesso modo. Ma Della Pergola, forte del rigore scientifico della sua lunga e prestigiosa carriera accademica, basa la sua indagine su una serie di sondaggi condotti su larga scala, che hanno visto coinvolte decine di migliaia di persone, in molti Paesi, e ai quali egli stesso ha collaborato. Segnatamente: il sondaggio del 2013 sugli ebrei degli Stati Uniti realizzato dal Pew Research Center di Washington, specializzato negli studi sulla religione; quello del 2015, ancora del Pew Research Center, riguardanti le identità, gli atteggiamenti e le percezioni politiche nella popolazione d’Israele; quello del 2018 dell’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione Europea sulla percezione dell’antisemitismo e della discriminazione nella popolazione ebraica in 12 Paesi dell’Unione Europea, fra cui l’Italia. Sono anche stati utilizzati i materiali raccolti da altre importanti ricerche sugli ebrei italiani, a diversi delle quali ha collaborato lo stesso autore, fin dal lontano 1965. Nel libro, quindi, confluiscono elementi raccolti in un’intera vita di studio, e le varie elaborazioni dei dati vengono riformulate in una nuova versione, offerta ai lettori con grande chiarezza e capacità comunicativa.
«Prima di tutto», avverte l’autore, «occorre comprendere che l’ebraismo è un complesso di elementi cognitivi, esperienziali ed affettivi. Può essere, quindi, osservato e classificato, ma anche percepito e vissuto, sia come un insieme di individui separati sia come un collettivo consolidato e più o meno coerente». È lo stesso oggetto dell’indagine, quindi, a essere, per sua stessa natura, prismatico e sfuggente a un preciso e definito inquadramento categoriale.
L’identità, ricorda l’autore, determina generalmente dei comportamenti, delle azioni: «Se una persona crede in un atto o in un oggetto simbolico o reale, è probabile, anche se non certo, che questa credenza si manifesti in modo concreto e quindi misurabile». Ma può anche accadere il contrario: può infatti «verificarsi anche un’influenza simmetrica, se e quando le convinzioni, le emozioni o i sentimenti interiori (identità) diventano la conseguenza piuttosto che la causa delle opinioni espresse o delle azioni manifestate (identificazione)». Ossia, «in seguito alla ripetizione magari formale e meccanica di atti o di opinioni, una persona può finire per immedesimarvisi”.
La ricerca di Della Pergola, perciò, va necessariamente al di là dell’ambito meramente sociologico e demoscopico, investendo anche i molteplici aspetti intellettuali ed emotivi scaturenti dalla “diade contenuti-identificazione”, e collegandosi a domande di tipo interiore e psicologico: che cosa gli ebrei pensano sia l’ebraismo? perché sono legati all’ebraismo? come esprimono la loro identificazione con esso?
Attraverso pagine di rara lucidità analitica, basate un una rigorosa documentazione e corredate da immagini e grafici di grande utilità didattica, l’autore fa emergere un quadro denso di aporie e contraddizioni, che spesso sorprenderà anche chi pretenda di avere un po’ di esperienza in materia di ebraismo.
Impossibile, ovviamente, sintetizzare in poche righe i risultati della ricerca, anche perché essi appaiono costellati di punti interrogativi. «Come già più volte in passato», conclude l’autore, «i drammi e i dilemmi che coinvolgono la compagine ebraica, e i modi con cui questi sono affrontati nel dominio pubblico, finiscono per costituire una cartina di tornasole della coscienza e della civiltà del presente, e allo stesso tempo interrogano la storia mettendo in discussione alcune delle categorie con le quali l’abbiamo fin qui letta. Da qui dovrà partire domani una nuova pagina sull’essere ebrei oggi».
Diciamo solo che il volume fa capire tantissimo non solo sull’ebraismo, ma anche su quel “resto del mondo” che ad esso si mostra, da sempre, tanto interessato, spesso in modo malato, torbido e morboso. E che dovrebbe essere letto da chiunque voglia capire qualcosa di più di quella “coscienza e civiltà del presente” di cui la percezione dell’ebraismo rappresenta la “cartina di tornasole”.
Italia-Israele, il Comune di Udine nega il patrocinio: "E’ uno stato in guerra". Monfalcone: “Li ospitiamo noi”
L'amministrazione comunale di Udine non ha concesso il patrocinio per la partita di calcio tra Italia e Israele, match valido per la Nations League e in programma nella città friulana il prossimo 14 ottobre. La richiesta, arrivata dalla Federcalcio, è stata negata in quanto non rientra fra le modalità prevista dal regolamento per la concessione del patrocinio da parte dell'ente, che può essere concesso solo per iniziative che non hanno scopo di lucro.
• Il sindaco di Udine: "Israele è in guerra, il patrocinio potrebbe creare divisioni"
La giunta comunale non ha concesso una deroga prevista in caso di evento benefico e per la rilevanza di prestigio di immagine per la città non ritenuta tale in relazione al conflitto israelo-palestinese. "Una deroga al regolamento, concedendo il patrocinio, sarebbe stata una scelta troppo divisiva, essendo Israele uno Stato in guerra. La nostra scelta poteva essere diversa solo se a oggi fosse stato annunciato un cessate il fuoco. Purtroppo così non è", ha spiegato il sindaco di Udine, Alberto Felice De Toni. "La concessione del patrocinio, più che fornire prestigio alla città, potrebbe creare divisioni e quindi problemi sociali", ha aggiunto.
• La risposta di Monfalcone: "Pronti a ospitare la nazionale di Israele"
A fare da contraltare al diniego di Udine è arrivata la proposta della ex sindaca di Monfalcone, oggi parlamentare europea, Anna Maria Cisint, che ha offerto la disponibilità della città a ospitare l’evento o, quantomeno, la nazionale di Israele: "La città di Monfalcone sarebbe sommamente onorata ad ospitare l'incontro Italia-Israele e si rende disponibile a offrire patrocinio e strutture per celebrare questo importante appuntamento sportivo. Il Comune di Udine non perde occasione per distinguersi in termini di faziosità e nella capacità di alimentare divisioni a senso unico, sempre dalla parte delle posizioni più estreme della sinistra. Non accorgersi che lo sport è un elemento di unione e dimenticare che Israele è la vittima del terrorismo di Hamas con 1500 innocenti uccisi è un segno grottesco di una caduta di civiltà che una città come Udine non merita di dover sopportare", ha scritto polemicamente in una nota.
I parenti degli ostaggi diffondono nuove foto: “Ecco la loro prigionia”
Le immagini trovate dall’Idf a Gaza sono state usate dalle famiglie per chiedere a Netanyahu di concludere i negoziati. Intanto crescono le proteste contro il richiamo alla leva per i giovani ortodossi
di Rossella Tercatin
GERUSALEMME — Ferite, bende e sguardi spaventati. Le immagini della prigionia delle cinque soldatesse israeliane rapite il 7 ottobre fotografano l’angoscia di Liri Albag, Karina Ariev, Agam Berger, Daniela Gilboa e Naama Levy nelle mani di Hamas. Le ragazze, tra i 19 e i 20 anni, stavano svolgendo il servizio di leva. Le prime quattro appaiono in una stanza sedute su materassini per terra. Di Naama è stata pubblicata un’immagine separata. Le foto risalgono a diversi mesi fa e sono state ritrovate dall’esercito israeliano nella Striscia. A sceglierle di diffonderle oggi sono state le famiglie nella speranza di mantenere viva l’attenzione sul dramma degli ostaggi che ad oggi sono ancora 120.
