L'Eterno è giusto in tutte le sue vie
e benigno in tutte le sue opere.
L'Eterno è vicino a tutti quelli che lo invocano,
a tutti quelli che lo invocano in verità.
Or la nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe; e prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo.
E Giuseppe, suo marito, essendo uomo giusto e non volendo esporla ad infamia, si propose di lasciarla occultamente.
Ma mentre aveva queste cose nell'animo, ecco che un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prender con te Maria tua moglie; perché ciò che in lei è generato, è dallo Spirito Santo.
Ed ella partorirà un figlio, e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati.
Or tutto ciò avvenne, affinché si adempiesse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele, che, interpretato, vuol dire: «Iddio con noi».
SALMO 145
Io ti esalterò, o mio Dio, mio Re, e benedirò il tuo nome in eterno.
Ogni giorno ti benedirò e loderò il tuo nome per sempre.
L'Eterno è grande e degno di somma lode, e la sua grandezza non si può investigare.
Un'età dirà all'altra le lodi delle tue opere e farà conoscere le tue gesta.
Io mediterò sul glorioso splendore della tua maestà
GENESI 2
L’Eterno Iddio formò l'uomo dalla polvere della terra,
gli soffiò nelle narici un alito vitale e l'uomo divenne un'anima vivente
ISAIA 53
Egli è cresciuto davanti a lui come un germoglio, come una radice che esce da un arido suolo.
GIOVANNI 20
Allora Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre mi ha mandato, anch'io mando voi”.
Detto questo, soffiò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”.
PROVERBI 8
Quando egli disponeva i cieli io ero là; quando tracciava un cerchio sulla superficie dell'abisso,
quando condensava le nuvole in alto, quando rafforzava le fonti dell'abisso,
quando assegnava al mare il suo limite perché le acque non oltrepassassero il suo cenno, quando poneva i fondamenti della terra,
io ero presso di lui come un artefice, ero sempre esuberante di gioia, mi rallegravo in ogni tempo nel suo cospetto;
mi rallegravo nella parte abitabile della sua terra, e trovavo la mia gioia tra i figli degli uomini.
GENESI 2
E udirono la voce dell'Eterno Iddio, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l'uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza dell'Eterno Iddio fra gli alberi del giardino.
GIOVANNI 3
Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito figlio affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna.
1 CORINZI 15
Così anche sta scritto: «Il primo uomo, Adamo, divenne anima vivente»; l'ultimo Adamo è spirito vivificante”.
GENESI 3
E io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la sua progenie; questa ti schiaccerà il capo, e tu le ferirai il calcagno”.
ISAIA 7
Perciò il Signore stesso vi darà un segno: ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele.
GIOVANNI 12
“Se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo, ma, se muore, produce molto frutto" .
ESODO 3
E l'Eterno disse: “Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto, e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; perché conosco i suoi affanni;
e sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani.
ESODO 29
Sarà un olocausto perenne offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io vi incontrerò per parlare con te.
E là io mi troverò con i figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
E dimorerò in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per dimorare tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro
GIOVANNI 1
E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Quelli dunque i quali accettarono la sua parola furono battezzati; e in quel giorno furono aggiunte a loro circa tremila persone.
Ed erano perseveranti nell'attendere all'insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nel rompere il pane e nelle preghiere.
E ogni anima era presa da timore; e molti prodigi e segni eran fatti dagli apostoli.
E tutti quelli che credevano erano insieme, ed avevano ogni cosa in comune;
e vendevano le possessioni ed i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.
E tutti i giorni, essendo di pari consentimento assidui al tempio, e rompendo il pane nelle case, prendevano il loro cibo assieme con gioia e semplicità di cuore,
lodando Iddio, e avendo il favore di tutto il popolo. E il Signore aggiungeva ogni giorno alla loro comunità quelli che erano sulla via della salvezza.
ATTI 4
E la moltitudine di coloro che avevano creduto, era d'un sol cuore e d'un'anima sola; né v'era chi dicesse sua alcuna delle cose che possedeva, ma tutto era comune tra loro.
E gli apostoli con gran potenza rendevano testimonianza della risurrezione del Signor Gesù; e gran grazia era sopra tutti loro.
Poiché non v'era alcun bisognoso fra loro; perché tutti coloro che possedevano poderi o case li vendevano, portavano il prezzo delle cose vendute,
e lo mettevano ai piedi degli apostoli; poi, era distribuito a ciascuno, secondo il bisogno.
LUCA 2
Or in quella medesima contrada vi erano dei pastori che stavano nei campi e facevano di notte la guardia al loro gregge.
E un angelo del Signore si presentò ad essi e la gloria del Signore risplendé intorno a loro, e temettero di gran timore.
E l'angelo disse loro: Non temete, perché ecco, vi reco il buon annuncio di una grande gioia che tutto il popolo avrà:
Oggi, nella città di Davide, v'è nato un salvatore, che è Cristo, il Signore.
MATTEO 2
Or essendo Gesù nato in Betlemme di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
Dov'è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo veduto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo.
Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
E radunati tutti i capi sacerdoti, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
Ed essi gli dissero: In Betlemme di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
e mandandoli a Betlemme, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima gioia.
Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.
ATTI 8
Coloro dunque che erano stati dispersi se ne andarono di luogo in luogo, annunziando la Parola. E Filippo, disceso nella città di Samaria, vi predicò il Cristo.
E le folle di pari consentimento prestavano attenzione alle cose dette da Filippo, udendo e vedendo i miracoli che egli faceva.
Poiché gli spiriti immondi uscivano da molti che li avevano, gridando con gran voce; e molti paralitici e molti zoppi erano guariti.
E vi fu grande gioia in quella città.
ATTI 13
Ma Paolo e Barnaba dissero loro francamente: Era necessario che a voi per i primi si annunziasse la parola di Dio; ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco, noi ci volgiamo ai Gentili.
Perché così ci ha ordinato il Signore, dicendo: Io ti ho posto per esser luce dei Gentili, affinché tu sia strumento di salvezza fino alle estremità della terra.
E i Gentili, udendo queste cose, si rallegravano e glorificavano la parola di Dio; e tutti quelli che erano ordinati a vita eterna, credettero.
E la parola del Signore si spandeva per tutto il paese.
Ma i Giudei istigarono le donne pie e ragguardevoli e i principali uomini della città, e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba, e li scacciarono dai loro confini.
Ma essi, scossa la polvere dei loro piedi contro loro, se ne vennero ad Iconio.
E i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.
ROMANI 15
Or l'Iddio della pazienza e della consolazione vi dia d'avere fra voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù,
affinché di un solo animo e di una stessa bocca glorifichiate Iddio, il Padre del nostro Signor Gesù Cristo.
Perciò accoglietevi gli uni gli altri, siccome anche Cristo ha accolto noi per la gloria di Dio;
poiché io dico che Cristo è stato fatto ministro dei circoncisi, a dimostrazione della veracità di Dio, per confermare le promesse fatte ai padri;
mentre i Gentili hanno da glorificare Dio per la sua misericordia, secondo che è scritto: Per questo ti celebrerò fra i Gentili e salmeggerò al tuo nome.
Ed è detto ancora: Rallegratevi, o Gentili, col suo popolo.
E altrove: Gentili, lodate tutti il Signore, e tutti i popoli lo celebrino.
E di nuovo Isaia dice: Vi sarà la radice di Iesse, e Colui che sorgerà a governare i Gentili; in lui spereranno i Gentili.
Or l'Iddio della speranza vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nel vostro credere, onde abbondiate nella speranza, mediante la potenza dello Spirito Santo.
Soltanto, comportatevi in modo degno del vangelo di Cristo, affinché, sia che io venga a vedervi sia che io resti lontano, senta dire di voi che state fermi in uno stesso spirito, combattendo insieme con un medesimo animo per la fede del vangelo,
per nulla spaventati dagli avversari. Questo per loro è una prova evidente di perdizione; ma per voi di salvezza; e ciò da parte di Dio.
Perché vi è stata concessa la grazia, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui,
sostenendo voi pure la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e nella quale ora sentite dire che io mi trovo.
FILIPPESI, cap. 2
Se dunque v'è qualche incoraggiamento in Cristo, se vi è qualche conforto d'amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione,
rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento.
Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso,
cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri.
Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù,
il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente,
ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini;
trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce.
Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome,
affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra,
e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre.
Così, miei cari, voi che foste sempre ubbidienti, non solo come quando ero presente, ma molto più adesso che sono assente, adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore;
infatti è Dio che produce in voi il volere e l'agire, secondo il suo disegno benevolo.
Fate ogni cosa senza mormorii e senza dispute,
perché siate irreprensibili e integri, figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa, nella quale risplendete come astri nel mondo,
tenendo alta la parola di vita, in modo che nel giorno di Cristo io possa vantarmi di non aver corso invano, né invano faticato.
Ma se anche vengo offerto in libazione sul sacrificio e sul servizio della vostra fede, ne gioisco e me ne rallegro con tutti voi;
e nello stesso modo gioitene anche voi e rallegratevene con me.
Buona cosa è celebrare l'Eterno,
e salmeggiare al tuo nome, o Altissimo;
proclamare la mattina la tua benignità,
e la tua fedeltà ogni notte,
sul decacordo e sul saltèro,
con l'accordo solenne dell'arpa!
Poiché, o Eterno, tu m'hai rallegrato col tuo operare;
io celebro con giubilo le opere delle tue mani.
Come son grandi le tue opere, o Eterno!
I tuoi pensieri sono immensamente profondi.
L'uomo insensato non conosce
e il pazzo non intende questo:
che gli empi germoglian come l'erba
e gli operatori d'iniquità fioriscono,
per esser distrutti in perpetuo.
Ma tu, o Eterno, siedi per sempre in alto.
Poiché, ecco, i tuoi nemici, o Eterno,
ecco, i tuoi nemici periranno,
tutti gli operatori d'iniquità saranno dispersi.
Ma tu mi dai la forza del bufalo;
io son unto d'olio fresco.
L'occhio mio si compiace nel veder la sorte di quelli che m'insidiano,
le mie orecchie nell'udire quel che avviene ai malvagi che si levano contro di me.
Il giusto fiorirà come la palma,
crescerà come il cedro sul Libano.
Quelli che son piantati nella casa dell'Eterno
fioriranno nei cortili del nostro Dio.
Porteranno ancora del frutto nella vecchiaia;
saranno pieni di vigore e verdeggianti,
per annunziare che l'Eterno è giusto;
egli è la mia ròcca, e non v'è ingiustizia in lui.
Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno.
GENESI 6
Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo.
Il Signore si pentì d'aver fatto l'uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo.
E il Signore disse: «Io sterminerò dalla faccia della terra l'uomo che ho creato: dall'uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti».
Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore.
GENESI 12
Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
ESODO 3
Il Signore disse: «Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni.
Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei.
E ora, ecco, le grida dei figli d'Israele sono giunte a me; e ho anche visto l'oppressione con cui gli Egiziani li fanno soffrire.
Or dunque va'; io ti mando dal faraone perché tu faccia uscire dall'Egitto il mio popolo, i figli d'Israele».
ESODO 6
Il Signore disse a Mosè: «Ora vedrai quello che farò al faraone; perché, forzato da una mano potente, li lascerà andare: anzi, forzato da una mano potente, li scaccerà dal suo paese».
Dio parlò a Mosè e gli disse: «Io sono il Signore.
Io apparvi ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe, come il Dio onnipotente; ma non fui conosciuto da loro con il mio nome di Signore.
Stabilii pure il mio patto con loro, per dar loro il paese di Canaan, il paese nel quale soggiornavano come forestieri.
Ho anche udito i gemiti dei figli d'Israele che gli Egiziani tengono in schiavitù e mi sono ricordato del mio patto.
Perciò, di' ai figli d'Israele: "Io sono il Signore; quindi vi sottrarrò ai duri lavori di cui vi gravano gli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi salverò con braccio steso e con grandi atti di giudizio.
DEUTERONOMIO 8
Abbiate cura di mettere in pratica tutti i comandamenti che oggi vi do, affinché viviate, moltiplichiate ed entriate in possesso del paese che il Signore giurò di dare ai vostri padri.
Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, il tuo Dio, ti ha fatto fare in questi quarant'anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti.
Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per insegnarti che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che vive di tutto quello che procede dalla bocca del Signore.
Nel deserto ti ha nutrito di manna che i tuoi padri non avevano mai conosciuta, per umiliarti e per provarti, per farti, alla fine, del bene.
Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te,
poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato.
E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo.
Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare.
Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse.
Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola.
Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te;
poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato.
Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi;
e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro.
Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi.
Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta.
Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza.
Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno.
Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Santificali nella verità: la tua parola è verità.
Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo.
E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola:
che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno;
io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato;
ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.
ATTI 10
Voi sapete quello che è avvenuto per tutta la Giudea cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni:
vale a dire, la storia di Gesù di Nazaret; come Dio l'ha unto di Spirito Santo e di potenza; e come egli è andato attorno facendo del bene, e guarendo tutti coloro che erano sotto il dominio del diavolo, perché Dio era con lui.
E noi siamo testimoni di tutte le cose ch'egli ha fatte nel paese dei Giudei e in Gerusalemme; ed essi l'hanno ucciso, appendendolo ad un legno.
Esso ha Dio risuscitato il terzo giorno, e ha fatto sì ch'egli si manifestasse
non a tutto il popolo, ma ai testimoni che erano prima stati scelti da Dio; cioè a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.
Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te,
poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato.
E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo.
Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare.
Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse.
Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola.
Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te;
poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato.
Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi;
e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro.
Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi.
Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta.
Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza.
Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno.
Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Santificali nella verità: la tua parola è verità.
Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo.
E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola:
che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno;
io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato;
ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.
'Quanto a te, parla ai figli d'Israele e di' loro: Badate bene d'osservare i miei sabati, perché il sabato è un segno fra me e voi per tutte le vostre generazioni, affinché conosciate che io sono l'Eterno che vi santifica.
Osserverete dunque il sabato, perché è per voi un giorno santo; chi lo profanerà dovrà essere messo a morte; chiunque farà in esso qualche lavoro sarà sterminato di fra il suo popolo.
Si lavorerà sei giorni; ma il settimo giorno è un sabato di solenne riposo, sacro all'Eterno; chiunque farà qualche lavoro nel giorno del sabato dovrà esser messo a morte.
I figli d'Israele quindi osserveranno il sabato, celebrandolo di generazione in generazione come un patto perpetuo.
Esso è un segno perpetuo fra me e i figli d'Israele; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli e la terra, e il settimo giorno cessò di lavorare, e si riposò'.
Quando l'Eterno ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli dette le due tavole della testimonianza, tavole di pietra, scritte col dito di Dio.
Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
Abramo partì, come il Signore gli aveva detto, e Lot andò con lui. Abramo aveva settantacinque anni quando partì da Caran.
Abramo prese Sarai sua moglie e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che possedevano e le persone che avevano acquistate in Caran, e partirono verso il paese di Canaan.
Giunsero così nella terra di Canaan, e Abramo attraversò il paese fino alla località di Sichem, fino alla quercia di More. In quel tempo i Cananei erano nel paese.
Il Signore apparve ad Abramo e disse: «Io darò questo paese alla tua discendenza». Lì Abramo costruì un altare al Signore che gli era apparso.
Di là si spostò verso la montagna a oriente di Betel, e piantò le sue tende, avendo Betel a occidente e Ai ad oriente; lì costruì un altare al Signore e invocò il nome del Signore.
MARCO 10
Mentre Gesù usciva per la via, un tale accorse e, inginocchiatosi davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?»
Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio.
Tu sai i comandamenti: "Non uccidere; non commettere adulterio; non rubare; non dire falsa testimonianza; non frodare nessuno; onora tuo padre e tua madre"».
Ed egli rispose: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia gioventù».
Gesù, guardatolo, l'amò e gli disse: «Una cosa ti manca! Va', vendi tutto ciò che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi».
Ma egli, rattristato da quella parola, se ne andò dolente, perché aveva molti beni.
Gesù, guardatosi attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno delle ricchezze entreranno nel regno di Dio!»
I discepoli si stupirono di queste sue parole. E Gesù replicò loro: «Figlioli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!
È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio».
Ed essi sempre più stupiti dicevano tra di loro: «Chi dunque può essere salvato?»
Gesù fissò lo sguardo su di loro e disse: «Agli uomini è impossibile, ma non a Dio; perché ogni cosa è possibile a Dio».
Pietro gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito».
Gesù rispose: «In verità vi dico che non vi è nessuno che abbia lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi, per amor mio e per amor del vangelo,
il quale ora, in questo tempo, non ne riceva cento volte tanto: case, fratelli, sorelle, madri, figli, campi, insieme a persecuzioni e, nel secolo a venire, la vita eterna.
Ma molti primi saranno ultimi e molti ultimi primi».
PROVERBI 10
Quel che fa ricchi è la benedizione dell'Eterno e il tormento che uno si dà non le aggiunge nulla.
Allora alcuni degli scribi e dei Farisei presero a dirgli: Maestro, noi vorremmo vederti operare un segno.
Ma egli rispose loro: Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona.
Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così starà il Figliuol dell'uomo nel cuor della terra tre giorni e tre notti.
I Niniviti risorgeranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno, perché essi si ravvidero alla predicazione di Giona; ed ecco qui vi è più che Giona!
GIONA
Capitolo 1
La parola dell'Eterno fu rivolta a Giona, figliuolo di Amittai, in questi termini:
'Lèvati, va' a Ninive, la gran città, e predica contro di lei; perché la loro malvagità è salita nel mio cospetto'.
Ma Giona si levò per fuggirsene a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno; e scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarsis; e, pagato il prezzo del suo passaggio, s'imbarcò per andare con quei della nave a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno.
Ma l'Eterno scatenò un gran vento sul mare, e vi fu sul mare una forte tempesta, sì che la nave minacciava di sfasciarsi.
I marinai ebbero paura, e ognuno gridò al suo dio e gettarono a mare le mercanzie ch'erano a bordo, per alleggerire la nave; ma Giona era sceso nel fondo della nave, s'era coricato, e dormiva profondamente.
Il capitano gli si avvicinò, e gli disse: 'Che fai tu qui a dormire? Lèvati, invoca il tuo dio! Forse Dio si darà pensiero di noi, e non periremo'.
Poi dissero l'uno all'altro: 'Venite, tiriamo a sorte, per sapere a cagione di chi ci capita questa disgrazia'. Tirarono a sorte, e la sorte cadde su Giona.
Allora essi gli dissero: 'Dicci dunque a cagione di chi ci capita questa disgrazia! Qual è la tua occupazione? donde vieni? qual è il tuo paese? e a che popolo appartieni?'
Egli rispose loro: 'Sono Ebreo, e temo l'Eterno, l'Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra ferma'.
Allora quegli uomini furon presi da grande spavento, e gli dissero: 'Perché hai fatto questo?' Poiché quegli uomini sapevano ch'egli fuggiva lungi dal cospetto dell'Eterno, giacché egli avea dichiarato loro la cosa.
E quelli gli dissero: 'Che ti dobbiam fare perché il mare si calmi per noi?' Poiché il mare si faceva sempre più tempestoso.
Egli rispose loro: 'Pigliatemi e gettatemi in mare, e il mare si calmerà per voi; perché io so che questa forte tempesta vi piomba addosso per cagion mia'.
Nondimeno quegli uomini davan forte nei remi per ripigliar terra; ma non potevano, perché il mare si faceva sempre più tempestoso e minaccioso.
Allora gridarono all'Eterno, e dissero: 'Deh, o Eterno, non lasciar che periamo per risparmiar la vita di quest'uomo, e non ci mettere addosso del sangue innocente; perché tu, o Eterno, hai fatto quel che ti è piaciuto'.
Poi presero Giona e lo gettarono in mare; e la furia del mare si calmò.
E quegli uomini furon presi da un gran timore dell'Eterno; offrirono un sacrifizio all'Eterno, e fecero dei voti.
Capitolo 4
Ma Giona ne provò un gran dispiacere, e ne fu irritato; e pregò l'Eterno, dicendo:
'O Eterno, non è egli questo ch'io dicevo, mentr'ero ancora nel mio paese? Perciò m'affrettai a fuggirmene a Tarsis; perché sapevo che sei un Dio misericordioso, pietoso, lento all'ira, di gran benignità, e che ti penti del male minacciato.
Or dunque, o Eterno, ti prego, riprenditi la mia vita; poiché per me val meglio morire che vivere'.
E l'Eterno gli disse: 'Fai tu bene a irritarti così?'
Poi Giona uscì dalla città, e si mise a sedere a oriente della città; si fece quivi una capanna, e vi sedette sotto, all'ombra, stando a vedere quello che succederebbe alla città.
E Dio, l'Eterno, per guarirlo della sua irritazione, fece crescere un ricino, che montò su di sopra a Giona per fargli ombra al capo; e Giona provò una grandissima gioia a motivo di quel ricino.
Ma l'indomani, allo spuntar dell'alba, Iddio fece venire un verme, il quale attaccò il ricino, ed esso si seccò.
E come il sole fu levato, Iddio fece soffiare un vento soffocante d'oriente, e il sole picchiò sul capo di Giona, sì ch'egli venne meno, e chiese di morire, dicendo: 'Meglio è per me morire che vivere'.
E Dio disse a Giona: 'Fai tu bene a irritarti così a motivo del ricino?' Egli rispose: 'Sì, faccio bene a irritarmi fino alla morte'.
E l'Eterno disse: 'Tu hai pietà del ricino per il quale non hai faticato, e che non hai fatto crescere, che è nato in una notte e in una notte è perito:
e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e tanta quantità di bestiame?'
Il Signore è la mia luce e la mia salvezza; di chi temerò? Il Signore è il baluardo della mia vita; di chi avrò paura?
Quando i malvagi, che mi sono avversari e nemici, mi hanno assalito per divorarmi, essi stessi hanno vacillato e sono caduti.
Se un esercito si accampasse contro di me, il mio cuore non avrebbe paura; se infuriasse la battaglia contro di me, anche allora sarei fiducioso.
Una cosa ho chiesto al Signore, e quella ricerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore, e meditare nel suo tempio.
Poich'egli mi nasconderà nella sua tenda in giorno di sventura, mi custodirà nel luogo più segreto della sua dimora, mi porterà in alto sopra una roccia.
E ora la mia testa s'innalza sui miei nemici che mi circondano. Offrirò nella sua dimora sacrifici con gioia; canterò e salmeggerò al Signore.
O Signore, ascolta la mia voce quando t'invoco; abbi pietà di me, e rispondimi.
Il mio cuore mi dice da parte tua: «Cercate il mio volto!» Io cerco il tuo volto, o Signore.
Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo;tu sei stato il mio aiuto; non lasciarmi, non abbandonarmi, o Dio della mia salvezza!
Qualora mio padre e mia madre m'abbandonino, il Signore mi accoglierà.
O Signore, insegnami la tua via, guidami per un sentiero diritto, a causa dei miei nemici.
Non darmi in balìa dei miei nemici; perché sono sorti contro di me falsi testimoni, gente che respira violenza.
Ah, se non avessi avuto fede di veder la bontà del Signore sulla terra dei viventi!
Spera nel Signore! Sii forte, il tuo cuore si rinfranchi; sì, spera nel Signore!
Or essendo Gesù nato in Betleem di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
Dov'è il re de' Giudei che è nato? Poiché noi abbiam veduto la sua stella in Oriente e siam venuti per adorarlo.
Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
E radunati tutti i capi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
Ed essi gli dissero: In Betleem di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
E tu, Betleem, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
e mandandoli a Betleem, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima allegrezza.
Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.
GIOVANNI 18
Poi, da Caiàfa, menarono Gesù nel pretorio. Era mattina, ed essi non entrarono nel pretorio per non contaminarsi e così poter mangiare la pasqua.
Pilato dunque uscì fuori verso di loro, e domandò: Quale accusa portate contro quest'uomo?
Essi risposero e gli dissero: Se costui non fosse un malfattore, non te lo avremmo dato nelle mani.
Pilato quindi disse loro: Pigliatelo voi, e giudicatelo secondo la vostra legge. I Giudei gli dissero: A noi non è lecito far morire alcuno.
E ciò affinché si adempisse la parola che Gesù aveva detta, significando di qual morte doveva morire.
Pilato dunque rientrò nel pretorio; chiamò Gesù e gli disse: Sei tu il Re dei Giudei?
Gesù gli rispose: Dici tu questo di tuo, oppure altri te l'hanno detto di me?
Pilato gli rispose: Son io forse giudeo? La tua nazione e i capi sacerdoti t'hanno messo nelle mie mani; che hai fatto?
Gesù rispose: il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perch'io non fossi dato in mano dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui.
Allora Pilato gli disse: Ma dunque, sei tu re? Gesù rispose: Tu lo dici; io sono re; io sono nato per questo, e per questo son venuto nel mondo, per testimoniare della verità. Chiunque è per la verità ascolta la mia voce.
Pilato gli disse: Che cos'è verità? E detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei, e disse loro: Io non trovo alcuna colpa in lui.
Ma voi avete l'usanza ch'io vi liberi uno per la Pasqua; volete dunque che vi liberi il Re de' Giudei?
Allora gridaron di nuovo: Non costui, ma Barabba! Or Barabba era un ladrone.
Parole dell'Ecclesiaste, figlio di Davide, re di Gerusalemme.
Vanità delle vanità, dice l'Ecclesiaste, vanità delle vanità, tutto è vanità.
Che profitto ha l'uomo di tutta la fatica che sostiene sotto il sole?
Una generazione se ne va, un'altra viene, e la terra sussiste per sempre.
Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo.
Il vento soffia verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri.
Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre.
Ogni cosa è in travaglio, più di quanto l'uomo possa dire; l'occhio non si sazia mai di vedere e l'orecchio non è mai stanco di udire.
Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c'è nulla di nuovo sotto il sole.
C'è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questo è nuovo?» Quella cosa esisteva già nei secoli che ci hanno preceduto.
Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi.
Io, l'Ecclesiaste, sono stato re d'Israele a Gerusalemme,
e ho applicato il cuore a cercare e a investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo: occupazione penosa, che Dio ha data ai figli degli uomini perché vi si affatichino.
Io ho visto tutto ciò che si fa sotto il sole: ed ecco tutto è vanità, è un correre dietro al vento.
Ciò che è storto non può essere raddrizzato, ciò che manca non può essere contato.
Io ho detto, parlando in cuor mio: «Ecco io ho acquistato maggiore saggezza di tutti quelli che hanno regnato prima di me a Gerusalemme; sì, il mio cuore ha posseduto molta saggezza e molta scienza».
Ho applicato il cuore a conoscere la saggezza, e a conoscere la follia e la stoltezza; ho riconosciuto che anche questo è un correre dietro al vento.
Infatti, dov'è molta saggezza c'è molto affanno, e chi accresce la sua scienza accresce il suo dolore.
ECCLESIASTE 2
Io ho detto in cuor mio: «Andiamo! Ti voglio mettere alla prova con la gioia, e tu godrai il piacere!» Ed ecco che anche questo è vanità.
Io ho detto del riso: «É una follia»; e della gioia: «A che giova?»
Perciò ho odiato la vita, perché tutto quello che si fa sotto il sole mi è divenuto odioso, poiché tutto è vanità, un correre dietro al vento.
ECCLESIASTE 12
Ascoltiamo dunque la conclusione di tutto il discorso: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto dell'uomo.
1 PIETRO 1
E se invocate come Padre colui che giudica senza favoritismi, secondo l'opera di ciascuno, comportatevi con timore durante il tempo del vostro soggiorno terreno;
sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri,
ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia.
Già designato prima della creazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi;
per mezzo di lui credete in Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria affinché la vostra fede e la vostra speranza fossero in Dio.
Avendo purificato le anime vostre con l'ubbidienza alla verità per giungere a un sincero amor fraterno, amatevi intensamente a vicenda di vero cuore,
perché siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè mediante la parola vivente e permanente di Dio.
Infatti, «ogni carne è come l'erba, e ogni sua gloria come il fiore dell'erba. L'erba diventa secca e il fiore cade;
ma la parola del Signore rimane in eterno». E questa è la parola della buona notizia che vi è stata annunziata.
1 CORINZI 15
Quando poi questo corruttibile avrà rivestito incorruttibilità e questo mortale avrà rivestito immortalità, allora sarà adempiuta la parola che è scritta: «La morte è stata sommersa nella vittoria».
«O morte, dov'è la tua vittoria? O morte, dov'è il tuo dardo?»
Ora il dardo della morte è il peccato, e la forza del peccato è la legge;
ma ringraziato sia Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo.
Perciò, fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.
Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù che sono disperse nel mondo: salute.
Fratelli miei, considerate una grande gioia quando venite a trovarvi in prove svariate,
sapendo che la prova della vostra fede produce costanza.
E la costanza compia pienamente l'opera sua in voi, perché siate perfetti e completi, di nulla mancanti.
Se poi qualcuno di voi manca di saggezza, la chieda a Dio che dona a tutti generosamente senza rinfacciare, e gli sarà data.
Ma la chieda con fede, senza dubitare; perché chi dubita rassomiglia a un'onda del mare, agitata dal vento e spinta qua e là.
Un tale uomo non pensi di ricevere qualcosa dal Signore,
perché è di animo doppio, instabile in tutte le sue vie.
Il fratello di umile condizione sia fiero della sua elevazione;
e il ricco, della sua umiliazione, perché passerà come il fiore dell'erba.
Infatti il sole sorge con il suo calore ardente e fa seccare l'erba, e il suo fiore cade e la sua bella apparenza svanisce; anche il ricco appassirà così nelle sue imprese.
Beato l'uomo che sopporta la prova; perché, dopo averla superata, riceverà la corona della vita, che il Signore ha promessa a quelli che lo amano.
E venuta l'ora sesta, si fecero tenebre per tutto il paese, fino all'ora nona.
E all'ora nona, Gesù gridò con gran voce: Eloì, Eloì, lamà sabactanì? il che, interpretato, vuol dire: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
E alcuni degli astanti, udito ciò, dicevano: Ecco, chiama Elia!
E uno di loro corse, e inzuppata d'aceto una spugna, e postala in cima ad una canna, gli diè da bere dicendo: Aspettate, vediamo se Elia viene a trarlo giù.
E Gesù, gettato un gran grido, rendé lo spirito.
Ed essendo già sera (poiché era Preparazione, cioè la vigilia del sabato),
venne Giuseppe d'Arimatea, consigliere onorato, il quale aspettava anch'egli il Regno di Dio; e, preso ardire, si presentò a Pilato e domandò il corpo di Gesù.
Pilato si meravigliò ch'egli fosse già morto; e chiamato a sé il centurione, gli domandò se era morto da molto tempo;
e saputolo dal centurione, donò il corpo a Giuseppe.
E questi, comprato un panno lino e tratto Gesù giù di croce, l'involse nel panno e lo pose in una tomba scavata nella roccia, e rotolò una pietra contro l'apertura del sepolcro.
ATTI 1
Nel mio primo libro, o Teofilo, parlai di tutto quel che Gesù prese e a fare e ad insegnare,
fino al giorno che fu assunto in cielo, dopo aver dato per lo Spirito Santo dei comandamenti agli apostoli che avea scelto.
Ai quali anche, dopo ch'ebbe sofferto, si presentò vivente con molte prove, facendosi veder da loro per quaranta giorni, e ragionando delle cose relative al regno di Dio.
E trovandosi con essi, ordinò loro di non dipartirsi da Gerusalemme, ma di aspettarvi il compimento della promessa del Padre, la quale, egli disse, avete udita da me.
Poiché Giovanni Battista battezzò sì con acqua, ma voi sarete battezzati con lo Spirito Santo tra non molti giorni.
Quelli dunque che erano radunati, gli domandarono: Signore, è egli in questo tempo che ristabilirai il regno ad Israele?
Egli rispose loro: Non sta a voi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riserbato alla sua propria autorità.
Ma voi riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni e in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all'estremità della terra.
E dette queste cose, mentre essi guardavano, fu elevato; e una nuvola, accogliendolo, lo tolse d'innanzi agli occhi loro.
E come essi aveano gli occhi fissi in cielo, mentr'egli se ne andava, ecco che due uomini in vesti bianche si presentarono loro e dissero:
Uomini Galilei, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù che è stato tolto da voi ed assunto dal cielo, verrà nella medesima maniera che l'avete veduto andare in cielo.
Allora essi tornarono a Gerusalemme dal monte chiamato dell'Uliveto, il quale è vicino a Gerusalemme, non distandone che un cammin di sabato.
E come furono entrati, salirono nella sala di sopra ove solevano trattenersi Pietro e Giovanni e Giacomo e Andrea, Filippo e Toma, Bartolomeo e Matteo, Giacomo d'Alfeo, e Simone lo Zelota, e Giuda di Giacomo.
Tutti costoro perseveravano di pari consentimento nella preghiera, con le donne, e con Maria, madre di Gesù, e coi fratelli di lui.
Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c'era più.
E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere giù dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
E udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo (skene) di Dio con gli uomini! Egli abiterà (skenao) con loro, ed essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio."
Esodo 25
E mi facciano un santuario perch'io abiti (shachan) in mezzo a loro.
Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo (mishchan) e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti.
Esodo 29
Sarà un olocausto perpetuo offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io v'incontrerò per parlare qui con te.
E là io mi troverò coi figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figliuoli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
E abiterò (shachan) in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per abitare (shachan) tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro.
Giovanni 1
E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato (skenao) per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Luca 17
Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà:
"Eccolo qui", o "eccolo là"; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi.
Giovanni 1
Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l'ha conosciuto.
È venuto in casa sua, e i suoi non l'hanno ricevuto:
ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio; a quelli, cioè, che credono nel suo nome.
Matteo 18
Poiché dovunque due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.
1 Corinzi 3
Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?
Se uno guasta il tempio di Dio, Dio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi.
Giovanni 14
Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me!
Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che vado a prepararvi un luogo?
Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi".
Matteo 11:28-30
Venite a me, voi tutti
che siete travagliati ed aggravati,
e io vi darò riposo.
Prendete su voi il mio giogo
ed imparate da me,
perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
e voi troverete riposo alle anime vostre;
poiché il mio giogo è dolce
e il mio carico è leggero.
Or sappi questo: che negli ultimi giorni verranno dei tempi difficili;
perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, irreligiosi,
senza affezione naturale, mancatori di fede, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene,
traditori, temerari, gonfi, amanti del piacere anziché di Dio,
avendo le forme della pietà, ma avendone rinnegata la potenza.
Anche costoro schiva! Poiché del numero di costoro sono quelli che s'insinuano nelle case e cattivano donnicciuole cariche di peccati, e agitate da varie cupidigie,
che imparano sempre e non possono mai pervenire alla conoscenza della verità.
E come Jannè e Iambrè contrastarono a Mosè, così anche costoro contrastano alla verità: uomini corrotti di mente, riprovati quanto alla fede.
Ma non andranno più oltre, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quegli uomini.
Quanto a te, tu hai tenuto dietro al mio insegnamento, alla mia condotta, ai miei propositi, alla mia fede, alla mia pazienza, al mio amore, alla mia costanza,
alle mie persecuzioni, alle mie sofferenze, a quel che mi avvenne ad Antiochia, ad Iconio ed a Listra. Sai quali persecuzioni ho sopportato; e il Signore mi ha liberato da tutte.
E d'altronde tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati;
mentre i malvagi e gli impostori andranno di male in peggio, seducendo ed essendo sedotti.
Ma tu persevera nelle cose che hai imparate e delle quali sei stato accertato, sapendo da chi le hai imparate,
e che fin da fanciullo hai avuto conoscenza degli Scritti sacri, i quali possono renderti savio a salute mediante la fede che è in Cristo Gesù.
Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile ad insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia,
affinché l'uomo di Dio sia compiuto, appieno fornito per ogni opera buona.
Capitolo 4
Io te ne scongiuro nel cospetto di Dio e di Cristo Gesù che ha da giudicare i vivi e i morti, e per la sua apparizione e per il suo regno:
Predica la Parola, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, sgrida, esorta con grande pazienza e sempre istruendo.
Perché verrà il tempo che non sopporteranno la sana dottrina; ma per prurito d'udire si accumuleranno dottori secondo le loro proprie voglie
e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole.
Ma tu sii vigilante in ogni cosa, soffri afflizioni, fa' l'opera d'evangelista, compi tutti i doveri del tuo ministero.
La figura di Giobbe viene di solito messa in relazione con il problema della sofferenza. Dallo studio del libro su cui si basa la seguente predicazione emerge invece che langoscioso tormento in cui si dibatte Giobbe non è dovuto allinesplicabilità del problema della sofferenza, ma al crollo di un pilastro che aveva sostenuto fino a quel momento la sua vita: la fede nella giustizia di Dio. Le buone parole con cui i suoi amici cercano di metterlo sulla buona strada lo spingono sempre di più sul ciglio di un baratro in cui corre il rischio di cadere e perdersi definitivamente: il pensiero di essere più giusto di Dio.
Marcello Cicchese
novembre 2018
Testo delle letture
1.6 Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
7 E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal passeggiar per essa'.
8 E l'Eterno disse a Satana: 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male'.
9 E Satana rispose all'Eterno: 'È egli forse per nulla che Giobbe teme Iddio?
10 Non l'hai tu circondato d'un riparo, lui, la sua casa, e tutto quello che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani, e il suo bestiame ricopre tutto il paese.
11 Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
12 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene! tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona'. - E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno.
1.20 Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello e si rase il capo e si prostrò a terra e adorò e disse:
21 'Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno'.
22 In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di mal fatto.
2.E l'Eterno disse a Satana:
3 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità benché tu m'abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo'.
4 E Satana rispose all'Eterno: 'Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita;
5 ma stendi un po' la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
6 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene esso è in tuo potere; soltanto, rispetta la sua vita'.
7 E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno e colpì Giobbe d'un'ulcera maligna dalla pianta de' piedi al sommo del capo; e Giobbe prese un còccio per grattarsi, e stava seduto nella cenere.
8 E sua moglie gli disse: 'Ancora stai saldo nella tua integrità?
9 Ma lascia stare Iddio, e muori!'
10 E Giobbe a lei: 'Tu parli da donna insensata! Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo d'accettare il male?' - In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.
3.1 Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita.
2 E prese a dire così:
3 «Perisca il giorno ch'io nacqui e la notte che disse: 'È concepito un maschio!'
4 Quel giorno si converta in tenebre, non se ne curi Iddio dall'alto, né splenda sovr'esso raggio di luce!
5 Se lo riprendano le tenebre e l'ombra di morte, resti sovr'esso una fitta nuvola, le eclissi lo riempiano di paura!
3.11 Perché non morii nel seno di mia madre? Perché non spirai appena uscito dalle sue viscere?
12 Perché trovai delle ginocchia per ricevermi e delle mammelle da poppare?
20 Perché dar la luce all'infelice e la vita a chi ha l'anima nell'amarezza,
23 Perché dar vita a un uomo la cui via è oscura, e che Dio ha stretto in un cerchio?
9.20 Fossi pur giusto, la mia bocca stessa mi condannerebbe; fossi pure integro, essa mi farebbe dichiarar perverso.
21 Integro! Sì, lo sono! di me non mi preme, io disprezzo la vita!
22 Per me è tutt'uno! perciò dico: 'Egli distrugge ugualmente l'integro ed il malvagio.
23 Se un flagello, a un tratto, semina la morte, egli ride dello sgomento degli innocenti.
24 La terra è data in balìa dei malvagi; egli vela gli occhi ai giudici di essa; se non è lui, chi è dunque'?
19.5 Ma se proprio volete insuperbire contro di me e rimproverarmi la vergogna in cui mi trovo,
6 allora sappiatelo: chi m'ha fatto torto e m'ha avvolto nelle sue reti è Dio.
7 Ecco, io grido: 'Violenza!' e nessuno risponde; imploro aiuto, ma non c'è giustizia!
24.12 Sale dalle città il gemito dei morenti; l'anima de' feriti implora aiuto, e Dio non si cura di codeste infamie!
24.22 Iddio con la sua forza prolunga i giorni dei prepotenti, i quali risorgono, quand'ormai disperavano della vita.
24.25 Se così non è, chi mi smentirà, chi annienterà il mio dire?
27.5 Lungi da me l'idea di darvi ragione! Fino all'ultimo respiro non mi lascerò togliere la mia integrità.
6 Ho preso a difendere la mia giustizia e non cederò; il cuore non mi rimprovera uno solo dei miei giorni.
31.35 Oh, avessi pure chi m'ascoltasse!... ecco qua la mia firma! l'Onnipotente mi risponda! Scriva l'avversario mio la sua querela,
36 ed io la porterò attaccata alla mia spalla, me la cingerò come un diadema!
37 Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe!
1.6 Or avvenne un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
16.19 Già fin d'ora, ecco, il mio Testimonio è in cielo, il mio Garante è nei luoghi altissimi.
20 Gli amici mi deridono, ma a Dio si volgon piangenti gli occhi miei;
21 sostenga egli le ragioni dell'uomo presso Dio, le ragioni del figlio dell'uomo contro i suoi compagni!
19.25 Ma io so che il mio Vendicatore vive, e che alla fine si leverà sulla polvere.
26 E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Iddio.
27 Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno gli occhi miei, non quelli d'un altro... il cuore, dalla brama, mi si strugge in seno!
9.32 Dio non è un uomo come me, perch'io gli risponda e che possiam comparire in giudizio assieme.
33 Non c'è fra noi un arbitro, che posi la mano su tutti e due!
42.7 Dopo che ebbe rivolto questi discorsi a Giobbe, l'Eterno disse a Elifaz di Teman: 'L'ira mia è accesa contro te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe.
32.1 Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe perché egli si credeva giusto.
2 Allora l'ira di Elihu, figliuolo di Barakeel il Buzita, della tribù di Ram, s'accese:
3 s'accese contro Giobbe, perché riteneva giusto se stesso anziché Dio; s'accese anche contro i tre amici di lui perché non avean trovato che rispondere, sebbene condannassero Giobbe.
32.13 Non avete dunque ragione di dire: 'Abbiam trovato la sapienza! Dio soltanto lo farà cedere; non l'uomo!'
14 Egli non ha diretto i suoi discorsi contro a me, ed io non gli risponderò colle vostre parole.
33.1 Ma pure, ascolta, o Giobbe, il mio dire, porgi orecchio a tutte le mie parole!
2 Ecco, apro la bocca, la lingua parla sotto il mio palato.
3 Nelle mie parole è la rettitudine del mio cuore; e le mie labbra diran sinceramente quello che so.
4 Lo spirito di Dio mi ha creato, e il soffio dell'Onnipotente mi dà la vita.
5 Se puoi, rispondimi; prepara le tue ragioni, fatti avanti!
6 Ecco, io sono uguale a te davanti a Dio; anch'io, fui tratto dall'argilla.
7 Spavento di me non potrà quindi sgomentarti, e il peso della mia autorità non ti potrà schiacciare.
8 Davanti a me tu dunque hai detto (e ho bene udito il suono delle tue parole):
9 'Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c'è iniquità in me;
10 ma Dio trova contro me degli appigli ostili, mi tiene per suo nemico;
11 mi mette i piedi nei ceppi, spia tutti i miei movimenti'.
12 E io ti rispondo: In questo non hai ragione; giacché Dio è più grande dell'uomo.
13 Perché contendi con lui? poich'egli non rende conto d'alcuno dei suoi atti.
14 Iddio parla, bensì, una volta ed anche due, ma l'uomo non ci bada;
15 parla per via di sogni, di visioni notturne, quando un sonno profondo cade sui mortali, quando sui loro letti essi giacciono assopiti;
16 allora egli apre i loro orecchi e dà loro in segreto degli ammonimenti,
17 per distoglier l'uomo dal suo modo d'agire e tener lungi da lui la superbia;
18 per salvargli l'anima dalla fossa, la vita dal dardo mortale.
19 L'uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore, dall'agitazione incessante delle sue ossa;
20 quand'egli ha in avversione il pane, e l'anima sua schifa i cibi più squisiti;
21 la carne gli si consuma, e sparisce, mentre le ossa, prima invisibili, gli escon fuori,
22 l'anima sua si avvicina alla fossa, e la sua vita a quelli che danno la morte.
23 Ma se, presso a lui, v'è un angelo, un interprete, uno solo fra i mille, che mostri all'uomo il suo dovere,
24 Iddio ha pietà di lui e dice: 'Risparmialo, che non scenda nella fossa! Ho trovato il suo riscatto'.
25 Allora la sua carne divien fresca più di quella d'un bimbo; egli torna ai giorni della sua giovinezza;
26 implora Dio, e Dio gli è propizio; gli dà di contemplare il suo volto con giubilo, e lo considera di nuovo come giusto.
27 Ed egli va cantando fra la gente e dice: 'Avevo peccato, pervertito la giustizia, e non sono stato punito come meritavo.
28 Iddio ha riscattato l'anima mia, onde non scendesse nella fossa e la mia vita si schiude alla luce!'
29 Ecco, tutto questo Iddio lo fa due, tre volte, all'uomo,
30 per ritrarre l'anima di lui dalla fossa, perché su di lei splenda la luce della vita.
31 Sta' attento, Giobbe, dammi ascolto; taci, ed io parlerò.
32 Se hai qualcosa da dire, rispondi, parla, ché io vorrei poterti dar ragione. 33 Se no, tu dammi ascolto, taci, e t'insegnerò la saviezza».
34.29 Quando Iddio dà requie chi lo condannerà? Chi potrà contemplarlo quando nasconde il suo volto a una nazione ovvero a un individuo,
30 per impedire all'empio di regnare, per allontanar dal popolo le insidie?
31 Quell'empio ha egli detto a Dio: 'Io porto la mia pena, non farò più il male,
32 mostrami tu quel che non so vedere; se ho agito perversamente, non lo farò più'?
33 Dovrà forse Iddio render la giustizia a modo tuo, che tu lo critichi? Ti dirà forse: 'Scegli tu, non io, quello che sai, dillo'?
34 La gente assennata e ogni uomo savio che m'ascolta, mi diranno:
35 'Giobbe parla senza giudizio, le sue parole sono senza intendimento'.
36 Ebbene, sia Giobbe provato sino alla fine! poiché le sue risposte son quelle degli iniqui, 37 poiché aggiunge al peccato suo la ribellione, batte le mani in mezzo a noi, e moltiplica le sue parole contro Dio».
35.9 Si grida per le molte oppressioni, si levano lamenti per la violenza dei grandi;
10 ma nessuno dice: 'Dov'è Dio, il mio creatore, che nella notte concede canti di gioia,
11 che ci fa più intelligenti delle bestie de' campi e più savi degli uccelli del cielo?'
12 Si grida, sì, ma egli non risponde, a motivo della superbia dei malvagi.
13 Certo, Dio non dà ascolto a lamenti vani; l'Onnipotente non ne fa nessun conto.
14 E tu, quando dici che non lo scorgi, la causa tua gli sta dinanzi; sappilo aspettare!
15 Ma ora, perché la sua ira non punisce, perch'egli non prende rigorosa conoscenza delle trasgressioni,
16 Giobbe apre vanamente le labbra e accumula parole senza conoscimento».
36.8 Se gli uomini son talora stretti da catene, se son presi nei legami dell'afflizione,
9 Dio fa lor conoscere la lor condotta, le loro trasgressioni, giacché si sono insuperbiti;
10 egli apre così i loro orecchi a' suoi ammonimenti, e li esorta ad abbandonare il male.
11 Se l'ascoltano, se si sottomettono, finiscono i loro giorni nel benessere, e gli anni loro nella gioia;
12 ma, se non l'ascoltano, periscono trafitti da' suoi dardi, muoiono per mancanza d'intendimento.
13 Gli empi di cuore s'abbandonano alla collera, non implorano Iddio quand'egli li incatena;
14 così muoiono nel fiore degli anni, e la loro vita finisce come quella dei dissoluti;
15 ma Dio libera l'afflitto mediante l'afflizione, e gli apre gli orecchi mediante la sventura.
16 Te pure ti vuole trarre dalle fauci della distretta, al largo, dove non è più angustia, e coprire la tua mensa tranquilla di cibi succulenti.
17 Ma, se giudichi le vie di Dio come fanno gli empi, il giudizio e la sentenza di lui ti piomberanno addosso.
18 Bada che la collera non ti trasporti alla bestemmia, e la grandezza del riscatto non t'induca a fuorviare!
37.1 A tale spettacolo il cuor mi trema e balza fuor del suo luogo.
2 Udite, udite il fragore della sua voce, il rombo che esce dalla sua bocca!
3 Egli lo lancia sotto tutti i cieli e il suo lampo guizza fino ai lembi della terra.
4 Dopo il lampo, una voce rugge; egli tuona con la sua voce maestosa; e quando s'ode la voce, il fulmine non è già più nella sua mano.
5 Iddio tuona con la sua voce maravigliosamente; grandi cose egli fa che noi non intendiamo.
38.1 Allora l'Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
2 «Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?»
42.1 Allora Giobbe rispose all'Eterno e disse:
2 «Io riconosco che tu puoi tutto, e che nulla può impedirti d'eseguire un tuo disegno.
3 Chi è colui che senza intendimento offusca il tuo disegno?... Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo; son cose per me troppo maravigliose ed io non le conosco.
4 Deh, ascoltami, io parlerò; io ti farò delle domande e tu insegnami!
5 Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l'occhio mio t'ha veduto.
6 Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere».
42.12 E l'Eterno benedì gli ultimi anni di Giobbe più de' primi.
42.16 Giobbe, dopo questo, visse centoquarant'anni, e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione.
17 Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni.
Ed avvenne che, trovandosi egli in una di quelle città, ecco un uomo pieno di lebbra, il quale, veduto Gesù e gettatosi con la faccia a terra, lo pregò dicendo: Signore, se tu vuoi, tu puoi purificarmi.
Ed egli, stesa la mano, lo toccò dicendo: Lo voglio, sii purificato. E in quell'istante la lebbra sparì da lui.
E Gesù gli comandò di non dirlo a nessuno: Ma va', gli disse, mostrati al sacerdote ed offri per la tua purificazione quel che ha prescritto Mosè; e ciò serva loro di testimonianza.
Però la fama di lui si spandeva sempre più; e molte turbe si adunavano per udirlo ed essere guarite delle loro infermità.
Giovanni 14:27
Io vi lascio pace; vi do la mia pace.
Io non vi do come il mondo dà.
Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti.
Giovanni 16:33
Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me.
Nel mondo avrete tribolazione;
ma fatevi animo, io ho vinto il mondo.
Matteo 11:28-30
Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati,
e io vi darò riposo.
Prendete su voi il mio giogo ed imparate da me,
perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
e voi troverete riposo alle anime vostre;
poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero.
Solo in Dio l'anima mia s'acqueta;
da lui viene la mia salvezza.
Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza,
il mio alto ricetto; io non sarò grandemente smosso.
Fino a quando vi avventerete sopra un uomo
e cercherete tutti insieme di abbatterlo
come una parete che pende,
come un muricciuolo che cede?
Essi non pensano che a farlo cadere dalla sua altezza;
prendono piacere nella menzogna;
benedicono con la bocca,
ma internamente maledicono. Sela.
Anima mia, acquétati in Dio solo,
poiché da lui viene la mia speranza.
Egli solo è la mia ròcca e la mia salvezza;
egli è il mio alto ricetto; io non sarò smosso.
In Dio è la mia salvezza e la mia gloria;
la mia forte ròcca e il mio rifugio sono in Dio.
Confida in lui ogni tempo, o popolo;
espandi il tuo cuore nel suo cospetto;
Dio è il nostro rifugio. Sela.
Gli uomini del volgo non sono che vanità,
e i nobili non sono che menzogna;
messi sulla bilancia vanno su,
tutti assieme sono più leggeri della vanità.
Non confidate nell'oppressione,
e non mettete vane speranze nella rapina;
se le ricchezze abbondano, non vi mettete il cuore.
Dio ha parlato una volta,
due volte ho udito questo:
Che la potenza appartiene a Dio;
e a te pure, o Signore, appartiene la misericordia;
perché tu renderai a ciascuno secondo le sue opere.
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Perché te ne stai lontano, senza soccorrermi,
senza dare ascolto alle parole del mio gemito?
Dio mio, io grido di giorno, e tu non rispondi;
di notte ancora, e non ho posa alcuna.
Eppure tu sei il Santo,
che siedi circondato dalle lodi d'Israele.
I nostri padri confidarono in te;
e tu li liberasti.
Gridarono a te, e furono salvati;
confidarono in te, e non furono confusi.
Ma io sono un verme e non un uomo;
il vituperio degli uomini, e lo sprezzato dal popolo.
Chiunque mi vede si fa beffe di me;
allunga il labbro, scuote il capo, dicendo:
Ei si rimette nell'Eterno; lo liberi dunque;
lo salvi, poiché lo gradisce!
Sì, tu sei quello che m'hai tratto dal seno materno;
m'hai fatto riposar fidente sulle mammelle di mia madre.
A te fui affidato fin dalla mia nascita,
tu sei il mio Dio fin dal seno di mia madre.
Non t'allontanare da me, perché l'angoscia è vicina,
e non v'è alcuno che m'aiuti.
Grandi tori m'han circondato;
potenti tori di Basan m'hanno attorniato;
apron la loro gola contro a me,
come un leone rapace e ruggente.
Io son come acqua che si sparge,
e tutte le mie ossa si sconnettono;
il mio cuore è come la cera,
si strugge in mezzo alle mie viscere.
Il mio vigore s'inaridisce come terra cotta,
e la lingua mi s'attacca al palato;
tu m'hai posto nella polvere della morte.
Poiché cani m'han circondato;
uno stuolo di malfattori m'ha attorniato;
m'hanno forato le mani e i piedi.
Posso contare tutte le mie ossa.
Essi mi guardano e m'osservano;
spartiscon fra loro i miei vestimenti
e tirano a sorte la mia veste.
Tu dunque, o Eterno, non allontanarti,
tu che sei la mia forza, t'affretta a soccorrermi.
Libera l'anima mia dalla spada,
l'unica mia, dalla zampa del cane;
salvami dalla gola del leone.
Tu mi risponderai liberandomi dalle corna dei bufali.
Io annunzierò il tuo nome ai miei fratelli,
ti loderò in mezzo all'assemblea.
O voi che temete l'Eterno, lodatelo!
Glorificatelo voi, tutta la progenie di Giacobbe,
e voi tutta la progenie d'Israele, abbiate timor di lui!
Poich'egli non ha sprezzata
né disdegnata l'afflizione dell'afflitto,
e non ha nascosta la sua faccia da lui;
ma quand'ha gridato a lui, ei l'ha esaudito.
Tu sei l'argomento della mia lode nella grande assemblea;
io adempirò i miei voti in presenza di quelli che ti temono.
Gli umili mangeranno e saranno saziati;
quei che cercano l'Eterno lo loderanno;
il loro cuore vivrà in perpetuo.
Tutte le estremità della terra si ricorderan dell'Eterno
e si convertiranno a lui;
e tutte le famiglie delle nazioni adoreranno nel tuo cospetto.
Poiché all'Eterno appartiene il regno,
ed egli signoreggia sulle nazioni.
Tutti gli opulenti della terra mangeranno e adoreranno;
tutti quelli che scendon nella polvere
e non posson mantenersi in vita s'inginocchieranno dinanzi a lui.
La posterità lo servirà;
si parlerà del Signore alla ventura generazione.
31 Essi verranno e proclameranno la sua giustizia,
e al popolo che nascerà diranno come egli ha operato.
E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
'E tu, figlio d'uomo, così parla il Signore, l'Eterno, riguardo al paese d'Israele: La fine! la fine viene sulle quattro estremità del paese!
Ora ti sovrasta la fine, e io manderò contro di te la mia ira, ti giudicherò secondo la tua condotta, e ti farò ricadere addosso tutte le tue abominazioni.
E l'occhio mio non ti risparmierà, io sarò senza pietà, ti farò ricadere addosso tutta la tua condotta e le tue abominazioni saranno in mezzo a te; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
Ezechiele 8:1-13
E il sesto anno, il quinto giorno del sesto mese, avvenne che, come io stavo seduto in casa mia e gli anziani di Giuda erano seduti in mia presenza, la mano del Signore, dell'Eterno, cadde quivi su me.
Io guardai, ed ecco una figura d'uomo, che aveva l'aspetto del fuoco; dai fianchi in giù pareva di fuoco; e dai fianchi in su aveva un aspetto risplendente, come di terso rame.
Egli stese una forma di mano, e mi prese per una ciocca de' miei capelli; e lo spirito mi sollevò fra terra e cielo, e mi trasportò in visioni divine a Gerusalemme, all'ingresso della porta interna che guarda verso il settentrione, dov'era posto l'idolo della gelosia, che eccita a gelosia.
Ed ecco che quivi era la gloria dell'Iddio d'Israele, come nella visione che avevo avuta nella valle.
Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, alza ora gli occhi verso il settentrione'. Ed io alzai gli occhi verso il settentrione, ed ecco che al settentrione della porta dell'altare, all'ingresso, stava quell'idolo della gelosia.
Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, vedi tu quello che costoro fanno? le grandi abominazioni che la casa d'Israele commette qui, perché io m'allontani dal mio santuario? Ma tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni'.
Ed egli mi condusse all'ingresso del cortile. Io guardai, ed ecco un buco nel muro.
Allora egli mi disse: 'Figlio d'uomo, adesso fora il muro'. E quand'io ebbi forato il muro, ecco una porta.
Ed egli mi disse: 'Entra, e guarda le scellerate abominazioni che costoro commettono qui'.
Io entrai, e guardai: ed ecco ogni sorta di figure di rettili e di bestie abominevoli, e tutti gl'idoli della casa d'Israele dipinti sul muro attorno;
e settanta fra gli anziani della casa d'Israele, in mezzo ai quali era Jaazania, figlio di Shafan, stavano in piedi davanti a quelli, avendo ciascuno un turibolo in mano, dal quale saliva il profumo d'una nuvola d'incenso.
Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, hai tu visto quello che gli anziani della casa d'Israele fanno nelle tenebre, ciascuno nelle camere riservate alle sue immagini? poiché dicono: - L'Eterno non ci vede, l'Eterno ha abbandonato il paese'.
Poi mi disse: 'Tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni che costoro commettono'.
Ezechiele 14:1-11
Or vennero a me alcuni degli anziani d'Israele, e si sedettero davanti a me.
E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
'Figlio d'uomo, questi uomini hanno innalzato i loro idoli nel loro cuore, e si sono messi davanti l'intoppo che li fa cadere nella loro iniquità; come potrei io esser consultato da costoro?
Perciò parla e di' loro: Così dice il Signore, l'Eterno: Chiunque della casa d'Israele innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità, e poi viene al profeta, io, l'Eterno, gli risponderò come si merita per la moltitudine dei suoi idoli,
affin di prendere per il loro cuore quelli della casa d'Israele che si sono alienati da me tutti quanti per i loro idoli.
Perciò di' alla casa d'Israele: Così parla il Signore, l'Eterno: Tornate, ritraetevi dai vostri idoli, stornate le vostre facce da tutte le vostre abominazioni.
Poiché, a chiunque della casa d'Israele o degli stranieri che soggiornano in Israele si separa da me, innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità e poi viene al profeta per consultarmi per suo mezzo, risponderò io, l'Eterno, da me stesso.
Io volgerò la mia faccia contro a quell'uomo, ne farò un segno e un proverbio, e lo sterminerò di mezzo al mio popolo; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
E se il profeta si lascia sedurre e dice qualche parola, io, l'Eterno, sono quegli che avrò sedotto il profeta; e stenderò la mia mano contro di lui, e lo distruggerò di mezzo al mio popolo d'Israele.
E ambedue porteranno la pena della loro iniquità: la pena del profeta sarà pari alla pena di colui che lo consulta,
affinché quelli della casa d'Israele non vadano più errando lungi da me, e non si contaminino più con tutte le loro trasgressioni, e siano invece mio popolo, e io sia il loro Dio, dice il Signore, l'Eterno'.
La pazienza di Dio e la nostra speranza
Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, noi l'aspettiamo con pazienza
(Romani 8.25).
Egli mi fa giacere in verdeggianti paschi, mi guida lungo le acque chete.
Egli mi ristora l'anima, mi conduce per sentieri di giustizia, per amore del suo nome.
Quand'anche camminassi nella valle dell'ombra della morte, io non temerei male alcuno, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga sono quelli che mi consolano.
Tu apparecchi davanti a me la mensa al cospetto dei miei nemici; tu ungi il mio capo con olio; la mia coppa trabocca.
Certo, beni e benignità m'accompagneranno tutti i giorni della mia vita; ed io abiterò nella casa dell'Eterno per lunghi giorni.
Il corpo della nostra umiliazione Siate miei imitatori, fratelli, e riguardate a coloro che camminano secondo l'esempio che avete in noi. Perché molti camminano (ve l'ho detto spesso e ve lo dico anche ora piangendo), da nemici della croce di Cristo; la fine dei quali è la perdizione, il cui dio è il ventre, e la cui gloria è in quel che torna a loro vergogna; gente che ha l'animo alle cose della terra. Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove anche aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, in virtù della potenza per la quale egli può anche sottoporsi ogni cosa.
Filippesi 3:17-21
Il rinnovamento della mente Vi esorto dunque, fratelli, per le compassioni di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, accettevole a Dio, il che è il vostro culto spirituale. e non vi conformate a questo secolo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza qual sia la volontà di Dio, la buona, accettevole e perfetta volontà.
Romani 12:1-2
Preghiera di Mosè, uomo di Dio.
O Signore, tu sei stato per noi un rifugio
di generazione in generazione.
Prima che i monti fossero nati
e che tu avessi formato la terra e il mondo,
da eternità a eternità tu sei Dio.
Tu fai tornare i mortali in polvere
e dici: Ritornate, o figli degli uomini.
Perché mille anni, agli occhi tuoi,
sono come il giorno d'ieri quand'è passato,
e come una veglia nella notte.
Tu li porti via come una piena; sono come un sogno.
Son come l'erba che verdeggia la mattina;
la mattina essa fiorisce e verdeggia,
la sera è segata e si secca.
Poiché noi siamo consumati dalla tua ira,
e siamo atterriti per il tuo sdegno.
Tu metti le nostre iniquità davanti a te,
e i nostri peccati occulti, alla luce della tua faccia.
Tutti i nostri giorni spariscono per il tuo sdegno;
noi finiamo gli anni nostri come un soffio.
I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni;
o, per i più forti, a ottant'anni;
e quel che ne fa l'orgoglio, non è che travaglio e vanità;
perché passa presto, e noi ce ne voliamo via.
Chi conosce la forza della tua ira
e il tuo sdegno secondo il timore che t'è dovuto?
Insegnaci dunque a così contare i nostri giorni,
che acquistiamo un cuore saggio.
Ritorna, o Eterno; fino a quando?
e muoviti a pietà dei tuoi servitori.
Saziaci al mattino della tua benignità,
e noi giubileremo, ci rallegreremo tutti i giorni nostri.
Rallegraci in proporzione dei giorni che ci hai afflitti,
e degli anni che abbiamo sentito il male.
Apparisca l'opera tua a pro dei tuoi servitori,
e la tua gloria sui loro figli.
La grazia del Signore Dio nostro sia sopra noi,
e rendi stabile l'opera delle nostre mani;
sì, l'opera delle nostre mani rendila stabile.
Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa' in essi ogni opera tua; ma il settimo giorno è giorno di riposo, sacro all'Eterno, che è l'Iddio tuo; non fare in esso lavoro alcuno, né tu, né il tuo figlio, né la tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro alle tue porte; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò l'Eterno ha benedetto il giorno del riposo e l'ha santificato.
Nessuno può servire a due padroni; perché o odierà l'uno ed amerà l'altro, o si atterrà all'uno e sprezzerà l'altro. Voi non potete servire a Dio ed a Mammona.
Perciò vi dico: Non siate con ansiosi per la vita vostra di quel che mangerete o di quel che berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito?
Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutrisce. Non siete voi assai più di loro?
E chi di voi può con la sua sollecitudine aggiungere alla sua statura anche un cubito?
E intorno al vestire, perché siete con ansietà solleciti? Considerate come crescono i gigli della campagna; essi non faticano e non filano;
eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro.
Or se Dio riveste in questa maniera l'erba de' campi che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà Egli molto più voi, o gente di poca fede?
Non siate dunque con ansiosi, dicendo: Che mangeremo? che berremo? o di che ci vestiremo?
Poiché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; e il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose.
Ma cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte. 34 Non siate dunque con ansietà solleciti del domani; perché il domani sarà sollecito di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.
Marcello Cicchese
dicembre 2015
"I ragni di lassù"
Zero fiducia tra lo staff militare israeliano e il governo.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Israele è in guerra e la leadership su cui l'intera nazione vuole fare più affidamento è ai ferri corti. Una crisi che si ripercuote sullo sforzo bellico di Israele su tutti i fronti. È inutile e un lusso che non possiamo permetterci in guerra. Non solo, i nemici stanno interpretando i nostri litigi al vertice come una debolezza e questa è una follia assoluta. "I ragni, i romani" si dice in Asterix e Obelix. E in Israele si può dire "i ragni, quelli lassù a Gerusalemme".
Secondo fonti governative di alto livello, la sensazione nel governo è che l'esercito stia interferendo in questioni politiche che non sono di sua competenza. Si tratta di una pericolosa crisi di sicurezza e socio-politica che deve essere risolta rapidamente per poter finalmente vincere la guerra. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha sciolto il gabinetto di guerra dopo che il Ministro Benny Gantz e il suo collega di partito Gadi Eisenkot si sono dimessi dalla coalizione. È anche giunto il momento di cambiare il sistema decisionale per quanto riguarda la guerra a Gaza e nel Libano meridionale. Pertanto, l'istituzione di un gabinetto ristretto per le questioni politiche e di sicurezza sensibili è stata una mossa giusta da parte di Netanyahu, chiamato la cucina di guerra "Mitbachon". Un simile gabinetto esisteva anche nei governi precedenti.
Ieri c'è stato un altro scontro tra l'esercito e il governo quando il portavoce dell'esercito, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha messo in dubbio che Israele possa sradicare il gruppo terroristico di Hamas. Hagari ha affermato che questo obiettivo è attualmente irraggiungibile. Questa dichiarazione è sembrata approfondire la spaccatura tra Netanyahu e gli alti generali dell'IDF sulla sua gestione della guerra a Gaza. "Questo parlare di distruzione di Hamas, di scomparsa di Hamas, serve semplicemente a gettare sabbia negli occhi del pubblico", ha sottolineato Hagari in un'intervista al canale televisivo 13 News. "Hamas è un'idea, Hamas è un partito. È radicato nel cuore della gente - chiunque pensi che possiamo eliminare Hamas si sbaglia", ha continuato il portavoce dell'esercito. Hagari ha anche avvertito: "se il governo non trova un'alternativa - Hamas rimarrà nella Striscia di Gaza". Netanyahu è scoppiato di rabbia e ha dichiarato che "il gabinetto di sicurezza ha definito la completa distruzione di Hamas come uno degli obiettivi di guerra". Molti dubitano che questo sia davvero possibile, dato che la guerra nella Striscia di Gaza non sta progredendo. I soldati e i riservisti sono frustrati dal fatto che non sia stata ancora presa alcuna decisione strategica nella Striscia di Gaza. La colpa è del governo o dei vertici dell'esercito. Dipende da chi si vuole credere.
Secondo fonti politiche, la crisi tra la leadership politica e quella dell'esercito è peggiorata drasticamente nelle ultime settimane. Netanyahu e il suo governo sospettano che il Capo di Stato Maggiore Herzi Halevi abbia informato la scorsa settimana i commentatori dei media israeliani che l'esercito era sul punto di vincere a Gaza e che la guerra poteva essere fermata per ottenere uno scambio di ostaggi. Ciò è in contrasto con l'opinione del Primo Ministro Netanyahu, che ritiene che l'esercito non abbia ancora raggiunto gli obiettivi di guerra fissati dalla leadership politica.
A ciò si aggiunge l'incidente della pausa tattica per consentire l'ingresso degli aiuti umanitari a Rafah, annunciata dall'esercito questa settimana e poi annullata su istruzioni della leadership politica. L'esercito non ha informato in anticipo il Ministro della Difesa e il Primo Ministro della decisione. D'altra parte, l'esercito afferma che tutto è stato autorizzato dal governo e che non si è trattato di una decisione indipendente. Quando i media hanno reso noto questo fatto e Bibi è stato attaccato dai suoi stessi partner di coalizione, come i ministri Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, ha fatto marcia indietro e ha affermato di non saperne nulla.
Il primo ministro Netanyahu ha poi criticato i vertici dell'esercito durante la riunione di gabinetto. Ha detto di averlo appreso dai media e ha aggiunto: "Per eliminare le capacità di Hamas, ho preso decisioni che non sempre sono state accettate dallo staff militare. Abbiamo uno Stato con un esercito e non un esercito con uno Stato". Secondo fonti politiche, il governo ritiene che i vertici dell'esercito, che hanno fallito il 7 ottobre, non stiano dando i risultati militari che la leadership politica gli chiede durante la guerra. Il Primo Ministro ritiene che l'esercito stia interferendo in questioni politiche che non gli competono. La questione è molto dibattuta nel Paese e la scelta a chi credere dipende dalla parte politica in cui ci si trova. Sappiamo da altre fonti che il Ministro della Difesa israeliano Yoav Galant sta perdendo la pazienza con il suo partito e con il leader del governo Benjamin Netanyahu. In colloqui a porte chiuse, Galant ha etichettato Bibi come un codardo che frena i piani militari perché non riesce a decidere. Secondo Galant, Bibi stesso è l'ostacolo e l'esercito sta combattendo per salvare Israele.
Una situazione del genere è estremamente pericolosa in un periodo di guerra, quando Israele è impegnato su sette fronti, e deve essere fermata immediatamente. Il Capo di Stato Maggiore Halevi ha dichiarato diversi mesi fa di assumersi la piena responsabilità del fallimento militare del 7 ottobre e i suoi confidenti hanno annunciato che lascerà l'esercito.
Per la prima volta dal raid del 7 ottobre, il Capo di Stato Maggiore israeliano Herzi Halevi ha visitato ieri il kibbutz Nir Oz, nella Striscia di Gaza, per rivolgersi e scusarsi personalmente e direttamente con i residenti e le famiglie in lutto per il fallimento di oltre otto mesi fa. Nir Oz è diventato un chiaro simbolo del fallimento durante l'attacco a sorpresa. I residenti del kibbutz erano indifesi in quello Shabbat nero, con conseguenti massacri e rapimenti in cui un quarto degli abitanti del kibbutz è stato preso in ostaggio o ucciso. Il kibbutz Nir Oz un tempo contava circa 400 membri, quasi 40 sono stati uccisi e 70 sono stati rapiti nella Striscia di Gaza.
È chiaro a tutti che i vertici militari hanno fallito il 7 ottobre, e lo ammettono, ma anche il governo di Gerusalemme ha fallito. Benjamin Netanyahu e le sue coalizioni di destra hanno governato il Paese negli ultimi 15 anni e tutti capiscono che in questo periodo sono state perseguite politiche e strategie sbagliate. Tra queste, la controversa politica di Netanyahu per la gestione del conflitto nella Striscia di Gaza, secondo la quale Hamas è stato pagato mensilmente dal Qatar per la "calma" con l'autorizzazione di Israele. Israele è in guerra e i nostri leader politici e militari dovrebbero stare zitti e agire. Sono davvero pazzi lassù.
(Israel Heute, 20 giugno 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it) ____________________
Come si vede, sul piano umano la situazione in Israele è davvero grave. Il male grosso sembra essere dentro, prima che fuori. M.C.
In aumento l’Aliyà dopo il 7 ottobre. Il ritorno degli ebrei della diaspora in Israele
Il 7 ottobre 2023 è una data che ha segnato un profondo cambiamento per molti ebrei della diaspora. In seguito all’attacco terroristico di Hamas, un numero crescente di ebrei ha deciso di fare Aliyà, ossia di emigrare in Israele che continua a essere un faro di speranza e un punto di riferimento per molti ebrei in tutto il mondo. Questo fenomeno ha visto un’accelerazione senza precedenti negli ultimi mesi nonostante la guerra in corso e la mancanza di sicurezza, dimostrando un impegno incrollabile nei confronti dello Stato di Israele.
Gli eventi turbolenti e drammatici post 7 ottobre, hanno innescato un senso di urgenza e una rinnovata connessione con Israele per molti ebrei sparsi per il mondo. Dagli Stati Uniti alla Francia e non solo, a partire dalla Gran Bretagna dove dall’inizio del 2024 si è registrato un aumento del 40% di nuovi Olim in Israele. Tra di loro famiglie con bambini, studenti, giovani che cercano di arruolarsi nell’IDF e anziani.
Le motivazioni che spingono a fare Aliyà sono dettate da diversi fattori. In primis la sicurezza e la stabilità. Gli attacchi antisemiti, le discriminazioni nelle università e le minacce alla sicurezza personale, hanno spinto molti ebrei a cercare un rifugio in Israele, considerato un luogo più sicuro e protetto.
La decisione di fare Aliyà spesso deriva anche da un forte senso di identità e appartenenza. Dopo il 7 ottobre, molti ebrei hanno riscoperto un legame emotivo e spirituale con Israele, sentendo il bisogno di vivere in un Paese che considerano la loro vera casa. Il 7 ottobre ha risvegliato in molti la consapevolezza che questa è la loro unica patria, e vogliono essere in prima linea nella storia ebraica mentre si svolge. Non vogliono solo stare dalla parte di Israele. Vogliono restare in Israele.
Non ultimi i fattori politici ed economici: gli sviluppi politici ed economici in diverse parti del mondo hanno influenzato la decisione di alcuni a emigrare spingendo le persone a cercare nuove opportunità in Israele.
Qualche esempio? Le cronache degli ultimi mesi rivelano come questo fenomeno sia in costante crescita nonostante la guerra e la drammatica questione degli ostaggi. Un recente articolo del Jerusalem Post racconta la storia di 300 ebrei americani più che mai determinati a fare Aliyà. Il 29 maggio, da mezzogiorno alle 21, single, giovani sposi (alcuni in attesa del primo figlio), famiglie con bambini, coppie anziane si sono recati in un hotel a Teaneck, nel New Jersey (la posizione esatta non è stata comunicata per motivi di sicurezza), per l’evento Aliyah-in-One di Nefesh B’Nefesh (NBN), pensato per rendere l’imminente Alià dei partecipanti più agevole.
Questo evento è stato organizzato dalla NBN in collaborazione con il Ministero israeliano dell’Alià e dell’Integrazione, l’Agenzia Ebraica per Israele, Keren Kayemeth LeIsrael e JNF-USA. NBN riferisce di aver ricevuto oltre 9.700 richieste di apertura di pratiche relative all’Aliyà dal 7 ottobre, ovvero un aumento del 76% rispetto al periodo corrispondente dell’anno scorso (ovvero dal 7 ottobre 2022 a metà maggio 2023).
Marc Rosenberg, vicepresidente della NBN per i partenariati della diaspora, è soddisfatto e ottimista del crescente interesse per l’Aliyà e osserva che le persone «arrivano nonostante l’incertezza, le restrizioni e i problemi con i voli». Ha inoltre dichiarato che gli americani ora si stanno trasferendo in Israele principalmente per ragioni ideologiche, anche se alcuni arrivano anche per ragioni pratiche.
• IMPATTI SULLA SOCIETÀ ISRAELIANA L’afflusso di nuovi immigrati ha diversi impatti sulla società israeliana. Da un lato, arricchisce il tessuto culturale e sociale del Paese, portando nuove competenze e prospettive. Dall’altro, crea sfide in termini di integrazione e adattamento. Come osservano gli esperti, è essenziale che la società israeliana continui a sviluppare politiche inclusive e programmi di supporto per garantire che i nuovi arrivati possano contribuire pienamente e sentirsi parte della comunità. Lo Stato di Israele, che deve le sue solide basi principalmente alle ondate storiche dell’Alyià, prospera proprio grazie al capitale umano, culturale e professionale portato dai nuovi immigrati.
• IL PROCESSO DI ALIYÀ Fare Aliyà non è un processo semplice e richiede una pianificazione accurata e il rispetto di determinate procedure legali. Le organizzazioni come l’Agenzia Ebraica per Israele forniscono supporto e assistenza ai nuovi immigrati, aiutandoli a integrarsi nella società israeliana.
Documentazione: I candidati devono fornire documenti che attestino la loro identità e la loro discendenza ebraica. Questo può includere certificati di nascita, documenti religiosi e altri attestati.
Supporto Logistico: Le organizzazioni per l’Aliyà offrono assistenza con il trasporto, l’alloggio e la ricerca di lavoro. Inoltre, ci sono programmi di integrazione culturale e linguistica per facilitare l’adattamento alla vita in Israele.
Incentivi Governativi: Il Governo israeliano offre vari incentivi per incoraggiare l’Aliyà, tra cui sussidi economici, agevolazioni fiscali e accesso a servizi pubblici.
Sono diverse le organizzazioni che a promuovono l’immigrazione in Israele. Una fra tutte è Belong, la prima azienda privata nata 10 anni fa dal suo fondatore, l’imprenditore Gilad Ramot. Il 7 ottobre e la guerra che ne è seguita hanno generato un senso di urgenza all’interno dell’azienda, dovuta alla preoccupazione per la sicurezza e all’aumento dell’antisemitismo globale.
Come risaputo, l’Aliyà è un importante concetto della cultura ebraica e anche una componente fondamentale del sionismo. È sancito dalla Legge del ritorno israeliana, che riconosce a qualsiasi ebreo (considerato tale dalla halakhah o dalla legge secolare israeliana) e ai non ebrei idonei (figlio e nipote di un ebreo, coniuge di un ebreo, coniuge di un figlio di un ebreo e coniuge di un nipote di un ebreo) il diritto legale all’immigrazione assistita e all’insediamento in Israele, nonché alla cittadinanza israeliana.
La macchina del fango palestinese continua a mentire sulla carestia a Gaza
Le Nazioni Unite, l’amministrazione Biden e i media continuano ad affermare che i palestinesi a Gaza stanno soffrendo la fame anche dopo che sono emerse prove che tale affermazione è propaganda
di Jonathan S. Tobin
Parte della narrazione accettata sulla guerra nella Striscia di Gaza è che i palestinesi stanno soffrendo la fame. A maggio, il capo del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite ha affermato che nel nord di Gaza c’era una “carestia in piena regola”. Negli ultimi mesi, il New York Times e il Washington Post hanno ripetutamente sottolineato che i palestinesi stanno morendo di fame.
In effetti, l’idea che ci fosse una vera e propria carenza di cibo a Gaza ha spinto il presidente Joe Biden a ordinare alle forze armate statunitensi di costruire un molo galleggiante e di ancorarlo lungo la costa di Gaza per facilitare il flusso di rifornimenti vitali a chi ne ha bisogno.
Sulla base di queste accuse, la Corte Penale Internazionale ha richiesto i mandati di arresto per il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il Ministro della Difesa Yoav Gallant, in gran parte per l’accusa di aver commesso crimini di guerra affamando deliberatamente i palestinesi.
• MA COSA SUCCEDE SE NON C’È CARESTIA? A quanto pare, il Comitato di revisione della carestia delle Nazioni Unite ha ammesso in un rapporto che le affermazioni sull’insufficienza di cibo inviato a Gaza sono false. Inoltre, questa affermazione, che è alla base della grande bugia, altrettanto diffusa, secondo cui Israele sta commettendo un genocidio contro i palestinesi, è una questione di furbizia contabile. Sembra che si basi in gran parte sul fatto che il numero di camion che consegnano i rifornimenti, che ogni giorno arrivano a Gaza da Israele per sfamare i palestinesi, sia stato sottovalutato e che i camion di cibo del settore privato non siano stati conteggiati così come le altre consegne.
Un fatto pertinente che va sottolineato è che prima del 7 ottobre, i rifornimenti giornalieri di cibo, carburante e altro materiale venivano trasportati a Gaza da Israele, il che smentisce la tanto citata accusa che lo Stato ebraico abbia bloccato la Striscia. L’Egitto, invece, ha continuato a chiudergli il confine.
Con poche eccezioni, la verità sulla situazione attuale non è stata ampiamente riportata. Su Commentary, Seth Mandel ha scritto dei risultati del rapporto delle Nazioni Unite e di varie analisi che hanno evidenziato i dati errati utilizzati per giustificare le affermazioni sulla carestia a Gaza. Sul Jerusalem Post, Seth Frantzman ha citato il lavoro di due professori della Columbia University che hanno analizzato i dati e sfatato la saggezza convenzionale secondo cui Israele affama i palestinesi.
• IL CIBO ARRIVA A GAZA Tutti questi studi dimostrano che se ci sono problemi di distribuzione di cibo a Gaza – e, ovviamente, un’area che è lo scenario di un conflitto militare in corso, scatenato dagli attacchi di Hamas a Israele del 7 ottobre, è destinata a subire interruzioni – non è a causa di una carenza di cibo. La quantità di prodotti che vengono spediti a Gaza da Israele è, come dimostrano questi studi, chiaramente sufficiente a sfamare la popolazione di Gaza.
La verità sulla carestia che non si sta verificando va collocata anche nel contesto di un evento che si sta verificando. Gli sforzi di Israele per mantenere gli aiuti nella Striscia non hanno precedenti nella storia dei conflitti armati. È un dato di fatto che le potenze belligeranti non sono responsabili dell’alimentazione dei loro nemici, specialmente delle persone sotto il controllo di combattenti ostili, come è vero per i palestinesi che vivono a Rafah, dove le ultime unità militari attive di Hamas sono ancora sotto controllo. Si tratta, ovviamente, di Paesi diversi dallo Stato ebraico.
In queste circostanze, persino gli Stati Uniti hanno riconosciuto che pochi dei rifornimenti entrati a Gaza attraverso il molo galleggiante hanno raggiunto i destinatari previsti. Le ONG e i cosiddetti gruppi per i diritti umani incolpano Israele di ispezionare i camion che entrano a Gaza per cercare di impedire che vengano usati per rifornire Hamas di armi e altro materiale bellico, mentre l’ostacolo principale al flusso regolare degli aiuti sono i palestinesi stessi. Ma piuttosto che ammettere che l’intera vicenda è stata uno scandaloso spreco di tempo, denaro e risorse – e illustra la natura sconsiderata e politicamente motivata della decisione di Biden di coinvolgere gli Stati Uniti in questo fiasco – l’amministrazione continua a tergiversare sul problema. Washington preferisce rimproverare Israele piuttosto che dire apertamente che l’idea è stata un grosso errore.
Come ha sottolineato Mandel, anche il Times sta nascondendo informazioni che minano l’accusa di carestia all’interno di altri articoli destinati a sostenere le accuse contro Israele. Il giornale ha scritto che non c’è carenza di cibo nel nord di Gaza, proprio dove in precedenza aveva affermato che la carestia era imminente.
Altri rapporti sottolineano non solo il continuo flusso di aiuti da Gerusalemme, ma anche il fatto che i mercati alimentari sono aperti anche nelle aree del sud di Gaza, dove continuano i combattimenti.
• HAMAS STA RUBANDO Sottolineare questo non significa negare che la situazione sia estremamente difficile. In tempo di guerra, le reti di distribuzione alimentare sono inevitabilmente interrotte. Ma se i palestinesi stanno soffrendo, è a dir poco diffamatorio dare la colpa a Israele. Fin dall’inizio della guerra, agenti armati di Hamas hanno dirottato la maggior parte delle consegne, il che significa che gli aiuti vanno ai terroristi e non ai civili che usano come scudi umani.
Sebbene i media notino spesso che Hamas è accusato di aver rubato la merce, in genere la considerano solo un’accusa infondata da parte di Israele e dei suoi sostenitori. Dato che si ammette che gli aiuti consegnati dal molo statunitense non arrivano ai civili palestinesi, non c’è altra spiegazione lontanamente plausibile per questo fallimento se non il fatto che i palestinesi armati impediscono che vengano distribuiti ai loro compatrioti che potrebbero averne bisogno.
Al problema si aggiunge un nuovo fattore. Oltre a Hamas stesso che requisisce le spedizioni di aiuti, bande di contrabbandieri – la maggior parte dei quali probabilmente affiliati ai vari movimenti terroristici – hanno ostacolato gli sforzi per sfamare i palestinesi. Come ha riportato il Wall Street Journal ripreso da RR, il contrabbando di sigarette è diventato una delle cause principali della carenza di cibo, poiché i criminali e gli operatori umanitari che sono loro complici usano i camion che dovrebbero portare cibo e carburante per trasportare tabacco di contrabbando.
Allora perché tanti media, organizzazioni internazionali e l’amministrazione Biden continuano a parlare di fame e a dare la colpa a un’unica entità per questa catastrofe in gran parte fittizia?
La risposta è ovvia. In una guerra in cui gran parte del mondo ha accettato la tesi secondo cui Israele è uno Stato “colonizzatore/coloniale” e “apartheid” contro il quale è giustificata praticamente qualsiasi tattica impiegata dai suoi nemici, gonfiare la situazione dei palestinesi di Gaza fino a trasformarla in una carestia deve essere considerata l’ultima di una lunga lista di falsità che sono state lanciate contro lo Stato ebraico dal 7 ottobre.
Si tratta di un conflitto in cui alcuni degli stessi organi che evidenziano le dubbie affermazioni di una carestia sono stati ansiosi di screditare la verità sulla realtà del terrorismo di Hamas e, in particolare, sulle atrocità, compresi i crimini sessuali, commessi dai palestinesi.
In effetti, i membri dello stesso coro di media anti-Israele hanno ripetuto fedelmente ogni menzogna diffusa dalla macchina propagandistica di Hamas, comprese le falsità su attacchi specifici e le cifre ampiamente gonfiate delle vittime tra i civili palestinesi, quasi tutti presumibilmente donne e bambini. Quindi, perché ci si aspetta che siano sinceri su una carestia per la quale non è possibile fornire alcuna prova, se sono disposti a mentire su molte altre cose?