«Potete vedere Karina e le sue amiche nei loro primi giorni di reclusione», ha detto con voce rotta il padre, Albert Ariev. «Karina con uno sguardo esausto e disperato, ha una fasciatura sulla testa. Sulla gamba si possono vedere macchie di sangue fresco. Ci sono i segni delle manette e il gonfiore sui polsi indica che è stata legata per molto tempo». Già a maggio le famiglie avevano reso pubblico il video del rapimento del 7 ottobre. Dopo 284 giorni trascorsi nei tunnel di Gaza, i genitori sono tornati ad appellarsi al primo ministro Benjamin Netanyahu — che si prepara a volare negli Usa la settimana prossima per tenere un discorso al Congresso — per chiedere un accordo che riporti a casa le figlie. «Il premier mi ha chiesto di unirmi a lui», ha dichiarato Ayelet Levy Shachar, madre di Naama. «Gli ho spiegato che non mi è possibile e che non mi sentirò a mio agio con lui finché non avrò visto che i negoziati saranno completati». Nella stessa giornata Netanyahu è stato contestato con fischi e urla alla commemorazione per i soldati caduti nell’operazione Margine Protettivo contro Gaza nel 2014.
Intanto, secondo la Cnn, la Cia ritiene cheil leader di Hamas Yahya Sinwar stia sperimentando una pressione crescente da parte dei suoi per accettare l’accordo per il cessate il fuoco. Il direttore William Burns avrebbe dichiarato che sebbene Sinwar non tema di essere ucciso, la frustrazione dei palestinesi nei suoi confronti per la morte e distruzione subiti da Gaza stia aumentando a dismisura. Secondo fonti della Striscia ieri i bombardamenti israeliani hanno provocato la morte di 57 persone. Burns avrebbe detto che la chance di un accordo è la più alta da mesi a questa parte. Un discorso che fa eco al messaggio rivolto alle famiglie degli ostaggi dal ministro della Difesa Yoav Gallant, secondo cui il risultato è più vicino che mai. «È fondamentale fare ogni sforzo prima del viaggio del premier a Washington. Dopo, sarà molto più difficile».
Secondo quanto riportato dalla stampa israeliana, l’Idf sarebbe sempre più convinta che il capo dell’ala militare di Hamas Muhammad Deif sia rimasto effettivamente ucciso nel raid israeliano dello scorso sabato. Uno sviluppo che potrebbe favorire il raggiungimento del cessate il fuoco in virtù dell’indebolimento del gruppo terrorista. In Israele nel frattempo alcuni manifestanti ultraortodossi hanno bloccato l’autostrada 4 vicino alla città di Bnei Brak, per protestare contro il tentativo di arruolare gli studenti delle yeshivot (scuole rabbiniche) finora esenti dalla leva, per alleviare la carenza di soldati durante la guerra.
Bat Ye’or, ovvero «Figlia del Nilo», è autrice di studi pionieristici sulla condizione sociale delle minoranze religiose nel mondo islamico. È lei ad aver introdotto i termini «dhimmitudine» ed «Eurabia». Col primo si indica lo stato di sottomissione al dominio islamico di territori e popolazioni; col secondo la teoria geopolitica che mira alla fusione delle due sponde del Mediterraneo. I lavori di Bat Ye’or sono pubblicati in Italia dall’editore Lindau di Torino.
- Nel suo lavoro, specialmente nel celebre “Eurabia”, lei ha messo in evidenza la natura antisionista e filo-araba dell’Unione Europea. Puoi spiegarci, in generale, quali sono gli interessi che legano l’Europa al mondo arabo? Gli interessi sono variati dagli anni ’60, quando la strategia di Eurabia fu elaborata. Tuttavia, non è nata dal nulla. Già dalla Prima Guerra Mondiale, in termini energetici, il petrolio era un elemento essenziale dello sviluppo industriale ed economico per l’Europa e motivava una politica di avvicinamento euro-arabo. D’altra parte, la Francia e la Gran Bretagna erano imperi musulmani già nel XIX secolo, abitati da numerose popolazioni musulmane, le cui metropoli temevano l’ostilità religiosa. Dopo la decolonizzazione, i paesi europei vollero creare con i paesi musulmani una politica mediterranea privilegiata, che escludesse gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Questa strategia fu rivendicata dai circoli gollisti negli anni ’60 ed era accompagnata da una vasta gamma di relazioni commerciali, politiche, strategiche e culturali privilegiate.
Sul piano religioso, l’intero mondo cristiano, in particolare il Vaticano, e il mondo musulmano si sono opposti al sionismo sin dalle sue prime manifestazioni. Solo pochi movimenti di minoranze cristiane erano a favore. Dopo la Dichiarazione di Balfour e la Dichiarazione di Sanremo (1920), che ratificarono la creazione di un futuro Stato Ebraico, si stabilì una collaborazione antisemita internazionale islamo-cristiana. Collaborazione che si manifestò alla Conferenza di Evian (1938) con il rifiuto dei paesi occidentali, compresi gli Stati Uniti, di accogliere gli ebrei tedeschi e austriaci perseguitati dal regime nazista. Nei paesi arabi, prima e durante la Seconda Guerra Mondiale, le masse arabe e musulmane si entusiasmavano del nazismo e del fascismo; i leader politici e militari arabi suggellarono alleanze con i nazisti, i fascisti e i collaborazionisti. Nel 1947, due anni dopo la pace, la giudeofobia era ancora diffusa in Europa, mantenuta dagli stessi funzionari collaborazionisti rimasti al loro posto dopo la guerra e legati ai popoli arabi dalla stessa ideologia di sterminio del popolo ebraico. La sopravvivenza di Israele dopo l’aggressione di cinque eserciti arabi ben equipaggiati militarmente e sostenuti in Palestina dalle milizie arabo-naziste di Amin al-Husseini (1947-1948), avvenne nonostante l’Europa. Tutti i documenti di quel periodo lo confermano. Da qui la creazione di un organo del tutto speciale, l’UNRWA, per accogliere gli arabi della Palestina che fuggivano dai combattimenti nei paesi arabi fratelli di cui avevano preteso l’intervento militare per sterminare gli ebrei.
Dal 1967-1969 vediamo la rinascita, nella Francia gollista, di queste reti di collaborazione euro-arabe forgiate dall’alleanza dei nazisti con i popoli arabi nella comune volontà politica genocidaria del popolo ebraico. Questa situazione è stata denunciata e combattuta da intellettuali e politici. Il 15 dicembre 1973, a Copenhagen, i nove paesi della Comunità Europea presero ufficialmente le parti dell’OLP e nel settembre del 1977 una dichiarazione in tal senso venne fatta all’ONU. Oramai, gli arabi di Palestina, Arafat e l’OLP incarnano l’arma di distruzione dello Stato d’Israele in favore del movimento antisemita europeo che, sotto la copertura di antisionismo, può esprimersi apertamente nel contesto di una politica convergente dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri. Questa tendenza diventa molto popolare in Europa ed è una mappa essenziale della sua politica.
- L’Unione Europea si è dimostrata ostile alle sovranità nazionali, considerate eredità di un passato da abbandonare a favore di istituzioni sovranazionali. Israele, al contrario, è uno stato nazionale geloso della sua indipendenza e dotato di una forte identità. In che misura ritiene che i pregiudizi antinazionali dell’Unione Europea abbiano pesato sulla sue relazione con lo Stato Ebraico? Non credo che questi pregiudizi antinazionali abbiano avuto molta influenza sull’antisionismo europeo. L’Europa stessa promuove un nazionalismo inesistente, lo pseudo-palestinismo, che ha creato e sostiene a suon di miliardi. D’altra parte, tutti i paesi arabi sono ultra-nazionalisti, così come la Turchia, la Cina, il Giappone e molti altri paesi. L’Unione Europea vuole sopprimere le frontiere del suo continente, riprendendo un progetto creato nel 1938 da Walter Hallstein che promuoveva un’Europa senza frontiere guidata dal 3 ° Reich e Judenrein. Hallstein, che fu un eminente nazista, fu eletto dai leader europei primo presidente della Commissione europea (1956-67).