Come per tutte le altre falsità addotte sulla conduzione della guerra da parte di Israele, la verità – anche se tardivamente ammessa – non sembra avere importanza. Coloro che si dedicano alla proposizione che, nella migliore delle ipotesi, Israele e Hamas sono moralmente equivalenti, passeranno sempre alla prossima accusa spuria senza mai rendere conto delle loro precedenti travisazioni e falsità.
Che Israele sia giudicato con doppi e tripli standard applicati a nessun’altra nazione – per non parlare di nessun’altra democrazia in guerra – non è una novità.
• UNA DIFFAMAZIONE DI SANGUE DEL XXI SECOLO Tuttavia, la natura efferata dell’assalto e delle atrocità del 7 ottobre, così come la chiara giustificazione della controffensiva israeliana per eliminare il movimento terroristico genocida che ha compiuto quei crimini, sembra aver spinto coloro che odiano Israele e gli ebrei a nuovi livelli di mendacio giornalismo.
Le persone della sinistra internazionale, convinte che Israele sia una nazione di cattivi “bianchi” che vittimizzano le “persone di colore” palestinesi, che sono inesattamente paragonate alle vittime americane della discriminazione razziale, non hanno alcuna remora a diffondere queste calunnie. Quanto più grave è il comportamento effettivo dei palestinesi, che sono votati alla distruzione di Israele e del suo popolo, tanto più diventa imperativo capovolgere la narrazione e accusare Israele di genocidio.
Ogni morte e tutte le privazioni subite dagli arabi palestinesi dal 7 ottobre sono responsabilità dei terroristi di Hamas che hanno iniziato questa guerra e che colgono ogni occasione per massimizzare le sofferenze del proprio popolo per infangare l’immagine di Israele. Questo non vale solo per i gazesi feriti o uccisi durante i combattimenti, ma anche per tutti coloro a cui è stato impedito di ricevere gli aiuti spediti nella Striscia con il permesso di Israele.
La fantomatica carestia di Gaza è solo l’ultimo esempio di come i palestinesi stiano ingannando il mondo mentre spirano deliberatamente ancora di più in un abisso di conflitto senza fine in cui loro stessi sono le vittime principali.
Gli americani dalla mente lucida, che ormai dovrebbero aver imparato a non fidarsi dei media aziendali su questo e su molti altri temi, non dovrebbero lasciarsi influenzare da questa campagna di propaganda, che affonda le sue radici nei vecchi tropi dell’antisemitismo, in cui gli ebrei sono sempre accusati di cospirare per danneggiare gli altri.
Spogliata dell’emotività e dell’attivismo di parte che colorano gran parte del giornalismo contemporaneo, e in particolare la copertura del Medio Oriente, l’affermazione che Israele sta affamando i palestinesi dovrebbe essere vista per quello che è: una diffamazione di sangue del XXI secolo.
Stuprata perché ebrea, l'ombra del male che ritorna
di Pino Agnetti
Nei campi di sterminio nazisti, stuprare le ebree prima di smistarle nelle camere a gas era il passatempo preferito della canaglia a cui era stato affidato il compito di eseguire materialmente l’Olocausto. Come raccontato in Schindler’s List di Spielberg, qualcuna di quelle povere vittime si era anche rassegnata al ruolo di schiava del sesso per i prodi ufficiali del Terzo Reich nella segreta, quanto del tutto vana, speranza di poterne avere in cambio la salvezza. Ma ci fu anche chi provò a ribellarsi a quel supplemento di orrore (che comprendeva anche il fare da cavie per degli orripilanti esperimenti ginecologici) come le circa 90 ebree francesi che, il 25 giugno 1942, vennero ammazzate a calci e a colpi di manganello dalle kapò tedesche nel sottocampo di Budy, vicino a quello principale di Auschwitz-Birkenau. Dopo decenni di «Mai più!» ripetuti fino alla noia, di pellegrinaggi ininterrotti nei luoghi del più grande crimine della storia, di libri e di film (per la verità non tutti e non sempre all’altezza) sulla Shoah, di indignate condanne dei tentativi di ripeterla ai danni di popoli di altre fedi e origini, la notizia agghiacciante di cui parlerò fra poco ci riporta dritto per dritto al punto di partenza.
Per la verità, che certi demoni dati troppo frettolosamente per sepolti fossero tornati a danzare allegramente anche dalle nostre parti era insito in una montagna di segnali. Appannati solo dalla autoconsolatoria superficialità con cui siamo soliti approcciarci a una calamità imminente (vedi l’«Andrà tutto bene!» della fase iniziale del Covid). Come dalla sapiente cortina fumogena stesa da stuoli di dotti “osservatori” indaffaratissimi a spiegarci che parlare di antisemitismo oggi sia solo un espediente per cercare nascondere le malefatte di Israele a Gaza. Ma certo! E noi, poveri creduloni e sciocchi, ad allarmarci di fronte alla peggiore ondata di “incidenti antisemiti” aggressioni fisiche, insulti e minacce via social, attentati e atti vandalici contro luoghi di culto e cimiteri ebraici - mai registrata in Europa (Italia compresa) dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Vabbè, vale anche in questo caso la regola che - ebrei, sionisti o come diavolo li si voglia chiamare - “se la sono cercata”, no? Ah, ecco! Grazie per la profondità del pensiero e per l’afflato altamente morale e oserei dire altruistico - coloro che se ne fanno interpreti non sono forse fra gli alfieri più fieri e appassionati del popolo del peace& love? - che lo connota. Da oggi, a esprimere loro eterna gratitudine, c’è anche la dodicenne francese (avete letto bene: 12 anni!) stuprata da tre suoi coetanei «perché ebrea».
Non mi è mai piaciuto di indulgere in certi particolari.
Stavolta, però, la sequenza raccapricciante di quanto avvenuto alle porte di Parigi va riproposta per intero. La ragazzina - o meglio la bambina, fate voi - che viene portata dai suoi aguzzini, anch’essi poco più che bambini, in un hangar abbandonato. I tre, fra i quali c’è anche l’ex «fidanzatino», che cominciano a picchiarla gridandole «sporca ebrea». Per poi minacciare di darle fuoco con un accendino e quindi gettarla a terra e violentarla a turno, mentre sempre a turno immortalano con il telefonino lo scempio condito dall’inizio alla fine di oscenità antisemite. «È un atto spregevole, non possiamo credere che queste cose possano esistere», ha commentato il sindaco del sobborgo parigino teatro della violenza. Invece, esistono e tutto lascia pensare che si ripeteranno ancora.
In ogni caso, lo stesso orrore si è verificato su una scala ben più vasta e atroce il 7 ottobre scorso, quando Hamas ha macellato, stuprandone un gran numero prima di infliggere loro il colpo di grazia, 1.200 persone colpevoli solo di essere ebree per poi portarsene via altre 250 da usare come ostaggi. Il sostanziale silenzio con cui sono stati accolti finora i racconti di molti di loro una volta liberati racconti poi finiti in un rapporto ufficiale dell’Onu anch’esso misteriosamente sparito dagli schermi nonostante la gravità estrema dei reati in esso documentati, dallo stupro sistematico dei prigionieri senza distinzioni fra donne e uomini a una serie di altre pratiche degradanti come l’obbligare gli ostaggi a vestirsi da bambole prima di essere violentati nei tunnel - è e resterà una macchia sulla coscienza della intera opinione pubblica occidentale. Per la semplice ragione che, ogni volta che il male diventa “normale” o tale viene considerato invece di suscitare una immediata condanna “senza se e senza ma”, la sua nube maligna guadagna piano piano terreno fino a dilagare e a strapparci l’anima, facendo anche di noi dei mostri: attivi o passivi, consapevoli o no, poco importa. In fin dei conti, quei tre stupratori poco più che bambini non hanno fatto altro che attuare, replicandolo, lo stesso orrore compiuto da Hamas il 7 ottobre. E che sia stato proprio quello il “modello” è provato dalle frasi e dalle immagini antisemite, inclusa quella di una bandiera israeliana bruciata, rinvenute nei loro cellulari. Come dalla confessione di avere agito “per vendetta” dato che la vittima “aveva tenuto nascosto all’ex fidanzato di essere di religione ebraica” e si sarebbe lasciata andare a “delle parole offensive contro la Palestina”. La regressione galoppante che affligge ormai da tempo il “nostro” di mondi (non qualche più o meno lontano lembo mediorientale) ha dunque raggiunto e superato un nuovo abominevole picco. Con degli studenti europei delle medie assolutamente convinti che, «stuprare le ebree» come erano solite fare le SS di 80 anni fa, sia una cosa perfettamente normale e lecita. Dimenticavo. In questi giorni, avrete forse letto anche voi di quei politici «nostrani» che si divertono a esibirsi in pubblico con frasi tipo «Gli omosessuali devono bruciare in forni crematori» o (fra l’ilarità compiaciuta dei presenti) «Noi siamo abituati ai forni crematori ». A differenza di chi ci ha montato su il solito polverone politico, io mi limiterò a osservare - e concludo - che tanto desolante squallore dimostra solo una cosa. Vale a dire che il “male” nella sua versione più letale - quella della “normalità” - è di nuovo fra noi (ammesso e non concesso che se ne fosse mai andato). E che a questo punto, come sempre è accaduto nella Storia, è destinato a non andarsene via troppo facilmente.
I fronti di Israele e l’accusa all’Iran come regista del conflitto
di Olga Flori
Il conflitto prosegue e vede Israele impegnato nella Striscia, con l’operazione a Rafah ormai a un punto avanzato, sul fronte nord con il Libano e sul fronte della propaganda. Ma le principali accuse sono rivolte al regime iraniano, accusato dal governo israeliano di tenere la regia di tutte queste situazioni.
• Operazione militare a Rafah
L’IDF prosegue l’operazione militare a Rafah dove sono stati eliminati centinaia di terroristi e numerosi tunnel, secondo quanto confermato dal portavoce del governo israeliano David Mencer, che annuncia che Israele sta sconfiggendo le truppe di Hamas a Rafah. «Sappiamo che stiamo pagando un prezzo pesante, ma i risultati ottenuti sono numerosi» ha riferito Mencer.
• Fronte con il Libano
Con un attacco aereo dell’aeronautica israeliana (IAF) è stato eliminato il terrorista Muhammad Mustafa Ayoub nell’area della Selaa nel sud del Libano. Ayub era un importante esponente dell’unità missilistica di Hezbollah. Negli ultimi mesi ha collaborato al lancio di missili e all’espletamento di operazioni terroristiche contro Israele. Israele precisa che non ci sono dispute territoriali con il Libano e militarmente o attraverso vie diplomatiche garantirà il ritorno in sicurezza dei residenti del nord nelle loro case.
• Parole chiave della Shoah usate per propaganda contro lo Stato ebraico
Il portavoce del governo israeliano ha sottolineato che termini quali genocidio, sterminio e fame (n.r. starvation), vengono utilizzate per attaccare e diffamare lo Stato ebraico. «Sono parole che richiamano la Shoah che vengono ora attribuite a noi. Ma i fatti dicono altro» precisa Mencer, enfatizzando che solo ieri 174 camion di aiuti umanitari sono entrati a Gaza dal valico di Kerem Shalom. «Ogni giorno entra l’80% di cibo in più a Gaza rispetto a prima del 7 ottobre» precisa il portavoce del governo. « Dove c’è la fame a Gaza, questa è orchestrata da Hamas. Il cibo entra a Gaza ma viene fermato dai terroristi che lo fermano prima che arrivi alle persone».
• Il ruolo dell’Iran
«Il regime islamo-fascista iraniano sta orchestrando il terrorismo contro Israele su più fronti: Gaza, Giudea e Samaria, Iraq, Siria, Yemen» accusa il portavoce del governo israeliano. «Quando un odiatore di ebrei dice che vogliono eliminare gli ebrei dalla faccia della terra dovremmo credergli e noi gli crediamo» ha affermato Mencer enfatizzando la serietà delle misure che stanno prendendo per affrontare la minaccia.
Guerra Libano – Israele: le colpe di Hezbollah e quelle di UNIFIL
Hezbollah (e quindi l'Iran) sta trascinando il Libano in una guerra su larga scala con Israele, ma i media internazionali quasi non se ne curano
di Franco Londei
I generali israeliani hanno approvato i piani di battaglia in Libano. Ormai la guerra aperta è solo una questione di giorni a meno che il Segretario di Stato americano, Antony Blinken, non riesca nel miracolo di far ragionare i mullah libanesi di Hezbollah.
È curioso come i media internazionali parlino poco o niente del pericolo che scoppi un conflitto su larga scala tra Israele e Libano o, più precisamente, tra Israele ed Hezbollah, che vuol dire tra Israele e Iran, un conflitto di proporzioni cento volte maggiori di quelle viste a Gaza.
Forse sarà perché a volere a tutti i costi la guerra è Hezbollah, cioè l’Iran, che da anni disattende la risoluzione 1701/2006 delle Nazioni Unite la quale prevede (semplificando) che a sud della linea blu delimitata dal fiume Litani non ci possano essere uomini armati.
Hezbollah ha invece fortificato la zona a sud del fiume Litani schierando centinaia di batterie di missili puntati su Israele, il tutto tranquillamente sotto gli occhi di UNIFIL, cioè il contingente ONU incaricato di far rispettare la risoluzione 1701.
Dopo il 7 ottobre Israele non vuole e non può rischiare che il massacro si ripeta anche a nord, per cui pretende che Hezbollah si ritiri oltre la linea blu così come prevede la risoluzione ONU. Cosa che però Hezbollah si rifiuta di fare mentre UNIFIL appare del tutto impotente, come del resto negli ultimi 18 anni durante i quali non solo non ha vigilato, ma è sembrato connivente con Hezbollah.
Il più che probabile conflitto non andrebbe naturalmente a toccare direttamente l’Iran, ma coinvolgerebbe direttamente il Libano nella sua interezza. Per capirci, Beirut sarebbe un obiettivo dell’aviazione israeliana così come ogni parte del Libano che possa nascondere basi di Hezbollah.
Per il Libano, sull’orlo della bancarotta dopo decenni di oppressione di Hezbollah, sarebbe un disastro epocale dal quale molto difficilmente riuscirebbe a sollevarsi. Il tutto per far felici gli Ayatollah iraniani.
Naturalmente il silenzio dei media e delle cornacchie antisemite si romperà magicamente non appena il primo carro armato israeliano varcherà il confine libanese o quando la prima bomba colpirà una casa in apparenza civile ma che nasconde una base di Hezbollah, come ce ne sono a centinaia a sud della linea blu.
Ormai conosciamo bene il modus operandi della disinformazione araba e più in generale islamica.
A tal proposito va notato il silenzio delle cornacchie pro-pal sul vero apartheid al quale sono sottoposti i poveri palestinesi in Libano, costretti a vivere dentro le loro città (impropriamente chiamate campi profughi), senza nessuna possibilità di uscire neppure per lavorare visto che i palestinesi non possono lavorare in territorio libanese. Ma siccome Israele non c’entra, tutti zitti mi raccomando.
Il 29enne reporter Suleiman Maswadeh, un bel ragazzo arabo israeliano che dal primo canale della tv racconta ogni giorno la politica israeliana, ha fatto di nuovo mettere le mani nei capelli a tutti gli israeliani rendendo pubblico un incredibile documento dell'esercito venuto nelle sue mani. Vi si raccontava due settimane prima del pogrom, nei minimi particolari, quello che l'Idf sapeva sulla prospettiva dell'attacco di Hamas effettivamente poi realizzatosi, la Nukba, la maggiore strage di ebrei in un giorno dal tempo della Shoah. Sia il Nyt che il programma tv «Uvda» (Prova), di Ilana Dayan, avevano raccontato di notizie raccolte e poi archiviate, messe da parte per spocchia, pigrizia, burocrazia. Il lunghissimo documento nelle mani di Suleiman fu a suo tempo dichiarato degno di una riunione subito dopo il 7 ottobre, e lascia senza fiato perché l'Unità dell'Intelligence Militare 8200 sapeva tutto nei particolari.
È intitolato «Esercitazioni per il raid, dettagliate da capo a fondo», ed è così. Il 19 di settembre vennero consegnate a non si sa quale responsabile militare o politico: vi sono annotate le esercitazioni della Nukba minuto per minuto, cosa mangiavano a colazione, come pregavano col loro capo spirituale preparandosi a uccidere, tutti gli obiettivi dei kibbutz e delle città, e anche il preciso ordine di portarsi via dopo l'eccidio 250 rapiti, quasi il numero esatto, 251, di uomini, vecchi, donne e bambini realmente trascinati a Gaza il 7 ottobre. Il documento racconta come alle 12, dopo aver mangiato, i terroristi ricevevano equipaggiamenti e armi per le esercitazioni e poi ogni compagnia, alle due precise, provava le sue aggressioni a una struttura, a un luogo specifico (caserma, kibbutz, città, quello che è realmente accaduto insomma) secondo i piani. Venivano approntate finte forze armate israeliane, si consegnavano mappe dettagliate delle stanze di controllo, delle sale di riunione, di mense e dormitori. Sono state rivelate istruzioni specifiche, l'ordine di non lasciare tracce degli ordini scritti, di verificare che gli ostaggi non portassero un telefono, e anche di ucciderli se disturbavano o tentavano di fuggire, previo permesso del comandante. L'indicazione di bendarli portandoli a Gaza comprende anche i bambini come anche quella di cosa farne, dove metterli. L'unico errore rispetto alla storia dell'attacco è che si dice che dozzine di terroristi vi saranno impegnati, e non i tre o addirittura quattromila usati. Suleiman riporta che negli alti gradi qualcuno ha letto il documento, e ha mostrato che su una pagina qualcuno ha scritto «Voglio piangere, gridare, imprecare». L'esercito ha aggiunto questo rapporto alle responsabilità da verificare e punire, e ha dichiarato che la commissione lo farà. Poca soddisfazione rispetto allo scandalo e ai suoi micidiali punti interrogativi.
Nel frattempo la guerra seguita a presentare i suoi conti: percorrono le strade principali e bloccano il traffico di Gerusalemme le manifestazioni contro Netanyahu. La polizia reagisce all'assedio alla Knesset e alla casa del primo ministro arrestando alcuni manifestanti, le accuse volano pesanti, Netanyahu ha risposto chiedendo di evitare la «guerra fratricida». Macron, sulla base di accuse poi rivelatesi fuorvianti, aveva chiuso a Israele la mostra Mercato della Difesa Eurosatory, e persino, poi, a tutti gli israeliani. Ieri si è registrata una marcia indietro ancora non completa, ma significativa.
Il cartello di divieto d'ingresso è stato tolto. L'inviato di Biden, Amos Hochstein, si adopera in Libano per evitare l'escalation. Il ministro degli esteri israeliano Israel Katz avverte: «Se ci fosse una di guerra totale, Hezbollah sarebbe distrutto».
“Gaza è stata distrutta da Hamas, la nostra fine decisa il 7 ottobre”
I rifugiati palestinesi: «Sinwar è uno psicopatico, sapeva che Israele avrebbe reagito».
di Francesca Paci
«Gaza era una prigione a cielo aperto, ma era casa mia e Hamas l’ha distrutta, Hamas ha distrutto Gaza». La videochiamata arriva da Khan Yunis, è un momento buono per telefonare. Jamal, che parla camminando tra gli scheletri dei palazzi in bianco e nero, è uno dei molti palestinesi della Striscia che insieme a Israele maledice Hamas, ma è soprattutto uno dei pochissimi disposti a dirlo, specialmente da lì, specialmente mentre l’ultimo devastante bombardamento israeliano sul campo profughi di Nuseirat allunga la lista delle vittime già ben oltre quota 37 mila, specialmente nelle ore in cui l’estrema destra al governo con Bibi Netanyahu liquida qualsiasi connazionale contrario alla guerra come un alleato di Hamas.
«La storia non è cominciata il 7 ottobre, quella di Hamas è da diciotto anni la dittatura di un partito unico che governa con il terrore due milioni di persone. Ho sentito mille volte ripetere che sono stati i palestinesi a votare per Hamas nel 2006, ma è passata una vita, mezza Gaza non era neppure nata allora e, in compenso, è cresciuta sotto il giogo di un regime violento, corrotto e al servizio dell’Iran. Le cose sono, se possibile, anche peggiorate da quando ha preso il potere Yahya Sinwar, uno psicopatico che ha trascorso nelle carceri israeliane vent’anni, molti dei quali in isolamento. La prova è proprio l’attacco del 7 ottobre, Sinwar ha scatenato contro Israele una guerra che sapeva di non poter vincere, ma che avrebbe provocato una reazione furibonda le cui conseguenze sono tutte qui adesso, le stiamo pagando noi, ogni strage di civili di cui Israele viene chiamato a rispondere dalla comunità internazionale è per i leader di Hamas una medaglia, avevano bisogno di decine di migliaia di morti per intitolarsi la resistenza». Jamal, un nome di fantasia come tutti quelli di questo racconto a più voci, ha 28 anni, ha studiato legge e Gaza City e nel 2019 ha partecipato alle manifestazioni del movimento bidna n’eesh (in arabo “vogliamo vivere”) contro il malgoverno della Striscia, uno dei coraggiosi tentativi di alzare la voce che i palestinesi hanno azzardato in questi anni, a partire dal 2011, salvo essere presto silenziati come traditori.
Mohammad, anche lui raggiunto al telefono, vive a Rafah, in una tenda che, ruotando lo schermo, mostra con dignità tra i gridolini di sottofondo dei suoi tre figli piccoli: «Siamo fuggiti da Gaza City settimane fa e abbiamo aspettato a lungo, dormendo all’aperto, la tenda che in quanto profughi avremmo dovuto ricevere dall’Unicef. Le organizzazioni internazionali fanno quello che possono, ma sin dal 2007 le assunzioni di personale locale passano attraverso gli uffici di Hamas, gli stessi che controllano gli aiuti e li fanno pagare a chi non appartiene alla rete governativa.
È così per l’alloggio e per il cibo. Ho raccolto, indebitandomi, 850 shekel per comprare questo riparo, 50 shekel al metro quadrato per un «tetto» che gli affiliati di Hamas hanno ottenuto gratuitamente. Almeno tre quarti dell’apparato operativo di Hamas è qui, a Rafah, si nasconde tra noi». Nella vita precedente al 7 ottobre, Mohammad vendeva frutta al mercato vicino alla spiaggia, adesso passa le giornate con gli occhi al cielo, «condannato a sopravvivere tra le bombe israeliane e la dittatura di Hamas». Il nemico esterno e quello interno, «il cancro che uccide la società palestinese pretendendo di difenderla».
La guerra cancella le sfumature, o di qua o di là: e molti si sentono schiacciati in mezzo, palestinesi che non sono e non vorrebbero essere equiparati ad Hamas. La polarizzazione però, è lo spirito dei tempi. Ieri mattina un gruppo di deputati di «Potere ebraico», il partito della destra radicale israeliana di cui è leader il ministro Itamar Ben Gvir, ha presentato alla Knesset il neonato «comitato per il rinnovo degli insediamenti a Gaza», una lobby che preme per rioccupare la Striscia rimandando le lancette della Storia indietro fino al disimpegno del 2005.
«Gaza è terra palestinese e deve restare palestinese ma non vogliamo Hamas, la nostra più grande paura in questo momento è che l’offensiva israeliana si fermi quando Hamas non sarà più in grado di colpire Israele, ma sarà ancora sufficientemente in forze da rovinare ulteriormente la vita dei palestinesi» dice Saleem, 27 anni, una delle testimonianze che «The Center for peace communications», un’associazione della diaspora gazawi con base negli Stati Uniti, porterà oggi a Montecitorio per un’audizione al comitato dei diritti umani del Senato e un incontro informale con la commissione esteri.
Con loro c’è la voce di Ahmed, 32 anni: «Nessuno che non lavorasse con Hamas immaginava un attacco come quello del 7 ottobre. Ci siamo svegliati all’alba con le immagini sui telefonini che raccontavano un film dell’orrore di cui eravamo protagonisti nostro malgrado, sadici che a nome nostro spaccavano la testa di donne, anziani, bambini. È Hamas che ha diffuso la storia dei civili unitisi ai massacri e agli stupri: è falso, sono stati loro, almeno duemila operativi che hanno colpito e sono tornati a mescolarsi tra di noi, facendosi scudo dei nostri figli e diffondendo attraverso le mille moschee del regime la vittoria della resistenza. Hamas è pagato dall’Iran e ha sovrapposto la guerra degli ayatollah alla causa palestinese».
E poi c’è Khalil, cinquant’anni, è riuscito a fuggire un mese fa con la famiglia attraverso il valico di Rafah, dove, racconta, «gli amici egiziani si fanno pagare il passaggio diverse migliaia di euro a persona». Si sta mettendo in viaggio verso la Germania e non tornerà indietro: «Gaza non c’è più, Israele ha creato le condizioni perché, dopo anni di umiliazioni, la pentola a pressione esplodesse ma Hamas non aspettava altro, ha sequestrato la nostra storia come ha sequestrato gli israeliani il 7 ottobre». Casa sua era e non è più a Deir al Balah, nel centro della Striscia, a pochi chilometri da Nuseirat, dove l’esercito israeliano ha liberato Noa Argamani, 25 anni come suo figlio.
l settore energetico israeliano conta oltre 300 imprese innovative
di Francesco Paolo La Bionda
In Israele, il comparto Energy Tech, che raccoglie startup e imprese impegnate a fornire soluzioni innovative e sostenibili per la produzione e il consumo di energia, è arrivato a contare oltre 300 aziende, di cui 160 sono eccellenze a livello globale. Lo rivela il censimento effettuato da Start-Up Nation Central, un’organizzazione no-profit che promuove l’ecosistema dell’innovazione israeliano in tutto il mondo, in collaborazione con Ignite the Spark e l’Israel Export Institute.
Dall’analisi emerge un panorama imprenditoriale prevedibilmente giovane, con il 70% di queste imprese che è stato fondato negli ultimi dieci anni, con dieci nate solo nel corso dell’ultimo anno. I trend di crescita si rivelano comunque robusti: il 40% del totale si trova già in una fase di maturità imprenditoriale e nel corso degli ultimi dodici mesi sono stati raccolti 403 milioni di dollari in finanziamenti.
I dati sono stati resi disponibili anche sotto forma di mappa, dalla Israel Energy Tech Landscape Map 2024, che distingue tra i diversi ambiti di attività e tecnologici individuando otto categorie: produzione, trasmissione e distribuzione, cattura, utilizzo e immagazzinamento del carbonio, valorizzazione dei rifiuti, stoccaggio domestico, idrogeno, stoccaggio industriale e cybersicurezza.
“Con il mondo sempre più in cerca di soluzioni sostenibili in ambito energetico, l’approccio israeliano all’innovazione è fondamentale. Gli imprenditori israeliani stanno fornendo soluzioni avanzate per rivoluzionare tutti gli ambiti delle nuove filiere dell’energia e generare un impatto positivo nel comparto Energy Tech a livello globale”, spiega Alon Turkaspa, AgriFood Tech and Climate Tech Sector Lead di Startup Nation Central.
• In Israele domina ancora l’energia fossile, ma le fonti green hanno un grande potenziale
Secondo i dati ufficiali, nel 2022 Israele ha prodotto energia elettrica per quasi il 90% da fonti fossili, primariamente da gas naturale, di cui il paese è produttore dall’inizio del millennio, e in secondo luogo da carbone. Per le rinnovabili, la parte del leone l’ha giocata il solare fotovoltaico.
I motivi dell’utilizzo inferiore alle aspettative delle fonti green sono principalmente le lungaggini burocratiche, la mancanza di terreni adatti, la mancanza di elettrodotti sufficientemente potenti nelle aree più remote e il costo più basso della generazione da gas naturale, data la disponibilità domestica.
Tuttavia, un grande potenziale di crescita per le rinnovabili potrebbe arrivare dalla politica: già nel 2021, l’allora Primo Ministro Naftali Bennet aveva fissato l’obiettivo di un azzeramento delle emissioni israeliane entro il 2050. Un obiettivo che stava per diventare legge lo scorso settembre, prima che il pogrom del 7 ottobre sconvolgesse le priorità nazionali, quando il Parlamento aveva discusso un disegno di legge sul clima, e che potrebbe un giorno essere ripreso in mano dal governo.
Per mesi, Israele ha sottolineato che le denunce di “fame” a Gaza sono un mito o una bufala. Ciononostante, i media, le organizzazioni internazionali e i tribunali hanno continuato a diffondere la narrativa secondo cui Israele avrebbe impedito il rifornimento di cibo alla popolazione di Gaza.
Le accuse si basavano in gran parte su un rapporto pubblicato a marzo da un organismo affiliato alle Nazioni Unite chiamato IPC (Integrated Food Security Phase Classification). Ora che lo stesso gruppo ha pubblicato un nuovo rapporto che conclude che la carestia non è plausibile, viene ampiamente ignorato.
• COSA DICE L’IPC?
L’IPC è una partnership di ONG e organismi delle Nazioni Unite che valuta la sicurezza alimentare globale ed è stata la fonte principale dietro la dichiarazione di carestia a Gaza. Il rapporto del gruppo del 18 marzo avvertiva che centinaia di migliaia di palestinesi stavano vivendo una carestia e che molti altri erano a rischio imminente, secondo le loro proiezioni per i mesi successivi.
Il rapporto è stato screditato da una revisione del Ministero della Salute israeliano che ha sollevato “serie preoccupazioni sul fatto che le linee guida e i principi dell’IPC non sono stati rispettati, compreso l’impegno alla trasparenza del processo, della metodologia e delle fonti di informazione”.
Nonostante la citazione a livello mondiale, Israele ha criticato il fatto che il rapporto si basava su campioni di piccole dimensioni, su fonti di dati non rivelate, sulla mancanza di trasparenza e sulla mancanza di riferimenti a fonti disponibili al pubblico. Pertanto, le conclusioni e le proiezioni del rapporto sono state ritenute inaffidabili e sono state raccomandate per la prossima edizione dell’IPC.
“Il prossimo rapporto IPC su Gaza, che dovrebbe essere pubblicato all’inizio di giugno, dovrebbe evitare di ripetere questi fallimenti e includere un riconoscimento e una correzione degli errori commessi nel rapporto precedente”, ha dichiarato il ministero della Sanità israeliano.
Il rapporto del gruppo del 4 giugno sembra aver recepito in qualche modo il consiglio.
Il rapporto ha inoltre osservato che la nuova analisi del Comitato di revisione della carestia (FRC) ha concluso che la “carestia” non è “plausibile” senza “prove a sostegno”. Inoltre, ha ammesso che le prove presentate nel rapporto precedente non erano coerenti con la classificazione di “carestia”.
“L’FRC non ritiene plausibile l’analisi di FEWS NET, data l’incertezza e la mancanza di convergenza delle prove di supporto utilizzate nell’analisi. Pertanto, la FRC non è in grado di stabilire se le soglie di carestia siano state superate o meno nel mese di aprile”, si legge nell’ultima analisi dell’IPC. “In effetti, nelle circostanze attuali, dato l’aumento dell’offerta di cibo, potrebbe essere considerata possibile anche una riduzione della malnutrizione acuta”.
• ISRAELE: NON C’È “CARESTIA” A GAZA
I funzionari israeliani hanno ripetutamente affermato che non esiste alcuna politica per impedire l’accesso al cibo da parte della popolazione di Gaza. Al contrario, sostengono che le autorità hanno fatto di tutto per facilitare l’ingresso di quasi 700.000 tonnellate di cibo e aiuti umanitari nell’enclave palestinese.
Dal 7 ottobre è entrato a Gaza più cibo al giorno rispetto a prima dell’inizio della guerra, hanno insistito. Più di 3.000 calorie pro capite al giorno, secondo il COGAT, l’ente israeliano responsabile del coordinamento delle attività governative nei territori.
Ciononostante, i media e le organizzazioni internazionali continuano a spingere la narrativa della “fame”. Cindy McCain, direttrice esecutiva del Programma alimentare mondiale, ha dichiarato il mese scorso di ritenere che nel nord di Gaza ci sia una “carestia in piena regola”. Le accuse rivolte a Israele dalla vedova del defunto senatore John McCain sono state riprese da molti in tutto il mondo.
Il ministro israeliano per gli Affari strategici Ron Dermer ha respinto queste accuse nelle interviste televisive rilasciate a fine maggio.
“Non c’è mai stata carestia a Gaza. Questa è una storia falsa”, ha detto Dermer in un’accesa discussione su Sky News.
Parlando con la BBC, ha aggiunto: “L’affermazione di una vera e propria carestia nel nord di Gaza è una vera e propria assurdità. È semplicemente sbagliata nei fatti. I prezzi dei generi alimentari di base nella parte settentrionale di Gaza sono diminuiti di circa il 90%. Questa è semplicemente una calunnia contro Israele. L’idea che ci sia cibo nella parte meridionale di Gaza e carestia nel nord, e che la gente non cammini per qualche chilometro per procurarsi il cibo, è assurda”.
Forse la prova più incriminante contro le accuse della McCain è stato uno scambio che i rappresentanti della sua stessa organizzazione avrebbero avuto con le autorità israeliane all’inizio di maggio.
Il 5 maggio, il COGAT ha pubblicato su 𝕏: “Nei colloqui tra rappresentanti israeliani e delle Nazioni Unite, tra cui il @PAM, nessuno degli enti ha indicato un rischio di carestia nel nord di Gaza. Hanno notato che la situazione umanitaria sta migliorando e che c’è una varietà di beni sia nei magazzini che nei mercati del nord. Notando il miglioramento della situazione, la settimana scorsa le organizzazioni internazionali hanno dichiarato che il volume delle merci trasportate nel nord di Gaza deve essere ridotto, poiché le quantità sono troppo elevate rispetto alla popolazione”.
Il “miglioramento della situazione” è stato evidenziato anche dalle Nazioni Unite.
“Dall’esame dell’FRC condotto nel marzo 2024, sembra esserci stato un aumento significativo del numero di camion di cibo che entrano nel nord di Gaza”, si legge nell’ultimo rapporto dell’IPC.
Il rapporto sostiene inoltre un’affermazione spesso avanzata dal COGAT israeliano contro le Nazioni Unite, aggiungendo: “L’FRC nota che il numero complessivo di camion che entrano nella Striscia di Gaza e di cibo disponibile che FEWS NET ha utilizzato per la sua analisi è significativamente inferiore a quello riportato da altre fonti”.
Per tutta la durata della guerra, Israele ha insistito sul fatto che ci fossero lacune significative nella quantità di camion di aiuti contati e presentati dalle Nazioni Unite. Ha incolpato le Nazioni Unite per il ritardo nella distribuzione degli aiuti a Gaza.
“Il contenuto di 1.000 camion di aiuti sta ancora aspettando di essere raccolto dal lato gazanese di Kerem Shalom”, ha twittato il COGAT nei giorni scorsi, esortando le Nazioni Unite a fare un lavoro migliore.
«Mille camion di aiuti aspettano di essere ritirati sul lato di Gaza del valico di Kerem Shalom» ha spiegato in un briefing il portavoce del governo israeliano David Mencer. Secondo i dati resi noti dal governo israeliano, dall’inizio della guerra oltre 35mila camion e 670mila tonnellate di aiuti umanitari sono stati consegnati a Gaza. «Nella Striscia entra l’80% di cibo in più rispetto a prima del 7 ottobre» ha sottolineato Mencer, aggiungendo che quotidianamente arrivano a Gaza da 100-150 fino a 400 camion di aiuti umanitari, soprattutto tramite il varco di Kerem Shalom.
«Hamas deruba i camion e vende gli aiuti sul mercato nero a prezzi più alti» accusa Mencer, rivelando la strategia israeliana: «Ciò che abbiamo fatto per contrastare ciò è inondare Gaza di aiuti. Portiamo aiuti a Gaza perché la nostra guerra non è contro i civili, anche se purtroppo secondo le ultime statistiche circa il 70-80% di loro sia favorevole a quanto compiuto da Hamas il 7 ottobre; la nostra missione è quella di portare più aiuti possibile e di distruggere Hamas. Non ci può essere una nuova realtà a Gaza fino a quando Hamas non sarà distrutto e gli stessi abitanti di Gaza non saranno liberi di esprimere la loro opinione e fino a quando Hamas non sarà distrutto».
Sono 255 i giorni di guerra contro Hamas e 662 i soldati israeliani caduti in combattimento dal 7 ottobre. Sono questi gli ultimi dati forniti da Israele. Dopo la morte al fronte di quattro soldati dell’IDF negli ultimi giorni, il primo ministro Benjamin Netanyahu è intervenuto per esprimere la sua solidarietà alle famiglie dei caduti, ricordando agli israeliani che «Quando il prezzo è così alto dobbiamo ricordarci per cosa combattiamo: stiamo combattendo per assicurare la nostra esistenza e il nostro futuro» ha ricordato Netanyahu, aggiungendo che gli obiettivi della guerra contro Hamas sono la distruzione delle capacità militari e di governo del movimento terroristico, il ritorno a casa degli ostaggi, fare sì che Gaza non possa più costituire una minaccia per Israele, il ritorno in sicurezza dei residenti evacuati dalle loro case, sia al nord che al sud.
Il primo ministro ha annunciato lo scioglimento del gabinetto di guerra, le cui funzioni saranno sostituite dal gabinetto di sicurezza. A tal proposito Netanyahu ha sottolineato che questo organo faceva parte dell’accordo di coalizione con Benny Gantz e che, dopo la decisione di quest’ultimo di lasciare il governo, non è più necessario.
Sul fronte con il Libano, dall’inizio della guerra, Hezbollah ha sparato oltre 5mila razzi verso le case degli israeliani. Non c’è alcun territorio conteso tra Israele ed il Libano, sottolineano fonti israeliane: «Useremo tutti i mezzi necessari per ripristinare la sicurezza al confine nord. Lo Stato libanese e l’organizzazione terroristica di Hezbollah, che sta operando sotto la guida dell’Iran, hanno piena responsabilità per il deterioramento della situazione di sicurezza nel nord, in violazione delle risoluzione delle Nazioni Unite. Tramite la diplomazia o militarmente, in un modo o in un altro garantiremo il rientro degli israeliani in sicurezza nel nord di Israele» ha sottolineato David Mencer.
Abdullah Al-Jamal in una fotografia postata su facebook nel 2020
Lunedì 17 giugno, il Wall Street Journal ha portato alla luce dettagli sconvolgenti riguardanti la detenzione di tre dei quattro ostaggi salvati con successo dall’IDF l’8 giugno da parte di famiglie di Gaza. I racconti dei vicini hanno contribuito a svelare una realtà inquietante, nascosta dietro la facciata di una vita quotidiana apparentemente normale. Almog Meir Jan, Andrey Kozlov e Shlomi Ziv erano stati tenuti prigionieri da famiglie palestinesi insospettabili in una piccola stanza di un appartamento nel campo di Nuseirat. Accanto alla casa degli Al Jamal, anche la famiglia Abu Nar ha tenuto prigioniera la ventiseienne Noa Argamani, fino a quando l’edificio non è stato distrutto durante l’operazione di salvataggio dell’IDF, portando alla morte di diversi occupanti. Noa è passata alla cronaca per l’agghiacciante ripresa del suo rapimento al festival musicale Supernova il 7 ottobre, prima di essere segregata in una villa di lusso, dove le donne sequestrate «pulivano il cortile, lavavano i piatti e preparavano il cibo che non potevano mangiare».
La storia dei tre ostaggi prigionieri si dipana nella casa della famiglia Al Jamal, una famiglia rispettata e conosciuta nella comunità per la loro affiliazione con Hamas. Ahmed Al Jamal, un medico di 73 anni e Imam, conduceva una vita apparentemente irreprensibile, dividendo le sue giornate tra una clinica pubblica al mattino e una privata nel pomeriggio. Era noto per le sue bellissime recitazioni del Corano. Nessuno avrebbe immaginato che dietro questa routine apparentemente banale si celasse una verità tanto scioccante.
Ahmed, insieme a sua moglie e suo figlio Abdullah, un giornalista, teneva prigionieri gli ostaggi israeliani. I vicini, secondo le ultime ricostruzioni, hanno rivelato attoniti che, sebbene fossero consapevoli dei legami della famiglia Al Jamal con Hamas, non avrebbero mai sospettato che il loro appartamento fosse diventato una prigione segreta. È incredibile pensare come, in un quartiere densamente popolato dove è possibile sentire persino il rumore dei vicini che tossiscono, un tale segreto potesse essere mantenuto così a lungo. Gli ostaggi hanno raccontato il loro calvario, descrivendo come fossero stati confinati in una stanza chiusa e sorvegliata al piano superiore, mentre la vita familiare di Abdullah proseguiva indisturbata al piano inferiore. L’interazione con i figli di Abdullah era ridotta al minimo, un evento raro che avveniva solo quando venivano ammessi brevemente in cucina. Abdullah, come precisa il Jewish Chronicle, era un collaboratore di The Palestine Chronicle, dove il suo ultimo articolo era stato pubblicato il 7 giugno. Aveva anche una pagina del profilo sul sito web di Al Jazeera, dove è stato descritto come reporter spesso delle rivolte al confine di Gaza del 2018-2019, chiamate la “Grande Marcia del Ritorno” dei palestinesi. L’audace operazione di salvataggio dell’IDF si è conclusa con pesanti attacchi aerei che hanno distrutto la residenza degli Al Jamal, causando la morte di Abdullah, di sua moglie Fatma e del padre Ahmed. I figli della coppia sono sopravvissuti, secondo quanto riportato dai residenti locali.
L’operazione dell’8 giugno è avvenuta nel mezzo di violenti scontri di strada tra soldati dell’IDF e militanti di Hamas, esacerbando ulteriormente la morte e la distruzione nel quartiere. «Se avessimo saputo che le persone rapite erano qui, ce ne saremmo andati», hanno detto molti abitanti al Wall Street Journal.
«A seguito dei controlli dell’IDF e dello Shin Bet, si può confermare che Abdullah al-Jamal era un agente dell’organizzazione terroristica Hamas, che teneva gli ostaggi Almog Meir, Andrey Kozlov e Shlomi Ziv nella sua casa di famiglia a Nuseirat», hanno dichiarato i militari in una dichiarazione pubblicata su X. «La casa della famiglia di Abdullah teneva ostaggi insieme ai membri della famiglia. Questa è un’ulteriore prova che l’organizzazione terroristica Hamas utilizza la popolazione civile come scudo umano», aggiunge la nota.
Hamas è stato condannato per aver messo incautamente in pericolo i civili ospitando prigionieri in un quartiere densamente popolato a loro insaputa, mentre alcuni sospettano che coloro che vivevano nelle vicinanze potessero essere a conoscenza degli ostaggi tenuti nelle vicinanze.
Questa è una delle tante storie tragiche che stanno emergendo nel conflitto in Medio Oriente; la storia di un rispettato medico, noto per la sua dedizione alla cura dei pazienti, che si è rivelato un carceriere di ostaggi. La sua vita, apparentemente normale e dedicata al benessere degli altri, nascondeva un lato oscuro che nessuno avrebbe mai immaginato. Una vicenda che rivela come dietro le facciate più rispettabili, possono nascondersi le storie più terribili. E come la tranquillità apparente di un quartiere può essere un velo sottile che cela profonde e sconvolgenti verità.
(Bet Magazine Mosaico, 18 giugno 2024)
Forse avete sentito dire: la palla è nel campo di Hamas.
“È corretto affermare che la palla è nel campo di Hamas”, ha dichiarato il portavoce della Casa Bianca John Kirby circa una settimana e mezza fa. Due giorni dopo, il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan ha ripetuto che l’attuale piano per il cessate il fuoco “è una proposta che Israele ha accettato prima e continua ad accettare oggi. La palla è nel campo di Hamas”.
Due settimane dopo le rassicurazioni di Sullivan, la palla resta nel campo di Hamas. In effetti, la palla sembra un po’ troppo comoda nel campo di Hamas. La palla comincia a mettere radici reali nel campo di Hamas. Di questo passo, il Segretario di Stato Antony Blinken potrebbe non riprendersi mai più la palla.
Cosa sta accadendo, esattamente? La risposta è che abbiamo raggiunto il punto di un processo diplomatico simile a un guasto informatico, in cui i numeri semplicemente non vengono più calcolati. Il computer si è impallato.
Le norme su cui si basa la diplomazia non si applicano ad Hamas. Il gruppo le rifiuta. In un normale negoziato, Hamas dovrebbe accettare o respingere l’accordo di cessate il fuoco sottoscritto da tutte le altre parti. Un rifiuto richiederebbe una controproposta: sono tutte cose piuttosto elementari. C’è un periodo di tempo limitato in cui la palla può rimanere nel tuo campo.
Ma a questo Hamas risponde: chilodice?
Il conflitto resta bloccato finché Hamas si rifiuta di restituire la palla. Hamas accoglie con favore la morte di palestinesi e israeliani, e il proseguimento dell’operazione israeliana a Rafah probabilmente non rappresenta una minaccia esistenziale per Hamas a meno che l’Amministrazione Biden non cambi la propria posizione. Fino ad allora, Israele è costretto a procedere troppo lentamente per portare a termine il lavoro.
Gli Stati Uniti sono l’unica parte in questi negoziati per il cessate il fuoco che potrebbe cambiare lo stato delle cose da un giorno all’altro. Questo è uno dei vantaggi di essere una superpotenza. Ma Biden non minaccia nemmeno di volerlo fare; perché, quindi, Hamas dovrebbe fare delle mosse improvvise?
Il leader di Hamas Yahya Sinwar non ha inventato questo trucco per fermare il tempo. Lo ha ereditato. Quando Yasser Arafat rifiutò l’intera offerta di statualità presentata da Bill Clinton e Ehud Barak, Arafat non fece una controproposta. Semplicemente se ne andò. E cosa gli costò? Niente. Meno di un decennio dopo, Ehud Olmert si presentò nuovamente al successore di Arafat, Mahmoud Abbas, con un’altra offerta. Abbas si limitò semplicemente a scomparire.
Naturalmente, mezzo secolo prima del rifiuto di uno Stato da parte di Arafat, gli arabi con cui gli ebrei avrebbero dovuto dividere la terra, fecero lo stesso. Invece di negoziare le linee su una mappa, fu presa la decisione di tentare di uccidere gli ebrei in massa e impossessarsi di tutta la terra. Eccoci qui, dopo tutti questi anni, e nessuna risposta palestinese si è discostata sostanzialmente da quella formula di base.
La differenza è che Arafat e Abbas impararono le loro battute e recitarono la propria parte nel teatro della diplomazia internazionale, almeno in una certa misura. Abbas era sinceramente contrario, per motivi pratici, all’avvio della Seconda Intifada da parte di Arafat. Una rinuncia non sincera alla violenza è sufficiente per convincere militari americani a venire in Cisgiordania e cercare di addestrare le forze di sicurezza palestinesi.
Ma Hamas ha battuto l’Autorità Palestinese di Abbas sul campo di battaglia. E Hamas ha battuto anche il partito Fatah di Abbas alle urne. Quanto vale la legittimità internazionale dell’Autorità palestinese? Meno di zero, per quanto riguarda Sinwar. Tiene in ostaggio degli americani e gli americani non permetteranno nemmeno a Israele di distruggere Hamas definitivamente.
Dopodiché, perché mai qualcuno dovrebbe attenersi nuovamente alle norme della diplomazia internazionale? Perché seguire le mozioni? E perché rispondere in maniera definitiva a un negoziato?
Dopo tutto, cosa faranno Joe Biden, Antony Blinken e Jake Sullivan al riguardo?
PIERO BIANUCCI, "La Stampa" MIRNA CICIONI, Università di Melbourne ROBERTA MORI, Centro Internazionale di Studi Primo Levi, Torino
VENERDÌ 21 GIUGNO 2024, ORE 17.30
Torino, Polo del ’900 - Palazzo San Celso Sala Memoria delle Alpi, Piazzetta Antonicelli (3°p.)
Pochi sanno che Primo Levi, oltre che autore di Se questo è un uomo, è stato un enigmista. Amava ingegnarsi con i giochi linguistici. Un giorno inviò a un grande specialista come Giampaolo Dossena un rebus disegnato su uno dei primi computer Macintosh. G elìde M anitra scura TE. Ne risulta una frase: Gelide mani trascurate. Proprio alla predilezione per le mani nella descrizione dei suoi personaggi e alle conseguenze esistenziali che da questa scelta derivano è dedicato uno dei saggi qui raccolti. La metafora del rebus serve a definire una strategia per interpretare l’opera di Levi che si presenta più complessa di quanto possa apparire. Questi saggi tentano di ricostruire alcuni aspetti del suo pensiero, di andare al di là della prima superficiale lettura.
Hezbollah sta portando il Libano sull’orlo di una guerra devastante
Hezbollah sta trascinando il Libano in una guerra devastante solo per compiacere i suoi padroni di Teheran.
L’intensificazione degli attacchi del gruppo terroristico libanese Hezbollah verso Israele potrebbe innescare una grave escalation. Lo ha dichiarato domenica l’esercito israeliano.
“La crescente aggressività di Hezbollah ci sta portando sull’orlo di quella che potrebbe essere un’escalation più ampia, che potrebbe avere conseguenze devastanti per il Libano e per l’intera regione”, ha dichiarato il portavoce dell’IDF, il contrammiraglio Daniel Hagari, in una dichiarazione video in lingua inglese.
Dopo che gli attacchi missilistici hanno causato incendi massicci nel nord, la settimana scorsa Israele ha ucciso il comandante Taleb Abdullah, l’ufficiale più anziano ucciso nei combattimenti.
Hezbollah ha risposto con un lancio di razzi senza precedenti sul nord di Israele.
Domenica due funzionari delle Nazioni Unite in Libano hanno avvertito che c’è un rischio “molto reale” che un errore di calcolo lungo il confine meridionale del Libano possa innescare un conflitto più ampio.
Il coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il Libano, Jeanine Hennis-Plasschaert, e il capo delle forze di pace ONU in Libano, Aroldo Lazaro, hanno dichiarato di essere “profondamente preoccupati” per l’escalation lungo il confine libanese.
CBS News ha riferito che anche i funzionari statunitensi sono sempre più preoccupati che possa scoppiare una guerra totale dopo otto mesi di schermaglie, da quando Hezbollah ha iniziato ad attaccare Israele in ottobre a sostegno di Hamas a Gaza.
Alla luce delle preoccupazioni degli Stati Uniti, il sito di notizie Axios ha riferito venerdì che Amos Hochstein, un consigliere senior del Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, arriverà in Israele lunedì per cercare di porre un freno all’escalation.
Hagari ha detto che Hezbollah “ha intensificato i suoi attacchi contro Israele. Da quando ha deciso di unirsi alla guerra iniziata da Hamas il 7 ottobre, Hezbollah ha sparato oltre 5.000 razzi, missili anticarro e UAV esplosivi dal Libano contro famiglie, case e comunità israeliane”.
“I proxy del terrore iraniano continuano a trascinare la regione verso la distruzione. Israele continuerà a combattere contro l’asse del male dell’Iran su tutti i fronti – a Gaza, in Libano – mentre lavoriamo per un futuro più sicuro per il Medio Oriente”, ha detto Hagari.
“Il 7 ottobre non può ripetersi, in nessuno dei confini di Israele. Israele ha il dovere di difendere il popolo di Israele. Noi adempiremo a questo dovere, a tutti i costi”.
Sabato due missili lanciati dal Libano hanno colpito limportante base di controllo del traffico aereo di Mount Meron dell’esercito israeliano. Le Forze di Difesa Israeliane hanno dichiarato che l’attacco non ha provocato feriti e “non ha danneggiato le capacità dell’unità”.
Hezbollah si è assunto la responsabilità dell’attacco, affermando di aver preso di mira le attrezzature della base con missili guidati.
Il gruppo terroristico ha attaccato più volte il Monte Meron, situato a circa otto chilometri dal confine con il Libano, durante la guerra in corso. Ha lanciato grandi raffiche di razzi contro il monte e missili guidati contro la base di controllo del traffico aereo che si trova in cima.
In un altro attacco, sabato, diversi droni carichi di esplosivo lanciati da Hezbollah dal Libano hanno impattato vicino alla comunità settentrionale di Goren, innescando un incendio. L’IDF ha dichiarato che sta indagando sul motivo per cui non è riuscito ad abbattere i droni.
Nell’ambito degli sforzi diplomatici per disinnescare le tensioni, il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato che Parigi, Washington e Gerusalemme formeranno un gruppo contrattuale per lavorare in tal senso, anche se venerdì il ministro della Difesa Yoav Gallant ha escluso il coinvolgimento di Israele.
Dall’8 ottobre Hezbollah attacca quasi quotidianamente le comunità e le postazioni militari israeliane lungo il confine, affermando di farlo in solidarietà con i palestinesi di Gaza, nel contesto della guerra scatenata dall’attacco terroristico dell’alleato Hamas.
Finora, le schermaglie al confine hanno provocato 10 morti tra i civili israeliani e 15 tra soldati e riservisti dell’IDF. Ci sono stati anche diversi attacchi dalla Siria, senza alcun ferito.
Hezbollah ha quantificato in 342 i membri uccisi da Israele durante le schermaglie in corso, soprattutto in Libano, ma alcuni anche in Siria. In Libano sono stati uccisi altri 63 agenti di altri gruppi terroristici, un soldato libanese e decine di civili.
(Rights Reporter, 17 giugno 2024)
Israele vuole migliorare la sua immagine, ma senza la Bibbia?
Gerusalemme sta lavorando con uno dei maggiori esperti di branding al mondo, mentre si preoccupa dell'impatto della guerra di Gaza.
di Ryan Jones
GERUSALEMME - La guerra di Gaza è stata sfruttata dagli antisemiti di tutto il mondo per dipingere Israele come il nemico pubblico numero uno, e molti israeliani sono sempre più preoccupati di ciò che questo potrebbe significare per il loro futuro.
Gerusalemme ha assunto un esperto di Nation Branding per rinnovare l'immagine dello Stato ebraico.
Ma la nuova campagna terrà conto dell'aspetto più importante della storia di Israele, la Bibbia? Peggio ancora, cercherà di negare il carattere biblico di Israele a favore di un'immagine più progressista e moderna?
• Brand.IL
La nuova iniziativa di branding si chiama Brand.IL ed è guidata da un gruppo di uomini d'affari e filantropi che si sono posti l'obiettivo di migliorare significativamente l'immagine internazionale di Israele.
• Esperti richiesti
Simon Anholt, esperto riconosciuto a livello mondiale di Nation Brandinge fondatore del Nation Brands Index (NBI), visiterà Israele questa settimana per gettare le basi di questo ambizioso progetto. Anholt è stato coinvolto nel branding di numerosi Paesi, tra cui Regno Unito, Giappone, Germania, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. La sua vasta esperienza e il suo approccio strategico si concentrano sull'azione piuttosto che sulla mera messaggistica, che ritiene essenziale per migliorare realmente la reputazione.
• Risultati del sondaggio sull’umore in Israele
Un sondaggio condotto dalla società di ricerche di mercato Shiluv per Brand.IL mostra che gli israeliani sono molto preoccupati per l'immagine internazionale del loro Paese. I risultati principali sono
Il 72% degli israeliani ritiene che Israele sia isolato e rifiutato a livello internazionale.
l 75% ritiene che lo Stato non stia facendo abbastanza per migliorare la propria immagine.
Il 68% afferma che l'immagine offuscata del Paese ha un impatto negativo sulla sicurezza nazionale e personale.
L'80% teme conseguenze economiche, come un aumento della disoccupazione e un calo degli investimenti stranieri e del turismo.
Inoltre, il 58% degli intervistati preferisce nascondere i simboli ebraici e israeliani quando viaggia all'estero e quasi la metà sta considerando di lasciare Israele. Questo riflette una notevole perdita di fiducia, dato che solo il 30% non è interessato ad assumere la cittadinanza straniera.
• Obiettivi strategici e aspettative Brand.IL si è posto l'obiettivo di migliorare la posizione di Israele nell'NBI, passando dall'attuale 46° posto a un posto tra i primi 30. Questo obiettivo si basa sul successo di Brand.IL. Si ispira alle storie di successo di Paesi come la Corea del Sud e gli Emirati Arabi Uniti, che hanno migliorato significativamente la loro immagine internazionale grazie a simili iniziative.
Il team di Anholt lavorerà con i principali responsabili di vari settori, tra cui il governo, l'esercito, le imprese, l'alta tecnologia e il mondo accademico, per sviluppare un quadro strategico per gli sforzi di rebranding di Israele. La classifica dei Paesi dell'NBI si basa sui seguenti criteri: Esportazioni, governance, cultura, popolazione, turismo, investimenti e immigrazione.
• Ulteriori implicazioni L'indagine mostra l'urgente necessità di sforzi strategici per contrastare la percezione negativa che ha fatto seguito agli eventi del 7 ottobre e alla successiva guerra di Gaza. L'obiettivo generale è quello di rafforzare l'immagine di Israele nel mondo, migliorando così la sua sicurezza, la resilienza economica e lo status generale sulla scena internazionale.
In questo percorso di branding, la collaborazione con Simon Anholt è un passo importante per cambiare la percezione di Israele nel mondo e affrontare le sfide immediate e a lungo termine poste dall'attuale immagine internazionale del Paese.
• È questo l'approccio giusto? Israele non è come il Regno Unito, la Germania, il Giappone o gli Emirati Arabi Uniti.
Il motivo per cui la maggior parte delle persone al mondo è interessata a Israele è la Bibbia. Per i cristiani, è la fede nella Bibbia che li attira in Israele. Per i laici e i musulmani, è il rifiuto di ciò che la Bibbia dice su Israele e sul suo futuro, anche se non ne sono sempre consapevoli.
Anholt e il suo team stanno aprendo un nuovo terreno. L'odio globale verso Israele è ossessivo ed esagerato, in misura incomparabile con gli atteggiamenti verso qualsiasi altro Paese. Il conflitto nella Striscia di Gaza è relativamente piccolo, ma in qualche modo è diventato la questione dominante in quasi tutti i Paesi del mondo. Non c'è una spiegazione logica per questo.
Anholt e il suo team riconoscono l'unicità della situazione di Israele? Perché solo allora capiranno che anche la soluzione deve essere unica. Il tempo lo dirà.
(Israel Heute, 17 giugno 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
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Da Vikipedia:
Il branding è una tecnica di marketing utilizzata dalle aziende per creare l’immagine desiderata di un prodotto o di un’azienda nella mente del consumatore. Un brand è l’immagine percepita del prodotto che si vende, e il branding è la strategia per creare quell’immagine. Per avere strategie di branding di successo, i clienti devono essere convinti che ci siano differenze significative tra i marchi esistenti in una categoria.
Chiaro? Non si dica banalmente che è lavaggio del cervello, perché si tratta di una delicatissima operazione chirurgica fatta sul vivo della mente umana al fine di renderla più adatta ad eseguire le direttive volute dalla mente del chirurgo. Direttive però che devono apparire come liberi atti delle menti chirurgicamente risettate, perché la libertà è un bene irrinunciabile nella superiore cultura occidentale. Sarà interessante in questo caso vedere quali saranno le "differenze significative" tra Israele e le altre nazioniche l'operatore chirurgico riuscirà far comparire nell'immagine dei sottoposti al risettaggio. M.C.
Un minyan sull’Everest. Charly Taieb racconta la spedizione con una dedica per la liberazione degli ostaggi
di Claudia De Benedetti
Un minyan, un gruppo di dieci uomini ebrei adulti, ha scalato per il secondo anno consecutivo l’Everest con un Sefer Torà; Charly Taieb, carismatico e brillante comunicatore, tra gli artefici della spedizione, è rientrato da qualche giorno a Parigi e ha accolto l’invito di Shalom di raccontare il profondo significato spirituale di una settimana indimenticabile.
Quando ho compiuto 60 anni ho deciso di regalarmi una esperienza fuori dal comune. Mi sono allenato per molti mesi ed ho compiuto con altri tre amici l’ascensione del Kilimangiaro. Quando sono rientrato ho pensato che avrei voluto condividere con un minyan una sfida estrema. Così è nato il minyan completo, non un uomo di più, non un uomo di riserva, per far sì che ognuno di noi sentisse su di se l’onere del progetto, fosse pienamente consapevole della sua unicità e della sua necessità per poter recitare le tefillot e per la lettura della Torà.
- Come vi siete preparati?
Nessuno di noi è particolarmente sportivo, abbiamo età diverse, un allenamento eterogeneo, ma fin da subito ciò che ci ha accomunato è stato il desiderio di raggiungere un obiettivo comune.
Cominciamo dalla dedica: nei mesi successivi al 7 ottobre abbiamo deciso di dedicare la spedizione ai nostri fratelli israeliani vittime dei massacri di Hamas. Speravamo con tutto il cuore che gli ostaggi venissero liberati prima della nostra partenza. Con il passare dei giorni abbiamo avuto la certezza che purtroppo non sarebbe accaduto. Abbiamo portato con noi le fotografie dei due fratellini Bibas e di altri ostaggi per chiederne l’immediata liberazione, dal tetto del mondo abbiamo pregato per il rilascio immediato degli uomini, delle donne e dei bambini prigionieri.
Abbiamo sempre recitato le tefillot con il minyan fino a che alcuni di noi non hanno più avuto la resistenza fisica per proseguire, hanno dovuto fermarsi a 5500 metri di altezza malgrado la loro volontà di ferro.
- Come avete trascorso lo Shabbat?
Durante le tappe che ci hanno condotto al campo base abbiamo incontrato molti israeliani, il venerdì li abbiamo invitati per condividere con loro la cena, eravamo in 35, l’atmosfera era meravigliosa, le storie personali di chi aveva amici o parenti in cattività ci hanno accompagnato i giorni successivi. Uno dei nostri ospiti ci ha colpito profondamente: era molto religioso ma si era allontanato dall’ortodossia, camminava tra India e Nepal, la settimana precedente si era sentito male, in quel momento aveva deciso di voler ritornare all’osservanza delle mitzvot, aveva chiesto ad Hashem di dargli ‘un segno’. Non scendo nei dettagli della storia ma ho la certezza che quello Shabbat è stato per lui il segno. Abbiamo riflettuto sul profondo legame che unisce il popolo ebraico alle montagne: da Abramo, con la sua salita sul monte Morià, a Mosè, con l’ascesa al Monte Sinai, al profeta Elia.
- E Yom HaAtzmaut?
Nel nostro viaggio abbiamo portato la bandiera d’Israele sia lo scorso anno sia quest’anno, l’abbiamo mostrata con orgoglio prima di interrompere l’ascesa per il maltempo. Quest’anno, come per tutti noi ebrei, è stato difficile festeggiare. Abbiamo osservato un minuto di silenzio per Yom HaZikharon. Israele è con noi in ogni momento della nostra impresa, non ci abbandonerà mai.
- Progetti per il futuro?
Tornare a scalare l’Everest, compiendo le mitzvot che ci rendono uomini migliori e celebrando il ritorno a casa di ognuno degli ostaggi.
Il Telegraph spiega come a impedire il cessate il fuoco non sia l'insistenza nel portare avanti la campagna militare di Netanyahu ma il fanatismo di Yahya Sinwar. I politici occidentali dovrebbero capirlo
di Giulio Meotti
Porre fine alle sofferenze sopportate dai palestinesi comuni negli otto mesi trascorsi da quando i terroristi di Hamas hanno lanciato il loro devastante attacco contro Israele il 7 ottobre è stata la motivazione trainante dietro gli sforzi occidentali per risolvere il conflitto” scrive Con Coughlin sul Telegraph. “Anche se garantire il rilascio dei 120 ostaggi israeliani ancora tenuti prigionieri da Hamas è un’altra considerazione importante, cercare di evitare che i civili palestinesi subiscano ulteriori spargimenti di sangue sembra essere stata la priorità nelle menti di coloro che cercavano di attuare un cessate il fuoco a Gaza. L’amministrazione Biden, in particolare, è così impegnata nel raggiungimento di un cessate il fuoco da essersi assicurata il sostegno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite prima che il segretario di Stato Antony Blinken intraprendessel’ennesima missione diplomatica in medio oriente, la sua ottava dallo scoppio del conflitto di Gaza. Le precedenti iniziative statunitensi si sono invariabilmente concluse con il fallimento dei colloqui, generalmente attribuito all’intransigenza del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. La sua insistenza nel portare avanti la campagna militare israeliana volta a spazzare via l’organizzazione terroristica dalla faccia della terra, anche se i leader di Hamas accettassero di rilasciare tutti gli altri ostaggi israeliani,viene costantemente citata come la ragione del fallimento degli sforzi diplomatici volti a portare a termine la campagna militare israeliana.
Tuttavia, come sta diventando sempre più evidente, non è l’approccio intransigente di Netanyahu a ostacolare gli sforzi di pace. E’il fanatismo di Yahya Sinwar, la mente terrorista di Hamas dietro le atrocità del 7 ottobre. Conosciuto come il ‘Macellaio di Khan Yunis’ dal nome dell’enclave di Gaza in cui è nato, uno dei calcoli chiave di Sinwar durante la pianificazione degli attacchi del 7 ottobre sembra essere stato che l’inevitabile risposta militare da parte di Israele avrebbe, alla fine, giocato a vantaggio di Hamas. E, a giudicare dalla quantità di messaggi trapelati che Sinwar avrebbe inviato ad altri comandanti di Hamas nelle ultime settimane, il suo stratagemma ha funzionato a meraviglia. Israele generalmente attira la maggior parte delle critiche globali per la sua gestione del conflitto di Gaza. I metodi subdoli impiegati da Hamas nell’interesse della propria autoconservazione, nel frattempo, raramente attirano l’attenzione che senza dubbio meritano. Questo nonostante Hamas utilizzi i civili palestinesi come scudi umani e le scuole e gli ospedali come centri di comando e controllo. Secondo i dettagli ottenuti dal Wall Street Journal, Sinwar ritiene che le vittime palestinesi ‘siano sacrifici necessari’. La critica globale rivolta contro Israele per la sua gestione del conflitto di Gaza significa che, dalla prospettiva distorta di Sinwar, ‘abbiamo gli israeliani proprio dove li vogliamo’. Fin dall’inizio del conflitto, è chiaro che l’unica ambizione di Sinwar è stata quella di garantire che Hamas sopravvivesse a Gaza una volta terminate le ostilità, anche se ciò significa che rimane solo una piccola frazione dei 24 battaglioni di combattenti che Hamas aveva a sua disposizione fin dall’inizio.
Qualsiasi accordo di cessate il fuoco che consenta ad Hamas di mantenere qualsiasi traccia di controllo su Gaza verrebbe visto come una ricompensa ai suoi leader per aver commesso gravi atti di terrorismo. Certamente, ora che l’atteggiamento sprezzante di Sinwar nei confronti del benessere del popolo palestinese è stato smascherato, i politici occidentali dovrebbero capire che Hamas, non Israele, è il vero ostacolo al raggiungimento di una pace duratura a Gaza”.
Nell’albo d’oro del Giro Next Gen, il Giro d’Italia per Under 23, figurano nomi del calibro di Francesco Moser e Marco Pantani. Al Giro Next Gen, nel 1985, il futuro campione del mondo Gianni Bugno fu terzo. La stessa posizione ottenuta nel 2017 da Jai Hindley, vincitore cinque anni dopo del Giro tra i professionisti. E di esempi se ne potrebbero fare molti altri, utili per capire la competitività di questa corsa: da qui tanti campioni della bicicletta hanno iniziato a spiccare il volo.
Non sorprende pertanto l’entusiasmo in casa Israel Premier Tech, la squadra israeliana di ciclismo che correrà tra pochi giorni al Tour de France, per il terzo posto conquistato dallo spagnolo Pau Marti nella classifica finale della corsa “rosa” dei giovani conclusasi ieri sul traguardo di Forlimpopoli (FC). «Un momento storico per la squadra e un’ulteriore prova che il nostro programma “Academy” è uno dei migliori al mondo», ha commentato Ron Baron, uno dei fondatori del team. L’affermazione del 19enne Marti riscatta parzialmente la squadra dopo un Giro dei “grandi” avaro di soddisfazioni anche per via di alcuni sfortunati ritiri lungo il percorso ed è un ottimo viatico verso gli impegni del Tour, con la storica partenza italiana da Firenze ormai in vista.
Per la squadra israeliana notizie incoraggianti anche tra i “grandi” con il quinto posto al Giro di Svizzera dello statunitense con ascendenze italiane Matthew Riccitello, 22 anni, in forza alla Israel Premier Tech dal 2022. Della corsa, tradizionale banco di prova prima del Tour, vinto non a caso da un big come Adam Yates su Joao Almeida, Riccitello è stato la rivelazione assoluta e ha persino sfiorato il podio, distante appena 29 secondi. Chissà che non possa essere protagonista anche lungo le strade della Grande Boucle. In settimana il team dovrebbe diramare le convocazioni. Spera in una chiamata tra gli altri Chris Froome, quattro volte vincitore della corsa in passato.
• LE FALSE DESCRIZIONI DELLA STAMPA
Anche i media meno sbilanciati contro Israele presentano la situazione del Medio Oriente in questa maniera del tutto insostenibile: c’è stato il 7 ottobre, opera però solo di “estremisti” di Hamas, “esasperati dall’occupazione”; l’esercito israeliano ha reagito “troppo”, producendo delle stragi se non proprio un “genocidio” contro l’“innocente” popolo palestinese; ora si tratta di costringerlo a smettere le operazioni, accettando le condizioni di Hamas, che vuole il cessate il fuoco. Quel che accade intorno, in Libano e nel Mar Rosso, sono solo manifestazioni accessorie di solidarietà, da parte di altri “estremisti”, che non vanno “sopravvalutate”. L’Iran “non vuole la guerra”, dunque è “pacifico”, ma reagisce alle “provocazioni” e insomma bisogna venire a patti con lui anche sul nucleare. Gli stati arabi vogliono uno stato palestinese indipendente e se Israele lo riconoscesse, la pace sarebbe a portata di mano.
• LA SITUAZIONE REALE
In realtà le cose non stanno affatto così. Il 7 ottobre è stato l’inizio di una guerra pianificata dall’Iran, che controlla i terroristi tanto di Hamas che del Libano, della Siria e dello Yemen. Lo scopo della guerra è la distruzione di Israele a tappe, per mezzo del logoramento militare successivo, dell’isolamento internazionale, del blocco economico, della creazione di tensioni politiche devastanti al suo interno. Su questa “lotta di lunga durata” e sui suoi obiettivi è d’accordo la grande maggioranza della popolazione araba di Gaza, Giudea e Samaria, che se può vi collabora volentieri. Lo stato palestinese sarebbe non una condizione di pace, ma lo strumento decisivo di questa strategia iraniana. Perciò in realtà gli stati arabi non fanno nulla per averlo, a parte un po’ di necessaria propaganda. La regia internazionale della guerra ha sfruttato la condizione di scudi umani che Hamas ha assegnato alla popolazione di Gaza, mettendosi in una condizione comunque vincente: poter colpire impunemente le forze israeliane, se queste non reagivano per la presenza di civili, oppure di attribuire loro con una forsennata campagna di diffamazione la responsabilità enormemente esagerata delle perdite, se reagivano. La politica americana, volendo impedire la distruzione dello stato ebraico ma anche il suo rafforzamento, ha puntato a impedire una vittoria rapida di Israele, ponendo continuamente ostacoli alla sua azione, ma poi ha sfruttato il conseguente prolungamento delle ostilità come pretesto per cercare di imporre a Israele la fine dell’azione militare senza la distruzione di Hamas, che significa concedere all’Iran una vittoria decisiva in questa fase e favorire la sua strategia di continuazione della guerra.
• VERSO LA CONCLUSIONE POSITIVA DELL’OPERAZIONE A GAZA
Ora la fase in cui la guerra si svolgeva principalmente a Gaza si avvia alla conclusione. Il confine con l’Egitto è controllato da Israele, come pure il 40% di Rafah (senza che ciò abbia prodotta la catastrofe umanitaria mille volte minacciata dalla “comunità internazionale”). I capi di Hamas non sono però stati eliminati: c’è chi dice che sono fuggiti attraverso i tunnel e ora sono nascosti chissà dove all’estero, con alcuni rapiti come garanzia. Altri ostaggi sono forse custoditi in case private come gli ultimi salvati, o reclusi nei tunnel; certamente molti fra loro sono stati uccisi dai loro sequestratori. Secondo le ciniche dichiarazioni di un capo di Hamas a Beirut, nessuno può sapere quanti siano rimasti in vita. Si può sperare di liberarne alcuni, bisogna continuare a smantellare le installazioni militari di Hamas e a eliminare i terroristi che si trovano. Sarà un lavoro molto lungo, ma il fronte principale della guerra ormai si è trasferito al confine col Libano.
• LA SECONDA FASE: HEZBOLLAH
Anche qui Hezbollah è in guerra con Israele da otto mesi, ma ha modulato con molta abilità il proprio intervento. All’inizio si trattava di pochi colpi d’armi da fuoco personali, poi è passato ai razzi anticarro (RPG) sparati anche su case e macchine, infine sono stati usati anche droni e missili veri e propri, su obiettivi civili e militari. Finora Hezbollah ha rivendicato più di 2000 attacchi (circa dieci al giorno) sparando almeno un terzo dei 20 mila missili diretti durante la guerra al territorio israeliano (cento al giorno in media). Il movimento terrorista dispone di fortificazioni sotterranee probabilmente ancor più vaste e solide di quelle di Hamas, anche perché agisce in territorio montagnoso, dove si è insediato stabilmente quando Ehud Barak nel 2000 abbandonò senza preavviso l’esercito del Libano del Sud che proteggeva la fascia di confine: una decisione altrettanto demagogica e sbagliata quanto lo sgombero dei villaggi ebraici di Gaza deciso da Sharon cinque anni dopo. Le sue truppe sono bene addestrate ed armate, allenate e selezionate nella guerra civile siriana. Si ritiene inoltre che Hezbollah detenga alcune centinaia di migliaia di razzi e missili di vario tipo forniti dall’Iran, compreso un buon numero di proiettili guidati da sistemi elettronici, in grado di colpire obiettivi delicati con grande precisione. Israele ha finora colpito in profondità caserme, depositi di armi, fortificazioni e soprattutto capi militari anche lontano dal confine, ben a nord di Beirut, ma il vantaggio strategico di questa fase della guerra resta a Hezbollah, che è riuscito a costringere Israele a evacuare le città e i villaggi più settentrionali e ha più volte minacciato o colpito obiettivi militari e città come Zfat e Haifa. Se un missile colpisse la zona portuale di questa città, dov’è ospitata fra l’altro la base principale della marina militare, potrebbe provocare una catastrofe ecologica incendiando i grandi depositi dell’industria chimica che vi hanno sede.
• LA PROSPETTIVA
La scelta se lasciare l’offensiva ai terroristi, rispondendo con rappresaglie mirate soprattutto ai comandanti e alle installazioni militari, oppure prendere l’iniziativa con bombardamenti più vasti seguiti da un’operazione terrestre è dunque molto difficile, anche perché al solito la “comunità internazionale” (essenzialmente Usa e Francia, antica potenza coloniale del Libano) cerca di frenare l’azione di Israele. Ma, per scelta di Hezbollah (o più probabilmente dell’Iran), il fronte settentrionale è diventato sempre più attivo e pericoloso. Non bisognerà meravigliarsi, dunque, se nei prossimi giorni vi si svilupperà una guerra di grandi dimensioni. Beninteso, sarebbe facilissimo evitarla: basterebbe che Hezbollah smettesse di sparare sul territorio israeliano e di minacciarlo, ritirandosi a nord del fiume Litani, come previsto dalla risoluzione dell’Onu che pose fine alla guerra del Libano nel 2006. Ma I terroristi non intendono farlo, perché il loro obiettivo non è l’indipendenza del Libano, che nessuno discute, ma la distruzione di Israele.
A Sderot, al confine con Gaza, dal 7 ottobre essere anormali è la normalità
Sderot è una graziosa cittadina a meno di un chilometro dal confine con la Striscia di Gaza. Per arrivare al centro della località si incrociano diverse rotonde, una delle prime è dedicata a Yitzhak Shamir, il settimo Primo Ministro dello Stato di Israele. Sul monumento ubicato nella piazza dedicatagli sono incisi il suo nome, la data di nascita e di morte (1915-2012), una sua foto e una sua citazione: “Spero di essere ricordato come un uomo che ha amato la Terra d’Israele e ha fatto tutto ciò che era in suo potere per compiacerla”. Una statua con un suonatore di violoncello abbellisce l’intera rotonda adornata da fiori gialli. Bandierine blu, bianche, gialle e rosse rallegrano le strade d’ingresso che, piazza dopo piazza, conducono dentro la città. È evidente a colpo d’occhio che lo Stato di Israele si sia impegnato nel rendere vivibile e gradevole una cittadina fortemente problematica data la sua natura geografica, al netto dei confini attuali: Sderot, infatti, fu uno dei teatri del massacro del 7 ottobre per mano dei terroristi palestinesi....
Il caso dei reporter che hanno il filo diretto con i terroristi palestinesi.
di Michael Sfaradi
Indro Montanelli, grande maestro, sosteneva che il giornalismo è tale quando svolge la funzione di sentinella o cane da guardia della democrazia. Se nelle democrazie del passato il giornalismo libero era poco ma c’era, nelle democrazie dei giorni nostri è diventato una via di mezzo fra un’utopia e un animale mitologico. Il giornalismo ormai, e noi ci siamo tristemente abituati a questa tremenda realtà, non è più informazione ma spettacolo delle notizie dove si strillano le novità che fanno ascolti secondo criteri che vanno dalla linea editoriale al bisogno di avere quanta più gente possibile davanti agli schermi quando passa la pubblicità. Perché la pubblicità è progresso anche se condita di propaganda e ideologia. Con buona pace della verità perché come scrisse George Orwell su Verità e Menzogna: “Nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario.” Pertanto, nel tempo dell’inganno universale, le grandi reti televisive, per esempio le americane CBS News, NBC news e Fox News Channel, tanto per citare alcuni esempi, oppure la BBC britannica o la Antenne 2 francese, oppure, per rimanere in Italia, in alcuni telegiornali delle reti Mediaset (privata) o nella quasi totalità di quelli della Rai, che dovrebbe essere di Stato ma che invece è solo di qualcuno, quando fanno informazione, è sotto gli occhi di tutti ma solo in pochi sembra che se ne rendano conto, hanno tante linee editoriali, interessi politici, motivi di bottega. Questo perché, come detto prima, la pubblicità è progresso e porta il denaro che serve per la sopravvivenza delle reti stesse e per aumentare gli stipendi, già belli grassi, dei vari dirigenti che fanno il lavoro per cui vengono pagati. Cioè, da bravi Yesman, allinearsi e dire e far dire solo ciò che va bene al padrone di turno. Con tanti saluti ai cani da guardia della democrazia che ormai sono tutti in pensione o nei canili. Quei pochi ancora in libertà sono solo randagi pulciosi che quando abbaiano danno solo fastidio al vicinato. Tornando ai grandi network internazionali, soprattutto quando l’argomento è il Medioriente e Israele in particolare, abbiamo un ampio campionario di deviazioni giornalistiche che, almeno per diritto di cronaca, è necessario denunciare. Parafrasando Orwell, nel tempo dell’inganno universale, un giornalista che mette in luce le storture del giornalismo fa “un atto rivoluzionario.” Prendiamo i due esempi più eclatanti: la CNN e Al Jazeera. Questi due network televisivi godono della fama di essere fra i più rapidi e puntuali nel diffondere le notizie, ma essere rapidi e puntuali non basta per dare informazione di qualità. Non è un caso che proprio questi due network sono stati più volte attenzionati e silenziati dalle autorità israeliane sia per aver divulgato da Israele notizie sotto censura sia per aver divulgato notizie false. Ad Al Jazeera, novità di pochi giorni fa, è stato rinnovato il divieto di trasmettere da Israele per i prossimi 45 giorni. Al fine di stroncare le polemiche sul nascere faccio presente ai lettori che nessun network israeliano ha la possibilità di lavorare dal Qatar. Ci furono permessi limitati e momentanei concessi solo durante il periodo dei mondiali di calcio. Dirigenti della CNN diverse volte si sono trovati nell’imbarazzante condizione di dover volare in Israele per evitare la chiusura dei loro uffici di Gerusalemme, di casi in cui i loro giornalisti ne hanno combinate di tutti i colori, e sempre in un senso, ce ne sono stati tanti e le scuse a scoppio ritardato delle varie firme, anche importanti, non sono servite a sistemare i rapporti fra le parti. Per dare un senso alla mia critica sul modo di fare giornalismo alla CNN vorrei usare due esempi: il primo riguarda Sara Sinder, corrispondente CNN, che il 14 ottobre si è scusata con Hamas per aver riportato la versione secondo la quale i membri di Hamas avrebbero ucciso barbaramente bambini nell’offensiva in Israele di una settimana prima. Si è scusata di aver riportato la notizia di “neonati e bambini con le teste decapitate”. Vorrei ricordare che il 14 ottobre fotografie e filmati dei massacri erano già stati visti in tutto il mondo e i giornalisti accreditati in Israele erano stati invitati dal portavoce dell’esercito a visitare le case attaccate e distrutte dai terroristi di Hamas. In quei giorni c’erano ancora molti corpi a terra e ve lo dice chi quei corpi li ha visti in prima persona. E Sara Sinder si è scusata scusa con i terroristi. Se questo è il livello dei giornalisti responsabili delle informazioni che vengono divulgate, c’è davvero da preoccuparsi. Di questi giorni c’è il presunto scoop che sempre la CNN dice di aver fatto con il suo reporter di guerra Ben Wedeman. Benjamin C. Wedeman, per gli amici Ben è un giornalista di caratura internazionale e corrispondente di guerra senior della CNN con sede a Roma. Lavora con la rete dal 1994 e ha vinto numerosi Emmy Awards e Edward Murrow Awards. Proprio lui è volato a Beirut per intervistare Osama Hamdan che è uno dei tanti capi di Hamas all’estero e come tale, insieme ad Isma’il Haniyeh, Khaled Meshaal e tutta l’allegra brigata, non conta assolutamente nulla. E se questo lo so io ad Atlanta non possono non saperlo. Ben è volato fino a Beirut e, alla fine della fiera, si è grosso modo limitato a porre la domanda più inutile del mondo e cioè: perché Hamas non ha accettato la proposta di cessate il fuoco sostenuta dagli Stati Uniti. La risposta la conoscono tutti, non era necessario andare a Beirut. Hamas vuole il ritiro di Israele dalla Striscia per mantenere il potere e Israele non può permettere ad Hamas di rimanere al potere perché sarebbe una perenne spada di Damocle. Poi accettare passivamente l’idea che Hamas non sappia dove sono gli ostaggi e quanti sono ancora in vita, rasente il ridicolo. Ho ascoltato l’intervista e in questo pseudo scoop non ho trovato nulla di nuovo perché sono stati ripetuti a memoria i pizzini di Sinwar, vero padre e padrone di Hamas. Se Wedeman voleva davvero fare uno scoop e da bravo reporter di guerra avrebbe dato un senso ai premi ricevuti, magari guadagnandone un altro, gli sarebbe bastato scendere di una ottantina di chilometri verso sud per girare un reportage e raccontare come Hetzbollah si sta preparando ad affrontare l’esercito israeliano. Invece lui, reporter pluripremiato, si è accomodato in un ufficio con l’aria condizionata per parlare di un piano di pace nato morto mentre oltre duecento ordigni di tutti i tipi venivano lanciati verso Israele. Altro esempio della qualità dell’informazione di certi grandi network, qualcuno lo ha detto ma repetita iuvant, Abdallah Aljamal, il carceriere di tre dei quattro ostaggi liberati dall’esercito israeliano era un giornalista di Al Jazeera. Giornalista freelance la mattina e terrorista in servizio permanete effettivo per il resto del giorno. A pochi giorni dalla storica operazione di salvataggio dei quattro ostaggi, l’operazione dell’antiterrorismo israeliano risale a sabato 7 giugno, emergono nuovi dettagli. Ma partiamo dall’inizio. Che i quattro ostaggi fossero detenuti da Hamas in case private guardati a vista da famiglie della Striscia di Gaza che collaboravano come carcerieri è stato detto fin dal primo momento. Almog Meir Jan, Andrey Kozlov, e Shlomi Ziv, che erano stati rapiti durante il Nova Festival, erano detenuti proprio dal giornalista e fotoreporter Abdallah Aljamal che aveva trasformato la casa del padre, il dottor Ahmed Aljamal, un medico, in un carcere. Per cui un giornalista che lavorava per Al Jazeera e per il Palestine Chronicle e un medico, una persona che almeno in teoria avrebbe dovuto prendersi cura del prossimo, tenevano sotto chiave i tre ragazzi rapiti con la forza. Ci troviamo davanti a una situazione che fino a pochi anni fa avremmo ritenuto fantapolitica, nel nostro caso fantagiornalismo. Giornalismo che diventa terrorismo e va oltre ogni limite, ogni etica, ogni confine. E cosa ha fatto Al Jazeera? Nel momento in cui è stata presa con le mani nel sacco ha negato di aver avuto legami professionali con Abdallah Aljamal e ha cercato di cancellare dai suoi siti gli articoli e le fotografie da lui firmate. Una cosa però è certa, sia la CNN sia Al Jazeera continueranno ad essere citate come fonti di verità indiscutibili sulle quali non è ammissibile alcun dubbio e le persone meno attente continueranno ad essere informate poco e male. E i cani pulciosi? Tranquilli, fino a che avremo un pezzo di carta e una matita continueremo a scrivere e fino a che avremo fiato in gola continueremo ad abbaiare. Sì, continueremo a rompere le palle ai morti e ai vivi, continueremo ad essere le spine nel fianco di chi non ha mai capito, o non ha mai voluto capire, che il giornalismo non è un mestiere ma una missione.