Nonostante il fallimento del comunismo, l’internazionalismo fu promosso dai partiti di sinistra. Bruno Kreisky, presidente dell’Internazionale socialista E diventato cancelliere austriaco (1970-83), rafforzò i legami della sinistra occidentale con il mondo islamico. Egli fu il primo statista a invitare Arafat alle Nazioni Unite e a dare una legittimità all’OLP, il cui progetto di sradicamento dello Stato Ebraico fu incarnato dal suo leader, Yasser Arafat, sostenuto dall’Unione Sovietica. Io credo che sia stato il progetto di Hallstein insieme alla politica di fusione e di collaborazione con il mondo arabo a determinare la retorica di un’Europa senza frontiere dall’insieme dei movimenti politici europei. I documenti dell’epoca menzionano la volontà di creare un potente blocco europeo in grado di competere con l’America che sarebbe collegato con gli Stati produttori di petrolio.
- Quale futuro geopolitico e demografico prospetta per il Vecchio Continente? Se le decisioni politiche prese dal 1973 che posero in essere la guerra nascosta dell’UE contro Israele – svelata pubblicamente dalla politica di Donald Trump nel corso della sua presidenza – e che sono state la base dei meccanismi dell’immigrazione musulmana di massa in Europa, con le trasformazioni sociali, religiose, legali e culturali conseguenti, saranno mantenute dalla élite al potere, il futuro è chiaro. Sarà quello del Libano, del declino dell’Europa nella dhimmitudine. Già da molto tempo il terrore jihadista ha soppiantato l’inviolabilità dei diritti umani in Europa, incluso il diritto elementare di ciascuno alla sicurezza.
- Può approfondire questo parallelo col Libano? Le nostre società sono fratturate dall’adesione di milioni di immigrati alla Sharia e dai loro legami con i loro paesi di origine ostili all’Occidente e alla sua civiltà giudeo-cristiana. La partecipazione europea allo jihad contro Israele ha pervertito i valori occidentali a tutti i livelli e diffuso i concetti islamici della cultura e della storia, che oggi impregnano l’Europa. Questa politica fu scientemente concepita, studiata e applicata in tutti i campi, dai comitati congiunti euro-arabi del Dialogo Euro-Arabo creati nel 1974 a Parigi sotto l’egida della Commissione europea, ed è il motivo per cui i capi di stato hanno piena responsabilità per le sue conseguenze. Dal 1973 l’Unione Europea ha instaurato un rapporto di vassallaggio con l’Organizzazione della Cooperazione Islamica, da cui derivano alcuni vantaggi economici nel breve termine a scapito dei suoi interessi nel lungo termine.
- In tutta Europa, compresa l’Italia, gli intellettuali che criticano l’Islam e il multiculturalismo sono censurati, denunciati e messi a tacere. Basti pensare a Robert Redeker, Eric Zemmour, Georges Bensoussan, Magdi Allam e molti altri. Quale sarà il ruolo del dissenso intellettuale nell’emergente Europa post-identitaria? Io stessa sono stata criminalizzata senza prove, vittima di incitamenti all’odio e di ingerenze illegali ed erronee nella mia vita privata. Queste sono accuse, che non subiscono nemmeno i criminali protetti dalla presunzione di innocenza, hanno reso necessarie misure di protezione. Tale azione piena di odio mirava a screditare tutte le mie ricerche sulla dhimmitudine e la sua espansione in Europa tramite le reti del dialogo euro-mediterraneo guidate dalla Commissione europea e dalla Lega araba. Il totalitarismo intellettuale imposto dal pensiero unico e refrattario a tutte le riflessioni che lo contraddicono mi ha messa al bando dalla società. Essendo ebrea sono stata accusata di complottismo, un’accusa razzista contro gli ebrei proveniente dagli antisemitismi cristiani, ma ancora più virulenta nell’Islam. Pertanto mi considero vittima di un razzismo giudeofobico che ha sporcato il mio onore e la mia reputazione professionale.
Il ruolo della dissidenza intellettuale dovrà seguire criteri specifici in un’Europa che ha già adottato e integrato a livello sociale, giuridico, culturale e politico, alcuni vincoli della Sharia, dei concetti e comportamenti musulmani tradizionali nei confronti dei dhimmi, dei cristiani, degli ebrei e dei musulmani accusati di apostasia, nei confronti delle donne e del Dar al-Harb, il territorio della miscredenza. A ciò si aggiunge una visione della storia e dei diritti dell’uomo secondo i principi della Sharia, vale a dire della fede e quindi, fondamentalmente, opposti ai criteri occidentali. Inoltre, sarà necessario conoscere l’ideologia jihadista che introduce l’inversione delle nozioni di aggressore e di aggredito, d’innocenza e di colpa, di giustizia e di crimine.
- Cosa dovranno fare gli intellettuali? La dissidenza intellettuale dovrà definire i suoi obiettivi: difendere i suoi diritti democratici e i valori etici della civiltà giudaico-cristiana occidentale. Dovrà conoscere il suo campo di battaglia, che è quello di una dhimmitudine che lei rifiuta per rimanere libera e sfuggire al destino degli ebrei e dei cristiani ridotti allo stato di fossili dalle leggi del jihad e del dhimmitudine. Dovrà integrare e comprendere queste nozioni nella loro storicità e nella loro nocività politica attuale e individuare i loro canali di trasmissione, generalmente legati alla corruzione e all’antisemitismo. Dovrà accogliere i musulmani che prendono parte a questa guerra, perché non è una guerra contro l’islam, è una guerra per mantenere le nostre libertà e le nostre identità. I popoli d’Europa hanno il diritto di rifiutare la dhimmitudine. Tuttavia, tutto ciò di cui vi sto parlando è completamente ignorato dal grande pubblico e dagli intellettuali. E non ci si può opporre a qualcosa che non si vede, che non si capisce e per la quale non esiste una definizione. Ecco perché temo che quella che dovrebbe essere una battaglia di idee si trasformi in una confusione violenta che farà molte vittime innocenti senza portare progressi.
- Nel suo libro più famoso, “Eurabia”, ha anche toccato il tema dell’islamizzazione dei patriarchi biblici e di Gesù. Un movimento che ha espresso posizioni anti-israeliane e antisemite, Black Lives Matter, denuncia le rappresentazioni “bianche” di Gesù. Vede, in questo atteggiamento, un nuovo tentativo di espropriare gli occidentali dalla loro cultura?
Il movimento Black Lives Matter è un movimento violento infiltrato dall’islamismo e dal palestinismo, che sfruttano uno storico conflitto americano per incitare all’odio contro i cristiani, gli ebrei e in generale contro i bianchi americani, al fine di seminare il caos attraverso conflitti razziali e etnici per distruggere l’America. La denuncia di Gesù “bianco” aggiunge un elemento razziale alla giudeofobia e alla cristianofobia islamica che islamizza la Bibbia, cioè le basi dell’ebraismo e del cristianesimo, per impiantarci l’Islam. Molti afroamericani si oppongono a questo movimento che ha incendiato anche le capitali europee. Personalmente, non avrei alcuna obiezione alla rappresentazione umana di Gesù sotto una forma africana se ciò può servire ad avvicinarlo ai cristiani africani. Per i credenti cristiani Gesù è Dio incarnato e il suo messaggio come ebreo è universale.
Mi permetta un’osservazione sul mio libro Eurabia. È forse il più famoso, ma non è il più importante per me. Attribuisco questo ruolo a Il Declino della Cristianità sotto l’Islam, dal jihad alla dhimmitudine , perché è lì che definisco il concetto cruciale di dhimmitudine come caratteristica storica delle popolazioni sconfitte dal jihad in tre continenti, L’Africa, L’Asia e L’Europa. Lì sviluppo gli argomenti e fornisco I criteri. Per me Eurabia è stato uno studio delle manifestazioni della dhimmitudine nel ventesimo secolo in alcuni paesi europei che non furono conquistati dal jihad e i cui governi l’hanno accolta con entusiasmo. Eurabia esamina principalmente la Francia, ma un’analisi degli altri paesi della comunità, l’Italia ai tempi di Aldo Moro (Lodo Moro) e di Giulio Andreotti, della Gran Bretagna, dei paesi scandinavi, in particolare della Norvegia (non membro della UE), darebbe un’immagine molto più cupa.
- Lei ha conosciuto Oriana Fallaci? Puoi dirci qual è il suo ricordo della grande giornalista italiana? Non ho mai incontrato Oriana. Si è messa in contatto con me qualche tempo prima di morire attraverso un amico comune che conosceva il mio lavoro e le ha dato il mio indirizzo. Oriana mi scriveva spesso per informazioni. Soffriva enormemente per non poter tornare in Italia e soprattutto per l’odio che il mondo politico aveva per lei in quel momento, lei capiva molto bene cosa sarebbe successo in futuro. L’incubo che aveva di vedere distruggere la magnifica Italia con i suoi monumenti, le sue opere d’arte, la ricchezza senza pari del suo patrimonio storico, la tormentava incessantemente. Ho provato a consolarla, ma non sono sofferenze che le parole possano lenire.
La Francia ebraica allo specchio del voto: davvero il suo futuro è sempre più fosco?
di Ilaria Myr
«Marine Le Pen sconfitta». «Francia: la destra non sfonda». «La destra si può battere» (Elly Schlein, PD). «La verità è che nessuno può cantare vittoria» (Giorgia Meloni, FdI). Sono solo alcuni dei titoli e delle dichiarazioni uscite subito dopo l’annuncio dei risultati ufficiali delle elezioni legislative in Francia, che si sono svolte su due turni, e che hanno visto il Nuovo Fronte Popolare, costituito dalle forze di sinistra, guadagnare più seggi e il Rassemblement National di Marine Le Pen, uscito vincitore al primo turno, arrivare terzo, addirittura dietro al partito del presidente Emmanuel Macron. Un risultato, però, che non vede un vincitore con la maggioranza assoluta e che sta dividendo l’opinione pubblica francese. A questo si aggiungano le frizioni interne al Nuovo Fronte Popolare, con le diverse componenti in disaccordo su premier e programmi, e l’ingovernabilità è servita. Perché quello che unisce il blocco di sinistra – di cui è capofila La France Insoumise del discusso Jean-Luc Mélenchon - è un’idea sola: fare sbarramento all’estrema destra del RN.
• IL VOTO EBRAICO Al secondo turno, dunque, i francesi si sono trovati a dover scegliere fra un blocco di destra e uno di sinistra, con i partiti più estremisti in testa. Ma come hanno reagito le diverse anime della comunità ebraica francese (ed europea)? Il dibattito è stato molto acceso e di fatto la comunità ebraica francese si sente minacciata dai fondamentalisti islamici, ma è anche scettica nei confronti della nuova narrazione filo-israeliana dell’estrema destra del Rassemblement National.
Non a caso il Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni Ebraiche di Francia (CRIF), aveva esortato la comunità a respingere entrambi gli schieramenti. Jean-Luc Mélenchon, nel suo discorso di vittoria, ha promesso di riconoscere uno Stato palestinese, aumentando ulteriormente le preoccupazioni del 92% degli ebrei francesi, convinti che la retorica dell’estrema sinistra abbia contribuito all’aumento dell’antisemitismo.
Dal canto suo, Marine Le Pen ha cercato di migliorare l’immagine del suo partito, rinunciando all’antisemitismo, denunciando l’attacco di Hamas e adottando una posizione pro-Israele. Tanto che di fronte all’ascesa di La France Insoumise, alcune importanti voci ebraiche hanno invitato a votare per il partito di Le Pen. Una è quella di Serge Klarsfeld, noto cacciatore di nazisti in Francia, che ha motivato la sua decisione con la difesa della memoria ebraica e di Israele, ritenendo che l’estrema sinistra sia accusata di antisemitismo e violento antisionismo per attirare i voti degli elettori di origine maghrebina e islamica.
Ma ha fatto lo stesso anche il controverso intellettuale Alain Finkielkraut, che ha dichiarato di esservi costretto non essendoci alternative, descrivendo questa decisione come un «incubo». «Preferirei la destra all’antisemitismo del Fronte Popolare – ha dichiarato in un’intervista sul Corriere della Sera –. Povera Francia, lacerata dagli estremi. Io sono un conservatore, vedo la lingua, la cultura, la nazione disfarsi».
• INTERVISTA A GEORGES BENSOUSSAN
Come dunque hanno votato gli ebrei francesi? Lo abbiamo chiesto a Georges Bensoussan, storico francese di origine marocchina e da anni attento osservatore delle tendenze sociali in Francia, legate in particolare alla componente musulmana.
- Si aspettava un risultato come quello uscito dal secondo turno? No. Solo negli ultimi giorni ho capito che il Rassemblement National avrebbe potuto non vincere, visto il battage mediatico martellante che ha avuto contro, tutto giocato sulla paura degli elettori nei confronti di un partito definito fascista. Ma non pensavo che il Nuovo Fronte Popolare sarebbe arrivato in testa. Detto questo, si deve precisare che l’avanzata di questa coalizione non è considerevole come si crede, perché i risultati ci dicono che il primo partito in Francia è il RN, mentre i gruppi che compongono il blocco di sinistra hanno tutti ottenuto meno deputati del partito della Le Pen. La maggior parte delle persone, poi, non considera che nel primo turno del 30 giugno il Rassemblement National ha avuto più voti del blocco di sinistra (33,14% contro 27,99%, ndr). Quello che è sorprendente, e che viene annunciato a gran voce sui giornali, è che ha vinto la coalizione di sinistra, quando in realtà il paese è molto a destra, fronte rappresentato dal RN, dalla destra repubblicana e da una grande parte del partito del presidente Macron. Quindi il paradosso a cui assistiamo è che la sinistra grida alla vittoria quando in realtà sociologicamente ha perso le elezioni. Basta vedere come quest’anno abbia preso meno voti di 20 anni fa, quando gli elettori erano meno, 38 milioni contro i 49 milioni di oggi. Ciò è dovuto sicuramente al sistema elettorale francese, ma anche al fatto che fra i due turni il ritornello dominante sui media è stato di fare sbarramento all’estrema destra e perché il Fronte Popolare è una coalizione basata sul rifiuto del RN, e non su un progetto politico condiviso. Il RN non solo è il primo partito in Francia, ma è quello in maggiore espansione: ha avuto 55 deputati in più della precedente assemblea, e in tre anni è passato dai sette deputati nel 2021 ai 142 di oggi. Una crescita enorme…
- Come spiegare una crescita tale del RN? La politica borghese francese delle grandi metropoli, che sia di destra o sinistra, non sa più parlare alle classi popolari e a buona parte della classe media, che si sentono abbandonate e non rappresentate dalle classi borghesi delle grandi città, sempre di più ripiegate su sé stesse e sul proprio modo di vivere. Attenzione, però: non è l’immigrazione che spiega il voto al RN, quanto l’abbandono dei servizi pubblici – posta, mezzi di trasporto, polizia – nelle zone più periferiche, tanto che è emerso che più ci si allontana da una stazione ferroviaria più è forte il voto al RN. Basta guardare i risultati per capire che i voti di Parigi sono esattamente il contrario di quelli del resto della Francia: nella capitale il RN è al 7% mentre nelle altre zone del Paese è fra il 35 e il 38%. Di fatto è la classe borghese che è stata rifiutata dal voto al RN, ma questo voto popolare non è andato ai partiti della sinistra, sentita come non più rappresentante delle classi popolari: una sinistra “bobo” (da ‘bourgeois’ e ‘bohemian’, ndr), che vota per i matrimoni gay, per l’accoglienza degli immigrati (che vanno però a insediarsi nei quartieri più poveri) e che non si occupa assolutamente delle questioni che interessano le realtà più svantaggiate. Quindi la scelta di votare RN è popolare e antiborghese, e non, come si è voluto fare credere, un voto fascista. Il risultato è che le classi popolari hanno l’impressione che il loro voto sia stato scippato.