Così i bimbi disabili e mutilati tornano ad avere un futuro nella clinica di Gerusalemme
Tra sirene antiaeree e minacce missilistiche, l'ospedale Alyn cura i piccoli pazienti con bisogni speciali, senza distinzione di etnia o religione. Una missione nata nel 1935.
di Luciano Bassani
Nell'agosto del 1918 una delegazione di medici arrivò a Gerusalemme con lo scopo di facilitare l'insediamento degli ebrei in quella terra da poco liberata dal dominio ottomano. Nel gruppo c'era un giovane chirurgo ortopedico, Henry Keller, già noto sia negli Usa che in Europa. Il suo compito era curare i bambini malati o feriti di guerra. Il suo approccio ai malati era inusuale, non si stancava mai intatti di spiegare ai genitori come la diagnosi precoce dei problemi ortopedici sia fondamentale per la guarigione e la prevenzione della disabilità. Si stupiva però di quanti ebrei e arabi si rifiutassero di sottoporre i propri figli alle cure, convinti che le disabilità dei bambini fossero una punizione divina.
Nel 1930 ottenne un permesso per operare come medico nel mandato britannico in Palestina e aprì una clinica ortopedica privata per bambini disabili. Nel 1935 registrò un'altra associazione a Gerusalemme il cui nome è l'acronimo in ebraico di «Società per l'aiuto ai bambini disabili», che in alfabeto latino si scrive «Alyn». A quel tempo la struttura operava a Gerusalemme e offriva trattamenti gratuiti a chiunque ne avesse bisogno, senza distinzione di etnia, cultura o religione. Medici e infermieri venivano pagati direttamente da Keller e dai primi donatori. Keller si spense nel 1944 ma non il suo sogno. Il consiglio dell'Associazione che includeva personalità di tutte le comunità religiose aprì ad Haifa e a TeI Aviv e verso la fine del mandato britannico Alyn forniva servizi medici, cure a lungo termine, servizi educativi e servizi sociali a migliaia di bambini nella zona di tutto il Vicino Oriente.
Nel 1948, durante la guerra d'Indipendenza per la nascita dello Stato di Israele, Alyn si occupò di curare i feriti di guerra, e nel 1949 fu in prima fila per curare i bambini dall'epidemia di polio che si era scatenata in Israele. Alyn Hospital oggi è riconosciuto come uno dei più importanti centri di riabilitazione pediatrica a livello mondiale. Un luogo dove i miracoli possono realizzarsi e in cui non si abbandona mai la speranza di vedere tornare il sorriso su una giovane vita che sembrava spezzata per sempre.
L'innovazione e la ricerca tecnologica sono parte integrante di Alyn. Nei laboratori vengono continuamente create nuove soluzioni nel campo delle protesi, dei sistemi di mobilità, persino nuovi tipi di giocattoli adatti alle infermità dei bambini. Attraverso il progetto Alynnovation destinato agli imprenditori, vengono sviluppati prodotti e tecnologie in grado di migliorare la qualità della vita dei ragazzi con bisogni speciali, non solo in Alyn Hospital, ma in tutto il mondo. Ciascun piccolo paziente è seguito da un' équipe che ne valuta le esigenze e stabilisce un piano di riabilitazione coinvolgendo anche le loro famiglie. Alcuni richiedono una riabilitazione breve svolta in day hospital, altri devono imparare a gestire lesioni complesse e condizioni mediche che richiedono anni di degenza. La gamma delle terapie comprende ogni tipo di riabilitazione: motoria, respiratoria, del linguaggio, alimentare. Alyn dispone anche di un centro sportivo all'avanguardia attrezzato con una grande vasca per idroterapia, scuole che permettono ai ragazzi di continuare gli studi assieme alle terapie, luoghi dove le cure si fondono col disegno, videogame, realtà virtuale, musica e persino giardinaggio. Non mancano i clown medici, pet therapy e tutti gli strumenti che contribuiscono all'innovativo approccio olistico sviluppato in ospedale.
Il 7 ottobre del 2023 ogni cosa è cambiata in Israele. Anche Alyn ha sperimentato le conseguenze di questa crisi, tra le più problematiche di sempre: parte del personale è stato mobilitato nelle forze di difesa; una delle principali fonti di finanziamento dell'ospedale, la corsa ciclistica Wheels of love, non ha potuto svolgersi; gli allarmi continui hanno costretto il personale a trovare il modo di far arrivare al rifugio in pochi secondi pazienti con gravi disabilità e spesso collegati ad apparecchi vitali.
Nonostante ciò l'ospedale è riuscito a continuare a lavorare per i suoi pazienti e non solo: il personale si è occupato delle esigenze dei ragazzi e dei bambini disabili sfollati, per aiutarli nel ritrovare una quotidianità seppur lontano da casa. Inoltre, sono state sviluppate soluzioni ad hoc per i soldati feriti, per i quali si sono impegnati anche i fisioterapisti di Alyn, raggiungendoli direttamente negli ospedali dove sono ricoverati.
C'è poi un altro tipo di impegno, non meno toccante: dal personale ai pazienti, agli amici sparsi sui cinque continenti, tutti ad Alyn si sono mobilitati per ricordare al mondo il dramma degli ostaggi nelle mani dei terroristi di Hamas e chiedere il loro rilascio immediato. Maurit Beeri, direttore di Alyn Hospital, ha più volte spiegato sui media lo stato di disagio e la situazione di precarietà vissuta da Alyn durante la guerra. Anche scrivendo una toccante poesia che scandisce il ritmo della corsa ai rifugi, un modo per ricordarci come ad Alyn le divisioni etniche e religiose non contano nulla, e persino la concitata strada verso la salvezza può diventare un motivo di gioia: «Genitori spaventati fanno correre i loro figli verso il rifugio antiaereo. Terrorizzati, con gli occhi spalancati e il cuore che batte forte. Novanta secondi. Svegliare il bambino che dorme. Afferrare il bambino. Novanta secondi. E anche il girello, la sedia a rotelle, il porta flebo. Novanta secondi. Sprint, con un bambino piccolo, tubi penzolanti collegati a un ventilatore. Novanta secondi. La pesante porta d'acciaio si chiude con un tonfo, tenendo lontano il male ... per dieci minuti. Una madre con l'hijab. Un padre con una grande kippah. Medici. Infermieri. E in quel silenzio improvviso, la piccola voce di una bambina: "Mamma, hai visto? Ho corso fino in fondo, da sola !"".
Concludo con una frase di Golda Meir: «La pace arriverà quando gli arabi ameranno più i loro bambini di quanto odino noi".
A maggio [2019], nel giornale svizzero Anzeiger von Uster, un lettore ha lodato il cambiamento globale ed epocale del tempo in cui viviamo: «Sembra che nelle società illuminate e secolari il modo di pensare e agire sia cambiato in modo fondamentale e radicale. Anche la fede in Dio, così come la fede in spiriti, idoli e divinità ha fatto il suo tempo ed è ormai un modello superato.
Sempre più persone riconoscono che la religione è un efficace placebo e il Dio antropomorfo, maschilista, onnipotente, onnisciente e infinitamente buono è una invenzione umana condizionata dai tempi, il che spiega il crescente ateismo.» Egli ricorda: «Più è alto il numero di atei senza Dio in una società, più sarà alto il livello intellettuale e culturale.» Mi chiedo quale livello intellettuale e culturale intenda. Ogni anno ci sono 50 milioni di aborti - alcuni addirittura al nono mese di gravidanza. Le madri che li subiscono, per scelta o per imposizione, ne rimangono spesso profondamente traumatizzate. E dov'è il livello intellettuale e culturale nella diffusione dell'ideologia gender, che cancella semplicemente le differenze fra uomo e donna e crea grande insicurezza in molti giovani? Essi non ottengono risposta a domande che spesso vengono poste per tutta la vita: «Chi o cosa sono?» È forse espressione dell'innalzamento del livello intellettuale e culturale la precoce sessualizzazione dei nostri bambini, in parte attraverso l'esibizione di pratiche sessuali perverse? Le sue conseguenze sono menti infantili disturbate, sconvolte e danneggiate.
E se già parliamo del nostro alto livello intellettuale e culturale, che ne è della legalizzazione delle droghe? Questa porta con sé sempre più giovani affetti da psicosi ed incapaci di lavorare. Il portale internet «Neurologi e psichiatri in rete» scrive a proposito del consumo della cannabis: «L'azione della cannabis è caratterizzata da un'ampia gamma di effetti psichici. In tal modo, le sensazioni, i pensieri, la memoria e la percezione vengono influenzate. Il consumo intenso di cannabis nei ragazzi e nei più giovani può favorire la comparsa di psicosi.»
Come ha ragione la Bibbia quando dice:
«Guai a quelli che chiamano bene il male, e male il bene che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l'amaro in dolce e il dolce in amaro» (Isaia 5,20).
Quale progresso con il nostro ateismo senza Dio! La rivista cristiana ideaSpektrum ha riportato la raccomandazione del Ministero federale della famiglia a scuole ed insegnanti: «riconoscere ed appoggiare la diversità sessuale nella scuola». Essi dovrebbero informare su «temi tratti dall'ambito dei modi di vita omosessuali e della diversità sessuale». Appendendo poster illustrativi, le scuole potrebbero «mettere in mostra la diversità». Dovrebbero rifornire le biblioteche scolastiche con «libri con protagonisti lesbiche, gay e bisessuali» e citare nelle conversazioni come normale il partner omosessuale di un amico: «Inoltre, il sostegno è efficace quando vi sono degli adulti che parlano a scuola liberamente del proprio stile di vita omosessuale.»
Così viviamo oggi. Le conseguenze sono tragiche! A maggio è circolata la notizia di un uomo che si era presentato in un ospedale negli USA con forti dolori al basso ventre, ricorrenti in modo regolare. La tragedia: l'infermiera disse che egli era nato donna. L'uomo era un «transessuale», originariamente una donna. Tuttavia all'inizio nessuno dei medici fece un test di gravidanza. Quando infine scoprirono che si trattava realmente di una gravidanza, per il bambino era troppo tardi. In modo appropriato si esprime un vecchio canto cristiano: «Senza Dio si procede nell'oscurità, ma con Lui si entra nella Luce.»
Dio ci parla attraverso i segni dei tempi. Le persone hanno paura. Lo vediamo dal loro rapporto con il cambiamento climatico. Qualsiasi cosa possiamo pensare in proposito, il fatto è che migliaia di persone scendono per le strade per dimostrare contro il surriscaldamento globale per paura di ciò che deve ancora avvenire.
Sorprendenti le proposte di soluzione che vengono presentate: vale a dire ridurre il consumo di carne, non mettere più al mondo figli, poiché si suppone che essi costituiscano un aggravio per l'ambiente e non guidare più veicoli a diesel. Certo, anch'io penso che qualcosa con il nostro clima non funzioni più. Tuttavia, mi chiedo se la causa potrebbe essere un'altra. Pietro afferma:
«… i cieli e la terra attuali sono riservati dalla stessa parola per il fuoco, conservati per il giorno del giudizio e della perdizione degli uomini empi» (2 Pietro 3,7).
Con queste parole egli si riferisce al «primo mondo» nei giorni di Noè (versetti 1-6), che venne distrutto dall'acqua. La causa: perché le persone non volevano più avere a che fare con Dio. Oggi andiamo incontro al ritorno di Gesù e le persone, sempre più, non vogliono avere nulla a che fare con Dio.
Il tempo che precedette il diluvio viene così descritto:
«Ora l'Eterno vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che tutti i disegni dei pensieri del loro cuore non erano altro che male in ogni tempo. E l'Eterno si pentì di aver fatto l'uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo» (Genesi 6,5-7).
La malvagità degli uomini all'epoca era molto grande (v. 5), i pensieri del loro cuore non erano altro che male (v. 6). Tutta la terra era corrotta (v. 11), piena di violenza (v. 12). Le persone, prima del diluvio, agivano come agiamo noi oggi: avevano voltato le spalle a Dio, lo avevano escluso dai loro pensieri, dai loro cuori, dalle loro vite, dalle loro famiglie, scuole e comunità. E quando si dice a Dio di uscire, Egli se ne va! E quando Egli se ne va, Egli porta via con sé la Sua protezione e benedizione. Forse dovremmo anche considerare quest'aspetto, parlando del cambiamento climatico.
Anche per servire di esempio a noi, Dio aveva posto davanti a Israele la benedizione e la maledizione:
«Ma se non ubbidisci alla voce dell'Eterno, il tuo DIO, per osservare con cura tutti i suoi comandamenti e tutti i suoi statuti che oggi ti prescrivo avverrà che tutte queste maledizioni verranno su di te e ti raggiungeranno.[…] L 'Eterno farà sì che la peste si attacchi a te, finché ti abbia consumato nel paese che stai per entrare ad occupare. L'Eterno ti colpirà con la consunzione, con la febbre, con l'infiammazione, con il caldo bruciante, con la spada, con il carbonchio e con la ruggine, che ti perseguiteranno fino alla tua distruzione. Il cielo sopra il tuo capo sarà di rame e la terra sotto di te sarà di ferro. L'Eterno muterà la pioggia del tuo paese in sabbia e polvere, che cadranno su di te finché tu sia distrutto» (Deuteronomio 28:15, 21-24).
Dio ci ascolta e rispetta la nostra volontà. Ci lascia fare ciò che vogliamo. È dunque una concausa del cambiamento climatico la mancanza della benedizione divina?
Non è un Suo modo di esortarci?
Dio ci parla perché «Egli non si compiace della morte dell'empio, ma che l'empio si converta dalla sua via e viva» (Ezechiele 33, 11).
Ed ancora vale il versetto: «E avverrà che chiunque avrà invocato il nome del Signore sarà salvato» (Atti 2,21 ).
E noi che amiamo Gesù, aspettiamo il Suo ritorno e dobbiamo vivere in un mondo che diventa sempre più oscuro, possiamo fare ciò che a suo tempo fece Noè. Egli rimase fino alla fine un predicatore di giustizia (2 Pietro 2,5). Non venne meno al suo compito di esortare alla salvezza nell'arca (Gesù Cristo) e continuò a camminare con Dio - nonostante tutta l'opposizione. Così vogliamo fare anche noi.
Questa moda antiebraica – virale, mediatica e di piazza – si aggiunge e si integra con gli odiatori profondi e i massacratori seriali. Banalità del male che espande e rafforza il male assoluto. Superficialità idiota, che affianca l’abisso infernale del piano di morte del terrore jihadista.
Moda come conformismo dell’obbligo, sudditanza mentale, miseria morale, riverniciature modernista dei più antichi, triti, nefasti e infami stereotipi antiebraici.
La moda (“fashion”) è per Georg Simmel, che ha introdotto il termine nel lessico filosofico, il “mutamento obbligatorio del gusto”. Nel linguaggio ordinario, dal Seicento, vuol dire (provenendo dal francese) il cambiamento collettivo delle regole dell’abbigliamento.
Un senso concettuale lo diede Leopardi nel “Dialogo della moda e della morte” (1824, nelle “Operette Morali”), con la considerazione della relazione inevitabile tra cambiamento e distruzione, che rende “sorelle” la moda e la morte, entrambe “figlie della caducità”. La variabilità nel tempo e il carattere effimero sono proprio quello che pone la moda in relazione alla morte, in contrapposizione all’eternità del vero.
Gli individui atomizzati della società contemporanea hanno l’illusione di scegliere i loro abiti secondo i loro gusti e le loro identità, ma invece si osserva che queste scelte “libere” sono condizionate da molteplici e pesanti vincoli sociali, con le differenze tra abiti maschili e femminili, giovanili e per anziani, eccentrici trasgressivi e regolari.
Dunque, nel vestirsi, vi sono ”codici” elementari, come li ha descritti Roland Barthes (“Sistema della moda”, 1972).
La variabilità delle mode è, in una certa misura, imposta da apparati che la diffondono. La moda viene considerata, nell’ottica della “esteriorità”, cioè nella costruzione dell’apparenza sociale opposta a ogni pretesa o ricerca di verità. Proprio tali caratteristiche possiede l’attuale, dilagante, effimera, vacua, moda antisemita.
Ad essa resistono i liberi e forti, gli uomini con il senso della verità nella ricerca, mentre la massa si intruppa, beve il veleno, si intossica, ripete a pappagallo.
La massa delle menti servili si subordina a quel ribaltamento feroce dove gli ebrei assassinati diventano assassini, e i carnefici cannibali dell’azione genocida diventano liberatori. Le dosi di questa malattia, ideologica e sociologica, sono massicce, derivate dalla dittatura mediatica, dagli algoritmi coatti del web generatori di trogloditi di massa, dall’analfabetismo culturale e semi-analfabetismo grammaticale prodotti dal fallimento complessivo della scuola statale di massa, dalle ideologie dominanti degli accademici, dalla paura e dalla viltà. Nel complesso, quella “barbarie digitale” di cui ci ha parlato Bernard-Henry Levy.
Nuova è la superficie della forma dell’antisemitismo in atto, vecchissima, plurimillenaria invece la stratificazione, ora sommersa, ora emergente, dei duri inamovibili stereotipi antiebraici: testa dura, vendicatività, assassini e rapitori di bambini, cospirazione per il dominio, usurai, deicidi.
Ma, mentre la lunga tradizione antisemita è stata prevalentemente reazionaria, con un apice fascista (pur essendo presenti aspetti antisemiti illuministi e progressisti), oggi prevale un antisemitismo duro, implacabile, di tipo progressista o che si pretende tale.
Un antiebraismo urlato, dogmatico, ossessivo, totalizzante, che uccide la libertà di parola, che chiude la bocca con violenza verbale e fisica alla voce ebraica, che condanna alla clandestinità e alla morte la vita ebraica, che affianca il braccio armato dell’apocalisse terrorista e di Stati totalitari impegnati in una guerra civile contro i propri popoli.
Anche l’appello alla memoria di Hitler per completare l’opera della Shoah pretende di coprirsi con un segno progressista.
Universi dittatoriali totalitari terroristi all’offensiva, democrazie oscillanti tra debolezza difensiva, inerzia, cedimento, collaborazionismo. Democrazie deboli, corrose all’interno da una malattia mortale.
L’eminente e luminoso pensatore della libertà democratica, Alexis de Tocqueville, nel suo capolavoro “La Democrazia in America”, individua tale malattia, fin dai suoi albori:
“Penso dunque che la specie di oppressione che minaccia i popoli democratici non assomiglierà a nessuna di quelle che l’hanno preceduta nel mondo; i nostri contemporanei non possono trovare nessun antecedente nei loro ricordi. Cerco inutilmente lo stesso un’espressione che renda esattamente l’idea che me ne faccio, e la contenga; le vecchie parole come dispotismo e tirannide non sono più adeguate. La cosa è nuova, bisogna dunque cercare di definirla, visto che non posso darle un nome. Vedo una folla innumerevole di uomini simili ed uguali che non fanno che ruotare su se stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo. Ciascuno di questi uomini vive per conto suo ed è come estraneo al destino di tutti gli altri: i figli e gli amici costituiscono per lui tutta la razza umana; quanto al resto dei concittadini, egli vive al loro fianco ma non li vede; li tocca, ma non li sente; non esiste che in se stesso e per se stesso, e se ancora possiede una famiglia, si può dire perlomeno che non ha più patria. Ho sempre creduto che questa specie di servitù ben ordinata, facile e tranquilla, di cui ho fatto adesso il quadro, potrebbe combinarsi più di quanto non si immagini con qualche forma esteriore di libertà, e che non le sarebbe impossibile stabilirsi all’ombra stessa della sovranità popolare”.
Hannah Arendt svolge considerazioni analoghe in “Le origini del totalitarismo”, la cui parte prima è significativamente destinata al tema dell’antisemitismo. Scrive la Arendt:
"L’atomizzazione della società sovietica venne ottenuta con l’abile uso di ripetute operazioni, che invariabilmente precedevano l’effettiva liquidazione di un gruppo. Per distruggere tutti i legami sociali e familiari, le epurazioni venivano condotte in modo da minacciare della stessa sorte l’accusato e tutta la sua cerchia, dai semplici conoscenti agli amici e ai parenti più stretti. La conseguenza dell’ingegnoso criterio della ‘colpa per associazione’ era che appena un uomo veniva accusato, i suoi vecchi amici si trasformavano di colpo nei suoi nemici più accaniti. […] Fu con l’impiego radicale di questi metodi polizieschi che il regime staliniano riuscì a instaurare una società atomizzata quale non si era mai vista prima, e a creare attorno a ciascun individuo un’imponente solitudine, quale neppure una catastrofe da sola avrebbe potuto causare”.
Ancora, un filosofo politico ebreo nato in Polonia, Jacob L. Talmon (professore di Storia nell’Università di Gerusalemme), nel suo libro fondamentale “Le origini della democrazia totalitaria” mostra come lo scontro tra liberalismo e comunismo presentasse lontane radici storiche. La sua visione di una “democrazia totalitaria” è generata da una tendenza propria della democrazia illiberale, che viene da un’aspirazione messianica a pianificare una società perfetta. Un pensiero che si illude di un perfettismo raggiungibile, che la storia abbia una meta, e che la felicità possa essere ottenuta grazie alla politica. Talmon riconosce l’origine di questa tradizione nel messianisimo politico dei filosofi enciclopedisti e giacobini, e nella dittatura giacobina dei Robespierre e dei Saint-Just.
La moda antiebraica in corso è talmente prigioniera della cecità ideologica e di una servitù alla guerra psicologica dei macellai jihadisti, che non farà mai i conti con le dichiarazioni esplicite, brutali, genocide del gangster numero uno di Hamas, Yahya Sinwar, maledetto sia il suo nome.
Il Wall StreetJournal ha pubblicato il suo vero programma, nella forma di ordini ai mediatori di Egitto e Qatar durante le ultime trattative: più morti civili a Gaza, meglio è per la causa del jihad. Quello che era chiaro alle menti aperte, cioè che la responsabilità politica, militare, civile, morale di tutte le vittime a Gaza è interamente e direttamente di Hamas, ora dovrebbe essere chiaro per tutti. Ma non sarà così, perché continua la dinamica della militarizzazione e fanatizzazione mentale, della negazione del cuore, intrinseca alla polarizzazione rigida amico-nemico a prescindere dalla realtà fattuale e dall’umana decenza.
I fanatici continueranno, come prima e più di prima, a pretendere l’eliminazione di Israele e la glorificazione liberatrice di Hamas e sodali. Del resto, all’inverso, Sinwar fa le sue dichiarazioni ultrahitleriane fidando sul servilismo degli idioti e degli schiavi.
Sinwar ha accusato il colpo della liberazione degli ostaggi da parte di Tsahal con la collaborazione americana, e ha reagito alla sua maniera. Così ha reso più chiara di prima la vera natura della guerra, fin dalla lunga preparazione del 7 ottobre. È lui l’architetto della tattica e strategia dell’orrore smisurato del genocidio e della guerra psicologica vinta dal terrore, e persa da Israele. Proprio lui, che deve la sua stessa vita alla generosità radicale di Israele nello scambio tra il sergente Gilad Shalit e un numero enorme di assassini stragisti. Il suo scopo è sempre stato la morte del maggior numero possibile di palestinesi, soprattutto donne e bambini, in nome del martirio islamico o, più semplicemente, per calcolo utilitario, nella sua totale cultura della morte, in odio alla cultura della vita e alle ragioni della dignità e della libertà umana. Foreign Affairs ha pubblicato un saggio sulla “reinvenzione della guerra sotterranea” e sull’organizzazione delle emozioni attraverso la pornografia delle immagini del 7 ottobre.
Una guerra sotterranea di tipo nuovo, diversa da quella delle trincee scavate nel fango della Prima Guerra Mondiale, attraverso l’organizzazione di 500 chilometri di gallerie tecnologiche, con centri di comando sotto scuole, ospedali e moschee, tutti in un lucido alluminio, perfetti, su più livelli, con prigioni, ospedali, centri distribuzione alimenti. Un piano strategico di una città metallica sotterranea, invisibile agli aerei e base per il massacro di ebrei, senza precedenti per disumanità efferata.
Sinwar si è addestrato allo sterminio degli ebrei massacrando uomini e donne arabi palestinesi “traditori e apostati”. Fin dall’inizio, Sinwar ha realizzato l’ordine genocida del sangue che chiama sangue con il 7 ottobre, con una azione peggiore dei nazisti per ferocia e sadismo, tale da obbligare Israele a una autodifesa, per poi pianificare nella Striscia quanti più morti possibili.
La realtà del 7 ottobre, di Hamas, del Jihad, dell’Iran e affini è la prova ulteriore della caduta del mito del progresso. Una caduta tanto radicale che i genocidi, i massacratori di figli davanti alle madri e madri davanti ai figli, di bambini arrostiti nei forni, di stupri omicidi di guerra fino a spezzare i bacini, di organizzazione di carne da macello per i palestinesi. Manifestanti che vogliono la continuazione dell’opera di Hitler e della Shoah, con forme più esibite e disumane, continuano a presentarsi senza vergogna, killer di verità, come “attori del progresso”.
Modaioli banali effimeri e mostri sanguinari uniti nella lotta per lo sterminio degli ebrei, e per aprire le porte a una schiavitù universale.
Ci soccorre la geniale purezza del poeta.
Leopardi, nel “Dialogo di Tristano e di un amico”, scrive parole di attualità feconda:
“Gl’individui sono spariti dinanzi alle masse, dicono elegantemente i pensatori moderni. Il che vuol dire ch’è inutile che l’individuo si prenda nessun incomodo, poiché, per qualunque suo merito, né anche quel misero premio della gloria gli resta più da sperare né in vigilia né in sonno. Lasci fare alle masse, le quali che cosa sieno per fare senza individui, essendo composti d’individui e di masse, che oggi illuminano il mondo. […] Amico mio, questo secolo è un secolo di ragazzi, e i pochissimi uomini che rimangono, si debbono andare a nascondere per vergogna, come quello che camminava dritto in un paese di zoppi. E questi buoni ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi hanno fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi, così a un tratto senza altre fatiche preparatorie. Anzi vogliono che il grado al quale è pervenuta la civiltà, e che l’indole del tempo presente e futuro, assolvono essi e loro successori in perpetuo da ogni necessità di sudori e fatiche lunghe per divenire atti alle cose. […] Anche la mediocrità è divenuta rarissima; quasi tutti sono inetti, quasi tutti insufficienti a quegli uffici o a quegli esercizi a cui necessità o fortuna o elezione gli ha destinati. In ciò mi pare che consista in parte la differenza ch’è da questo agli altri secoli. In tutti gli altri, come in questo, il grande è stato rarissimo; ma negli altri la mediocrità ha tenuto il campo. In questo, la nullità. Onde è tale il romore e la confusione, volendo tutti esser tutto, che non si fa nessuna attenzione ai pochi grandi che pure credo che vi sieno; ai quali, nell’immensa moltitudine de’ concorrenti, non è più possibile di aprirsi una via. È così, mentre tutti gl’infimi si credono illustri, l’oscurità e la nullità dell’esito diviene il fato comune e degl’infimi e de’ sommi”.
Quel che i gazzettieri non possono, non sanno dire, lo dice un genio, con acume trafiggente e preveggente.
(L'informale, 15 giugno 2024) ____________________
L’attuale moda antisemita è un’espressione della variabilità delle mode che è un elemento essenziale della cosiddetta “civiltà occidentale”. Non ha alcun senso allora difendere Israele come baluardo dell’Occidente, perché è proprio il marcio costume occidentale, e precisamente quello a trazione americana, ad aver aperto la porta a quest’ultima immonda forma di antisemitismo. Purtroppo molti aspetti di questo marcio costume occidentale sono penetrati in profondità anche in parti estese della società israeliana. La novità storica del transgender LGBTQecc., di cui in Israele si fa vanto, fa parte della variabilità delle mode occidentali. Ma di questo si preferisce non parlare. M.C.
Pride con polemica, gli ebrei non sfileranno: “Ci sentiamo bersagli”
di Marina de Ghantuz Cubbe
La ferita all’interno della comunità Lgbtq+ si è aperta poche ore prima del Pride e delle parate che oggi riempiono le strade a Roma, Bergamo e Torino:gli ebrei del movimento non parteciperanno. Troppa la paura di diventare dei bersagli. Grande la delusione per quella che definiscono una risposta troppo flebile delle organizzazioni territoriali agli attacchi antisemiti ricevuti da mesi sui social e per l’esclusione delle loro bandiere arcobaleno con la stella di David decisa a Bergamo. Intanto i partiti a Torino si spaccano.
• ”Una vera discriminazione” Keshet Italia, l’organizzazione ebraica queer, ha deciso che non parteciperà alle grandi parate dell’orgoglio per la propria identità sessuale. «Abbiamo fatto e tentato di tutto per capire anche con gli organizzatori se si potesse partecipare in sicurezza - spiega Raffaele Sabbadini, tra i fondatori di Magen David Keshet Italia - ma alla fine abbiamo dovuto arrenderci, e non ci saremo, a causa dei crescenti timori di aggressioni dovuti al clima d’odio attorno alla nostra partecipazione. Ci duole ad esempio che il Bergamo Pride abbia scritto che “nella piazza del 15 giugno non saranno gradite bandiere israeliane o inneggianti alla simbologia connessa allo Stato di Israele”, il che è una vera e propria discriminazione». Per questo il Comune guidato fino a qualche giorno fa da Giorgio Gori, ha tolto il patrocinio alla manifestazione stigmatizzando l’intolleranza dell’Associazione Bergamo Pride nei confronti dei simboli della comunità ebraica.
• “Siamo una minoranza delle minoranze” «Chi dice che sono bandiere israeliane dice un falso, le nostre sono bandiere rainbow e la stella ebraica che è di tutti noi non è da confondere né con lo Stato né tantomeno con il governo - continua Sabbadini - questa cosa ci ha lacerato perché noi siamo la minoranza delle minoranze, ma abbiamo ricevuto anche tanta solidarietà». Da esponenti storici del movimento come Ivan Scalfarotto e Anna Paola Concia, arrivando al consigliere comunale di Milano Daniele Nahum che ha letto il comunicato di Keshet Italia. Pubblicato sui social per ufficializzare la non partecipazione ai Pride, comprende “a corredo” alcuni degli attacchi ricevuti in questi mesi. Come «quest’anno onestamente farebbero meglio a starsene lontano gli ebrei», ma anche «forni ne abbiamo?».
• “Libera frociaggine in libero Stato" E se la polemica si sta diffondendo in tutta Italia, con l’associazione Keshet che chiede una riflessione ampia a tutta la comunità Lgbtq+, ogni città ha la propria organizzazione e anche le risposte dei partiti che storicamente sostengono il Pride sono diverse. A Roma ad esempio +Europa avrà il suo carro con la scritta "libera frociaggine in libero Stato". Nella Capitale, infatti, il portavoce del Roma Pride Mario Colamarino ha solidarizzato con la comunità ebraica Lgbtq+ sostenendo che «è una sconfitta per tutti quando succedono cose di questo tipo, noi come Roma Pride abbiamo sempre aperto le porte a tutti e quando ci sono stati gli incontri con il gruppo Lgbt ebraico gli abbiamo detto che il Pride è di tutti, anche vostro». D'altronde il manifesto politico della comunità romana condanna "la catastrofe umanitaria in corso a Gaza che sta provocando innumerevoli vittime tra la popolazione palestinese", chiede il cessate il fuoco e "la liberazione degli ostaggi, la protezione dei diritti umani e un processo di pace basato sulla soluzione di due popoli, due Stati", si legge nel documento.
• A Torino in tanti non partecipano Situazione diversa a Torino, dove infatti +Europa non parteciperà così come i Radicali dell'associazione Aglietta. È la prima volta che accade. La decisione è stata presa per supportare il grido d'allarme dell'associazione ebraica queer Keshet Italia sull'atteggiamento escludente dei Pride nei confronti delle persone ebree e fra le sigle che per gli stessi motivi non saranno presenti al Torino Pride ci sono anche Italia Viva Torino, Associazione Marco Pannella di Torino, Associazione Italia Israele, e Gruppo Sionistico Piemontese.
(la Repubblica, 15 giugno 2024)
Non avrai con un uomo relazioni carnali come si hanno con una donna: è cosa abominevole.
Levitico 18:22
Se uno ha relazioni carnali con un uomo come si hanno con una donna, entrambi hanno commesso una cosa abominevole; dovranno essere messi a morte; il loro sangue ricadrà su di loro.
Levitico 20:13
Perciò Dio li ha abbandonati a passioni infami: le loro femmine hanno mutato l'uso naturale in quello che è contro natura; allo stesso modo anche i maschi, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono infiammati nella loro libidine gli uni per gli altri, commettendo uomini con uomini cose ignobili, ricevendo in loro stessi la meritata ricompensa del proprio traviamento.
Romani 1:26-27
Perché Israele ha usato una catapulta in stile medievale per lanciare palle di fuoco in Libano
La scena, immortalata in un video, ha dato origine alle più svariate teorie sulle ragioni. L’Idf ha chiarito i motivi del gesto, spiegando che si è trattato di una scelta autonoma di una unità locale che sorvegliava il confine col Libano per evitare attacchi del gruppo islamico Hezbollah.
Tra radar, droni e missili teleguidati, oggi è decisamente inusuale vedere dei militari attaccare usando una catapulta in stile medievale e lo è ancora di più se a farlo è un esercito considerato tra i più potenti al mondo come quello di Israele. La scena è stata immortalata in un video, diventato virale sui social, in cui si vede una unità dell’Idf usare sistematicamente una catapulta creata per l’occasione per lanciare palle infuocate contro il nemico e cioè verso il Libano e le postazioni del gruppo islamico Hezbollah.
Nel video si vedono almeno sei soldati in piedi attorno a quello che assomiglia del tutto a una tipica macchina da assedio spesso utilizzata nel medioevo per assaltare i castelli. Nel breve filmato si vede lo strumento assemblato con assi di legno su un carrello di metallo che lancia palle di fuoco proprio come un trabucco, dando ancora di più l’impressione di una battaglia antica visto che i lanci avvengono nei pressi di un grosso muro, in realtà una barriera di cemento per proteggere i confini.
La scena ovviamente ha destato molto interesse e dato origine alle più svariate teorie sui motivi, dalla mancanza di mezzi, già massicciamente impegnati a Gaza, alla scarsità di munizioni. In realtà, come hanno confermato dall’esercito israeliano all’emittente pubblica israeliana Kan, si è trattato di un’iniziativa locale di una unità impegnata in zona per affrontare un problema sorto al momento e non di un ordine o un nuovo modello di combattimento.
In particolare la scena, che si riferisce ad alcune settimane fa, vede un’azione dei militari dell’Idf volta ad appiccare il fuoco al sottobosco nel sud del Libano dove, secondo gli israeliani, Hezbollah si nasconde per mettersi in posizione e lanciare attacchi nel nord di Israele. Secondo il quotidiano israeliano Maari, il trabucco è stato opera della brigata di riserva Carmeli che in questo modo ha voluto liberare la zona oltre confine da arbusti e rovi per rendere più facile per le forze israeliane identificare i militanti Hezbollah che tentavano di raggiungere il confine.
Il video del trabucco infatti arriva dopo che gli attacchi provenienti dal Libano hanno provocato grandi incendi nel nord di Israele la scorsa settimana, consumando aree di territorio e portando all’evacuazione dei residenti. Gli attacchi in questa zona di confine tra Israele e Libano sono aumentati questo mese, anche se al momento i combattimenti si mantengono a bassa intensità.
(fanpage.it, 15 giugno 2024)
I due terzi dei palestinesi approvano ancora il massacro del 7 ottobre
A rivelarlo è un sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey Research (PCPSR)
di Sarah G. Frankl
Dopo otto mesi di guerra a Gaza, due terzi dei palestinesi della Striscia di Gaza e della Cisgiordania sostengono gli attacchi di Hamas contro Israele del 7 ottobre, secondo un nuovo sondaggio d’opinione del Palestinian Center for Policy and Survey Research (PCPSR), un think tank con sede a Ramallah che è una delle poche organizzazioni che effettua sondaggi sul campo tra i gazesi.
Il sondaggio ha rilevato che il 67% degli intervistati palestinesi ha sostenuto la decisione di Hamas di attaccare Israele quel giorno, un massacro che ha ucciso circa 1.200 persone e ha scioccato il mondo per la sua barbarie. Suddiviso per territorio, il sostegno in Cisgiordania era più alto, con il 73%, rispetto al sostegno a Gaza, con il 57%.
Sebbene il sostegno complessivo all’attacco di Hamas rimanga elevato, secondo il sondaggio, è diminuito di quattro punti percentuali rispetto all’ultima volta che il PCPSR ha condotto il suo sondaggio.
I sondaggi sui palestinesi sono notoriamente difficili, soprattutto a Gaza, dove i civili corrono il rischio di essere puniti se non dimostrano sufficientemente il loro sostegno ad Hamas.
Tuttavia, l’ultimo sondaggio del PCPSR è sorprendente. Più del 60% dei gazesi ha dichiarato di aver perso un familiare nella guerra in corso, ma un numero ancora maggiore ha affermato di aver sostenuto quanto accaduto il 7 ottobre, che ha portato all’invasione di Gaza da parte di Israele. Otto intervistati su 10 hanno dichiarato di ritenere che gli attacchi abbiano portato l’attenzione globale sulla causa palestinese.
Il sondaggio ha evidenziato un cambiamento significativo nelle difficili dinamiche politiche della regione, con un aumento del sostegno alla lotta armata e un netto calo del sostegno alla soluzione dei due Stati.
È aumentato anche il sostegno ad Hamas, con il 40% degli intervistati che preferisce il gruppo ad altre fazioni politiche – un aumento di sei punti rispetto al sondaggio precedente. Il sostegno a Fatah, guidato da Mahmoud Abbas in Cisgiordania, si è invece attestato ad appena il 20%.
Oltre il 60% degli intervistati ha espresso insoddisfazione nei confronti di Abbas e del suo approccio al conflitto e si è detto favorevole allo scioglimento dell’Autorità Palestinese (AP) che governa la Cisgiordania. La richiesta di dimissioni di Abbas è aumentata notevolmente, con il 94% dei palestinesi della Cisgiordania e l’83% di quelli di Gaza che ne chiedono l’allontanamento.
Walid Ladadweh, capo dell’Unità di ricerca sui sondaggi del PCPSR, ha dichiarato all’agenzia di stampa Reuters che l’aumento del sostegno a Hamas dovrebbe essere visto come una reazione all’offensiva di Israele a Gaza, che avrebbe provocato migliaia di morti tra i civili.
Guardando al di là dell’attuale conflitto, il sondaggio ha rilevato opinioni nettamente divergenti su chi dovrà governare una Gaza post-bellica. Il 56% degli intervistati ritiene che Hamas continuerà a governare la Striscia dopo la guerra. Una parte significativa dei gazesi ha anche espresso scetticismo sull’efficacia degli interventi internazionali e degli accordi di cessate il fuoco.
Il sondaggio del PCPSR, condotto tra il 26 maggio e il 1° giugno, ha intervistato 1.570 adulti palestinesi, con 760 interviste condotte faccia a faccia in Cisgiordania e 750 nella Striscia di Gaza. Il periodo del sondaggio ha coinciso con l’intensificarsi dell’offensiva di terra israeliana a Rafah, che ha esacerbato la situazione umanitaria e sfollato circa un milione di persone, secondo i dati delle Nazioni Unite.
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Una traduzione in inglese dell’indagine e della sua metodologia è disponibile qui.
Rav. Messianico Moldava Shimon Podgorica in Italia
Il rabbino messianico moldavo, Shimon Podgorica, già relatore nel 2017 dell’incontro Edipi nella chiesa Apostolica di Milano, ci farà visita, e predicherà a Caerano San Marco in prov. di Treviso, il 20/06 giovedì alle ore 19 nella Chiesa Cristiana Evangelica Bellunese del past. Davide Ravasio.
Figlio di un pescatore di Yaffa, Rifaat “Jimmy” Turk è stato il primo calciatore arabo a giocare nella nazionale israeliana di calcio e l’ultimo cittadino arabo a rappresentare Israele alle Olimpiadi. Correva l’anno 1976 e i Giochi erano quelli di Montreal, successivi a quelli di Monaco di Baviera insanguinati dal terrorismo palestinese. Quasi mezzo secolo dopo nella Parigi blindata a cinque cerchi che si appresta a ospitare la 33esima edizione della manifestazione sportiva tra molte preoccupazioni legate alla sicurezza ci sarà tra gli altri Adam Maraana, nuotatore di talento ventenne che appena pochi giorni fa è andato sotto la soglia dei 53 secondi e 74 centesimi posta come limite per qualificarsi alla gara dei cento metri a stile libero. Il cronometro si è fermato 14 centesimi prima, suscitando l’inevitabile entusiasmo del diretto interessato, che farà parte di una delegazione in cui spicca il nome di Anastasia Gorbenko, pure lei ventenne, medaglia d’argento nei 400 misti ai Mondiali di nuoto di Doha dello scorso febbraio.
Maraana ha origini arabe, ma è cresciuto come ebreo in una famiglia mista. «Mia madre è ebrea. Io ho servito nell’esercito, studiato Torah, celebrato il bar mitzvah (la maggiorità religiosa ebraica che i maschi conseguono all’età di 13 anni, ndr). Mio padre invece è musulmano», ha detto l’atleta in una recente intervista ripresa dal New York Post. «Sono orgoglioso di ciò e lui è orgoglioso di me». Il terzo atleta arabo in lizza per Israele alle Olimpiadi raccoglie idealmente il testimone da Turk e ancor prima dal sollevatore di pesi Eduard Meron, che fu in gara ai Giochi olimpici di Roma del 1960. Meron fu anche il portabandiera della squadra israeliana. Un anno dopo fu invitato alle Maccabiadi e vinse l’argento.
Medio Oriente: cresce il sostegno ad Hamas sia a Gaza che in Cisgiordania, rivela un sondaggio
Nella Striscia di Gaza il sondaggio è stato effettuato in zone dove non ci sono combattimenti
Nei Territori palestinesi – Gaza e Cisgiordania – il sostegno al movimento islamista palestinese Hamas si è attestato al 40 per cento, in crescita di sei punti rispetto a tre mesi fa. E’ quanto emerge dal sondaggio condotto dal 26 maggio al primo giugno dal Centro palestinese per la politica e la ricerca. Soltanto il 20 per cento degli intervistati sostiene il partito palestinese Fatah del presidente Mahmoud Abbas, al potere nella Cisgiordania. Prima del 7 ottobre, data dell’attacco terroristico di Hamas in Israele, il sostegno al gruppo islamista era pari al 22 per cento, mentre quello a Fatah al 26 per cento. Il sondaggio si basa su un campione di 1.570 intervistati, di cui 760 in Cisgiordania e 750 a Gaza.
Nella Striscia di Gaza il sondaggio è stato effettuato in zone dove non ci sono combattimenti. In Cisgiordania, il 41 per cento dei residenti ha dichiarato di sostenere Hamas, in aumento rispetto al 35 per cento emerso dal sondaggio condotto tre mesi fa, mentre il 17 per cento sostiene Fatah (rispetto al 12 per cento di tre mesi fa). Nella Striscia di Gaza, il sostegno ad Hamas è del 38 per cento, in aumento rispetto al 34 per cento di tre mesi fa, mentre il sostegno a Fatah si attesta, secondo il sondaggio, al 24 per cento (in lieve calo rispetto al 25 per cento di tre mesi fa). Circa l’8 per cento degli intervistati ha espresso l’appoggio ad altri gruppi, mentre il 33 per cento ha affermato di non sostenere alcun gruppo o di non conoscerlo.
Trovati alcuni stemmi della nobiltà britannica, incluso quello di Re Giorgio V, sulle pareti di un ospedale per la cura delle malattie oculari, attivo a Gerusalemme oltre 100 anni fa. La ricerca è stata condotta da Shai Halevi e Michael Tchernin dell’Israel Antiquities Authority (IAA), che hanno mappato e decifrato gli stemmi, considerati dagli studiosi una sorta di “carta d’identità grafica” per le famiglie nobili, che avevano contribuito all’ampliamento della struttura.
Lo straordinario edificio, uno dei primi ospedali costruiti a Gerusalemme, si trova ai margini della Valle di Hinnom, di fronte al Monte Sion, non lontano dalle mura della Città Vecchia. Nel corso degli anni, è stato trasformato nella “Jerusalem House of Quality”, un centro per l’arte e le mostre, e anche in un hotel.
Gli esperti hanno spiegato che l’ospedale oftalmico fu fondato nel 1882 dall’Ordine di San Giovanni. Unico all’epoca, svolse un ruolo centrale nel trattamento delle malattie oculari, curando pazienti da tutto il Medio Oriente. Al bisogno offriva anche cure gratuite. Durante il mandato britannico, il complesso ospedaliero fu ampliato in modo significativo, con l’aggiunta di una nuova ala sull’altro lato di Hebron Road.
Ciò fu reso possibile grazie alle generose donazioni di nobili e uomini d’affari britannici, molti dei quali erano membri dell’Ordine di San Giovanni. Come riconoscimento dei loro contributi, le pareti del complesso ospedaliero sono state adornate con decine di emblemi che rappresentano ciascuna famiglia donatrice.
L’edificio subì molti cambiamenti durante la Prima guerra mondiale e la Guerra d’Indipendenza, dei quali si trovano testimonianze in varie parti del complesso. Nel corso dei decenni, la destinazione d’uso del sito si è evoluta: la parte orientale fa ora parte del Mount Zion Hotel, mentre la parte occidentale è diventata la ‘Jerusalem House of Quality’. Inoltre, l’appartenenza e l’identità delle insegne nobiliari, che decoravano le pareti dell’edificio, sono scomparse dalla memoria pubblica e alcune sono state addirittura deturpate o distrutte.
Recentemente il fotografo Shai Halevi, Michael Tchernin, archeologo dell’IAA, e l’artista Anastasia Prokofieva sono riusciti a decifrare i simboli rimasti. Sono stati identificati 18 dei 23 stemmi, appartenenti a persone illustri della storia britannica. Tra loro figurano quello di Re Giorgio V (1865-1936), del famoso produttore di birra irlandese Edward Cecil Guinness (1847-1927), dell’architetto Alfred Bossom (1881-1965), del costruttore navale Henry Grayson (1865-1951) e del nobile britannico Edward de Stern (1854-1933), zio della filantropa Vera Salomons, fondatrice del Museo di Arte islamica L. A. Mayer di Gerusalemme.
Inoltre, gli archeologi hanno scoperto un’iscrizione misteriosa su una pietra, che si è rivelata essere la pietra angolare dell’ospedale. “Per noi l’archeologia non si ferma all’antichità; questi sono reperti relativamente moderni, ma tra i nostri obiettivi c’è quello di indagare, fin d’ora, su ciò che sarà considerato archeologia in futuro”, ha detto il dott. Ram dell’IAA.
“Ogni pietra di Gerusalemme racconta una storia. – ha concluso Eli Eskusido direttore dell’IAA – I nostri ricercatori esaminano ogni pietra, in senso letterale e figurato, per scoprire l’affascinante storia di Gerusalemme in tutte le sue espressioni e culture”.
Le fotografie degli stemmi, le loro ricostruzioni artistiche a colori e le informazioni biografiche delle relative famiglie nobili, insieme a nuovi reperti archeologici saranno esposti dal 20 giugno al 2 luglio presso la ‘Jerusalem House of Quality’. La mostra è gratuita.
L’obiettivo dell’Autorità Palestinese nei tribunali internazionali? “Stringere il cappio” attorno a Israele “e porre fine” allo stato ebraico
Lo ha affermato esplicitamente in tv il viceministro degli esteri di Abu Mazen
di Itamar Marcus e Ephraim D. Tepler
La richiesta dell’Autorità Palestinese di affiancare il Sudafrica nella causa contro Israele davanti alla Corte Internazionale di Giustizia non ha lo scopo di convincere Israele a cessare le operazioni a Rafah e nemmeno di fermare quello che chiamano falsamente il “genocidio dei palestinesi”.
Il vero obiettivo – come afferma in tv la stessa Autorità Palestinese – è quello di “stringere il cappio” attorno all’intero stato d’Israele “colonialista” e “porvi fine”.
Il che comporta la volontà di mettere sotto processo tutto Israele: “la politica e le istituzioni governative, il sistema legale, il sistema di governo e il sistema militare”.
Lo ha detto esplicitamente il viceministro degli esteri dell’Autorità Palestinese, Omar Awadallah.
Per essere chiari, quando il viceministro degli esteri dell’Autorità Palestinese parla di “questo sistema colonialista” si riferisce allo stato d’Israele come tale, esattamente come ha fatto il presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen quando il 15 maggio 2023 alle Nazioni Unite ha definito Israele “un’altra entità nella nostra patria storica” fondata e impiantata dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti “per i loro scopi colonialisti” e per “sbarazzarsi degli ebrei” (video).
Allo stesso modo, il 23 ottobre 2023 l’allora primo ministro dell’Autorità palestinese Mohammed Shtayyeh definiva Israele “un’entità colonialista che ha occupato la nostra terra ed espulso il nostro popolo” (video).
Quello che segue è il testo dell’intervista della tv ufficiale dell’Autorità Palestinese al viceministro degli esteri dell’Autorità Palestinese Omar Awadallah (3 giugno 2024):
Conduttore della tv dell’Autorità Palestinese: Lo Stato di Palestina ha chiesto di unirsi al Sudafrica nella sua causa contro Israele davanti alla Corte Internazionale di Giustizia. Omar Awadallah, viceministro degli esteri dell’Autorità Palestinese: Vi sono tentativi da parte di alcuni stati di dimostrare che in Israele, l’autorità che in effetti gestisce l’occupazione, ci sono alcuni estremisti che commettono un certo numero di crimini contro il popolo palestinese. Noi diciamo loro “no”. La Corte Internazionale di Giustizia sta mettendo sotto processo la politica e le istituzioni governative, il sistema legale, il sistema di governo e il sistema militare in Israele, nel senso che tutto Israele è accusato di aver commesso questo crimine, in aggiunta alla nostra causa presso la Corte Penale Internazionale che mette sotto processo gli individui. Come abbiamo sempre detto, questo fa parte del processo legale che la dirigenza palestinese sta implementando per stringere il cappio attorno a questo sistema colonialista allo scopo di smantellarlo e porvi fine.
Parashat Nasò. Come garantire la pace fra individui
Appunti di Parashà
a cura di Lidia Calò
La parashà di Naso sembra, a prima vista, una raccolta eterogenea di elementi del tutto slegati tra loro. Innanzitutto c’è il racconto delle famiglie levitiche Ghershon e Merari e del loro compito di trasportare parti del Tabernacolo quando gli Israeliti erano in viaggio. Poi, dopo due brevi leggi sull’allontanamento delle persone impure dall’accampamento e sul risarcimento, poi arriva la strana prova della Sotah, la donna sospettata dal marito di adulterio.
Segue la legge del nazireato, la persona che volontariamente (e di solito per un periodo prestabilito) assumeva speciali restrizioni di santità, tra cui la rinuncia al vino e ai prodotti dell’uva, al taglio dei capelli e alla contaminazione da contatto con un corpo morto.
Segue, sempre apparentemente senza alcun collegamento, una delle preghiere più antiche del mondo ancora in uso: la benedizione sacerdotale. Poi, con inspiegabile ripetitività, arriva il racconto dei doni portati dai principi di ogni tribù alla dedicazione del Tabernacolo, una serie di lunghi paragrafi ripetuti non meno di dodici volte, poiché ogni principe portava un’offerta identica. Perché la Torà dedica tanto tempo a descrivere un evento che avrebbe potuto essere esposto in modo molto più sintetico nominando i principi e dicendoci poi genericamente che ciascuno di essi portò un piatto d’argento, un bacile d’argento e così via? La domanda che mette in ombra tutte le altre, però, è: qual è la logica di questa serie di argomenti apparentemente scollegati?
La risposta si trova nell’ultima parola della benedizione sacerdotale: shalom, pace. In una lunga analisi, il commentatore ebreo spagnolo del XV secolo Rabbi Isaac Arama spiega che shalom non significa semplicemente assenza di guerra o di conflitti. Significa completezza, perfezione, funzionamento armonioso di un sistema complesso, diversità integrata, uno stato in cui ogni cosa è al suo posto e tutto è in armonia con le leggi fisiche ed etiche che governano l’universo.
“La pace è il filo della grazia che esce da Lui, sia Egli esaltato, e che lega tutti gli esseri, superni, intermedi e inferiori. Essa sottende e sostiene la realtà e l’esistenza unica di ciascuno”. (Akeidat Yitzhak, cap. 74)
Allo stesso modo, Isaac Abarbanel scrive:
“Ecco perché Dio è chiamato pace, perché è Lui che lega il mondo insieme e ordina tutte le cose secondo il loro carattere e la loro particolare postura. Infatti, quando le cose sono nel loro giusto ordine, regnerà la pace”. (Abarbanel, Commento ad Avot 1:1)
Si tratta di un concetto di pace fortemente dipendente dalla visione di Genesi 1, in cui Dio fa uscire l’ordine dal tohu va-vohu, il caos, creando un mondo in cui ogni oggetto e forma di vita ha il suo posto. La pace esiste quando ogni elemento del sistema è valutato come parte vitale della complessità nel suo insieme e dove non c’è discordia in esso. Le varie disposizioni nella parashà di Nasò sono tutte volte a portare la pace in questo senso.
Il caso più evidente è quello della Sotah, la donna sospettata dal marito di adulterio. Ciò che più colpisce i Saggi del rituale della Sotah è il fatto che esso implicava la cancellazione del nome di Dio, cosa rigorosamente vietata in altre circostanze. Il sacerdote officiante recitava un ammonimento che includeva il nome di Dio, lo scriveva su un rotolo di pergamena e poi scioglieva la scrittura in acqua appositamente preparata. I Saggi ne dedussero che Dio era disposto a rinunciare al proprio onore, permettendo che il suo nome venisse cancellato, “per mettere pace tra marito e moglie”, scagionando così una donna innocente dai sospetti. Sebbene la prova sia stata abolita da Rabbi Yochanan ben Zakkai dopo la distruzione del Secondo Tempio, la legge è servita a ricordare quanto sia importante la pace domestica nella scala dei valori ebraici.
Il passo relativo alle famiglie levitiche di Ghershon e Merari segnala che ad esse fu assegnato un ruolo d’onore nel trasporto degli oggetti del Tabernacolo durante i viaggi del popolo attraverso il deserto. Evidentemente erano soddisfatti di questo onore, a differenza della famiglia di Kehat descritta alla fine della parashà della scorsa settimana, in cui uno dei membri, Korach, alla fine istigò una ribellione contro Mosè e Aronne.
Allo stesso modo, il lungo resoconto delle offerte dei principi delle dodici tribù è un modo drammatico per indicare che ognuna di esse era considerata abbastanza importante da meritare un proprio passaggio nella Torà. Le persone compiono azioni distruttive se si sentono offese e non ricevono il ruolo e il riconoscimento che spetta loro. Il caso di Korach e dei suoi alleati ne è la prova. Dando alle famiglie levitiche e ai principi delle tribù la loro parte di onore e attenzione, la Torà ci dice quanto sia importante preservare l’armonia della nazione onorando tutti.
Il caso del nazireo è per certi versi il più interessante. Esiste un conflitto interno al giudaismo tra, da un lato, una forte enfasi sulla pari dignità di tutti agli occhi di Dio e l’esistenza di un’élite religiosa nella forma della tribù di Levi in generale e dei Kohanim, i sacerdoti, in particolare. Sembra che la legge del nazireo fosse un modo per aprire ai non-Kohanim la possibilità di una santità speciale vicina, anche se non proprio identica, a quella dei Kohanim stessi. Anche questo è un modo per evitare i risentimenti dannosi che possono verificarsi quando le persone si trovano escluse per nascita da certe forme di status all’interno della comunità.
Se questa analisi è corretta, allora un unico tema lega le leggi e la narrazione di questa parashà: il tema degli sforzi speciali per preservare o ripristinare la pace tra le persone.
La pace è facilmente danneggiabile e difficile da riparare. Gran parte del resto del libro di Bamidbar è un insieme di variazioni sul tema del dissenso e della lotta interna. Così è stata la storia ebraica nel suo complesso. Nasò ci dice che dobbiamo fare di più per portare la pace tra marito e moglie, tra i leader della comunità e tra i laici che aspirano a uno stato di santità superiore al solito.
Non è quindi un caso che le benedizioni sacerdotali incluse nella parashà di Nasò terminano, come la stragrande maggioranza delle preghiere ebraiche, con una preghiera per la pace. La pace, dicono i rabbini, è uno dei nomi di Dio stesso e Maimonide scrive che l’intera Torà è stata data “per fare la pace nel mondo” (Leggi di Chanukah 4:14). La parashà di Nasò è una serie di lezioni pratiche su come garantire, per quanto possibile, che tutti si sentano riconosciuti e rispettati e che i sospetti vengano disinnescati e dissolti. Dobbiamo lavorare per la pace, oltre che pregare per essa. Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl
(Bet Magazine Mosaico, 14 giugno 2024) ____________________
L'Onu accusa Israele su Gaza: «Crimini contro l'umanità». E Hamas ostacola la tregua
I miliziani pretendono garanzie Usa sul ritiro dell'Idf dalla Striscia. Blinken: «Alcune condizioni sono inaccettabili». Altre tensioni col Libano: colpito un leader di Hezbollah
di Stefano Graziosi
Continua a salire la tensione al confine libanese. Hezbollah ha reso noto che, nella tarda notte di martedì, un suo comandante è rimasto ucciso nel corso di un raid israeliano. Si tratta di Abu Taleb: il più alto esponente dell'organizzazione terroristica sciita che ha finora perso la vita da quando sono iniziati i combattimenti con lo Stato ebraico lo scorso ottobre. «Per molti anni, il terrorista ha pianificato, portato avanti ed effettuato un gran numero di attacchi terroristici contro i civili israeliani. Nel raid sono stati eliminati anche altri tre agenti terroristici di Hezbollah», ha riferito, dal canto suo, l'Idf confermando così l'uccisione di Taleb. Nella giornata di ieri, Hezbollah ha lanciato una raffica di oltre 200 razzi contro la parte settentrionale di Israele, provocando degli incendi. Tutto questo, mentre le forze dello Stato ebraico hanno compiuto dei raid contro alcune basi dell'organizzazione sciita nel Sud del Libano.
Insomma, la tensione sta salendo significativamente. E il rischio di un allargamento del conflitto è un'ipotesi sempre più probabile. Un ulteriore grattacapo per l'amministrazione Biden, che sta da giorni cercando di negoziare un accordo per il cessate il fuoco tra Israele e Hamas. Una settimana fa, il sito Axios riportava che, stando a quanto reso noto da due funzionari americani, la Casa Bianca starebbe facendo di tutto per convincere lo Stato ebraico a non avviare un conflitto in territorio libanese. In particolare, Joe Biden teme che una simile eventualità possa portare a un intervento diretto dell'Iran, che è il principale sostenitore tanto di Hezbollah quanto di Hamas.
Non solo. Le tensioni libanesi potrebbero avere impatti nefasti anche sul destino del piano, strenuamente caldeggiato dallo stesso Biden, per il cessate il fuoco. Sì, perché, almeno per ora, la strada su questo fronte continua a rivelarsi in salita. Ieri sera, un funzionario di Hamas, Osama Hamdan, ha accusato il segretario di Stato americano, Tony Blinken, di essere «parte del problema» in riferimento alla crisi in corso. Tutto questo, mentre alcune ore prima la stessa Hamas era sembrata aver proposto delle modifiche al piano sponsorizzato dalla Casa Bianca: modifiche che - secondo il Times of Israel - il governo di Gerusalemme aveva letto come un rifiuto de facto. Più possibilista, ma fino a un certo punto, si era invece mostrato Blinken. «Hamas ha proposto numerose modifiche alla proposta che era sul tavolo. Alcune modifiche sono realizzabili, altre no», aveva dichiarato ieri pomeriggio, durante una conferenza stampa a Doha insieme al primo ministro del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman Al Thani. «C'era sul tavolo un accordo che era praticamente identico alla proposta avanzata da Hamas il 6 maggio: un accordo sostenuto da tutto il mondo, un accordo che Israele ha accettato. Hamas avrebbe potuto rispondere con una sola parola: "sì". Invece, Hamas ha aspettato quasi due settimane e poi ha proposto ulteriori cambiamenti, alcuni dei quali vanno oltre le posizioni prese e accettate in precedenza», aveva proseguito Blinken.
Non va d'altronde trascurato che l'Iran respinse il piano per il cessate il fuoco appena pochi giorni dopo che Biden lo
aveva pubblicamente proposto a fine maggio" mentre Hamas chiede garanzie Usa per il ritiro delle truppe israeliane e per un cessate il fuoco permanente: un punto difficile da digerire per Gerusalemme. Il problema è che l'attuale amministrazione Usa continua a tenere un approccio blando nei confronti del regime khomeinista. E questo non favorisce né una risoluzione del conflitto né il piano postbellico per la governance di Gaza: un piano che, ieri, Blinken ha detto che sarà presentato «nelle prossime settimane». Il nodo resta sempre lo stesso. Washington spera in un futuro governo della Striscia guidato dall'Anp. Ma non ha ancora chiarito in che modo punti a espellere Hamas da Gaza, neutralizzando il sostegno che Teheran fornisce al gruppo terroristico. E attenzione, Hezbollah e la stessa Hamas non sono gli unici gruppi sostenuti da Teheran a mostrarsi sempre più pericolosi: secondo l'intelligence americana, gli Huthi starebbero infatti trattando per fornire armi all'organizzazione islamista alShabaab in Somalia. Se continuerà a rifiutarsi di ripristinare la politica della «massima pressione» sugli ayatollah adottata dal predecessore, sarà difficile per Biden conseguire risultati in Medio Oriente.
Non accennano frattanto a diminuire le tensioni tra lo Stato ebraico e le Nazioni Unite. Dei rapporti della commissione d'inchiesta sui territori palestinesi, istituita dal Consiglio per i diritti umani dell'Qnu nel 2021, hanno accusato sia Israele sia Hamas di aver compiuto crimini di guerra e atti di violenza sessuale da ottobre a oggi. «Israele respinge le accuse ripugnanti e immorali mosse contro l'Idf sia per quanto riguarda l'operazione militare a Gaza che per la sua risposta iniziale contro i terroristi di Hamas in Israele», ha replicato Gerusalemme, per poi aggiungere: «Hamas è un'organizzazione terroristica senza legge. Israele è un Paese democratico impegnato nello stato di diritto. L'Idf si comporta in linea con il diritto internazionale». La commissione d'inchiesta è guidata dalla giurista sudafricana, Navi Pillay, che fu alto commissario per i diritti umani dal 2008 al 2014. Sarà un caso, ma a dicembre il Sudafricaha accusato Israele di genocidio davanti alla Corte internazionale di giustizia (che fa parte dell'Onu). Blinken, dal canto suo, ha detto ieri di non aver ancora visionato i rapporti. «Ma ovviamente li esamineremo», ha specificato.
Gaza, media: Hamas chiede garanzie scritte di un cessate il fuoco permanente e il ritiro delle Forze di Israele
Il movimento islamista palestinese Hamas ha chiesto garanzie scritte di un cessate il fuoco permanente e del ritiro completo delle Forze di difesa d’Israele (Idf) dalla Striscia di Gaza per accettare la proposta delineata dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, il 31 maggio scorso. Questa è una delle richieste presentate da Hamas nella sua risposta alla proposta di cessate il fuoco, consegnata l’11 giugno ai mediatori qatarioti ed egiziani. I nuovi dettagli delle modifiche richieste da Hamas sono stati pubblicati dalla rivista saudita “Al Majalla”, secondo cui il gruppo islamista ha affermato esplicitamente che l’accordo quadro è composto da tre fasi “collegate e interdipendenti”.
La prima fase durerebbe 42 giorni, durante i quali ci sarebbe la cessazione temporanea delle operazioni militari da entrambe le parti e il ritiro delle Idf verso est e lontano dalle aree densamente popolate lungo il confine in tutte le zone della Striscia di Gaza. Nella risposta di Hamas, per la prima fase è stata aggiunta la frase “compreso il corridoio di Filadelfia” (striscia di terra lunga 14 chilometri lungo il confine tra Gaza e l’Egitto), l’area di Wadi Gaza (a nord del campo profughi di Nuseirat), il corridoio di Netzarim (nel centro della Striscia) e la rotonda Kuwait (a Gaza City).
Un’altra delle principali modifiche alla proposta di accordo di cessate il fuoco e rilascio degli ostaggi richiesta da Hamas è la richiesta che Cina, Russia e Turchia svolgano la funzione di garanti per qualsiasi accordo raggiunto con Israele. Una richiesta, secondo quanto riferito dall’emittente pubblica israeliana “Kan”, respinta sia dagli Stati Uniti che da Israele. Tra le altre modifiche proposte da Hamas figurano una nuova cronologia per il cessate il fuoco permanente e il ritiro delle forze militari israeliane da Gaza, inclusi Rafah e il corridoio di Filadelfia lungo il confine tra Egitto e Gaza.
GERUSALEMME - Un tassista fa un'inversione a U vicino a Mamilla, non lontano dalla Porta di Giaffa nella Città Vecchia di Gerusalemme, e incrocia una donna che cerca un taxi al cellulare. Suona il clacson e chiede alla cliente di salire. La donna chiede quanto costerà il viaggio verso la sua destinazione e il tassista risponde: "Quanto può pagare". Dopo aver concordato un prezzo insolitamente basso, spiega che questo è il suo primo e unico viaggio della giornata e che lavora da tre ore. Come gli albergatori, gli affittacamere e il Ministero del Turismo, il tassista cerca di rimanere ottimista nella speranza di poter in qualche modo rilanciare la sua attività estiva, un tempo fiorente. "Il 7 ottobre eravamo al completo, soprattutto con gli ebrei americani", ricorda Aya Grundman, amministratore delegato dell'hotel di lusso Isrotel "The Orient", situato nel ricco quartiere German Colony di Gerusalemme. "La guerra ha cambiato tutto". "Mentre alcuni turisti sono stati costretti a prolungare il loro soggiorno perché le compagnie aeree hanno cambiato gli orari dei voli, altri si sono affrettati a tornare a casa e molti del personale dell'hotel sono stati immediatamente richiamati, la gestione dell'albergo è diventata una sfida". L'hotel è rimasto chiuso per un mese e poi ha riaperto per accogliere gli sfollati dal sud e successivamente dal nord". "I membri del Kibbutz Or HaNer [vicino alla Striscia di Gaza settentrionale] che sono stati collocati qui hanno apprezzato il fatto che abbiamo uno standard molto elevato in Oriente", ha spiegato Grundman. "C'erano dei limiti: ad esempio, non si possono stendere i panni sui balconi. Sono state fornite lavatrici/asciugatrici e frigoriferi per aumentare il comfort, ma siamo stati attenti a mantenere l'atmosfera e la qualità dell'hotel. I membri del kibbutz sono stati molto grati e disponibili". Se all'inizio le missioni di solidarietà hanno attirato turisti internazionali, Grundman dice che è subentrata una "stanchezza da solidarietà". Ciononostante, un giovedì mattina c'erano molti clienti interessanti nella hall, la maggior parte dei quali israeliani, secondo Jason Gardner, responsabile delle vendite per il turismo in entrata di Isrotel. Egli attribuisce questo al fatto che molte compagnie aeree straniere hanno sospeso i voli verso Israele e che il costo dei biglietti aerei è salito alle stelle, che il desiderio di viaggiare durante la guerra è basso e che l'assicurazione di viaggio internazionale è diventata proibitiva. "Le compagnie aeree stanno tagliando la nostra ancora di salvezza", ha detto Gardner. "Per gli israeliani la vita continua", ha spiegato Grundman. "Le persone hanno bisogno di tempo prezioso con la famiglia, quindi vanno al ristorante, al bar e alle feste. E tra l'antisemitismo e il desiderio di stare vicino ai propri amici e parenti soldati, sempre più israeliani optano per vacanze brevi e rilassanti". "Siamo in ballo per il lungo periodo", dice Gardner, che passa il suo tempo a tenere riunioni Zoom con agenzie di viaggio, organizzazioni non governative e pastori cristiani, cercando di riportare i turisti. "Nessuno conosce la guerra come Israele. La storia dimostra che dopo ogni guerra c'è una grande ripresa del turismo", aggiunge. "Il turismo è la seconda industria più importante dell'economia israeliana", afferma Grundman. Gli alberghi, i tour operator, le compagnie di autobus e gli imprenditori fanno tutti affidamento sul turismo". Delta Air Lines ha ripreso i voli verso Israele il 7 giugno dopo averli sospesi da ottobre. Ci sono voli giornalieri tra l'aeroporto JFK di New York e l'aeroporto Ben-Gurion. Dal 9 giugno, anche United Airlines ha ripreso i voli giornalieri tra Newark, New Jersey, e Tel Aviv.
• NON È COSÌ GRAVE COME SEMBRA "Non è così grave come sembra", afferma l'ambasciatore del turismo Peleg Lewi, consigliere del ministro del turismo per gli affari esteri. "Dopo che i numeri sono scesi a zero dopo l'8 ottobre, il turismo è tornato al 25% del suo livello precedente. Ogni giorno arrivano 4.000 turisti. Rispetto ai 15.000 al giorno di un anno fa". Lewi ha sottolineato che El Al, le compagnie aeree emiratine e cinesi (Hainan Airlines) hanno continuato a volare nonostante la guerra, nonostante il numero ridotto di voli e gli alti prezzi dei biglietti. Anche le compagnie aeree israeliane Arkia e Israir hanno volato senza interruzioni. "La compagnia aerea degli Emirati [flyDubai] non ha interrotto le sue operazioni nemmeno per un giorno, così come Etihad Airways da Abu Dhabi", ha detto. Ciò è probabilmente dovuto ai viaggiatori israeliani, poiché anche prima della guerra pochi cittadini arabi della regione del Golfo visitavano Israele. Secondo Levi, le pensioni e il turismo rurale sono stati i più colpiti. "Il nord è un grosso problema", ha detto. "Oggi è difficile convincere qualcuno ad andare a nord. Eilat offre buone opzioni per i turisti che cercano una camera per gli ospiti".
• RISARCIMENTI Mercoledì il ministro del Turismo Haim Katz ha annunciato che i risarcimenti per i luoghi colpiti dalla guerra saranno estesi ai proprietari di pensioni e campeggi. "Il piano darà una risposta alle imprese turistiche che non si trovano sulla linea del conflitto ma che sono state drammaticamente danneggiate dalla guerra", ha spiegato Katz. "L'industria del turismo è un motore di crescita economica che genera regolarmente molti miliardi di shekel per il Paese. Siamo impegnati a sostenere le imprese e i cittadini i cui mezzi di sostentamento sono stati distrutti". Amit, che gestisce tre "ville per coppie" nell'Alta Galilea con 45 metri di superficie e piscine private con vista spettacolare sulle montagne, dice di aver approfittato dell'assenza di ospiti per rinnovare e modernizzare le ville. "Rispetto a maggio e giugno dell'anno scorso, l'occupazione è calata del 50%", afferma. "La gente disdice perché ha paura. Accendono la TV e vedono incendi e razzi, ma non sanno che il confine settentrionale è lungo centinaia di chilometri. Abbiamo sentito solo un totale di sei o sette sirene [di raid aerei], e siamo dotati di rifugi". Amit dice che le sue ville a Mishmar HaYarden e Nof Kinneret sono sicure come qualsiasi altro luogo del Paese. "Nessuno sa cosa succederà, e al momento è terribile per gli affari", ammette. "Dopo l'apertura, c'è stata un'enorme richiesta di pensioni. E ora tutto dipende da cosa succederà con la guerra. Non è scontato e non è facile, ma siamo forti e amiamo il nostro Paese e non potremo che diventare più forti". Per quanto riguarda i risarcimenti statali, dice che sono molto importanti. Per Amit significano, tra l'altro, la motivazione a continuare a impegnarsi per l'ospitalità in un momento complesso e difficile. Edna possiede un bed and breakfast chiamato Asia Suite a Moshav Dalton, vicino a Safed. È stata costretta a ridurre drasticamente i prezzi per attirare i clienti. Sebbene l'Asia Suite abbia accesso a una camera blindata e a un bunker pubblico, e non si sentano molte sirene, i suoi clienti, di solito israeliani, non hanno prenotato per l'estate. "In questi giorni non ci sono nemmeno turisti a Safed". Il piano del Ministero prevede anche il rimborso dei costi di riabilitazione per gli alberghi che hanno ospitato gli sfollati delle comunità vicine ai confini con il Libano e Gaza. "Gli alberghi hanno ospitato intere famiglie con bambini, cani e gatti", spiega Lewi. "Sono diventati intere città". Secondo Anat Aharon, vicepresidente delle vendite e del marketing, inizialmente gli hotel Fattal ospitavano quasi 20.000 sfollati. Ora sono solo 3.000, soprattutto da Kiryat Shmona.
• TURISTI, PELLEGRINI E ORGANIZZAZIONI EBRAICHE "Crediamo davvero che ogni guerra ci renda più forti", dice Aharon. "Dopo 25 anni nel settore dell'ospitalità e altre guerre, ho imparato che i turisti tornano, così come i pellegrini e le organizzazioni ebraiche che vogliono sostenere e vedere Israele. Le organizzazioni ci stanno ancora contattando, trattando con noi e progettano di riprendere la loro attività entro la fine del 2024. Sono molto ottimisti". L'autrice racconta che gli hotel nel sud del Paese hanno attirato persone da New York che hanno aiutato l'agricoltura della regione e hanno donato molti soldi ai kibbutzim locali. "Quando l'ho visto, questo mi ha reso davvero felice. So che le cose qui andranno molto bene quando la guerra sarà finita". Lewi aggiunge: "Il giorno dopo non è ancora arrivato. Speriamo che la situazione si riprenda entro la fine dell'estate. Affinché Israele non scompaia dalla mappa turistica, chiediamo ai visitatori di non cancellare, ma solo di rimandare. Stiamo contattando i leader cristiani e gli evangelici e ci stiamo coordinando con altri ministeri, come quello della Diaspora". Il sussidio per le imprese turistiche colpite sarà sotto forma di spese qualificate, ristrutturazioni per spese fisse e salari per le imprese con una perdita di entrate superiore al 25%. Katz ha dichiarato che sono in fase di preparazione le bozze per fornire garanzie agli organizzatori del turismo in entrata e che il Ministero prevede di distribuire 200 milioni di shekel - circa 54 milioni di dollari - per la ristrutturazione degli alberghi che hanno ospitato gli sfollati.
(Israel Heute, 13 giugno 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Mentre a nord si inasprisce lo scontro tra Israele e Hezbollah, con il rischio dell’apertura di una guerra a tutto tondo, Hamas continua a chiedere quello che da parte di Israele è irricevibile, la fine della guerra, ovvero la sua permanenza a Gaza.
I tentativi americani di costringere Israele a un accordo al ribasso si scontrano con il fatto duro e insormontabile che per Hamas Israele deve perdere la guerra. La guerra che Hamas ha voluto, che Hamas ha provocato, il 7 ottobre del 2023.
Ieri, Yahya Sinwar, il capo militare di Hamas a Gaza ha dichiarato che la morte dei civili palestinesi è un “sacrificio necessario”. Nulla di sorprendente per chi conosce Hamas. Il gruppo jihadista ha sempre lucrato sulla morte dei civili, usati come carne da macello per potere poi incolpare Israele di massacri indiscriminati se non di genocidio.
La dichiarazione di Sinwar è perfettamente in linea con la cultura della morte e del martirio professata dagli integralisti islamici, nella consapevolezza che questa carta diventa vincente quando i martiri non sono volontari, non si fanno saltare in aria con cinture esplosive ma diventano la popolazione di Gaza, i civili. Se non si donerà il proprio sangue volontariamente alla causa del jihad lo si farà obtorto collo, in modo da fomentare le piazze occidentali e l’odio nei confronti di Israele.
Chi, in questi mesi, ha inneggiato alla “liberazione” della Palestina dal fiume al mare, lo ha fatto sempre e solo in ossequio all’integralismo islamico, alla cultura della morte, a chi ha cinicamente usato e sta cinicamente usando uomini, donne e bambini come carne da sacrificare sull’altare del proprio fanatismo.
Che oggi, in tanti in occidente pensano che la responsabilità di quanto sta accadendo a Gaza sia principalmente di Israele, mostra solo a che punto di profondo e forse irrecuperabile smarrimento della ragione si sia giunti.
Le livide parole di Sinwar stanno a testimoniarlo inequivocabilmente.
Maltrattamenti quotidiani sugli ostaggi: lo rivela il medico dello Sheba Medical Center
di Luca Spizzichino
Gli ostaggi venivano picchiati e maltrattati “quasi ogni giorno”. Lo ha affermato il dottor Itai Pessach, responsabile delle cure mediche per i quattro ostaggi israeliani salvati sabato e che ora si trovano allo Sheba Medical Center di Tel HaShomer.
Il medico ha sottolineato che gli otto mesi passati in prigionia “hanno lasciato un segno significativo sulla loro salute”, nonostante sembrassero esternamente in buone condizioni. “Non assumendo abbastanza proteine i loro muscoli sono estremamente deteriorati, ci sono danni anche ad altri sistemi a causa di ciò”, aggiunge, sottolineando che la fornitura di cibo e acqua variava, e che venivano spostati più volte e gestiti da guardie diverse. “Ci sono stati periodi in cui non hanno praticamente ricevuto cibo”, ha aggiunto Pessach.
Le condizioni disumane in cui vivevano durante la prigionia “hanno avuto un effetto significativo sulla salute”, anche dal punto di vista psicologico, spiega il dottor Pessach, che ha curato alcuni degli ostaggi rilasciati a novembre. Il danno psicologico di questi quattro è più intenso a causa del periodo di tempo in cui sono stati trattenuti, ha spiegato alla CNN. Infatti secondo il medico dello Sheba Medical Center, “col passare del tempo, la speranza di essere rilasciato diminuisce e inizi a chiederti se tutto questo finirà mai”. “Nel momento in cui si perde quella fede si arriva al punto di rottura” ha concluso.
Antisemitismo – Monteleone (Le Iene): Per Israele battaglia impari online
Criticare Israele utilizzando parole come “genocidio”, “sterminio” e “nazismo” non è «un esercizio innocente». E chi oggi utilizza quelle parole «si colloca di diritto nella lunga storia dell’antisemitismo». Partendo da questa premessa, vari relatori hanno animato un incontro su “Israele e l’antisemitismo negato” al Centro ebraico Il Pitigliani di Roma, promosso dalla Comunità ebraica, dal Maccabi Italia e dall’associazione Inoltre. Tra gli intervenuti, a confronto su recrudescenza dell’ostilità anti-israeliana nella società italiana e racconto e distorsioni del conflitto a Gaza, il presidente di Equality Italia Aurelio Mancuso, l’ex parlamentare e attivista per i diritti LGBT Paola Concia, il docente universitario Giovanni Bachelet e i giornalisti Tommaso Giuntella, Antonino Monteleone e Alessandra Libutti, moderati da Filippo Piperno.
«Nelle ultime settimane, con la ciliegina sulla torta di “All eyes on Rafah”, abbiamo scoperto della grande bugia che il mainstream, con la prevalente componente dell’industria culturale, cinematografica e dei media sia schierata dalla parte di Israele. Tutto l’esatto contrario in questo momento», ha sostenuto Monteleone, inviato della trasmissione televisiva Le Iene. «Israele sta perdendo la partita della comunicazione, perché una quantità illimitata di capitali è stata investita su piattaforme che hanno trasformato le interazioni generate da alcuni contenuti, in linea teorica vietati dalle linee guida delle stesse piattaforme, nello strumento per cui si ascolta solo la voce di una parte, innescando un meccanismo con il quale il cosiddetto “antifascismo” interrompe ogni discussione con frasi come “Ma tu li hai visti i morti civili?”».
Monteleone è impegnato da tempo nella diffusione di contenuti volti a smontare la propaganda propal. «Io e pochi altri giornalisti siamo stati additati con un’accusa infamante, quella di essere insensibili alle morti civili», ha dichiarato durante la serata al Pitigliani. «Ogni morte è disgustosa, ma qui c’è un tema da comprendere relativo alle intenzioni. Se l’accusa è il genocidio, c’è chi il genocidio ce l’ha nella propria ragione sociale e gli viene impedito di commetterlo e chi un genocidio potrebbe commetterlo perché ne ha i mezzi e la capacità militare e tecnologica e non lo fa».
Un elicottero dell'IDF trasporta i membri delle Forze speciali israeliane che hanno preso parte all'"Operazione Arnon" presso il Centro medico Sheba di Ramat Gan, 8 giugno 2024
Dopo mesi in cui si è falsamente affermato che l'unico modo per salvare gli ostaggi era quello di scendere a patti con i terroristi islamici, Israele ha lanciato un'audace operazione di salvataggio alla luce del giorno, attaccando contemporaneamente due case in cui erano detenuti quattro ostaggi.
  L'operazione ha coinvolto la Israel Security Agency, la versione israeliana dell'FBI) e l'unità nazionale antiterrorismo della polizia israeliana "Yamam", che sono penetrate in profondità nel territorio nemico in un'operazione di salvataggio rischiosa che ha richiesto un tempismo preciso e che ha permesso di respingere le orde di terroristi che sciamavano fuori per attaccare i soccorritori.
  Contro ogni previsione, Israele ha avuto successo. E i media e l'establishment politico hanno rafforzato la loro narrazione.
  La Casa Bianca e i politici internazionali hanno ripetuto i loro appelli per un "cessate il fuoco" che avrebbe lasciato Hamas al potere e gli avrebbe permesso di lanciare un altro 7 ottobre.
  I media hanno diffuso con entusiasmo le affermazioni di Hamas sulle "vittime civili di massa".
  Entrambi hanno reagito al fatto che questa operazione ha dimostrato ancora una volta che l'unica strada giusta e morale è quella di sconfiggere i terroristi.
C'è un solo modo per fermare la spirale del terrorismo islamico, ed è quello di non fare accordi con i terroristi.
(Israel Heute, 11 giugno 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Riservista con PTSD si toglie la vita dopo l’ordine di richiamo
L’IDF ha dichiarato che Eliran Mizrahi non può essere sepolto in un cimitero militare perché non era in servizio attivo al momento della morte; la madre dice che è rientrato dalla guerra di Gaza come “un uomo distrutto”.
L’IDF si rifiuta di riconoscere come soldato caduto un riservista con disturbo da stress post-traumatico che si è tolto la vita dopo l’ordine di tornare a combattere nella Striscia di Gaza, lo ha dichiarato la sua famiglia. Eliran Mizrahi, di Ma’ale Adumim, era stato chiamato nelle riserve poco dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, quando era stato incaricato di aiutare a rimuovere i corpi delle persone uccise dai terroristi palestinesi al festival musicale Supernova. È stato poi inviato a Gaza, dove ha prestato servizio come ingegnere di combattimento fino a quando è stato ferito in aprile.
Mizrahi era stato riconosciuto come veterano dell’IDF e gli era stato diagnosticato un disturbo da stress post-traumatico, ma venerdì ha ricevuto l’ordine di presentarsi in servizio a Rafah due giorni dopo. Poi si è tolto la vita.
Lascia moglie e quattro figli.
La madre di Eliran, Jenny, ha raccontato che l’uomo è stato ferito due volte durante i sette mesi di servizio, e che la prima volta che è stato ferito si è rifiutato di lasciare Gaza, insistendo che voleva continuare a proteggere il Paese.
Voleva continuare a combattere, proteggere lo Stato di Israele e riportare indietro gli ostaggi”, ha detto.
Hila Mizrahi, sorella di Eliran, ha detto a Channel 13 news che il fratello ha “passato l’inferno” a Gaza e che si è rifiutato di parlare di molte delle sue esperienze di guerra. “Ha subito il lancio di razzi, ha visto morire i suoi amici, ha riportato i corpi e ha fatto comunque tutto per Israele”, ha detto. A seguito del periodo trascorso a Gaza, ha raccontato Hila, Eliran è stato ferito fisicamente e mentalmente e un medico gli ha detto che non sarebbe stato in grado di tornare a combattere.
Era una persona felice, allegra, divertente, positiva e ottimista”, ha detto Jenny. “Era la luce principale nella nostra casa e tra i suoi amici, e tornò a casa diverso. Siamo tornati con un uomo distrutto, impaziente con i bambini. Era arrabbiato e aveva gli incubi”.
La famiglia di Eliran ha lottato perché fosse riconosciuto come soldato caduto e fosse sepolto nel cimitero militare del Monte Herzl, ma l’IDF ha rifiutato la richiesta perché non era in servizio attivo quando è morto.
Jenny ha espresso la sua frustrazione per il modo in cui Eliran è stato trattato dopo la diagnosi di PTSD, dicendo che lui le aveva detto che gli psichiatri che lo avevano in cura avevano detto che non poteva essere aiutato. “Mandarlo in guerra con i suoi amici va bene, ma riconoscerlo come soldato caduto no? Perché?”, ha detto, aggiungendo che si rifiuta di seppellirlo se non in un cimitero militare.
La sorella di Eliran, Shir, ha detto a Canale 12 che il soldato ha perso la sua anima a causa della guerra. “Quest’uomo ha dato la sua vita a questo Paese e al nostro esercito, e non merita una sepoltura militare? Invece di concentrarci sul nostro dolore, siamo costretti a lottare per il suo onore”, ha detto la donna.
“Mio fratello merita di essere sepolto con una bandiera israeliana e che i soldati gli facciano il saluto. Non si merita questo”, ha detto Hila.
Rispondendo a una richiesta di commento, l’IDF ha detto che Eliran aveva fatto molto per l’esercito durante la guerra e nelle precedenti operazioni militari. Tuttavia, ha detto che “dopo aver esaminato la questione, abbiamo scoperto che al momento della sua morte, Eliran non era un soldato né in servizio attivo di riserva, quindi non è idoneo per la sepoltura militare secondo le leggi sui cimiteri militari”.
La liberazione dei quattro ostaggi tenuti prigionieri da oltre otto mesi nella Striscia di Gaza realizzata dall’IDF e dallo Shin Beth ha ridato speranza anche alle famiglie degli altri 120 ostaggi detenuti da Hamas dal 7 ottobre, giorno in cui migliaia di terroristi hanno fatto irruzione in territorio israeliano uccidendo, stuprando e rapendo anziani, donne e bambini.
I quattro ostaggi liberati sono Noa Argamani (26 anni), Almog Meir Jan (21 anni), Andrey Kozlov (27 anni) e Shlomi Ziv (41 anni). Erano detenuti in due distinti appartamenti di una zona ad alta densità abitativa di Nuseirat, nel centro della Striscia di Gaza. La notizia del successo dell’operazione ha suscitato la felicità della popolazione. Il sentimento di gioia, tuttavia, è stato poco dopo offuscato dalla notizia della morte dell’ispettore capo della polizia israeliana Arnon Zamora, 36 anni, deceduto per le ferite riportate durante l’operazione di salvataggio degli ostaggi, che in suo onore è stata denominata “operazione Arnon”.
Nelle ultime ore i medici che seguono gli ex ostaggi hanno reso note alcune informazioni sulle loro condizioni di salute. Soffrono, tra le altre cose, di deficit vitaminici, malnutrizione, perdita di peso. Il Dottor Itai Pesach, direttore del Safra Hospital allo Sheba Medical Center – Tel Hashomer ha spiegato anche che «la loro situazione è simile a quella di altri ostaggi. Nelle ore iniziali, dopo la liberazione, erano entusiasti: felici, volevano comunicare e parlare di quello che hanno vissuto». Alla gioia iniziale è seguito però un deterioramento delle loro condizioni. «Hanno affrontato situazioni difficili e serviranno tanti mesi di supporto medico e psicologico». Secondo quanto rivelato da fonti dell’ospedale, i quattro si cercano continuamente tra di loro per un conforto reciproco.
Tra loro, Noa Argamani è l’unica ragazza liberata. Il suo volto aveva fatto il giro del mondo quando il 7 ottobre era stata rapita al Nova Festival dai terroristi a bordo di una moto. L’immagine di lei stretta tra due miliziani, con le braccia tese verso il fidanzato Avinatan Or mentre urlava disperatamente, ha fatto il giro del mondo ed è diventata emblematica di quella giornata. Durante la prigionia, sua madre Liora, malata di cancro al cervello al quarto stadio, si è battuta per ottenere la sua liberazione. I suoi appelli per vedere un’ultima volta la figlia prima di morire hanno commosso il mondo. Noa è stata liberata il giorno del compleanno di suo padre, che l’ha accolta abbracciandola. La possibilità di rivedere la figlia dopo otto mesi è stato considerato il regalo più bello. Nonostante la felicità per il suo rilascio, Noa non può dire di aver lasciato totalmente il trauma alle spalle, visto che il suo fidanzato Avinatan è ancora ostaggio di Hamas, mentre la madre, Liora è in gravissime condizioni di salute. Dopo una prima visita in ospedale, la ragazza è corsa proprio a trovare la madre, con la quale ha trascorso alcune ore. Al momento sono emerse poche informazioni sul periodo di prigionia di Noa a Gaza. La ragazza sarebbe stata nascosta in quattro diversi appartamenti. Da ostaggio ha imparato l’arabo, che le è servito inizialmente anche per aiutare altri ostaggi a fare alcune richieste ai loro carcerieri. Noa ha raccontato ai suoi parenti di aver rischiato più volte la vita. L’ultima volta durante l’operazione di salvataggio, quando il furgone che la trasportava si è improvvisamente rotto. In uno degli appartamenti in cui è stata detenuta avrebbe spesso lavato i piatti e cucinato per i suoi carcerieri. Per ora non si conoscono molti altri dettagli su cosa le sia accaduto in questi mesi. Noa resta ancora sotto osservazione.
I tre uomini erano invece detenuti insieme in un appartamento di Nuseirat. L’operazione di salvataggio dei tre è stata molto rischiosa e ha implicato uno scontro con armi da fuoco con i terroristi che li detenevano.
Almog Meir al suo ritorno è stato accolto dal caloroso abbraccio di amici e parenti che dopo mesi di attesa lo hanno salutato con canti e urla di gioia. La madre ha rivelato che dopo il ritorno del figlio ha finalmente potuto dormire la notte. Purtroppo il ritorno di Almog è segnato da una tragedia familiare, la perdita di suo padre. Il cuore dell’uomo non ha retto al dolore per il rapimento del figlio e dopo aver sofferto per otto mesi, dopo aver trascorso ore davanti alla televisione sperando di carpire qualche notizia su Almog, il suo cuore si è fermato poche ore prima della liberazione del figlio. Almog ha cominciato a rivelare qualche informazione sul suo periodo di prigionia. Come Noa, anche il ragazzo è stato preso in ostaggio durante il Nova Festival. La madre ha dichiarato che durante la prigionia ha imparato un po’ di arabo e di russo da Andrey Kozlov, che era detenuto insieme a lui. «Durante tutti questi mesi non hanno visto la luce del giorno. Sono stati chiusi in una stanza. Hanno provato a fargli il lavaggio del cervello» ha detto suo zio.
Andrey Kozlov è stato tenuto prigioniero insieme ad Almog. Aveva fatto l’alyiah da pochi mesi quando il 7 ottobre al Nova Festival è stato rapito dai terroristi. Quando è stato liberato dall’IDF la sua famiglia si trovava a San Pietroburgo ed è arrivata in Israele il giorno dopo. Il giovane vedendo la madre è scoppiato a piangere mettendosi in ginocchio. Andrey ha raccontato ai suoi cari che durante la prigionia ha pensato ogni giorno alla sua famiglia e alla sua compagna Jennifer Master. Andrey ha anche insegnato il russo ai suoi compagni di prigionia.
Shlomi Ziv, 41 anni, il 7 ottobre era al Nova Festival per lavorare come guardia di sicurezza insieme a due amici che sono stati assassinati dai terroristi, Aviv Eliyahu e Jake Marlowe, marito di sua cugina. Durante l’attacco di Hamas, Shlomi ha aiutato i ragazzi a scappare, fino a quando non è stato rapito. Dopo la liberazione, sua madre Rosa, intervistata da Maariv, ha commentato che il ritorno del figlio «è una grande gioia che non può essere descritta a parole . Ancora non ci credo che è qui. Credevo fermamente che Shlomi sarebbe tornato. Si deve credere nel bene, e il bene arriverà». In ospedale Shlomi è stato raggiunto dalla moglie, dalla madre e dalle figlie. Non sapeva che i suoi due amici fossero stati assassinati. Quando la moglie Miren gli ha detto che ne avrebbero parlato in un secondo momento, Shlomi ha intuito la loro sorte ed è scoppiato in lacrime. «È colpa mia» avrebbe detto ai presenti. Durante la prigionia Shlomi non sapeva cosa stesse accadendo in Israele e per ora non ha condiviso molto di cosa ha dovuto affrontare negli ultimi otto mesi a Gaza; ha però raccontato a Channel 13 di aver imparato l’arabo da trasmissioni di Al-Jazeera e che i terroristi li avrebbero quotidianamente fatti pregare leggendo il Corano. Shlomi abita a Elkosh, un moshav vicino al confine nord. I residenti dell’area sono stati evacuati a causa della minaccia di Hezbollah e la sua famiglia non ha ancora deciso se tornare a casa o meno.
Le lettere di Sinwar: “i bambini e le donne morte aiuteranno Hamas”
Una esclusiva del Wall Street Journal rivela la corrispondenza tra Yahya Sinwar e gli altri leader di Hamas dalla quale emerge il totale disprezzo per la vita umana del capo di Hamas a Gaza.
Per mesi, Yahya Sinwar ha resistito alle pressioni per un accordo di cessate il fuoco e scambio di ostaggi con Israele. Dietro la sua decisione, come dimostrano i messaggi che il capo militare di Hamas a Gaza ha inviato ai mediatori, c’è il calcolo che un maggior numero di combattimenti e di morti civili palestinesi vada a suo vantaggio.
“Abbiamo gli israeliani proprio dove li vogliamo”, ha detto Sinwar in un recente messaggio ai funzionari di Hamas che cercavano di mediare un accordo con funzionari del Qatar e dell’Egitto.
I combattimenti tra le forze israeliane e le unità di Hamas nel sud della Striscia di Gaza hanno interrotto le spedizioni di aiuti umanitari, causato un aumento delle vittime civili e intensificato le critiche internazionali agli sforzi di Israele per sradicare il gruppo estremista islamico.
Per gran parte della sua vita politica, plasmata da un sanguinoso conflitto con uno Stato israeliano che secondo lui non ha diritto di esistere, Sinwar si è attenuto a un semplice schema di gioco. Messo alle strette, cerca nella violenza una via d’uscita. L’attuale lotta a Gaza non fa eccezione.
In decine di messaggi – analizzati dal Wall Street Journal – che Sinwar ha trasmesso ai negoziatori del cessate il fuoco, ai compatrioti di Hamas fuori da Gaza e ad altri, ha mostrato un freddo disprezzo per le vite umane e ha chiarito di ritenere che Israele abbia più da perdere dalla guerra che Hamas. I messaggi sono stati condivisi da più persone con opinioni diverse su Sinwar.
Dall’inizio della guerra, secondo Hamas a Gaza sono state uccise più di 37.000 persone, la maggior parte delle quali civili. La cifra, sicuramente esagerata, non specifica nemmeno quanti fossero combattenti. Le autorità sanitarie hanno dichiarato che quasi 300 palestinesi sono stati uccisi sabato in un raid israeliano che ha salvato quattro ostaggi tenuti in cattività in case circondate da civili, facendo capire ad alcuni palestinesi il loro ruolo di pedine di Hamas.
In un messaggio ai leader di Hamas a Doha, Sinwar ha citato le perdite di civili nei conflitti di liberazione nazionale in luoghi come l’Algeria, dove centinaia di migliaia di persone sono morte combattendo per l’indipendenza dalla Francia, dicendo che “questi sono sacrifici necessari”.
In una lettera dell’11 aprile al leader politico di Hamas Ismail Haniyeh, dopo che tre dei figli adulti di Haniyeh sono stati uccisi da un attacco aereo israeliano, Sinwar ha scritto che la loro morte e quella di altri palestinesi avrebbe “infuso vita nelle vene di questa nazione, spingendola a risorgere alla sua gloria e al suo onore”.
Sinwar non è il primo leader palestinese ad abbracciare lo spargimento di sangue come mezzo di pressione su Israele. Ma l’entità dei danni collaterali di questa guerra – civili uccisi e distruzione provocata – non ha precedenti tra israeliani e palestinesi.
Nonostante il feroce tentativo di Israele di ucciderlo, Sinwar è sopravvissuto e ha microgestito lo sforzo bellico di Hamas, redigendo lettere, inviando messaggi ai negoziatori per il cessate il fuoco e decidendo quando il gruppo terroristico aumenta o riduce i suoi attacchi.
Il suo obiettivo finale sembra essere quello di ottenere un cessate il fuoco permanente che permetta ad Hamas di dichiarare una vittoria storica, superando Israele e rivendicando la leadership della causa nazionale palestinese.
Il Presidente Biden sta cercando di costringere Israele e Hamas a fermare la guerra. Ma il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu si oppone a porre fine in modo permanente alla lotta prima di quella che definisce “vittoria totale” su Hamas.
Anche senza una tregua duratura, Sinwar ritiene che Netanyahu abbia poche alternative all’occupazione di Gaza e all’impantanamento nella lotta contro un’insurrezione guidata da Hamas per mesi o anni.
È un esito che Sinwar aveva prefigurato sei anni fa, quando è diventato leader nella Striscia di Gaza. Hamas potrebbe perdere una guerra con Israele, ma ciò causerebbe un’occupazione israeliana di oltre due milioni di palestinesi.
“Per Netanyahu, una vittoria sarebbe ancora peggiore di una sconfitta”, ha detto Sinwar a un giornalista italiano che ha scritto nel 2018 su un quotidiano israeliano, Yedioth Ahronoth.
Sinwar, oggi sessantenne, aveva circa 5 anni quando la guerra del 1967 gli fece vivere la prima esperienza di violenza significativa tra israeliani e arabi. Quel breve scontro riordinò il Medio Oriente. Israele prese il controllo delle alture del Golan dalla Siria e della Cisgiordania dalla Giordania. Inoltre, conquistò la penisola del Sinai dall’Egitto e la Striscia di Gaza, dove Sinwar crebbe in un campo profughi gestito dalle Nazioni Unite.
Il conflitto era una presenza costante. Sinwar ha pubblicato un romanzo nel 2004, mentre si trovava in una prigione israeliana, e nella prefazione ha scritto che era basato sulle sue esperienze personali. Nel libro, un padre scava una buca profonda nel cortile del campo profughi durante la guerra del 1967, coprendola con legno e metallo per creare un rifugio.
Un giovane figlio aspetta nella buca con la sua famiglia, piangendo e sentendo i suoni delle esplosioni che si fanno sempre più forti con l’avvicinarsi dell’esercito israeliano. Il ragazzo cerca di uscire, ma la madre gli urla: “È la guerra là fuori! Non sai cosa significa guerra?”.
Sinwar si unì al movimento che poi divenne Hamas negli anni ’80, diventando vicino al fondatore Sheikh Ahmed Yassin e creando una polizia di sicurezza interna che dava la caccia e uccideva i sospetti informatori, secondo la trascrizione della sua confessione agli interrogatori israeliani nel 1988.
Ha ricevuto diverse condanne all’ergastolo per omicidio e ha trascorso 22 anni in prigione prima di essere liberato nel 2011 in uno scambio con un migliaio di altri palestinesi per il soldato israeliano Gilad Shalit.
Durante i negoziati tra Israele e Hamas per lo scambio di Shalit, Sinwar ha esercitato una forte influenza nel chiedere la libertà dei palestinesi incarcerati per aver ucciso degli israeliani.
Voleva rilasciare anche coloro che erano stati coinvolti in attentati che avevano ucciso un gran numero di israeliani ed era così massimalista nelle sue richieste che Israele lo mise in isolamento per evitare che disturbasse i progressi.
Quando è diventato leader di Hamas a Gaza nel 2017, la violenza era una costante del suo repertorio. Hamas aveva strappato il controllo di Gaza all’Autorità Palestinese in un sanguinoso conflitto un decennio prima, e mentre Sinwar si è mosso all’inizio del suo mandato per riconciliare Hamas con altre fazioni palestinesi, ha avvertito che avrebbe “spezzato il collo” a chiunque si fosse messo di traverso.
Nel 2018, Sinwar ha sostenuto le proteste settimanali presso la recinzione tra Gaza e il territorio israeliano. Temendo una breccia nella barriera, l’esercito israeliano ha sparato sui palestinesi e sugli agitatori che si avvicinavano troppo.
• Faceva tutto parte del piano. “Facciamo notizia solo con il sangue”, ha detto Sinwar nell’intervista rilasciata all’epoca a un giornalista italiano. “Niente sangue, niente notizie”.
Nel 2021, i colloqui di riconciliazione tra Hamas e le fazioni palestinesi sembravano procedere verso le elezioni legislative e presidenziali per l’Autorità Palestinese, le prime in 15 anni. Ma all’ultimo momento, il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas ha annullato le elezioni. Con la pista politica chiusa, Sinwar giorni dopo è passato allo spargimento di sangue per cambiare lo status quo, lanciando razzi su Gerusalemme in mezzo alle tensioni tra israeliani e palestinesi nella città. Il conflitto di 11 giorni che ne è seguito ha ucciso 242 palestinesi e 12 persone in Israele.
Gli attacchi aerei israeliani hanno causato danni tali da indurre i funzionari israeliani a ritenere che Sinwar sarebbe stato dissuaso dall’attaccare nuovamente gli israeliani.
Ma è accaduto il contrario: I funzionari israeliani ritengono che Sinwar abbia iniziato a pianificare gli attacchi del 7 ottobre. Uno degli obiettivi era quello di porre fine alla paralisi nella risoluzione del conflitto israelo-palestinese e di rilanciare la sua importanza diplomatica a livello globale, hanno detto funzionari arabi e di Hamas che hanno familiarità con i pensieri di Sinwar.
L’occupazione israeliana dei territori palestinesi dura da più di mezzo secolo e i partner di coalizione di estrema destra di Netanyahu parlano di annettere terre in Cisgiordania che i palestinesi vogliono per un futuro Stato. L’Arabia Saudita, un tempo sostenitrice della causa palestinese, era in trattative per normalizzare le relazioni con Israele.
Sebbene Sinwar avesse pianificato e dato il via libera agli attacchi del 7 ottobre, i primi messaggi ai negoziatori del cessate il fuoco mostrano che sembrava sorpreso dalla brutalità dell’ala armata di Hamas e degli altri palestinesi e dalla facilità con cui commettevano atrocità sui civili.
“Le cose sono andate fuori controllo”, ha detto Sinwar in uno dei suoi messaggi, riferendosi alle bande che prendevano in ostaggio donne e bambini civili. “La gente è rimasta coinvolta in tutto questo, e non sarebbe dovuto accadere”.
Questo è diventato un argomento di discussione per Hamas per spiegare il bilancio civile del 7 ottobre.
All’inizio della guerra, Sinwar si è concentrato sull’uso degli ostaggi come merce di scambio per ritardare un’operazione di terra israeliana a Gaza. Un giorno dopo l’ingresso dei soldati israeliani nella Striscia, Sinwar ha dichiarato che Hamas era pronto a un accordo immediato per lo scambio degli ostaggi con il rilascio di tutti i prigionieri palestinesi detenuti in Israele.
Ma Sinwar aveva frainteso la reazione di Israele al 7 ottobre. Netanyahu ha dichiarato che Israele avrebbe distrutto Hamas e che l’unico modo per costringere il gruppo a rilasciare gli ostaggi era la pressione militare.
Sinwar sembra aver frainteso anche il sostegno che l’Iran e la milizia libanese Hezbollah erano disposti a offrire.
Quando il capo politico di Hamas, Haniyeh, e il suo vice, Saleh al-Arouri, si sono recati a Teheran a novembre per un incontro con la Guida Suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, è stato detto loro che Teheran appoggiava Hamas ma non sarebbe entrata nel conflitto.
“È stato in parte ingannato da loro e in parte da se stesso”, ha detto Ehud Yaari, un commentatore israeliano che conosce Sinwar dai tempi della sua prigionia. “Era estremamente deluso”.
A novembre, la leadership politica di Hamas ha iniziato a prendere le distanze da Sinwar, dicendo che aveva lanciato gli attacchi del 7 ottobre senza informarli, come hanno detto funzionari arabi che hanno parlato con Hamas.
Alla fine di novembre, Israele e Hamas hanno concordato un cessate il fuoco e il rilascio di alcuni ostaggi detenuti dai terroristi. Ma l’accordo è crollato dopo una settimana.
Mentre l’esercito israeliano smantellava rapidamente le strutture militari di Hamas, all’inizio di dicembre la leadership politica del gruppo ha iniziato a incontrare altre fazioni palestinesi per discutere la riconciliazione e un piano postbellico. Sinwar non è stato consultato.
In un messaggio inviato ai leader politici, Sinwar ha definito “vergognoso e oltraggioso” il dietrofront.
“Finché i combattenti sono ancora in piedi e non abbiamo perso la guerra, questi contatti dovrebbero essere immediatamente interrotti”, ha detto. “Abbiamo le capacità per continuare a combattere per mesi”.
Il 2 gennaio, Arouri è stato ucciso in un sospetto attacco israeliano a Beirut e Sinwar ha iniziato a cambiare il suo modo di comunicare, hanno detto i funzionari arabi. Utilizzava pseudonimi e trasmetteva le note solo attraverso una manciata di aiutanti fidati e tramite codici, passando da messaggi audio, messaggi parlati a intermediari e messaggi scritti.
Tuttavia, le sue comunicazioni indicano che cominciava a sentire che le cose stavano andando dalla parte di Hamas.
Alla fine del mese, l’avanzata militare di Israele era rallentata fino a una battaglia estenuante nella città di Khan Younis, la città natale di Sinwar. Israele ha iniziato a perdere altre truppe. Il 23 gennaio, circa due dozzine di soldati israeliani sono stati uccisi nel centro e nel sud di Gaza, il giorno più letale dell’invasione per l’esercito.
I mediatori arabi si sono affrettati ad accelerare i colloqui per un cessate il fuoco e il 19 febbraio Israele ha fissato la scadenza del Ramadan – un mese dopo – perché Hamas restituisse gli ostaggi o affrontasse un’offensiva di terra a Rafah, quella che i funzionari israeliani hanno descritto come l’ultima roccaforte del gruppo terrorista.
Sinwar, in un messaggio, ha esortato i suoi compagni della leadership politica di Hamas al di fuori di Gaza a non fare concessioni e a spingere invece per una fine permanente della guerra. Sinwar ha affermato che un alto numero di vittime civili creerebbe una pressione mondiale su Israele. L’ala armata del gruppo era pronta per l’assalto, secondo i messaggi di Sinwar.
“Il viaggio di Israele a Rafah non sarà una passeggiata”, ha detto Sinwar ai leader di Hamas a Doha in un messaggio.
Alla fine di febbraio, una consegna di aiuti a Gaza è diventata mortale quando le forze israeliane hanno sparato sui civili palestinesi che affollavano i camion, aumentando la pressione degli Stati Uniti su Israele per limitare le vittime.
I disaccordi tra i leader israeliani in guerra sono emersi pubblicamente, poiché Netanyahu non è riuscito ad articolare un piano di governance postbellica per Gaza e il suo ministro della Difesa, Yoav Gallant, ha avvertito privatamente di non rioccupare la striscia. Gli israeliani si sono preoccupati che il Paese stesse perdendo la guerra.
A maggio, Israele ha nuovamente minacciato di attaccare Rafah se i colloqui per il cessate il fuoco fossero rimasti in stallo, una mossa che Hamas ha considerato come una pura tattica negoziale.
Netanyahu ha detto che Israele doveva espandersi a Rafah per distruggere la struttura militare di Hamas e interrompere il contrabbando dall’Egitto.
La risposta di Sinwar: Hamas ha sparato al valico di Kerem Shalom il 5 maggio, uccidendo quattro soldati. I funzionari di Hamas al di fuori di Gaza hanno iniziato a fare eco alla posizione fiduciosa di Sinwar.
Israele ha poi lanciato l’operazione di Rafah. Ma, come Sinwar aveva previsto, ha avuto un costo umanitario e diplomatico.
I messaggi di Sinwar, nel frattempo, indicano che è disposto a morire nei combattimenti.
In un recente messaggio agli alleati, il leader di Hamas ha paragonato la guerra a una battaglia del VII secolo a Karbala, in Iraq, dove il nipote del Profeta Maometto fu ucciso in modo controverso.
“Dobbiamo andare avanti sulla stessa strada che abbiamo iniziato”, ha scritto Sinwar. “O lasciamo che sia una nuova Karbala”.
Il progetto americano e la necessità della vittoria
di Niram Ferretti
Con estremo nitore, alla luce del giorno, si incastrano ormai tutti i pezzi del mosaico. L’Amministrazione Biden, che fin dall’esordio della guerra di Israele contro Hamas, ha cercato di commissariarla, ed in buona parte ci è riuscita, sta ora approntando gli ultimi dettagli per la sconfitta dello Stato ebraico.
Il testo che è stato presentato ieri al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ne rappresenta con sigla notarile la certificazione. Il testo, in nessuno dei suoi paragrafi sottolinea che Hamas deve essere sconfitto e rimosso da Gaza, ed è questo esattamente il punto del contendere, che ha causato l’altro ieri l’ennesima presa di posizione di Netanyahu, il quale, dopo le indiscrezioni trapelate secondo le quali l’accordo prevede la fine della guerra senza lo smantellamento di Hamas a Gaza, ha ribadito che l’obiettivo principale della guerra in corso è sempre questo.
Il problema è che non è l’obiettivo americano e non lo è mai stato fin dal principio al di là delle dichiarazioni ufficiali. L’obiettivo americano è infatti quello di implementare uno Stato palestinese imponendolo a Israele e, a questo scopo, può cinicamente considerare un governo Fatah-Hamas a Gaza, come un male necessario. Questo tassello fa parte di una strategia geopolitica più ampia che, nei fatti, è la continuazione del programma intrapreso da Barack Obama e che consiste nel trovare una intesa regionale con l’Iran a totale discapito della sicurezza dello Stato ebraico.
Ieri, Gadi Taub, uno dei più acuti analisti politici israeliani, lo ha riassunto:
“Dal momento in cui questa amministrazione è entrata alla Casa Bianca e ha iniziato a negoziare con gli iraniani su un nuovo accordo nucleare, hanno operato sulla base dell’assunto che l’Iran possa essere placato. Per questo hanno sbloccato circa 100 miliardi di dollari attraverso l’allentamento delle sanzioni, per questo hanno rimosso gli Houthi dall’elenco delle organizzazioni terroristiche, per questo hanno imposto a Israele un cattivo accordo con Hezbollah nel Mediterraneo, e per questo ora stanno cercando di imporci un altro accordo che salverà Hezbollah da una guerra totale…Come parte degli sforzi per placare l’Iran, gli americani stanno cercando in ogni modo di soddisfare la sua richiesta di porre immediatamente fine alla guerra a Gaza”.
La guerra deve finire per consentire a Biden di non avere una spina nel fianco durante la campagna elettorale che entrerà nel vivo nei prossimi mesi, e perché, in questo modo, si rafforzerà il programma di Obama per il Medioriente, che, dopo il clamoroso fallimento delle primavere arabe da lui promosse, si incardina su due punti: l’ammorbidimento totale nei confronti dell’Iran, di cui l’Amministrazione Biden ha dato ampie prove, e la nascita di uno Stato palestinese in Cisgiordania, che per l’Iran si trasformerebbe presto in un suo avamposto nel cuore di Israele. Perché questo disegno giunga a compimento gli strumenti a disposizione sono diversi e tutti in azione da mesi: la pressione internazionale spinta dalla Casa Bianca, le risoluzioni ONU, i costanti freni posti alla guerra in corso che hanno fortemente limitato l’operatività militare israeliana all’interno della Striscia, l’isteria mediatica costruita a tavolino contro una operazione su larga scala a Rafah dove Hamas è ancora forte, e non ultimo, l’appoggio interno in Israele da parte dell’opposizione allo scopo di fare cadere il governo Netanyahu e rimuovere gli ostacoli più forti alla realizzazione del progetto, ovvero, più che Netanyahu stesso, le formazioni ultranazionaliste guidate da Bezalel Smotrich e Itmar Ben Gvir.
Siamo al cospetto di un programma micidialmente avverso agli interessi di Israele, che, se si realizzasse, ne metterebbe seriamente in mora la sicurezza presente e quella futura. Per sventarlo non c’è che una sola strada, proseguire fino alla fine l’offensiva a Gaza, cercare, se possibile, di liberare il più alto numero di ostaggi, ma soprattutto sconfiggere Hamas, cioè vincere.
Solo una Striscia demilitarizzata da Hamas, delegato iraniano, può garantire a Israele di ristabilire la propria capacità di deterrenza dopo la catastrofe del 7 ottobre, arginare le spinte espansionistiche iraniane, e riabilitare la propria immagine fortemente lesionata. Si tratta esattamente di quello che l’Amministrazione Biden non desidera che accada.
Gli uomini che a Washington si occupano del dossier mediorientale, quasi tutti funzionari dell’ex presidente Obama, hanno bisogno di un Israele ridimensionato, ammansito, che non faccia troppa paura all’Iran, convinti che in questo modo il regime islamico assumerà una postura meno aggressiva. Si tratta di una prospettiva che capovolge la realtà dalle sue fondamenta. È vero esattamente il contrario. Solo un Israele forte e determinato a difendersi in modo risoluto può determinare la stabilità regionale necessaria, tenendo a bada l’Iran e i suoi pericolosi delegati. Solo un Israele forte e temuto può garantire la stabilità regionale in quella che è una delle regioni più politicamente instabili del globo. Infine, sempre e solo un Israele forte e temuto può fare da argine all’estremismo islamico, costituendo e garantendo di preservare nella regione i valori occidentali che esso incarna: libertà, democrazia e pluralismo.
Argento israeliano nella mezza maratona agli Europei di Roma
Mentre è in corso la penultima giornata di gare, l’Italia dello sport è già in festa: mai la squadra azzurra aveva ottenuto il numero di successi conquistati agli europei di atletica leggera in svolgimento a Roma. L’Italia è saldamente in testa al medagliere con otto ori e la sua supremazia dovrebbe essere al sicuro. Nel medagliere è presente anche Israele, argento nella mezza maratona a squadre maschile dietro proprio all’Italia. Una prestazione d’alto livello per entrambe le squadre, con gli azzurri impostisi nella gara individuale con la doppietta firmata Yeman Crippa e Pietro Riva. Primo degli israeliani il quarto della graduatoria generale, Maru Teferi, di origine etiope come gli altri cinque connazionali in lizza a Roma: Gashau Ayale, Girmaw Amare, Haimro Alame, Godadaw Belachew e Tesema Moges.
Teferi sarà uno degli atleti di punta della spedizione israeliana ai Giochi Olimpici di Parigi. Nel 2022 fu tra i protagonisti, insieme ad Ayale e Amare, dello storico oro vinto da Israele nella maratona a squadre agli Europei di Monaco di Baviera, a 50 anni dall’attentato palestinese nel villaggio olimpico della città bavarese. Lo scorso anno Teferi ha vinto l’argento ai Mondiali di Budapest, sempre nella maratona.
Tra risultati attesi ed exploit sorprendenti, le elezioni europee sono il tema del giorno e stanno suscitando reazioni anche all’interno del mondo ebraico.
«Non vediamo l’ora di lavorare con i nuovi membri eletti del Parlamento europeo. Il nostro impegno sarà volto garantire la sicurezza, il benessere e il futuro delle comunità ebraiche in tutta Europa», scrive in una nota lo European Jewish Congress (Ejc), l’organismo di riferimento a livello continentale. In questo senso, indica lo Ejc, «è imperativo affrontare e fermare l’allarmante aumento dell’antisemitismo, promuovendo una società unita contro l’odio e il pregiudizio». Nessun riferimento esplicito, almeno in questo primo commento, all’avanzata dell’ultradestra egemone in Francia e alla ribalta in Germania, oltre che in molti altri Paesi.
A Parigi la presa di coscienza della netta affermazione da parte del Rassemblement National di Marine Le Pen ha portato il presidente francese Emmanuel Macron a sciogliere l’Assemblea nazionale e convocare il voto anticipato per fine giugno. Una mossa «coraggiosa» e animata da «spirito di responsabilità» a detta del filosofo Bernard-Henri Lévy, animatore negli scorsi giorni di un’iniziativa contro l’antisemitismo che ha avuto eco anche fuori dai confini francesi. Nel corso degli anni il Crif, il Consiglio rappresentativo degli ebrei di Francia, ha spesso puntato il dito contro l’estrema destra nelle sue varie declinazioni, da Marine Le Pen a Eric Zemmour. Nel primo commento a caldo dopo il voto, l’attenzione del suo presidente Yonathan Arfi è puntata innanzitutto su un partito populista di sinistra, La France insoumise (LFI) di Jean-Luc Mélenchon, che accusa di aver fatto dell’odio verso gli ebrei la cifra della sua campagna elettorale, molto focalizzata sui fatti di Gaza e sulla condanna senza appello di Israele. L’appello di Arfi al Partito socialista e a ogni altra forza di sinistra è a «rigettare» ogni possibile alleanza con LFI. Mentre sul Rassemblement National servirebbero «chiarimenti» su almeno quattro questioni, sottolinea il presidente del Crif, indicando tra le questioni dirimenti il contrasto all’islamismo, i rapporti con la Russia, le politiche sull’antisemitismo, le posizioni del partito sulla laicità dello Stato.
In Germania un quarto dei voti è andato a forze populiste. Il presidente del Consiglio centrale ebraico tedesco Josef Schuster si è detto «preoccupato», in particolare per il 15,9% conquistato nell’urna da Alternative für Deutschland, partito «con chiari riferimenti a idee estremiste di destra» e con alcuni dei suoi candidati di punta «con legami con regimi dittatoriali». È un’Europa sempre più precaria per i suoi cittadini ebrei, ammoniva alcuni giorni fa il presidente della Conferenza dei rabbini europei Pinchas Goldschmidt in un intervento per Politico intitolato “For Jews voting in Europe, there are no good choices”. Secondo Goldschmidt, gli ebrei sentono «di non poter più fare affidamento sulla presunta incarnazione tradizionale degli ideali della democrazia europea per sostenere la nostra sicurezza o il nostro destino». Nel quadro incerto del presente, «una cosa è chiara: teniamo al futuro dell’Europa e per il nostro posto al suo interno come minoranza, indipendentemente dal nostro voto e dai vincitori».
Gantz e Eisenkot si dimettono dal gabinetto di guerra. Che succede ora
di Ugo Volli
• L’annuncio delle dimissioni
In un colpo di scena da tempo annunciato, ieri sera si sono dimessi dal governo israeliano i due ministri senza portafoglio del partito di “Unità Nazionale” (HaMaḥane HaMamlakhti ) Benny Gantz e Gadi Eisenkot, ex capi di stato maggiore delle forze armate e membri del gabinetto di guerra. L’annuncio doveva essere fatto sabato sera, quando scadeva un ultimatum di Gantz a Netanyahu, ma è stato posposto a ieri in seguito alla liberazione degli ostaggi. L’appello di Netanyahu a non lasciare il governo in questo momento critico è rimasto inascoltato e le dimissioni sono state annunciate comunque, con la richiesta di far svolgere al più presto elezioni straordinarie. Il governo non cade per questo, perché conserva una maggioranza parlamentare di 64 seggi su 120, che nella politica israeliana è normale.
• Il quadro politico
Ganz e Eisenkot erano entrati nel governo qualche giorno dopo il 7 ottobre senza condividerne il programma generale, solo per partecipare allo sforzo bellico, secondo un modello tradizionale di unità nazionale. Altri leader, come Yair Lapid e Avigdor Liberman non erano entrati o avevano posto condizioni che Netanyahu aveva giudicato inaccettabili; ora approvano la decisione di “Unità nazionale” e la sua richiesta di elezioni, che pure in tempo di guerra sarebbero difficili da tenere e molto devastanti sul piano politico. Va detto che i sondaggi di tutti questi mesi avevano premiato lo spirito unitario di Gantz con una forte crescita che ne faceva virtualmente il primo partito, mentre Lapid arretrava (come del resto il Likud di Netanyahu). Questo capitale politico accumulato con una scelta giudicata dall’elettorato come patriottica e costruttiva ora probabilmente rischia di erodersi.
• Che cosa vuole Gantz
È difficile che la mossa di Gantz abbia effetti immediati sul piano parlamentare. È una presa di posizione politica e non un rovesciamento delle alleanze. Bisogna chiedersene dunque la ragione e gli effetti. Il piano di Gantz formulato a metà del mese scorso comprendeva sei punti. Quasi tutti erano condivisibili dalla maggioranza, come la liberazione degli ostaggi e la sconfitta di Hamas, ma il punto critico era la definizione di un assetto per Gaza dopo la guerra che escludesse immediatamente la presenza israeliana, secondo il progetto degli Usa. In sostanza, Gantz sosteneva il piano americano di trattative immediate con Hamas, cessate il fuoco con uscita dell’esercito israeliano da Gaza, amministrazione delle Striscia con coinvolgimento di forze arabe e palestinesi (auspicabilmente per l’amministrazione Biden una “Autorità Palestinese rinnovata”) e senza la presenza di forze israeliane, in cambio della normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita. Netanyahu ritiene invece che non si possa fermare la guerra ora se non per tregue momentanee allo scopo di scambiare i rapiti israeliani con detenuti terroristi e che non sia possibile prendere impegni così anticipati sullo stato di Gaza dopo la guerra, che secondo lui dovrà comunque essere controllata dall’esercito israeliano per un certo periodo.
• Pressioni americane
Le dimissioni di Gantz sono dunque la conseguenza delle crescenti tensioni fra il governo di Netanyahu deciso a continuare la guerra fino alla vittoria, e a mantenere il diritto di intervento a Gaza per evitare la riorganizzazione del terrorismo e l’amministrazione americana, il cui scopo (certamente dovuto alle necessità della propaganda elettorale, ma corrispondente anche a scelte ideologiche che risalgono ai tempi di Obama) è invece la cessazione veloce delle ostilità anche al costo di non eliminare completamente le forze e i dirigenti terroristi e il rafforzamento dell’Autorità Palestinese, benché corrotta e complice del terrorismo. È uno scontro grave, che rende difficili le relazioni fra i due paesi. Per fare solo un esempio, oggi è uscita sui giornali israeliani la notizia che, alla vigilia dell’ennesima visita del segretario di Stato Blinken, un alto funzionario dell’amministrazione Biden ha dichiarato a NBC News che l’operazione israeliana che ha salvato quattro ostaggi sabato probabilmente complicherà gli sforzi del Segretario di Stato per raggiungere un accordo di cessate il fuoco. Secondo il funzionario, il successo dell’operazione ha rafforzato la determinazione del primo ministro Netanyahu a continuare le operazioni militari, piuttosto che accettare un cessate il fuoco, rafforzando allo stesso tempo la posizione della leadership di Hamas.
• Il problema del rapporto con Biden
Insomma, probabilmente le dimissioni di Gantz vanno lette come una candidatura a formare in futuro un governo più vicino al progetto americano per il Medio Oriente. Il governo Netanyahu non si indebolisce sul piano interno, anzi probabilmente acquista compattezza e velocità di decisione, ma certamente sarà più esposto alle pressioni americane, che in questi mesi si sono anche tradotte in gesti molto gravi, come il rifiuto di consegnare i rifornimenti militari concordati e approvati dal Congresso. Questo è un tema molto grave e importante, non tanto per Gaza, dove Israele ha tutti i mezzi per proseguire la sua caccia ai terroristi e il lavoro per liberare gli ostaggi, ma per il conflitto con Hezbollah, che continua a crescere e ormai nei prossimi giorni rischia di diventare guerra di terra.
Gli ostaggi erano a casa di un noto giornalista che scriveva anche per Al Jaseera
Confermata la connessione tra Hamas e i giornalisti e tra Hamas e Al Jazeera.
Tre dei quattro ostaggi salvati dalle forze speciali nella Striscia di Gaza centrale durante il fine settimana erano detenuti nella casa di Abdallah Aljamal, giornalista palestinese e membro del gruppo terroristico di Hamas. Lo ha confermato domenica l’esercito israeliano.
Le voci erano circolate sui social media dopo che Ramy Abdu, capo dell’Euro-Med Human Rights Monitor, aveva affermato in un post su X che i soldati erano entrati nella casa degli Aljamal durante l’incursione di sabato a Nuseirat, uccidendo diversi membri della famiglia, tra cui Abdallah e suo padre, il dottor Ahmed Aljamal.
Abdu ha pubblicato un’immagine apparentemente proveniente dalla casa degli Aljamal accanto al suo post, anche se non ha menzionato la possibilità che vi fossero tenuti degli ostaggi.
Abdallah Aljamal è stato in precedenza portavoce del ministero del Lavoro di Hamas a Gaza e in passato ha collaborato con diverse testate giornalistiche.
Durante la guerra a Gaza, numerosi articoli di Aljamal sono stati pubblicati dal Palestine Chronicle, anche mentre gli ostaggi Almog Meir Jan, Andrey Kozlov e Shlomi Ziv erano presumibilmente tenuti prigionieri nella sua casa. Il quarto ostaggio, Noa Argamani, è stata salvata da un edificio vicino durante l’operazione di sabato.
Le Forze di Difesa Israeliane, in un comunicato, hanno dichiarato di essere in grado di confermare, insieme all’agenzia di sicurezza Shin Bet, che Aljamal teneva i tre ostaggi nella sua casa di Nuseirat, insieme alla sua famiglia.
“Questa è un’ulteriore prova del fatto che l’organizzazione terroristica di Hamas usa la popolazione civile come scudo umano”, ha dichiarato l’esercito.
Aljamal ha scritto anche una rubrica per Al Jazeera nel 2019, suscitando voci che lo volevano corrispondente da Gaza per l’emittente qatariota – un’affermazione che ieri il network ha smentito con decisione.
Argamani, Meir Jan, Kozlov e Ziv erano stati rapiti dal festival musicale Supernova vicino alla comunità di Re’im la mattina del 7 ottobre, quando circa 3.000 terroristi guidati da Hamas uccisero 1.200 persone e presero 251 ostaggi in una furia omicida nel sud di Israele.
Gli agenti dell’unità antiterrorismo d’élite Yamam, insieme agli agenti dello Shin Bet, hanno fatto irruzione simultaneamente in due edifici a più piani nel cuore di Nuseirat, dove i quattro ostaggi erano tenuti in ostaggio da famiglie affiliate a Hamas e da guardie del gruppo terroristico, secondo quanto riferito dai militari.
L’ufficio stampa del governo di Hamas ha affermato che almeno 274 persone sono state uccise durante l’operazione, una cifra non verificata che non distingue tra combattenti e civili.
L’IDF ha riconosciuto di aver ucciso civili palestinesi durante i combattimenti, ma ha attribuito la colpa ad Hamas per aver tenuto degli ostaggi e aver combattuto in un ambiente civile densamente popolato. “Sappiamo di meno di 100 vittime [palestinesi]. Non so quanti di loro siano terroristi”, ha dichiarato sabato il portavoce dell’IDF Daniel Hagari.
Sì e no! L'Europa si sta spostando a destra! Cosa significa questo per Israele?
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - In Germania, Francia, Italia, Polonia e persino in Spagna, i partiti di destra sono stati i grandi vincitori delle elezioni, poiché molti europei hanno votato per i partiti di destra a causa della crisi migratoria nel continente. Israele e le comunità ebraiche in Europa devono quindi avere paura o i partiti di destra dell'UE mostreranno maggiore comprensione per la politica mediorientale di Israele e la guerra contro Hamas? In che misura le relazioni dei partiti di destra europei con la Russia possono disturbare le relazioni con Israele?
In Israele si ritiene che "il prossimo Parlamento europeo sarà più favorevole a Israele". Tuttavia, non c'è consenso sul fatto che si tratti di un pericoloso spostamento a destra dei partiti di estrema destra o solo dei partiti di destra. Nei media israeliani di sinistra si parla di più di partiti di destra radicale in Europa, mentre le reti e i media religiosi di destra parlano di più di partiti di destra. Non dobbiamo dimenticare che anche Israele si è spostato sempre più a destra negli ultimi dieci anni, quindi c'è una sorta di simpatia nei confronti dei colleghi di destra dei Paesi europei. Dal punto di vista israeliano, una cosa è chiara: lo spostamento a destra in Europa era atteso da tempo, e la causa scatenante è l'immigrazione illimitata e incontrollata di musulmani dal Nord Africa e dal Medio Oriente. O si chiama le cose con il loro nome o ci si inganna.
Questa mattina, i titoli dei media israeliani sono questi:
"I radicali di destra governeranno l'Europa", secondo il sito ortodosso Kikar.
"L'Europa si sposta a destra: le drammatiche elezioni che stanno cambiando l'Unione", di N12.
"Terremoto in Europa. L'estrema destra ha guadagnato in modo drammatico in alcuni Paesi chiave", scrive il sito ortodosso Chadrei Chaderim.
"Risultati drammatici nelle elezioni del Parlamento europeo, un grande successo per la destra in diversi Paesi", secondo il canale televisivo di destra Now14.
"Sconvolgimento: vittoria dei partiti di destra alle elezioni europee", secondo il quotidiano israeliano Israel HaYom.
"Risultati storici per l'estrema destra in Europa: Macron scioglie l'Assemblea nazionale, il primo ministro belga si dimette", secondo il principale quotidiano israeliano Jediot Achronot e Ynet.
Per un'Europa che in passato era di sinistra e umana, non è facile ammettere che i migranti arabi e musulmani sono la causa del declino della sinistra e dei verdi. È una buona intenzione aiutare il prossimo in difficoltà, ma non ha nulla a che vedere con l'amore per il prossimo della Bibbia se il vicino o il migrante lo interpreta in modo diverso e si approfitta solo di chi lo ospita in Europa. Non solo, le crescenti manifestazioni pro-palestinesi nelle principali città europee hanno certamente esercitato una pressione sui governi che si è rivolta politicamente contro Israele. Con tutto il rispetto per i governi di sinistra in Europa e nel Parlamento dell'UE, di solito non sono stati schizzinosi nelle loro decisioni nei confronti di Israele. Quindi cosa ha da perdere Israele?
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha sempre mantenuto buoni rapporti con i governi di destra in Europa nel corso degli anni, mentre il primo ministro ungherese Viktor Orban è un amico intimo di Bibi.
Naturalmente, la parola d'ordine "Europa di destra" è sempre foriera di un timore storico, che porta automaticamente con sé la paura di un crescente antisemitismo. Ma i governi di sinistra non sono stati migliori: l'antisemitismo ha imperversato in Europa anche sotto di loro. Il cosiddetto Occidente cristiano deve decidere se vuole essere un continente aperto a tutti o in primo luogo alle nazioni europee. Nelle discussioni in questo Paese si dice spesso che l'Europa è e resterà l'Europa e potrà fare ai musulmani quello che ha fatto agli ebrei o, come i crociati, ai musulmani. Ci sono anche altre voci che ritengono che questo sia meno vero oggi perché ci sono Paesi arabi e islamici che interverranno nel nostro tempo. Non è stato così con l'Olocausto e lo sterminio degli ebrei. L'Europa ha commesso un errore tattico aprendo le frontiere e accogliendo tutti, perché i migranti non vogliono più andarsene. E questo crea paura, e la paura spinge le persone a ripensare e a fare una scelta diversa.
È così che la maggioranza della popolazione israeliana vede la situazione in Europa. Gli israeliani lo capiscono perché Israele stesso è in costante conflitto con arabi, musulmani e palestinesi. Israele comprende la mentalità dei migranti arabi molto meglio degli europei e quindi anche il pericolo. Questo può non suonare piacevole alle orecchie europee, ma è proprio per questo che gli elettori di sinistra in Europa sono ora scioccati e rattristati. Quando i partiti di governo commettono errori a lungo termine, questo fa sempre il gioco dei loro avversari, la destra. È successo anche in Israele, come abbiamo visto con il fallimento degli accordi di Oslo con l'OLP. Un'idea giustificata dai partiti di sinistra del Paese, che alla fine ha portato a uno spostamento a destra della popolazione. I partiti di sinistra israeliani non hanno alcuna possibilità reale di formare una coalizione puramente di sinistra in questo momento.
Se in Europa i partiti di sinistra che si oppongono a Israele e sostengono uno Stato palestinese si indeboliscono, l'ascesa della destra potrebbe rallentare la tendenza, ma dipende anche da quanto questi partiti siano vicini alla Russia. Il rafforzamento della destra e dell'estrema destra nel Parlamento europeo aiuta Israele perché negli ultimi anni abbiamo visto che le risoluzioni contro Israele sono più difficili da approvare nel Parlamento europeo con una maggioranza di destra rispetto a quando in Europa prevale una maggioranza di centro-sinistra.
La sfida per Israele verrà dai partiti di estrema destra, non da quelli di destra. Da un lato vogliono abbracciare Israele, dall'altro Gerusalemme non vuole davvero questo abbraccio e vi si oppone. Non tutti questi partiti appartengono alla stessa piattaforma politica, né l'AfD di estrema destra in Germania né il partito di governo di destra di Geert Wilders, il Partito per la Libertà, nei Paesi Bassi. Israele deve esaminare ciascuno di questi partiti in relazione al loro rapporto con lo Stato di Israele.
In questo contesto, va detto che in Israele si discute spesso su quanto l'Alternativa per la Germania sia un partito di estrema destra o di destra. Anche nei circoli politici, i politici di destra del Paese vedono l'AfD come un partner legittimo in Germania, e io stesso conosco molti cittadini in Germania che votano per l'AfD e sono pienamente a favore di Israele. D'altra parte, anche i nazisti e i tedeschi estremisti di destra votano per questo partito e questo naturalmente spaventa.
Ma ad essere onesti, i risultati delle elezioni in Europa sono una buona notizia per Israele in un momento in cui l'Europa sta toccando il fondo. Un politico israeliano ha dichiarato ieri sera a Israel Today: "Il rafforzamento della destra in Europa è positivo per Israele, ma soprattutto la sinistra non potrà più sostenere azioni anti-israeliane contro di noi. Il rafforzamento della destra in Europa è una conseguenza della crescente resistenza all'immigrazione degli arabi e del loro crescente potere nei Paesi europei. Qualche mese fa, abbiamo visto un segnale di svolta in Europa con la vittoria elettorale di Geert Wilders nei Paesi Bassi. Si prevede che il prossimo Parlamento europeo sarà più favorevole a Israele. Questo è possibile, ma Israele deve fare attenzione.
(Israel Heute, 10 giugno 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Spagna – Rav P.P. Punturello «È venuto il momento di farsi sentire»
A fine maggio il governo spagnolo, insieme a quelli di Norvegia e Irlanda, ha formalmente riconosciuto lo Stato palestinese. Una mossa «storica» per avvicinare la pace in Medio Oriente, ha sostenuto il capo del governo di Madrid Pedro Sanchez. Un «premio» per i terroristi di Hamas, ha replicato Israele contestando l’iniziativa unilaterale dei tre paesi. «Per anni gli ebrei spagnoli si sono cullati nella speranza che l’agio economico della società in cui vivono avrebbe garantito loro una relativa sicurezza. Oggi questa illusoria certezza è crollata e per la prima volta si trovano nella condizione di dover fare qualcosa per tutelare loro stessi e i loro valori», spiega il rabbino Pierpaolo Pinhas Punturello, direttore degli studi ebraici del Centro Ibn Gabirol – Colegio Estrella Toledano di Madrid. «Non è semplice, perché in Spagna non c’è l’abitudine di ‘scendere in piazza’, di alzare la voce con la politica. Ci si illude che tutto un giorno passerà da sé, ma non è così. Serve un cambio di mentalità. È quello che cerco di trasmettere il più possibile ai miei studenti».
Già rabbino della sua Napoli, Punturello vive a Madrid dal 2018. «Un altro mondo, un’altra mentalità. Lo spagnolo medio fa fatica a comprendere il valore dello scendere in piazza. L’ebreo spagnolo ancora di più, perché già costretto a ‘nascondersi’ sotto la dittatura di Franco in quanto cittadino non cattolico. È un problema culturale di cui si avverte oggi tutta la vastità. Perché senz’altro l’antisemitismo e l’antisionismo mi preoccupano, ma questa mentalità mi inquieta ancora di più». Non è forse un caso che il comparto educativo dell’istituto «sia in mano quasi esclusivamente a persone non spagnole, ma piuttosto a israeliani, argentini, educatori originari del Marocco francese: lo sforzo è di dare ai ragazzi una coscienza ebraica del proprio valore, dell’essere presenti nello spazio pubblico; c’è una cultura del dibattito da insegnare loro dalle fondamenta, affinché possa lasciare un segno». Un discorso che vale sempre, in ogni contesto, «ma ancora di più oggi», afferma rav Punturello. In un momento cioè in cui il risentimento verso Israele e l’ebraismo si fa sempre più forte, «sdoganato anche da iniziative come quella del governo Sanchez, anche se per fortuna abbiamo anche buoni amici in politica: ad esempio la governatrice della regione di Madrid, che poche settimane fa ha assegnato alla comunità ebraica un premio per la resilienza e il contributo culturale».
E tuttavia il clima è sempre più teso: il rav ne sa qualcosa in prima persona. «All’incirca un mese fa a mia figlia hanno sputato in faccia mentre stava entrando all’università; è stato uno degli studenti propal accampati all’esterno dell’ateneo, in una delle tante ‘acampade’ di cui si sente parlare in questo periodo, insofferente alla vista della stella di Davide e della spilla gialla per gli ostaggi da lei indossate». Un contesto intimidatorio non solo in ambito universitario «davanti al quale non penso sia giusto tenere un profilo basso come alcuni suggeriscono; occorre al contrario reagire e farsi sentire, anche a livello politico».
Beato l'uomo che non cammina secondo il consiglio degli empi,
che non si ferma nella via dei peccatori;
né si siede sul banco degli schernitori;
ma il cui diletto è nella legge dell'Eterno,
e su quella legge medita giorno e notte.
Egli sarà come un albero piantato presso a rivi d'acqua,
il quale dà il suo frutto nella sua stagione,
e la cui fronda non appassisce;
e tutto quello che fa, prospererà.
Non così gli empi;
anzi sono come pula che il vento porta via.
Perciò gli empi non reggeranno davanti al giudizio,
né i peccatori nell'assemblea dei giusti.
Poiché l'Eterno conosce la via dei giusti,
ma la via degli empi conduce alla rovina.
SALMO 2
Perché questo tumulto fra le nazioni,
e perché i popoli meditano cose vane?
I re della terra si ritrovano
e i prìncipi si consigliano insieme
contro l'Eterno e contro il suo Unto, dicendo:
“Spezziamo i loro legami
e gettiamo via da noi le loro funi”.
Colui che siede nei cieli ne riderà;
il Signore si befferà di loro.
Allora parlerà loro nella sua ira,
e nel suo furore li renderà smarriti:
“Eppure”, dirà, “io ho stabilito (ספר) il mio re
sopra Sion, il mio monte santo.
Io annuncerò il decreto”.
L'Eterno mi disse: “Tu sei mio figlio,
oggi io ti ho generato.
Chiedimi, io ti darò le nazioni come tua eredità
e le estremità della terra per tuo possesso.
Tu le spezzerai con uno scettro di ferro;
tu le frantumerai come un vaso di vasellaio”.
Ora dunque, o re, siate saggi;
lasciatevi correggere, o giudici della terra.
Servite l'Eterno con timore,
e gioite con tremore.
Rendete omaggio al figlio, che talora l'Eterno non si adiri
e voi non periate nella vostra via,
perché d'un tratto l'ira sua può divampare.
Beati tutti quelli che confidano in lui!
ISAIA 28
Voi dite: “Noi abbiamo fatto alleanza con la morte, abbiamo stabilito un patto con il soggiorno dei morti; quando l'inondante flagello passerà, non giungerà fino a noi, perché abbiamo fatto della menzogna il nostro rifugio e ci siamo messi al sicuro dietro la frode”.
Perciò così parla il Signore, l'Eterno: “Ecco, io ho posto come fondamento in Sion una pietra, una pietra provata, una pietra angolare preziosa, un fondamento solido; chi confiderà in essa non avrà fretta di fuggire.
Io prenderò il diritto come livella e la giustizia come piombino; la grandine spazzerà via il rifugio di menzogna e le acque inonderanno il vostro riparo.
La vostra alleanza con la morte sarà annullata, e il vostro patto con il soggiorno dei morti non reggerà; quando l'inondante flagello passerà voi sarete calpestati da esso.
Ogni volta che passerà, vi afferrerà: poiché passerà mattina dopo mattina, di giorno e di notte; sarà spaventoso imparare una tale lezione!
Poiché il letto sarà troppo corto per sdraiarsi e la coperta troppo stretta per avvolgersi.
ATTI 4
E dissero: “Signore, tu sei colui che ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che sono in essi;
colui che mediante lo Spirito Santo, per bocca del padre nostro e tuo servitore Davide, ha detto:
'Perché si sono adirate le genti, e i popoli hanno tramato cose vane?
I re della terra si sono fatti avanti, e i prìncipi si sono riuniti insieme contro il Signore, e contro il suo Unto'.
Proprio in questa città, contro il tuo santo servitore Gesù, che tu hai unto, si sono radunati Erode e Ponzio Pilato, insieme con i Gentili e con tutto il popolo d'Israele,
per fare tutte le cose che la tua volontà e il tuo consiglio avevano prestabilito che avvenissero.
ATTI 13
E noi vi annunciamo la buona notizia che, la promessa fatta ai padri,
Dio l'ha adempiuta per noi, loro figli, risuscitando Gesù, come anche è scritto nel salmo secondo:
'Tu sei mio Figlio, oggi io t'ho generato'.
ROMANI 1
Paolo, servo di Cristo Gesù, chiamato a essere apostolo, appartato per l'evangelo di Dio,
che egli aveva già promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sante Scritture
e che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne,
dichiarato Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità mediante la sua risurrezione dai morti, cioè Gesù Cristo nostro Signore.
LUCA 7
Ed ecco, una donna che era in quella città, una peccatrice, saputo che egli era a tavola in casa del fariseo, portò un vaso di alabastro pieno di olio profumato;
e, stando ai suoi piedi, di dietro, piangendo cominciò a rigargli di lacrime i piedi e li asciugava con i suoi capelli; e gli baciava e ribaciava i piedi e li ungeva con l'olio.
“L’Idf minaccia i bimbi”: la lista nera di Guterres fa infuriare Israele
Netanyahu: “È un incoraggiamento al terrorismo di Hamas”. Gantz pronto a lasciare il governo
di Paolo Brera
Le forze armate israeliane entrano ufficialmente nella lista nera dell’Onu per i Paesi e le organizzazioni che minacciano i bambini: una lista del terrore in cui l’Idf, espressione dell’unica democrazia presente, sarà in pessima compagnia con l’Isis e al-Qaeda, Boko Haram e Paesi come Afghanistan e Russia, Iraq e Myanmar, Somalia, Yemen e Siria.
L’annuncio lo ha dato ieri l’ambasciatore israeliano all’Onu, Gilad Erdan, pubblicando sui social la sua indignazione subito dopo aver ricevuto «la notifica ufficiale sulla decisione da parte del Segretario generale» dell’Onu, Antonio Guterres. «È semplicemente oltraggioso e sbagliato — ha twittato — perché Hamas usa scuole e ospedali come strutture militari. Il nostro esercito è il più etico al mondo. L’unico a finire in lista nera è Guterres, che incentiva e incoraggia il terrorismo motivato dall’odio per Israele. Dovrebbe vergognarsi».
Non meno indignati sono gli uffici dello stesso Segretario generale dell’Onu, che avevano anticipato la decisione all’ambasciatore come atto di cortesia, come si fa di consuetudine. Sarebbe stata poi annunciata ufficialmente il 18 giugno: la pubblicazione annuale sugli eventi del 2023, di cui è un allegato, verrà portata nel Consiglio di sicurezza il 26 giugno. Spetta al segretario generale dell’Onu identificare «chi non ha messo in atto misure per migliorare la protezione dei bambini»: nella lista saranno iscritti anche Hamas e la Jihad islamica.
La reazione di Israele è ovviamente furente: «Oggi l’Onu ha aggiunto se stessa alla lista nera della Storia unendosi a chi supporta gli assassini di Hamas», ha detto il premier Benjamin Netanyahu. Il ministro degli Esteri Israel Katz parla di «atto cialtronesco che avrà conseguenze sulle relazioni con l’Onu». Ed è d’accordo con loro persino il leader centrista e ministro del Gabinetto di guerra Benny Gantz, che proprio oggi dovrebbe dimettersi dal governo: lo aveva annunciato il 18 maggio lanciando un ultimatum a Netanyahu perché cambiasse strategia a Gaza, dove «sta trascinando il Paese nell’abisso».
La decisione dell’Onu, dice ora Ganz, è «un nuovo minimo storico» in antisemitismo in cui «traccia spudoratamente false equivalenze tra Israele e Isis». Ma non è chiaro se basterà a rinsaldare le fila del governo, evitando una crisi che sbilancerebbe ancora più a destra l’esecutivo. La maggioranza resterebbe solida, ma altri mal di pancia come quelli dello stesso ministro della Difesa, Yoav Gallant, minacciano guai.
La decisione dell’Onu arriva dopo gli arresti chiesti dalla Cpi e l’accusa di genocidio avanzata da Sudafrica e Spagna presso la Corte di giustizia, e può avere nuove ripercussioni su partner e accordi militari. Nulla sembra però fermare gli attacchi quotidiani delle forze israeliane: all’indomani della strage nella scuola gestita dall’Unrwa nel campo profughi di Nuseirat — dove decine di video mostrano bambini fatti a pezzi dalle bombe, ma per la quale l’Idf assicura di avere colpito con precisione una base di Hamas e mostra una lista con otto miliziani uccisi — ieri è stata colpita l’area di un’altra scuola dell’Unrwa nella Striscia, uccidendo tre persone.
In questo clima difficilissimo inizia l’ottava missione del segretario di Stato Usa Antony Blinken: da lunedì torna in Israele, al Cairo e a Doha per tentare di chiudere l’accordo sulla bozza presentata dal presidente Joe Biden. Hamas non ha ancora risposto.
Scade l’ultimatum a Netanyahu. Gantz verso l’uscita dal governo. E si avvicina il conflitto con il Libano
Il leader centrista vuole le elezioni. L’ultradestra è pronta a subentrare e a dichiarare guerra a Hezbollah. L’Onu mette Israele nella lista nera: non rispetta i bambini. La replica: Nazioni Unite vicine ai terroristi.
di Aldo Baquis
Da otto mesi l’esercito israeliano manovra a Gaza, e i dirigenti militari di Hamas non sono ancora in ginocchio: continuano anzi a lanciare attacchi, a detenere oltre 120 ostaggi israeliani e a tergiversare nelle trattative per la fine dei combattimenti. In questo contesto problematico rischia adesso di spaccarsi il gabinetto di guerra di Israele, impegnato nel conflitto più lungo dalla guerra di Indipendenza del 1948. Dopo aver fissato la data dell’8 giugno come scadenza per l’uscita dal governo di emergenza, il leader centrista Benny Gantz ha preannunciato per stasera un annuncio alla nazione. Con lui lascerebbe il gabinetto di guerra anche il compagno di partito Gady Eisenkot, a sua volta ex capo di Stato maggiore. Dopo le dichiarazioni di Gantz, anche Benyamin Netanyahu parlerà al Paese.
Queste divergenze profonde e insanabili – relative alla conduzione dei combattimenti e alla visione politica per il futuro di Gaza al termine della guerra – giungono mentre lo status internazionale di Israele ha toccato ieri un nuovo minimo storico. Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha incluso Israele nella ‘lista nera’ di quanti, in condizioni di guerra, si astengono dal prendere misure necessarie per la difesa dei bambini. La lista include la Russia di Putin, al-Qaeda e lo Stato islamico.
"L’Onu ha inserito sé stessa nella ‘lista nera’ della Storia essendosi associata ai sostenitori degli assassini di Hamas" ha replicato Netanyahu. "Il nostro è l’esercito più morale al mondo. Nessuna decisione delirante dell’Onu può alterare questo dato di fatto". Anche ieri familiari di ostaggi hanno lanciato appelli in extremis a Gantz affinché non abbandoni il governo. Ma Gantz ed Eisenkot ritengono di non riuscire più ad influenzare le decisioni. Lodano l’esercito per i successi tattici raggiunti sul terreno ma lamentano che non siano stati tradotti in un successo strategico. Ciò sarebbe invece possibile, secondo loro, se Israele assecondasse Joe Biden ed Antony Blinken, che lunedì torna in Israele.
Il partito di Gantz invoca dunque elezioni anticipate. Ma anche senza il suo sostegno Netanyahu mantiene alla Knesset una solida maggioranza di 64 deputati su 120. Questi sviluppi sono già accolti con soddisfazione da due ministri di estrema destra, Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich. Da tempo reclamano l’ingresso nel gabinetto di guerra accanto a due altri ministri del Likud (Yoav Gallant e Ron Dermer). Il momento è reso particolarmente delicato dall’aggravarsi della situazione al confine col Libano dove mesi di bombardamenti degli Hezbollah hanno seminato distruzione e costretto alla fuga 60mila israeliani. "Dobbiamo ingaggiare la guerra con gli Hezbollah –, ha affermato Smotrich –. Dobbiamo piegarli, distruggerli, consentire ai nostri eroici combattenti di trionfare, di recuperare il nostro orgoglio nazionale". "Bruceremo tutte le postazioni degli Hezbollah" ha convenuto Ben Gvir.
Ma la prospettiva della apertura di un secondo conflitto (nel crescente isolamento diplomatico di Israele) desta inquietudine nei vertici militari. Dal 7 ottobre l’esercito a Gaza ha avuto 650 caduti e migliaia di feriti. Le forze di leva sono stanche, e nelle unita’ dei riservisti si avverte lo stress familiare dopo mesi di combattimenti. Inoltre Israele non è ancora riuscito a ricevere 3500 bombe ad alta precisione bloccate negli Stati Uniti per un riesame. A ciò si uniscono le preoccupazioni per le capacita’ offensive degli Hezbollah contro le città israeliane.
Ieri, a Ventimiglia è stato presentato il libro di David Elber, collaboratore fisso de L’Informale, “Il diritto di sovranità in terra di Israele” (Salomone Belforte Editore, 2024), durante il quale un gruppo agguerrito di contestatori ha cercato, senza successo, di impedire lo svolgimento dell’evento. Qui di seguito, il resoconto di quanto è accaduto. Se c’è un contesto in cui si rivela il disorientamento del popolo che occupa le università italiane con slogan su un conflitto di cui sanno ben poco, sono i luoghi di confronto. Se all’interno di una piazza con i militari schierati la tentazione di contrapporsi fisicamente alla polizia o all’avversario può apparire persino ragionevole per chi è in età di tempeste ormonali, utilizzare lo stesso registro comunicativo gridando al fascismo, al regime, al razzismo in una circostanza in cui il confronto tra posizioni diverse non sarebbe solo possibile, ma anche auspicabile, il cortocircuito si manifesta in tutta la sua grottesca evidenza. Ma andiamo per ordine. Siamo alla fine di una 3 giorni tra Liguria e Principato di Monaco dedicata all’informazione su Israele promossa da Maria Teresa Anfossi, presidente dell’Associazione Italia Israele di Ventimiglia. In agenda la presentazione di David Elber, storico, ricercatore, autore e brillante divulgatore che parlerà di diritto internazionale, requisito fondamentale per orientarsi in ogni discussione che inevitabilmente affronta i temi della sovranità, della terra e dello status di Gaza e dei territori contesi. Sullo sfondo c’è la Biblioteca Aprosiana di Piazza Bassi, nel centro di Ventimiglia, che questi giorni appare più bella che mai, baciata dalla bella stagione. Lo spazio è stato concesso dal sindaco Di Muro, seguendo una prassi che va oltre la cortesia istituzionale e che il nutrito gruppo di forze dell’ordine a presidiare l’entrata evidenzia. La richiesta della concessione di uno spazio che tocca i temi del conflitto non è solo un atto formale – e che i ringraziamenti in apertura sottolineano come non si dia per scontato – piuttosto si tratta di una meritevole scelta di campo, quella che contrappone legalità e dialogo al tentativo di una lettura a senso unico della guerra a Gaza e che rende in questi mesi un atto eroico anche il solo parlare di ebraismo e conflitto arabo-israeliano. La Resistenza, tema di cui una parte della società si è appropriata indebitamente, oggi è quella di chi mette gli spazi a disposizione di un evento potenzialmente in grado di richiamare frotte di facinorosi. Il coraggio sta dalla parte di chi decide di farsi quattrocento chilometri consapevoli che un pugno di fluidissimi figli di papà in un pomeriggio di giugno decida di combattere la noia cercando di venderci che lo fa per carità verso i palestinesi e amore della libertà e si possa sabotare un evento, tradendo il loro disinteresse per l’una e per l’altra causa. Alle 16 tutto è pronto per cominciare, quando tra il pubblico, oltre gli interessati al libro e alle parole di Elber cominciano ad occupare i posti in sala un gruppo nutrito di giovani, troppo numerosi, troppo colorati e troppo ben distribuiti per non apparire come l’alba di un’azione di disturbo coordinata. I relatori, tra i quali il sottoscritto, che ha il compito di introdurre l’incontro e l’editore Guido Guastalla non si scompongono anzi plaudendo alla partecipazione di così tanti giovani in un contesto in cui raramente si vede tanta partecipazione. Decido quindi di introdurre l’autore parlando della difficoltà di orientarsi basando la conoscenza solo sulle piattaforme digitali, portando esperienza diretta di dialogo e convivenza incoraggiando le nuove generazione al pensiero critico e all’imprescindibile studio condotto sui libri, perché l’elaborazione di una posizione – qualunque posizione si decida di avere sul conflitto – non può essere figlia di scorciatoie o regolata dall’esposizione di una qualunque narrativa suggerita dagli algoritmi dei nuovi media. Ma i ragazzi non sono attratti dal confronto né si dimostrano interessati al rispetto delle regole che assegna degli spazi a chi vuol fare domande e la pazienza di ascoltare le risposte. A nulla valgono i tentativi di spiegare la complessità dell’orientarsi in un epoca di bulimia informativa, dove farsi un idea ragionata del conflitto è già un atto sovversivo. Ma i gustatori non sono lì per ascoltare. Hanno consegne ben precise e non attendono nemmeno di un pretesto per esplodere. Con proclami scritti sugli schermi degli smartphone e recitati a memoria – come a ricordarci che oggi il problema passa principalmente per queste finestre digitali – Scattano in piedi a turno urlando slogan, impedendo ai relatori di intervenire. Il loro intento è quello di impedire lo svolgimento dell’incontro. Non hanno gli strumenti culturali per apprezzare dell’opportunità di beneficiare dell’esposizione nei pochissimi luoghi dedicati al bilanciamento dell’informazione su Israele. Vogliono prendersi tutti gli spazi e relegare in soffitta persino l’equidistanza ipocrita mostrata a piene mani prima del 7 ottobre: sono per il pensiero unico, per la tesi preconfezionata “Israele stato illegittimo e assassino”, la stessa propugnata dall’oscurantismo radicale. Sarebbe stato molto facile sbattergli in faccia che conciati come sono a Gaza molti di loro avrebbero fatto la fine degli israeliani linciati dalla folla. Ma a nulla valgono le parole nell’epoca della post-verità, della pietà a senso unico, dell’indignazione eterodiretta. Questi ragazzi sono un inconsapevole strumento di propaganda del quinto dominio, quella psychological warfare utilizzata da Hamas e dalle dittature che lo sostengono. Ma si illudono di combattere per loro stessi. Nella loro follia iconoclasta si abbattono non solo su tutto ciò che “israeliano” ma anche su ciò che è ebraico, confermando la sovrapposizione tra antisionismo e antisemitismo, se mai ci fosse ancora qualcuno che volesse distinguerle. Si appropriano di citazioni false di Primo Levi, fanno parallelismi con Auschwitz, parlano di lager a cielo aperto, di genocidio. Tutte parole ben scelte perché la vera lotta dell’asse Iran-Hezbollah-Hamas non è per la conquista di un fazzoletto di terra – militarmente impossibile da conseguire – ma per un bottino in grado di regalare ben più soddisfazione: le menti dei giovani occidentali, più facili da conquistare vista la loro ingenuità e autolesionismo. Le parole e i cartelli che si portano dietro – insieme alla sola bandiera palestinese che tradisce il superamento dell’anacronistico “due popoli due stati” – risuonano artefatte come le grafiche dell’intelligenza senza artificiale che ottengono decine di milioni di condivisioni grazie ad una nuova forma di antisemitismo. È quella che procede per imitazione, quella dell’aggregazione compulsiva alla scia di proteste ordite a tavolino dai nipotini del KGB che dalla guerra fredda hanno aggiornato i manuali investendo enormi capitali opachi nello sfruttamento della rete e dell’intelligenza artificiale. L’esposizione dell’autore continua, salvata dal provvidenziale intervento degli agenti della Digos che rimuovono uno ad uno i guastatori mentre si rivelano, urlando frasi scritte sugli smartphone e invitati a scattare in piedi grazie ad una regia che gli impone ordini su whatsapp. Le parole di David Elber sono uno strumento fondamentale per capire le basi del conflitto, se qualcuno di loro avesse la bontà di ascoltarle. L’incontro si conclude con gli organizzatori costretti ad uscire – inseguiti – da una porta sul retro, mentre nella piazza sottostante spuntano ancora più cartelli e megafoni nelle mani di contestatori venuti da Imperia, da Genova, da Milano. Senza timore di offendere l’autore, la vera lezione oggi è venuta dal comportamento delle forze dell’ordine, sempre più indispensabili a difesa dei pochi spazi di (potenziale) autentico confronto e dallo studio sociologico di un evento che rappresenta l’ennesimo esempio di quello che ci aspetta nel prossimo futuro. L’”Italia in miniatura” non è a Rimini, ma a Ventimiglia, oggi. Gli ingredienti ci sono tutti. Contestatori, forze dell’ordine aggredite, “cattivi maestri” a distanza, contorno ipocrita di claque che applaude con volti, occhi, parole sguaiate, che tradisce la religione dell’odio che li anima e con la quale, purtroppo, dovremo convivere per molto.
I Radiohead nel mirino degli odiatori che vogliono eliminare gli ebrei ovunque vivano
“Vi spiego perché i boicottatori che demonizzano israeliani ed ebrei non mi faranno vergognare d'essere un'ebrea israeliana"
Poiché sono stata trascinata nella mischia (accusata addirittura di essere pro-guerra) con il reportage dal Guardian su mio marito Jonny Greenwood, dei Radiohead, che difende la decisione di continuare ad esibirsi con il musicista israeliano Dudu Tassa, ho deciso di scrivere della mia esperienza.
Tanto per cominciare, per togliere ogni dubbio: sono per la pace. Non dovrebbe essere necessario dirlo, eppure siamo a questo.
Sono figlia di ebrei egiziani e iracheni, nipote di un ebreo nato a Giaffa, nel 1912, epoca in cui molti ebrei vivevano a Giaffa insieme a musulmani e cristiani.
Sono passati 243 giorni da quando mi sono svegliata con la sconvolgente notizia che molte centinaia di ebrei erano stati massacrati nelle loro case, violentati e uccisi durante un festival musicale, e centinaia rapiti a Gaza da Hamas. Ho appreso che è andata avanti per ore senza soste. Senza pietà. Vecchi, donne, bambini, neonati fucilati, alcuni addirittura bruciati vivi da aggressori giubilanti....
I combattimenti delle ultime settimane sono stati i più sanguinosi dall’inizio del conflitto e le trattative per il cessate il fuoco a Gaza proseguono a rilento.
di Federico Bosco
Le trattative per un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza procedono a rilento: il piano proposto dagli Stati Uniti si è incagliato di fronte all’indisponibilità di Hamas nell’accettare un accordo che non preveda la tregua permanente e il totale ritiro dell’esercito israeliano (Idf), una condizione inaccettabile per Israele. Nel frattempo nell’enclave palestinese i combattimenti si stanno intensificando, anche in zone che l’Idf aveva detto di aver messo in sicurezza.
Da settimane i soldati israeliani sono tornati a combattere a Jabalia, nella zona Nord di Gaza, e negli ultimi giorni sono in corso durissimi scontri a Bureij, nella zona centrale: due quadranti della Striscia separati dal cosiddetto ‘corridoio di Netzarim’, l’insediamento dell’Idf che ha lo scopo di rafforzare il controllo militare sull’enclave dividendola in due blocchi. Nella notte di mercoledì l’aviazione israeliana (Iaf) ha bombardato una scuola dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa) a Nuseirat, molto vicino a Bureij, dicendo che all’interno vi si trovava una base di Hamas.
Secondo gli analisti militari la presenza di Hamas nella parte centrale e settentrionale della Striscia è ancora massiccia e gli scontri di Jabalia e Bureij rivelano la capacità dell’organizzazione di riemergere in zone da cui era stata costretta a ritirarsi. Attualmente potrebbero esserci più miliziani di Hamas a Gaza Nord che a Rafah, la città meridionale al confine con l’Egitto descritta da Tel Aviv come «l’ultima roccaforte» dell’organizzazione dove si troverebbero «i quattro battaglioni rimasti» e il leader Yahya Sinwar.
I combattimenti delle ultime settimane sono stati descritti come i più violenti dall’inizio del conflitto. Gli ufficiali dell’Idf hanno detto ai cronisti che le milizie adottano tattiche di contro-guerriglia organizzando imboscate e agguati con armi leggere e lanciarazzi a spalla. Una minaccia asimmetrica che può trascinare Israele in un’estenuante guerra di logoramento ancora per molti mesi o addirittura negli anni a venire.
Hamas non si sta limitando a far riemergere gli uomini del suo braccio armato. Pur mantenendo un basso profilo per non farsi colpire con attacchi mirati, l’organizzazione sta cercando di riaffermare la sua autorità sulla vita civile di Gaza. I residenti di Jabalia hanno raccontato di aver visto i funzionari di Hamas pattugliare i mercati, imporre controlli sui prezzi dei beni essenziali e organizzare la distribuzione dei pochi aiuti umanitari che entrano nell’enclave. «Questo non è un governo ombra, tutt’altro. C’è una sola autorità dominante e prominente a Gaza ed è Hamas. I suoi leader si sono adattati alla nuova situazione e stanno preparando le prossime mosse» ha detto al “Guardian” Michael Milstein, analista del think tank israeliano Moshe Dayan Center.
L’organizzazione non può dichiarare vittoria di fronte alla distruzione della Striscia causata dagli attentati del 7 ottobre, tuttavia non ha intenzione di arrendersi o abbandonare la lotta armata, consapevole di poter reclutare nuovi miliziani fra la popolazione palestinese disperata. La resilienza di Hamas è una minaccia non soltanto per le trattative di un cessate il fuoco, ma anche per la possibilità di progettare una ricostruzione efficace e un futuro diverso per la governance di Gaza, che dopo sette mesi di guerra sembra condannata a restare – in un modo o nell’altro – il regno di Hamas.
Gordin: Israele ha completato i preparativi per un confronto con Hezbollah
"La settimana scorsa abbiamo completato i preparativi per un attacco nel nord".
Israele ha completato i preparativi per un confronto con Hezbollah. Lo ha detto il capo dell’Idf, il maggiore generale Ori Gordin.
Secondo Ynet, citando fonti israeliane, Gordin ha parlato ad una cerimonia che celebra i 18 anni dalla seconda guerra del Libano.
" L’esercito è pronto ad affrontare ancora una volta Hezbollah. La settimana scorsa abbiamo completato i preparativi per un attacco nel nord" ha detto e aggiunto "I soldati sono addestrati e determinati. Sono sicuro che saranno in grado di affrontare qualsiasi compito contro Hezbollah. Siamo preparati e pronti, e quando riceveremo l’ordine, il nemico incontrerà un esercito forte e pronto”.
"Non ci fermeremo nemmeno per un momento. Continueremo a combattere usando forza e intelligenza fino a quando la missione non sarà completata. La missione è portare sicurezza al nord. L'esercito israeliano ha combattuto contro gli elementi armati di Hezbollah ogni giorno e ogni notte negli ultimi 8 mesi”.
Israele, che continua i suoi attacchi alla Striscia di Gaza dal 7 ottobre, è in conflitto anche al confine nord con Hezbollah libanese.
In questi scontri, è stato riferito che 325 membri di Hezbollah, 65 civili libanesi, 19 membri del Movimento Amal, 13 di Hamas, 15 della Jihad Islamica e 14 soldati israeliani e 10 civili israeliani sono stati uccisi.
(TRT italiano, 7 giugno 2024)
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Israele è pronto alla inevitabile guerra con Hezbollah
Il momento che tutti temevano sembra arrivato
di Maurizia De Groot Vos
Sin dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, Israele ha previsto l’apertura del secondo fronte. Negli ultimi otto mesi, ogni giorno il gruppo terrorista Hezbollah, legato all’Iran, ha provocato scontri a fuoco con le forze israeliane lungo il confine tra Libano e Israele.
Finora, decine di migliaia di civili sono stati sfollati dal nord di Israele e dal sud del Libano, con dieci cittadini israeliani, 15 soldati e almeno 400 libanesi uccisi finora. Ma dati i numeri di Gaza, questi livelli relativamente bassi di vittime non hanno attirato molta attenzione.
La violenza degli ultimi giorni, tuttavia, suggerisce che la situazione sta per cambiare. Lunedì, missili e droni di Hezbollah hanno scatenato vasti incendi nei campi di Galilea, ormai secchi, e mercoledì dieci israeliani sono stati feriti e un altro ucciso in un attacco di droni sulla città settentrionale di Hurfeish.
Durante una visita a Kiryat Shmona, che dal 7 ottobre è stata regolarmente colpita dai missili di Hezbollah, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha assicurato i residenti locali che Israele “non se ne starà con le mani in mano” in risposta a questi ultimi attacchi.
Sono stati richiamati altri 50.000 riservisti e le notifiche di dispiegamento sono in corso in tutto Israele. Il capo di stato maggiore delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), Herzi Halevi, ha recentemente annunciato: “Ci stiamo avvicinando al punto in cui si dovrà prendere una decisione, e l’esercito israeliano è preparato e molto pronto per questa decisione”. Sembra che un’altra guerra sia imminente.
Gli Hezbollah sono avversari più temibili di Hamas, sia in termini di calcolo strategico che di materiale. Hanno accumulato un vasto arsenale: alcuni stimano che il suo stock di razzi sia di quasi 150.000 unità, compresi i missili balistici. Avranno passato gli ultimi otto mesi a riflettere attentamente sulle loro opzioni e sul loro piano d’azione nel caso di un attacco israeliano su larga scala.
Un tale conflitto sarebbe una cosa molto diversa dalla guerra di Gaza. Per cominciare, mentre qualsiasi attacco infliggerebbe danni immensi al Libano meridionale, i comandanti dell’IDF sono altrettanto consapevoli che il tasso di vittime relativamente basso dal 7 ottobre ad oggi sarebbe difficile da mantenere in qualsiasi guerra con Hezbollah.
Ci sono anche considerazioni politiche riguardo alla popolazione locale: tra gli abitanti ebrei del nord di Israele (l’area ospita anche un gran numero di israeliani arabi e drusi), molti sono naturali sostenitori di Netanyahu e del suo partito Likud.
Nella sua visita a Kiryat Shmona, mercoledì, Netanyahu ha evitato di incontrare il sindaco locale Avichai Stern, che ha criticato l’inazione del Primo Ministro nel nord del Paese nonostante sia un membro del Likud. Decine di migliaia di residenti del nord – che hanno trascorso gli ultimi otto mesi come rifugiati interni – hanno fatto pressione sul governo per rendere l’area sicura in modo da poter tornare a casa. Molti si lamentano di essere stati di fatto abbandonati da Netanyahu e insistono sulla necessità di trovare una qualche soluzione entro settembre, quando inizierà l’anno scolastico.
A un recente forum per discutere l’impatto di otto mesi di dislocazione sull’economia e sulle imprese del nord, non un solo membro della Knesset si è preoccupato di partecipare. “Lo Stato di Israele si sta staccando da noi”, ha detto il sindaco della città settentrionale di Margaliot, Eitan Davidi, in un’intervista radiofonica: Non abbiamo bisogno di separarci, perché il governo lo ha già fatto per noi”. I cittadini qui sono attualmente più esposti dell’esercito”.
La situazione nel nord ha esacerbato anche la crescente spaccatura tra i conservatori mainstream e i politici di estrema destra come Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, che i primi accusano di essere ossessionati da Gaza e dalla Cisgiordania a scapito del territorio israeliano vero e proprio.
Ciò ha incoraggiato gli israeliani di destra e centristi a diventare più favorevoli alla fine della guerra contro Hamas, in modo che l’esercito possa concentrarsi completamente sulla difesa del nord.
Tuttavia, in questo momento, senza che si intraveda la fine della guerra a Gaza, Israele sembra pronto a un’altra battaglia più pericolosa con un avversario molto più attrezzato di Hamas. L’escalation da tempo prevista in questo conflitto regionale sembra sul punto di verificarsi.
Shmuel Trigano – Ombre sul futuro degli ebrei d’Europa
Vede un futuro problematico per gli ebrei d’Europa Shmuel Trigano, professore emerito di Sociologia all’Università Paris X-Nanterre e fondatore del Collegio di studi ebraici dell’Alliance Israélite Universelle. Autore di importanti opere di sociologia, filosofia, religione e psicoanalisi, Trigano è una delle voci più influenti della cultura francese. È da poco uscito il suo nuovo libro, Le chemin de Jérusalem, in cui denuncia l’isolamento di Israele e di riflesso del mondo ebraico della diaspora. Un tema spartiacque in vista delle elezioni europee e dei nuovi assetti di potere che emergeranno dalle urne. A prescindere dai risultati «un’epoca è finita» e sarà bene tenere la guardia sempre più alta per l’impatto potenzialmente devastante del conflitto in Medio Oriente, spiega a Pagine Ebraiche rispondendo da Israele.
Tante le insidie, rileva lo studioso: «Le principali minacce provengono innanzitutto dall’evoluzione del quadro europeo, intrinsecamente fragile, che incide sulla condizione strategica delle comunità. Vengono poi dall’antisemitismo di antica radice importato dai migranti, un antisemitismo islamico che ha trovato nell’odio verso Israele un modo per nascondersi e avanzare sul terreno politico: le attuali manifestazioni sono d’altronde promosse da giovani musulmani con kefiah e velo. Parimenti abbiamo trascurato il fatto che università come al-Azhar al Cairo e la tunisina Zitouna abbiano decretato legalmente la guerra santa contro gli ebrei; a livello mondiale come possiamo vedere. Il pericolo arriva ancora dalle prese di posizione contro Israele da parte delle autorità internazionali, ad esempio i tribunali dell’Aia, che fanno degli ebrei ovunque e in modo imprevedibile dei ‘paria’ globali». Preoccupa Trigano anche la minaccia proveniente dall’estrema sinistra: «In Francia la ‘Palestina’ è diventata il principale argomento di dibattito alle elezioni europee, con il partito LFI di Jean-Luc Mélenchon che ha adottato una posizione filo-islamica e oggettivamente antisemita per preservare il proprio elettorato musulmano». Ma cosa è oggi l’antisemitismo, come classificarlo rispetto ai precedenti storici? «Fino ad oggi si sono susseguite nella storia varie forme di odio verso gli ebrei», risponde Trigano. «L’antigiudaismo cristiano, poi islamico, l’antisemitismo specifico dell’età democratica, l’antisionismo ‘anticolonialista’. Oggi entriamo nell’era postmoderna. Il ‘palestinismo’ innesca un odio impazzito contro gli ebrei: invoca il popolo palestinese, il genocidio, l’apartheid, ma tutto è falso. Quando queste persone scandiscono lo slogan ‘dal fiume al mare’ non sanno né di quale popolo né di quale fiume parlano. È un odio insensato e quindi estremamente pericoloso. Può manifestarsi ovunque, all’improvviso. Questa isteria collettiva finirà per rivoltarsi contro gli ebrei in quanto ebrei». Nel frattempo i palestinesi sono diventati una sorta di «nuovo popolo messianico, l’idolo del pensiero woke». C’è una fonte di antisemitismo “globale” nel postmodernismo, riprende il ragionamento Trigano, evocando nel merito la «dottrina dell’intersezionalità che stabilisce una somiglianza tra tutte le condizioni ‘dominate’, intercambiabili di fronte all’oppressore ‘ebreo’ che ricalca l’archetipo del ‘bianco’: tutti questi odi si sommano e finiscono per pesare in modo grave sugli ebrei». Hamas sembra intanto vincere la “guerra” della comunicazione: «Hamas ha reinventato il modello delle invasioni musulmane in Europa: crudeltà, presa di ostaggi, schiavitù sessuale e decapitazioni: questi atti dimostrano che le vittime non sono considerate degli esseri umani». Forse, continua Trigano, «avrete notato nella sua propaganda un tratto tipico dell’odio verso gli ebrei: la messa in risalto dei bambini e delle donne palestinesi che sarebbero stati uccisi gratuitamente dall’esercito israeliano, come testimonianza della crudeltà degli ebrei e delle ragioni quindi per ucciderli». Al riguardo, rammenta Trigano, si è sentito dire durante la guerra nel nord di Gaza «che Israele aveva ucciso 32.000 bambini: una cifra inventata presa però per verità dai media occidentali». Ciò ha veicolato la riproposizione «delle classiche figure dell’odio, risvegliando una sindrome arcaica nei confronti degli ebrei di oggi».