- Cosa ha pesato di più per gli ebrei: la minaccia dell’estrema destra o quella dell’estrema sinistra? In realtà il RN di Marine le Pen non è più percepito da molti ebrei come una minaccia, come un partito di estrema destra né tantomeno fascista: lo considerano piuttosto populista-autoritario. Inoltre, se è vero che nelle file del RN ci sono degli antisemiti (ad aprile, pochi giorni dopo lo stupro di una dodicenne ebrea con movente antisemita, ha dovuto ritirare il sostegno a uno dei suoi candidati, Joseph Martin, che aveva pubblicato un messaggio antisemita sui social network nel 2018. ndr), è anche vero che la sua dirigenza ha rotto con l’antisemitismo e dal 7 ottobre ha avuto delle posizioni impeccabili nei confronti di Israele.
Quello che è lampante è che il voto ebraico rispecchia esattamente quello dei francesi: l’establishment borghese rappresentato dalle istituzioni ha fatto appello a fare sbarramento, non votando né per l’una né per l’altra parte (vedi l’appello del Crif, ndr), ma le comunità “di base” hanno votato RN o Reconquete di Éric Zemmour. Quindi le comunità ebraiche popolari non ascoltano più le indicazioni delle istituzioni ebraiche, così come le classi popolari non seguono più le direttive della classe borghese veicolate dai media benpensanti. La discriminante è l’antisemitismo: ma mentre RN ha fatto – sinceramente o meno non ci è dato sapere – una pulizia degli elementi antisemiti, non si può dire lo stesso della France Insoumise. E poi ci sono gli interessi di classe, e come gli altri francesi molti ebrei non vedono i propri interessi rappresentati e non vogliono una Francia invasa dagli immigrati e islamizzata.
- Secondo lei l’antisemitismo, molto spesso camuffato da antisionismo, nella sinistra e in LFI, rappresenta una minaccia per le comunità ebraiche? Assolutamente sì, una minaccia evidente e forte. Non sarebbe però giusto dire che tutto il blocco di sinistra è antisemita e neanche che lo è LFI. Quel che è certo è che soprattutto il partito di Mélenchon sfrutta il fatto che la popolazione francese è sempre più musulmana: gli ultimi dati del Ministero degli interni stimano che un francese su 5 sia musulmano. Mélenchon ha fatto il calcolo che alle presidenziali del 2022 gli mancavano 300.000 voti per arrivare al secondo turno, e gli strateghi del partito hanno capito perfettamente che li avrebbero trovati nelle banlieue musulmane. Da qui l’ossessione per Gaza, il promesso riconoscimento della Palestina, la presenza di Rima Hassan (l’avvocatessa franco-palestinese e attivista antisraeliana, diventata eurodeputata con LFI alle ultime europee e fotografata con la kefiah al collo vicino a Mélenchon, ndr). Non penso neanche che lui sia antisemita, ma sicuramente gioca sull’antisemitismo, sulla Palestina e su Gaza per portare i voti al suo partito, ben sapendo che i pregiudizi antisemiti sono molto forti nelle famiglie musulmane in Francia. Di fatto si serve dell’antisemitismo come di un trampolino elettorale.
Per gli ebrei francesi è dunque molto pericoloso perché demograficamente non pesano più nulla: si pensa siano circa 400.000 (ma le statistiche etniche sono vietate in Francia), mentre circa 70.000 hanno lasciato il Paese fra il 2020 e il 2023 per Israele, e molti altri per gli Stati Uniti o l’Australia, e si sa che ci sono oggi più di 15.000 richieste di aliyà per Israele in attesa. Quindi si stima che in 25 anni un quinto degli ebrei se ne sarà andato altrove.
Dal canto suo, l’elettorato non musulmano di LFI ha una grande simpatia per la causa palestinese, e quando ci sono dichiarazioni antisemite del partito non vuole vederle, preferendo parlare di antisionismo. Molto forte è il nocciolo profondamente antiisraeliano, che vede in Israele il seguito della colonizzazione francese in Algeria, il colonizzatore bianco, razzista. Cosa che – e in pochi lo dicono -, permette di sbarazzarsi del senso di colpa per la Shoah: “voi ebrei, vittime di ieri, siete i carnefici di oggi, quindi lasciateci stare con la Shoah, non vi state comportando meglio dei nazisti”.
- Cosa augura all’ebraismo francese? Pensa che gli ebrei debbano andare in Israele, come hanno invitato a fare alcuni personaggi pubblici francesi e israeliani, oppure che possano continuare a vivere in Francia? La soluzione non è quella di partire: si deve rimanere, difendendo la vita ebraica e prendendo le misure necessarie per contrastare le manifestazioni di antisemitismo. Ma certo non è facile, vista anche la crescita della popolazione arabo-musulmana. Allo stesso tempo, Israele non è una soluzione per tutti: il costo della vita è altissimo e sia le persone meno abbienti che la classe media non possono permettersi molte cose, come acquistare un appartamento, andare a mangiare fuori, ecc… Quindi gli ebrei francesi sono condannati alla doppia pena: o restano in Francia e subiscono l’antisemitismo, oppure vanno in Israele ma, se non hanno abbastanza mezzi economici, vivono una vita povera. Per questo molti scelgono altre mete.
Per chi rimarrà in Francia, l’unica possibilità sarà diventare invisibile, vivere raggruppati e nel modo più discreto possibile: si toglierà la mezuzà dalle porte, non si metterà il ciondolo con il Magen David o la kippà, e quando si ordinerà un Uber si darà un nome francese. Già ora è una comunità che si sta abituando a vivere all’ombra. E lo sarà sempre di più.
Anche la piazza e la partecipazione alle manifestazioni contro l’antisemitismo ci dimostrano che il clima sta cambiando in peggio. Quello che è sorprendente è che dopo lo stupro della ragazzina ebrea di 12 anni, l’80% dei partecipanti scesi in piazza era costituito da ebrei; soltanto 30 anni fa, nel 1990, per la violazione del cimitero di Carpentras (era stato profanato un cadavere) c’era un milione di persone nelle strade, tra cui moltissimi non ebrei… Persino il Presidente della Repubblica François Mitterrand era sceso in piazza. Invece, alla manifestazione del novembre scorso contro l’antisemitismo Emmanuel Macron ha rifiutato di partecipare.