In questa parashà viene raccontato come venne fatto il censimento dei figli d’Israele. Prima vennero censite le tribù nell’ordine con cui avrebbero marciato verso la Terra Promessa. Per primo l’accampamento della tribù di Reuven con le tribù di Shim’on e Gad; poi le tribù di Yehudà, Issakhar e Zevulun; il terzo gruppo con le tribù di Efraim, Menashè e Binyamin; e infine le tribù di Dan, Asher e Naftalì. In tutto 603.550 uomini di età tra i venti e i sessant’anni (Bemidbàr: 1:1-47).
La tribù di Levi venne censita separatamente, contando tutti i maschi da un mese in su. In totale ventiduemila (ibid., 3: 5-39).
Dopo il censimento delle dodici tribù e prima del censimento della tribù di Levi, la Torà inserisce una breve sezione nella quale si parla di Aharon e dei suoi figli: “Questa è la discendenza di Aharon e di Moshè nel giorno in cui l’Eterno parlò a Moshè sul monte Sinai. Questi sono i nomi dei figli di Aharon: il primogenito era Nadav, poi Avihù, El’azar e Itamar. Questi sono i nomi dei figli di Aharon che furono unti come kohanìm e abilitati al servizio. Nadav e Avihù morirono davanti all’Eterno quando presentarono un fuoco non autorizzato davanti all’Eterno. Essi non avevano figli. El’azar e Itamar funsero da kohanìm (già) durante la vita del loro padre Aharon” (ibid., 3: 1-4).
Rashì (Troyes, 1040-1105) fa notare che nel testo è scritto: “Questa è la discendenza di Aharon e di Moshè”. Poi però vengono solo nominati i figli di Aharon e non Gershom ed Eli’ezer, figli di Moshè. Rashì commenta che i figli di Aharon furono chiamati “discendenza di Moshè” perché fu Moshè che insegnò loro la Torà. E da qui impariamo, aggiunge Rashì, che chi insegna Torà al figlio di un suo compagno, viene considerato dalla Scrittura come se l’avesse generato.
R. Meir Leibush Wisser (Ucraina, 1809-1879) detto Malbim dalle sue iniziali, offre un’altra spiegazione sul motivo per cui la Torà non cita i nomi dei figli di Moshè. Egli commenta che dopo avere censito separatamente i figli d’Israele e apprestandosi a censire i leviti, la Torà ricorda separatamente i kohanìm che non vennero censiti né tra gli israeliti, né tra i leviti. Aharon e Moshè furono entrambi kohanìm. Infatti è scritto nel Tehillìm (Salmi, 99): “Moshè e Aharon erano tra i Suoi kohanìm e Shemuel tra quelli che invocarono il Suo nome, che invocarono l’Eterno ed Egli li esaudiva” (Moshè servì nel ruolo di kohen nei sette giorni dell’inaugurazione del Mishkàn). Al monte Sinai erano vivi tutti i quattro figli di Aharon; Nadav e Avihù morirono durante l’inaugurazione del Mishkàn.
Il motivo per cui la Torà, nel versetto commentato da Rashì, non parla dei figli di Moshè, è che essi non erano kohanìm. I figli di Moshè vengono ricordati più tardi dove è scritto: “Da Kehat, discendeva la famiglia degli amramiti…” (ibid., 3:27). ‘Amram era il padre di Aharon e di Moshè. I figli di Aharon erano già stati citati tra i kohanìm, pertanto la discendenza qui ricordata degli amramiti comprende solo i figli di Moshè. Per questo nella Torà sono citati solo i figli di Aharon che erano kohanìm, perché i figli di Moshè non furono nominati kohanìm e rimasero semplici leviti. Infatti così è scritto nel libro delle Cronache (I, 23: 13:15): “I figli di ‘Amram: Aharon e Moshè. Aharon fu prescelto per esser consacrato come kodesh kodashim, egli con i suoi figli, in perpetuo, per offrire i profumi dinanzi all’Eterno, per servirLo, e per pronunciare in perpetuo la benedizione con il Suo nome. Quanto a Moshè, l’uomo di Dio, i suoi figli furono contati nella tribù di Levi. I figli di Moshè: Ghershom ed Eliezer”.
Così furono contati 603.550 israeliti, ventiduemila leviti e quattro kohanìm.
Non sono suonati allarmi, non ci sono state intercettazioni. I due droni carichi di esplosivo lanciati da Hezbollah ieri contro il villaggio di Hurfeish, nel nord d’Israele, sono passati inosservati. Una breccia nella sicurezza costata la vita al sergente Refael Kauders, 39 anni, e il ferimento di altre nove persone. Per spargere più sangue, ha ricostruito Tsahal, i terroristi libanesi hanno fatto esplodere prima uno dei droni su un gruppo di soldati. Poi, quando sul luogo dell’attacco sono arrivate le squadre di primo soccorso, hanno colpito con il secondo.
Riservista che prestava servizio nel 5030° Battaglione della Brigata Alon come coordinatore del rabbinato militare, Kauders era figlio di Vittorio Biniamin e Tirza Kauders. Alla famiglia in queste ore il Comitato degli italiani residenti all’estero (Comites) d’Israele ha inviato un messaggio di cordoglio.
Il padre del sergente Kauders, Vittorio è parte della comunità degli italkim, gli italiani d’Israele. Cresciuto a Milano insieme ai fratelli Mirella e Bianca, sfuggì alle persecuzioni antisemite rifugiandosi con la famiglia in Svizzera nel novembre del 1943. Ad aiutarli a passare il confine fu don Franco Rimoldi, poi torturato dai nazifascisti per il suo sostegno agli ebrei perseguitati.
Finita la guerra, dopo il ritorno a Milano, i fratelli Kauders scelsero di fare l’aliyah in Israele. Qui nel 2003 un’altra tragedia ha segnato la famiglia. Era il periodo della sanguinosa seconda intifada. Bianca Kauders, insieme a decine di persone, l’11 giugno 2003 era a bordo dell’autobus 14a, che stava percorrendo le vie centrali di Gerusalemme. Nei pressi di piazza Davidka, un terrorista di Hamas travestito da ebreo religioso si fece esplodere all’interno del mezzo. Nell’attentato morirono 17 persone, tra cui Bianca, e oltre cento furono i feriti.
A distanza di 21 anni da quella tragedia, un’altra ha colpito la famiglia Kauders, con l’uccisione di Refael. «Tanta tristezza, dolori e lutti in questi mesi ci sconvolgono», ricorda il Comites nel suo messaggio di cordoglio. «L’onore ed il rispetto per i nostri caduti, ci impone di essere forti ed uniti. Verranno giorni migliori, ed anche se la strada è lunga ed in salita arriveremo alla pace ed alla serenità».
I funerali si svolgono oggi al cimitero militare di Kfar Hetzion.
Cresce la tensione con Hezbollah. Netanyahu: “Siamo pronti ad un’azione molto forte nel nord”
di Luca Spizzichino
Cresce la tensione al Nord di Israele. Da ormai diverse settimane Hezbollah sta lanciando centinaia di razzi e droni suicidi verso le comunità al confine con il Libano. Una situazione insostenibile per chi abita al nord, che vede il suo ritorno a casa sempre più lontano.
I missili e i droni da ormai diversi giorni stanno causando ingenti danni e stanno rendendo impossibile una vita normale di chi è rimasto nelle proprie case. Infatti, il gruppo terroristico libanese sta deliberatamente lanciando i missili e gli UAV in zone disabitate, eludendo così l’Iron Dome. Negli ultimi giorni sono stati diversi gli incendi causati dal continuo lancio di razzi da parte di Hezbollah.
“Siamo pronti ad un’azione molto forte nel nord. In un modo o nell’altro ripristineremo la sicurezza”. Lo ha detto il premier Benyamin Netanyahu che questa mattina ha visitato Kiryat Shmona, dove ieri sono divampati incendi dopo il lancio di droni dal Libano. Hezbollah ha risposto con diversi attacchi contro le posizioni israeliane, compreso un raid con “missili guidati” contro una “piattaforma Iron Dome nella caserma Ramot Naftali”.
In un articolo uscito martedì sul quotidiano israeliano Maariv, il ricercatore Tal Beeri, capo del dipartimento di ricerca dell’Istituto Alma, ha descritto gli scenari di una possibile guerra su vasta scala nel Nord.
“Nel caso in cui scoppiasse una guerra totale, il fronte israeliano vedrebbe un volume di fuoco mai visto prima, più imponente di quello del 2006”, prevede Beeri. “La principale potenza di fuoco di Hezbollah sono i missili e i razzi, con alcuni in grado di colpire l’intero territorio dello Stato di Israele con una capacità di tiro precisa” prosegue, sottolineando come la principale area colpita in questo caso è l’intera area settentrionale fino ad Haifa. “In questa zona, la maggior parte degli incendi proverrà da razzi di vario tipo considerati a corto raggio”, secondo Beeri nelle prime due settimane di guerra “sarà quasi impossibile condurre una vita normale”.
Secondo le stime dell’istituto di ricerca, Hezbollah dispone di 150.000 mortai, 65.000 razzi con una gittata fino a 80 km, 5.000 razzi e missili con una gittata di 80-200 km, 5.000 missili con una gittata di 200 km o più, 2.500 velivoli senza pilota (UAV) – e centinaia di missili avanzati, come missili anti aerei o missili da crociera.
“Inoltre, la linea più meridionale – Hadera, Netanya e Gush Dan – sarà nel loro mirino” ha previsto il ricercatore di Alma. Per Hezbollah, infatti, colpire l’area del Gush Dan sarebbe una vittoria, e per questo “concentreranno i loro sforzi lì”.
“Da un lato, questa è una guerra psicologica e dall’altro un segno di ciò che verrà. Dopotutto, è noto che prima del 7 ottobre Hezbollah voleva la guerra con Israele e intendeva invadere la Galilea, ma Hamas ha giocato le sue carte”, ha osservato Beeri, che ha rivelato di essere venuto in possesso di “un proclama interno di Hezbollah, inviato ai suoi membri in cui veniva loro detto di essere pronti alla guerra”, ovviamente prima del 7 ottobre.
Dopo il massacro di Hamas, infatti, la strategia di Hezbollah è cambiata drasticamente, tuttavia “il 7 ottobre ha solo congelato i piani di Hezbollah, non li ha annullati”.
Prima della guerra: lavoratori palestinesi aspettano al valico di frontiera di Erez verso Israele. Oggi, gran parte della popolazione non vuole più vederli in Israele. La fiducia è venuta meno.
GERUSALEMME - Gli israeliani hanno perso la fiducia nella possibilità di vivere in pace con i palestinesi. Lo sento dire sempre più spesso negli ultimi otto mesi. Soprattutto dai miei figli adulti e dai loro amici. Una generazione che alla fine dovrà prendere in mano il futuro di Israele. Lo sento dire anche da colleghi e amici di ogni estrazione sociale del Paese. Il 7 ottobre ha distrutto ogni residuo di fiducia. Non solo verso gli arabi, ma anche verso altri popoli e pagani. La gente sta perdendo la fede e la fiducia negli altri, soprattutto in un momento in cui l'opinione pubblica mondiale non comprende il diritto alla difesa di Israele. A Israele si chiedono cose impossibili, come la moderazione e l'amore in guerra, che le altre nazioni non chiedono a se stesse, e questo rende il popolo della nazione furioso e triste.
Inbar Haiman (a sinistra) con il fidanzato Noam Alon durante una partita di calcio del Maccabi Haifa
"Ho perso la fiducia negli arabi", afferma il noto presentatore televisivo
Avri Gilad.
La modella e celebrità israeliana
Adel Bespalov ha scritto nel suo post che "ha paura dei bambini arabi che vanno all'asilo con i loro figli. Prima non ne parlavamo, ma ora lo facciamo". Hana Cohen, zia di Inbar Haiman, rapita nella Striscia di Gaza e uccisa dai terroristi di Hamas, ha detto in un monologo straziante: "La cosa assurda è che Inbar è stata uccisa dalle persone di cui si fidava e in cui credeva".
La gente non vuole tecnici arabi nelle proprie case. Questo è ciò che i cittadini dicono ai numerosi centri di assistenza del Paese e insistono per avere solo tecnici ebrei. Quando il frigorifero dei nostri vicini ha smesso di raffreddarsi, Naomi ha insistito solo per un tecnico ebreo e così hanno dovuto aspettare un giorno in più.
Sì, questa è la situazione nel Paese, gli israeliani non vogliono arabi in giro. Non ha nulla a che fare con il razzismo. È per questo che l'attuale governo non permette ai palestinesi ospiti e ai lavoratori edili dei territori palestinesi in Giudea e Samaria di tornare in Israele per lavorare. Tutte le attività edilizie nel Paese si sono quindi fermate.
Questa è pura paura. Questo è il risultato del massacro. Le persone sono lacerate all'interno, come dimostrano molte conversazioni. Gli amici di sinistra oggi hanno più paura e sono meno sicuri di potersi fidare davvero dei loro vicini palestinesi. Anche le mie idee e i miei pensieri sui nostri vicini sono cambiati. Ne parliamo spesso in famiglia e con gli amici.
Un recente sondaggio mostra chiaramente cosa pensano gli israeliani di uno Stato palestinese. Una maggioranza del 68% della popolazione israeliana continua a rifiutare la creazione di uno Stato palestinese. Anche se questo significherebbe rinunciare alla pace con l'Arabia Saudita, il 64% degli intervistati rifiuta uno Stato palestinese. L'Arabia Saudita ha legato la normalizzazione delle relazioni alla condizione che Israele si impegni a creare uno Stato palestinese. Il sondaggio è stato condotto dal Jerusalem Centre for Public Affairs (JCPA). Tuttavia, la situazione potrebbe cambiare se Donald Trump tornasse alla Casa Bianca dopo le elezioni presidenziali statunitensi di novembre.
Ai margini della società israeliana, ci sono ancora israeliani che vedono soltanto o maggiormente la parte palestinese nell'attuale conflitto e mostrano più considerazione per loro che per la propria parte del popolo. Israeliani che vedono l'attacco palestinese del 7 ottobre come una legittima lotta di liberazione da parte dei palestinesi e quindi vedono il leader terrorista Yahya Sinwar come il Nelson Mandela palestinese. Continuano a credere che uno Stato palestinese sia l'unica vera salvezza per la pace con i nostri nemici. Ma la maggior parte non ha una risposta, o semplicemente ne ha una senza senso, se messa alla prova.
Molti rabbini ripetono nei loro sermoni e nelle loro interpretazioni bibliche che "gli ebrei non possono credere e fidarsi dei gentili", come il rabbino Josef Mizrahi, il rabbino Amnon Itzchak, il rabbino Samir Cohen e molti altri rabbini. Naturalmente ci sono altri rabbini che non sono d'accordo, ma tutti concordano sul fatto che non c'è altro popolo su questa terra che sia stato espulso, perseguitato e distrutto più del popolo ebraico nella sua storia. Per generazioni, secoli e millenni, a partire dalla storia biblica, i gentili hanno combattuto contro il popolo di Israele. Questo ha lasciato al popolo d'Israele un pesante fardello che ancora oggi deve portare con sé. Il popolo eletto da Dio ha sofferto sotto gli Egiziani in schiavitù, sotto gli Amalekiti, sotto i Filistei, sotto altri popoli e imperi della storia biblica come l'Assiria e Babilonia e poi sotto l'Impero romano fino alla seconda distruzione del tempio.
Durante i duemila anni di esilio nella diaspora, le comunità ebraiche sparse hanno sofferto ovunque sotto il dominio cristiano e islamico, come nell'Inquisizione spagnola, nei Paesi arabi e in Europa durante l'Olocausto della Seconda guerra mondiale. Oggi, i vicini arabi e palestinesi cercano di espellere Israele dalla sua patria e di distruggerlo. È quindi naturale che gran parte della nostra popolazione abbia perso fiducia negli arabi. Ma non solo, la gente della nostra nazione ha perso fiducia negli stranieri, non per odio, ma per il semplice motivo che per generazioni altri popoli hanno cercato di espellere le persone di origine ebraica. Nessuno può accusare il popolo ebraico di razzismo. Questa è la reazione di Israele alle continue azioni dei popoli stranieri contro Israele nel corso della storia, che fondamentalmente hanno un problema con il popolo della Bibbia. Il fatto che oggi gli israeliani non vogliano far entrare gli arabi nelle loro case è evidente e non ha nulla a che fare con il razzismo.
(Israel Heute, 6 giugno 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Dite a Biden che non può confondere Netanyahu con Sinwar
L’opinione mondiale dovrebbe esercitare una maggiore pressione sul leader militare di Hamas, Yahya Sinwar, piuttosto che sul leader della democrazia israeliana, Benjamin Netanyahu
di Daniel Henninger
Mentre dall’amministrazione Biden giungono indiscrezioni volutamente fuorvianti sui colloqui per il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, sembra che si tenga poco presente che l’obiettivo di una delle parti in causa rimane l’eliminazione della nazione sovrana di Israele.
Lo statuto di Hamas del 1988 continua a chiedere la distruzione di Israele. Ali Khamenei, leader supremo della Repubblica Islamica dell’Iran, le cui ricchezze sovvenzionano le operazioni militari di Hamas, ha dichiarato: “Il tema perpetuo dell’Iran è l’eliminazione di Israele dalla regione”. E tale rimane.
Nonostante la recente comparsa dei cessate il fuoco come mezzo per porre fine alle guerre, i conflitti militari attivi di questa portata di solito non si concludono in questo modo. Più spesso, i cessate il fuoco si verificano quando l’opposizione è stata effettivamente sconfitta, come la Germania e il Giappone nella Seconda Guerra Mondiale.
Il dibattito sui termini dell’attuale proposta di cessate il fuoco tra Israele e Hamas verte principalmente sul fatto che la cessazione dei combattimenti sia permanente o temporanea, dopo uno scambio di ostaggi e prigionieri. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu afferma di volersi riservare il diritto di riprendere i combattimenti contro Hamas.
La proposta dell’amministrazione Biden per un cessate il fuoco di sei settimane prevede il ritiro delle forze israeliane dalle aree popolate di Gaza. Tale ritiro sarebbe sicuramente interpretato come una vittoria per Hamas, e in particolare per il suo leader militare, Yahya Sinwar.
Sinwar – il principale artefice dell’invasione del 7 ottobre – che presumibilmente risiede all’interno del sistema di tunnel di Gaza, dovrebbe essere visto come la figura centrale del conflitto, più importante per la sua risoluzione di Netanyahu o del Presidente Biden.
Recenti notizie hanno suggerito che la cosiddetta leadership politica di Hamas in Qatar è più disponibile a porre fine al conflitto di quanto non lo sia Sinwar, sebbene entrambi insistano sul fatto che Hamas mantenga un ruolo primario di governo a Gaza. Sinwar sembra credere di aver impantanato Israele in un pantano e che l’opinione pubblica internazionale abbia trasformato lo Stato ebraico in un paria, spingendo gli israeliani verso un accordo alle sue condizioni.
Come nel caso degli attacchi agli Stati Uniti dell’11 settembre 2001, che vivono semplicemente come “11 settembre”, l’origine della guerra tra Israele e Hamas è stata ridotta allo stesso modo a “7 ottobre”. Se l’attacco del 2001 aveva come obiettivo principale l’uccisione di americani, c’è il rischio di perdere di vista gli scopi politici molto più ampi dell’invasione del 7 ottobre da parte di Sinwar.
Quando è avvenuto, gli eventi dell’assalto sono sembrati incomprensibilmente atroci: sparatorie a bruciapelo di innocenti, stupri e il rapimento di 252 ostaggi a Gaza (molti dei quali si ritiene siano morti durante la prigionia). A posteriori è chiaro che la barbarie era la strategia a lungo termine di Sinwar.
L’intenzione di Hamas era quella di costringere le Forze di Difesa Israeliane all’interno di Gaza per un tempo indefinito, mentre perseguiva la politica israeliana di liberazione degli ostaggi. Con Hamas che teneva i prigionieri all’interno della sua virtualmente impenetrabile città sotterranea di tunnel, il calcolo politico di Sinwar era corretto: le immagini dell’inevitabile assalto di Israele ad Hamas nei quartieri di Gaza per liberare gli ostaggi avrebbero col tempo trasferito la colpa internazionale su Israele, aiutato, ovviamente, dai gruppi di protesta organizzati tra Palestina e Hamas negli Stati Uniti e in Europa.
E infine da Joe Biden. Alla domanda, rilasciata giorni fa in un’intervista, se pensasse che Netanyahu stesse prolungando la guerra per autoconservazione, il presidente americano ha risposto: “Ci sono tutte le ragioni per trarre questa conclusione”. A marzo, il leader della maggioranza del Senato Chuck Schumer ha dichiarato in un sorprendente discorso che Netanyahu “non è più adatto alle esigenze” di Israele. Nell’opinione pubblica mondiale è emersa la convinzione che se Netanyahu sarà costretto a lasciare l’incarico, emergerà una leadership israeliana “moderata” e in qualche modo la guerra finirà.
Raramente viene discussa, perché è così incredibile, l’ipotesi che un eventuale governo israeliano successivo a quello attuale consentirebbe ad Hamas, guidato da Sinwar, di emergere intatto da Gaza. La realtà più plausibile è che se Hamas e la sua leadership vogliono evitare la loro esecuzione, dovranno pianificare i loro prossimi passi in un luogo diverso dalla Striscia di Gaza. Forse la Spagna, l’Irlanda o la Norvegia, che hanno riconosciuto uno Stato palestinese, si potrebbero offrire di accogliere Hamas.
Un’ulteriore realtà, che nessuna proposta di cessate il fuoco può dissipare, è che l’eliminazione di Israele continuerà ad essere un obiettivo attivo di Iran, Hamas, Hezbollah e alcuni gruppi di protesta con sede negli Stati Uniti. Il 31 maggio, un altro gruppo di disinvestimento anti-israeliano ha invaso e chiuso il Brooklyn Museum, portando cartelli con slogan come “No alla normalizzazione del colonialismo dei coloni”.
Il dibattito sulla guerra tra Israele e Hamas è caduto profondamente in uno squilibrio morale. Lo status quo del conflitto – con i palestinesi e gli ostaggi israeliani che continuano a morire – ha poche speranze di cambiare fino a quando le dichiarazioni dei leader stranieri, degli analisti, dei media e, non da ultimo, di Biden e dei suoi numerosi traduttori non cominceranno a imporre una seria pressione politica e morale sull’uomo che ha messo in moto questo orrore: Il comandante militare di Hamas Yahya Sinwar. Incolpate lui per primo. (da Wall Street Journal, 06/06/2024)
Meloni: 'Israele caduta in trappola fondamentalisti, si sta isolando'
ROMA - "Io penso che gli amici di Israele debbano avere il coraggio di dire a Israele che si sta infilando un po' nella trappola che sembrava disegnata dai fondamentalisti islamici contro Israele: una trappola che puntava all'isolamento dello Stato di Israele. Purtroppo è quello che sta accadendo". Così la premier Giorgia Meloni al Tg La7.
"Penso che per questo chi crede nella sicurezza di Israele e nel suo diritto, non debba smettere di dire parole chiare. Così come penso che il modo più efficace per costruire una pace in Medio Oriente sia lavorare concretamente, e da ora, alla soluzione di due popoli in due Stati".
(Adnkronos, 6 giugno 2024) ____________________
Dunque sul tema Israele anche il nostro Presidente del Consiglio non sa fare altro che ripetere a pappagallo la consunta formula della “soluzione di due popoli in due Stati”. Purtroppo dà l’impressione di essere sincera, il che significherebbe che sull’argomento non ci capisce niente. Oppure, se si vuol dare maggior credito alle sue capacità di comprensione, potrebbe essere che capisce più di quel sembra, ma trova politicamente più opportuno far finta di non capire e andare dietro all’onda di massima corrente. In ogni caso, sul tema Israele l’Italia è messa molto male. M.C.
Israele – Governatore Yaron: economia regge, urge integrare haredim
«L’economia israeliana è fondamentalmente solida e possiede le caratteristiche necessarie per prosperare anche durante la guerra. Ma non avverrà in automatico», ha avvertito il governatore della Banca centrale d’Israele Amir Yaron. Tra i relatori della conferenza annuale del Jerusalem Post a New York, Yaron ha mandato un chiaro messaggio al governo di Benjamin Netanyahu: perché l’economia israeliana torni a crescere rapidamente saranno decisive le politiche messe in campo da Gerusalemme.
I costi della guerra – stimati in 63 miliardi di euro – costringeranno Israele a prendere provvedimenti fiscali dolorosi ma necessari, ha spiegato l’economista. Alcuni sono già stati adottati dal governo, come l’aumento dell’Iva dal 17 al 18% per il 2025. Ma il ministero delle Finanze, riporta il sito Globes, sta valutando di introdurre la misura già quest’anno per rispondere all’aumento della spesa pubblica e per la Difesa.
Sempre quest’anno potrebbero essere tagliati alcuni ministeri. A fine 2023 i tecnici del ministero delle Finanze ne avevano individuati dieci da cancellare per un risparmio di 4 miliardi di shekel (quasi un miliardo di euro), tra cui quello degli Insediamenti e delle Missioni nazionali, diretto da Orit Strock; il ministero di Gerusalemme e della Tradizione ebraica, guidato da Meir Porush; quello per la Diaspora e l’Uguaglianza sociale, guidato da Amichai Chikli.
Per il governatore Yaron è necessario anche indagare in modo approfondito come sono strutturate le spese militari. Di recente il governo ha istituito una commissione per occuparsi proprio di questo argomento e per dare delle linee sui costi futuri della Difesa. Iniziativa applaudita da Yaron, che da tempo chiedeva un provvedimento simile.
«È chiaro che un’economia prospera ha bisogno di sicurezza, ma anche la sicurezza ha bisogno di un’economia prospera», ha affermato il capo della Banca centrale. Per lui due sono le maggiori sfide su cui deve concentrarsi il governo: la mancanza di infrastrutture e l’integrazione nel mercato del lavoro di uomini haredi e donne arabe. Riguardo al secondo punto, «l’inserimento di queste due minoranze in posti di lavoro di qualità sosterrà l’economia israeliana». Yaron ha sottolineato come sia necessario per i giovani haredi studiare a scuola alcune materie del curriculum di base del sistema educativo israeliano, come matematica, scienze e inglese. Secondo un rapporto governativo del 2022, l’84% dei ragazzi delle scuole superiori haredi (13-18 anni) non ha studiato nessuna di queste materie. Senza queste competenze il loro inserimento nel mercato del lavoro è difficile. Ma si tratta di risorse fondamentali per il futuro d’Israele, ha avvertito Yaron, considerando che si prevede che questa minoranza continua ad espandersi e diventerà una percentuale importante della società israeliana con il passare del tempo». Attualmente i haredi rappresentano 14% della popolazione, ma nei prossimi 25 anni dovrebbero diventare il 25%.
(moked, 4 giugno 2024)
Gaza, stallo su cessate fuoco: perché Hamas e Israele diffidano della proposta Usa
Si registra un "momento di stallo" sulla proposta di accordo per un cessate il fuoco a Gaza ed il rilascio degli ostaggi avanzata nei giorni scorsi dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden. Lo ha riconosciuto anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani in un'intervista a La7, mentre il direttore della Cia, William Burns, ed il consigliere speciale per il Medio Oriente di Biden, Brett McGurk, sono volati rispettivamente in Qatar e Egitto per tentare di imprimere l'accelerazione decisiva sull'intesa.
Proprio Doha ed Il Cairo sono i due tavoli in cui si continua a giocare la partita dei negoziati. Oggi nella capitale dell'emirato del Golfo è previsto un incontro trilaterale Usa-Egitto-Qatar alla presenza, oltre che di Burns, del suo omologo egiziano, Abbas Kamel e del primo ministro del Qatar, lo sceicco Mohammed bin Abdurrahman Al Thani. Sempre a Doha, i mediatori egiziani e del Qatar contatteranno i leader di Hamas per convincerli a mostrare flessibilità sull'ultima proposta. Intanto una delegazione che rappresenta i due dei più stretti alleati di Hamas - la Jihad islamica e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina - è arrivata al Cairo per colloqui con funzionari egiziani.
• Usa in pressing Gli Stati Uniti sembrano più che mai decisi a fermare l'operazione a Gaza. Da settimane il pressing di Washington su Tel Aviv si è intensificato. Lo stesso Biden in un'intervista al Time ha risposto che "ci sono tutte le ragioni per trarre questa conclusione" alla domanda se fosse d'accordo con chi in Israele ritiene che Netanyahu stia prolungando il conflitto per i propri interessi politici. Posizione rivista poche ore dopo, quando alla Casa Bianca ha detto di non pensare che il leader israeliano stia facendo la guerra per giochi politici, riconoscendo che Israele ha "un problema serio".
Ma Netanyahu, nonostante gli appelli arrivati anche dall'Europa e dalle famiglie degli ostaggi a sottoscrivere l'accordo - sul quale vige il veto dei due ministri di estrema destra Smotrich e Ben Gvir che minacciano di far cadere il governo - sembra restio a chiudere la partita a Gaza. Il premier ha aperto alla possibilità di sospendere temporaneamente le ostilità per alcune settimane e, intanto, sembra voler aprire un fronte con Hezbollah. Israele è "pronto ad un'azione estremamente potente nel nord", è il monito che ha lanciato stamane durante una visita a Kiryat Shmona, al confine con il Libano.
Ma perché la proposta di cessate il fuoco annunciata da Biden per Gaza è in fase di stallo dato che finora nessuna delle parti ha accettato ufficialmente il piano? A questa domanda prova a rispondere un'analisi di Middle East Eye, secondo cui Hamas, Israele e gli Stati arabi hanno dubbi sull'affermazione della Casa Bianca secondo cui il piano di cessate il fuoco sarebbe stato originato dal governo Netanyahu. E, data la premessa, il ritardo ad accettare il piano da parte di Israele, secondo il sito, è imbarazzante per gli Stati Uniti.
• Proposta israeliana o americana? Il piano - diviso in tre fasi, con una tregua di sei settimane accompagnata dal rilascio degli ostaggi in cambio di prigionieri palestinesi - sembra quasi identico a quello mediato dalla Cia e che Hamas aveva accettato all'inizio di maggio. La proposta, tuttavia, era stata respinta da Israele che aveva lanciato l'invasione di Rafah.
Il dubbio principale della nuova proposta riguarda se sia israeliana o americana. Ieri il portavoce del ministero degli Esteri del Qatar ha definito il piano consegnato a Hamas "la proposta degli Stati Uniti per Gaza". E' poi andato oltre, suggerendo che la proposta non ha il completo appoggio del governo israeliano, che appare spaccato. Non solo perché almeno due ministri, Smotrich e Ben Gvir appunto, hanno annunciato che lasceranno la maggioranza in caso di via libera all'intesa. Lo stesso Netanyahu ha dichiarato ai deputati della Knesset che Biden ha nascosto alcuni dettagli chiave della proposta.
• Il nodo del post tregua Per Hamas il nodo riguarda sempre cosa accadrà dopo che saranno scaduti i termini del cessate il fuoco temporaneo. Le sue capacità militari sono state degradate dopo otto mesi di combattimenti, ma il gruppo - senza la garanzia di un cessate il fuoco permanente e del ritiro israeliano da Gaza - probabilmente vede pochi vantaggi dal firmare l'accordo, dato che consentirebbe alle Idf di riprendere la guerra dopo aver liberato gli ostaggi.
"Abbiamo chiesto ai mediatori di ottenere una posizione chiara da Israele affinché si impegni per un cessate il fuoco permanente e un ritiro completo da Gaza", ha spiegato l'esponente di Hamas, Osama Hamdan, in una conferenza stampa a Beirut.
Biden è l’unico che sta realmente prolungando la guerra a Gaza
Tutti gli errori (gravissimi) del Presidente americano, altro che Netanyahu.
di Gabor H. Friedman
I commenti del Presidente Biden su Israele continuano a peggiorare, come dimostra un’intervista pubblicata martedì dalla rivista Time.
Alla domanda se il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu stia “prolungando la guerra per la propria autoconservazione politica”, Biden ha risposto: “Non ho intenzione di commentare”. Poi ha commentato: “Ci sono tutte le ragioni per cui la gente possa trarre questa conclusione”.
Mettiamo da parte il fatto di minare in tempo di guerra il governo eletto di un alleato, che è tanto costante da parte di Biden quanto inopportuno. Sarebbe una cosa se intendesse dire che Netanyahu avrebbe dovuto mantenere più truppe a Gaza e invadere Rafah mesi fa per finire la guerra. Questo è ciò che sostengono molti critici israeliani, e hanno ragione. Ma Biden si oppone a tutto questo. Secondo lui Netanyahu avrebbe dovuto smettere di combattere e accettare una sconfitta con l’intermediazione degli Stati Uniti.
Martedì poi, in modalità di controllo dei danni, il Presidente ha cercato di ritrattare il suo commento. La sua osservazione ha avuto un effetto negativo perché è lui che ha rallentato Israele in ogni fase. Dopo il 7 ottobre, ha detto a Israele di contenere la sua invasione di terra. Poi ha appoggiato la decisione dell’Egitto di intrappolare i gazesi nella zona di guerra. Quando gli israeliani hanno sconfitto Hamas nel nord di Gaza, ha fatto pressione su Israele affinché “passasse alla fase successiva”, rimandando a casa la maggior parte delle truppe e combattendo con meno potenza di fuoco nel sud di Gaza. Israele lo ha fatto e ha vinto molto lentamente a Khan Younis.
Poi, Biden ha cercato di impedire a Israele di invadere Rafah, insistendo erroneamente sul fatto che Israele non avrebbe mai potuto evacuare i civili. Ha tagliato le armi come leva. Alla fine Israele ha invaso Rafah, ma con meno truppe per soddisfare il Presidente. Questo significa un’operazione più lenta.
La decisione di Biden di fare pressione su Israele, mentre si è mostrato morbido nei confronti dei mediatori Egitto e Qatar, ha anche dato ad Hamas un motivo per far fallire i colloqui con gli ostaggi e continuare la guerra. Come ha riconosciuto il Presidente nella sua intervista al Time, Hamas è responsabile della mancanza di un accordo. “Hamas potrebbe porre fine a tutto questo domani”, ha detto. “L’ultima offerta fatta da Israele è stata molto generosa”, ha aggiunto. “Bibi è sottoposto a enormi pressioni sugli ostaggi e quindi è pronto a fare qualsiasi cosa per riaverli”.
L’ultima offerta israeliana di ostaggi ne è la prova. Le critiche di Biden a Israele, d’altra parte, suggeriscono la frustrazione per il suo stesso fallimento politico.
Israele in fiamme: incendi nell’Alta Galilea e sulle alture del Golan
di Sofia Tranchina
Israele in fiamme: gli attacchi di Hezbollah e il fallimento dell’Iron Dome hanno acceso gravi incendi nell’Alta Galilea e sulle alture del Golan.
Nella scorsa settimana si è verificata un’escalation delle ostilità tra Israele e il gruppo terroristico libanese.
Quest’ultimo ha lanciato raffiche di razzi sulla zona del Monte Meron, Zar’it, Kiryat Shmona e Malkia. Nel sito di lancio razzi contro Malkia, localizzato ad Aynata, l’IDF ha eliminato un agente terroristico.
Tra il 30 e il 31 maggio, aerei da combattimento israeliani hanno colpito edifici di Hezbollah a Houla, Maroun al-Ras, Aitaroun, Markaba, Jebbayn e Khiam, oltre ad aver neutralizzato un lanciarazzi a Majdal Zoun e una cellula terroristica a Naqoura.
Hezbollah ha poi lanciato 15 razzi contro le comunità di Ga’aton e di Peki’in, causando tre feriti israeliani: un uomo di 66 anni, una donna di 34 anni e un uomo di 26 anni ferito da schegge. Due razzi libanesi sono caduti anche in aree aperte vicino a Yiftah, mentre dei razzi Burkan con testate pesanti sono atterrati in una base militare israeliana adiacente a Kiryat Shmona, causando gravi danni alle infrastrutture, alle proprietà e ai veicoli.
Aerei da caccia israeliani hanno poi colpito i posti di osservazione di Hezbollah a Tayr Harfa e infrastrutture terroristiche a Rachaya al-Foukhar.
Il primo giugno l’IDF ha colpito due terroristi a Majdel Selm e degli edifici di Hezbollah a Baalbek, a Bint Jbeil, a Qana e Baraachit, e ha neutralizzato un deposito di armi a Mays al-Jabal.
Tra domenica 2 e lunedì 3 giugno, i detriti dei razzi di Hezbollah lanciati contro Nahariya, Katzrin, Kiryat Shmona, il Kibbutz Kfar Giladi, il Monte Adir e Amiad, hanno acceso diversi incendi nell’Alta Galilea e sulle alture del Golan.
Complice anche la nuova ondata di caldo, gli incendi hanno consumato già 10mila acri, causando danni significativi alla riserva naturale della foresta di Yehudiya.
Martedì mattina i vigili del fuoco sono finalmente riusciti a guadagnare il controllo dei fuochi, ma un nuovo attacco da parte di Hezbollah e il fallimento di un intercettore israeliano hanno provocato un nuovo incendio a Safed.
Secondo l’Alma Research and Education Center, maggio ha visto un drastico aumento degli attacchi da parte del Libano, contando un totale di 325 attacchi (ovvero, in media, più di 10 al giorno).
A seguito della netta presa di posizione di Hezbollah al fianco delle forze di Hamas e delle continue piogge di razzi finanziati dall’Iran, circa 250.000 residenti della zona settentrionale di Israele sono stati evacuati, e da allora – abbandonate le case e la routine – vivono come rifugiati interni. I razzi lanciati dal libano dall’8 ottobre hanno mietuto 24 vittime israeliane, di cui 10 civili e 14 tra soldati e riservisti.
Inoltre, la gittata delle munizioni del gruppo terroristico si è allungata inglobando nel raggio d’azione di Hezbollah migliaia di residenti finora ritenuti al sicuro: il 31 maggio la difesa aerea israeliana ha annientato un razzo libanese sulla città di Acri.
Gli incendi di questa settimana e l’intensificarsi della guerriglia hanno riacceso con nuova forza la paura e la rabbia degli sfollati.
Dopo il massacro di civili perpetuato da Hamas il 7 ottobre, i residenti del nord si sono uniti in un’organizzazione che ha come obiettivo di garantire la sicurezza dei 120km del confine settentrionale israeliano.
Il gruppo, fondato da Nisan Zeevi lo scorso dicembre, si chiama Lobby 1701, prendendo il nome dalla risoluzione ONU 1701 firmata nel 2006, che stabiliva la smilitarizzazione del Libano settentrionale fino al fiume Litani dalle forze di Hezbollah, dando il controllo militare della “zona cuscinetto” alle forze dell’UNIFIL (Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite).
La risoluzione ONU è stata ripetutamente violata da Hezbollah, la cui presenza è stata normalizzata negli ultimi tre anni al punto che le sue truppe si spostano liberamente sulla linea blu (linea di demarcazione tra Libano e Israele resa pubblica dalle Nazioni Unite il 7 giugno del 2000).
Lobby 1701 ha fatto appello direttamente al presidente degli Stati Uniti Joe Biden, al primo ministro francese Emmanuel Macron e alla comunità internazionale per chiedere l’attuazione della risoluzione 1701.
Il gruppo, che per otto mesi si è sentito trascurato dal governo, chiede che venga restaurata la zona cuscinetto, sia attraverso mezzi diplomatici che – se necessario – con un’azione militare diretta, proclamando che l’attuale status di rifugiati interni è insostenibile sul lungo termine.
Nonostante non si veda ancora la fine della guerra nella Striscia di Gaza, alcuni ritengono che il governo di coalizione abbia concesso troppo spazio a Nasrallah (leader di Hezbollah), e spingono per una risposta militare massiccia contro il Libano.
Il governo israeliano si è detto disposto a una soluzione diplomatica, pur dichiarandosi pronto a una guerra totale se la diplomazia fallisse. Perdere 120km di territorio israeliano sotto le forze nemiche può solo portare la guerra sempre più vicino al cuore del Paese, e, secondo il ministro della sicurezza nazionale di destra Itamar Ben Gvir, una risposta limitata a brevi contrattacchi mirati perpetra l’atteggiamento che ha portato al massacro del 7 ottobre.
Hezbollah, che si prefigge di invadere il Golan, conta ad oggi il più grande esercito terrorista del mondo, e riceve missili e finanziamenti dall’Iran.
Per questo motivo, una volta stabilito un confinericonosciuto tra Israele e Libano, una soluzione diplomatica dovrebbe passare, secondo Amos Hochstein (consigliere senior di Biden per l’energia e gli investimenti), per un rafforzamento delle forze armate libanesi (reclutamento, addestramento ed equipaggiamento), permettendo loro di contrastare la prevaricante potenza militare di Hezbollah. Una seconda fase potrebbe comportare un pacchetto economico per il Libano.
CyberWell esorta le reti a combattere la negazione dei crimini sessuali di Hamas
Il cane da guardia dell'antisemitismo online dice che i moderatori non stanno facendo abbastanza per rimuovere i contenuti che mettono in dubbio le testimonianze del 7 ottobre
Manifestanti durante una manifestazione che denuncia le violenze sessuali subite dalle donne israeliane durante l'assalto di Hamas al sud di Israele il 7 ottobre, davanti alla sede delle Nazioni Unite a New York, il 4 dicembre 2023.
Sulla prima pagina dell'edizione del 27 marzo 2024 del New York Times, accanto a articoli sul crollo del Francis Scott Key Bridge a Baltimora, sull'accesso alle pillole abortive e sui problemi legali di Donald Trump, c'era il titolo "Ostaggio israeliano racconta un'aggressione sessuale a Gaza".
In circa 4.000 parole, l'ostaggio rilasciato il 30 novembre come parte dell'estensione di un accordo temporaneo di cessate il fuoco, Amit Soussana, racconta il suo brutale rapimento dal Kibbutz Kfar Aza il 7 ottobre e il fatto di essere stata costretta a compiere atti sessuali dal terrorista che la teneva prigioniera nella Striscia di Gaza.
"Mi ha fatto sedere sul bordo della vasca da bagno. Ho chiuso le gambe. Ho opposto resistenza. Lui ha continuato a colpirmi e mi ha puntato la pistola in faccia", ha raccontato Soussana al New York Times. "Poi mi ha trascinato in camera da letto".
Il suo racconto, che secondo il giornale è coerente con quanto ha detto ai professionisti al momento del rilascio dopo 55 giorni di prigionia, conferma ciò che altri ostaggi liberati, sopravvissuti al massacro, familiari ed esperti forensi affermano da tempo: le violenze sessuali, tra cui stupri e mutilazioni, hanno avuto luogo il 7 ottobre, quando i terroristi di Hamas hanno brutalmente devastato il sud di Israele, e coloro che sono stati catturati e portati a Gaza con la forza hanno continuato a subire violenze sessuali.
Eppure, a quasi otto mesi dal barbaro e sadico assalto del gruppo terroristico palestinese Hamas al sud di Israele il 7 ottobre, e a più di due mesi da quando Soussana è stata la prima a parlare degli abusi subiti, i resoconti delle violenze sessuali continuano a essere messi in discussione o peggio. Questo nonostante le prove sempre più evidenti che Hamas ha usato la violenza sessuale come arma di guerra, tra cui un documentario dell'ex COO di Meta Sheryl Sandberg sulla violenza sessuale sistematica e un rapporto delle Nazioni Unite che ha trovato "ragionevoli motivi" per sostenere le accuse di stupro e violenza sessuale del 7 ottobre.
A causa di un'applicazione lassista o di standard obsoleti, i social network hanno ampiamente permesso agli apologeti del gruppo terroristico palestinese Hamas, ai critici di Israele e ad altri di diffondere e sostenere la falsa narrativa secondo cui i resoconti di aggressioni sessuali, stupri di gruppo e altre atrocità sono inventati o grossolanamente esagerati, secondo CyberWell, un'organizzazione no-profit fondata nel maggio 2022 per creare un database aperto per monitorare e aiutare a rimuovere i contenuti antisemiti online.
Il team del gruppo di monitoraggio dei social media online CyberWell
"Nonostante i terroristi di Hamas documentino le loro atrocità, le trasmettano in livestreaming e carichino video e foto sulle piattaforme, i radicali che agiscono sui social network hanno rapidamente iniziato a negare il fatto stesso della violenza sessuale - narrazioni che hanno guadagnato slancio e continuano a essere diffuse online fino ad oggi", ha dichiarato il CEO di CyberWell Tal-Or Cohen Montemayor. "La negazione dello stupro è un tentativo di riscrivere la storia, oscurare i crimini deliberati commessi contro le donne e deviare la compassione dalle vittime alla giustificazione e alla celebrazione dei loro aggressori".
Gli eventi senza precedenti del 7 ottobre hanno portato alla luce un'ondata di terrorismo che utilizza il potere dei social network per prendere di mira i parenti delle vittime, danneggiare gli israeliani e raggiungere milioni di utenti internet in Medio Oriente e nel mondo.
David Saranga, responsabile della diplomazia digitale presso il Ministero degli Affari Esteri, avverte che i social network sono diventati una minaccia strategica per Israele e per le altre democrazie di stampo occidentale.
"Nessun Paese democratico dispone di mezzi efficaci per combattere questa cultura della menzogna", ha avvertito Saranga. "Anche se migliaia di persone segnalano il tweet come dannoso e alla fine viene rimosso dalla piattaforma, il danno è già stato fatto e milioni di persone sono state esposte alla menzogna".
L'ostaggio liberato Amit Soussana parla degli abusi sessuali di Hamas in un filmato pubblicato il 3 aprile 2024, tratto dal documentario di prossima uscita "Screams Before Silence", prodotto da Kastina Communications
Una recente analisi di CyberWell ha rivelato che 135 post sui social network, in inglese e arabo, che negano che Hamas abbia perpetrato violenze sessuali e stupri il 7 ottobre, sono riusciti a raggiungere più di 15 milioni di utenti. Quasi la metà dei messaggi è apparsa su X, il 27% su Facebook, il 13% su TikTok e il 6% su Instagram.
CyberWell ha rilevato che gli utenti dei social network che negano l'esistenza di una violenza sessuale di solito fanno riferimento alla mancanza di prove concrete o di testimonianze di vittime di stupro, molte delle quali sono state anche uccise. Quando vengono rese pubbliche testimonianze toccanti, i critici cercano di minare la loro credibilità, accusandole di mentire, e tentano di screditare l'affidabilità dei giornalisti che riferiscono di aggressioni sessuali.
In alcuni casi, i negazionisti hanno usato affermazioni dubbie sulle atrocità, fatte nella confusione e nel caos che hanno seguito immediatamente i massacri senza precedenti, per assolvere il gruppo terroristico palestinese Hamas dalle sue colpe.
Secondo Montemayor, c'è anche chi sostiene che i terroristi di Hamas non avrebbero potuto commettere crimini sessuali perché guidati da un'ideologia religiosa musulmana, sostenendo che le vittime sono state violentate dagli israeliani, una teoria cospirativa che si unisce all'idea, generalmente marginale, che Israele sia dietro le atrocità commesse il 7 ottobre.
Il presidente Isaac Herzog con i membri senior del social network cinese TikTok, a Gerusalemme, il 6 febbraio 2024.
Anche se queste storie violano le politiche delle piattaforme di social network che ospitano questi contenuti, il loro tasso medio di rimozione da parte dei moderatori è stato solo del 22% circa, inferiore al tasso medio di rimozione del 32% per i messaggi antisemiti nel 2023, secondo CyberWell.
I moderatori dei contenuti hanno eliminato poco più del 24% dei post segnalati su Facebook, il 20% su YouTube, il 12,5% su TikTok, mentre X ha contrassegnato il 4% dei tweet con il flag "visibilità limitata" della piattaforma e ha eliminato solo l'1,5% dei post.
Secondo il rapporto di CyberWell, Instagram, che è di proprietà della società madre di Facebook, Meta, ha avuto il tasso di cancellazione più basso per i contenuti che negano lo stupro del 7 ottobre, con un tasso di azione dello 0%.
Il basso tasso di cancellazione è dovuto a carenze significative nell'applicazione delle politiche della piattaforma o alla mancata inclusione dei massacri del 7 ottobre nella "lista" degli eventi violenti riconosciuti, secondo il gruppo di vigilanza nel suo rapporto.
Tal-Or Cohen Montemayor, amministratore delegato di CyberWell
"Le piattaforme devono far rispettare le loro attuali politiche sull'hate speech e sulla violenza sessuale, riconoscere la negazione delle aggressioni sessuali del 7 ottobre come contenuto proibito e rimuovere questi messaggi su larga scala", ha sottolineato Montemayor. "Siamo a più di sette mesi dal 7 ottobre e notiamo che le piattaforme di social network non stanno ancora rimuovendo sistematicamente questi contenuti e non hanno pubblicato alcun tipo di dichiarazione o posizione su questo tema".
Montemayor ha lamentato il fatto che non esiste una guida alla cancellazione automatica per i moderatori di contenuti all'interno dei social network, ad eccezione della pornografia, in particolare quella infantile, e della violazione del diritto d'autore, in quanto esistono politiche chiare che riconoscono questo tipo di contenuti come "attività illegali".
"Ciò che stanno facendo è affidarsi a un sistema di fact-checking di terze parti, il che significa che tutto ciò che viene riportato sui social network è soggetto a un fact-checking di terze parti se si tratta di fatti, e quindi rallenta l'intero processo necessario per verificare o confutare un'affermazione, mentre le informazioni potenzialmente false rimangono online", ha lamentato Montemayor. "Il risultato è una popolarità senza precedenti per la campagna di smentita del 7 ottobre".
CyberWell mira a promuovere l'applicazione e il miglioramento delle politiche digitali e degli standard comunitari nello spazio dei social network e a combattere l'antisemitismo e l'incitamento all'odio online. Il gruppo di vigilanza ha utilizzato l'intelligenza artificiale (AI) per costruire un database open source in tempo reale che utilizza l'intelligence open source per monitorare e segnalare l'antisemitismo online.
CyberWell fa parte del programma Trusted Partner di Meta, che gli consente di comunicare direttamente con Facebook e Instagram sui contenuti che ritiene possano essere o siano considerati discorsi di odio. Il gruppo di monitoraggio partecipa a un programma simile con TikTok e condivide anche i dati con il social network X di Elon Musk quando identifica hashtag rilevanti o picchi di antisemitismo, ha detto Montemayor.
Il gruppo di monitoraggio ha creato un lessico esclusivo per segnalare i contenuti antisemiti che hanno un'alta probabilità di essere diffusi online. Il lessico si basa sulla definizione di antisemitismo dell'International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA). I contenuti segnalati vengono poi controllati manualmente dal team di ricerca di quattro persone di CyberWell e incorporati in un avviso di conformità di alto livello per i moderatori di contenuti, i team di policy e gli ingegneri dei social network.
"In effetti, siamo uno strumento di conformità all'antisemitismo online per le piattaforme di social network, in quanto forniamo loro dati reali sul mancato rispetto delle loro regole", ha sottolineato Montemayor. "Questo permette ai loro team di indagare in modo indipendente e quindi di rimuovere i contenuti in questione".
Dall'assalto del 7 ottobre, CyberWell ha contribuito a rimuovere oltre 50.000 contenuti che violano le politiche delle piattaforme di social network, ha dichiarato Montemayor.
Manifestanti durante una manifestazione che denuncia le violenze sessuali subite dalle donne israeliane durante l'assalto di Hamas al sud di Israele il 7 ottobre, davanti alla sede delle Nazioni Unite a New York, 4 dicembre 2023
Tuttavia, le piattaforme di social network non stanno ancora rimuovendo questi contenuti su larga scala, ha accusato l'autrice.
I rappresentanti di Facebook, Instagram, della loro società madre Meta e di TikTok non hanno risposto alle richieste di commento prima della stampa di questo articolo. Non è stato possibile contattare alcun rappresentante di X.
Secondo Montemayor, i principali social network devono rilasciare una dichiarazione in cui si dichiari che la negazione del 7 ottobre è "un contenuto proibito perché è una negazione di eventi violenti, progettati per vittimizzare le vittime di un grande attacco terroristico".
CyberWell ha invitato tutti i social network a riconoscere e trattare i contenuti che confutano e distorcono le atrocità del 7 ottobre nello stesso modo in cui tratterebbero i contenuti che confutano o distorcono l'Olocausto, in base a politiche che limitano il discorso che nega l'esistenza di eventi violenti ben documentati.
"All'inizio, le piattaforme di social network erano riluttanti a stabilire qualsiasi tipo di politica sulla questione del 7 ottobre, dato che continuavano a essere pubblicate informazioni sugli eventi", ha detto Montemayor. "Ma a questo punto, l'esitazione a rispondere a questo appello e a riconoscere che si tratta di una campagna antisemita deliberata e a farne una questione di politica è una pigrizia che porterà alla violenza contro il popolo ebraico e questo è inaccettabile".
(The Times of Israël, 5 giugno 2024)
Giusto in tempo per Yom Yerushalaim: la popolazione di Gerusalemme supera il milione di abitanti
di Michelle Zarfati
Yom Yerushalaim celebra quest’anno i 57 anni dalla riunificazione della città nella Guerra dei Sei Giorni. L’Istituto di Gerusalemme per la Ricerca Politica ha pubblicato il suo 38° rapporto annuale sulla città, che fornisce uno sguardo statistico approfondito sulla capitale. Con 1.005.900 abitanti nel 2022, la popolazione di Gerusalemme è il doppio di quella di Tel Aviv, secondo i dati dell’ultimo censimento.
La costruzione a Gerusalemme ha raggiunto un nuovo massimo nel 2023, con l’inizio dei lavori per 5.800 unità abitative, il numero più alto fino ad oggi. Nel 2023, anche il tasso di partecipazione alla forza lavoro tra le donne arabe in città è continuato a salire, raggiungendo il 29%. Mentre 7.600 nuovi immigrati hanno scelto Gerusalemme come prima destinazione in Israele nel 2022, continuando una tendenza al rialzo, il saldo migratorio complessivo della città è rimasto negativo a -7.200 rispetto ai -6.600 dell’anno precedente.
Le principali destinazioni per coloro che migrano fuori da Gerusalemme sono state Beit Shemesh (18%), Bnei Brak (4%), Givat Ze’ev (4%), Tel Aviv-Jaffa (6%), Modi’in (3%), Beitar Illit (3%), Modi’in Illit (2%), Ma’ale Adumim (2%) e Kochav Ya’akov (1%).
Sul fronte dell’istruzione e del turismo, Gerusalemme ha guidato il Paese con 41.300 studenti nei suoi istituti di istruzione superiore nell’anno accademico 2022/23 e 2.735.400 pernottamenti di visitatori stranieri nel 2023. L’uso del trasporto pubblico è aumentato del 13% nel 2023 rispetto all’anno precedente, con un aumento del 20% dei passeggeri della metropolitana leggera. Il rapporto ha inoltre dettagliato l’impatto che la guerra con Hamas iniziata il 7 ottobre ha avuto sui dati statistici della città: sono infatti circa 13.800 gli sfollati dei kibbutzim che si troverebbero oggi negli hotel e nelle case di Gerusalemme.
(Shalom, 5 giugno 2024)
SALMO 118
Celebrate l'Eterno, poiché egli è buono,
perché la sua benignità (חסד) dura in eterno (לעולם).
Sì, dica Israele:
“La sua benignità dura in eterno”.
Sì, dica la casa d'Aaronne:
“La sua benignità dura in eterno”.
Sì, dicano quelli che temono l'Eterno:
“La sua benignità dura in eterno”.
Dal fondo della mia angoscia invocai l'Eterno;
l'Eterno mi rispose e mi portò in salvo.
L'Eterno è per me; io non temerò;
che cosa mi può fare l'uomo?
L'Eterno è per me fra quelli che mi soccorrono;
e io vedrò quel che desidero su quelli che mi odiano.
È meglio rifugiarsi nell'Eterno
che confidare nell'uomo;
è meglio rifugiarsi nell'Eterno
che confidare nei prìncipi.
Tutte le nazioni mi hanno circondato;
nel nome dell'Eterno, eccole da me sconfitte.
Mi hanno circondato, sì, mi hanno accerchiato;
nel nome dell'Eterno, eccole da me sconfitte.
Mi hanno circondato come api,
ma sono state spente come fuoco di spine;
nel nome dell'Eterno io le ho sconfitte.
Tu mi hai spinto con violenza per farmi cadere,
ma l'Eterno mi ha soccorso.
L'Eterno è la mia forza e il mio cantico,
ed è stato la mia salvezza.
Un grido d'esultanza e di vittoria risuona nelle tende dei giusti:
“La destra dell'Eterno fa prodigi.
La destra dell'Eterno si è alzata,
la destra dell'Eterno fa prodigi”.
Io non morirò, anzi vivrò,
e racconterò le opere dell'Eterno.
Certo, l'Eterno mi ha castigato,
ma non mi ha dato in balìa della morte.
Apritemi le porte della giustizia;
io entrerò per esse e celebrerò l'Eterno.
Questa è la porta dell'Eterno;
i giusti entreranno per essa.
Io ti celebrerò perché tu mi hai risposto
e sei stato la mia salvezza.
La pietra che i costruttori avevano disprezzata
è divenuta la pietra angolare.
Questa è opera dell'Eterno,
è cosa meravigliosa agli occhi nostri.
Questo è il giorno che l'Eterno ha fatto;
festeggiamo e rallegriamoci in esso.
O Eterno, salvaci!
O Eterno, facci prosperare!
Benedetto colui che viene nel nome dell'Eterno!
Noi vi benediciamo dalla casa dell'Eterno.
L'Eterno è Dio e ha fatto risplendere la sua luce su di noi;
legate la vittima della solennità con le corde e conducetela ai corni dell'altare.
Tu sei il mio Dio, io ti celebrerò;
tu sei il mio Dio, io ti esalterò.
Celebrate l'Eterno, perché egli è buono,
perché la sua benignità dura in eterno.
Negoziare con il diavolo
Si può chiamare “piano Bibi” o“piano Biden”, resta il fatto che Israele ha formulato una proposta ideale per Hamas, ma Sinwar può rifiutare. La pressione internazionale, il Libano, i quattro ostaggi uccisi a Gaza.
di Micol Flammini
TEL AVIV - Non c’è scelta senza costi in Israele, non c’è decisione senza il dilemma: prima gli ostaggi o prima la sicurezza del paese? Tutto va al di là dei calcoli politici, della volontà del premier Benjamin Netanyahu di rimanere attaccato ai suoi alleati problematici di estrema destra – il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, e il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich – e riguarda piuttosto come il paese si è trovato nella necessità di fare una proposta di accordo rischiosa per vedere tornare gli oltre centoventi israeliani rapiti il 7 ottobre e concedere il cessate il fuoco dentro alla Striscia di Gaza, secondo un piano che è stato descritto dal presidente americano Joe Biden venerdì sera e che ha seguito a una proposta israeliana. Nonostante le rettifiche di Netanyahu, israeliana la proposta lo è davvero: due settimane fa, dopo la pubblicazione del video che mostrava il rapimento delle ragazze dalla base di Nir Oz, sanguinanti, con le mani legate, trascinate dai terroristi di Hamas verso le jeep dirette a Gaza, era stato proprio il premier a dare alla squadra di mediatori israeliani il mandato di formulare una nuova proposta di accordo, prendendo in considerazione di assecondare molte delle richieste di Hamas. I negoziatori aveva portato la proposta al gabinetto di guerra, in cui Netanyahu siede assieme a un gruppo ristretto di ministri: tutti avevano accettato la nuova proposta, anche il ministro degli Affari strategici Ron Dermer, stretto collaboratore del premier, di rado contrario alle sue posizioni. Tutti, il premier per ultimo, avevano accettato, ma la proposta prima di essere condivisa con il resto del governo è stata mandata agli Stati Uniti, ai mediatori egiziani e qatarini e anche a Hamas. Prima di tenere il suo discorso, Biden non aveva raccontato fino a che punto avrebbe delineato il piano, neppure l’ambasciatore israeliano a Washington, Michael Herzog, sapeva quanto oltre si sarebbe spinto Biden. Il capo della Casa Bianca aveva deciso di andare davanti alle telecamere e raccontare di un piano in tre fasi che gradualmente porterebbe alla liberazione di tutti gli ostaggi e al cessate il fuoco permanente nella Striscia di Gaza. Un piano costoso per Israele che di fatto accetta tutte le condizioni di Hamas tranne una: il cessate il fuoco permanente immediato. Secondo la proposta israeliana la prima tregua dovrebbe durare sei settimane. Le proposte sono sempre soggette a interpretazioni, non sono accordi fatti e firmati, servono a far ripartire le trattative, per questo e non soltanto per motivi di politica interna, dopo l’annuncio di Biden, Netanyahu ha precisato che ci sono differenze tra il piano raccontato da Washington e quello delineato in Israele. “Biden ha collegato il cessate il fuoco temporaneo della prima fase a quello permanente della seconda, dando un forte segnale della fine della guerra, ed è un dettaglio non piccolo”, ha detto al Foglio Nahum Barnea.
• Il piano che lascia Hamas al suo posto e che Sinwar può rifiutare
Barnea è un giornalista dello Yedioth Ahronoth, una leggenda del giornalismo israeliano ed è convinto che non ci sia trucco nella decisione di Biden di parlare per primo della proposta israeliana che le famiglie degli ostaggi chiamano “piano Netanyahu”, ribadendo la paternità dell’iniziativa del premier che non può rinnegare quanto già ha accettato. “Netanyahu ha chiarito le differenze su questo punto”. Per Biden durante le sei settimane di tregua bisognerà negoziare la seconda fase e se la seconda fase non verrà raggiunta, il cessate il fuoco verrà esteso. Questo rischia di mettere Hamas nelle condizioni di ritardare la liberazione degli ostaggi, legando Israele alla minaccia di non rivederli più. Ieri Netanyahu ha detto che i negoziati per la seconda fase cominceranno entro il sedicesimo giorno di tregua e se Israele avrà prove del fatto che Hamas sta costringendo i mediatori a discorsi infruttuosi allora i combattimenti riprenderanno. Secondo Barnea, “Biden non fa pressione su Israele, ma su tutti gli altri: su Hamas che comunque ancora non si è seduto al tavolo dei negoziati, e su Qatar ed Egitto affinché a loro volta ottengano un accordo serio da Hamas”.
La politica israeliana è litigiosa di natura, per costituzione, e in tempo di guerra, con il paese dilaniato da una scelta tanto difficile, le ossessioni politiche di una maggioranza che ha poco in comune, non aiutano. I sondaggi dicono che Netanyahu sta recuperando consensi e forse deve temere le elezioni meno di qualche mese fa. Se il governo cadesse, con Smotrich e Ben-Gvir pronti a togliergli il sostegno perché contrari alla proposta di accordo, il premier avrebbe già pronta una nuova maggioranza, costituita dall’ex capo di stato maggiore già nel gabinetto di guerra, Benny Gantz, dal leader del partito Yesh Atid, Yair Lapid, dal suo ex ministro Gideon Sa’ar, e dall’eterno alleato-rivale Avigdor Lieberman, che da anni è pronto a creare e distruggere i governi di Bibi. Questo paracadute politico costituito da rivali acerrimi del premier si è messo a disposizione con una richiesta: elezioni anticipate, ma non immediate. Prima c’è da risolvere il dramma del paese, la situazione a Gaza e la guerra a nord, dove i combattimenti con Hezbollah stanno aumentando, sono furiosi, alcuni dei villaggi ormai evacuati sono circondati dalle fiamme. Israele ha sette fronti da guardare, difficile concentrarsi soltanto su Gaza, ma il pensiero comune dei Gantz, dei Lapid e dei Sa’ar è che non può risolverli sotto tanta pressione. “Non esiste una decisione semplice – ripete Barnea – gli israeliani vogliono il ritorno degli ostaggi e l’eliminazione di Hamas, la domanda è quale obiettivo viene prima? I sondaggi dicono che prima vengono gli ostaggi e non c’è consolazione perché per vederli liberi scarcereremo terroristi che torneranno a Gaza o in Cisgiordania”. Le parole di Barnea indicano la consapevolezza che Israele farà uscire dalle sue prigioni minacce reali e potenziali, la paura di un nuovo attacco. E il prezzo che il paese è disposto a pagare non finisce qui.
Nella proposta israeliana e nel piano delineato da Biden non c’è la risposta a una domanda: che fine farà Hamas? Secondo alcuni retroscena israeliani, il capo della Casa Bianca e Netanyahu si intendono più del previsto, a porte chiuse il secondo è più incline al compromesso, quando apre la porta, cambia. In ebraico Bibi è in un modo e parla di fine della guerra, in inglese è in un altro e dice andiamo avanti a qualunque costo. Secondo chi lo osserva da anni, meglio ascoltarlo in ebraico che in inglese e Biden lo ha capito. Questo lascia la speranza per un negoziato ma non per la fine di Hamas: “Così come il piano è stato presentato, dimostra che sia Israele sia gli Stati Uniti accettano Hamas come dato di fatto. E’ ovvio che non è possibile sviluppare alcuna alternativa se il gruppo manterrà il potere e rimarrà il padrone degli aspetti militari e civili di Gaza”, spiega al Foglio Michael Milshtein, analista nel Moshe Dayan Center che segue e studia Hamas da tempo. Secondo l’Egitto, il gruppo della Striscia guarda in modo positivo alla proposta, “si adatta alla maggior parte dei suoi interessi e al desiderio di restare al potere a Gaza. Ma Hamas non ha ancora presentato una risposta formale”, conclude Milshtein. Netanyahu ha promesso la distruzione di Hamas, non ottenendola potrebbe controbilanciare l’insuccesso con la normalizzazione storica dei rapporti con l’Arabia Saudita, come già accaduto quando aveva promesso che Israele avrebbe annesso i territori dell’area C della Cisgiordania e dimenticò la promessa per l’avvio degli Accordi di Abramo. Fu una decisione oculata e con meno responsabilità rispetto a quella che è chiamato a prendere ora.
Nel racconto di questi giorni di annunci mancano però dei personaggi: nessuno dei leader di Hamas ha parlato e Yahya Sinwar potrebbe avere buone ragioni per continuare la guerra. Con il 7 ottobre ha ucciso milleduecento cittadini israeliani nei kibbutz che continuano a restituire corpi, come quello di Dolev Yahud, identificato ieri; ha rapito più di duecento persone, alcune uccise durante la prigionia, come Nadav Popplewell, Amiram Cooper, Yoram Mezger, Haim Perri, la morte di tutti e quattro è stata annunciata ieri, i loro corpi sono ancora nelle mani dei terroristi; e nonostante la devastazione, è riuscito a trascinare Israele in un pantano di accuse internazionali, a ricucire la causa palestinese, a rafforzare il gruppo in Cisgiordania e davanti alla possibilità di indebolire ancora di più lo stato ebraico potrebbe volere altra guerra, altri morti a Gaza, altre proteste in Israele. La proposta di accordo è di fatto dettata da Hamas, l’aggressore che non è detto sia pronto ad accettare. La pressione internazionale unilaterale diretta contro Israele ha reso Sinwar il padrone di ogni mediazione e il maestro di una lezione pericolosa.
• La proposta di Biden
Ma perché non volete un cessate il fuoco? Perché non fate una tregua per salvare gli ostaggi? Sono domande che sentiamo spesso, anche da parte degli amici e certamente in cuor nostro ci siamo posti più di una volta questioni del genere. Soprattutto quando i giornali parlano di nuovi piani per sospendere e magari concludere la guerra. Vi sono state decine di tali progetti in questi otto mesi, spesso annunciati in maniera trionfalistica dai giornali. L’ultimo caso è il cosiddetto “Piano Biden” che però il presidente americano attribuisce (certamente per motivi negoziali) a una fonte israeliana, anche se questo non risulta vero. Israele ha comunque dichiarato di considerare “cattivo” il progetto Biden, ma di essere disposto ad accettarlo con le opportune precisazioni. Lo schema americano, condiviso con Egitto e Qatar, non è però molto diverso dai tanti già proposti.
• La sintesi del piano
Prima fase: entrambe le parti rispetterebbero un cessate il fuoco di sei settimane. Israele si ritirerebbe dai principali centri abitati di Gaza e un certo numero di rapiti verrebbero rilasciati: donne, anziani e feriti, in cambio di centinaia di palestinesi condannati spesso di multipli omicidi e incarcerati. Gli aiuti a Gaza crescerebbero arrivando a circa 600 camion al giorno. Durante la prima fase, Israele e Hamas continuerebbero a negoziare per raggiungere un cessate il fuoco permanente. Se i colloqui durassero più di sei settimane, la prima fase della tregua continuerebbe fino a quando non si raggiungesse un accordo, ha detto Biden.
Seconda fase: con un cessate il fuoco permanente, Israele si ritirerebbe completamente da Gaza. Tutti i restanti ostaggi israeliani viventi sarebbero rilasciati, compresi i soldati maschi, e in cambio verrebbero scarcerati altri detenuti palestinesi, a centinaia.
Terza fase: Hamas restituirebbe i resti degli ostaggi morti. Le macerie verrebbero rimosse e inizierebbe un periodo di ricostruzione da tre a cinque anni, sostenuto dagli Stati Uniti, dall’Europa e dalle istituzioni internazionali.
• I problemi
Si tratta di uno schema estremamente povero, così generico da dare a Hamas praticamente quel che vuole. Israele lo vuole rendere concreto e fa alcune domande essenziali: quanti sono gli ostaggi vivi? Chi governerebbe Gaza dopo l’eventuale ritiro? Hamas certamente cercherà di sfruttare un cessate il fuoco per ricostituire il suo dominio a Gaza. Come essere sicuri che non si ripeta un 7 ottobre? Che garanzie che non ricominci subito il riarmo di Hamas? E che non si prolunghi artificialmente il cessate il fuoco, con trucchi negoziali o col semplice rifiuto di mettersi d’accordo, per trasformarlo in una tregua permanente anche senza liberare i rapiti? I terroristi dal canto loro non vogliono dare queste informazioni e sono disposti a trattare sul cessate in fuoco solo dopo e non prima del ritiro israeliano. O almeno vogliono la garanzia americana che comunque vadano le cose, Israele sarà costretto a ritirarsi da Gaza, senza terminare l’eliminazione delle loro forze militari e dei loro capi.
• Un bluff?
È probabile insomma che il Piano Biden sia un bluff destinato soprattutto alla politica interna americana, e insieme sia una mossa nel tentativo di Biden di destabilizzare il governo israeliano per averne un altro guidato dalla sinistra e disposto a far prevalere gli interessi elettorali democratici sulla sicurezza di Israele. Ed è probabile che sia un bluff anche l’accettazione del governo israeliano pressato dagli americani e da un’opposizione di sinistra sempre più inquieta. Ed è un bluff naturalmente anche da parte di Hamas. Bisogna aver chiaro infatti che i terroristi non hanno fatto il massacro del 7 ottobre e rapito centinaia di persone allo scopo di far tacere le armi. Bastava che non facessero partire il pogrom e Gaza sarebbe rimasta in pace. Non si sono mossi per un’esplosione incontrollata di fanatismo, ma con un piano preciso e un obiettivo chiarissimo.
• Quel che vogliono i terroristi
L’obiettivo di Hamas (e di Hezbollah, degli Houti, in definitiva dell’Iran) è la distruzione di Israele. Non possono sperare di ottenerla in un colpo solo, quindi si tratta di un piano a fasi che mira a indebolire, destabilizzare, isolare progressivamente lo Stato ebraico. Il 7 ottobre serviva a mostrare al mondo che Israele non è invincibile e a demoralizzare e dividere i suoi cittadini. Il rapimento degli ostaggi era finalizzato a ricattare il Paese e frammentare la sua opinione pubblica: sono obiettivi politici e non puramente militari, che in parte sono stati raggiunti. La trattativa serve a questi stessi scopi. Hamas non ha certamente sacrificato buona parte delle sue forze e costretto Israele a una difficile e dolorosa guerriglia urbana con molti caduti, al fine di ottenere alla fine la pace, e neppure di liberare qualche suo terrorista catturato e condannato. Lo scopo è quello di uscirne con un vantaggio politico sostanziale nel cammino verso la distruzione di Israele e la propria affermazione come organizzazione guida di questo progetto. Cioè la chiara sconfitta (politica, non militare) di Israele. Probabilmente non pensava di avere tanti alleati nei ceti intellettuali e nei dirigenti politici di Europa e Usa, molti di più di quanti ne abbia nel mondo arabo.
• Ciò cui Israele non può rinunciare
Israele non può limitarsi a chiudere la guerra ottenendo indietro i rapiti sopravvissuti a otto mesi di sevizie, perché facendolo accetterebbe che si possa devastare il suo territorio, rapire i suoi cittadini, violentare le sue donne, bombardare la sue città e sopravvivere. Consentirebbe cioè all’esempio che Hamas vuole dare e aprirebbe la strada a altri episodi di terrorismo di massa, bombardamenti, stragi, stupri. Darebbe ragione a coloro che, come dicono spesso i terroristi “preferiscono la morte alla vita”. Salvare alcuni rapiti senza eliminare i rapitori, magari tenendosi addosso l’odio delle classi dirigenti occidentali e lo scetticismo degli alleati mediorientali, sarebbe un suicidio collettivo. La maggior parte degli israeliani, come mostrano i sondaggi, capisce benissimo la posta in gioco.
• Perché il cessate il fuoco non può che essere provvisorio
Come ha detto Netanyahu, Israele può sospendere i combattimenti, non può chiudere la guerra senza aver eliminato completamente Hamas (e fatto i conti con Hezbollah, che è sempre più attivo). La pressione degli Usa e degli europei costringe Israele a diluire e prolungare la guerra, a combatterla con crescenti limiti tattici. Ma se Israele non vuole cadere in una terribile spirale terroristica, deve portare avanti questa guerra e vincerla chiaramente, senza consentire scappatoie ai terroristi. Sarà durissima, dovrà probabilmente farlo da solo, ma questo è lo spirito di Israele.
(Shalom, 4 giugno 2024)
ISAIA 31
Guai a coloro che scendono in Egitto in cerca di soccorso e hanno fiducia nei cavalli, che confidano nei carri perché sono numerosi, e nei cavalieri perché molto potenti, ma non guardano al Santo d'Israele e non cercano l'Eterno!
Eppure, anch'egli è saggio; fa venire il male e non revoca le sue parole, ma insorge contro la casa dei malvagi e contro il soccorso degli artefici di iniquità.
Gli Egiziani sono uomini, e non Dio; i loro cavalli sono carne e non spirito; quando l'Eterno stenderà la sua mano il protettore inciamperà, cadrà il protetto e periranno tutti assieme.
Poiché così mi ha detto l'Eterno: “Come il leone o il leoncello ruggisce sulla sua preda e, benché una folla di pastori gli sia raccolta contro, non si spaventa alla loro voce, né si lascia intimidire dallo strepito che fanno, così scenderà l'Eterno degli eserciti a combattere sul monte Sion e sul suo colle.
Come gli uccelli spiegano le ali sulla loro nidiata, così l'Eterno degli eserciti proteggerà Gerusalemme; la proteggerà, la libererà, la risparmierà, la farà scampare”.
Tornate a colui dal quale vi siete così profondamente allontanati, o figli d'Israele!
Sposarsi in tempo di guerra in Israele
Un matrimonio in Israele è l’occasione per alcune riflessioni sui tempi che viviamo.
Emanuele Luzzatti - Il matrimonio ebraico in italia
Ieri sono stato al matrimonio del figlio di un mio carissimo amico, a Tel Aviv: Michael e Benedetta – che vivono entrambi da tempo in Israele – sono stati sposati dalla “spina dorsale”della Rabbanut di Roma, Rav Riccardo Shmuel Di Segni, Rav Yoseph Pino Arbib e Rav Avraham Alberto Funaro. E, nel momento più emozionante della cerimonia, con la Chuppah che ci regalava un ineguagliabile tramonto sul mare, non ho potuto fare a meno di pensare (ma dove va la testa, in certi momenti?) al sindaco di Bologna che ha esposto la bandiera palestinese dal Palazzo comunale della sua città. Inutile e superfluo chiedersi perché non abbia fatto lo stesso il 7 ottobre con la bandiera israeliana… Peccato non fosse presente, magari come invitato, al matrimonio… Forse (dico forse) ci avrebbe ripensato e, sempre forse, avrebbe capito lo stato d’animo – degli ebrei, israeliani e non – in questo tempo di guerra in cui si celebrano (ancora e sempre) matrimoni. In Israele, da sempre, la voglia di pace, di convivenza e di felicità, prevale su tutto, e tuttavia, in Israele, la via di mezzo, il compromesso – portatore di guai più gravi in futuro – non è mai piaciuto. Con questo sentimento nazionale, sebbene trascinati in una guerra sanguinosa non voluta – che ogni giorno provoca morti e feriti nella gioventù – e nonostante che il nord d’Israele sia rimasto disabitato per evitare vittime civili, la società israeliana risponde con il Matrimonio che, oltre ad essere grande mitzvah, rappresenta l’aspetto più alto della resilienza ebraica. Portiamo con noi le nostre ferite, ricordando che, oggi come un tempo, le alleanze e le amicizie sono fondamentali per affrontare il male. Per riemergere dalle tenebre alla luce: questa è la storia ebraica. Superiamo il male attraverso l’unità e, non meno importante, grazie ai legami e alle profonde amicizie e, nelle ore più buie, dalla persecuzione nazifascista alla strage di Hamas, il popolo ebraico comunque riesce a guardare avanti. Le voci e le parole dei Rabbanim, che celebrano un rito antichissimo e prezioso, calmano la mia anima inquieta – che vaga avvolta dalla luce di un tramonto accecante – e aprono un sempre nuovo e rinnovato varco tra noi e il Divino. Ne abbiamo tutti bisogno, consapevolmente o meno. In realtà, ammettiamolo, abbiamo pochissimi luoghi fisici, nel mondo, che ci accolgano per celebrare i nostri riti e le nostre sacre ricorrenze, ma di tempo, tempo dello spirito e della preghiera, oh, di quello ne abbiamo tanto, tantissimo, infinito e circolare. E le parole, già, le parole del Rito matrimoniale e anche altre parole (ieri sera tutte le parole si intrecciavano, con significanze arcane): qui, in Israele, diciamo insieme vinceremo; ma chi è incluso in insieme? Insieme Ebreo? Insieme Israeliani? Insieme di chi vuole la pace? Insieme a chi cerca la luce? Forse dovremmo iniziare a decodificare le parole. Ma non oggi, domani. Oggi c’è la cerimonia del matrimonio, con il suo fortissimo impatto emotivo e visivo che ci ricorda di rispettare e di non perdere tradizioni antiche e forti. La sua celebrazione è coinvolgente, ricca di usanze, rituali, nenie e litanie, è un’unione spirituale tra due persone e rappresenta l’adempimento dei comandamenti del Signore. Oggi Israele non è guerra a Gaza, non è gioventù in divisa senza anima. Oggi si crea una nuova famiglia e, senza dimenticare quelle distrutte e gli ostaggi, si continua a guardare al futuro. La vita, alle volte, diviene un turbine di impegni, obblighi e incertezze, ma oggi è un universo completo in se stesso e possiede in sé sentimenti ed emozioni, tocca corde differenti, che se ne stavano lì, tranquille, sopite, prima di cominciare il Rito. Mi accorgo che solo così, solo attraverso il Rito, possiamo recuperare il giusto abbandono verso la Vita e ricominciare di nuovo tutto da capo. Il Rito matrimoniale di Michael e Benedetta, così bello e compiuto nella sua perfezione, mi induce quella sensazione dolce-malinconica, quel delicato senso di perdita, quel piacevole struggimento che vorremmo sempre replicare… Mi sento come travolto da una tensione fisica che genera il mondo attorno a me. Il fatalismo non appartiene all’anima ebraica, ma l’ostinazione e la nostalgia, quelle sì. E oggi parlo anche di uno struggimento, di una melancolia agra e dolce alla fine, con la sensazione di incrociare qualcosa di immenso, che travalica la nostra vita, la supera e assurge a caposaldo per manifestare tutto, mentre fisso le onde che – lente – si increspano sul bagnasciuga. E non posso evitare di pensare a tutte le vite che abbiamo perso, dal 7 ottobre in poi. A chi non c’è più, agli ostaggi, ai nostri giovani al fronte – tutti celebravano ogni giorno la Vita e l’Amore, come noi, questa sera. C’è forse bisogno del giusto periodo, un tempo di cura, per guarire dalla fine, ma voglio ancora stupirmi delle cose semplici, sorridere, perché dopo il dolore la vita continua, perché, quando provi un dolore insopportabile devi pensare che la vita va avanti e vivere con il sorriso. Resistono gli affetti che non hanno bisogno del tempo materiale, i rapporti che non hanno bisogno di essere nutriti dal tempo materiale. Per questa sera, evitiamo di dividerci in buoni e cattivi, anche se mai nella storia così tanti si sono trasformati in utili strumenti di un asse del male. Decido di non farmi risucchiare e, con parole antiche, non chiedo miracoli o visioni, ma la forza di affrontare il quotidiano, di preservarci dal timore di poter perdere qualcosa della vita, di non darci ciò che desideriamo ma ciò di cui abbiamo bisogno, di insegnarci l’arte dei piccoli passi. Mazal Tov, Michael e Benedetta!(Riflessi Menorah, 4 giugno 2024)
Clamoroso: salta il convegno sul 7 ottobre. Il motivo? C’erano esperti ebrei
Ennesimo sabotaggio nei confronti degli israeliani: niente confronto sui traumi dell’attacco di Hamas.
di Franco Lodige
Dal 7 ottobre si sono moltiplicati gli episodi di antisemitismo in Italia e in Occidente, questo è noto. In maniera più o meno subdola, sono state registrate iniziative di boicottaggio nei confronti degli israeliani, ritenuti responsabili di un presunto genocidio a Gaza. Dagli studenti dei collettivi a certi politici di sinistra, è stata sdoganata una pericolosa caccia all’ebreo che non conosce confini. L’ultimo episodio riguarda la conferenza internazionale intitolata “Trauma personale e collettivo, condivisione di punti di vista ed esperienze professionali” in programma – originariamente – il 9 giugno a Roma: il convegno sulla psicanalisi sui traumi del 7 ottobre (data dell’attacco brutale dei terroristi di Hamas) è saltato per la presenza di esperti israeliani. Nessuna boutade, purtroppo.
Nonostante l’assenza di qualsivoglia intento politico, la conferenza in programma tra esperti di Italia, Israele e Gran Bretagna per discutere dei traumi del 7 ottobre e delle terapie per aiutare adulti e bambini per superarli è stata sabotata per la presenza degli israeliani. Il portale “Moked Pagine Ebraiche” ha confermato che a far saltare il tutto sono state le critiche interne mosse dai soci dell’Aipa (Associazione italiana di psicologia analitica). Una sconfitta per tutti, l’ennesima testimonianza di una sorta di caccia all’ebreo. Ancora più preoccupante che il boicottaggio sia firmato dagli psicanalisti, abituati a discernere la complessità del pensiero umano. “Siamo di fronte a studiosi delle emozioni umane che fanno prevalere gli istinti peggiori del genere umano, come l’odio o la discriminazione, invece che la conoscenza e il ragionamento. Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza, avrebbe detto Dante”, la denuncia più che comprensibile di Emanuele Fiano.
Lo stop all’evento in programma a Roma segue la scia dei tanti casi riguardanti gli israeliani, discriminati se non emarginati a causa del passaporto o della religione. Il più delle volte ci troviamo di fronte a un’esplosione di odio covato per anni, mentre in questo caso si tratta di una sconfitta del buonsenso: cancellare il dialogo – soprattutto tra psicanalisti – è una Caporetto del senno. E poco cambia con l’annuncio dell’Aipa, che parla di evento rimandato e non annullato: giustificare il sabotaggio con il “clima” in Medio Oriente o con le azioni militari in corso è clamorosamente sbagliato, perché gli psicanalisti ebrei non hanno nulla a che fare con tutto ciò. Ma si sa, l’ideologia è spesso più forte di tutto. Anche della ragione.
Veicoli militari israeliani fuori Nablus (la biblica Sichem) durante un raid antiterrorismo la scorsa settimana
Centinaia di residenti ebrei della Samaria (i cosiddetti "coloni") hanno assediato domenica la città palestinese di Nablus dopo che la polizia locale dell'Autorità Palestinese ha dato rifugio a un terrorista. Nablus, la città biblica di Sichem, è un punto focale dell'attività terroristica palestinese. È la stessa città di Sichem che si comportò in modo incauto con i figli di Giacobbe (Israele) e ne subì l'ira (Genesi 34).
Gli ebrei locali hanno bloccato tutte le uscite di Sichem e hanno chiesto all'Autorità Palestinese di estradare il terrorista che mercoledì scorso ha compiuto un attacco con un'auto a un posto di blocco fuori città, uccidendo due soldati delle Forze di Difesa Israeliane, Eliya Hilel (20) e Diego Shvisha Harsaj (20).
L'aggressore è fuggito immediatamente a Sichem e si è arreso alle forze di sicurezza dell'Autorità Palestinese (AP).
Familiari e amici di Eliya Hilel partecipano al suo funerale
nel cimitero militare di Monte Herzl, a Gerusalemme, il 30 maggio 2024
Il corrispondente di Channel 14 News Hillel Baton Rosen ha raccontato che l'IDF e il servizio di sicurezza israeliano (Shin Bet) inizialmente pensavano che l'Autorità Palestinese avrebbe consegnato il terrorista come parte di una collaborazione. Invece lo hanno lasciato andare e l’hanno aiutato a sfuggire all'arresto da parte degli israeliani.
L'IDF non ha ripreso le ricerche del terrorista e i residenti ebrei ritengono di poter contribuire impedendo a chiunque di lasciare Sichem. Inoltre chiedono giustizia.
Secondo il servizio di notizie online HaKol HaYehudi (La Voce ebraica), la madre di Eliya Hilel ha chiesto l'assedio di Sichem: "Assedieremo Sichem finché il terrorista non sarà catturato, vivo o morto. Invito tutti a unirsi a questa giusta dimostrazione perché sia fatta giustizia".
I soldati dell'esercito israeliano ai posti di blocco a Sichem avrebbero incoraggiato i manifestanti civili e concordato sulla necessità di bloccare il traffico fuori dalla città. Yossi Dagan, capo del Consiglio regionale della Samaria, ha dichiarato lunedì che l'IDF dovrebbe mettere in custodia il governatore dell'Autorità Palestinese a Nablus fino alla consegna del terrorista.
"L'Autorità Palestinese è un'organizzazione terroristica, proprio come i nazisti di Hamas. Loro [Hamas] sono nazisti con un nastro verde in testa, e loro [l'Autorità Palestinese] sono nazisti in giacca e cravatta", ha detto Dagan. "Se lo Stato di Israele ha anche solo un briciolo di onore nazionale, allora il terrorista in giacca e cravatta noto come "Governatore di Nablus", questa feccia che ha ospitato l'assassino dei nostri soldati e lo ha aiutato a fuggire, deve essere arrestato immediatamente".
(Israel Heute, 3 giugno 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
I mullah iraniani accelerano il programma nucleare: a qualcuno interessa?
Nel bel mezzo del conflitto tra Hamas e Israele, mentre l'attenzione del mondo è focalizzata sulla guerra iniziata dall'Iran e da Hamas, i mullah al potere in Iran hanno colto l'occasione per portare avanti il loro programma nucleare.
Sostenendo, armando e addestrando Hamas, Hezbollah e gli Houthi, l'Iran ha iniziato una guerra per procura contro Israele, sfruttando in parte il conflitto per distogliere l'attenzione dalle proprie ambizioni nucleari.
Questa mossa calcolata favorisce gli interessi immediati dell'Iran nel destabilizzare i suoi avversari, ossia gli Emirati Arabi Uniti, l'Arabia Saudita, la Giordania, il Bahrein e soprattutto gli Stati Uniti, che Teheran vorrebbe vedere fuori dalla regione, in modo da poter presumibilmente avere il Medio Oriente tutto per sé. L'azione diversiva della guerra di Gaza è però in linea anche con l'obiettivo di sradicare Israele.
Mentre gli emissari dei mullah combattono in prima linea contro il "Piccolo Satana", Israele, l'Iran si muove nell'ombra, sfruttando il caos per fare passi da gigante nelle sue capacità nucleari.
Dallo scoppio della guerra, il programma nucleare iraniano è rapidamente cresciuto, spinto da attività clandestine all'interno del suo impianto super-fortificato di Fordow.
Da recenti rivelazioni del Washington Post è emerso che dietro il velo di segretezza di Teheran, la produzione iraniana di uranio arricchito ha raggiunto una soglia di purezza molto vicina al 90 per cento (il cosiddetto stadio "weapon grade", N.d.T.) necessario per lo sviluppo di armi nucleari.
Il report mette in luce uno sviluppo preoccupante: all'interno del sito nucleare, le apparecchiature appena installate, presumibilmente finanziate almeno in parte dall'amministrazione statunitense, ora hanno tutte le potenzialità per raddoppiare la produzione di uranio arricchito dell'impianto. Questa escalation clandestina non solo viola i confini degli accordi internazionali, ma sottolinea anche la determinazione dell'Iran a costruire quanto prima le sue armi nucleari.
L'intento di dotarsi di armi nucleari sembra essere dettato soprattutto da una forte determinazione a raggiungere l'obiettivo di lunga data di annientare Israele, un Paese più piccolo del New Jersey, che l'ex presidente iraniano Ali Akbar Hashemi Rafsanjani ha di fatto definito un Paese "[che può essere colpito con] una sola bomba", asserendo che "l'uso di una bomba nucleare su Israele non lascerà nulla al suolo, mentre danneggerebbe soltanto il mondo islamico".
Attraverso il suo sostegno a Hamas, Hezbollah e agli Houthi, l'Iran ha orchestrato un'escalation delle ostilità contro Israele secondo la strategia della "rana bollita" ("boiling frog"), adottando gradualmente, in primo luogo, la guerra per procura come mezzo per "cancellare Israele dalle carte geografiche", per usare le parole dell'ex presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad.
Hamas, il 7 ottobre 2023, ha sferrato il suo brutale attacco lanciando migliaia di razzi contro Israele, mentre circa 3 mila terroristi attraversavano la barriera tra Israele e la Striscia di Gaza, assaltando basi militari israeliane e 22 comunità civili.
Questo assalto ha portato i terroristi di Hamas a uccidere circa 1.200 persone in Israele: ebrei, musulmani, cristiani, israeliani, lavoratori stranieri e turisti. Hamas ha perpetrato atrocità che vanno dagli stupri di gruppo, alle torture di uomini, donne e bambini, all'uccisione di un neonato bruciato in un forno, fino alla decapitazione di bambini. Hamas ha inoltre preso in ostaggio 240 persone, portate nei tunnel di Gaza.
Queste barbare perversioni evidenziano la disponibilità, se non addirittura il piacere, dei leader iraniani nell'impiegare qualsiasi mezzo a disposizione per raggiungere i propri obiettivi. Molto probabilmente non considerano la devastazione all'estero come un fattore scatenante dell'instabilità, ma, al contrario, come un mezzo per raggiungere l'egemonia, dopo la quale ci sarà la pace, almeno per loro stessi.
Dal punto di vista dell'Iran, l'acquisizione di armi nucleari è il modo più semplice per completare in modo significativo la conquista della regione ed "esportare la rivoluzione":
"Esporteremo la rivoluzione in tutto il mondo. Finché il grido: 'Non vi è altro Dio fuorché Allah' non risuonerà in tutto il mondo, ci sarà lotta".
Armare le sue milizie per procura di capacità nucleari servirebbe da leva per rafforzare la posizione strategica di Teheran nella regione, fingendo allo stesso tempo di oscurare il suo coinvolgimento diretto. Fornendo armi nucleari a questi gruppi estremisti, e potenzialmente ad altri, l'Iran non solo amplificherebbe la minaccia per i suoi avversari, ma cercherebbe anche di ridurre al minimo il rischio di ritorsioni dirette contro di sé.
Purtroppo, il piano rappresenta una minaccia esistenziale non solo per la stabilità regionale, ma anche per la sicurezza globale. L'Iran si sta muovendo verso l'America Latina, forse per prendere di mira il "Grande Satana", gli Stati Uniti.
La prospettiva che gruppi terroristici dotati di armi nucleari operino impunemente richiede la massima attenzione. Considerata la dipendenza di Teheran dalle entrate derivanti dal petrolio e dal gas per finanziare le proprie ambizioni nucleari, imporre e applicare sanzioni contro l'industria petrolifera dell'Iran e prenderne di mira le sue infrastrutture petrolifere potrebbe almeno ritardare lo sviluppo di armi nucleari. Dovrebbero anche essere compiuti sforzi per colpire i siti nucleari iraniani e il suo brutale Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC). Non c'è assolutamente tempo per porre indugi nell'affrontare questa minaccia esistenziale. Il regime iraniano ha dimostrato la sua ferma determinazione ad acquisire armi nucleari ad ogni costo. ---
* Majid Rafizadeh, accademico di Harvard, politologo e stratega, consulente aziendale, è anche membro del consiglio consultivo della Harvard International Review e presidente dell'International American Council on the Middle East. È autore di numerosi libri sull'Islam e sulla politica estera statunitense. Può essere contattato all'indirizzo e-mail Dr.Rafizadeh@Post.Harvard.Edu
(Gatestone Institute, 3 giugno 2024 - trad. di Angelita La Spada)
“Riportateli a casa, ora!”. Questo il messaggio lanciato dagli organizzatori di “United we bring them home”, la manifestazione internazionale di solidarietà per gli ostaggi israeliani, che si è tenuta a Largo Argentina, nel cuore di Roma e che ha visto la partecipazione di oltre 200 persone. Promossa dal Forum delle Famiglie degli Ostaggi e Run for Their Lives, e a cui ha aderito anche l’Unione Giovani Ebrei d’Italia, la maratona oratoria si è tenuta in contemporanea con altre città in giro per il mondo, tra cui Londra e New York. A introdurre le varie personalità che sono intervenute, il noto giornalista di Mediaset Antonino Monteleone.
Oltre 125 persone – bambini, ragazzi, donne, uomini e anziani – sono ancora nelle mani dei terroristi di Hamas. “Noi oggi siamo qui per dire alle loro famiglie e al mondo intero che non ci siamo dimenticati di loro. Non ci siamo dimenticati di ciò che hanno subito e stanno ancora subendo” ha affermato il portavoce italiano del Forum delle Famiglie degli Ostaggi e promotore dell’iniziativa, Benedetto Sacerdoti. “Il 7 ottobre è una giornata infinita, una ferita aperta che attende il ritorno a casa di ciascuna di quelle 125 persone per potersi finalmente rimarginare e guarire” ha continuato Sacerdoti, ribadendo più volte come sia necessario “riportarli a casa adesso”.
“Vogliamo ricordare al mondo che ci sono ostaggi di 27 nazionalità diverse, cinque religioni diverse, e noi qui manifestiamo per tutti gli ostaggi” ha detto Tiziana Levy, coordinatrice italiana di Run for Their Lives, gruppo non politico privato e umanitario che è attivo in più di 200 città in tutto il mondo. “Manifestiamo per far aprire gli occhi a tutte quelle persone che ancora non credono quello che è successo, e infine camminiamo per mantenere una luce, la stessa luce che mantengono i familiari degli ostaggi” ha concluso Levy.
“Non possiamo rimanere in silenzio di fronte alla barbarie che i terroristi di Hamas stanno compiendo da ormai 240 giorni sulla pelle dei nostri fratelli e sorelle. Il nostro pensiero va a tutti loro, ai loro volti e alle loro voci, che non possono gridare aiuto. Siamo qui per farlo al loro posto” ha affermato Luca Spizzichino, presidente dell’Unione Giovani Ebrei d’Italia. “È un nostro dovere morale alzare la voce e rivendicare con forza e determinazione che si faccia tutto il possibile per riportarli a casa” ha proseguito, ricordando come i giovani ebrei italiani non smetteranno mai di lottare per la loro libertà.
“Tutti i morti che abbiamo contato fino a oggi, sia ebrei che palestinesi, sono da addebitare a Hamas” ha detto Stefano Parisi, presidente dell’associazione Setteottobre, che è intervenuto alla manifestazione. Sono scesi in piazza anche diversi consiglieri della Comunità Ebraica di Roma, tra loro anche Johanna Arbib, che ha preso la parola. “Oggi per noi è il 7 ottobre, sono passati 240 giorni, ma è ancora il 7 ottobre. – ha sottolineato Arbib – Noi abbiamo un compito chiarissimo, dobbiamo diffondere la verità e la verità è che il 7 ottobre Israele è stato attaccato e sono state uccise più di 1200 persone”.
A chiudere il presidio una preghiera per il ritorno degli ostaggi letta da Elio Tesciuba.
La comunità israelita svizzera denuncia il crescente antisemitismo
La Federazione svizzera delle comunità israelite (FSCI) “condanna fermamente l’atto terroristico di Hamas e i relativi tentativi di minimizzazione”. Chiede anche che Parlamento e Consiglio federale attuino rapidamente il divieto dell’organizzazione palestinese e invita Berna a impegnarsi maggiormente per la liberazione degli ostaggi a Gaza.
Questo il contenuto di una risoluzione approvata domenica da un’ampia maggioranza dell’assemblea dei delegati svoltasi nella capitale federale, nella quale viene espressa anche solidarietà al popolo israeliano e viene ribadito che il diritto di autodeterminazione di Israele non è negoziabile.
“Allo stesso tempo, si esprime il rammarico per le grandi sofferenze della popolazione civile causate da questa guerra scatenata da Hamas. La pace e la sicurezza devono essere ricercate per la popolazione israeliana, per i palestinesi e per l’intera regione”, si legge in un comunicato diffuso nella serata di domenica dalla FSCI.
• Crescente antisemitismo
I delegati si aspettano inoltre che l’Esecutivo federale e i Cantoni adottino misure efficaci per contrastare il crescente antisemitismo, anche nelle scuole universitarie. “Dopo l’iniziale solidarietà per gli attentati, il clima è cambiato improvvisamente. C’è una situazione politica a migliaia di chilometri da qui che porta molti ad accusarci di colpe cui siamo estranei, lo si vede soprattutto nelle università. Molti di noi subiscono questa situazione”, ha spiegato uno dei partecipanti all’assemblea ai microfoni della Radiotelevisione della Svizzera italiana RSI.
“La cosa più difficile da far capire è la posizione degli ebrei svizzeri”, gli fa eco un altro membro della comunità. “Vediamo ovunque manifestazioni ed esternazioni che vanno contro i principi di una convivenza pacifica”.
Il quartiere ebraico nella Città Vecchia di Gerusalemme
Dopo due anni di lavori di sviluppo e ristrutturazione costati 5 milioni di dollari, l'antico quartiere erodiano di Gerusalemme riaprirà al pubblico questa settimana.
Questo straordinario sito archeologico nel quartiere ebraico della Città Vecchia comprende un quartiere residenziale di 2.600 metri quadrati risalente al periodo del Secondo Tempio. Comprende case lussuose, squisiti mosaici, strade acciottolate e numerosi bagni rituali.
Il quartiere è stato scoperto durante gli scavi condotti dal professor Nahman Avigad dell'Università Ebraica di Gerusalemme dopo la riunificazione di Gerusalemme nel 1967. A causa della sua vicinanza al Monte del Tempio e dei numerosi bagni rituali e vasi di pietra ritrovati, gli archeologi ipotizzano che in questa zona vivessero le famiglie sacerdotali benestanti che prestavano servizio nel complesso del Secondo Tempio sotto il dominio degli erodiani.
I numerosi ritrovamenti di bagni rituali indicano la stretta osservanza delle leggi di purezza che caratterizzavano le case dei sacerdoti. Le grandi case, alcune grandi fino a 800 metri quadrati, con ornamenti elaborati e intricati mosaici, riflettono la ricchezza dei loro abitanti.
Il sito di scavo del Quartiere Erodiano è stato chiuso ai visitatori negli ultimi due anni per migliorare le infrastrutture e i servizi ai visitatori. Le case rimaste sono state ricostruite con cura e fedeltà, mentre esperti artigiani hanno restaurato i mosaici scoperti.
Un innovativo sistema di illuminazione e audio mette ora in scena in modo dinamico i reperti e riempie i resti dell'antico quartiere con suoni ambientali che ricordano la vita in questa enclave sacerdotale all'epoca del Tempio.
Archeologi israeliani scoprono resti dell'epoca degli erodiani a Gerusalemme
Con l'aiuto di display multimediali che proiettano ologrammi, animazioni e video sugli antichi reperti, l'antico quartiere viene “riportato in vita". I visitatori possono simulare il percorso verso il Monte del Tempio dalla prospettiva di due abitanti. Passerelle di vetro sospese permettono di accedere da vicino alle case senza interferire con i reperti archeologici.
“Nel quartiere ebraico sta tornando in vita la storia, ha dichiarato Herzel Ben Ari, amministratore delegato della Società per la ricostruzione e lo sviluppo del quartiere ebraico. "Il museo rinnovato offre uno sguardo sul maestoso passato di Gerusalemme durante il periodo del Secondo Tempio. Invito tutti a visitare il museo e a entrare in contatto con questo magnifico patrimonio della città".
(Israel Heute, 3 giugno 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Che cosa significa oggi riconoscere la “Palestina”
di Ugo Volli
A Palazzo d’Accursio, sede del Comune di Bologna, il sindaco Matteo Lepore (Pd) ha appeso personalmente la bandiera palestinese. Lo stesso è accaduto a Pesaro per decisione di Matteo Ricci (Pd); anche il sindaco di Milano Giuseppe Sala (sostenuto da tutti i partiti di sinistra) ha detto di avere intenzione di compiere lo stesso gesto dopo un passaggio in consiglio comunale. Le bandiere palestinesi sono state sventolate nell’emiciclo di Montecitorio durante un dibattito da deputati del Movimento 5 Stelle ed esposte all’esterno da un ex deputato dei Verdi. All’Università di Torino, al centro delle polemiche per le sue posizioni sul conflitto mediorientale, non ci sono solo le bandiere e i murales degli occupanti. Una bandiera palestinese è appesa anche a Palazzo Campana, sede del dipartimento di matematica. Che tutto ciò sia esplicitamente proibito dalla legge italiana (art. 8 del DPR 121/2000) evidentemente non interessa a nessuno.
• Perché questa epidemia?
Che cosa significa questa moda di omaggiare la “Palestina” in una maniera che non è stata applicata né per il Tibet e gli Uiguri e Hong King oppressi dalla Cina, né per Cipro e i curdi minacciati dalla Turchia, né per Ucraina e Georgia sotto il tallone della Russia, né per tutti gli altri conflitti in corso nel mondo? Spiegare le cause di questa epidemia è complesso, ma i motivi e i fini dei responsabili sono invece semplici. Come ha detto Matteo Ricci: “Basta massacri, l’Italia riconosca lo Stato palestinese!” i massacri che si vogliono far finire non sono certo gli omicidi a sangue freddo non provocati di 1200 persone del 7 ottobre scorso, col contorno di centinaia di stupri e di rapiti. Sono un modo insensato ma diffuso di condannare l’autodifesa israeliana, che altre volte viene addirittura definita dalle stesse fonti “genocidio”, rovesciando orribilmente sugli ebrei il nome del reato coniato per descrivere la Shoah. Come si esprime in contorto politichese Matteo Lepore “per aprire alla possibilità di nuovo di avere due Stati, come in tanti spesso affermiamo, occorre avere anche due popoli e questo per quello che i palestinesi stanno subendo rischia di non potere più accadere”.
• I due gruppi nemici di Israele
Bisogna prendere atto insomma che ci sono due gruppi di nemici di Israele: i “rivoluzionari” o espliciti filoterroristi che rivendicano il 7 ottobre e il progetto di eliminare lo Stato di Israele e i suoi abitanti, per esempio con lo slogan “Dal fiume al mare…”, come gli occupanti delle università e i membri dei gruppuscoli di estrema sinistra. Poi vi sono i “moderati” di tutti i partiti, ma soprattutto di quelli di sinistra, che vogliono “il riconoscimento della Palestina” perché, dicono, questa è la premessa ai “due stati”. Tale è del resto ormai la posizione ufficiale del Pd. C’è qualcuno fra loro che ha una fantasia sufficientemente sfrenata, o una faccia tosta così incurante dei fatti da sostenere che “riconoscere la Palestina” dopo il massacro guidato da Hamas sarebbe “una sconfitta per Hamas”.
• Le obiezioni
Al riconoscimento ci sono ovvie obiezioni: il preteso Stato di Palestina non ha confini stabiliti, non esercita una sovranità incondizionata su alcun territorio, non ha moneta sua, non è autosufficiente dal punto di vista fiscale, energetico, dell’acqua, dei trasporti con l’esterno; il trattato costitutivo che ha firmato per potersi costituire (Oslo) esclude la sua statualità; non è una democrazia, non tiene neanche elezioni fittizie da vent’anni, non conosce la separazione dei poteri né i diritti della difesa, esercita largamente la tortura e l’omicidio dei dissidenti, ha una politica razzista che esclude dal suo territorio tutti gli ebrei, è completamente corrotto, finanzia ufficialmente il terrorismo, non accetta l’esistenza del suo maggior vicino, Israele, con cui si considera in guerra, anzi, che vuole completamente cancellare; non ha mai accettato di discutere le proposte di pace che le sono state sottoposte. Insomma non è uno stato e tanto meno è un’organizzazione rispettosa dei diritti umani e della pace.
• Dopo il riconoscimento
Ma questi argomenti evidentemente non bastano ai sostenitori “moderati”. Proviamo allora a prenderli alla lettera. Che cosa succede se uno stato riconosce la “Palestina”, come hanno fatto Spagna, Irlanda e Norvegia? Questo riconoscimento che cosa comporta? Dei confini? Quali? Quelli attuali controllati dall’ANP, senza cioè Gaza e le zone A e B del trattato di Oslo, inclusa la città vecchia di Gerusalemme? Quelle che fino al ’67 erano controllate da Giordania e Egitto (la vecchia “linea verde”)? Quelle rivendicate da tutti i movimenti palestinisti, non solo da Hamas, cioè “dal fiume al mare”? E la capitale dov’è, a Ramallah, a “Gerusalemme Est” (qualunque cosa ciò voglia dire)? A Gaza? Il governo è quello attuale nominato da Muhammed Abbas? O uno di “unità nazionale” con Hamas? E che succede se Israele sta ai trattati e non riconosce l’Autorità Palestinese come stato, ma continua a combattere il terrorismo anche sul “suo” territorio? Vengono gli spagnoli o gli irlandesi a fermare gli attentatori suicidi? Mistero. La verità è che il riconoscimento non cambia niente, è solo propaganda.
• Due stati?
Ma forse bisogna prendere sul serio la storia dei due stati. Il riconoscimento, dicono, serve a realizzare questa formula. Peccato che una lunga esperienza mostri che la formula non funziona. Hamas non li vuole e lo dice apertamente. Fatah, cioè l’Autorità Palestinese, non li vuole nemmeno, ma invece di dirlo chiaro ha sempre sabotato le trattative, si è sempre rifiutata di indicare anche solo un fazzoletto di terra che è disposta a lasciare allo Stato degli ebrei. Infatti si rifiutano di dire “due stati per due popoli”, perché nei più generosi l’idea è di avere una “Palestina 1” nei limiti della linea verde e una “Palestina 2” dove ora c’è Israele, perché condizione fondamentale dei due stati, come la intendono loro è che Israele accetti l’immigrazione selvaggia di tutti quanti dicono di essere “rifugiati palestinesi”, tanti da avere la maggioranza e da distruggere Israele senza colpo sparare. Sono pochi, oggi, gli israeliani così ingenui da cadere nella trappola.
• La ragione del fallimento
Insomma se le trattative fra Israele e Autorità Palestinese sono sempre fallite con governi israeliani di destra, centro e sinistra, con presidenti da Clinton a Bush a Obama a Trump a Biden, la ragione è molto semplice: che i palestinisti non sono assolutamente disposti a convivere con uno Stato ebraico. E certamente il riconoscimento spagnolo o bolognese non fa loro cambiare idea, ma eventualmente li rafforza nelle loro convinzioni che “con l’anima e col sangue, la Palestina sarà libera”, cioè Israele sarà distrutta. I “moderati” credono di lavorare per una politica diversa dai filoterroristi, ma semplicemente sono più ipocriti. O molto meno lucidi.
Ugo Volli non ha bisogno di molte presentazioni. Il suo impegno documentato e accurato, appassionato e lucido a favore di Israele è noto a tutti coloro che si occupano da vicino dell’argomento. L’Informale ha voluto ascoltarlo un'altra volta in merito al contesto drammatico generato dall’eccidio compiuto da Hamas in Israele il 7 ottobre 2023.
- Stiamo entrando nell’ottavo mese di guerra e Israele sembra ancora lontano dalla vittoria. In compenso si è scatenata una offensiva politico-giudiziaria contro lo Stato ebraico che non ha precedenti rispetto ad altre guerre. Quale è la tua riflessione in merito? Questa guerra, insieme a quella in Ucraina e a quella che si prospetta a Taiwan, è un momento storico fondamentale non solo per Israele, ma per l’intera politica mondiale. Molti non capiscono che è in gioco il futuro della democrazia liberale: a seconda di come andranno queste guerre i prossimi decenni saranno dominati da feroci dittature islamiste, comuniste, fascistoidi o vedranno invece l’affermazione dei sistemi democratici. Se la Russia riuscirà a sfondare o anche solo a imporre lo status quo all’Ucraina e se Israele sarà costretto a fermarsi prima della distruzione di Hamas e dell’allontanamento della minaccia di Hezbollah, la Cina probabilmente capirà di potersi prendere Taiwan. Potrebbe essere l’inizio di una guerra mondiale, o più probabilmente gli Usa cederanno e si salderà in blocco che dominerà buona parte dell’Eurasia, dal Baltico al Mar Rosso, con forti influenze su Europa continentale, Africa e America Latina e il dominio di buona parte delle materie prime del mondo. Fuori da questo blocco resteranno solo potenze insulari residue, come Usa, Australia, India, Giappone qualche paese europeo e sudamericano. La situazione sarà molto peggiore di quella del 1941. Quanto a Israele, questa è una guerra esistenziale, accuratamente calcolata dai nemici che lo vogliono distruggere. Se non viene vinta ora, gli attacchi presto si moltiplicheranno, le alleanze si romperanno, sarà in gravissimo pericolo la sopravvivenza stessa di uno stato ebraico.
- Questa guerra ha fatto riaffiorare prepotentemente l’antisemitismo nelle sue più variegate sfaccettature, non ultimo quello di matrice cristiana dal sapore preconciliare. Il rabbino capo di Roma, Riccardo di Segni ha parlato in proposito di “teologia regredita”. E’ qualcosa che ti ha sorpreso? Purtroppo no. L’antisemitismo attuale non è un incidente di percorso, è connesso alla cultura europea e mediorientale da più di due millenni, è entrato nel paniere ideologico non solo della cristianità e dell’Islam, ma anche dell’Illuminismo, del socialismo, dell’attuale mondialismo. Pensare che il ricordo della Shoà lo inibisse era ottimismo ingenuo. A questo bisogna aggiungere la prevalenza di una tendenza filoaraba dei paesi europei e soprattutto di quelli mediterranei, sia per ragioni geopolitiche, sia per il senso di colpa del colonialismo, sia per la presenza di consistente minoranze islamiche, la cui importazione è stata a sua volta favorita da questo stesso orientamento E inoltre c’è l’odio di sé della sinistra occidentale, disposta ad appoggiare qualunque cosa possa distruggere la libertà di cui pure ha bisogno per esprimersi, organizzarsi, esistere. Qualunque valore progressivo, come l’uguaglianza dei sessi, la tolleranza, il suffragio universale, la tutela delle persone, la pace, viene sacrificata da costoro all’odio per l’Occidente.
- A me sembra che questa guerra abbia messo in luce una cosa in modo particolare, come gli ebrei siano sempre e comunque il bersaglio preferito di una criminalizzazione unica nella storia. Sei d’accordo? Sì, l’antisemitismo ha sempre avuto non solo un carattere eliminazionista (differenziandosi molto fortemente anche in questo da razzismi e altri pregiudizi), sia un aspetto ideologico. Ci sono stati altri odi fra popoli nella storia (ma durati molto meno, non a senso unico e non eliminazionisti) come quello fra francesi e tedeschi, fra russi e polacchi, o anche fra Europa e Islam, fino a un secolo fa circa. Ma essi funzionavano ritraendo il nemico come pericoloso, odioso, ridicolo, disgustoso, non come “colpevole”. L’ideologia antisemita funziona colpevolizzando gli ebrei e per di più accusandoli di quel che si vorrebbe fare loro. Si è detto a lungo che gli ebrei volevano ammazzare i cristiani innocenti, specie bambini, per levare loro il sangue; ciò serviva ad ammazzare gli ebrei, anche bambini. Oggi si imputa a Israele un “genocidio” per appoggiare l’esplicita e spesso ripetuta volontà genocida dei palestinisti. Si dice che i governi israeliani non rispettano i diritti dell’uomo per toglierli ai cittadini di Israele e in genere agli ebrei.
- La vittimizzazione dei palestinesi, la loro trasformazione in reietti della storia, si propone come una sorta di teologia della sostituzione in chiave laica. Al posto degli ebrei, gli arabi. La Nakba diventa la nuova Shoah, la morte dei civili a Gaza si trasforma in genocidio, Israele viene portato davanti alla Corte Internazionale dell’Aia con questa accusa come se fosse il Terzo Reich. Cosa hai da dire in proposito? L’imitazione da parte dei palestinisti di temi e giustificazioni della storia ebraica è sotto gli occhi di tutti, dalla rivendicazione di un’antichità sul territorio che non ha alcuna base, al rovesciamento dei fatti rispetto alla guerra di liberazione del ‘48 e ai pogrom, alle accuse all’esercito israeliano. Non avendo ragioni, non avendo storia, non avendo tradizione culturale propria, i palestinisti provano a rispecchiare en travesti la storia ebraica. L’antisemitismo occidentale riprende questi temi per colpevolizzare gli ebrei, secondo la sua antica tradizione ideologica. Non è però una teologia rovesciata, niente di così elevato. E’ solo propaganda. Molto efficace e molto volgare, senza alcuna base di cultura o di realtà.
- Nelle università, soprattutto negli Stati Uniti, abbiamo assistito e assistiamo a una preoccupante saldatura tra sostenitori di Hamas e studenti occidentali convinti che Israele sia lo Stato canaglia per eccellenza. Come siamo arrivati a questo punto? E’ molto semplice, sono stati indottrinati fin dalle elementari a credere alle idee “progressiste”, di cui fa parte l’odio per Israele e la mitizzazione della “Palestina” C’è stato nelle scuole americane, ma anche in quelle europee un lungo indottrinamento di massa, durato generazioni. Già Allen Bloom quaranta o cinquant’anni fa parlava a questo proposito di “closing of American mind”. Spesso si attribuisce al progetto gramsciano, magari rivisto da Althusser, questa egemonia di sinistra nella scuola (ma anche nella cultura: in tutto l’Occidente sono molto rare case editrici, televisioni, radio, giornali, produttori cinematografici che non siano “politically correct”). E’ vero che la generazione dei Foucault, dei Deleuze, dei Chomski, Calvino, Barthes, Marcuse ecc. ha avuto un ruolo importante nel lavoro di dissoluzione della “cultura borghese”. Ma in realtà il gioco è molto più vecchio, risale all’”impegno” di Sartre e compagni negli anni Cinquanta e prima ancora alla gigantesca occupazione della cultura realizzata dai totalitarismi negli anni Venti e Trenta del Novecento, distruggendo la cultura liberale con la violenza fisica e istituzionale. Oggi, senza bisogno di ripetere quegli eccessi, per semplice effetto di continuità, è quasi altrettanto difficile essere intellettuali liberali o democratici-conservatori quanto lo era nella Russia di Stalin o nell’Italia di Mussolini e nella Germania di Hitler. E c’è una totale persistenza nell’odio culturale attuale verso la società liberale con quello degli anni del totalitarismo, anche perché alla fine della guerra c’è stata una conversione di massa dal fascismo al comunismo. Non c’è solo l’insegnamento universitario, soprattutto nelle facoltà umaniste, che giudica suo compito non di trovare fatti relativi al proprio campo disciplinare, ma diffondere “le idee giuste”. Questa stessa forma di propaganda generalizzata si ritrova, in una forma o nell’altra in cinema, tv, romanzi, serie, canzoni, testi scolastici: una gigantesca camera a eco in cui è facilissimo focalizzare qualche tema, dal gender a Israele al ‘razzismo sistemico’ di Black Lives matter”.
- Oggi, a parte l’antisemitismo di matrice islamica, quello che maggiormente è emerso nella sua prepotenza e di cui si erano già date ampie prove nel recente passato, basti pensare alle posizioni su Israele di Jeremy Corbin, ex leader del Labour, è l’antisemitismo di sinistra. Quali sono, a tuo giudizio, le sue basi? Odiano Israele gli antisemiti, consapevoli o meno, che non tollerano un’identità separata e libera; ma odiano Israele anche i nemici interni ed esterni dell’Occidente (del capitalismo, del libero mercato, della democrazia pluralista, della libertà individuale) perché Israele ai loro occhi indica tutto questo: odiano Israele, perché la tradizione ebraica è alla base dell’idea della libertà e della responsabilità individuale che ne è il cuore e perché gli arabi odiano Israele per ragioni di conflitto religioso e territoriale; costoro pensano follemente che l’Islam possa essere l’arma decisiva per arrivare dove il comunismo non è riuscito, all’asservimento universale travestito da utopia.
- Ancora oggi gli ebrei devono lottare per il diritto alla loro sicurezza e alla loro esistenza, là dove hanno avuto origine, mentre intorno a loro, da parte di chi dovrebbe sostenere questa lotta contro il fanatismo islamico, assistiamo alla messa alla berlina di Israele. Quali riflessioni ti suggerisce tutto ciò? Ripeto in conclusione quel che ho detto all’inizio. Siamo a una battaglia decisiva non solo per Israele, ma per quella straordinaria forma di vita che si è costruita in Europa (e poi si è espansa negli Stati Uniti e altrove) sulla base della tradizione biblica. Come disse una volta Ugo La Malfa, la libertà dell’Occidente si difende sotto le mura di Gerusalemme. Cioè oggi a Gaza e al confine col Libano.
Paolo, servitore di Dio e apostolo di Gesù Cristo per la fede degli eletti di Dio e la conoscenza della verità che è secondo pietà,
nella speranza della vita eterna la quale Iddio, che non può mentire, promise avanti i secoli,
manifestando poi nei suoi proprî tempi la sua parola mediante la predicazione che è stata a me affidata per mandato di Dio.
1 TIMOTEO, cap. 6
Se qualcuno insegna una dottrina diversa e non s'attiene alle sane parole del Signor nostro Gesù Cristo e alla dottrina che è secondo pietà,
esso è gonfio e non sa nulla; ma langue intorno a questioni e dispute di parole, dalle quali nascono invidia, contenzione, maldicenza, cattivi sospetti,
acerbe discussioni d'uomini corrotti di mente e privati della verità, i quali stimano la pietà esser fonte di guadagno.
Or la pietà con animo contento del proprio stato, è un gran guadagno;
poiché non abbiam portato nulla nel mondo, perché non ne possiamo neanche portar via nulla;
ma avendo di che nutrirci e di che coprirci, saremo di questo contenti.
Ma quelli che vogliono arricchire cadono in tentazione, in laccio, e in molte insensate e funeste concupiscenze, che affondano gli uomini nella distruzione e nella perdizione.
TITO, cap. 2
Poiché la grazia di Dio, salutare per tutti gli uomini, è apparsa
e ci ammaestra a rinunziare all'empietà e alle mondane concupiscenze, per vivere in questo mondo temperatamente, giustamente e piamente,
1 TIMOTEO, cap. 4
Ma schiva le favole profane e da vecchie; esèrcitati invece alla pietà;
perché l'esercizio corporale è utile a poca cosa, mentre la pietà è utile ad ogni cosa, avendo la promessa della vita presente e di quella a venire.
Caccia israeliani colpiscono obiettivi di Hezbollah nel sud del Libano
La scorsa notte, i caccia israeliani hanno colpito “risorse significative” appartenenti al movimento filo-iraniano Hezbollah nel sud del Libano, in risposta ai recenti attacchi missilistici diretti verso Israele. Secondo le Forze di difesa israeliane (Idf), gli attacchi aerei hanno preso di mira le aree di Ain Qana, Hmaileh e Aadloun.
Inoltre, i caccia israeliani hanno colpito postazioni di osservazione di Hezbollah a Tayr Harfa, edifici utilizzati dal gruppo sciita a Jebbayn e Khiam, e un lanciarazzi a Majdal Zoun, responsabile dell’attacco di ieri contro il nord di Israele. Ulteriori infrastrutture a Rachaya al Foukhar sono state anch’esse colpite.
Questa mattina, due razzi sono stati lanciati dal Libano contro la comunità settentrionale israeliana di Yiftah. Le Ifd hanno confermato che entrambi i proiettili sono caduti in aree aperte, evitando così vittime e danni significativi.
Descrivendo il piano come un percorso verso “una fine duratura” al conflitto attuale, Biden ha detto che Hamas “non è più in grado di portare avanti un altro 7 ottobre”. Ne siamo proprio sicuri?
di Maurizia De Groot Vos
Sono tre i motivi principali per cui Israele ha scatenato l’offensiva contro Hamas a Gaza: riportare a casa gli ostaggi, fare giustizia sull’eccidio del 7 ottobre e fare in modo che Hamas non possa mai più in alcun modo nuocere né a Israele né ai cittadini israeliani.
Il mancato raggiungimento anche di uno solo di questi obiettivi inficia qualsiasi ipotesi di cessate il fuoco e questo a prescindere da chi ci sia al governo a Gerusalemme.
Ora, ieri sera il Presidente americano, Joe Biden, ha presentato il piano (definito “israeliano”) per un cessato il fuoco temporaneo da trasformare in un cessate il fuoco permanente dopo che gli ostaggi rimasti in vita e i corpi dei defunti saranno restituiti alle famiglie. Biden considera gli altri due punti raggiunti e quindi, secondo lui, giustizia è fatta per il massacro del 7 ottobre e, soprattutto, Hamas non è nelle condizioni di poter di nuovo nuocere a Israele.
Hamas è sia un esercito terrorista che l’organo di governo di Gaza dal 2007. L’accordo presuppone che il gruppo terrorista sia stato così danneggiato dall’esercito israeliano da non poter più svolgere efficacemente nessuna delle due funzioni. Delinea inoltre rapidi passi per sostituirlo, prima inondando Gaza con gli aiuti umanitari, poi ricostruendo Gaza e installando un nuovo governo sotto l’Autorità Palestinese che ora governa la Cisgiordania.
Ecco dove fa acqua piano di Biden. Prima di tutto, per quanto possa essere stato danneggiato, ancora Hamas non solo è in grado di nuocere ma siccome l’intera struttura gerarchica della Striscia di Gaza dopo tanti anni di governo di Hamas è basata totalmente sul gruppo terrorista, è semplicemente impensabile che Hamas non riesca a infiltrare suoi uomini nei punti di comando della “nuova Gaza”.
In secondo luogo Biden continua a insistere di voler mettere la corrotta Autorità Palestinese al governo della Striscia di Gaza, una soluzione invisa sia a Israele che agli abitanti della Striscia e quindi impraticabile se non si vuole fare la fine del 2007 quando i dirigenti di Fatah volavano giù dai tetti dei palazzi di Gaza. Si era pensato a un “governatorato arabo” gestito da quei paesi arabi che hanno relazioni con Israele. Che fine ha fatto quella proposta? E solo il pensare di mettere nelle mani di Abu Mazen i miliardi della ricostruzione va venire i brividi.
In terzo luogo c’è la questione non da poco della UNRWA alla quale verrebbe affidata la gestione degli aiuti umanitari. Dire UNRWA nella Striscia di Gaza significa dire Hamas. Non esiste un solo palestinese dipendente della UNRWA che non sia stato messo lì dal gruppo terrorista. Lasciare aperta l’agenzia ONU per i palestinesi significa quindi lasciare che Hamas gestisca tutto l’apparato umanitario. Che fine ha fatto l’obiettivo di distruggere completamente il gruppo terrorista palestinese?
Io capisco la necessità elettorale per Biden di chiudere velocemente la faccenda, ma questo accordo salva la vita di Hamas e di tutta la sua struttura, non rende affatto più sicuro Israele e non è detto che restituisca gli ostaggi o quello che rimane di loro. Non credo che si siano fatti quasi otto mesi di guerra per questo.
(Rights Reporter, 1 giugno 2024)
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La capitolazione di Israele che chiede Biden
Il piano in tre fasi articolato ieri da Joe Biden nelle sue modalità essenziali, sei settimane di tregua congiunte a un cessate il fuoco completo e il ritiro di tutte le forze israeliane da Gaza e il rilascio di un numero limitato di ostaggi da pareggiare in ampio esubero con quello di terroristi palestinesi, a cui seguirebbe un negoziato preludente la fase due, ovvero la cessazione permanente delle ostilità con la liberazione di altri ostaggi e quindi l’avviarsi della terza fase la ricostruzione delle zone distrutte di Gaza, non è nulla di nuovo. Si tratta dello stesso canovaccio già presentato al Cairo e il cui esito sarebbe la sconfitta di Israele e la vittoria di Hamas. Nulla in questa bozza, infatti, fa accenno allo scopo fondamentale della guerra, che non è la liberazione degli ostaggi, ma la demilitarizzazione di Hamas a Gaza e il ripristino della sicurezza ai confini di Israele.
Come ha lucidamente evidenziato Jonathan Spyer su The Spectator, “È possibile che la pressione interna delle famiglie degli ostaggi e dei loro sostenitori che giungono fino al gabinetto di guerra, unita alla pressione esterna delle potenze occidentali derivante dall’indignazione per come si presenta la guerra, portino alla fine della campagna militare, lasciando intatto il potere di Hamas. Se così sarà, questo esito conterrà una lezione molto incoraggiante per tutti coloro che desiderano danneggiare le democrazie occidentali”.
Vincere la guerra, per Hamas, come qui non ci siamo mai stancati di ripetere, non significa sconfiggere l’esercito israeliano sotto il profilo militare, compito impossibile per l’esorbitante sproporzione di mezzi a disposizione a favore di Israele, ma restare a Gaza, potere continuare ad avere un ruolo politico nel suo futuro e dunque affermare di avere “resistito” contro “l’entità sionista”.
Per giungere a questo esito, Hamas necessita della garanzia incontrovertibile che Israele lasci Gaza, e che quindi termini la guerra. È la garanzia che la Casa Bianca, appoggiata in maggioranza dalle Cancellerie europee, desidera concedergli.
Netanyahu ribadisce: “La distruzione Hamas resta la condizione”
“Le condizioni di Israele per porre fine alla guerra non sono cambiate: la distruzione delle capacità militari e di governo di Hamas, la liberazione di tutti gli ostaggi e la garanzia che Gaza non rappresenti più una minaccia per Israele”.
Lo ha ribadito oggi il premier Benyamin Netanyahu in un comunicato diffuso dal suo ufficio. “Secondo la proposta, Israele continuerà a insistere sul fatto che queste condizioni siano soddisfatte prima che venga messo in atto un cessate il fuoco permanente. L’idea che Israele accetti un cessate il fuoco permanente prima che queste condizioni siano soddisfatte è un non-inizio”.
ROMA - Micha Ullman è uno scultore israeliano di fama internazionale, autore tra gli altri del memoriale sotterraneo collocato nella berlinese Bebelplatz in ricordo del rogo dei libri compiuto dai nazisti il 10 maggio 1933. Per il Giorno della Memoria del 2004 l’artista realizzò a Roma il monumento di dimensioni ridotte Seconda Casa (Gerusalemme – Roma) su un marciapiede di Piazza di Monte Savello, nelle vicinanze dell’ex ghetto. Si tratta di due case stilizzate in una sorta di clessidra a simboleggiare il legame tra due città faro della società occidentale ma anche le ferite di una relazione talvolta difficile. In particolare il rastrellamento nazifascista del 16 ottobre 1943 e la distruzione della “Seconda casa” per antonomasia dell’ebraismo, il Secondo Tempio di Gerusalemme devastato nell’anno 70 dalle truppe agli ordini di Tito.
Smantellata per errore nel corso dei lavori per il rifacimento del manto stradale, l’opera sarà ripristinata il 5 giugno mattina, con una cerimonia convocata in una data doppiamente simbolica: l’ottantesimo anniversario della liberazione di Roma dall’occupazione nazifascista e il 57esimo anniversario della liberazione e unificazione di Gerusalemme durante la Guerra dei Sei Giorni. La proposta di ripristino in questa data «nasce da un’iniziativa della Comunità ebraica di Roma, in collaborazione con l’assessorato competente, il primo municipio e l’ambasciata israeliana», racconta la storica dell’arte e curatrice Giorgia Calò, direttrice del Centro di Cultura comunitario. «Quale data migliore per testimoniare questo messaggio?». Quella di Ullman è un’opera che Calò conosce molto bene, avendola scelta quale tappa del percorso in sei installazioni in altrettanti musei civici della Capitale di cui si componeva la mostra “Zakhor/Ricorda” da lei curata nel 2023. La memoria «appartiene a tutti noi, è un dovere civico», sottolineava allora. Non a caso nella Torah «l’imperativo ‘zakhor’, cioè ricorda, appare 222 volte: un segno dell’importanza fondamentale di questa attività».
Di Segni: «Noi ebrei mai più al sicuro in nessun luogo. L'antisemitismo ha radici profonde»
La presidente delle Comunità ebraiche italiane: il sentimento generale è di isolamento e diffidenza
- Alle bandiere palestinesi che sventolano dalle finestre delle università da Nord a Sud, da ieri si unisce quella che ha esposto il Comune di Bologna come simbolo dei diritti umani violati. Cosa prova vedendola, presidente Noemi Di Segni? «E' una domanda faticosa», risponde misurando le parole una ad una la presidente dell'Unione delle 21 comunità ebraiche italiane che riuniscono 25 mila ebrei italiani. «Quella bandiera non rappresenta i diritti umani violati ma si identifica con il popolo cui appartiene. Se mi sta chiedendo se vederla in un luogo istituzionale ci fa sentire più abbandonati da questa istituzione, la risposta è sì, certo».
- Potremmo dire che rappresenta una richiesta di pace. «Ma per far la pace ci vogliono due soggetti. Dunque due bandiere. I diritti umani calpestati, nel momento in cui ci sono ancora gli ostaggi ebrei nelle mani di Hamas dopo le stragi del 7 ottobre, riguardano anche gli israeliani e anche gli ebrei italiani. Una visione così unilaterale da un'istituzione italiana non me la sarei aspettata. Vuol dire dare ragione agli uni, i palestinesi, e non agli altri. Così rafforza quella scia di incitamento a odiare "gli altri"».
- L’impressione è che questi mesi siano stati per il senso di isolamento in patria degli ebrei italiani i più difficili dalla fine della Seconda guerra mondiale. Impressione giusta? «Sì, è assolutamente così. Dopo il 7 ottobre prevale la sensazione di essere in grave pericolo, non solo in Italia ma in Europa. Lo choc è stato ed è tale che per la prima volta da quando esiste Israele sentiamo che non esiste un luogo per noi sicuro».
- È cambiato il modo di vivere le relazioni, la vita di tutti i giorni? «Il sentimento generale è di isolamento e diffidenza. A furia di sentire tanto odio scorrere in qualsiasi spazio di dibattito pubblico, dalle televisioni alle università, e distorsioni argomentative, viene spontaneo restare in disparte. Assisto a una sorta di ritirata nelle case, nelle comunità, dove ci si sente almeno capiti. Nei luoghi di lavoro ma anche con le amicizie, si finisce per sentire tanti di quei "sì, ma", quando si parla di Israele e delle sue ragioni, che per evitare rotture dolorose si preferisce tacere, se non addirittura evitare di far sapere che si è ebrei».
- C'è la paura di azioni violente contro di voi? «Purtroppo si, e questo aspetto è seguito con il prezioso supporto delle forze dell'Ordine. Non ci sentiamo più liberi come prima».
- La solidarietà del dopo 7 ottobre che fine ha fatto? «Naturalmente ci sono persone che soffrono con noi e condividono il nostro dolore per la distorsione a cui stiamo assistendo. Ma la maggior parte si colloca su una fascia del: sì, avete sofferto, ma ora anche basta, guardate che succede a Gaza. Nell'illusione che la formale fine della guerra risolva magicamente una situazione così complessa».
- Ecco, Gaza. Come si spiega questa ondata di solidarietà nelle università di tutto il mondo, inclusa l'Italia, per i palestinesi mentre le vittime ebree e gli ostaggi tutt'ora in mano a Hamas sono stati presto dimenticati? «E' il cuore della questione. Il linguaggio del vittimismo usato dai media palestinesi fa breccia più facilmente rispetto a chi ha pudore a mostrare determinate immagini e usa la comunicazione con maggiore rigore come fa Israele».
- Non credo possa trattarsi solo di comunicazione, però. «C'è una radice di odio e antisemitismo latente nella società europea, che in quella italiana si sposa a un certo tipo di cultura caritatevole cattolica che tende ad avvicinarsi a chi mostra di soffrire di più. Anche questo Hamas lo sa bene e fa leva su questi sentimenti. Agli occhi del mondo Israele non avrebbe dovuto reagire, dopo il 7 ottobre, ma limitarsi a trattare per la liberazione degli ostaggi. Tornando sostanzialmente al 6 ottobre».
- Dunque sempre lì si torna, all'antisemitismo mascherato da difesa dei più deboli? «E' una radice profonda anche nella società italiana. E il multiculturalismo degli ultimi decenni, con l'arrivo di molti musulmani, se da un lato pone la sfida del pluralismo culturale che come comunità abbiamo voluto sostenere e partecipare, ha favorito anche la presenza di nuovi integralismi. Come Comunità ebraiche in questi anni abbiamo fatto un lavoro importante con la Comunità musulmana sul tema che ci accomuna della libertà religiosa. Sono sicura che anche loro non vogliano la vittoria di Hamas o la loro presenza comandata dall'Iran qui, e quindi condividano con noi il significato della parola terrore: rivolgo loro un appello perché lo dicano chiaramente».
- Stavamo dicendo delle proteste nelle università. «Negli atenei pochi studenti sul totale, e molti non sono neppure studenti, stanno stravolgendo gli istituti rappresentativi nati per favorire il confronto, per impedirlo e promuovere obiettivi totalmente diversi da quelli acclamati. Ancora più grave che partecipino anche i professori, da cui ci aspetteremmo rigore accademico nell'affrontare questioni così delicate. Perché un conto è la critica politica al governo di Israele, altro negargli il diritto di esistere e l'uso di slogan».
- E la politica, presidente Di Segni? La sinistra sembra aver lasciato alla destra la difesa della causa ebraica: immagino che per molti elettori ebrei di centrosinistra sia un motivo di ulteriore spaesamento. «Vede, la guerra al nazifascismo ha visto combattere fianco a fianco resistenza e brigate ebraiche. Poi il lungo percorso condotto insieme nel dopoguerra sui valori. Ecco, oggi ci aspetteremmo che la sinistra guardasse con la stessa lucidità al terrorismo, che sapesse analizzare in modo corretto il pericolo che corre Israele. Invece prevale la richiesta unilaterale di pace, come se dovesse farla solo Israele. Da destra sono arrivate espressioni di sostegno molto più lineari ed esplicite, va detto. Non penso, sia chiaro, che chi chiede il cessate il fuoco sia antisemita, ma se demonizza Israele per ogni cosa e associa alla stessa comportamenti genocidi allora sì, questo è antisemitismo, non aiuta a risolvere problema, e non aiuta neanche gli stessi palestinesi».
- Il governo Netanyahu è per voi a sua volta motivo di imbarazzo? «In Israele è stato creato un gabinetto ristretto di guerra che vede la partecipazione anche dell'opposizione nel cui operato dobbiamo avere fiducia, questo vale per le scelte su Rafah e per lo sforzo per liberare gli ostaggi. Dire che oggi non ci sono le condizioni per la pace, per un futuro di convivenza con uno Stato palestinese, non vuol dire voler annientare tutti i palestinesi».
- Non mi ha risposto però: la politica di Netanyahu imbarazza gli ebrei italiani? «Premesso che non esiste una posizione unica su questo degli ebrei italiani, io penso che in questo momento dobbiamo essere vicini a Israele. Si soffre insieme per i nostri destini incrociati e questo non vuol dire condividere ogni esternazione e scelta di un governo eletto per realizzare la faticosa missione di essere Stato ebraico».
Mi capita spesso in questi giorni di pensare che negli anni Trenta, quando furono pubblicate le leggi razziali, i miei nonni avevano l’età dei miei figli oggi. Ho immaginato spesso mio nonno Cesare trentenne, che gira per i villaggi delle Marche mentre stringe la manina di mia madre di sette anni, alla quale ha intimato di non rivelare mai di essere ebrea, per barattare stoffe e fili da ricamo del suo negozio di via Palestro, con qualche uovo o una pagnotta. O nonno Anselmo, quarantenne, che il 16 ottobre del 1943 carica la moglie, mia nonna Angelica e tre figli adolescenti, su un carretto per andare in cerca di un posto dove fuggire, dove nascondersi, per essere accolti in un convento o in qualche cascina. Trascorsero lunghi mesi di fame, di freddo, di odore di fieno, di chicchi di grano bruciati in qualche campo dove erano passati subito dopo la mietitura e mangiati con gusto insieme a qualche goccia di latte appena munto, prima di tornare nelle loro case romane a via della Reginella e su Ponte Sisto. Come tutti gli altri ebrei d’Europa, i miei nonni furono colti di sorpresa dall’ascesa e dal dilagare di un odio viscerale e irrazionale che devastò la loro vita. I trentenni e i quarantenni d’Israele non fuggono, non si nascondono. Non più. Sono ancora pochi contro tanti, contro tantissimi. Si chiedono ancora “perché” ma non aspettano la risposta, combattono. Combattono sul campo, combattono per mantenere la democrazia e lo spirito di questo Paese, combattono per mantenere le loro famiglie in uno dei periodi più difficili della storia d’Israele, dove ogni settimana sale il prezzo del latte, del pane e delle uova. Molti di loro sono lontani dalle loro case da quasi otto mesi, con scuole e asili improvvisati, missili lanciati e attentati non-stop che provengono da tutti i confini del Paese. I miei nonni non si diedero per vinti e al loro ritorno ricominciarono tutto da capo perché così è il nostro spirito. Israele cade e risorge, si alza dalle ceneri e inventa la chiavetta per il computer, l’irrigazione a goccia e l’Iron Dome. Non si arrende alla prepotenza, al potere, al razzismo e all’odio gratuito. Israele combatte e si difende e senza cancellare nessuna pagina continua scrivere la sua storia anche se è stanca, anche se è stufa di raccontare ai suoi bambini ogni anno, nel mese di Adar, che in Persia volevano impiccare tutti gli ebrei e nel mese di Nissan che in Egitto li avevano resi tutti schiavi. Anche se non se ne può più di correre nelle camere blindate quando gli altoparlanti gridano “Zeva Adom!” (Colore rosso!) o quando il suono delle sirene ti perfora il cuore e ti confonde l’anima. No, non vogliamo la guerra, non l’abbiamo mai voluta, ma il mondo deve capire che non abbiamo più paura né delle bugie che vengono diffuse su di noi né delle minacce e della violenza che imperversa nelle università, sugli schermi, nei social e nei discorsi al bar. Dicono che abbiamo l’esercito più forte del mondo… è vero, perché è un esercito animato dalla forza della disperazione, dalla consapevolezza che la storia si ripete scelleratamente, che l’umanità si rifiuta di imparare. Quindi non abbiamo altra scelta e come disse Herbert Pagani parafrasando Cartesio: «Mi difendo quindi sono!».
(moked, 31 maggio 2024) ____________________
Cara Angelica, leggo il tuo ammirevole articolo pochi minuti dopo che un fiero nemico di Israele mi ha rinnovato per email (l’aveva già fatto altre volte) l’esposizione dei suoi inossidabili giudizi antisionisti criticando, anzi demolendo, le posizioni pro Israele del nostro sito. Sembra soddisfatto. Citazione: «E’ cambiato il vento: Israele e tutti i suoi fan e sostenitori devono difendersi e giustificarsi per crimini orribile che TUTTO il mondo vede, giudica, e condanna ... Mi decido a scriverle queste righe che sono di semplice critica di posizioni che ritengo assurde contrarie a ogni idea di diritto, religione, logica... ma aggressive nella misura in cui accompagnano le bombe che stanno cadendo su Gaza uccidendo donne e bambini... No! Per favore... Non mi sciorini il 7 di ottobre, Hamas e simili cose tipiche dell'Hasbara…» Capito il riferimento all’Hasbara? Ormai qualunque prova voi ebrei presentiate a vostra difesa, per molti sarà sempre una nuova prova contro di voi, perché se sembra vera sarà la conferma di quanto bugiardi siete capaci di essere. Consiglio pratico a Israele: non cerchi di diffondere altri video orripilanti sul 7 ottobre: non servono. A chi ha già espresso la volontà di vedervi sparire dal mondo si può opporre soltanto,
come ha fatto Angelica
Angelica raccoglie le mele del kibbutz Sassa ad un passo da Hezbollah con la pistola alla cintola
, la ferma volontà di voler continuare ad esserci, in questo mondo.
E così avverrà, “Non per potenza né per forza, ma per lo spirito mio, dice l'Eterno degli eserciti” (Zaccaria 4:7). Il problema di Israele riguarda Dio, dunque riguarda tutti: ebrei e gentili. Guai a chi pensa di poterlo trascurare, sia egli ebreo o gentile. M.C.
Centinaia di milioni di shekel rubati da Hamas dalle filiali bancarie di Gaza
Lo rivela l’IDF
di Michelle Zarfati
Il portavoce in lingua araba delle Forze di difesa israeliane, il tenente colonnello Avichay Adraee, ha diffuso mercoledì un documento di Hamas, che mostra come l’organizzazione avesse pianificato di rapinare le casseforti delle banche di Gaza. Un mese dopo dal massacro del 7 ottobre, centinaia di milioni di shekel sarebbero stati rubati da Hamas dalle filiali bancarie della Striscia di Gaza. “Stiamo rivelando un documento scritto da un alto funzionario di Hamas, che mostra che in seguito alle difficoltà finanziarie di Hamas durante la guerra, i terroristi dell’organizzazione hanno fatto irruzione nelle filiali della Banca di Palestina a Gaza rubando oltre 400 milioni di shekel”, ha detto Adraee in un video pubblicato sul suo account X.
“All’inizio di febbraio, i terroristi di Hamas hanno minacciato il personale della Banca di Palestina nel quartiere Rimal di Gaza City, intimando loro di non prelevare i contanti dalle casseforti della banca. Il 16 aprile hanno rubato centinaia di milioni di shekel dalla filiale. Due giorni dopo , hanno fatto irruzione in un’altra filiale a Gaza City e hanno rubato decine di milioni di shekel. Il 19 aprile, i terroristi hanno commesso un’altra rapina presso la filiale principale della banca a Gaza City, rubando centinaia di milioni di shekel”, ha continuato Adraee. “Cosa diranno gli abitanti di Gaza, che diventano ogni giorno più poveri a causa delle sanguinose battaglie di questi tiranni assassini di bambini? Hamas deruba senza vergogna i cittadini della Striscia di Gaza per sopravvivere e finanzia i suoi terroristi attivi sulle spalle e sulle tasche degli abitanti della Striscia di Gaza”, ha concluso il portavoce.
Circa un mese e mezzo fa, il Ministero della Difesa e l’IDF hanno trasferito 12 milioni di shekel alla Banca di Israele, che sono stati successivamente sequestrati nelle roccaforti terroristiche nella Striscia di Gaza. Questa somma si aggiunge ai circa 17 milioni di shekel sequestrati nella Striscia di Gaza dall’inizio della guerra e depositati con una procedura simile presso la Banca d’Israele. L’organismo responsabile della localizzazione del denaro è la Direzione tecnologica e logistica dell’IDF (TLD), che ha confiscato e localizzato i fondi terroristici nella Striscia di Gaza.
Il processo di conteggio del denaro ha avuto luogo nella base di Tzrifin ed è durato circa cinque ore. Sul posto erano presenti il capo del dipartimento delle Finanze del Ministero della Difesa, i comandanti del Dipartimento delle Pubbliche Relazioni, il vice contabile generale del Ministero delle Finanze e altri rappresentanti che hanno supervisionato il processo. Alla fine, il denaro è stato messo in apposite buste e un camion della “Brinks” è arrivato sul posto e ha trasferito il denaro per essere depositato presso la Banca d’Israele.
Canada, spari contro una scuola ebraica: la seconda in una settimana
Le forze dell’ordine di Montreal stanno indagando nella ricerca dei possibili responsabili che nella notte di lunedì hanno sparato dei proiettili contro la Belz School, una scuola ebraica situata nel quartiere Côte-des-Neiges–Notre-Dame-de-Grâce.
Si tratta del secondo colpo d’arma da fuoco contro una scuola ebraica canadese in una settimana. La penultima risale al 25 maggio, a Toronto, dove a rimanere colpita è stata la scuola femminile Bais Chaya Mushka. Fortunatamente in entrambi i casi, nessuno è rimasto ferito.
• Ignorate le precedenti richieste sulla sicurezza fatte alle autorità Come menzionato dal Jerusalem Post, Yair Szlak, presidente della federazione ebraica CJA e Eta Yudin vice-presidente del CIJA, Canadian Jewish Advocacy, hanno chiesto un’azione decisiva da parte dal sindaco di Montreal Valérie Plante per porre fine ad un atteggiamento di permissività nei confronti dell’antisemitismo che è venuto a crearsi in città: «Ne abbiamo già avuto abbastanza. Un altro sparo di proiettili in una scuola ebraica in Canada. Pur non essendo a conoscenza di una specifica minaccia contro la comunità ebraica, ricordiamo a tutti di mantenere la dovuta vigilanza».
Plante ha poi affermato attraverso i social media, che a Montreal non c’è posto per l’antisemitismo e che è inaccettabile che sia stata presa di mira una scuola ebraica.
Più volte la JCC ha invitato le autorità canadesi ad attivarsi per vigilare sulla sicurezza, ma più volte è stata ignorata dei responsabili a livello comunale, provinciale e statale.
«Chiediamo una risposta rapida e completa da parte del governo canadese, del governo del Quebec e della città di Montreal, in modo che gli ebrei di Montreal possano di nuovo sentirsi al sicuro andando a scuola, frequentando la sinagoga e svolgendo la loro vita quotidiana”, ha dichiarato il JCC – Jewish Community Council of Montreal.
• L’antisemitismo non deve vincere Nella giornata di mercoledì 29 maggio Justin Trudeau, Primo Ministro del Canada, ha dichiarato:«Sono disgustato che un’altra scuola ebraica è stata bersaglio di un attacco di proiettili. Sono sollevato dal fatto che nessuno è stato ferito, ma penso ai genitori e ai membri della comunità di Montreal che devono essere incredibilmente scossi. Questo è antisemitismo, chiaro e semplice, e non lo lasceremo vincere». Dopo l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023 si è assistito in Canada ad un aumento spaventoso dell’antisemitismo, anche attraverso attacchi alle istituzioni.
Mercoledì scorso un ventenne di nome Abdirazak Mahdi Ahmed è stato arrestato per avere sparato il 12 novembre 2023 alla scuola Yeshiva Gedola-Merkaz Hatora in Deacon Road a Montreal. Poco prima, il 9 novembre dei proiettili avevano colpito la stessa scuola e a pochi minuti di distanza un altro istituto scolastico ebraico della zona, il Talmud Torah situato in St-Kevin Avenue.
La lobby americana anti-Israele al Congresso e nelle Università
di Piero Di Nepi
C’era una volta, negli USA, la cosiddetta Jewish Lobby, la “lobby ebraica”. Ma la premessa favolistica è d’obbligo. Infatti non è mai esistita, se non nei peggiori e più tradizionali luoghi comuni diffusi da non pochi corrispondenti della grande stampa e delle TV, e comunque trasformata in materia di fede grazie a tutto ciò che fu conosciuto e riconosciuto come “stupidità di sinistra” già al tempo della Guerra dei sei giorni e poi nei decenni post-Sessantotto. Strumento di propaganda antiebraica finché furono in vita l’Unione Sovietica e il Patto di Varsavia, utilissimo anche per i peggiori regimi arabi feudali o nazional-fascisti fornitori di ideologie e di petrolio.
Da molti mesi i principali quotidiani liberal della East Coast come anche di tutta l’America che comanda davvero da Chicago alla California, dunque la tradizione “bianca, anglosassone, protestante” cioè WASP, aprono in prima pagina con foto da Gaza giustamente scioccanti. Perciò nessuno dovrebbe stupirsi se l’orientamento di quelli che contano, votano e decidono ha virato in senso apertamente anti-Israele. È il nuovo pensiero unico, e a confortarlo e sostenerlo non potevano mancare, e infatti non mancano, gli ebrei che si adeguano. Sempre in prima fila e sempre evidenziati da cartelli e stelle a sei punte, si sono affrettati a procurarsi un posto nelle tende dei campus accanto alle bandiere ormai celebrate dei cosiddetti pro-Pal. Mentre altri ragazzi e professori con o senza kippà restavano a casa, vivamente sconsigliati dal recarsi nelle aule di università prestigiose per premi Nobel (spesso ebrei) e assai ben finanziate con il sostegno di alunni ebrei pure loro, i quali forti di lauree importanti hanno fatto fortuna trasformandosi in donors devoti e fedelissimi.
Francamente tutto ciò non stupisce, e senza azzardare paragoni sconfortanti si possono evocare vicende già accadute durante gli anni Trenta del secolo passato. Un paragone che tuttavia non spiega nulla, poiché certo non c’erano ebrei nei picchetti berlinesi delle SS. La perplessità assoluta dovrebbe nascere invece, forse, di fronte al silenzio apparentemente inesplicabile della più grande collettività ebraica della diaspora. E per le reazioni flebili, al limite della inconsistenza. Probabilmente saremo smentiti. Magari. Nel solo Stato di New York gli ebrei sono duemilioniduecentomila, e complessivamente negli USA circa 7.6 milioni ovvero il 2.4% della popolazione.
Come sempre c’è dietro una storia, e occorre almeno accennarla. Arrivando in un Paese di immigrati, gli ebrei dell’est russo e polacco avevano lasciato dietro di sé il nulla. Per tutti gli altri, e soprattutto gli italiani e gli irlandesi, c’era invece una terra d’origine e una vera patria. Esattamente ciò che di nuovo accadde anche negli anni della guerra fredda, quando gli ebrei arrivarono a centinaia di migliaia negli States. L’Unione Sovietica si era infatti arresa alla campagna Scelach et amì/Lascia andare il mio popolo lanciata dai movimenti studenteschi ebraici in Europa e nel mondo. Non tutti scelsero la terra dei padri. Israele per la diaspora nordamericana non è baluardo né certezza. Se ne avvertiva e se ne sospetta tuttora la possibile precarietà. Tutti sapevano fin dal tempo della crisi di Suez, era il 1956, che gli interessi dello Stato ebraico non coincidono con quelli strategici di Washington e che la vera lobby, quella del petrolio, orienta la politica estera con il sostegno dei regimi arabi e musulmani. Come si è visto con chiarezza quando la vendetta per la distruzione delle Twin Towers colpì l’Afghanistan dei talebani, colpevoli all’epoca soltanto di vuota propaganda antioccidentale e di ospitare il clan miliardario degli esiliati arabi a marchio Osama bin Laden. Gli ebrei americani soffrono ormai di una sorta di ansia esistenziale, si sentono indifesi.
Il nuovo islamismo made in USA appare invece fortemente consapevole di essere sostenuto da una massa di 1.500 milioni di individui in decine di paesi. Certamente non è condizionato dall’eredità del tempo degli schiavi, e quindi le attuali ondate di cortei antiebraici-antisionisti hanno un background ben diverso rispetto alle provocazioni isolate dei Black Panthers e dei Black Muslims nei tardi anni Sessanta.
L’antisemitismo è devastante, è un fiume sotterraneo, carsico, che emerge in superficie quando le circostanze storiche o sociali sembrano in qualche modo legittimarlo. Così affermano personalità molto autorevoli della politica e della cultura. Ma si dovrebbe ormai sostituire il termine “antisemitismo” con la locuzione “odio antiebraico”, soprattutto per non dover ascoltare la solita e abusata litania: “anche gli arabi sono semiti”. Il problema ormai nasce nell’Islam collettivo, dall’Atlantico fino al Pacifico e attraversa l’Iran terra d’origine, per etimologia universalmente accettata, dei cosiddetti ariani. Peraltro, in Italia, due presidenti della nostra Repubblica nata dalla Resistenza (quella unica e vera) hanno detto senza ambiguità che antisionismo equivale esattamente ad antisemitismo. Di fronte a certi striscioni visti nelle piazze occorre ribadire l’assioma, finché si è in tempo.
Una frase molto nota recita: Va dove ti porta il cuore. Questo, in qualche modo, ci porta alla Parashà di questa settimana, la Parashà di Bechukkotai (Vayikra 26:3-27:34). Nel primo versetto della nostra Parashà è scritto: “Se seguirai le Mie leggi e osserverai fedelmente i Miei comandamenti, ti concederò le piogge nella loro stagione…” Questa è la traduzione comune di questo versetto di apertura, ma una traduzione più letterale non dovrebbe iniziare con “Se seguirai le Mie leggi”, bensì con “Se camminerai secondo le Mie leggi”. La maggior parte dei traduttori sceglie comprensibilmente, in questo contesto, la parola “seguire” invece del letterale “camminare”. Il Midrash, tuttavia, adotta un approccio diverso usando la parola “cammino” nella traduzione letterale e lo collega alla frase riportata nei Tehillim (119:59) che recita: “Ho considerato le mie vie e ho rivolto i miei passi ai Tuoi decreti“. Dopo aver collegato il versetto all’inizio della nostra Parashà con questo versetto dei Tehillim, il Midrash continua, mettendo queste parole sulla bocca del re Davide: “Signore dell’universo, ogni giorno desidererei andare in questo e in quel posto, o a questa o quella dimora, ma i miei piedi mi porterebbero alle sinagoghe e agli studi, come è scritto: “Ho rivolto i miei passi ai Tuoi decreti”».
Molto prima che questo Midrash fosse composto, ma anche molto tempo dopo la vita di re Davide, il Talmud ricorda che il saggio Hillel disse: “Nel luogo che amo, è lì che i miei piedi mi guidano“. (Sukkà 53a)
La lezione è chiara. Il nostro inconscio conosce molto bene le nostre autentiche preferenze interiori, tanto che, qualunque siano i nostri piani coscienti, i nostri piedi ci portano nel luogo in cui vogliamo veramente essere. Per qualcuno, ad esempio, questo luogo potrebbe essere, quando andiamo a visitare una nuova città, il desiderio di vedere le antiche rovine, i musei, i palazzi e il Parlamento. Per altri il proprio io interiore potrebbe dare istruzione ai piedi di indirizzarli verso le vecchie librerie ammuffite dove è possibile curiosare a proprio piacimento, o in parchi rigogliosi fuori dai sentieri battuti dal turismo di massa dove si possono osservare i bambini che giocano.
Questo Midrash interpreta la frase di apertura della nostra Parashà, “Se camminerai secondo le Mie leggi”, come indicativo del desiderio della Torà che l’uomo possa interiorizzare completamente le leggi di D-o in modo che diventino il suo scopo principale nella vita. Anche se inizialmente definiamo il viaggio della nostra vita in termini di obiettivi molto diversi, si spera che le leggi di D-o diventino la nostra destinazione finale. Ci sono numerosi altri modi suggeriti dai commenti nel corso dei secoli per comprendere la frase in senso letterale: “Se camminerai secondo le Mie vie”. Rabbi Chaim ibn Atar, il grande autore dell’ Or haChaim, enumera non meno di 42 spiegazioni solamente per questa frase. Molte delle sue spiegazioni, sebbene non identiche a quella del Midrash che abbiamo citato precedentemente, sono coerenti con esso e ci aiutano a comprenderlo più profondamente. In uno di questi commenti, ad esempio, scrive che usando il verbo “camminare”, la Torà ci suggerisce che a volte è importante, nella vita religiosa, lasciare il proprio “ambiente familiare”. Bisogna “camminare”, intraprendere un viaggio verso un luogo lontano, per realizzare pienamente la propria missione religiosa. È difficile essere innovativi, è difficile cambiare, senza lasciare la propria “comfort zone”. L’Or haChaim ci lascia anche con la seguente profonda intuizione, basata su un passaggio nel libro delle fonti della Kabbala, lo Zohar: “Gli animali non cambiano la loro natura, non sono ‘camminatori’. Gli esseri umani, al contrario, sono “camminatori”, in quanto cambiamo continuamente le proprie abitudini, ‘allontanandoli’ da una condotta vile verso una condotta nobile, e da livelli di comportamento inferiori a comportamenti superiori. ‘Camminare’, progredire, è la nostra stessa essenza , la vera essenza dell’essere umano“
La locuzione “camminare” è quindi una potente metafora di ciò che siamo. Pertanto, non c’è da stupirsi che questa parte finale del Libro di Vayikra inizi con questa particolare scelta di parole. Tutta la vita è un viaggio e, nonostante le nostre intenzioni, in qualche modo arriviamo a Bechukotai, “le Mie leggi”, così concludiamo il nostro viaggio attraverso questo terzo libro della Torà con queste parole: “Questi sono i comandamenti che il Signore diede a Moshè per il popolo d’Israele sul monte Sinai“.
La nostra Parashà rappresenta quindi come finale del libro di Vayikra un insegnamento molto importante. Se il libro di Vayikra è chiamato Torat Kohanim, perché perlopiù incentrato sulla costruzione del Mishkan, sui sacrifici e sul lavoro dei Kohanim e dei Leviim, la Parashà di Bechukkotai racchiude, nella prima parte, la promessa di D-o, con una seconda parte di ammonimenti per insegnarci che nonostante tutto abbiamo la promessa che D-o non ci abbandonerà. Il cammino che idealmente dobbiamo intraprendere e che è rappresentato bene in questa Parashà, la crescita personale, può avere degli inciampi, dei momenti di difficoltà, ma non è mai troppo tardi per rimettersi sulla strada giusta, per camminare secondo “i Miei decreti”, per realizzare la promessa di D-o riportata nella Parashà di Yitro: “In ogni luogo in cui ricorderai il Mio Nome, verrò da te e ti benedirò“. Interiorizzare questi concetti, osservare le mitzvot, fare atti di chesed, di giustizia, vivere una vita guidata da valori giusti, rappresenta quello cui tutti dobbiamo anelare, per la nostra crescita personale e per essere meritevoli di sempre più berachot.
L'IDF e l'UNIFIL coordinano le attività al confine israelo-libanese
L'idea di dispiegare una forza internazionale per aiutare a rendere sicura Gaza e affrontare Hamas è irta di sfide e i precedenti storici indicano il ricorrente fallimento di tali iniziative.
Una versione dell'idea esplorata negli ultimi mesi dal Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant è quella di una forza araba multinazionale guidata dagli Stati Uniti. L'idea non sembra aver attirato finora alcun Paese volontario.
Gli esempi storici e le realtà attuali a Gaza illustrano perché una tale missione sarebbe probabilmente inefficace nel migliore dei casi, o finirebbe per ostacolare le operazioni delle Forze di Difesa israeliane nel peggiore.
Il Magg. Gen. (ris.) Yaakov Amidror, ex consigliere per la sicurezza nazionale del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e ricercatore senior presso l'Istituto di Gerusalemme per la strategia e la sicurezza, ha fornito una prospettiva sulle esperienze passate con le forze ONU in Medio Oriente.
"C'è una lunga storia di forze ONU in Medio Oriente, e forse l'esempio più significativo è quello dell'UNIFIL in Libano", ha dichiarato al JNS. "La forza non è mai riuscita a riferire adeguatamente su ciò che accadeva sul campo", ha detto l'ex direttore della Divisione Analisi dell'Intelligence militare dell'IDF.
L'incapacità dell'UNIFIL di monitorare e riferire sulle attività di Hezbollah, per non parlare dell'applicazione della Risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che vieta a Hezbollah di operare nel sud del Libano, è un precedente difficile da ignorare quando si esamina il contesto di Gaza.
"Secondo le Nazioni Unite, nessuna arma di Hezbollah ha mai raggiunto il Libano meridionale", ha dichiarato Amidror. "Inoltre, anche quando si è verificata una rivendicazione, la forza armata non è mai riuscita a verificarla, perché nella maggior parte dei casi non è stata autorizzata ad entrare nei luoghi sospetti", ha aggiunto.
Tali restrizioni ostacolano gravemente la capacità delle forze internazionali di svolgere efficacemente i loro compiti".
Amidror ha sottolineato che la Guerra dei Sei Giorni è iniziata nel 1967 dopo che le Nazioni Unite hanno deciso di ritirare le proprie forze da Gaza in un momento critico, evidenziando l'inaffidabilità delle forze internazionali nel mantenere la sicurezza durante i periodi di instabilità.
"Secondo tutte le esperienze in Medio Oriente, le Nazioni Unite sono al massimo un organo di collegamento tra le parti, ma non hanno mai risolto un problema o permesso una supervisione in modo tale da poter agire", ha affermato.
Inoltre, l'introduzione di forze internazionali ha un impatto negativo su Israele più di quanto non lo abbia sui nemici di Israele.
"Quando le Nazioni Unite sono sul campo, ostacolano Israele più di quanto non faccia l'organizzazione terroristica che le sta di fronte. Israele deve tenere conto della forza delle Nazioni Unite, mentre l'organizzazione terroristica può ignorarle e persino ostacolare la forza internazionale nell'adempimento del suo ruolo, fino a uccidere i suoi soldati", ha affermato.
Questa dinamica sarebbe particolarmente problematica a Gaza, dove Hamas può sfruttare la presenza di forze internazionali a suo vantaggio, ostacolando le operazioni dell'IDF e usando le forze internazionali come copertura, ha ammonito.
"Di conseguenza, la presenza delle Nazioni Unite è molto negativa dal punto di vista della sicurezza dello Stato di Israele, e non solo non aiuta, ma è dannosa", ha spiegato.
Il professor Eyal Zisser, vice rettore dell'Università di Tel Aviv e titolare della cattedra di storia contemporanea del Medio Oriente, ha osservato che le forze internazionali tendono a essere dissuase dall'affrontare le forze terroristiche locali come Hezbollah o Hamas.
Le forze multinazionali "non hanno un mandato chiaro per combatterle [le fazioni terroristiche]; il loro mandato generale è quello di mantenere la calma lungo il confine", ha dichiarato. Ciò mette in forte dubbio la capacità delle forze internazionali di affrontare il radicamento di Hamas a Gaza o i futuri attacchi del gruppo terroristico.
Zisser ha evidenziato un'altra questione critica: la riluttanza dei Paesi che inviano truppe a subire perdite.
"I Paesi che hanno inviato le forze non vogliono perdite e perdite, che porterebbero a critiche interne", ha spiegato. Questa avversione al rischio porta a un approccio cauto che mina l'efficacia operativa delle forze.
Inoltre, secondo Zisser, le forze sono spesso dispiegate per un periodo limitato e non hanno l'impegno a lungo termine necessario per raggiungere una sicurezza duratura.
La natura temporanea dei dispiegamenti internazionali fa sì che i comandanti e i soldati sul campo siano riluttanti a impegnarsi a fondo nelle complessità del conflitto. Di conseguenza, "di solito cercano intese con gli elementi locali per garantire la calma a entrambe le parti", ha dichiarato al JNS.
"Se Israele elimina Hamas e ci sarà solo un vuoto, è una cosa, ma se Hamas rimane sul terreno ed è armato, è una questione diversa", ha detto.
Ha anche sottolineato le difficoltà intrinseche nel coordinare una coalizione di Paesi per tali missioni.
"Una coalizione di Paesi è più difficile da mobilitare di un solo Paese. È sufficiente che la Giordania, ad esempio, decida di voler combattere Hamas, per far crollare l'intera struttura".
La mancanza di coesione e di uno scopo unitario tra le forze internazionali ne diminuisce ulteriormente l'efficacia.
"In breve, tutto dipende da Israele. Nessuno smantellerà Hamas al posto nostro", ha concluso. Anche lui ha avvertito che le forze internazionali creeranno nuovi problemi, perché "quando saranno lì, Israele non sarà in grado di danneggiare Hamas, che si nasconderà accanto a loro".
Uno sguardo al Libano sembra confermare questi dubbi.
L'Alma Center, specializzato nelle sfide alla sicurezza nell'arena settentrionale, ha osservato in un rapporto del dicembre 2023 che Hezbollah utilizza spesso l'UNIFIL, così come le Forze armate libanesi, come scudi umani.
"Hezbollah spera che il fuoco di rappresaglia dell'IDF danneggi lo scudo umano, limitando l'attività dell'IDF e aumentando la pressione internazionale su Israele", secondo il centro.
Le forze internazionali a Gaza probabilmente sarebbero sfruttate da Hamas proprio nello stesso modo.
(Israel Today, 30 maggio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
«L’Unrwa sostiene i terroristi. Israele la dichiara fuorilegge»
di Amedeo Ardenza
Lo Stato Maggiore dell'UNRWA a Gaza nascondeva un centro di comando e controllo dei terroristi di Hamas. Per questo la Knesset ha votato un disegno di legge per definire l'agenzia Onu come "organizzazione terrorista". Non è ancora un atto ufficiale. Ma rispecchia la realtà. La stessa valutazione deve essere allargata all'intera Onu: gli Stati democratici dovrebbero abbandonare le Nazioni Unite, lasciandole agli Stati terroristi e creare una nuova organizzazione solo per le democrazie. Quale sarà il primo Stato a proporlo?
È guerra aperta fra Israele e l’Onu. Il che non sarebbe una notizia: da decenni le Nazioni Unite si sono trasformate in un “risoluzionificio” per produrre condanne su condanne dello e contro lo Stato ebraico. Un esercizio in cui le larghe maggioranze di Paesi arabi e musulmani, non allineati, filorussi, filocinesi o semplicemente antiamericani finiscono per prevalere su ogni logica.
Gli esempi non mancano: nel 1975 l’Assemblea generale definì il sionismo, la dottrina politica che crede nel diritto degli ebrei all’autodeterminazione politica, una forma di razzismo: lo stesso si sarebbe potuto dire del Risorgimento. Solo nel 2023 l’Assemblea generale ha adottato 21 risoluzioni di condanna: 14 per censurare lo Stato degli ebrei e le altre sette per il resto del mondo (una a testa per Corea del Nord, Iran, Siria, Myanmar, Stati Uniti e due contro la Russia) mentre la decisione con cui la Corte internazionale di giustizia (Cig) - il braccio giurisdizionale del Palazzo di Vetro - ha accusato Israele di essere vicino a sterminare i palestinesi è di appena qualche settimana fa.
• ELETTRICITÀ NEI TUNNEL
Ieri però Israele ha risposto per le rime e nel suo stile molto assertivo lo ha fatto sparando ad alzo zero: mercoledì la Knesset, il Parlamento monocamerale dello stato ebraico, ha approvato in prima lettura un disegno di legge per definire l’Urnwa un’organizzazione terrorista.
Cos’è l’Unrwa? Un’agenzia dell’Onu dedicata alla tutela, la conservazione e la moltiplicazione dei soli rifugiati palestinesi. Più rifugiati ci sono e più cresce il bilancio dell’Unrwa, fra i cui scopi non c’è l’integrazione degli stessi rifugiati nei Paesi ospitanti. Bizzarrie dell’antisionismo onusiano: i profughi di qualsiasi altra origine devono accontentarsi dei servizi dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur). Ma mentre nessuno si lamenta dell’Acnur, la letteratura giornalistica gronda notizie di docenti dell’Unrwa che insegnano ai bambini a odiare Israele e gli ebrei, di dipendenti dell’agenzia che ora online ora in prima persona partecipano ad azioni contro Israele, a scuole dell’Unrwa trasformate da Hamas in depositi di munizioni protetti dal logo dell’Onu.
Lo scorso 10 febbraio, un tunnel lungo 700 metri e profondo 18 usato dall'intelligence militare di Hamas è stato rinvenuto sotto il quartier generale dell’Unrwa a Gaza. L’agenzia ha sempre proclamato la sua neutralità politica ma l’elettricità a quel tunnel, scrive il Jerusalem Post, arrivava proprio dalla sede Unrwa.
Ieri con 42 voti contro 6 i deputati israeliani hanno detto basta. Nota politica non irrilevante, il disegno di legge non è stato presentato da alcun esponente della maggioranza fra il Likud di Benjamin Netanyahu, i partiti religiosi e nazionalisti religiosi, ma dalla deputata Yulia Malinovsky del partito laico e russofono Yisrael Beitenu. Se il provvedimento sarà approvato in via definitiva – in Israele sono necessari tre passaggi in aula – «la legge antiterrorismo si applicherà anche all’Unrwa, Israele cesserà successivamente tutti i legami con l'agenzia e le attività dell'organizzazione nel territorio israeliano saranno chiuse», spiega ancora il JPost.
Agli israeliani ha risposto il capo della diplomazia dell’Ue, Josep Borrell, reduce da un incontro con il commissario dell’agenzia, Philippe Lazzarini. «L’Ue respinge ogni tentativo di designare l’Unrwa come un'organizzazione terroristica». Su X Borrell ha scritto che Lazzarini gli ha riferito di una situazione umanitaria tragica a Gaza e di come l’Unrwa «rimane un’ancora di salvezza indispensabile per i palestinesi».
• ULTIMATUM A NETANYAHU
Sul piano politico continuano i mal di pancia interni alla maggioranza dopo che l’ex capo di stato maggiore e ministro del gabinetto di guerra Gadi Eisenkot ha criticato Netanyahu accusandolo di non riuscire a governare il Paese né di saper riportare la sicurezza. Eisenkot e l’altro ex generale centrista Benny Gantz hanno minacciato di togliere l’appoggio esterno al governo l’8 giugno se il premier non darà dei segnali di cambio di rotta politica. Sul piano militare, infine, le Israel Defense Forces (Idf) hanno affermato di aver ucciso il capo della logistica della polizia di Hamas, Salama Baraka, a Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza.