Gli ebrei a mano a mano stanno capendo che dietro alle belle parole, l’apparato statale li sta abbandonando: non per antisemitismo, ma a causa del rapporto di forza con il mondo musulmano. In questo contesto gli ebrei non contano più niente.
La sorte di Mohammed Deif: ucciso secondo fonti israeliane, si attendono conferme
di Luca Spizzichino
Secondo l’intelligence israeliana, Mohammed Deif, capo militare di Hamas a Gaza, è rimasto ucciso nel raid di sabato scorso di Mawasi nel sud della Striscia. È quanto ha riferito Channel 12. Una fonte autorevole ha sottolineato che è molto probabile che Deif sia stato ucciso nell’attacco, ma che la conferma non è ancora arrivata, ha riferito l’emittente statale israeliana KAN.
Secondo l’Idf infatti, “è certo” che Deif e il comandante del Battaglione Khan Yunis di Hamas Rafa Salameh fossero nello stesso edificio colpito. Ieri l’esercito ha confermato l’uccisione di Salameh. Al contrario per il terrorista soprannominato “Il fantasma”, manca ancora un annuncio ufficiale.
Nelle scorse ore anche dall’intelligence americana sono arrivate “indicazioni” che Israele abbia eliminato il capo militare di Hamas. “Ci sono ancora molte domande sui risultati degli attacchi contro Mohammed Deif”, ha detto l’ambasciatore statunitense in Israele Jack Lew in un briefing per la comunità ebraica americana ospitato dalla Casa Bianca. “Non posso confermare se hanno avuto successo o meno, ma ci sono indicazioni che ci siano riusciti”.
Ieri sera, il Capo di Stato Maggiore dell’IDF Herzi Halevi ha detto che Hamas stava “cercando di nascondere i risultati” dell’attacco. I media israeliani affermano che Hamas sta facendo di tutto per nascondere la sorte di Deif, anche sorvegliando gli ingressi e le uscite dell’ospedale dove vengono curati i feriti nell’attacco.
Isolazionista, contrario all’invio di armi all’Ucraina, ma favorevole al sostegno a Israele, il mondo comincia a scoprire J.D. Vance, il senatore trentanovenne scelto da Donald Trump come candidato vicepresidente per la corsa alla Casa Bianca.
Nella prima intervista dopo la nomina, Fox News ha chiesto a Vance cosa pensa del conflitto a Gaza. «Joe Biden ha reso la vittoria d’Israele sempre più difficile», ha commentato il candidato vicepresidente. «Vogliamo che Israele concluda questa guerra il più rapidamente possibile, perché più si protrae, più la loro situazione diventa difficile. Ma in secondo luogo, dopo la guerra, vogliamo rinvigorire il processo di pace tra Israele, Arabia Saudita, Giordania e così via».
Nei mesi scorsi Vance ha contestato la gestione dell’amministrazione Biden del conflitto, criticando le pressioni esercitate dalla Casa Bianca su Gerusalemme per un uso più limitato della forza a Gaza. «Penso che il nostro atteggiamento dovrebbe essere: «Non siamo bravi a gestire le guerre in Medio Oriente, gli israeliani sono nostri alleati, lasciamo che portino avanti questa guerra nel modo che ritengono più opportuno», ha dichiarato in un’intervista alla Cnn. Per il numero due del ticket repubblicano «se vogliamo imparare la lezione degli ultimi 40 anni, la cosa più importante è sconfiggere Hamas come organizzazione militare». Tenendo presente «l’impossibilità di sconfiggere l’ideologia» dei terroristi palestinesi, bisogna concentrarsi sull’eliminazione «dei comandanti e dei battaglioni addestrati». «Penso dovremmo dare agli israeliani il potere di fare tutto questo».
Ultraconservatore cattolico, in un intervento al Quincy Institute di Washington ha delineato la sua visione del legame con Israele. «Il motivo principale per cui gli americani si preoccupano di Israele è che siamo ancora il paese a maggioranza cristiana più grande del mondo. Questo significa che la maggioranza dei cittadini americani pensa che il loro salvatore – e io mi considero un cristiano – sia nato, morto e risorto in quella piccola striscia di territorio sul Mediterraneo. L’idea che ci sarà mai una politica estera americana che non si preoccupi di quella fetta di mondo è assurda», ha dichiarato Vance. Nello stesso discorso al Quincy Institute, il senatore dell’Ohio è tornato sulla sua decisione di bloccare per settimane un pacchetto sicurezza a favore d’Israele e Ucraina. «È strano che Washington dia per scontato che Israele e Ucraina siano esattamente la stessa cosa. Non lo sono, ovviamente, e credo che sia importante analizzarli separatamente». Dopo aver ribadito il sostegno alla guerra a Hamas, il candidato vicepresidente ha detto di «ammirare gli ucraini che stanno combattendo contro la Russia. Non credo però che sia interesse dell’America continuare a finanziare una guerra di fatto infinita in Ucraina».
A maggio la Cnn ha chiesto a Vance di commentare un’incendiaria dichiarazione di qualche settimana prima di Trump sul voto ebraico negli Usa. Secondo il candidato repubblicano «i democratici odiano Israele» e quindi «ogni ebreo che vota per i democratici odia la propria religione. Odiano tutto ciò che riguarda Israele e dovrebbero vergognarsi perché Israele sarà distrutto». Per il senatore dell’Ohio le dichiarazioni di Trump sono comprensibili. «Penso sia ragionevole guardare a questa situazione e dire che se sei un americano ebreo che si preoccupa dello stato di Israele, che si preoccupa di queste rivolte antisemite (le manifestazioni propalestinesi nei campus universitari), dovresti stare dalla parte dei repubblicani nel 2024».
Sinwar "sotto pressione" e Deif disperso: il crollo della leadership di Hamas
Secondo la Cia, i comandanti di Hamas starebbero cercando di convincere il loro capo ad accettare un accordo di tregua. Ancora incertezza sulla sorte di Mohammed Deif, bersaglio del raid israeliano del 13 luglio.
Sono due le persone in cima alla lista dei bersagli di Israele: il capo di Hamas a Gaza Yahya Sinwar e il leader delle brigate al-Qassam Mohammed Deif. Sono ritenuti i responsabili principali dei massacri del 7 ottobre e sin dall’inizio della guerra il governo ebraico ha indicato la loro eliminazione come uno degli obiettivi principali dello sforzo bellico.
• Yahya Sinwar: il capo di Hamas nascosto e sotto pressione Secondo l’intelligence americana, Yahya Sinwar si nasconderebbe nella rete di tunnel sotto Khan Younis, la sua città natale, e sarebbe l’elemento chiave per la buona riuscita dei negoziati per un cessate il fuoco. Stando a quanto affermato dal direttore della Cia Bill Burns, il capo di Hamas starebbe anche subendo pressioni interne dai suoi stessi comandanti, stanchi di combattere, affinché accetti un accordo per porre fine al conflitto.
Secondo il capo dei servizi segreti statunitensi, che ha parlato al ritiro estivo annuale della Allen & Company a Sun Valley, questa è una situazione completamente inedita di cui entrambe le parti in guerra dovrebbero approfittare per trovare un’intesa.
Nel corso dei mesi, gli 007 israeliani hanno provato più volte a catturare il leader dell’organizzazione terroristica. Nel febbraio scorso, le Idf sono riuscite a penetrare in uno dei suoi covi, dove si era nascosto facendosi scudo con 12 ostaggi. È stato ipotizzato che si fosse spostato a Rafah o che fosse riuscito a lasciare la Striscia e a rifugiarsi in Egitto. Dall’inizio della guerra, Sinwar ha anche inviato numerosi messaggi ai mediatori palestinesi e agli alti ufficiali di Hamas in esilio, nei quali ha sottolineato che l’alto numero di vittime civili a Gaza, definite come “sacrifici necessari”, hanno fatto il gioco del movimento islamista perché hanno aumentato la pressione internazionale sullo Stato ebraico.