Sderot, dalla nostra inviata. Le strade sono vuote, si alza il vento e la sabbia entra nei rifugi messi qua e là, vicino alle fermate degli autobus, ai parchi giochi, sono colorati di blu, abbelliti con l’immagine di qualche animale, che per quanto sia stato disegnato con gli occhi grandi e amichevoli, non riesce a regalare grazia a questi blocchi di cemento. Sderot a essere bella neppure ci prova, ovunque ci sono edifici in costruzione e visto il vuoto per le strade sembra impossibile che prima o poi possano ospitare qualcuno. Nessuno passa, ma il lavoro è incessante, non si vedono operai, soltanto gru. Per chi è Sderot? La città nel deserto del Negev, all’angolo della Striscia di Gaza, è cemento e sabbia e sarebbe stata uno dei principali obiettivi dei terroristi di Hamas e del Jihad islamico il 7 ottobre, se non avessero trovato il Nova Festival: sono rimasti a massacrare i ragazzi e hanno posticipato l’arrivo a Sderot, che nel frattempo veniva svegliata dalle sirene che annunciavano l’arrivo dei razzi. Nulla di inconsueto, hanno pensato gli abitanti quel mattino, che da vent’anni sono abituati a correre nei rifugi e aspettare che finisca. Ma il 7 ottobre la sirena non finiva, continuava, imperterrita. Gitit era andata nel rifugio con sua figlia e suo marito, poi si era spostata da un amico che le aveva aperto esterrefatto: “Era shabbat, non uso il telefono e non sapevo nulla”. Poi è tornata a casa, ha fatto in tempo a notare una figura che cercava di fare di irruzione, ha preso il coltello ed è corsa nel rifugio. Eduard invece stava andando in sinagoga quando si è visto tagliare la strada da un pick up bianco a tutta velocità e accompagnato dalle grida degli uomini seduti dentro: “Allah Akbar!”. Ha pensato si trattasse di qualche disturbatore, ma è tornato a casa: “Mi ha chiamato il rabbino per dirmi di non andare più in sinagoga, ho acceso la televisione e ho visto la stessa macchina, gli stessi uomini”.
Dopo il 7 ottobre, Sderot si è svuotata, sono rimasti gli anziani, un solo supermercato era aperto. Dopo cinque mesi ha iniziato a ripopolarsi, ora l’85 per cento dei suoi abitanti è tornato. “Noi vogliamo vivere qui, non possiamo andarcene. Perché dovremmo? Sono venuti a ucciderci per cacciarci, che senso avrebbe andare via? Anche se stiamo impazzendo tutti”, dice Gitit. A Sderot si sentono le esplosioni di Gaza, sono frequenti. La guerra qui ha una sola soluzione: Hamas va sconfitto. Da Sderot i terroristi avevano portato via un solo ostaggio, morto durante la prigionia, le scritte “Bring them home”, riportateli a casa, sono ovunque, ma al contrario di Tel Aviv, qui il pensiero va meno agli ostaggi e più al futuro.
“Oggi è Sderot, domani Ashkelon. Non sarà l’ultima guerra, ma deve essere l’ultima contro Hamas”. Gitit dice di avere paura tutto il tempo, “qui il cuore ti batte in modo diverso, è come giocare alla roulette russa, ma la roulette qui è una missione”. I terroristi sono entrati a Sderot con una mappa in tasca in cui erano segnati vari punti chiave della città: la stazione di polizia e il municipio. Volevano occupare i posti del potere per avere il controllo, hanno preso la stazione, ma non il municipio, in cui lavorano sia Gitit sia Eduard, che quando parla disegna su un foglio di carta, riduce a schema ogni racconto. Giurano che Sderot non si spopolerà, ha aperto un nuovo bar, sono tornate le famiglie, ora i soldati sono davanti a ogni scuola, ma resta il silenzio per le strade. Qui si è infranto un patto. Il patto con il governo e con l’esercito, ora in città ci sono molti soldati, ma sembrano non fare la differenza. Prima Sderot, come le altre città o kibbutz vicini al confine, si sentiva protetta, ora c’è una fiducia da ricostruire. Sono i soldati i primi a sapere che il patto si è rotto, che nel paese c’è molto da rifare, tanto da rifondare: il ragazzo davanti all’asilo in uniforme con il fucile in spalla sembra chiedersi se qualcuno lo noti, se qualcuno si fidi. Si tiene la domanda per sé, conosce già la risposta. Gli abitanti sanno che le sofferenze evitate a Sderot sono state la condanna di chi era al Nova: l’evento che i terroristi non si aspettavano e in cui hanno ritenuto opportuno rimanere per causare il danno più profondo possibile.
Non ci sono piani per il dopoguerra in questa città, si sente solo il battito impazzito del cuore, Eduard crede che Gaza dovrebbe diventare un affare di tutti: “Deve essere gestita dalla comunità internazionale, dagli europei. Tutti devono capire che da qui passa la sicurezza comune. Noi combattiamo per proteggerci, ma se scompare Israele, cosa verrebbe creato qui? Riguarda forse soltanto noi?”. Sderot non cerca amicizie. I soldati si aggirano senza sapere quando potranno essere trasferiti, non ispirano fiducia, ma a Sderot non importa, è qui per restare.
Guerra a Gaza a colpi di storie Instagram, “tutti gli occhi su Rafah”
Ma “dove erano il 7 ottobre”? Il conflitto tra social e intelligenza artificiale
Una guerra totale. A Gaza, prosegue l’offensiva e continuano i bombardamenti israeliani, con la morte di migliaia di civili palestinesi. Nel frattempo, però, in previsione di un’operazione militare su Rafah si mobilitano ancora di più i social network. Questa volta però non sono solo i contenuti dei soliti account che parteggiano per uno schieramento o l’altro a invadere i social, come Instagram, X, Facebook e TikTok. Da ore rimbalzano su Instagram due storie, entrambe create con l’intelligenza artificiale: una che è diventata il simbolo del supporto al popolo palestinese, l’altra la risposta israeliana.
• Guerra a Gaza a colpi di storie Instagram
“Tutti gli occhi su Rafah“, la scritta che compare nella storia Instagram che inquadra i campi e le tende dei rifugiati palestinesi. È stata creata da un fotografo amatoriale malese ed è stata ricondivisa più di 39 milioni di volte in tutto il mondo, numeri record per un trend diventato virale. Un appello ad aumentare l’attenzione su ciò che avviene sul centro di Gaza, teatro di stragi a causa dei bombardamenti israeliani. Una grafica fatta dall’IA che ha impazzato per il social e ha portato a un’improvvisa mobilitazione di milioni di persone. Alcuni lo hanno fatto per convinzione, altri per un interesse nato nelle ultime settimane, altri ancora per moda, fenomeno che specialmente sui social ha sempre la sua validità.
Come risposta a questa storia, da account vicini invece alla causa di Israele ne è stata rilanciata un’altra. Un’immagine – sempre creata dall’IA – che illustra un terrorista di Hamas pronto a uccidere un bambino israeliano il 7 ottobre, con la bandiera con la stella a sei punte in fiamme, e la scritta: “Dove erano i vostri occhi il 7 ottobre?“. Quest’ultima è stata ricondivisa da meno persone, circa 500mila i numeri fino a mercoledì mattina, ma comunque ha riempito i profili di tante persone che non si sono sentite rappresentate dalla storia precedente.
Il Comune di Bologna espone la bandiera della Palestina. La Comunità ebraica: «Legittima il terrorismo»
La decisione del sindaco Matteo Lepore: «Quando Israele si fermerà metteremo anche la loro». Protesta la presidente della Comunità ebraica Di Segni: «Vada nelle zone del massacro del 7 ottobre». Il viceministro Bignami: «Scelta faziosa e irresponsabile».
Il sindaco Matteo Lepore espone la bandiera della Palestina dal Comune di Bologna
«La decisione del Comune di Bologna di esporre la bandiera palestinese è una scelta faziosa e irresponsabile, che divide e non unisce, alimentando un clima di contrapposizione e conflittualità che è esattamente ciò di cui oggi non c'è bisogno. Si rimuove totalmente l'origine di quanto sta avvenendo, vale a dire la strage del 7 ottobre compiuta contro civili israeliani inermi». Lo afferma il viceministro delle Infrastrutture Galeazzo Bignami in una nota. «Si dimenticano le violenze, gli stupri, i soprusi perpetuati contro donne e uomini colpiti solo perché israeliani o in territorio israeliano. Si rimuove la sorte degli oltre 100 ostaggi ancora detenuti dai terroristi di Hamas. Se è doveroso distinguere tra popolo palestinese e Hamas, altrettanto necessario è ribadire il diritto dello Stato di Israele di esistere e di difendersi e di difendere il suo popolo e i suoi confini. Non si costruiscono dialoghi esponendo bandiere ed alimentando divisioni», afferma Bignami.
Oltre a Bignami, per Fratelli d'Italia prendono posizione anche i consiglieri comunali, che definiscono «inaccettabile e grave» la decisione del sindaco Matteo Lepore e annunciano che presenteranno un esposto in prefettura per un gesto che «vìola palesemente la neutralità delle sedi istituzionali».
«Se davvero si vuole ribadire l'attenzione per il rispetto dei diritti umani e per la pace non esponi solo una bandiera ma le esponi entrambe. Una bandiera in un luogo pubblico non può essere usata come simbolo di contestazione di altri paesi. Un gesto simile da un'istituzione pubblica non fa che legittimare la voce del terrorismo e della prevaricazione». Così all'ANSA la presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni, assieme al presidente della Comunità di Bologna De Paz. «Invitiamo Lepore a recarsi in Israele nelle zone del massacro prima di esporre bandiere e slogan», hanno aggiunto. «Anziché strumentalizzare vicende di un conflitto lacerante per tutti, dimenticando totalmente il massacro del 7 ottobre, da un sindaco di una città dove la comunità ebraica è presente da secoli, ci aspettiamo che riconosca e tuteli tutti», ha sottolineato la presidente Ucei Di Segni.
(Corriere della Sera, 29 maggio 2024) ____________________
«Quando Israele si fermerà metteremo anche la loro», annuncia solennemente il sindaco di Bologna. Che un uomo delle istituzioni, una figura pubblica, per dare ragione dei suoi atti arrivi ad usare una frase di tale stupidità è disarmante. Letteralmente. Che arma dialettica si può usare per controbattere al vuoto della ragione? In tal modo disarmati, dovremo forse assistere ammutoliti al trionfo della stupidità? E' questa l'arma più potente dei nemici d'Israele? M.C.
Spagna, Irlanda, Norvegia, per iniziare. Forse poi qualcun altro deciderà di procedere unilateralmente al riconoscimento della Palestina. Tre Stati con una storia (con la S maiuscola) molto diversa tra loro risalendo nei secoli, rispetto alla presenza delle comunità ebraiche, l’inquisizione, la risposta all’occupazione nazista e i regimi totalitari, l’adesione al progetto europeo e ancora l’immigrazione. Stati con vicende e sfide odierne molto diverse, e che però all’unisono si sono attivati per accordare un riconoscimento che non può considerarsi di mero sostegno, sancendo di fatto il terrorismo quale percorso che merita legittimazione. I riconoscimenti pregressi da parte di Paesi africani o arabi, in qualche modo applaudito in ambito Onu, non sorprendono considerando i soggetti da cui promanano, ma poiché parliamo di due Stati dell’Unione europea e uno molto vicino all’Ue (la Norvegia) di certo non possiamo sottovalutare la gravità del gesto. “Stato” non è uno slogan o un’etichetta che si decide di associare per pietà o per premio condividendo una presunta lotta alla liberazione. Non è una spilletta consolatoria né un omaggio di rispetto.
La parola Stato è una parola seria. Genera responsabilità sul piano interno, internazionale e morale e presuppone impegno e capacità. Capacità sulla quale, qua in Italia, ci misuriamo tutti i giorni in termini di aderenza ai valori fondanti dell’Unione europea, della Repubblica, per noi Italiani e parimenti per Israele. A tutti si estende il vaglio e il rigore dell’osservanza dei principi che sono alla base della convivenza tra le nazioni e il perseguimento della pace giusta, sapendo riconoscere falle ed errori che mettono a rischio il sistema democratico e di tutela a cui teniamo massimamente. E sappiamo confrontarci anche nei fori internazionali a patto che siano degni e leali alla loro missione, non quando trasformano anche le Corti di giustizia in arene politiche.
“Stato” è un concetto giuridico ben preciso che presuppone la disponibilità di un territorio con confini precisi, una popolazione che possa considerarsi cittadina di quell’entità, una capitale non meramente ideologica ma integrata in quei medesimi confini e una leadership riconosciuta, autorevole e capace di guidare per costruire, innovare, fare progredire verso un lontano futuro, superando sfide sociali, politiche, ambientali, economiche.
Tutto questo è al momento inesistente per la Palestina ed è stato fermamente rigettato dai palestinesi stessi nelle diverse occasioni – nella proposta del ’47 e negli altri negoziati di pace. I “no” ancora tuonano e si sono trasformati in inneggiamenti al massacro e alla distruzione invocata di Israele, degli ebrei e di tutto l’Occidente. Anche per i più convinti sostenitori del “due popoli e due stati” è difficile oggettivamente definire il perimetro giuridico-territoriale dello Stato palestinese e non per una resistenza israeliana, ma per i contrasti e la dialettica interna al popolo palestinese e alle sue leadership.
Siamo abituati a ragionare con i nostri significati occidentali sulle categorie concettuali di Stato, Popolo, e valori costituzionali tratti della nostra esperienza storica, specialmente in Europa. A quale Stato pensano la Spagna, l’Irlanda o la Norvegia quando dichiarano il riconoscimento della Palestina? A uno Stato con una costituzione europea o a uno stato con costituzione simile a quella turca? Pensano alla Cina? Alla Russia? All’Iran? Ad uno Stato simile a Israele? Non riesco a correlare alcun modello di Stato alla frastagliata vicenda palestinese che non porti alla creazione di un altro presidio legalizzato del terrore e della teocrazia radicalizzata.
Si celebra quest’anno l'anniversario dalla morte di Theodor Herzl (3 luglio 1904). Il “visionario“ dello Stato ebraico e di quello che oggi è Israele. Ci uniamo idealmente a tutte le cerimonie e ai momenti dedicati alla sua immensa opera diplomatica e non solo. Per parafrasare Herzl dovremmo dire che uno Stato palestinese è possibile “se solo lo si vuole”, non certo con la forza del terrore e la cultura della morte, ma con la forza e la cultura della vita. Non certo con dichiarazioni unilaterali di chi ha per secoli perseguitato gli ebrei cacciandoli, ma con il concerto di nazioni libere dalla piaga della distorsione della storia e dell’antisemitismo, attraverso un negoziato con chi riconosce lo Stato di Israele e non inneggia con slogan all’annientamento dello stesso, non certo con chi ospita e dà rifugio ai capi del terrore, non certo con chi avalla il sistema degli scudi umani addossando responsabilità a un esercito che è più amico che nemico, non certo con la pretesa di collaborazione umanitaria rivolta ad uno solo dei paesi confinanti con la striscia di Gaza, lasciando immune da ogni disagio “collaterale” l’altro.
Il concetto di Stato – quello da sognare anche per i palestinesi – corrisponde a tradizione, maturità e prospettiva del futuro. Gestione di istituzioni pubbliche che riguardano la giustizia, il welfare, la pianificazione urbanistica, la pedagogia e l’insegnamento della lingua che pronuncia vita, la bellezza, il rispetto e l’empowerment delle donne, l’acquisizione di saperi innovativi, curativi e di promozione del benessere, l’ascolto, il dibattito, le manifestazioni e l’inclusione come meccanismi per la formazione delle decisioni, il riparto di competenze e l’uso di forze di polizia e di esercito per difendere e non per governare. Corrisponde a istituzioni capaci di riconoscere e valutare le proprie fatiche e défaillance, di articolare un sistema di informazione e media lontani da ogni nuance di propaganda, valori che affondano nella fede religiosa per generare bene, libertà e diritti che guidano singoli e istituzioni e non l’alibi e l’abuso del potere. Corrisponde a sistemi dove le università sono luoghi di ricerca aperta, libera e indipendente, che non si piega ai campeggiatori occupanti e minacce, a teatri come luoghi di aperta cultura e satira. Tutto questo è l’insieme di Stati che sono Nazioni da tenere unite. Tutto questo è l’insieme di vicini confinanti che ha senso avere. Ed è quello che dovrebbero continuare ad essere anche Spagna, Irlanda e Norvegia. Tutto questo è Israele in cui ci riconosciamo e in cui crediamo. Tutto questo è Israele, che abbina alle antiche parole tratte dalla Bibbia, le applicazioni di intelligenza artificiale, che affronta sfide e dilemmi morali laceranti di oggi trovando forza e conforto nella sapienza e nella preghiera millenaria. Tutto questo è Israele, che ha posto Gerusalemme sua capitale, luogo che accoglie e di convivenza, di canti delle preghiere ebraiche, canti di muezzin e suono campane, molto più di quanto narrato.
È nostro dovere come comunità ebraiche qui in Italia e altrove, in questi durissimi mesi – e proprio dinanzi alla catena di barbarie perpetrate da singoli indottrinati all’odio con atti materiali o da enti e istituzioni con parole e delibere – ribadire l’impegno dello Stato di Israele nella difesa dei suoi cittadini tutti e dei suoi confini nei quali si è ritirato, sulla base delle diverse risoluzioni internazionali accettate e accordi di pace sottoscritti. Proprio con il pensiero verso il 2 giugno – giorno del referendum del 1946, dopo la lunga e devastante guerra, con il quale fu sancita la Repubblica e nel quale venne eletta l’Assemblea Costituente – va ben chiarito che questo impegno non è solo indispensabile per la salvaguardia di Israele stessa, ma genera beneficio e tutela per l’intera civiltà occidentale, all’Italia e all’Europa ancora unita che va verso un importante rinnovo parlamentare e che certo non desidera trovarsi soffocata da alcuna radicalizzazione e minaccia al concetto di Stato cosi come lo ha sognato e maturato, cosi come lo ha difeso con i presìdi costituzionali. La pace e la convivenza non nascono dalle dichiarazioni unilaterali o sventolando solo bandiere palestinesi in cortei e aule parlamentari, ma dalla volontà di insegnare ai propri figli l’amore per la vita anche quella altrui, alzando lo sguardo verso il cielo ricordandoci che siamo esseri umani creati tutti a immagine di uno stesso D-o.
È del tutto evidente che se Israele si dimostra debole e diviso su questo fronte, la sua esistenza stessa è posta in serio pericolo. Noi tutti ci ricordiamo delle innumerevoli manifestazioni di piazza quando il governo ha proposto una legge di riforma del sistema giudiziario del paese. Uno degli slogan più utilizzati fu “la riforma giudiziaria indebolirà Israele a livello internazionale e questo esporrà il paese al lawfare internazionale”. Bene, un anno dopo, la riforma della giustizia è stata congelata ma Israele è stato accusato dei crimini più turpi proprio dai (presunti) massimi organi di giustizia internazionale: la Corte di Giustizia Internazionale e il Tribunale Penale Internazionale. Quindi, è evidente che il rinunciare alla riforma della giustizia non ha fatto da “scudo” a queste false accuse, come pretendevano certi giudici, molti politici e una parte dell’opinione pubblica. Come mai nessun organo di informazione lo mette in rilievo? È semplicemente passato in sordina, come sono passati in sordina i gravi errori commessi da alcuni giudici e politici nell’affrontare il pericolo posto dalle corti internazionali.
La gravità delle dichiarazioni fatte dal ministro della Difesa, Guido Crosetto, intervenuto oggi a SkyTg24, non può essere sottaciuta.
Parlando della guerra a Gaza, e nello specifico, dell’operazione in corso a Rafah, l’esponente di Fratelli di Italia, dopo avere snocciolato il solito luogo comune che Hamas sarebbe una cosa e il popolo palestinese un’altra (quale popolo palestinese onorevole Crosetto, quello che vive a Gaza e nel 2005 ha votato convintamente Hamas e lo ha sempre sostenuto, o quello della Cisgiordania che secondo gli ultimi sondaggi è inequivocabilmente a maggioranza a favore di Hamas, o un altro?), e avere detto che Israele avrebbe dovuto fare una scelta “più coraggiosa dal punto di vista democratico” (cioè quale?), e avere aggiunto che il problema di Hamas andava risolto in “modo diverso” (ovvero, magari come ha suggerito Michele Santoro durante una trasmissione di Piazza Pulita, ispirandosi alla serie tv “Fauda”?), è arrivato all’apice. E l’apice è questo “Ho l’impressione che con questa scelta quella dell’operazione militare a Rafah, Israele semini odio che coinvolgerà i loro figli e i loro nipoti”.
Siamo dunque giunti a riproporre parafrasandolo, il celebre passo del Vangelo di Matteo (27,25), secondo il quale, tutto il popolo ebraico riunito davanti a Pilato per scegliere se graziare Gesù o Barabba, dopo avere scelto il secondo, avrebbe detto a proposito di Cristo, “Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli”.
Non è certamente questa la sede per effettuare una esegesi teologica del significato dell’affermazione, sulla quale Benedetto XVI nel secondo volume di “Gesù di Nazaret, Dall'ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione”, ha chiarito pienamente il senso, ma è quella per evidenziare come i tropi dell’antisemitismo tradizionale, consapevoli e inconsapevoli, si manifestino ormai in piena libertà, e quello della trasmissione della colpevolezza presunta degli ebrei che dovrà essere espiata dalle generazioni future, è il più fosco e terribile, essendo stato la giustificazione, su base religiosa, per la persecuzione ininterrotta degli ebrei.
Il ministro Crosetto è solo l’ultimo in ordine di tempo ma non di rango, a stigmatizzare Israele per una operazione militare inevitabile, che, se non consegnando la vittoria a Hamas e dunque al jihadismo, non può essere arrestata, anche se Crosetto sa, insieme ad altri, che per debellare Hamas a Gaza e impedire che si possa ripetere un altro 7 ottobre, Israele avrebbe potuto agire, diversamente, senza, ovviamente, essere in grado di specificare come.
Durante gli scavi nei sotterranei di due edifici a Varsavia, situati per la precisione al 39 e al 41 di via Muranowska – vicino a Mila 18, dove si trovava il famoso bunker di Mordechai Anielewicz nel ghetto di Varsavia – sono stati scoperti più di 5.000 oggetti appartenenti ai residenti ebrei prima della guerra. Questi manufatti sono stati analizzati e poi trasferiti al Museo del Ghetto di Varsavia.
Secondo i ricercatori, a causa della loro vicinanza al bunker di Anielewicz, alcuni degli oggetti sarebbero stati usati proprio nel periodo della reclusione nel ghetto. Inoltre, questo sito di scavo ha conservato in modo unico la memoria della città prebellica. Nella Varsavia contemporanea, ricostruita dopo la Seconda guerra mondiale, questo sito permette di avvicinarsi ad una città che non esiste più e vedere che gran parte di essa giace ancora sotto i piedi dei suoi abitanti.
“La ricerca archeologica inizialmente doveva durare quattro settimane. Ma ad un certo punto, siamo caduti tutti in un vortice magico. Non siamo riusciti a finire gli scavi perché man mano venivano scoperte sempre più stanze”, ha detto il ministro della Cultura e del Patrimonio Nazionale polacco Hanna Wróblewska.
L’8 maggio, la Facoltà di Architettura dell’Università di Tecnologia di Varsavia ha tenuto un evento in cui si è discussa la gestione dello spazio pubblico, affrontando le possibilità e le sfide di preservare e commemorare in modo appropriato i sotterranei di Mila 18, scoperti durante precedenti lavori archeologici. Il Museo del Ghetto di Varsavia starebbe infatti prendendo provvedimenti per preservare e trasformare in un sito commemorativo gli spazi e gli oggetti rinvenuti dagli archeologi, una testimonianza materiale della storia e del patrimonio degli ebrei di Varsavia. La decisione di non riseppellire il sito di scavo è anche legata alla speranza che lo spazio possa servire come memoriale duraturo, un ricordo permanente della storia scomparsa della città.
Albert Stankowski, direttore del Museo del Ghetto di Varsavia, ha sottolineato la necessità di preservare Mila 18 per le generazioni future: “Quello che mi ha colpito maggiormente è stato l’incontro con un gruppo di adolescenti israeliani. Una ragazza ha chiesto se poteva prendere una pietra dal sito di scavo. Solo allora mi sono reso conto di quanto sia importante per i giovani che vengono in Polonia, e cercano tracce materiali della storia, poter toccare e vedere questo sito. Questa consapevolezza ha in parte portato allo sforzo del Museo del Ghetto di Varsavia di preservare Mila 18”.
Andrée Ruth Shammah e le proteste contro Israele: “Ragazzi, siete pacifisti immaginari”
Nel 1968, scendeva in piazza. Oggi critica i giovani che manifestano a senso unico: “Per difendere i palestinesi, bisogna sconfiggere il terrorismo di Hamas”
«Pensare che io vorrei sempre e solo parlare di teatro, invece mi si chiede ancora di parlare di antisemitismo in quanto ebrea», provoca Andrée Ruth Shammah. «Che siano sempre solo gli ebrei in prima linea a difendere qualcosa che non riguarda solo loro, ma la difesa dei valori democratici dell’Occidente, le sembra giusto?». A 24 anni, battagliera, Shammah lascia il Piccolo Teatro di Giorgio Strehler e Paolo Grassi, e fonda a Milano assieme a Franco Parenti e ad altri intellettuali come Giovanni Testori il salone Pier Lombardo, un teatro che diventa palcoscenico nuovo, giovane, sotto forma di cooperativa, oggi intitolato al suo amore di allora, Franco Parenti appunto. Spettacoli, concerti, rassegne cinematografiche, conferenze, festival, novità editoriali: dal 1972 tutto quello che è innovazione passa da questo luogo che lei dirige con indomita passione.
LE PROTESTE NELLE UNIVERSITÀ – Ventenne, scendeva in piazza e sui cartelli c’era scritto: «No al fascismo». Oggi gli studenti occupano le università con slogan tipo: «There is only one solution, Intifada revolution», (C’è una sola soluzione, la rivoluzione dell’Intifada, ndr). Per esempio alla Columbia, una delle più famose, a New York. «Una minoranza che urla non è la maggioranza. La maggioranza delle persone ha capito che bisogna sconfiggere soprattutto il terrorismo di Hamas per difendere i palestinesi. Gli arabi moderati sono con noi».
- Il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea parla di un raddoppio degli episodi di antisemitismo in Italia dopo i fatti del 7 ottobre; in Francia il Consiglio delle Istituzioni Ebraiche dice che in soli 3 mesi gli atti antisemiti hanno raggiunto quelli dei tre anni precedenti. Ci si deve allarmare? «L’antisemitismo è latente da sempre. C’è sempre stato, di questo sono certa. Diciamo che adesso, dopo il 7 ottobre, ha trovato modo di uscire nuovamente allo scoperto».
- Lei ne è mai stata vittima? L’hanno mai trattata da diversa in quanto ebrea? «Non me ne preoccupo».
- Va bene, ha la scorza dura, ma è capitato? «Ma certo, fin da bambina! Questa cosa ce la portiamo addosso sempre. Pensate che quando a teatro ho ospitato gli spettacoli di Hanoch Levin, un grandissimo autore israeliano, che oltretutto era contro il governo, su alcuni social leggevo frasi tipo: “Bisognerebbe togliere i contributi statali al suo teatro, è un avamposto del sionismo”. C’è un insegnante dell’Accademia di Brera che mi ha persino scritto: “Signora Shammah, viste le sue posizioni, non porteremo più gli studenti nel suo teatro”. Ho risposto: “Peccato per gli studenti, perché si perderanno dei begli spettacoli».
- Al Salone del libro di Torino ci sono state proteste pro Palestina. «La politica e la cultura devono essere più avanti delle persone, indirizzarle verso il meglio. Non ci si deve occupare sempre solo di Israele, un Paese piccolissimo in uno scacchiere enorme di ingiustizie. Quando si condannano le ingiustizie del mondo, non si dovrebbe citare solo Netanyahu, perché sennò si identificano gli ebrei con il governo di Israele. Si arriva a fischiare la cantante Eden Golan all’Eurovision 2024 solo perché è ebrea e israeliana. Capite che è come se nel mondo, chi non si riconosce nel governo italiano attuale, odiasse un italiano a prescindere?».
- Invece si condanna la politica di Israele, ma tornano a galla anche fenomeni di antisemitismo. «È un meccanismo che ascrivo al senso di colpa dell’Occidente nei confronti della Shoah. È come se molti non ne potessero più di sentirsi addosso questa responsabilità. Finalmente qualcuno ha potuto dire: “Voi siete come i nazisti”, credendo di pareggiare le cose. Ci sono elementi della nostra cultura che da sempre infastidiscono e diventano pretesto. La dicitura “popolo eletto”, percepita come se contenesse un principio di superiorità, anche se la traduzione significa “popolo del patto”, del patto con Dio per custodire la sua parola. Citare i molti ebrei tra i vincitori di premi Nobel, oppure il fatto che il cinema in America non sarebbe esistito senza l’apporto creativo degli immigrati ebrei. Io da ebrea dico: “Saremo più forti di prima”. Molti Paesi arabi faranno la pace con Israele, anche se ora c’è un’ubriacatura, e tanti giovani si dimenticano che Hamas è contraria a ogni libertà civile. Gli omosessuali, per dire, Hamas li disprezza».
- I giovani chiedono la pace, il cessate il fuoco. «La pace è un concetto meraviglioso, ma se non ci fossero state le armi, il Nazismo non sarebbe mai stato sconfitto. Hamas ha dichiarato che vuole la distruzione di Israele, quindi cosa facciamo, accettiamo questo senza che il mondo occidentale combatta perché non accada?».
- Lei, figlia di ebrei sefarditi emigrati dalla Siria, ha spesso detto di aver valorizzato tardi la sua identità. «È la verità. Intanto,mi sono resa conto che quando gli altri ti additano, ti identificano con una definizione, tu stessa poi la riconosci. È lo sguardo degli altri che ti disegna, in un certo senso. Spesso la morte dei genitori segna il bisogno di conservare la tradizione. Mio figlio (Raphael Tobia Vogel, regista, nato dal matrimonio con l’odontoiatra milanese Giorgio Vogel, scomparso nel 2013, ndr) non ha avuto un padre ebreo. Suo padre era comunista, interessato alla cultura ebraica da un punto di vista letterario, leggeva Philip Roth e quasi solo scrittori ebrei, ma criticava la mia ostinazione nel voler preservare il senso delle origini».
- Che cosa direbbe quindi ai giovani che rischiano di fomentare l’antisemitismo? «La nostra religione non ha la verità incarnata. Per noi ebrei, il Messia è una tensione, questo vorrei che capissero. Un ebreo a una domanda risponde sempre con un’altra domanda. L’ebraismo è quanto di più giovane e rivoluzionario esista».
(Oggi, maggio 2024) ____________________
No, il Messia d'Israele non è "una tensione". E non riguarda soltanto gli ebrei. Qualcosa comincerà forse a cambiare quando gli ebrei capiranno che il loro compito non è "la difesa dei valori democratici dell’Occidente". È intorno a quel democratico idolo che stavano danzando i giovani all'alba di quel sabato 7 ottobre 2023? Ed è sempre a difesa di quei valori che sei mesi prima in Israele i giovani festeggiavano il Purim in modo adatto ai tempi nel NOVA AVAK PURIM GATHERING. M.C.
Ebraismo italiano e Israele: come va la comunicazione?
Klaus David, esperto di comunicazione, esamina per Riflessi l’interesse del meridione per l’ebraismo e Israele, nonostante la comunicazione di cultura e valori ebraici non siano la migliore, come qui ci viene spiegato
di Massimiliano Boni
- Klaus David, da molti anni è noto il tuo impegno a sostegno della diffusione della cultura ebraica in Italia, specialmente nel meridione. A cosa si deve tanto interesse per una parte del paese da cui gli ebrei sono stati cacciati oltre cinque secoli fa? In Calabria, Sicilia, Campania, Puglia e Sardegna esiste un fenomeno che potremmo definire di giudaismo sommerso; e che a partire dal 900 è riemerso. L’esempio più significativo probabilmente è quello della comunità di San Nicandro, ma vorrei ricordare anche l’alto valore simbolico della riapertura di una sinagoga a Trani, una delle tante sinagoghe sottratte a una comunità ebraica. Ciò che caratterizza questo fenomeno, che spiega la sua larga diffusione, è che si tratta di un movimento che proviene dal basso: direi che l’interesse al giudaismo nel meridione d’Italia proviene direttamente dal popolo.
- Perché? L’interesse della gente del Sud per la cultura ebraica è ampio e costante. Basta fare un piccolo esempio: poche settimane fa, durante lo svolgimento dell’Eurovision, i dati auditel dimostrano che i voti a sostegno italiani della cantante israeliana sono arrivati prevalentemente dal Sud Italia, in particolare dai giovani. Una prima spiegazione di tanto interesse è che, nell’immaginario di queste terre, Israele è percepito come un paese modello, per la sua efficienza delle istituzioni, il suo notevole sviluppo tecnologico, in una parola perché rappresenta un esempio di Stato moderno, da imitare. A ciò si aggiunga anche che il sud spesso si sente scaricato dalle istituzioni nazionali che se ne dovrebbero occupare, e forse si sente lusingato dall’attenzione che riceve dal mondo ebraico.
- A cosa ti riferisci? Oggi sono molte le imprese israeliane che investono in Calabria e in generale nel Sud Italia. E poiché l’uomo del Sud sa essere anche molto pragmatico, intravede in questa vicinanza delle grandi potenzialità. Inoltre, considera che oggi il pregiudizio, soprattutto da parte delle nuove generazioni, è molto inferiore al passato. Certo, sappiamo che anche il sud purtroppo ha una storia di antisemitismo popolare nel corso dei secoli trascorsi. Tuttavia, mi sembra che esso sia ampiamente bilanciato da quell’interesse che ti dicevo. Ad esempio, quando mi sono candidato e sono stato eletto nel Comune di San Luca – in pieno Aspromonte, una terra difficilissima, con oltre 30 morti di faida, insomma il paese simbolo della ndrangheta – contro ogni previsione ho trovato un profondo interesse e ammirazione per la cultura ebraica. Essa si rintraccia soprattutto nella classe media: insegnanti, impiegati, liberi professionisti.
E per questo che ritengo che l’interesse del Sud Italia per l’ebraismo nasce dal basso: perché esso non trova altrettanto spazio nelle classi alte. Prendi il caso di Benedetto Musolino: sono convinto che dovrebbe essere lui a essere indicato come l’inventore del sionismo, e non Herzl. Anche se Musolino non aveva esplicitato il suo pensiero sionista, è stato un personaggio straordinario, da sempre a favore della necessità della creazione di uno Stato ebraico. Eppure, una figura che sarebbe così importante da raccontare anche al mondo ebraico, dalle élite calabresi viene ancora oggi ignorata. Di fatto non si tengono convegni sulla sua figura nelle università del Sud, e solo qualche libro ne descrive la vita. Insomma, la volontà di escludere una figura che proviene dal popolo ha come effetto quello di non valorizzare questo legame fra la cultura ebraica e il Sud Italia.
- Un tale potenziale dovrebbe essere al centro anche dell’attenzione dell'Ucei. Quali sono le reazioni dell’ebraismo italiano a questo interesse? La presidente dell’Ucei, Noemi Di Segni, ha sempre mostrato la massima disponibilità a collaborare per promuovere la cultura ebraica nel meridione. Certo, questo richiederebbe anche un adeguato utilizzo di risorse finanziarie, che però non sempre sono disponibili.
- Quali iniziative, negli ultimi tempi, hai promosso per lo sviluppo e la conoscenza della cultura ebraica In Italia? La scorsa settimana ero nelle Marche a parlare di cultura ebraica in più località. Da anni mi occupo di organizzare eventi in Calabria per promuovere la cultura ebraica in collaborazione con la Regione e con il vicepresidente dell'Ucei Giulio Disegni, e spero che tali iniziative possano continuare. Più in generale, mi impegno perché ci sia un costante dialogo fra il mondo ebraico italiano e la società civile. Domenica, per esempio, ero a Napoli, dove la comunità locale ha incontrato il capo della direzione nazionale antimafia Giovanni Melillo. La mia idea è quella che sia necessario promuovere costantemente il dialogo fra le comunità ebraiche italiane e la società circostante, per spiegare la realtà dell’ebraismo italiano, ma anche di Israele.
- Cosa dovrebbe fare l’ebraismo italiano per migliorare la propria comunicazione? In generale comincerei col dire che negli ultimi anni mi sembra che la comunicazione di ciò che fa l’Ucei e in generale l’ebraismo italiano sia nettamente migliorata. Pensa alle giornate della cultura ebraica: sono momenti importanti, in cui l’ebraismo si apre sul territorio. In tali occasioni si registra sempre un grande interesse da parte delle persone, che vogliono conoscere la vita ebraica. Forse non ci rendiamo conto, infatti, quanto possa essere emozionante per una persona che non conosce il mondo ebraico fare ingresso in una delle tante sinagoghe storiche presenti nel nostro paese. Credo che questo sia un passo necessario per far comprendere la ricchezza della cultura ebraica, anche per fronteggiare il pregiudizio che poi può sfociare in vero antisemitismo. Al netto dell’antisemitismo esploso negli ultimi mesi, sussiste nel nostro paese una maggioranza che non intende farsi condizionare dal pregiudizio contro gli ebrei, e che avrebbe bisogno di più strumenti per conoscere il mondo ebraico.
- Che effetti ha avuto il conflitto nella percezione dell’ebraismo? È inevitabile che la guerra abbia inciso sulla percezione d’Israele, ma forse anche dell’ebraismo. Tuttavia, anche qui mi sembra che i pregiudizi che purtroppo sono riemersi in tutta Italia, nel meridione si siano fatti sentire in misura minore.
- Per passare a Israele, come giudichi la comunicazione fornita in questi mesi di conflitto? Anche se so che la mia posizione non è da tutti condivisa, credo che sia stato un errore sottrarre all’opinione pubblica generale la rappresentazione dell’orrore commesso da Hamas il 7 ottobre. Anche qui ti faccio un esempio: noi tutti ci ricordiamo del rapimento di Aldo Moro e della sua morte perché nella nostra memoria collettiva è rimasta fissata l’immagine del suo corpo nella Renault 4, un’immagine terrificante. Io credo che se quell’immagine non fosse stata trasmessa, il nostro paese non avrebbe mai elaborato quel senso di colpa collettivo che invece nacque. E così, per quel che riguarda il 7 ottobre, sottrarre al grande pubblico la rappresentazione di quello che è accaduto, per riservarla soltanto a proiezioni limitate per la stampa, può essere condivisibile su un certo piano di valori, innanzitutto per rendere omaggio e rispetto alle vittime. Tuttavia, se ragioniamo in termini strettamente comunicativi, se Israele avesse avuto “un’icona” da mostrare al mondo che rappresentasse quel che è accaduto il 7 ottobre, questo avrebbe avuto un effetto importante nel giudicare diversamente la reazione dello Stato ebraico.
- E, dall’altra parte, come giudichi la comunicazione di Hamas? Hamas ha semplicemente applicato le regole già le elaborate da Goebbels. Tutta la sua comunicazione è basata sulla manipolazione, sulla falsificazione dei filmati, dei dati. Questi strumenti, appositamente usati, vengono poi diffusi sui media più utilizzati dalle giovani generazioni, realizzando una comunicazione militante, che fa molto presa sul giovane pubblico. Al contrario, la comunicazione di Israele risulta più formale, rigida. In onda vediamo sempre un politico, oppure un militare. Si tratta di una comunicazione che non può reggere i video tagliati e montati ad arte che mostrano come sia Israele a commettere dei crimini. Certo, comprendo le ragioni di questa forma di comunicazione: Israele ha la necessità di mandare un messaggio chiaro innanzitutto ai suoi vicini arabi. Sappiamo che in quel contesto il linguaggio della forza spesso è l’unico efficace. Tuttavia, occorrerebbe considerare che nel mondo di oggi la comunicazione è globale, e che l’opinione pubblica internazionale rispetta codici comunicativi diversi. È paradossale che il popolo che più di altri esprime una spiccata capacità narrativa non sia stato ancora capace di comunicare il proprio punto di vista su questo conflitto.
- Come giudichi le proteste che in Occidente si susseguono contro Israele? Oltre che alimentate dalla falsa comunicazione che ti descrivevo, c’è anche da dire che alcuni stati arabi, come il Qatar, da tempo finanziano chi sostiene il boicottaggio di Israele e una lettura distorta del conflitto. Guarda ancora una volta quel che è accaduto per l’Eurovision: mentre il voto popolare ha nettamente premiato la canzone israeliana, la giuria ha di fatto boicottato quella canzone.
- Un’ultima domanda: cosa dovrebbe fare, secondo te, l’Ucei per migliorare la propria comunicazione sull’otto per mille? Nel 1998 fui coinvolto da Tullia Zevi per promuovere una campagna a favore dell’otto per mille per l’Ucei. In quel caso ricordo che scegliemmo di puntare su volti noti al grande pubblico, Gad Lerner ed Enrico Mentana. Potrebbe essere anche una soluzione da seguire, ma non l’unica. Pensa alla ricchezza culturale dell’ebraismo italiano: far conoscere i tanti beni culturali ebraici sparsi nella penisola potrebbe essere un altro strumento per favorire la scelta dell’otto per mille a favore dell’Ucei. O ancora, ad esempio, costruire una serie di itinerari nella nostra penisola alla scoperta dei siti ebraici. Insomma, i modi per sostenere l’ebraismo italiano sono molti.
Medio oriente: Israele sotto accusa e Hamas vittima innocente.
Nelle settimane scorse abbiamo assistito impotenti e allarmati ad un proliferare di dichiarazioni sconcertanti rilasciate da politici italiani di “presunto” alto livello inerenti la crisi mediorientale ed orientate ad accusare Israele di colpire civili inermi durante l’offensiva provocata dalla strage compiuta dai terroristi di Hamas il 7 ottobre scorso.
• L'APPROSSIMATIVA CONOSCENZA DEL MEDIO ORIENTE DEI NOSTRI POLITICI A tale proposito, il ministro della Difesa, Guido Crosetto, durante un’intervista rilasciata a SkyTg24, ha dichiarato:”Ho l’impressione che Israele stia seminando un odio che coinvolgerà figli e nipoti”, “Hamas è una cosa, il popolo palestinese è un’altra. Dovevano discernere tra le due cose e fare una scelta più coraggiosa dal punto di vista democratico”.
Inoltre, sempre Crosetto, aveva aggiunto: ”Siamo convinti che Israele dovesse risolvere il problema con Hamas, ma fin dal primo giorno abbiamo detto che questa cosa andava affrontata diversamente. Tutti gli Stati concordavano sul fatto che Israele dovesse fermarsi a Rafah. Non siamo stati ascoltati e ora guardiamo alla situazione con disperazione”.
Appare semplice confutare le tesi del Ministro. Innanzitutto Israele applica una strategia militare che discerne da sempre i target selezionati per l’eliminazione dalle eventuali vittime civili, o danni collaterali, addirittura rinunciando a determinate operazioni se connesse al rischio di colpire indiscriminatamente innocenti e, tale direttiva, è da sempre stata seguita anche dal Mossad, sulla base di ordini superiori e sulla coscienza religiosa dei praticanti.
In secundis, Crosetto si getta in una disamina geopolitica con un’aspra critica a Gerusalemme accusando il Governo israeliano di non avere approcciato al “problema con Hamas” nella maniera più consona e di guardare con disperazione all’attuale situazione relativa ai civili.
In questo il Ministro, ci dispiace sottolinearlo, potrebbe essere in errore, anche sulla base di una lunga e vergognosa tradizione tutta italiana fatta di anti-militarismo e non- interventismo nelle crisi internazionali a meno che non vi siano le condizioni di un impiego scevro dall’uso delle armi. Una tradizione ridicola e non certo lungimirante per il nostro Paese che, peraltro, pone a rischio le vite dei nostri militari convinti di una loro presunta immunità di fatto non certificata da alcuno.
Inoltre, Israele è un piccolo Stato accerchiato da Paesi, Giordania a parte, non certo “amici”, ed è da sempre schierato sulla difensiva poiché, come la storia racconta in ben tre occasioni, per non citare la quarta del 7 ottobre scorso, è stato attaccato in maniera inusitata proprio dai Paesi confinanti.
Non possiamo certo fare scuola a tale politica militare di Gerusalemme, anche perché il nostro Paese è ritenuto, sulla base di quotidiani riscontri che noi stessi, purtroppo, condividiamo, con una politica di accoglienza indiscriminata e di un assurdo quanto pericolosolaissez faire nei confronti dei predicatori d’odio e dei loro sempre più numerosi seguaci.
In questo è doveroso sottolineare quanto scrisse
Samuel P. Huntington nel suo saggio edito nel 1996, titolato
“Lo scontro delle civiltà”: “Il processo in indigenizzazione è ulteriormente favorito dal paradosso della democrazia: l’adozione di istituzioni democratiche occidentali da parte delle società non occidentali consente lo sviluppo e finanche l’avvento al potere di movimenti politici antioccidentali”. Parole profetiche risalenti a quasi 20 anni fa che trovano ampia conferma ai quotidiani eventi.
Ma in tutto ciò non possiamo bypassare le dichiarazioni di un altro politico, il ministro degli Esteri Antonio Tajani che, nell’aprile scorso, si è calorosamente lanciato in una rassicurazione non richiesta sull’immunità devoluta ai nostri militari impiegati nelle missioni in Libano (UNIFIL) e nel Mar Rosso (ASPIDES), per assicurare la tutela del confine Libano-Israele nel primo caso ed in quella del traffico commerciale marittimo nel secondo. E a supporto delle dichiarazioni relative alla missione Aspides, peraltro a guida italiana, Tajani aveva dichiarato che la nostra flotta non avrebbe corso alcun rischio poiché da parte degli Houthi “verranno attaccate solo le navi che porteranno armi a Israele”.
L’assurdo in politica è da sempre presente nella storia italiana, ma dichiarazioni del genere possono solamente equivalere alle teorie dei sinistrati, non certo da rappresentanti di una maggioranza di Governo che non dimostra la sua vicinanza ad un Paese duramente colpito dal terrorismo islamista e perennemente sotto assedio.
Peraltro, il noto “Lodo Moro” in vigore dagli anni ’70, pare perdurare nel tempo con la tolleranza dimostrata nei confronti di alcuni rappresentanti delle comunità islamiche (ed islamiste) in Italia e di numerosi sostenitori dell’Islam radicale che operano indisturbati nel nostro Paese con traffici illeciti di vario genere ed entità.
Qui occorre citare
Michael Dibdin, autore britannico, che nel suo romanzo Dead Lagoon”, affermò: “Non esistono veri amici senza veri nemici. Se non odiamo ciò che non siamo non possiamo amare ciò che siamo. Sono queste antiche verità che stiamo dolorosamente riscoprendo dopo un secolo e passa di ipocriti sentimentalismi. Chi osa negarle, nega la propria famiglia, la propria tradizione, la propria cultura, il proprio diritto di nascita, la propria stessa persona ! E non sarà perdonato tanto facilmente”.
Parole che si adattano perfettamente all’insensata politica interna ed estera italiana portata avanti da decenni.
• GLI AUTOPROCLAMATI IMAM IN ITALIA TRA ARROGANZA E CERTEZZA DI IMPUNITÀ L’atteggiamento arrogante e parassitario di alcuni personaggi è ben noto alle cronache ed in questo è appena il caso di citare i sermoni antisemiti propinati dall’imam pakistano Zulfiqar Khan che, durante una Khutba (sermone) declamata presso il centro islamico Iqraa di Bologna affermò: “Se qualcuno dice a me ‘sei estremista islamico’ dico sì perché estremismo vuole dire seguire i fondamenti…” e ancora “Hamas, Hezbollah, Siria, Iran e Yemen, non vogliono uccidere, non vogliono fare male ai civili” e successivamente invocava: “Quel castigo che stiamo aspettando che viene da parte di Allah, con le mani di Hamas e Hezbollah…”.
E, per sottolineare oltremodo quanto da noi sostenuto in merito all’oltraggiosa tolleranza nei confronti dei “soliti noti”, Zulfiqar nel novembre 2023, ammette che: “…In Italia, grazie ad Allah, siamo al sicuro e abbiamo il diritto di parola”. Parole che conclamano l’atteggiamento remissivo da parte degli apparati dediti alla nostra sicurezza, sulla pelle dei cittadini.
Lo scorso 25 maggio, a Nonantola (MO), lo stesso Zulfiqar ha reso, in pubblico, altre dichiarazioni sconcertanti. Le affermazioni dell’autoproclamato imam, infatti, sono giunte a giustificare e sostenere la causa di Hamas, con esternazioni che di seguito vogliamo riportare per esteso: “Questo piccolo guerriero, un gruppo di persone che si chiama Hamas. Loro hanno fatto capire al mondo che questi sono vigliacchi (Israele, sionisti), non possono far niente contro gli uomini, loro possono solo andare contro i bambini, contro le donne, contro i civili”.
“Noi abbiamo visto, tanti fratelli hanno paura di dire che Hamas è un gruppo sincero, mujahidin, perché avevano bombardato su tutti i musulmani d’Europa che per forza devo dire che Hamas è un’organizzazione terrorista. Hanno provato con me anche dal 7 ottobre in poi, sempre abbiamo avuto questa posizione che Hamas non è un’organizzazione terrorista. Loro stanno difendendo il loro territorio”.
“Noi ringraziamo Allah (sws) tramite questi guerrieri mujahedin di Hamas che hanno fatto scoprire questa realtà, questa verità, che questi (israeliani, americani) sono terroristi, sono assassini…” .
Un altro caso è quello relativo all’influencer e portavoce della Moschea Taiba di Torino, Brahim Baya, già segretario nazionale dell’associazione Partecipazione e Spiritualità Musulmana, che in occasione dell’assemblea organizzata dal “Coordinamento Torino per Gaza” il 17 maggio scorso, aveva espresso il proprio pensiero sulla crisi mediorientale affermando: “La Palestina è da sempre mira degli invasori, i palestinesi negli ultimi mesi hanno resistito a questa furia omicida ma sono ancora in piedi e il loro insegnamento arriva a noi, questa loro sofferenza è una forma di jihad nel più alto senso di questo termine come sforzo per difendere i propri diritti, come sforzo per difendere la vita umana, come sforzo per difendere la pace”. “Un jihad che vediamo in Palestina nella sua più importante manifestazione, in cui ognuno contribuisce a questa lotta di liberazione cominciata dal primo momento in cui i sionisti hanno calpestato quella terra benedetta”.
Affermazioni oltraggiose al limite della decenza, espresse di fronte ad un pubblico compiacente di studenti ed attivisti pro-palestina che, presumibilmente, non hanno mai messo piede in quelle Terre e che, oltretutto, accettano di farsi manipolare dalla cosiddetta “Palliwood” palestinese.
Ritornando a quanto affermato dal ministro Crosetto sulle modalità da adottare per un approccio più “democratico” alla crisi provocata da Hamas, è lecito affermare, a titolo esemplificativo, come l’Italia sia così sfacciatamente “democratica” nel consentire ad individui come il palestinese Mohammad Hannoun, presidente dell’Associazione palestinesi in Italia e sostenitore dell’UNRWA e dell’Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese, possano esprimersi in pubblico con contenuti che glorificano l’assemblatore di ordigni esplosivi per Hamas nonché mente del terrorismo islamista Yahya Ayyash.
Inoltre Hannoun, dal palco di una manifestazione tenutasi di fronte alla stazione Centrale di Milano, aveva già invitato tutti gli arabi a “cacciare tutte le ambasciate israeliane, chiuderle e trasformarle in centri di resistenza”. Il 10 ottobre 2023 aveva definito “legittima difesa” la strage del 7 ottobre, affermazioni espresse in un’intervista andata in onda su Rai3.
• ISRAELE HA SOTTOVALUTATO SEGNALI CHIARI E INQUIETANTI Premesso tutto ciò, è lecito rivolgere le dovute critiche al Governo israeliano sulla gestione degli eventi pre e post 7 ottobre 2023.
Un banale quanto inquietante esempio è fornito nella nota serie televisiva “Fauda”, di produzione israeliana, risalente al 2015, quando nella prima serie già si riscontra un accenno ad “un grande attacco” che Hamas avrebbe compiuto contro Israele, nonché ad un consistente appoggio iraniano alle operazioni dell’organizzazione terroristica palestinese.
I produttori della serie, come riscontrato, sono tutti ex membri dei corpi speciali dello Stato ebraico con esperienze sul campo come “Mista’arvim”(unità antiterrorismo) e di intelligence militare. E’ d’uopo immaginare come il copione seguito durante le riprese non sia unicamente frutto della fantasia degli autori, ma trovi riscontro in fatti concreti se non addirittura frutto di vaghe informazioni ottenute dagli organi della sicurezza israeliana. Ma questo unicamente a titolo esemplificativo di come Israele abbia sottovalutato la potenza di fuoco di Hamas e la sua organizzazione capillare soprattutto nella Striscia di Gaza così come in Libano.
E, a titolo personale, è lecito rilevare come, durante una trasferta nel nord di Israele abbiamo personalmente rilevato le carenze della tutela del confine, soprattutto nella zona di Metulla.
Così come ai confini con la Striscia di Gaza, la sottovalutazione dell’utilizzo delle centinaia di tunnel che dai quartieri di Al Remmal e dalla stessa Gaza conducono nei pressi dei centri urbani israeliani, abbia provocato l’infiltrazione di un considerevole numero di miliziani di Hamas che hanno colpito la popolazione civile violentando, uccidendo, torturando e rapendo centinaia di persone inermi.
Questo non implica certamente un coinvolgimento da parte del Governo di Israele nei noti fatti del 7 ottobre, ma intende sottolineare una certa presunzione dei vertici delle Forze di difesa di Gerusalemme, un dato di fatto che ha successivamente costretto lo Stato ebraico alla conduzione della doverosa controffensiva alla quale stiamo assistendo.
Dal punto di vista operativo, è lecito affermare come la campagna per sradicare Hamas stia richiedendo troppo tempo a causa delle continue pause nell’offensiva che consentono una parziale riorganizzazione di Hamas nella “Striscia”, un fatto concreto ampiamente dimostrato dalla continuità del lancio di razzi contro il territorio israeliano che hanno colpito sino alle porte di Tel Aviv.
• SINWAR E DEIF, FANTASMI BEN CELATI Un secondo punto critico è relativo al mancato rintraccio o eliminazione di Yahya Sinwar e Mohammed Deif, rispettivamente leader di Hamas nella Striscia di Gaza e capo delle Brigate ‘Izz al-Din al Qassam il braccio armato di Hamas nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania e non solo
Ed a tutto ciò, senza presunzione, intendiamo raccomandare ai delegati alla sicurezza israeliana di prestare attenzione all’interno dei confini dello Stato ebraico. Il ripetersi di un nuovo 7 ottobre è una spada di Damocle pendente sulla popolazione civile e sulla base di alcune delazioni, non è da escludere che si verifichi in tempi brevi, anche per ridare lustro ad un’organizzazione terroristica (Hamas) agli occhi dei suoi non pochi seguaci.
La certezza che Sinwar si trovi rintanato in uno dei tunnel della Striscia non ha trovato, almeno sinora, alcun riscontro. L’ipotesi da noi accreditata, anche grazie all’apporto di fonti di settore, è quella che il leader terrorista si trovi in Cisgiordania, così come Deif e che entrambi si muovano continuamente nella zona di Ramallah, Nablus e Jericho cambiando di continuo percorsi e covi sicuri.
Ma queste sono unicamente illazioni giornalistiche, sebbene debitamente supportate, che, comunque sono alla base dei forti dubbi sulla conduzione dell’offensiva militare nella Striscia.
Un’azione che deve assolutamente avere carattere di continuità poiché l’occasione di un totale smembramento di Hamas e della Jihad islamica non si ripresenterà tanto facilmente anche in considerazione delle continue, seppur insensate, pressioni internazionali tese a chiedere più moderazione a Israele. Pressioni provenienti da paesi che, o non sono mai stati colpiti dal terrorismo di matrice palestinese, oppure, come nel caso dell’Italia, che si sono oramai pavidamente arresi all’arroganza dell’islamismo e dell’antisemitismo dilaganti in tutto l’Occidente.
Oltre 100 giovani ebrei da tutta Europa si sono ritrovati nella splendida cornice di Vienna per passare uno speciale Shabbat insieme. Tra vecchie amicizie e nuove conoscenze, l’Unione degli Studenti Ebrei Austriaci (JöH) ha rilanciato dopo 4 anni il suo tipico evento primaverile.
Un’occasione imperdibile alla quale sono accorsi circa una ventina di italiani, formando un’allegra delegazione UGEI. La trasferta, intrapresa principalmente da Roma e da Milano, ha incluso una splendida Kabbalat Shabbat nello Stadttempel, la sinagoga centrale, arricchita dall'emozionante coro viennese, seguita da una vivace cena nella spaziosa sede di JöH.
Il giorno successivo, tra sessioni di politica o di riflessione, a cavallo tra il Museo di Sigmund Freud e il quartier generale di JöH, è stato particolarmente memorabile per l’attività condotta dall’Unione degli Studenti Austriaci (ÖH). A differenza degli atenei italiani, le principali liste studentesche sono apertamente schierate contro le occupazioni e gli accampamenti degli attivisti pro-palestinesi, e hanno una sensibilità nel merito della lotta all’antisemitismo che ha lasciato sbigottita l’intera sala.
Abituati all’atteggiamento ostile dei collettivi universitari italiani nei confronti degli studenti ebrei o israeliani, è stato davvero incredibile scoprire come delle realtà politicamente affini a queste siano invece le prime a scendere in piazza contro l’antisemitismo e la demonizzazione di Israele.
Dopo un giro turistico della meravigliosa capitale e una sentita Havdalah, è finalmente arrivata l’ora dell’immancabile festa con DJ set. Coinvolgendo altri giovani viennesi e israeliani, una bevuta dopo l’altra, la serata è volata fino alle prime ore del mattino.
La domenica, con le poche forze rimaste, ma con tanta adrenalina ancora in circolo, tutti i partecipanti sono balzati fuori dal letto per un’ultima iniziativa ad impatto. Muniti di bandiere e striscioni, abbiamo preso parte a un presidio di JöH presso la Casa Europea di Vienna, per ribadire il pericolo delle derive populiste ed estremiste alle prossime elezioni europee.
Rincasati alla principale location dello Shabbaton, è purtroppo giunto il momento dei saluti, al termine di una spedizione intensa, esilarante e pressoché insonne. Tuttavia, tra gli abbracci di congedo e le promesse di rivedersi presto, la prossima tappa è già stata annunciata: FEJJETON in Costa Brava!
(Bet Magazine Mosaico, 28 maggio 2024)
Un conflitto a fuoco fra Israele ed Egitto: piccolo ma preoccupante
di Ugo Volli
• Un episodio degno di nota che ha avuto poca attenzione
Una notizia importante – il primo scontro armato fra militari israeliani ed egiziani in questa guerra – ha avuto ieri poca eco in mezzo al nuovo ipocrita scandalo per cui Israele è stato accusato di strage, perché in seguito al colpo preciso che aveva colpito due importanti capi di Hamas, si è diffuso un incendio fra le tende degli sfollati in mezzo a cui essi si nascondevano, provocando una quarantina di morti. Il vero scandalo dovrebbe essere il fatto che i capi e i terroristi di Hamas usino la popolazione civile come scudi umani, non solo per nascondervisi, ma anche per proteggere depositi e officine militari, armi, vere e proprie caserme, luoghi di prigionia dei rapiti e anche le loro rampe di lancio. I missili diretti a Tel Aviv sparati l’altra notte per esempio sono stati lanciati dallo spazio protetto fra una moschea e una scuola. E anche i due capi terroristi colpiti si erano nascosti in un accampamento di sfollati, fra l’altro fuori dalla zona indicata da Israele come garanzia per i civili che fuggivano da Rafah. Tutto ciò è un crimine di guerra, ai sensi delle leggi internazionali.
• Lo scontro a fuoco
Lo scandalo per questo episodio è dunque solo una tappa propagandistica del percorso di demonizzazione dell’esercito israeliano e della sua guerra di autodifesa, che purtroppo coinvolge ormai molti leader occidentali e anche italiani, oltre che la totalità della stampa. Ma lo scontro con i militari egiziani, avvenuto sulla linea di confine vicino a Rafah e al punto di transito che la corte di giustizia dell’Aia aveva ordinato di aprire (e che è stato tenuto chiuso dagli egiziani da quando Israele ha preso il controllo del “corridoio Filadelfia” che corre lungo il confine fra Gaza e l’Egitto) potrebbe essere uno sviluppo più significativo. Del conflitto a fuoco, al momento in cui scrivo, non si sa molto. L’Egitto dice che la sparatoria è stata aperta dai militari israeliani, Israele sostiene il contrario (ed è la versione più ragionevole, perché Israele non ha nessun interesse a suscitare un conflitto del genere). Sembra che da parte egiziana ci sia stato un ferito e un caduto, nessuna vittima fra gli israeliani.
• Le ipotesi
Le ipotesi sulle ragioni di quel che è successo possono essere parecchie. Può essere stato un incidente casuale, dovuto a incomprensione, come ne sono capitati alcuni negli anni scorsi. Può esserci stato un militare egiziano fanatico e deciso a fare la guerra agli infedeli: anche questo è successo, per esempio poco più di un anno fa nel Negev, con due vittime israeliane. Può essere stato un segnale dei contrabbandieri beduini che dominano il Sinai e non sono contenti della presenza israeliana che disturba i loro affari.
• Una scelta del regime egiziano
Tutte queste ipotesi sono ragionevoli e tutto sommato tranquillizzanti, non implicano problemi gravi per Israele. Ma poi ce n’è un’altra che invece preoccupa. L’incidente può essere stato voluto e provocato dalla dirigenza egiziana. Naturalmente bisogna chiedersene il perché. Una ragione può essere che il presidente egiziano Al Sisi abbia voluto dare soddisfazione alla “piazza” egiziana, che almeno dai tempi di Nasser è fortemente anti-israeliana. Bisogna ricordare che l’Egitto è stato il nerbo delle forze arabe che si sono scontrate con Israele nelle guerre fra la fondazione di Israele e la guerra del Kippur. Il fatto di averle perse tutte è una ferita nell’orgoglio nazionale che ancora chiede vendetta. L’Egitto è inoltre la sede principale della Fratellanza Musulmana, di cui Hamas è una filiale. Al Sisi è andato al potere con un colpo di stato che ha abbattuto il potere della Fratellanza, ma essa è ancora forte e non si possono conoscere naturalmente gli accordi più o meno taciti che ha negoziato col regime. Bisogna ricordare anche che Sadat è stato ucciso da un islamista per aver fatto un trattato di pace con Israele e Al Sisi non vuole certo subire la stessa sorte di questo suo predecessore. La pace con Israele è sempre stata gelida, e certamente mostrare di essere disposti a scontrarsi con “gli ebrei” può aiutare il regime, che soffre una grave crisi economica e sociale anche a causa del quasi blocco che gli Houti hanno imposto al traffico nel canale di Suez.
• Il contrabbando
Infine vi è la pista più probabile, quella del contrabbando di stato egiziano. Si sa per certo che c’è un fiorente mercato degli ingressi in Egitto per gli arabi di Gaza, che pagano ciascuno molte migliaia di euro per superare il confine ufficialmente chiuso. Ne sono passate finora alcune centinaia di migliaia: un business gigantesco gestito dalle autorità militari locali, fra cui sembra anche il figlio di Al Sisi. Ma c’è di peggio. In questi mesi di guerra è emerso che Hamas era molto meglio armato di quanto si potesse pensare o potesse derivare dal normale contrabbando beduino. Nei primi giorni di presenza israeliana sul confine sono emersi oltre 50 tunnel di contrabbando fra l’Egitto e Gaza. È evidente che una decina di anni fa quando Al Sisi fece allagare alcuni tunnel di contrabbando, stava facendo una sceneggiata e che il contrabbando è continuato sotto il controllo dei suoi militari. Insomma, Hamas ha un accordo strutturale di qualche tipo con l’Egitto, magari pagato in qualche modo dal Qatar o dall’Iran. Una settimana fa è emerso che nelle trattative per gli ostaggi i mediatori egiziani avevano fatto un doppio gioco alle spalle di tutti per incastrare Israele in un accordo a favore di Hamas. È possibile che questi scontri indichino il fastidio egiziano per la scoperta del doppio gioco. È un problema serio, perché l’esercito egiziano si è molto rafforzato negli ultimi anni e con l’accordo israeliano ha potuto ignorare le clausole del trattato di pace che smilitarizzavano il Sinai. Ora, con il pretesto della lotta al terrorismo, gli egiziani hanno potuto allestire un apparato militare importante a ridosso di tutto il lungo confine con Israele, da Gaza fino a Eilat. Se decidessero che gli conviene unirsi al fronte che appoggia Hamas, sarebbe un bel problema. Ma si tratta di uno sviluppo improbabile. L’Egitto ha molto da perdere, sul piano militare, economico e diplomatico in uno scontro vero con Israele. Forse quel che è successo è un avvertimento e un segnale di fastidio, di cui Israele naturalmente dovrà tenere il debito conto.
Deborah Lipstadt: l’antisemitismo attuale è una minaccia per la democrazia
La modalità con cui si propaga oggi l’antisemitismo è molto più pericolosa a causa dei social media, ma paragonare l’attuale situazione a quella del 1938 è una considerazione un po’ estrema.
Come ha riportato il Times of Israel, questo è il pensiero esposto venerdì 24 maggio da Deborah Lipstadt, storica, inviata speciale degli Stati Uniti per la lotta contro l’antisemitismo.
L’accademica, nota in tutto il mondo per i suoi studi sull’ebraismo e la negazione della Shoah, ha detto che il clima odierno è da collocarsi dentro una fascia temporale che si trova, in termini di equiparazione, tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30 del Novecento, in particolare se guardiamo alla destabilizzazione della società del tempo, in rapporto a quello che è successo in molti paesi dopo l’attentato del 7 ottobre, da parte di Hamas in Israele e la conseguente guerra a Gaza.
Infatti, abbiamo assistito ad un vertiginoso aumento di casi di odio verso gli ebrei, negli Stati Uniti e in tutto il mondo, fatti che secondo la studiosa costituiscono una «minaccia alla democrazia e alla sicurezza globale». Un senso di sicurezza che è venuto a mancare tra gli studenti ebrei, nei campus universitari in seguito alle minacciose manifestazioni verso Israele.
Ci sono ancora persone, come si può constatare sui social media, che credono a tutt’oggi nel mito del complotto, con i soliti stereotipi secondo cui gli ebrei controllerebbero i media, le banche e le elezioni governative.
• La fulminea negazione del 7 ottobre Non solo il 7 ottobre 2023 è stato dimenticato, praticamente il giorno seguente, ma c’è chi ha subito cominciato a negare le atrocità commesse dai terroristi di Hamas.
«Sono rimasta scioccata dalla velocità con cui le persone si sono lamentate della risposta di Israele l’8, 9 e il 10 ottobre, prima che ci fosse una risposta. È stato davvero molto inquietante», ha affermato Lipstadt. C’è chi ha celebrato gli stupri e le mutilazioni e chi invece li ha messi in dubbio, nonostante le prove concrete. Ma ancora più sconcertante è stato il silenzio, «proprio di quei gruppi di donne, progressisti, gruppi che combattono la violenza sessuale, gruppi per i diritti umani», gli stessi che si affrettano invece quando l’autore è l’Isis o Boko Haram. Non è invece avvenuto per Hamas, quando a essere le vittime erano degli ebrei, degli israeliani. È questa la differenza secondo la studiosa. C’è chi ha messo in dubbio la veridicità dei fatti, chi ha addirittura pensato che se lo meritassero, solo perché ebrei.
In riferimento ad alcuni illustri studiosi che hanno affermato che la violenza sessuale del 7 ottobre è stato un atto di resistenza ha detto: «Mi dispiace ma lo stupro non è mai resistenza».
Aspettano la strage di innocenti come l'aspetta Hamas, soprassedendo spudoratamente sul perché della guerra e su come i civili vengano sistematicamente usati come carne da macello.
di Franco Londei
Sulle vittime innocenti dell’attacco israeliano a Rafah volto ad eliminare due importanti comandanti di Hamas non possiamo e non dobbiamo soprassedere. Quanto successo è terribile.
Tuttavia non facciamo un buon servizio nemmeno alle vittime se non andiamo oltre al pilota che ha sganciato la bomba sulla macchina di Yassin Rabia e Khaled Najjar senza calcolare le possibili conseguenze sui civili.
Non possiamo non evidenziare il fatto che i due comandanti di Hamas si nascondevano tra i civili innocenti e, anzi, approfittavano proprio del fatto che Israele avesse dichiarato quell’area una “zona sicura”.
È difficile stabilire chi è più colpevole, se chi ha ordinato il bombardamento o chi si nascondeva vigliaccamente tra i civili consapevole di metterli in serio pericolo.
Non possiamo poi non notare come la stampa anti-israeliana (e non solo) si sia buttata a capofitto su questa tragedia di guerra, ripeto il concetto, tragedia di guerra quasi che fossero tutti lì a sperare in un massacro da poter pubblicare in prima pagina, un po’ come i leader di Hamas che sperano nelle vittime civili per poter mettere Israele sul banco degli imputati invece di esserci loro.
Perché se non ricordiamo che tutto questo è partito dal massacro del 7 ottobre, se non ricordiamo che i vigliacchi di Hamas usano i civili come scudi umani ben consapevoli di metterli in pericolo, se non ricordiamo che nelle guerre, e questa è una guerra, le vittime civili ci sono e che questa guerra si svolge in un contesto urbano altamente popolato, se non ricordiamo tutto questo allora davvero non facciamo bene il nostro lavoro.
Che poi gli avvoltoi che si sono buttati a capofitto nella notizia che tanto aspettavano, queste cose le sanno ma fanno finta che non ci siano lasciando solo a Israele il fardello della colpevolezza, è tutto un altro discorso.
Ieri tutti quegli avvoltoi sembravano quasi il leader di Hamas, quel Ismail Haniyeh che ha chiesto il sangue di vecchi, donne e bambini per la causa. Anzi, il capo terrorista è persino migliore di quegli avvoltoi perché almeno non si vergogna di ammettere di usare la gente di Gaza come scudi umani, mentre i vigliacchi dal twitt facile e dalla penna con il veleno al posto dell’inchiostro vogliono passare pure per difensori dei Diritti Umani e del cosiddetto “popolo palestinese” quando invece pure loro fanno di questa gente un mezzo per attaccare Israele e per ottenere qualche click in più.
Mi sembra di vederli, dietro alle agenzie ad aspettare il prossimo episodio di guerra che coinvolga vittime innocenti, a sperare che accada per avere il titolone su Israele da sbattere in prima pagina o su X, dove ignoranti palloni gonfiati danno lezioni di Diritto Internazionale guardandolo solo da un lato quando la materia ha così tante sfaccettature che non la puoi discutere su un social a meno che tu non voglia solo fare il fenomeno.
Ieri a Rafah c’è stato un episodio di guerra dove sono morti oltre 40 innocenti. È la guerra, quella guerra fortemente voluta e scatenata da Hamas. Non possiamo far finta che i terroristi non abbiano responsabilità. Poi sulla gestione del conflitto da parte israeliana ne parleremo a tempo debito, per ora c’è da vincere la guerra, anche sugli avvoltoi che usano questa gente come carne per i loro cannoni sparaveleno.
Università occupate: docenti e studenti non ci stanno
Nelle ultime settimane anche in Italia alcune università sono state occupate dai manifestanti pro-Gaza, che chiedono la sospensione degli accordi con le università israeliane, e che stanno tuttora impedendo in alcuni atenei di svolgere regolarmente a studenti e docenti di seguire le lezioni in presenza, obbligandoli in alcuni casi a seguirle online. Si tratta però di gruppi minoritari all’interno della galassia studentesca, che invece vorrebbe continuare a fare quello per cui è iscritta all’Università: studiare e acquisire conoscenze.
Per questo ci sembra importante pubblicare la lettera scritta da alcuni gruppi studenteschi al Rettore dell’Università Statale di Milano Elio Franzini, in cui viene chiesto di restituire gli spazi alle loro funzioni e all’istituzione di riprendersi il suo ruolo di spazio di studio, conoscenza e confronto.
Allo stesso modo, è doveroso pubblicare la lettera scritta da alcuni docenti al Ministro dell’Università Anna Maria Bernini e alla Conferenza dei Rettori Italiani – CRUI in cui viene espressa l’esigenza di un serio approfondimento della situazione mediorientale, nonché di rappresentare le studentesse e gli studenti preoccupati di una deriva culturale e politica che rischia di avere delle conseguenze devastanti sulla cultura della convivenza e del confronto pacifico nelle università”.
Un anello d’oro con una pietra preziosa risalente al primo periodo ellenistico è stato recentemente trovato durante lo scavo congiunto Israel Antiquities Authority-Tel Aviv University nella città di David, parte del parco nazionale delle mura di Gerusalemme, con il sostegno della Fondazione Elad. Il reperto sarà esposto al pubblico nel corso della conferenza “Misteri di Gerusalemme” organizzata dall’Autorità per le antichità israeliane il Giorno di Gerusalemme – martedì 4 giugno 2024 – mercoledì 5 giugno 2024 -, nel Campus nazionale di Jay e Jeanie Schottenstein per l’archeologia di Israele. Dettagli sono disponibili sul sito web dell’Autorità per le Antichità Israel. L’anello è d’oro e reca una pietra preziosa rossa, apparentemente un granato. Poiché l’oro non subisce alterazioni, il gioiello è apparso intatto e lucente, tra le mani degli archeologi.
Questo anello speciale è stato recentemente scoperto dall’archeologa Tehiya Gangate, un membro della squadra di scavi della Città di David, mentre stava setacciando la terra scavata. “Stavo setacciando la terra e improvvisamente ho visto qualcosa di luccicante”, racconta. “Ho subito urlato: ‘Ho trovato un anello, ho trovato un anello! ’ In pochi secondi, tutti si sono riuniti intorno a me, e c’è stata una grande emozione. Questa è una scoperta emotivamente commovente. In verità, ho sempre voluto trovare gioielli d’oro e sono molto felice che questo sogno si sia avverato – letteralmente una settimana prima di andare in maternità.”
Il Dr. Yiftah Shalev e Riki Zalut Har-tov, direttori degli scavi dell’Autorità Israel Antichities, hanno detto: “L’anello è molto piccolo. Ci starebbe il mignolo di una donna, o il dito di una ragazza o di un ragazzo. La dottoressa Marion Zindel dice che l’anello è stato prodotto martellando sottili foglie d’oro pretagliate su una base di anelli metallici. Stilisticamente riflette la moda comune del periodo persiano e dell’inizio ellenistico, risalente alla fine del IV all’inizio del III secolo a.C. in poi. In quel periodo la gente iniziava a preferire l’oro con le pietre piuttosto che l’oro decorato.
Il professor Yuval Gadot dell’Università di Tel Aviv e e Efrat Bocher, partecipante allo scavo, annotano: “L’anello d’oro recentemente trovato si unisce ad altri ornamenti del primo periodo ellenistico che si trovano negli scavi della città di David, tra cui l’orecchino con animale cornuto e la perlina d’oro decorata.”
Nella storiografia moderna, l’ellenismo si riferisce a quel periodo storico-culturale dell’antico Mediterraneo che inizia con le conquiste di Alessandro Magno (la spedizione contro l’Impero persiano nel 334 a.C.) e si estende fino alla nascita ufficiale dell’Impero romano, segnato dalla morte di Cleopatra VII e dall’annessione dell’ultimo regno ellenistico, il Regno tolemaico d’Egitto, nel 30 a.C., dopo la vittoria di Ottaviano ad Azio nel 31 a.C.
Gli studiosi sottolineano: “Gli scavi del parcheggio Givati stanno iniziando a dipingere un nuovo quadro della natura e della statura degli abitanti di Gerusalemme nel primo periodo ellenistico. Gli studiosi pensavano che Gerusalemme fosse allora una piccola città, limitata alla cima del versante sud-orientale (“Città di David”) e con relativamente pochissime risorse, questi nuovi ritrovamenti raccontano una storia diversa. L’aggregato di strutture rivelate ora costituisce un intero quartiere. Essi attestano sia edifici di Stato che di interesse pubblico, e che la città si estendeva dalla collina verso ovest. Il carattere degli edifici – e ora ovviamente, i ritrovamenti d’oro e altre scoperte – mostrano la sana economia della città e persino il suo status d’élite. Sembra sicuramente che gli abitanti della città fossero aperti al diffuso stile ellenistico e alle influenze prevalenti anche nel bacino orientale del Mediterraneo. ”
Le conquiste hanno contribuito a diffondere e trasportare beni e prodotti di lusso. Spesso le decorazioni dei gioielli erano tratti da figure mitologiche o da eventi simbolici significativi. Eli Escusido, capo dell’Autorità per le antichità israeliane, commenta che “Lo scavo nell’antica Gerusalemme ci rivela informazioni preziose sul nostro passato. In occasione del Giorno di Gerusalemme – dice l’autorità israeliana per le antichità – siamo lieti di invitare il pubblico a partecipare gratuitamente ad una serata dedicata alle affascinanti scoperte a Gerusalemme”“
(Stile Arte, 28 maggio 2024)
Eliminati due funzionari di Hamas di alto livello a Rafah
di Luca Spizzichino
Durante un attacco aereo vicino a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, domenica notte sono stati eliminati dall’IDF Khaled Nagar e Yassin Rabia, due alti funzionari di Hamas in Cisgiordania. Il raid è avvenuto a Tel Sultan, nel nord-ovest di Rafah.
Secondo l’esercito israeliano i due terroristi gestivano l’intera attività di Hamas in Cisgiordania, trasferendo fondi a obiettivi terroristici e pianificando attentati in tutto il territorio. Inoltre Nagar in passato ha compiuto numerosi attacchi terroristici che hanno caratterizzato anche i primi anni 2000. Sia Rabia che Nagar hanno scontato diverse condanne all’ergastolo in una prigione israeliana, ma sono stati liberati nel 2011 come parte di un accordo di scambio di prigionieri per il rilascio del soldato dell’IDF Gilad Shalit.
L’esercito ha affermato che l’attacco è stato “effettuato contro obiettivi legittimi secondo il diritto internazionale, utilizzando munizioni precise e sulla base di precise informazioni di intelligence che indicavano l’uso dell’area da parte di Hamas”. Ha aggiunto di essere “a conoscenza di rapporti secondo cui a seguito dell’attacco e dell’incendio diversi civili nella zona sono rimasti feriti” e che l’incidente è “sotto revisione”.
L’attacco è avvenuto poche ore dopo che il gruppo terroristico aveva lanciato otto missili a lungo raggio verso il centro di Israele, il primo attacco del genere in quattro mesi.
«Da oltre 230 giorni 125 uomini, donne e bambini israeliani sono ancora ostaggio a Gaza. È importante che ripartano al più presto le negoziazioni per il rilascio, condizione necessaria per far la fine della guerra». È il messaggio testimoniato dall’Unione Giovani Ebrei d’Italia e dal Forum delle Famiglie degli Ostaggi durante un flashmob organizzato ieri a Napoli, in piazza del Plebiscito. «Ogni attimo è cruciale per ricordare i nostri fratelli ancora ostaggio di Hamas».
La morte di Raisi non fermerà l’ostilità del regime iraniano contro Israele
di Francesco Paolo La Bionda
Il presidente iraniano Ebrahim Raisi è morto lo scorso 19 maggio in seguito allo schianto dell’elicottero su cui stava viaggiando in una regione montuosa nel nord del paese, durante una giornata di fitta nebbia. Nell’incidente sono deceduti anche il ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian e altre sei persone.
Raisi, sessantatré anni, di Tabriz, faceva parte dell’ala conservatrice più intransigente all’interno del regime iraniano, molto vicino alla Guida suprema Khāmeneī e considerato il suo potenziale successore. Eletto presidente nel 2021 in elezione considerate fraudolente e non libere dagli osservatori internazionali, Raisi aveva alle spalle una lunga carriera in campo giuridico, durante la quale si era guadagnato il soprannome “il macellaio di Teheran”, quando nel 1988, in veste di magistrato, firmò le condanne a morte di migliaia di oppositori politici del regime.
La sua scomparsa apre una fase di incertezza per l’Iran: il 28 giugno si terranno nuove elezioni per scegliere il suo successore, che potrebbero però diventare l’occasione per nuove proteste come quelle che hanno scosso il paese negli ultimi anni. Il popolo è infatti prostrato da una perdurante crisi economica e dalla repressione sempre più severa del dissenso a opera del regime, e già alle elezioni parlamentari del marzo scorso ha fatto registrare il più alto tasso di astensionismo di sempre alle urne persiane. Sui social sono rimbalzate le immagini e i video di iraniani che, dentro e fuori i confini nazionali, hanno festeggiato la morte del loro presidente.
• Tra aggressività tattica e prudenza strategica, la linea su Israele resta invariata Tuttavia, difficilmente il nuovo vertice della Repubblica Islamica ne cambierà l’attuale linea verso Israele, radicalmente e attivamente ostile allo Stato ebraico ma timorosa delle conseguenze di un’escalation diretta. Già in questi giorni immediatamente successivi all’incidente, infatti, si sono visti elementi di sostanziale continuità con quanto accaduto negli ultimi mesi.
Da un lato, quindi, si sono avute le consuete dimostrazioni pubbliche di odio antisraeliano, con le migliaia di partecipanti ai funerali di Raisi, tenutisi a Teheran il 22 maggio, che hanno intonato le solite grida “morte a Israele”. Alla processione funebre sono stati invitati sia Naim Qassem, vicesegretario generale di Hezbollah, sia Ismail Haniyeh, il leader di Hamas al di fuori di Gaza. Quest’ultimo ha prontamente dichiarato di sentirsi sicuro che l’Iran “continuerà a supportare il popolo palestinese”, che nella visione dell’organizzazione terroristica coincide appunto col sostegno finanziario e militare che in questi anni il paese ha fornito all’organizzazione terroristica.
Dall’altro, le autorità iraniane hanno ufficialmente identificato la causa dell’incidente in un guasto tecnico, senza quindi voler cavalcare i sospetti già circolati in campo antisraeliano che puntavano il dito contro un ipotetico sabotaggio a opera del Mossad, tanto che alcuni ufficiali israeliani avevano dovuto esplicitamente dichiarare che lo Stato ebraico non c’entrava niente con l’accaduto. Del resto, Raisi viaggiava su un Bell 212, un elicottero di fabbricazione americana vecchio di decenni, i cui pezzi di ricambio sono oggi difficili da ottenere per l’Iran a causa delle sanzioni.
L’atteggiamento prudenziale del regime iraniano ne dimostra comunque la volontà di non voler cavalcare la vicenda per alzare il livello dello scontro con Gerusalemme, così come era già avvenuto con l’attacco di missili e droni lanciato dalle forze iraniane contro Israele lo scorso 14 aprile, che non aveva provocato sostanzialmente danni. Un’azione praticamente dimostrativa, come tra le righe aveva ammesso la stessa Guida Suprema Khamenei già una settimana dopo, dichiarando che questioni come il numero di missili abbattuti dalla contraerea israeliana e se fosse stato colpito qualche bersaglio fossero “di secondaria importanza”.
• Resta calda la questione nucleare Lo schianto dell’elicottero nell’immediato ha avuto conseguenze invece sulla questione del nucleare iraniano. La scomparsa del ministro degli Esteri ha infatti forzato una pausa nei negoziati che erano in corso tra il paese e l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA), che solo due settimane prima aveva incontrato il funzionario iraniano per una serie di colloqui. Tuttavia, anche nel momento in cui dovessero riprendere, è difficile che l’Iran si sblocchi dalla sua posizione intransigente, di cui Raisi era un forte sponsor. Anche perché il paese ha ormai raggiunto la piena capacità di assemblare le bombe atomiche. Sempre ammesso, e non concesso, che in segreto non si sia già portato avanti: il parlamentare iraniano Ahmad Bakhshayesh Ardestani, durante un’intervista alla radio, ha dichiarato che a suo parere il paese possiede già armi atomiche, ma lo tiene riservato per continuare a giocare al tavolo delle trattative sull’accordo nucleare.
Benny Morris fa il punto sulla campagna militare di Israele contro Hamas
L'offensiva israeliana contro Hamas nella Striscia di Gaza, giunta al suo ottavo mese, a seguito della selvaggia invasione del sud di Israele da parte degli islamisti il 7 ottobre, sembra essere andata male sia militarmente che politicamente e non se ne vede la fine” scrive su Quillette lo storico Benny Morris. “Israele, un piccolo paese con una piccola popolazione ebraica e una piccola base militare-industriale, non è costruito per guerre lunghe. Dal 1948, le sue guerre sono state notevolmente brevi: una settimana nel 1956, sei giorni nel 1967, 18 giorni nel 1973. Anche la mini-guerra fallita con Hezbollah nel 2006 è durata solo un mese. Questa volta la guerra sembra infinita. È vero, all’inizio della campagna a Gaza, i capi dell’establishment della difesa israeliano hanno messo in guardia il governo e l’opinione pubblica a non aspettarsi una soluzione rapida e hanno avvertito che la guerra probabilmente avrebbe richiesto ‘molti mesi’, forse trascinandosi per un anno o più, prima che il suo obiettivo principale fosse raggiunto: la distruzione di Hamas come organizzazione militare e di governo. Tuttavia, mentre il 14 maggio Israele festeggiava i 76 anni di indipendenza, un’atmosfera di acuto sconforto ricopriva la nazione. Ovunque, sia il pubblico che il governo si sono confrontati con manifesti che mostravano i volti dei 100 ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas a Gaza. E la settimana scorsa si è verificata una serie di incidenti che hanno messo in luce sia i fallimenti dell’IDF sia i rischi politici – persino i pantani – che apparentemente si profilano all’orizzonte.