• Mohammed Deif: il "fantasma" potrebbe essere morto Mohammed Deif è considerato la mente dietro gli attacchi del 7 ottobre. Sabato 13 luglio, le forze israeliane hanno effettuato un raid aereo nella zona di al-Mawasi, colpendo un edificio in cui si era nascosto assieme al capo della brigata Khan Younis di Hamas Rafa’a Salameh. La morte di quest’ultimo è stata confermata, mentre la sorte del “fantasma di Gaza” è ancora avvolta da un velo di incertezza.
Stando a quanto riportato da Channel 12, la valutazione unanime degli organi di sicurezza israeliani è che Deif sia stato ucciso. Le Idf, inoltre, sarebbero “certe” della presenza di entrambi gli alti ufficiali di Hamas nella struttura colpita al momento dell’attacco. In una conferenza stampa tenutasi alcune ore dopo il bombardamento, il premier Benjamin Netanyahu aveva dichiarato che “non era ancora del tutto certo” che il comandante delle brigate al-Qassam fosse stato eliminato. Secondo il capo di Stato maggiore ebraico Herzi Halevi, inoltre, l’organizzazione terroristica “ha cercato di nascondere” i risultati dell’attacco.
Se la morte di Deif dovesse essere confermata, sarebbe un colpo molto duro per la catena di comando del gruppo islamista, già decimata da una serie di raid mirati delle forze di Tel Aviv sia a Gaza, sia in Cisgiordania, come parte della "strategia della decapitazione".
Una start-up israeliana chiamata "Day 8" trasforma i rifiuti agricoli in proteine. Il mercato per questo prodotto potrebbe essere enorme - l'industria alimentare è già interessata. «Di rifiuti facciamo oro», dicono i fondatori, il cui nome dell'azienda si riferisce al racconto biblico della creazione.
"Day 8" è il nome della start-up israeliana che produce ricercate proteine dai rifiuti agricoli. Gli israeliani Dana Marom e Daniel Rejzner hanno sviluppato un processo industriale per estrarre la proteina RuBisCO dalle foglie verdi di vari frutti e ortaggi come spinaci, banane, pomodori e mais.
La RuBisCO è una delle proteine più abbondanti sulla terra. Le sue proprietà di digeribilità, emulsionabilità e schiumosità sono simili a quelle delle proteine animali come l'albume d'uovo e la caseina. Tuttavia, nonostante la sua diffusione, non è la proteina vegetale preferita dall'industria alimentare.
Uno dei motivi è che si trova solo in piccole quantità (dall'1 al 5%) nelle foglie. Le cellule delle foglie devono essere aperte per l'estrazione, al fine di rimuovere la cellulosa, la clorofilla, i polifenoli e altri componenti senza denaturare la proteina. L'estrazione è quindi molto costosa. È qui che entra in gioco la start-up israeliana "Day 8", fondata nell'estate del 2023.
• “I profitti sono incredibilmente alti" Da un lato, i fondatori utilizzano i rifiuti agricoli, che sono disponibili a un prezzo inferiore. Dall'altro, hanno sviluppato un processo di estrazione più efficiente. Tuttavia, non vogliono rivelare alcun dettaglio.
Il cofondatore Rejzner ha dichiarato al quotidiano economico israeliano "Globes": "Secondo i nostri calcoli, ogni anno possono essere utilizzati 2,7 miliardi di tonnellate di rifiuti agricoli. Crediamo che su larga scala potremo raggiungere prezzi paragonabili a quelli delle proteine di soia sfuse, che costano tra i 3 e i 5 dollari al chilo". Rejzner ha fondato "Day 8" insieme alla collega Dana Marom, che ha già una vasta esperienza internazionale nel campo della produzione di proteine di soia.
Per ogni chilogrammo di banane, c'è mezzo chilogrammo di foglie, che gli agricoltori devono costantemente tagliare, spiega Rejzner. "Si tratta di rifiuti organici che non nutrono il suolo e non portano alcun beneficio all'agricoltore. Per noi inveceè un tesoro. I profitti che se ne possono ricavare sono altissimi. Stimiamo che il potenziale di produzione di proteine dalle sole banane valga circa 7 miliardi di dollari". "Trasformare i rifiuti in oro" è lo slogan sicuro di sé sul sito web dell'azienda.
"Day 8" sembra adattarsi perfettamente a un momento in cui le persone sono alla ricerca di nuovi "superalimenti" ricchi di proteine, ecologici e privi di allergeni. La proteina ottenuta è una polvere incolore, non ha sapore ed è priva di allergeni. Il mercato delle cosiddette "proteine alternative" ha un valore stimato di 18 miliardi di dollari all'anno; la domanda globale di queste proteine è aumentata enormemente negli ultimi anni.
La start-up "Day 8" ha sede nel centro tecnologico "The Kitchen Food Tech Hub" di Rechovot, nel centro di Israele. Il centro di start-up è stato fondato nel 2015 per riunire le aziende del settore food tech. Ha fornito a "Day 8" l'equivalente di circa 600.000 euro di finanziamenti anticipati.
Attualmente Day 8 sta cercando di portare la nuova tecnologia su scala industriale e di richiedere i brevetti per avviare la produzione industriale. Finora sono stati individuati più di 20 potenziali clienti dell'industria alimentare che potrebbero voler integrare la proteina nei loro alimenti.
• Sostituire i sottoprodotti dell'industria lattiero-casearia I prodotti alimentari ad alto contenuto proteico sono già molto popolari, come yogurt e frullati, polveri proteiche e barrette. Le proteine utilizzate oggi sono per lo più sottoprodotti dell'industria lattiero-casearia. "Possiamo sostituirle con quelle che estraiamo dalle foglie", dice Rejzner.
Un altro vantaggio della produzione di "proteine alternative" è la riduzione del consumo di uova. "Le uova sono un problema per le fabbriche alimentari", spiega Rejzner. "Si teme la salmonella, devono essere refrigerate e ci sono problemi di sicurezza alimentare". Una polvere proteica che sostituisca le uova sarebbe quindi molto gradita all'industria alimentare.
Il prodotto della start-up israeliana potrebbe anche servire come alternativa alla carne e al latte. "Le bevande di maggior successo su questo mercato sono il latte di soia, il latte di mandorla, il latte di avena e così via. Ma hanno uno svantaggio: non si possono montare. La nostra proteina fa una buona schiuma e non ha un sapore proprio", spiega il 47enne.
Il nome "Day 8" si riferisce alla settimana di sette giorni della storia biblica della creazione, spiega Rejzner. "Il mondo fu creato perfettamente in sette giorni. L'ottavo giorno il testimone è stato passato a noi e ora dobbiamo prendercene cura".
(Israelnetz, 16 luglio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Washington, Rights Reporter – Secondo una nota dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti nella serata di lunedì, i massimi funzionari statunitensi e israeliani hanno tenuto un incontro alla Casa Bianca incentrato sulla lotta contro le minacce poste dall’Iran.
Si è trattato dell’ultima riunione del Gruppo consultivo strategico USA-Israele. Avrebbe dovuto riunirsi il mese scorso, ma gli Stati Uniti hanno rimandato la riunione dopo che il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha accusato pubblicamente l’amministrazione Biden di non fornire armi a Israele.
Il team statunitense era guidato dal consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan e dal segretario di Stato americano Antony Blinken, mentre il team israeliano era guidato dal consigliere per la sicurezza nazionale Tzachi Hanegbi e dal ministro per gli Affari strategici Ron Dermer. A loro si sono aggiunti alti rappresentanti delle rispettive agenzie di politica estera, difesa e intelligence.
Hanegbi e Dermer hanno tenuto un incontro più ristretto proprio con Blinken.
Durante il Gruppo Consultivo Strategico, Sullivan ha riaffermato il ferreo impegno del Presidente [Joe] Biden per la sicurezza di Israele, anche di fronte ai continui e sconsiderati attacchi contro Israele da parte degli Hezbollah libanesi. Ha sottolineato che Israele ha tutto il diritto di difendersi da questi attacchi e ha affermato il sostegno degli Stati Uniti a una risoluzione diplomatica che permetta alle famiglie israeliane e libanesi di tornare in sicurezza alle loro case, si legge nel comunicato della Casa Bianca.
I due hanno anche discusso degli sviluppi relativi al programma nucleare iraniano e hanno discusso del coordinamento reciproco su una serie di misure volte a garantire che l’Iran non possa mai acquisire un’arma nucleare, si legge ancora nel comunicato.
Le parti hanno discusso degli sforzi in corso per garantire un accordo per il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi, con la parte israeliana che ha ribadito il suo sostegno alla proposta presentata da Biden a maggio.
Netanyahu ha dichiarato sabato di non essersi allontanato di un “millimetro” dalla proposta israeliana sostenuta da Biden.
Tuttavia, ha elencato una serie di nuove richieste che sembrano andare oltre quanto scritto nel testo della proposta ottenuto dal Times of Israel.
Prima di Hamas, nessun’altra organizzazione militare aveva costruito una guerra sul “sacrificio necessario” del proprio popolo.
di Giulio Meotti
Altri cento terroristi di Hamas figurano fra i dipendenti dell'ONU a Gaza. Sono stati trovati i loro documenti che ne confermano l'identità. E' la prova ulteriore che le agenzie ONU, soprattutto UNRWA (che l'Italia continua a finanziare), a Gaza sono colluse con il terrorismo di Hamas.
Israele ha indicato altri cento dipendenti dell’agenzia delle Nazioni Unite a Gaza come membri di Hamas e ha chiesto che fossero licenziati. Si tratta solo di “una frazione” del numero reale di membri dell’organizzazione terroristica, si legge in una lettera al capo dell’agenzia Unrwa, Philippe Lazzarini. Israele ha inviato l’elenco anche ai paesi che aderiscono all’agenzia dell’Onu come donatori, molti dei quali – tra cui Stati Uniti e Regno Unito – hanno congelato i propri finanziamenti dopo gli attacchi di Hamas. Dopo il 7 ottobre era emerso infatti che dodici dipendenti delle Nazioni Unite avevano legami con Hamas.
Il recente elenco inviato a Lazzarini fa nomi, passaporti e numeri di carta d’identità militare di cento terroristi di Hamas a libro paga dell’Onu. Non sembra un caso che il corpo dell’ostaggio tedescoisraeliano Shani Louk sia stato trovato in un edificio dell’Unrwa finanziato con i soldi dei contribuenti tedeschi.
Intanto Mohammad Deif, il comandante supremo delle Brigate Izzadin al Qassam, ala militare di Hamas, è stato preso di mira in un attacco aereo israeliano, sabato mattina, nella zona di Khan Yunis, nel sud della striscia di Gaza, in cui sono morti numerosi civili palestinesi. Insieme a Deif (ricercato da trent’anni come uno dei maggiori responsabili del terrorismo di Hamas), era nel mirino anche Rafa’a Salameh, suo braccio destro e comandante della Brigata Khan Yunis di Hamas. I due si nascondevano in zona civile, le aree di al Mawasi e Khan Younis occidentale, che fanno parte della zona umanitaria designata da Israele. Deif è sulla lista dei massimi ricercati da Israele sin dal 1995 per il suo coinvolgimento nella pianificazione ed esecuzione di un grande numero di attacchi terroristici, compresi molti attentati sugli autobus negli anni 90 e all’inizio degli anni 2000. Deif ha svolto un ruolo di primissimo piano nell’organizzare la carneficina perpetrata da Hamas il 7 ottobre. “Hamas non deve nascondersi tra i civili – ha affermato persino un portavoce di Fatah, citato da Maariv – Perché Deif era nel campo di Al-Mawasi?”.
Un’indagine approfondita del New York Times rivela le tattiche di combattimento di Hamas nella Striscia di Gaza che si basano sul massiccio uso della popolazione civile come scudi umani. Il reportage, basato sull’analisi di video di Hamas e interviste a combattenti di Hamas e a soldati israeliani, descrive uno sfruttamento sistematico per scopi militari dei civili e delle loro infrastrutture, incolpando di fatto Hamas per la guerra in corso, le distruzioni, le morti e gli sfollamenti di popolazione. Il New York Times conferma che Hamas nasconde terroristi, pozzi d’ingresso ai tunnel e depositi di munizioni dentro edifici residenziali, strutture mediche, uffici delle Nazioni Unite e moschee, abolendo intenzionalmente il confine tra combattenti e non combattenti. Il reportage rivela che i terroristi di Hamas indossano spesso abiti civili, a volte anche sandali e tute da ginnastica, prima di sparare contro i soldati israeliani o lanciare razzi da aree civili. Hamas usa anche i civili, compresi bambini, come “vedette” e “informatori”. Prima di Hamas, nessun’altra organizzazione militare aveva costruito una guerra sul “sacrificio necessario” del proprio popolo.
Eden Golan ha rivelato che durante il suo soggiorno a Malmö, per gareggiare all’Eurovision Song Contest, doveva spesso indossare un travestimento per girare per la città. In un post sulla sua pagina Instagram giovedì, Golan ha raccontato di aver indossato una parrucca e un paio di occhiali per alterare il suo aspetto per motivi di sicurezza mentre le proteste anti-israeliane infuriavano nella città svedese.
“Sono passati due mesi dalla finale dell’Eurovision. Due mesi dal folle viaggio che è diventato la mia missione nazionale e personale. Un viaggio emotivo, potente, complesso e impegnativo in un anno che sapevo sarebbe stato diverso da qualsiasi altro – ha scritto Golan – Ho pensato a lungo a quale immagine condividere qui e ho scelto un momento che inizialmente mi sembrava assurdo e divertente, ma non meno spaventoso e pericoloso. Molti sanno che eravamo circondati dalle migliori guardie di sicurezza sempre presenti per proteggere la nostra delegazione, ma non sanno di alcuni momenti in cui ho dovuto travestirmi per uscire liberamente per la città”.
La cantante israeliana ha aggiunto: “La paura che mi riconoscessero a causa del paese da cui provengo, che fa parte di me e mi rende orgogliosa, è incomprensibile per me. Purtroppo, siamo tornati ai momenti in cui una donna ebrea e israeliana deve nascondersi per non essere ferita. Per me, questo è stato un momento che ricorderò per tutta la vita. So che verranno giorni migliori. Prego ogni giorno che arrivino presto. Non dimenticheremo mai quello che abbiamo passato, ma troveremo la forza di andare avanti”.
La cantante ha deciso di sfogarsi sui social a ormai due mesi dalla fine dell’Eurovision, che l’ha vista tra i maggiori protagonisti della gara canora. Una responsabilità importante quella di rappresentare Israele all’Eurovision, in un momento di forte crescita di antisemitismo e antisionismo.