Cinque soldati sono stati uccisi nel quartiere Zeitun di Gaza City, un quartiere già apparentemente ripulito dai combattenti islamici due volte dal novembre 2023; e salve di razzi lanciati da Hamas hanno colpito per la prima volta dopo mesi le città israeliane relativamente distanti di Ashkelon e Beersheba. Insieme, questi incidenti hanno dimostrato che, nonostante le sconfitte che Hamas ha indubbiamente ricevuto, l’organizzazione islamista è ancora in piedi ed è in grado di proiettare potere e letalità dalla sua ultima grande roccaforte, la città di Rafah all’estremità meridionale della Striscia, sul confine israeliano. Funzionari americani, compreso Joe Biden, da settimane avvertono Israele di non invadere Rafah senza garantire un’adeguata protezione e aiuti umanitari. Parlando davanti alla telecamera la scorsa settimana, Biden ha annunciato che Washington aveva ‘sospeso’ una spedizione di bombe a Israele e ha minacciato di imporre un più ampio embargo sulle armi, se Israele avesse proceduto con la sua tanto intenzione di conquistare la città. L’annuncio ha segnato un cambiamento radicale nella politica dell’amministrazione americana, sotto la pressione dell’ala progressista del Partito Democratico e degli studenti che seminano caos e odio anti-israeliano e antisemita nei campus universitari degli Stati Uniti (e in Europa). L’Egitto, da parte sua, teme – o almeno finge di aver paura – che la conquista di Rafah da parte d’Israele si estenda al Sinai, portando centinaia di migliaia di palestinesi a riversarsi nel territorio egiziano. Alcuni osservatori hanno suggerito che non è la prospettiva di un problema di massa di rifugiati nel Sinai, ma il desiderio del presidente Abdel Fattah El-Sisi di placare la ‘strada’ egiziana pro-Hamas a guidare l’attuale atteggiamento del Cairo. Nel frattempo, i due rappresentanti regionali dell’Iran – Hezbollah in Libano e i ribelli Houthi nello Yemen – stanno portando avanti le loro mini-guerre di logoramento contro Israele. Ma gli israeliani sono molto più angosciati dal martellamento quotidiano, anche se con bassa frequenza, dei villaggi di confine e delle postazioni militari israeliane, che ha causato solo una manciata di vittime, ma ha spinto i 70mila residenti della zona ad abbandonare le case e trasferirsi in anguste camere d’albergo e case di parenti nel sud. Molti israeliani ora considerano un errore strategico l’ordine di evacuazione impartito dal governo alla popolazione, compresi gli abitanti della città di Kiryat Shmona, nei giorni successivi ai primi attacchi di Hezbollah l’8 ottobre. Sostengono che se agli abitanti del confine fosse stato permesso o avessero ricevuto istruzioni di restare, Hezbollah non avrebbe mai osato prendere di mira quelle comunità. Allo stato attuale, questi 70mila sfollati si sono aggiunti ai 50mila abitanti dei kibbutz di confine attorno alla Striscia di Gaza presi di mira da Hamas il 7 ottobre, le cui case e infrastrutture sono state gravemente danneggiate sia dall’attacco che dalla successiva campagna militare per sradicare gli Hamasnik che occupavano i kibbutz. Questi due gruppi di sfollati rappresentano un grosso grattacapo per il governo e l’esercito israeliani e un costante promemoria dell’inefficienza e dell’impotenza del governo. Dato il perdurare dello stato di guerra lungo i confini settentrionali e meridionali di Israele, il governo non è ancora riuscito nemmeno ad avviare la ricostruzione che dovrà precedere il ritorno degli sfollati. La maggior parte degli osservatori ritiene che ci vorranno anni, mentre gli sfollati rimarranno nel limbo. Ma dopo sette mesi di campagna, il problema più urgente di Israele rimane la continua esistenza, anzi la resilienza, di Hamas a Gaza. Questa resilienza è in gran parte dovuta alla vasta rete di tunnel – lunga più di 700 chilometri – che l’organizzazione ha costruito sotto le città, gli ospedali, le scuole e i quartieri residenziali della Striscia negli ultimi due decenni. Centinaia – forse migliaia – di buchi all’interno dei complessi ospedalieri e dei condomini consentono l’ingresso o l’uscita dalla rete. I tunnel, costati miliardi di dollari, furono costruiti per fornire rifugio, punti di raccolta e aree di lancio per operazioni di guerriglia in superficie per i circa 30mila combattenti dell’organizzazione, in previsione di un attacco e dell’occupazione israeliane. Come hanno scoperto le truppe israeliane che sono lentamente penetrate nella rete negli ultimi mesi, i tunnel contengono anche recinti e gabbie costruite per ‘ospitare’ gli ostaggi. I tunnel sono 10, 20 e anche 50 metri sottoterra, rinforzati da muri di cemento armato e dispongono di generatori e sistemi di elettricità, acqua e servizi igienici. Sono in gran parte impermeabili agli attacchi aerei e di artiglieria. Hamas ha impedito ai civili di Gaza di entrare nella rete di tunnel e, allo stesso tempo, non ha costruito alcun rifugio antiaereo per la popolazione civile, un fatto che aiuta a spiegare le migliaia di vittime civili inflitte durante la controffensiva successiva al 7 ottobre. Ad aggravare il problema che la rete di tunnel pone ci sono gli ostaggi israeliani. Hamas è stato riluttante a scambiare gli ostaggi rimanenti con Hamasnik imprigionati nelle carceri israeliane, anche con un rapporto ostaggi-prigionieri di uno a trenta, perché servono come scudo umano tattico per i quadri di Hamas all’interno dei tunnel. Questo è uno dei motivi per cui Israele ha trovato così difficile liberare la rete di tunnel.
Oltre a questo scudo tattico, Hamas ha anche uno scudo strategico: la popolazione civile di Gaza, dietro, in mezzo e sotto la quale i combattenti di Hamas hanno operato e continuano a operare. La popolazione di Gaza, che comprende nonni, genitori, fratelli, figli e parenti più lontani dei combattenti di Hamas, ha sostenuto in maniera schiacciante l’assalto del 7 ottobre. Secondo tutti i sondaggi d’opinione, la maggior parte della popolazione continua a sostenere l’obiettivo di Hamas di distruggere Israele.
L’esercito si oppone a un’occupazione a tempo indeterminato in cui Israele sarà responsabile della sicurezza e degli affari civili nella Striscia. Sarebbe una guerra di logoramento senza fine, vittime israeliane e arabe su larga scala e caos amministrativo. Gli Stati Uniti, che si sono concentrati sul problema del ‘giorno dopo’, hanno proposto da tempo che la Striscia fosse consegnata ad un’Autorità Nazionale Palestinese ‘rinnovata’ basata sull’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, con, al suo centro, il partito Fatah, che attualmente governa gran parte della Cisgiordania. L’Anp sarebbe rafforzata dal sostegno politico, economico e forse militare da parte degli stati arabi sunniti ‘moderati’, come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e forse l’Egitto. Questi paesi potrebbero essere disposti a fornire all’ANP truppe per aiutarla a controllare la Striscia e intimorire le restanti squadre di Hamas. Questa idea sembra coincidere con la visione dello Stato Maggiore israeliano per una Gaza post-Hamas. Ma ormai da mesi Netanyahu afferma che il controllo dell’Anp-Olp avrebbe semplicemente convertito ‘Hamastan’ in ‘Fatahstan’, intendendo con questo – in linea con il pensiero della maggior parte degli israeliani – che non c’è alcuna differenza, in fondo, tra Hamas e Fatah, poiché entrambi cercano la distruzione di Israele come obiettivo finale. Nel frattempo, tutti gli occhi – israeliani, americani e arabi – sono puntati su Rafah. Può darsi che la popolazione di Gaza non mangi bene e che vi sia una grave carenza di frutta e verdura fresca, ma la situazione è ben lontana dalla fame e dalle epidemie di massa che Hamas e i suoi sostenitori hanno descritto.
L’esercito ha subìto 280 morti e un numero dieci volte superiore di feriti nella sua offensiva di terra a Gaza, oltre ai 350 soldati uccisi e agli oltre 800 civili assassinati da Hamas il 7 ottobre, e una battaglia reale per Rafah potrebbe costare molte più vittime. L’esercito di Israele, come gli eserciti della maggior parte delle democrazie occidentali, teme di incorrere in gravi perdite e gli ospedali e le cliniche israeliane sono ancora affollati di soldati mutilati e traumatizzati che si stanno riprendendo da questi ultimi sette mesi di combattimento. La prospettiva di una decisiva vittoria israeliana a Gaza potrebbe spingere Teheran e Hezbollah a intervenire per salvare Hamas, scatenando così una guerra su vasta scala. Nel frattempo, non si vede alcuna conclusione positiva in vista per le sofferenze dei circa cento ostaggi che languiscono nei tunnel di Hamas. In effetti, se l’offensiva di Rafah riprendesse slancio, molti di loro probabilmente morirebbero mentre la città viene ridotta in macerie”.
Il Foglio, 27 maggio 2024 - trad. Giulio Meotti)
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Dio sta spingendo Israele in un angolo?
«Allo stato attuale, tutto va contro Israele. E non ha niente a che fare con i fatti, la giustizia e la verità. È il solito destino di Israele. La condotta di Israele nella guerra di Gaza sta scatenando fuoco, caos e accuse internazionali contro lo Stato ebraico. I governi dell'altra sponda del mare hanno paura della rabbia nelle loro nazioni e per questo penalizzano Israele. Per placare le proteste nei loro Paesi, condannano e giudicano Israele. Il biblico destino di Dio sta portando le nazioni e i governi alla follia spirituale e politica. "La menzogna diventa l'ordine mondiale", come dice Franz Kafka. E ancora una volta Israele viene messo all'angolo. "Dio sta spingendo Israele in un angolo per farlo capitolare davanti a Lui”, dicono i rabbini in questi giorni.»
Questa osservazione è tratta da un articolo di Aviel Schneider pubblicato ieri sul quotidiano online “Israele heute” di cui è direttore. Da sottolineare quello che dicono i rabbini in Israele in questi giorni. Fanno riferimento a Dio.Certo - dirà qualcuno - sono rabbini, e quindi fanno il loro mestiere. Benny Morris invece fa un altro mestiere: è uno storico, e non ha bisogno di questi riferimenti. Se no, che storico sarebbe, gli direbbero subito i colleghi. E poi Morris è colui che ha dato il via alla corrente dei “Nuovi storici” postsionisti, quelli che si sono assunti il compito di desacralizzare l’ufficiale narrazione mitologica del ritorno di Israele nella sua terra. Eppure, alla fine di un suo “scientifico” lavoro di ricostruzione di questa narrazione storica, nella sua monumentale opera “Vittime”, Benny Morris sembra non poter evitare di far riferimento a qualche elemento che sta fuori dei consueti steccati storiografici:
“Fin qui, i sionisti hanno potuto considerarsi i vincitori dello scontro. Ogni vittoria può essere spiegata alla luce di fattori concreti e specifici, ma nell’insieme il successo dell’impresa sionista appare quasi miracoloso. Come descrivere altrimenti il radicarsi, in un paese inospitale, in un impero non amico e in una popolazione ostile, di una piccola e mal equipaggiata comunità di qualche decina di migliaia di ebrei russi? Come descrivere lo sviluppo di quella comunità, sia pure all’ombra delle baionette britanniche, nonostante la crescente opposizione e violenza arabe? E la vittoria contro la coalizione araba del 1948? La nascita di un paese solido e vitale? Le vittorie in altri quattro conflitti?”
Già, come descrivere? come spiegare di essere usciti vincitori in così tanti scontri “fin qui”, che per Morris significava la fine del secolo scorso? E adesso? Si ripeteranno i miracoli? «Allo stato attuale, tutto va contro Israele», osserva Schneider da Gerusalemme, dove è cresciuto e vive da sempre come israeliano. Forse è giunto il momento in cui Israeledeve riprendere in forte considerazione il suo rapporto con Dio come nazione. Il 7 ottobre forse è crollato qualcosa non solo negli usuali contrasti destra-sinistra, ma anche nel modo in cui la nazione vive il suo rapporto con Dio. Forse è crollata definitivamente la narrazione ottimistica del sionismo laico, che indubbiamente ha fatto nascere la nazione, ma l’ha fatto prescindendo o mettendo semplicemente a contorno la narrazione biblica di Israele. Gli ebrei, che all’inizio del secolo scorso avevano creduto di risolvere il loro problema di esistenza assimilandosi nella nazione in cui vivevano, e non ci sono riusciti, dopo la seconda guerra hanno sperato di risolvere la questione ebraica assimilandosi come nazione in quel turpe coacervo di gruppi etnici denominato ONU. Così la primordiale Società delle Nazioni, opportunamente aggiornata, è riuscita a trovare il suo Ebreo tra le Nazioni da angariare. Dopo il 7 ottobre la speranza dell’assimilazionismo nazionale ebraico è definitivamente tramontata. Torna allora per Israele il problema Dio. E se si legge con attenzione nella Bibbia, si può vedere che il problema di Israele con Dio non è il suo allontanarsi dalla Torah, ma il suo avvicinarsi agli idoli. Un avvicinamento che spesso è finito in prostrazione, dipendenza vitale, attesa di soccorso:
“Essi abbandonarono la casa dell'Eterno, dell'Iddio dei loro padri, servirono gl'idoli d'Astarte e gli altri idoli; e questa loro colpa trasse l'ira dell'Eterno su Giuda e su Gerusalemme” (2 Cronache 24:18).
Si può ripetere anche oggi qualcosa di simile? Nessuno può dirlo con certezza, ma nessuno anche può escluderlo. Dunque in un paese che non può neanche essere preso in considerazione senza fare riferimento a Dio, sarebbe forse fuori luogo fare di questo interrogativo un oggetto di discussione? Potrebbe esserci per la nazione un legame idolatrico che non solo impedisca il ripetersi di certi miracoli del passato, ma anzi funga da calamita di nuove sciagure? Propongo un nome: libertà. Precisamente, la libertà invocata dal laicismo occidentale. Nella coltura dei germi laicisti si è sviluppato un idolo. Un idolo che Israele si sente obbligato a venerare,sollecitato anche da una parte del mondo (quella buona, s’intende, quella che pratica ogni giorno il culto al supremo idolo di nome LIBERTA’), in opposizione al resto del mondo soggetto ad altri idoli con nomi diversi. Nell’adorazione di questo idolo, il mondo occidentale ha scelto Israele come suo sacerdote, e come baluardo contro le orde dei barbari "fascisti" di vario tipo: “Se perde Israele, cade tutto l’Occidente”, scrivono anche ebrei e amici di Israele. È nel nome di questo idolo che oggi Israele si sente spinto a combattere? M.C.
• Tre sconfitte
Con l’ordinanza di venerdì della Corte di Giustizia Internazionale (ICJ) dell’Aia che accoglie (in parte) le richieste del Sudafrica, Israele ha subito la terza sconfitta in una settimana sul fronte giuridico-diplomatico, dopo la richiesta del procuratore presso l’altra corte dell’Aia (La Corte Penale Internazionale – CPI) e il riconoscimento dell’inesistente Stato di Palestina da parte di tre Paesi europei, (Spagna, Irlanda e Norvegia). È vero che la ICJ non ha ordinato a Israele, come chiedeva il Sudafrica (cui si erano associati fra l’altro due vicini importanti per Israele, Egitto e Turchia) di cessare subito la guerra di Gaza ma solo l’operazione a Rafah e che si tratta anzi di una disposizione formulata in termini abbastanza ambigui da permettere a Israele di continuare la caccia ai terroristi, facendo attenzione a danneggiare il meno possibile la popolazione civile, come sta già facendo. L’ordinanza della ICJ dice infatti: “Israele deve fermare immediatamente la sua offensiva militare e qualsiasi altra azione nel Governatorato di Rafah, che possa infliggere al gruppo palestinese di Gaza condizioni di vita che potrebbero portare alla sua distruzione fisica totale o parziale”. E dà a Israele 30 giorni di tempo per riferire, quanto basta cioè per infliggere seri danni all’infrastruttura sotterranea di Hamas e magari, si spera, di arrivare ai nascondigli dove sono prigionieri i rapiti e si celano i capi terroristi.
• Le cause delle scelte antisemite delle Corti
Ma la sconfitta dell’Aia è chiara. Rafforza la propaganda antisemita e apre la strada a un intervento del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che si potrà fermare solo con un veto americano, certamente pagato a caro prezzo. La Corte non ha avuto il coraggio di dichiarare legittima, com’è, l’autodifesa israeliana e di riconoscere gli sforzi dello Stato ebraico, davvero straordinari e senza precedenti in altre guerre in tutto il mondo, per tutelare i civili. Ha invece accettato l’impostazione accusatoria dei nemici, pur badando a limitarne le conseguenze pratiche. Questa linea di azione, come quella del procuratore della CPI, deriva da diverse cause. In primo luogo vi è la tendenza dei giudici di tutto il mondo (anche in Italia e in Israele) a sostituirsi ai politici nel prendere le decisioni fondamentali per la vita collettiva, anche se nessuno li ha eletti o delegati a questo. In secondo luogo c’è un’impostazione terzomondista dei giudici, della diplomazia, di molti politici, ma anche dei trattati internazionali formulati da diplomatici e giuristi di sinistra, per cui i vincoli vengono posti all’azione degli Stati e invece le azioni di guerriglia sono sempre considerate legittime e giustificate. La giustizia internazionale, come la conosciamo noi, si è consolidata a partire dagli anni Sessanta, in un clima in cui gli eroi dei giovani e degli intellettuali erano Vietnam, Cuba, gli ayatollah iraniani, e già allora i terroristi palestinesi. Oggi Cuba e Vietnam non sono più di moda, anche se pochi hanno preso atto del livello di repressione che li ha colpiti (in particolare nessuno ricorda del tremendo autogenocidio cambogiano) e pochissimi appoggiano davvero la lotta pacifica e davvero liberatoria di donne e giovani in Iran.
• Il mito palestinista e l’odio per le vittime
Il mito che riassume oggi tutto questo esotismo politico è quello della “Palestina” e non c’è atrocità, corruzione, intolleranza, strage, oppressione a limitare l’appoggio che ottiene dai “progressisti” di tutto il mondo. Che giovani, intellettuali, governi di sinistra, giudici internazionali, personaggi mediatici, movimenti femministi esaltino assassini seriali, violentatori di massa, rapinatori e rapitori di donne e bambini, non può purtroppo meravigliare. Anche gli enormi crimini di Mao, Che Guevara, Gheddafi, Arafat, Khomeini non hanno mai impressionato i benpensanti di sinistra. Che poi le vittime ebree dei palestinisti facciano parte di un popolo che non solo l’Islam, ma anche l’Occidente cristiano e illuminista da sempre “love to hate” (ama odiare, come dicono in inglese), è un’altra ragione. Che gli ebrei abbiano una patria, che osino difendersi e sconfiggere i tentativi di genocidi, piace a pochissimi, nonostante tutte le giornate della memoria e la commozione sull’“Olocausto”. Una volta pensavamo che gli piacessero almeno gli ebrei morti, se non quelli vivi. Oggi sappiamo che piangono solo se gli assassini erano di estrema destra. Le vittime della “lotta popolare” non meritano lacrime per loro. È una verità molto amara, ma bisogna farci i conti.
• Che succede ora?
Come ha detto l’ex primo ministro Naftali Bennett in un video molto chiaro, dopo il 7 ottobre Israele aveva tre possibilità: liquidare Hamas bombardando massicciamente Gaza, come gli inglesi fecero con Dresda, e liquidare la faccenda in due giorni, ma al prezzo di centinaia di migliaia di morti. Giustamente ha scelto di non farlo e non lo farà. Oppure poteva fare una azione simbolica di “deterrenza” come dopo i cinque attacchi precedenti (limitati però quasi solo ai missili) dei terroristi di Gaza. Questo voleva dire accettare che presto ci sarebbero stati altri 7 ottobre da Gaza, dal Libano e dalla Siria e anche dai territori amministrati dall’Autorità Palestinese. Inaccettabile: Israele non si è bloccato in una risposta “moderata” e non lo farà. Tiene alla vita dei propri cittadini. Oppure poteva prendersi il lavoro faticoso e pericoloso di andare a cacciare i terroristi nelle loro tane, eliminarli, distruggere le infrastrutture, impadronirsi del territorio per quel tanto che serve a ripulirlo, cercando di spostare la popolazione civile usata da Hamas come scudi umani per non colpirla, ma senza accettare “santuari” per il terrorismo, anche se si tratta di moschee, scuole, ospedali, sedi dell’UMRWA, sistematicamente usate come copertura.
• “Con le unghie e coi denti”
Questa è la scelta di Israele, di tutta Israele a parte qualche manipolo di disfattisti estremisti di sinistra: non di Netanyahu, che è usato secondo una vecchia tecnica come “uomo nero” da odiare in rappresentanza degli ebrei, ma dell’intero popolo israeliano. Così si andrà avanti. I nemici nelle corti e nella diplomazia internazionale ignorano un fatto fondamentale, che il popolo ebraico conosce da millenni: di fronte alla persecuzioni bisogna rinsaldare l’unità, mettere da parte le divisioni, sostenere i propri leader. Chi si illudeva di indebolire il governo israeliano con mandati di cattura, ordinanze, riconoscimenti di movimenti che vogliono la “Palestina” judenfrei “dal fiume al mare” e che hanno sempre rifiutato le paci di compromesso che sono state offerte loro, stanno ottenendo l’effetto opposto: rafforzano l’unità di Israele e la sua determinazione di combattere “anche da solo”, “con le unghie e coi denti”, se necessario, come ha detto Netanyahu.
Sameh Yeh Najafabadi, rappresentante della comunità ebraica iraniana
Il Presidente Ebrahim Raeisi è morto insieme alla delegazione che lo accompagnava, compreso il ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian, dopo che il loro elicottero si è schiantato domenica scorsa nella foresta di Dizmar, nella provincia dell’Azarbaijan orientale. Dopo una ricerca durata ore, ostacolata dalle cattive condizioni meteorologiche, i soccorritori hanno trovato i rottami bruciati dell’elicottero e i suoi passeggeri sono stati confermati morti.
Milioni di iraniani si sono riuniti in varie città del Paese per commemorare la scomparsa del defunto presidente e dei suoi compagni come parte delle cerimonie tenutesi in seguito alla dichiarazione del Leader di lutto nazionale di cinque giorni per la tragica perdita. Decine di leader mondiali, presidenti, ambasciatori e personalità internazionali, hanno inviato messaggi di condoglianze. Tuttavia non è mancata la prevedibile reazione dei leader e media occidentali del tristemente noto “Asse del Bene”. Raesi è stato dipinto come un feroce conservatore, estremista e assassino e molti in Europa si sono rallegrati (più o meno apertamente) della sua morte.
Di opposto parere il rappresentante della comunità ebraica iraniana al parlamento Homayoon Sameh Yeh Najafabadi. In una intervista rilasciata a Press TV Najafabadi ha descritto il rapporto tra il governo del defunto presidente Ebrahim Raeisi e la comunità ebraica come positivo e costruttivo. “Il rapporto tra l’amministrazione del presidente Raeisi e la comunità ebraica iraniana è sempre stato eccellente e la cooperazione tra l’amministrazione e la comunità ebraica è stata davvero notevole. Il presidente ha avuto ottimi rapporti con la comunità ebraica in diversi settori”, ha affermato .
Najafabadi ha continuato affermando che durante il mandato del presidente Raeisi è stato fornito un sostegno “notevole” alle scuole ebraiche di Teheran che avevano vari problemi, aggiungendo che questi problemi sono stati risolti grazie alla cooperazione e al sostegno fornito dal governo. Secondo Najafabadi il Presidente Raesi si è concentrato sulla trasformazione delle relazioni tra ebrei e mussulmani, trasformando i nemici in amici, riuscendo a costruire un quadro politico rispettoso e di dialogo che ha fatto nascere amicizia e fratellanza.
Il deputato ha inoltre osservato che il presidente Raeisi è riuscito a preparare il terreno affinché un ospedale di beneficenza ebraico in Iran abbia potuto riprendere le sue attività dopo che è stato costretto a chiudere a seguito della pandemia di coronavirus. Ha inoltre affermato che la comunità ebraica ha ricevuto “notevoli fondi” dal governo per questioni sociali, culturali e sportive a Teheran e in altre città del paese, aggiungendo che “il presidente Raeisi sarà ricordato nella comunità ebraica”.
Najafabadi ha inoltre affermato che la comunità ebraica convive comodamente e pacificamente con gli altri gruppi della società iraniana, sottolineando che non vi è alcun segno di antisemitismo nel Paese contro i membri della comunità ebraica e che essi sono rispettati da tutti i funzionari governativi.
Gli Yahudiyān-e Irāni (יהודים פרסים Yəhūdīm Parsīm in ebraico) sono presenti in Iran fin dall’era biblica e si trasferirono durante il periodo dell’impero persianoachemenide. I libri della Bibbia ebraica (Ester, Isaia, Daniele, Esdra e Neemia) raccolgono un’ampia narrativa che fa luce sulle esperienze di vita ebraica contemporanea nell’antica Persia. C’è stata una presenza ebraica continua in Iran almeno dai tempi di Ciro il Grande, che guidò la conquista dell’esercito persiano dell’Impero neo-babilonese e successivamente liberò i Giudaiti dalla prigionia babilonese.
Dopo il 1979, l’emigrazione ebraica dall’Iran è aumentata notevolmente alla luce della rivoluzione islamica del paese. L’emigrazione fu una scelta della diaspora ebraica dettata da motivi religiosi e non da pressioni, violenze o discriminazioni da parte del nuovo regime teocratico. Molti degli ebrei che scelsero di lasciare l’Iran risiedono in Israele e negli Stati Uniti. Secondo il censimento iraniano del 2016, la restante popolazione ebraica dell’Iran ammontava a 9.826 persone.
Dopo la rivoluzione il regime teocratico confiscò case, terreni agricoli e fabbriche agli ebrei compromessi con il regime filo americano dello Scià. Alcuni di loro erano sospettati di essere delle spie o dei sostenitori degli Stati Uniti e di Israele. Tuttavia si trattava di una ristrettissima minoranza tra la comunità ebraica in Iran che non fu molestata. La seconda ondata di confische avvenne dopo la partenza di vari ebrei verso Stati Uniti e Israele e fu fatta a seguito delle campagne di diffamazione di quest’ultimi all’estero che affermavano falsamente di essere fuggiti per non essere vittime dei massacri che Komehini stava organizzando contro la comunità ebraica.
Nessun ebreo rimasto in Iran fu ucciso, minacciato o perseguitato. Molti di loro si arruolarono nelle forze armate della Repubblica islamica dell’Iran durante la guerra Iran-Iraq voluta dagli Stati Uniti e durata dal 1980 al 1988.
Nella repubblica islamica gli ebrei rimasti sono diventati più religiosi. Le famiglie che erano laiche negli anni ’70 iniziarono ad aderire alle leggi dietetiche kosher e ad osservare più rigorosamente le regole contro la guida durante lo Shabbat. Smisero di frequentare ristoranti, caffè e cinema e la sinagoga divenne il punto focale della loro vita sociale. Haroun Yashyaei, produttore cinematografico ed ex presidente della Comunità ebraica centrale in Iran, ha detto: “Khomeini non ha confuso la nostra comunità con Israele e il sionismo: ci vedeva come iraniani”.
Nel giugno 2007, nonostante ci fossero notizie secondo cui ricchi ebrei espatriati avrebbero creato un fondo per offrire incentivi agli ebrei iraniani affinché immigrassero in Israele, pochi hanno accettato l’offerta. La Società degli ebrei iraniani ha liquidato questo atto come “attrattiva politica immatura” e ha affermato che la loro identità nazionale non era in vendita.
Gli ebrei nella Repubblica islamica dell’Iran godono degli stessi diritti degli altri cittadini e sono liberi di praticare la propria religione. Nel parlamento iraniano c’è addirittura un seggio riservato al rappresentante degli ebrei iraniani. Sono riconosciuti come minoranza religiosa assieme agli zoroastriani e ai cristiani. Tutte queste minoranze religiose hanno diritto a risiedere al parlamento iraniano.
Gli ebrei iraniani hanno il loro giornale (chiamato “Ofogh-e-Bina”) con studiosi ebrei che svolgono ricerche ebraiche presso la “Biblioteca Centrale dell’Associazione Ebraica” di Teheran. L’ospedale ebraico Dr. Sapir è il più grande ospedale di beneficenza dell’Iran tra tutte le comunità di minoranze religiose del paese.
Il rabbino capo Yousef Hamadani Cohen è stato il leader spirituale della comunità ebraica dell’Iran dal 1994 al 2007, quando gli successe Mashallah Golestani-Nejad. Nell’agosto del 2000, Cohen incontrò per la prima volta il presidente iraniano Mohammad Khatami. Nel 2003, Cohen e Motamed incontrarono Khatami alla sinagoga Yusef Abad, che fu la prima volta che un presidente iraniano visitò una sinagoga dai tempi della rivoluzione islamica.
Gli ebrei iraniani sono conosciuti soprattutto per alcune occupazioni come la creazione di gioielli in oro e il commercio di oggetti d’antiquariato, tessuti e tappeti. La maggior parte degli ebrei vive a Teheran, la capitale.[109] Tradizionalmente, tuttavia, Shiraz, Hamedan, Isfahan, Tabriz, Nahawand, Babol e alcune altre città dell’Iran ospitavano grandi popolazioni di ebrei. A Teheran ha 11 sinagoghe funzionanti, molte delle quali con scuole ebraiche. Dispone di due ristoranti kosher, una casa di riposo e un cimitero. Esiste una biblioteca ebraica con 20.000 titoli. La comunità ebraica in Iran è la testimonianza diretta che il governo teocratico iraniano shiita non ha mai compiuto crociate religiose. La sua avversità è contro il regime coloniale di Tel Aviv che ha sempre massacrato i palestinesi e ora tenta il genocidio e non contro il popolo ebraico.
“Siamo tornati alle epurazioni degli ebrei”, l’ex docente Ugo Volli chiede le dimissioni del rettore dell’Università di Torino
Per il professore è stata tradita la missione educativa e culturale dell’ateneo torinese: «Tutto è iniziato con la decisione sciagurata di sospendere il bando Maeci»
di Caterina Stamin
«Sono arrabbiato», ripete Ugo Volli. «Sono molto arrabbiato».
- Mi spiega il perché? «Provare vergogna per l’apparenza a un’università di cui sono sempre stato fiero è molto triste per me».
Per vent’anni il professor Volli ha insegnato Semiotica del testo all’Università di Torino. In quelle stesse aule ora occupate dai collettivi in tenda, da bandiere della Palestina e striscioni che chiedono la fine del «genocidio in corso a Gaza». Oggi, in pensione, si dice «inorridito» dall’aria che si respira nel suo Ateneo. «Penso alle lezioni spostate online, agli studenti e ai docenti che non vengono fatti entrare e a chi riceve minacce per la sua identità ebraica: mi sento in una situazione simile a quella che visse a mio padre nel ’38, quando le leggi razziste lo espulsero da scuola».
- Non è un po’ troppo? «Assolutamente no. C’è stata un’invasione dell’università da parte di soggetti antisemiti. E il rettore doveva bloccarla per difendere la libertà degli studenti e dei docenti».
- Cosa pensa del sermone dell’imam a Palazzo Nuovo? «Credo sia un fatto gravissimo».
- Perché? «Non tanto e non solo perché è un sermone religioso e l’università deve essere laica, ma perché si tratta anche di una cerimonia politica di parte ed estremista».
- Di quale parte? «Il sermone è stato fatto a favore di terroristi che hanno centinaia di stupri, rapimenti e omicidi sulla coscienza. Si tratta di un’esaltazione di crimini gravissimi».
- L’Università ha abdicato al suo ruolo? «Bisogna fare una distinzione tra le università».
- Prego. «Ci sono state università, come a Roma, a Bologna e anche a Torino, che hanno avuto la dignità di rifiutare comizi filo-terroristi e respingere ricatti di piccoli gruppi estremisti».
- A UniTo non è stato lo stesso? «No, l’Ateneo è stato l’esempio di un luogo che ha tradito la propria missione educativa e culturale: ha avuto la responsabilità di non svolgere il proprio dovere».
- Ovvero? «Garantire innanzitutto l’agibilità dei luoghi di studio e la convivenza di tutti. Poi il dovere di essere un’istituzione di ricerca e di studio che rispetta la Costituzione italiana. L’attuale direzione dell’Ateneo non ha fatto niente per bloccare l’occupazione né quel comizio. E ancora prima ha assunto un ruolo pilatesco di fronte alla domanda oltraggiosa di impedire la collaborazione scientifica con le università israeliane».
- Si riferisce al bando Maeci? «Sì, credo che quello di cui stiamo discutendo oggi sia la conseguenza di quella sciagurata decisione del Senato accademico di accettare il ricatto di gruppi che disturbano l’andamento dell’università, prevaricando».
- Di chi è la colpa? «La prima colpa è di questi gruppetti che approfittano di una licenza che gli viene concessa per fare violenza agli studenti, ai docenti e alla natura stessa dell’università».
- Poi? «Del rettore e del Senato accademico di non aver impedito queste prepotenze e di non aver fatto ricorso alla forza pubblica per ristabilire la legalità in ateneo».
- Al rettore è mancato coraggio? «Non so se sia vigliaccheria, ipocrisia o complicità ideologica. Senza dubbio è mancato al suo elementare dovere. E io chiedo le sue dimissioni».
- Al Politecnico è andata diversamente. «Il rettore del Politecnico si è comportato in maniera corretta, è intervenuto e non si è nascosto. Ma non è un eroe isolato: la maggior parte dei rettori italiani si sono comportati allo stesso modo. Solo alcuni singoli, come Geuna, hanno mostrato totale inadeguatezza al loro ruolo».
«Big Pharma è nelle mani di gente senza valori e adesso controlla l’Oms”
Intervista a Aseem Malhotra. Il cardiologo britannico: «Etica, scienza e salute non contano. Importa solo il denaro. Il vaccino ha causato tanti morti, ma i media sono asserviti»
«Quando gli italiani sentono i nomi Pfizer, Big Pharma o Astrazeneca devono associarli a una parola: persone da cui stare in guardia che ora controllano perfino l'Organizzazione mondiale della sanità. Per ottenere più profitti possibili, senza curarsi delle possibili reazioni avverse hanno imposto che i vaccini Covid fossero obbligatori e adesso dobbiamo fare i conti con le conseguenze di un capitalismo aziendale cui è stato legalmente permesso di danneggiare la popolazione pur di guadagnare». Non usa giri di parole Aseem Malhotra, cardiologo britannico di fama internazionale che da tempo denuncia l'avidità delle aziende farmaceutiche e la loro influenza su istituzioni e organismi di controllo sanitari mondiali. Durante la pandemia, sostiene Malhotra, sull'opinione pubblica e sulla stessa classe medica sarebbe calata una cappa di disinformazione e bugie finalizzata a promuovere i vaccini,con un'operazione analoga a quella che le grandi aziende del tabacco hanno portato avanti per decenni: «Mentre il fumo uccideva le persone, i dati sui danni provocati dalle sigarette venivano nascosti usando un mix di negazione, informazioni fuorvianti e appoggio prezzolato di scienziati e politici. Allora ci volle molto tempo prima che emergessero le evidenti correlazioni tra il fumo e il cancro ai polmoni. Pensi che ancora nel 1994 gli amministratori delegati di Big Tobacco giurarono davanti al Congresso Usa che la nicotina non dava dipendenza e che il fumo non era cancerogeno. Ecco, oggi abbiamo a che fare con persone dello stesso genere, le quali controllano l'informazione sanitaria».
- In termini di gestione sanitaria quale lezione ci ha lasciato la pandemia? «La più importante è che va rimossa qualsiasi influenza commerciale dalle decisioni di salute pubblica. Dobbiamo imparare che alle grandi corporation non interessa la nostra salute ma solo far cassa e che per raggiungere il loro obiettivo sono pronti a mentire, ingannare e manipolare».
- Qual è il legame tra Big Pharma e il mondo medico, oggi? «Le aziende farmaceutiche hanno l'obbligo fiduciario di realizzare profitti per i loro azionisti, non di fornirci la cura migliore. Il vero scandalo è che gli enti regolatori non sono riusciti a prevenire la cattiva condotta dei produttori e che quanti avevano la responsabilità di garantire la salute dei pazienti e della correttezza scientifica - accademici, pubblicazioni specializzate, medici - sono stati collusi con l'industria farmaceutica. Basti pensare che la maggior parte degli enti regolatori occidentali sono finanziati da Big Pharma: l'attuale sistema non solo non è scientifico né etico, ma nemmeno democratico».
- Sta venendo meno la fiducia negli stessi medici? «Da medico osservo una cosa: la salute delle persone peggiora. Già prima della pandemia, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna l'aspettativa di vita era in declino e le malattie croniche in ascesa. Il motivo per cui la fiducia nei medici si sta erodendo è che la maggior parte di loro, inconsapevolmente, prescrive ai pazienti farmaci sulla base di informazioni falsate da altri interessi. Inevitabile che i risultati siano, nella migliore delle ipotesi sub-ottimali, e nella peggiore dannosi. Poi c'è un altro elemento: la professione medica è gerarchica e obbediente, il che facilita l'abuso di potere. Senza dimenticare la connivenza fra Big Pharma e organismi medici di primo piano, inclusa l'Oms, che per il 70% viene finanziata per ottenere una controparte. Il suo secondo contributore oggi è Bill Gates, che si stima che abbia guadagnato mezzo miliardo di dollari dagli investimenti nei vaccini Covid. Il problema è che queste società controllano la narrazione e sopprimono quelle informazioni, cruciali per pazienti e dottori, che ne ridurrebbero l'influenza e il potere sulla salute pubblica».
- Prima di ritirare il proprio vaccino, Astrazeneca ha ammesso la possibilità di effetti collaterali anche gravi. Pensa che un giorno Pfizer e Moderna faranno lo stesso? «La storia di Big Pharma ci mostra che negli ultimi decenni queste aziende hanno pagato multe di decine di miliardi per aver nascosto dati e danni. Dovremo ricorrere ai tribunali, per risolvere parte del problema e arrivare a una verità, se non totale, quantomeno più accurata di quella attuale».
- Come valuta il Trattato pandemico e il nuovo Regolamento sanitario internazionale che l'Oms vorrebbe approvare, anche se sembrerebbe avere poche speranze? «Sarebbe solo un altro mezzo con cui Big Pharma e le grandi corporation vogliono esercitare il loro potere e la loro tirannia, parandosi dietro alla maschera di "indipendente" che indossa l'Oms ma che non corrisponde alla realtà».
- Davanti a tutto ciò che non ha funzionato e ai danni commessi, come si spiega l'insensibilità umana e l'irresponsabilità politica che stanno dimostrando tanti rappresentanti delle istituzioni? «Ci sono più cause: i politici - molti li conosco personalmente perché si affidano a me per consigli medici - riflettono l'atteggiamento della società, che è sempre più materialista e condizionata da entità che hanno messo da parte valori democratici e integrità morale. Il problema - di cui si è occupato anche The Lancet - dei "determinanti commerciali della salute", ovvero quell'insieme di strategie, azioni e omissioni del settore privato che influenzano la scelta di prodotti e hanno conseguenze negative sulla salute pubblica, secondo me va ridefinito in termini di "determinanti psicopatici della salute". Con ciò intendo dire che il comportamento di chi guida certe aziende rientra nei criteri che definiscono la psicopatia: incapacità di provare senso di colpa, disinteresse per la sicurezza altrui, insensibilità, bugie a scopo di profitto. Se queste realtà acquistano sempre più il controllo del sistema e delle nostre vite, ecco che anche l'atteggiamento dei politici sarà conseguente. Abbiamo aziendalizzato gli esseri umani e quando le persone sono patologicamente mosse puramente dall'interesse personale questo danneggia l'intera società, anche da un punto di vista fisico».
- L'abbandono di chi ha subito eventi avversi dopo la vaccinazione è emblematico: perché è ancora così difficile riconoscere questa realtà? «Il problema è che non c'è stato un processo indipendente di analisi dei dati prima dell'introduzione dei vaccini Covid, ma la maggioranza dei medici non lo sa. Quando successivamente un gruppo di eminenti scienziati, tra i quali Peter Doshi, Sander Greenland e Joseph Fraiman, ha potuto analizzare gli studi originali di Pfizer e Moderna, ha concluso che è più probabile soffrire di gravi eventi avversi dovuti al vaccino - in particolare quello a mRna - che di finire all'ospedale a causa del Covid. La stessa Oms aveva approvato una lista di reazioni potenzialmente gravi legati a questi prodotti, solo che nessuno ne ha saputo nulla. Se i dottori - me compreso, che ho fatto due dosi di vaccino Pfizer - vengono tenuti all’oscuro di questo e anzi subiscono un indottrinamento tale che la sicurezza del vaccino viene data per verità biblica, beh è inevitabile che non siano poi in grado di fare la diagnosi giusta e attribuiscano gli eventi avversi che si stanno verificando ad altre cause. Ma quando gli presenti i dati - come faccio io in giro per il mondo - cambiano completamente idea».
- L'alibi fu che bisognava procedere alla velocità della scienza ... «Certo, ma se l'autorizzazione era stata data in via emergenziale perché hanno raccontato alle persone che i vaccini erano completamente sicuri? E perché imporli? Sono certo che a spingere per renderli obbligatori sia stata Pfizer».
- Eppure sostengono che milioni di vite siano state salvate grazie ai vaccini. «Un'affermazione che fa parte del repertorio di inganni, bugie e propaganda cui ricorrono queste aziende per evitare che le informazioni circolino. Da cardiologo, sulla base della mia esperienza e dell'analisi dei dati, posso dire che i vaccini hanno causato almeno altrettanti milioni di decessi, se non di più. Senza contare quelli che registreremo a causa delle malattie oncologiche e dei danni al cuore, che si manifestano anche tempo dopo l'inoculazione, come è successo a mio padre: sei mesi dopo la seconda dose Pfizer ha avuto un arresto cardiaco ed è morto. L'autopsia ha confermato che la causa è stata proprio il vaccino».
Nella figura di Rachele, e precisamente negli ultimi momenti della sua vita, si trova una chiave di lettura per intendere momenti fondamentali della storia di Israele, fino alla venuta del Messia Gesù.
di Gabriele Monacis
La figura di Rachele nella Scrittura è quella di una madre molto particolare. Non tanto per essere stata una delle mogli di Giacobbe a cui, nonostante fosse sterile, Dio diede miracolosamente due figli, Giuseppe e Beniamino. La particolarità di Rachele nella Scrittura sta nel racconto della sua morte, di come e dove morì. È la morte di Rachele, dunque, a fare di questa donna una madre unica nel suo genere.
Rachele morì partorendo un figlio, Beniamino, l’ultimo tra i figli di Giacobbe. La morte di questa madre avvenne per dare alla luce un figlio, un tremendo e dolorosissimo atto d’amore. Inoltre, il libro della Genesi dice che Rachele morì e fu sepolta sulla via di Efrata, cioè di Betlemme, mentre Giacobbe, con tutta la sua famiglia, stava tornando da Paddam-Aram nella sua terra di origine, per rivedere suo padre Isacco.
C'era ancora un certo tratto di strada prima di arrivare a Efrata, quando Rachele partorì: ebbe un parto difficile. Mentre penava a partorire, la levatrice le disse: “Non temere, perché ecco un altro figlio”. E mentre l'anima sua se ne andava, perché stava morendo, chiamò il bimbo Ben-Oni; ma il padre lo chiamò Beniamino. Rachele morì e fu sepolta sulla via di Efrata, cioè di Betlemme(Genesi 35:16-19).
Molti anni dopo, poco prima di morire, Giacobbe ricordò con queste parole quegli ultimi momenti tristi vissuti insieme alla sua amata Rachele.
Quando tornavo da Paddan, Rachele morì, nel paese di Canaan, durante il viaggio, a qualche distanza da Efrata; e la seppellii lì, sulla via di Efrata, che è Betlemme. (Genesi 48:7).
Rachele dunque morì durante il viaggio, di ritorno nella terra di Canaan. Fu l’unica, tra le mogli dei patriarchi di Israele, a non essere mai vissuta nella terra che Dio aveva promesso loro. Lì lei fu solo di passaggio.
Dopo essere stata ricordata da suo marito in punto di morte, Rachele viene menzionata altre tre volte in tutta la Bibbia. Quattro, se si considera un riferimento alla “tomba di Rachele” nella vita di Saul, prima che diventasse re di Israele (1 Samuele 10:2). A testimoniare che, anche dopo molti secoli, la tomba di Rachele esisteva ancora e il luogo della sua morte è rimasto un punto di riferimento per coloro che si trovavano nel territorio della tribù di Beniamino.
Dopo la morte di Giacobbe, si diceva, Rachele è menzionata una volta alla fine del libro di Rut, quando Boaz decise di acquistare tutto ciò che apparteneva alla famiglia di Naomi e di sposare Rut, vedova di Malon.
Tutto il popolo che si trovava alla porta della città e gli anziani risposero: “Ne siamo testimoni. L'Eterno conceda che la donna che entra in casa tua sia come Rachele e come Lea, le due donne che fondarono la casa d'Israele. Spiega la tua forza in Efrata, e fatti un nome in Betlemme! (Rut 4:11).
Queste parole del popolo furono profetiche, in un certo senso, poiché da lì a poco Rut partorì a Boaz un figlio, Obed, che poi divenne il nonno di re Davide. È importante notare che nelle parole del popolo, il nome di Rachele è associato alla città di Betlemme, da cui la famiglia di Naomi proveniva.
La volta successiva in cui si trova il nome di Rachele, e anche ultima per quanto riguarda l’Antico Testamento, è nel libro di Geremia. Qui è l’Eterno stesso a nominarla, per descrivere la sofferenza di Israele nel vedere i propri figli deportati a Babilonia ad opera dei Caldei, quando questi conquistarono il regno di Giuda.
Così parla l'Eterno: “Si è udita una voce in Rama, un lamento, un pianto amaro; Rachele piange i suoi figli; lei rifiuta di essere consolata dei suoi figli, perché non sono più” (Geremia 31:15).
Ma è l’Eterno che risponde a se stesso e dà speranza a Israele, chiedendogli di non piangere più, perché quei figli che le madri stanno piangendo torneranno dal paese nemico.
Così parla l'Eterno: “Trattieni la tua voce dal piangere, i tuoi occhi dal versare lacrime; poiché la tua opera sarà ricompensata”, dice l'Eterno, “essi ritorneranno dal paese del nemico; e c'è speranza per il tuo avvenire”, dice l'Eterno, “i tuoi figli ritorneranno entro i loro confini (Geremia 31:16,17).
L’unica volta in cui Rachele è menzionata nel Nuovo Testamento, è nel vangelo di Matteo, il quale afferma che sì adempì quello che fu detto per bocca del profeta Geremia quando il re Erode ordinò di uccidere tutti i figli maschi nati a Betlemme e dintorni – eh sì, ancora Betlemme – per uccidere anche Gesù, il quale era stato indicato come il Messia dai magi giunti dall’Oriente.
Un grido è stato udito in Rama; un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e rifiuta di essere consolata, perché non sono più (Matteo 2:18).
Mettendo in ordine questi brani biblici accomunati dalla figura di Rachele, troviamo prima la sua morte sulla via di Efrata, cioè di Betlemme, mentre partoriva Beniamino. Il secondo brano è nel libro di Rut, quando il popolo la benedice affinché diventi una madre di Israele come lo fu Rachele. Il terzo brano è in Geremia, quando è l’Eterno a paragonare il pianto di Israele per i suoi figli con quello di Rachele. Allo stesso tempo, promette che quei figli di Israele torneranno. Pertanto, il pianto deve lasciare spazio alla speranza nella Parola di Dio. Il quarto brano è quello nel vangelo di Matteo. A seguito della nascita di Gesù, i bambini maschi di Betlemme vengono uccisi e il pianto di quelle madri viene paragonato al pianto di Rachele, che piange i suoi figli.
Oltre alla figura di Rachele, che cos’è che hanno in comune questi quattro eventi della storia di Israele? Come detto in precedenza, è la morte di Rachele a rendere la figura di questa donna così particolare, perché è negli ultimi momenti della sua vita che si trova la chiave per leggere gli altri eventi della storia di Israele legati al suo nome. Compreso quello del Nuovo Testamento.
La morte di Rachele è stata una porta per la vita di suo figlio Beniamino. Non una morte fine a se stessa, dunque. Ma un’espressione di amore smisurato della madre, che arrivò al punto di morire per dare la possibilità al figlio di vivere. E la città di Betlemme diventa il teatro di questo fatto tragico, il luogo in cui la morte e la vita si sono incontrate e si sono abbracciate per qualche istante.
La morte ha lasciato spazio alla vita anche nella storia di Rut, nuora di Naomi, la cui famiglia era destinata a scomparire dalla storia di Israele e ad essere rimossa dalle genealogie future, in quanto tutti i componenti maschi della famiglia erano morti. Grazie al matrimonio tra Boaz e Rut, e al figlio Obed nato da questa unione, una famiglia di Israele che era defunta torna a vivere, la sua memoria improvvisamente riprende forma e spazio nella storia di Israele. E la città di Betlemme è di nuovo il luogo che ospita questa rinascita.
Anche l’Eterno promette una certa rinascita alle madri di Israele piangenti, che vedevano i propri figli deportati a Babilonia. Se non una rinascita individuale di ogni singolo figlio deportato, certamente una rinascita di Israele inteso come popolo. Per bocca di Geremia, l’Eterno promette che la deportazione non sarà per sempre e i figli di Israele torneranno nella loro terra. La devastazione che era davanti a quegli occhi pieni di lacrime non era la fine di tutto. E il popolo era chiamato ad aggrapparsi a questa promessa dell’Eterno, che concede speranza ai disperati. Infatti, così avvenne. Dopo settant’anni di deportazione, Israele poté tornare nella sua terra, come aveva promesso l’Eterno per bocca del profeta Geremia.
Arriviamo così al brano del vangelo di Matteo, che evidentemente prolunga la retta che interpola gli eventi passati della storia di Israele, legati a Rachele e a Betlemme, e che passa anche per la nascita di Gesù Cristo, che avvenne proprio a Betlemme. Perché Israele dovrebbe smettere di piangere davanti a una tragedia come quella delle madri di Betlemme, che persero i loro figli per ordine di re Erode? In cosa consiste la speranza che offre la Scrittura in apertura del Nuovo Testamento?
La speranza è proprio in Gesù, in questo figlio di Israele che è nato, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati, come disse l’angelo del Signore a Giuseppe. Questo figlio è come Beniamino, il figlio che Rachele partorì. Il quale prima era stato chiamato dalla madre morente Ben-Oni – ossia figlio della mia sofferenza; ma suo padre Giacobbe gli cambiò il nome e lo chiamò Ben-Iamin – ossia figlio della destra.
La speranza di Israele risiede in questo figlio Gesù, il quale prese su di sé i peccati del popolo attraverso la sua sofferenza e morte - Ben-Oni. Ma poi fu risorto e salì alla destra del Padre - Ben-Iamin, dove siede tuttora, per dare speranza ai disperati, lui che dovette accettare di morire in croce, e per far rivivere i morti, lui che fu risuscitato. Ed è proprio in questo figlio Gesù, nel quale la morte ha lasciato spazio alla vita, che è conservata la speranza di Israele.
Siria: due miliziani di Hezbollah sono stati uccisi in un attacco attribuito a Israele
Due combattenti del gruppo libanese sciita filo-iraniano Hezbollah sono stati uccisi in un attacco attribuito a Israele nella città di Qusayr, nel governatorato di Homs, nel centro-ovest della Siria. Lo ha riferito l’Osservatorio siriano per i diritti umani (Sohr), organizzazione non governativa con sede a Londra ma con una vasta rete di contatti sul territorio.
Nell’attacco, due missili hanno colpito “un’auto e un camion di Hezbollah vicino alla città di Qusayr, nella provincia di Homs, mentre si dirigevano verso l’aeroporto militare di Al Dabaa, uccidendo almeno due combattenti di Hezbollah e ferendone altri”, ha spiegato il Sohr. Sebbene Israele, di norma, non faccia commenti su attacchi specifici in Siria, ha ammesso in precedenza di aver condotto centinaia di sortite contro le milizie sostenute dall’Iran.
Uno dei mantra più diffusi e falsi inerenti al conflitto tra arabi e Israele è quello relativo ai così detti “coloni”. Non c’è articolo, intervista o libro favorevole o contrario ad Israele che non li citi a sproposito. Ormai l’opinione pubblica è talmente condizionata che li vede come uno “ostacolo alla pace”, anzi come l’unico ostacolo alla pace. La conseguenza politica di questa visione delle cose è diventata la criminalizzazione della presenza ebraica in Giudea e Samaria a prescindere dalla storia e dal diritto internazionale. Ciò ha portato la UE e gli USA a intraprendere una agenda politica discriminatoria nei confronti degli abitanti ebrei di quei luoghi e dello stesso Stato di Israele, trattato in maniera del tutto opposta rispetto ai casi di vera occupazione in giro per il mondo. Della politica della UE, nei confronti di Israele, ne abbiamo già scritto in maniera dettagliata (http://www.linformale.eu/la-ue-e-la-sua-ossessione-anti-israeliana/), qui è sufficiente ricordare che la UE applica nei confronti di Israele dei criteri che sono opposti a quelli applicati in tutti i casi di occupazione reale. Infatti, nel caso di occupazione del Sahara Occidentale operato dal Marocco, non solo i coloni marocchini non sono considerati un “ostacolo alla pace” ma per i prodotti di provenienza dal Sahara Occidentale occupato si applicano delle tariffe agevolate di importazione (e non sono “marchiati” come quelli israeliani). Lo stesso discorso vale per il caso di Cipro Nord, occupato dalla Turchia: nessuna presa di posizione politica della UE nei confronti dei coloni turchi o della Turchia che occupa un terzo della superficie di un paese membro della UE. Anzi, in questo caso la UE finanzia le colonie turche a Cipro. Perfino la Corte Europea dei Diritti Umani si è espressa contro le istanze presentate dai greco-ciprioti: nessun “diritto al ritorno” al massimo una compensazione economica per le proprietà occupate dai turchi. Analogamente sono stati trattati i casi di occupazione della Cambogia (da parte del Vietnam), di Timor Est (da parte dell’Indonesia): in nessun caso è mai stato chiesto dalla UE, dagli USA o dall’ONU l’allontanamento dei coloni delle potenza occupante dal territorio occupato. Questa non regola è richiesta unicamente a Israele che, per giunta, non occupa nessun territorio che non sia legittimamente suo sotto il profilo del diritto internazionale. Perché nessuno – neanche tra gli amici di Israele – mette in evidenza questo doppio standard della comunità internazionale, anziché, fare da cassa di risonanza della propaganda politica antiebraica? Un’altra considerazione deve essere messa debitamente in evidenza, ed è quella relativa all’eradicazione “dell’ostacolo alla pace”. Anche in questo caso la comunità internazionale ha superato se stessa: Israele dovrebbe cimentarsi in un’operazione di pulizia etnica nei confronti della sua popolazione ebraica che vive in Giudea, Samaria e nella propria capitale perché solo così ci sarà “la pace”. Ma, viene da chiedersi, come mai nel caso di Timor Est o della Cambogia si è arrivati alla “pace” senza che un solo colono indonesiano o vietnamita sia stato allontanato dalla sua casa? Perché la comunità internazionale non obbliga i turchi o i marocchini a fare pulizia etnica dei propri cittadini per arrivare alla “pace” a Cipro o nel Sahara Occidentale? Anzi, in questi casi, afferma che non rappresentano affatto un ostacolo alla “pace”. Perché? La storia annovera innumerevoli casi di dispute territoriali tra i popoli. Ci soffermeremo, come esempio, solamente, su una in particolare: quella relativa alla popolazione tedesca dell’Europa dell’est. Alla fine della Seconda guerra mondiale fu deciso dalle Potenze vincitrici (USA, URSS e Gran Bretagna) con un accordo internazionale (Potsdam agosto 1945), che tutta la popolazione tedesca (circa 14 milioni di persone), che viveva in Polonia, Cecoslovacchia, Paesi baltici, Ungheria, Romania e URSS, dovesse essere allontanata “in maniera coercitiva” – così è scritto nell’accordo internazionale – perché ritenuta pericolosa per la pace. In pratica la comunità internazionale decise che i civili tedeschi che vivevano, in questi Stati, in molti casi da quasi mille anni, dovessero essere espulsi dalle loro case attraverso la più grande operazione pianificata di pulizia etnica della storia. Questo, non fu il primo caso di trasferimento coatto di popolazione civile, ammesso dal diritto internazionale, ma, fu senza dubbio il più massiccio. La motivazione era chiara: i tedeschi erano stati i responsabili di numerose guerre di aggressione nei confronti degli Stati vicini e la presenza di abitanti di lingua tedesca in numerosi Stati era vista come una minaccia alla pace e potenzialmente come un pretesto per future aggressioni. Ora, nel mondo capovolto di oggi, si ha la pretesa che Israele debba fare opera di pulizia etnica di una parte della propria popolazione in una porzione di territorio sulla quale ha piena legittimità, nonostante sia Israele lo Stato più volte aggredito dagli arabi (e non il contrario) e per giunta sempre vittorioso: cioè esattamente il contrario di quanto fatto con i tedeschi dopo il 1945. Si tratta, come è evidente, di un ribaltamento della logica: è come se, alla Germania sconfitta, fossero state date parti di Polonia, Cecoslovacchia e Paesi baltici, dalle quali fosse stato richiesto agli abitanti polacchi, cechi, ecc. di andarsene e, nel contempo, alle locali autorità fosse stato richiesto di compiere l’opera di pulizia etnica. Purtroppo si leggono libri e si sentono opinionisti – “amici di Israele” – che avvalorano questa tesi priva di ogni contenuto storico, morale e di buon senso; infatti, non è mai applicata, come esposto, in nessun altro contesto.
L'Aia ordina lo stop a Israele, che continua a trovare solo cadaveri dei rapiti da Hamas
La Corte internazionale di giustizia chiede di fermare l’offensiva militare a Rafah deliberando a favore della richiesta del Sudafrica. Per lo stato ebraico la priorità assoluta è la restituzione degli ostaggi: su oltre 240 catturati il 7 ottobre, secondo l'intelligence sarebbero vivi in trenta.
di Giulio Meotti
Dopo la richiesta di arresto di Benjamin Netanyahu da parte del procuratore della Corte penale dell’Aia, la Corte internazionale di giustizia dell’Aia ha ordinato a Israele di fermare l’offensiva militare a Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, deliberando a favore della richiesta del Sudafrica, che ha accusato Israele di “genocidio”. Il risultato della votazione è stato di 13 a 2. I due voti contrari sono Julia Sebutinde, rappresentante dell’Uganda presso la Corte, e di Aharon Barak, ex presidente dell’Alta corte israeliana e nominato da Gerusalemme presso il comitato della Corte di giustizia.
Altri tre giudici sostengono che la clausola operativa della decisione della corte non limita Israele nell’immediato, ma solo nel caso che l’operazione a Rafah dovesse contravvenire alla Convenzione di Ginevra. Intanto Israele continua a trovare corpi di ostaggi a Rafah. La scorsa settimana sono stati ritrovati i corpi di tre civili, fra cui quello di Shani Louk, la ragazza simbolo del 7 ottobre. L’esercito israeliano oggi ha recuperato i corpi di altri tre ostaggi, fra cui il cadavere del fidanzato di Shani, Orión Hernández Radoux, e quelli di Hanan Yablonka e Michel Nisenbaum. Erano al festival Supernova quando è stato attaccato dai terroristi di Hamas.
Il gabinetto di guerra di Israele ha intanto approvato la ripresa dei colloqui indiretti con Hamas per il rilascio degli ostaggi dopo settimane di stallo. La priorità assoluta è la restituzione degli ostaggi catturati da Hamas. Oltre 240 ostaggi sono stati presi il 7 ottobre. Ufficialmente ci sono 124 rapiti ancora a Gaza. Ma ogni giorno che passa, Israele trova sempre più solo ostaggi morti e diminuiscono le possibilità di trovarne di vivi. E il numero di vivi o morti è fondamentale per le proposte di cessate il fuoco, che prevedono lo scambio con terroristi palestinesi detenuti in Israele. Gli ostaggi vivi sarebbero solo trenta, secondo l’intelligence di Israele. Hamas non fornisce informazioni su quanti siano vivi, perché sa che lasciare gli israeliani all’oscuro sulla sorte dei rapiti li mette nella condizione di non sapere per cosa stanno negoziando.
Appello degli ebrei europei per un’Europa unita e coerente con i suoi valori fondativi
Pubblichiamo l’appello di Jcall in vista delle elezioni europee a sostegno dei partiti e dei candidati che affermano una visione dell’Europa ispirata alla pace e alla difesa di tutte le minoranze etniche e religiose.
Noi come ebrei e cittadini europei,
- Legati ai valori ebraici di difesa dei deboli, giustizia sociale, dignità dello straniero;
- Difensori della democrazia e del pluralismo, essenziali per la protezione delle minoranze e il convivere di etnie, religioni e culture differenti;
- Allarmati per l’acuirsi di forme di intolleranza e discriminazione del diverso in Italia, Europa, Medio Oriente, così come altrove nel mondo.
Riaffermiamo i valori alla base della costruzione di un’Europa unita: pace, democrazia, tutela dei diritti umani, rispetto della diversità etnica e culturale, ripudio dell’etno-nazionalismo;
Condanniamo il risorgere di atti di antisemitismo così come di rimozione della memoria e di banalizzazione degli orrori degli anni ’30 e ’40 del Novecento;
Ci opponiamo all’irrompere nello spazio pubblico di atteggiamenti e atti di razzismo contro stranieri da parte di individui, movimenti e settori delle pubbliche amministrazioni, richiedendo alle istituzioni – dalla scuola agli enti pubblici ai mass media – un forte impegno a combatterne e rimuoverne le radici;
Sosteniamo, in vista delle elezioni per il Parlamento europeo, partiti e candidati che affermano e condividono questi principi e valori.
Per adesioni, scrivere a jcall.italia@gmail.com
Il testo dell’appello e l’elenco dei sottoscrittori saranno disponibili sul sito www.jcall.eu
Fra i primi firmatari: Marina Piperno, Giorgio Treves, Giorgio Gomel, Gad Lerner, Carlo Ginzburg, Sandro Ventura, Anna Foa, Stefano Levi della Torre, Fiorella Kostoris, Alberto Cuevas, Stefano Jesurum, Federico Fubini, Giovanni Levi, Francesca Ceccherini Silberstein, Luisella Gomel, Raul Wittenberg, Renata Segre, Ugo Caffaz, Valeria Gandus, Hugo Estrella, Rimmon Lavi, Giorgio Basevi, Emila Perroni, Franco Giovannini, Bice Fubini, Daniele Amati, Silvia Amati, Bruno Contini, Antonella Ortis, Daniela Della Seta, Ambra Dina, Lello dell’Ariccia, Paola Moscati, Sergio Tagliacozzo, Laura Voghera, Alessandra Ginzburg, Micaela Vitale, Lia Cammeo, Simonetta Polacco, Dunia Astrologo, Emilio Jona, Alberto Zevi, Maddalena Basevi, Claudio Treves, Enrico Franco, Ester Rosenbaum, Davide Banon, Rahel Schneider, Anna Nassisi, Anna Murgiannis, Francisco Estela Burriel
«Palestina libera, dal fiume al mare» il ritornello buono per ministri, politici, rettori
Il ministro del Lavoro spagnolo, Diaz, ha pronunciato la frase utilizzata ormai non solo dai miliziani di Hamas.
di Stefano Piazza
Che la guerra scoppiata tra Israele e Hamas dopo l'operazione militare del 7 ottobre 2023 nel sud di Israele ha fatto riesplodere l'antisemitismo a livello globale con aggressioni fisiche, insulti e minacce nei media, profanazioni di luoghi di culto e cimiteri ebraici lo abbiamo più volte raccontato; ma che un ministro di un Paese membro dell'Unione Europea (in questo caso la Spagna), si potesse presentare in televisione per dire: «La Palestina sarà libera dal fiume al mare», fino a ieri era impossibile da immaginare ma è successo. A farlo è stato il leader di Su mar (estrema sinistra che ha 37 seggi in parlamento), ministro del Lavoro e vice primo ministro Yolanda Diaz che pare davvero ossessionata da Israele, dato che si occupa a tempo pieno della questione israelo-palestinese. Ma che vuol dire esattamente questo slogan che anche gli studenti che occupano le università in tutto il mondo ripetono ossessivamente?
«"Dal fiume al mare" - spiega Davide Riccardo Romano, Direttore del Museo della Brigata Ebraica - è uno slogan di Hamas che dice chiaramente qual è il suo obiettivo: cancellare Israele dalla mappa per fare spazio a uno Stato Islamico palestinese sul modello iraniano. Il dramma è che Hamas - come Hitler a suo tempo - è sincera e dice chiaramente quello che vuole fare, a partire dal proprio Statuto. Eppure non viene creduta, nonostante sotto il regime di Hamas fosse vietato il libro di Romeo e Giulietta (perché occidentale) mentre è permesso il Mein Kampf del leader nazista. Tanti, troppi, in Occidente non capiscono cosa sia veramente Hamas. Il fatto che gli studenti ripetano quello slogan genocidario, conferma come queste minoranze esagitate di giovani non stanno con il popolo palestinese in generale, ma solo con la parte più fanatica e sanguinaria di esso. Quella che vuole relegare la donna in casa con il velo, fuori dal mondo civile. Dimenticano - o meglio, non sanno - che Hamas prevede torture e morte per i gay e per i giornalisti o gli studenti disobbedienti. Sono ragazzi confusi: studenti di estrema sinistra che appoggiano un regime islamo-fascista. Sono i migliori alleati di Teheran, la migliore gioventù di un regime sanguinario e razzista».
In una delle ultime dichiarazioni alla stampa, Yolanda Diaz, ha enfatizzato «l'impegno del governo nel chiarire e indagare su Netanyahu come un criminale» poi ha aggiunto che «questo è un passo che il nostro Paese deve incoraggiare e sostenere insieme ad altri Stati, al fine di porre fine alla barbarie una volta per tutte».
Sia l'ambasciata israeliana che la Federazione delle comunità ebraiche spagnole hanno condannato le parole del ministro del Lavoro e dell'Economia Diaz e su X l'associazione ebraica scrive: «Invece di promuovere la sicurezza degli ebrei spagnoli, incoraggiano l'odio e il rifiuto nei loro confronti». Su X, l'ambasciata israeliana a Madrid scrive di respingere completamente le dichiarazioni di Yolanda Diaz: «Lo slogan è un chiaro appello alla distruzione di Israele, fomentando odio e violenza. Le dichiarazioni antisemite sono incompatibili con una società democratica ed è inaccettabile che provengano da un vice primo ministro. Ci auguriamo che la Spagna mantenga la sua promessa di combattere l'antisemitismo».
La Spagna è uno dei tre Paesi europei, insieme a Irlanda e Norvegia, che si stanno preparando a riconoscere uno Stato palestinese entro pochi giorni, secondo gli annunci di questi governi questa settimana. Per Davide Riccardo Romano «se il vice primo ministro Yolanda Diaz ritiene che uccidere e torturare donne e bambini sia la strada per ottenere un riconoscimento statuale, mi domando perché non ha preso la stessa iniziativa per lsis o al-Qaeda, che peraltro ha già colpito a Madrid nel 2006 con 793 vittime. È pieno il mondo di terroristi che si accaniscono contro i civili, e non capisco come mai abbia questa predilezione per Hamas. Forse perché uccidere ebrei è per lei cosa encomiabile? Vorrei ricordare al viceministro che lo slogan dei jihadisti è 'prima il sabato e poi la domenica', che tradotto vuole dire "prima perseguitiamo gli ebrei e poi toccherà ai cristiani". Del resto, è visibile a tutti come nei territori governati da Hamas o dall'Anp i cristiani scappano, mentre Israele è l'unico luogo del Medio Oriente dove sono in aumento».
Teatro Parenti sotto attacco: studenti contestano la cultura ebraica
L’accusa è di «avamposto di sionismo in città»
«Firme contro il Teatro Parenti, avamposto del sionismo in città». Questo è il titolo che campeggia sulle pagine di Libero. Nell’articolo si legge che i collettivi e gli studenti dell’Accademia di Brera criticano le attività del Teatro, ritenute troppo influenzate dalla cultura ebraica.
Intanto da stamattina la notizia si è diffusa rapidamente sui social, suscitando sgomento tra coloro che conoscono il prestigio del noto teatro, da sempre impegnato a offrire spettacoli di alta qualità con artisti di grande rilievo. Sin dal sodalizio fortunato tra Franco Parenti, Giovanni Testori e Andrée Ruth Shammah, il Teatro si è infatti distinto per la valorizzazione della drammaturgia d’autore e per la promozione della libertà di pensiero attraverso proposte eterogenee.
«Di fronte al silenzio complice è l’indifferenza delle istituzione accademica sul genocidio del popolo palestinese, abbiamo deciso di far sentire la nostra voce in solidarietà alla resistenza del popolo palestinese», scrivono sui social gli studenti di Brera. E per questa ragione hanno deciso lanciare una raccolta di firme per chiedere di «interrompere la convenzione col teatro Franco Parenti, avamposto del sionismo a Milano». L’accusa degli studenti ha scosso e indignato la nostra Comunità ma anche chi conosce bene il variegato palinsesto del Teatro Parenti, sempre improntato alla pluralità, universalità e laicità di pensiero.
Fin dalla sua fondazione, il Parenti ha ospitato anche spettacoli e incontri legati alla cultura ebraica, affermando, come si legge sul sito del teatro, che «nessuna manifestazione di cultura ebraica si è risolta in una questione di ebrei, ma è sempre stata un suggerimento e un atteggiamento, un modo di avvicinare la realtà. I progetti sulla cultura ebraica vengono affrontati con la consapevolezza che ricercare le radici non significa rifugiarsi in ancestrali deteriori. Al contrario, la cultura ebraica è forse l’unica che si fonda sul presente, integrandovi il passato. Un terreno ricco di racconti e leggende, di canti e danze, di dispute, di Storia, di feste come momenti teatrali e di Teatro come momento di vita».
Nonostante la mission del Teatro volta a promuovere una cultura a 360 gradi, gli studenti dell’Accademia di Brera hanno attaccato questa realtà virtuosa contribuendo ad alimentare un odio delirante anti-israeliano e anti-ebraico, diffuso da mesi nelle università più prestigiose degli Stati Uniti e ora anche in Europa, Italia e infine Milano.
«Pensiamo che l’Accademia non sia un ambiente isolato e fuori dal mondo, ma che, come luogo culturale e prestigioso, debba prendere posizione e usare l’arte e la cultura come strumenti politici contro le ingiustizie del presente – scrivono gli studenti –. In occasione del settantesimo anniversario della Nakba abbiamo organizzato una giornata di solidarietà con il popolo palestinese e una partecipata assemblea durante la quale abbiamo affermato che non vogliamo essere complici di un genocidio e che continueremo a mobilitarci partendo dai nostri luoghi di studio».
Che la situazione sia sfuggita di mano è soltanto un pallido eufemismo, perché quanto è successo venerdì scorso entro i confini dell’Università di Torino è ben di più, ben di peggio. E che il rettore Geuna si schermisca con l’argomento che la sede degli studi superiori piemontese è occupata, dunque al di fuori della sua giurisdizione, non aiuta certo a scendere a patti con questo grave incidente. Venerdì scorso gli studenti/occupanti hanno invitato all’Università Brahim Baya a celebrare la preghiera e il suo sermone inneggiante alla guerra santa. Constatava, anzi, che la guerra santa è in atto, condotta da uomini, donne e bambini contro i “sionisti” che hanno osato calpestare quella terra benedetta prima ancora della nabka.
Com’è possibile che in una istituzione laica per definizione degli studenti che protestano in nome di una loro visione del progresso – civile, politico, sociale – decidano che la preghiera di una certa confessione abbia spazio e quasi tutto il resto no? Università non dovrebbe significare “universalità”? Dialogo? O forse fa molto, troppo più comodo a questi studenti (che detto fra parentesi non sono tutti e forse neanche la maggioranza, però occupano e dettano legge), semplicemente scimmiottare quanto accade negli atenei d’oltre oceano, giusto o deprecabile che sia? E quindi, dopo aver scrollato qualche video sui social, hanno deciso che anche a loro spettava la preghiera islamica, così da far schizzare le visualizzazioni?
E poi c’è il sermone dell’imam Baya. Perché, va detto, l’islam è una realtà complessa, ricca di opinioni e approcci diversi. Tutt’altro che un monolite, come spesso si è tentati di pensare. E anche nel nostro territorio ci sono imam conservatori e altri progressisti, e ci sono molti modi diversi di sentire, esprimere e comunicare la propria fede islamica. Il sermone di venerdì scorso all’Università di Torino (che già scrivere questa frase per esteso – e rileggerla – fa rizzare i capelli in testa per la sua incongruità di fondo: dov’è finita la nostra società laica e pluralista?) era tutt’altro che un discorso di pace, di fede, di spiritualità. Ricco di iperboli infuocate – “la Palestina resiste a una furia genocida uscita dalla peggiore barbarie della storia” – invitava coloro che ancora non lo stanno facendo a “usare le mani” e contribuire alla lotta di “liberazione” di una terra che i sionisti hanno osato “occupare” ben prima che, per decisione votata a maggioranza dalle Nazioni Unite nascesse lo stato d’Israele (e sarebbe dovuto nascere anche uno stato palestinesi, se il fronte arabo non avesse opposto il suo rifiuto). Nella migliore tradizione di cui l’Iran degli ayatollah è ormai quasi l’unico erede, l’imam non nomina mai Israele.
Come ripeteva Amos Oz, il conflitto fra Israele e i palestinesi è una tragedia perché è un confronto non fra un torto e una ragione bensì fra due ragioni. Quanto è accaduto all’interno dell’Università di Torino venerdì scorso è l’ennesima testimonianza di uno scollamento sempre più grande fra i sacrosanti diritti dei due popoli a un futuro vivibile e delle proteste sempre più avulse dalla realtà, dalla complessità di questo conflitto. Questi episodi nelle Università, le urla di chi sbraita “dal fiume al mare” senza alcuna cognizione geografica, storica e politica, sono sempre più lontani dalla tragedia in corso che israeliani e palestinesi – vittime entrambi – subiscono. Il fatto che il rettore declini ogni responsabilità perché l’Università di Torino è sotto occupazione – dunque non è più un bene comune, pubblico, aperto –, aggrava ulteriormente il quadro.
(La Stampa, 24 maggio 2024) ____________________
“Dov’è finita la nostra società laica e pluralista?” Si chiede l’autrice. E non tenta di dare una risposta. E’ un fatto che per gli ebrei il laicismo della società occidentale non è più un rifugio. L’ebraismo non riesce più a disciogliersi dolcemente nel laicismo. Ed era inevitabile che finisse così. La pietra d’intoppo è Israele. M.C.
A seguito delle mie critiche al capitolo “L’errore di Israele i coloni e il revanscismo biblico”, contenuto nel suo libro Il libro nero di Hamas, l’autore, Carlo Panella, ha reso noto attraverso Informazione Corretta, che ha ripreso il pezzo pubblicato qui su L’Informale che ciò che ho scritto si baserebbe su «dati di fatto del tutto inventati o falsi» e questo «a partire dalla affermazione che “la Giudea è la Samaria appartenevano dal 1922 al popolo ebraico”. Quando mai? Invenzione pura.».
Le mie tesi “inventate” o “false”, come sostiene Carlo Panella, partono proprio dai documenti di diritto internazionale, tutti consultabili nei miei libri sull’argomento: Il Mandato per la Palestina e il recente Il diritto di sovranità in Terra di Israele, entrambi editi da Salomone Belforte Editore, e che Panella può agevolmente consultare.
Questo perché, a differenza del libro di Panella, nei miei testi si possono trovare in originale tutti i documenti ufficiali che stanno a fondamento delle mie tesi relative alle radici giuridiche di Israele, tre le quali, quelle specificamente riferite al 1922, che, secondo Panella, sarebbero frutto della mia immaginazione.
È curioso che Panella accusi me di falsità e di invenzione quando può scrivere tranquillamente che Gaza “porto fenicio, era occupata dai filistei e successivamente è sempre e solo stata abitata da arabi”, invenzione di puro conio.
A Gaza la prima comunità ebraica, si installò nel periodo degli Asmonei, cioè 145 anni prima di Cristo, mentre gli arabi sarebbero arrivati solo nel Settimo secolo. Ancora nel Seicento vi permaneva una piccola ma florida comunità ebraica alla quale apparteneva Nathan Ashkenazi, più noto come Nathan di Gaza, il profeta di Sabbatai Zevi.
Siccome nella sua mail a Informazione Corretta, Panella dichiara di confermare in toto quanto scritto nel capitolo “L’errore di Israele i coloni e il revanscismo biblico” mentre le mie tesi sarebbero fantasie e falsità, mi piacerebbe sapere su cosa si fondano invece le sue tesi, visto che ha poi rifiutato un confronto sereno sull’argomento.
Non ultimo esprimo la mia preoccupazione e il mio rammarico nei confronti di organizzazioni come “7ottobre” e varie altre associazioni Italia-Israele del territorio che si prestano a diventare megafono, cassa di risonanza ma soprattutto un veicolo attraverso il quale un libro lodevolmente contro Hamas, e il radicalismo islamico, nell’unico capitolo dedicato a Israele, lo accusa di violazioni inesistenti sostanzialmente identiche a quelle della peggiore propaganda anti-israeliana.
(L'informale, 24 maggio 2024) ____________________
Anche Carlo Panella dunque sarebbe inciampato in Israele. Tante cose giuste dette su Medioriente e dintorni,e pochi ma fondamentali sfondoni detti su Israele. Non sembra reperibile in rete quello che Carlo Panella ha dichiarato sulle tesi di David Elber, ma essendo stato chiamato pubblicamente in causa, sarebbe bene che difendesse apertamente le sue posizioni, se non vuole contribuire ad essere anche lui, volente o nolente, un espertissimo mestatore di quelle torbide acque in cui si mescolano cose vere e cose false col risultato di ottenere una robusta efficacissima menzogna. M.C.
Riconoscete il Kurdistan altro che HamastanInvece di inventarsi uno stato terrorista si riconosca uno stato che ha lottato e sconfitto gli stessi terroristi che oggi si chiamano Hamas
di Sadira Efseryan
Il Kurdistan, uno stato e un popolo diviso tra Turchia, Iraq, Iran, Siria e appendici persino in Armenia, uno stato e un popolo che a differenza di quello palestinese, praticamente inventato dal nulla, ha secoli di storia di cui andare fiero.
Nei giorni scorsi abbiamo sentito che Spagna, Irlanda e Norvegia si sarebbero uniti ad altri babbei che riconoscono lo stato terrorista palestinese, Hamastan o HamasISIStan, premiando così i terroristi per il massacro del 7 ottobre.
Ai curdi che invece hanno combattuto e vinto lo Stato Islamico, ISIS, nemmeno un ringraziamento, anzi, li abbiamo lasciati alla mercé di Erdogan, colui che brama a prendere il posto del defunto Abu Bakr al-Baghdadi.
Dunque, si premiano i terroristi e si umiliano i salvatori dell’occidente, coloro che ancora adesso sono un presidio di democrazia nel nord dell’Iraq e nel sud della Siria. Coloro che ancora adesso sono una garanzia contro le milizie sciite legate all’Iran e contro quelle sunnite legate alla Fratellanza Musulmana di Erdogan.
Il Kurdistan e il suo popolo hanno una storia secolare fatta di sottomissioni e guerre, ma anche di orgoglio, di resilienza contro chi occupa le loro terre.
I palestinesi sono un popolo costruito a tavolino, nato negli anni sessanta per volere degli Stati Arabi come arma nella lotta araba contro Israele. Hanno vissuto di sussidi e terrorismo e ora sono diventati l’arma iraniana nella guerra che oppone gli Ayatollah a Israele.
Quello che vogliono riconoscere come stato palestinese si chiama Hamastan o HamasISIStan ed è uno stato terrorista come lo era ISIS.
Volete veramente fare qualcosa per i diritti globali e soprattutto per l’occidente? Riconoscete il Kurdistan. Se non altro se lo sono davvero meritato.
Quando il popolo d’Israele entrò nella terra di Canaan, dopo sette anni di conquista Yehoshu’a impiegò altri sette anni per dividere il territorio tra le tribù e in ogni tribù alle rispettive famiglie. Ne risultò un popolo di liberi possidenti agrari, ognuno con il suo podere. Non vi erano poveri perché tutti avevano una loro proprietà. Con tutto ciò le circostanze della vita fanno sì che vi siano situazioni nelle quali anche i proprietari si impoveriscano. In questa parashà vi sono tre situazioni per le quali la Torà dà istruzioni su cosa fare quando un altro israelita diventa povero. In una di queste è scritto: “Quando un tuo fratello diventa povero (yamùkh) e perde la capacità di mantenere se stesso nella comunità, devi sostenerlo. Aiutalo a sopravvivere, sia egli un proselita o un residente” (Vaykrà, 25:35). Nella Torà viene anche intimato che se gli devi dare un prestito è proibito prendere interesse.
Nel Midràsh (Vaykrà Rabbà) i maestri affermano che vi sono ben otto espressioni che denotano povertà. La prima e la più comune è ‘anì (povero). Questa parola appare per la prima volta nel libro di Devarìm (24:12): “E se quell’uomo è povero”.
Un altro termine è evyòn, come in Devarìm (15:4): “Tuttavia non vi sarà un povero presso di voi”. Rashì spiega che evyòn è più povero di ‘anì, perché non ha proprio nulla.
Una terza espressione è miskèn, da cui deriva l’italiano meschino, come in Devarìm (8:9): “Una terra nella quale non mangerai pane in povertà (miskenùt)”. Nel Midràsh è spiegato che miskèn significa disprezzato da tutti. Cosi appare nell’Ecclesiaste (Kohèlet, 9:16): “La sapienza del meschino è disprezzata”.
La parola rash appare nei Proverbi (Mishlè, 19:22) dove è scritto “Meglio povero che bugiardo”. Nel Midràsh è scritto che significa “povero senza proprietà”.
In Vaykrà (14:21) appare la parola dal: “E se è povero e non ha mezzi adeguati”. Anche in questo caso significa senza proprietà.
Il termine dakh appare nei salmi (Tehillìm, 10:9): “L’Eterno sarà una protezione per il misero”. Nel Midràsh è spiegato che significa che si tratta di una persona povera e anche depressa.
La parola makh appare alla fine di questa parashà (25:47): “E tuo fratello diventa povero presso di lui”. La radice è la stessa della parola yamùkh citata all’inizio di questa pagina. Il Midràsh spiega che makh significa “basso” come una soglia che viene calpestata da tutti.
L’ottava e ultima espressione citata nel Midràsh è chelkhà e appare tre volte nei salmi. Una di queste in Tehillìm(10:14): “A te si abbandona il povero”.
Rashì (Troyes, 1040-1105) citando il Midràsh Sifrà, spiega che è doveroso sostenere il prossimo quando è in difficoltà senza aspettare che vada in bancarotta. E aggiunge che la cosa assomiglia a un asino il cui carico è pericolante. Per rimetterlo in equilibrio basta una persona. Se si lascia che cada ci vogliono più di cinque persone per rimetterlo in soma.
Questo insegnamento ha guidato il nostro popolo per tutta la sua lunga storia. Quando Tito distrusse Gerusalemme e vendette i prigionieri come schiavi, furono gli ebrei di Roma a riscattarli. Così pure gli esuli dalla Spagna nel 1492 furono aiutati dai loro fratelli in Italia, in Marocco e in Turchia. Ottanta anni fa l’American Joint distribuì grande somme per aiutare gli ebrei in Europa (nella foto: dirigenti del Joint e rifugiati a Selvino). E in tempi più recenti vennero dati aiuti quando Nasser cacciò gli ebrei dall’Egitto nel 1956 e Ghaddafi dalla Libia.
Ognuna delle parole che denotano povertà corrisponde a un diverso tipo di bisogno. La Torà ci vuole insegnare che dobbiamo essere sempre pronti ad aiutare i nostri fratelli in ogni situazione.
(Shalom, 24 maggio 2024) ____________________
L’IDF deve entrare a pieno titolo a Rafah e concludere il lavoro
di Giovanni Giacalone
Negli ultimi mesi abbiamo sentito tutto e il contrario di tutto riguardo all’intervento dell’IDF a Rafah per eliminare ciò che resta dei battaglioni di Hamas e della sua leadership a Gaza.
L’ Amministrazione Biden ha ripetutamente messo in guardia Israele contro una grande offensiva militare a Rafah, affermando che non c’è modo di entrarvi senza danneggiare i quasi 1,5 milioni di palestinesi che vi hanno trovato rifugio.
Israele ha recentemente deciso di accantonare i piani per una grande offensiva a Rafah e di agire in modo più limitato, dopo aver discusso la questione con gli Stati Uniti. Il piano precedente di inviare due divisioni in città non verrà portato avanti e le operazioni saranno invece più circoscritte.
Secondo l’amministrazione Biden, Israele è ormai in linea con le preoccupazioni di Washington e i nuovi piani sono stati indicati come “inizialmente soddisfacenti”.
Sebbene non sia ancora chiaro cosa significhi questo “inizialmente soddisfacente”, è essenziale chiedersi, ancora una volta, perché Israele abbia bisogno dell’approvazione degli Stati Uniti per difendersi e sradicare un’organizzazione terroristica che ha perpetrato il peggiore eccidio contro il popolo ebraico dopo la Shoah.
L’Amministrazione Biden ha cercato di frenare gli sforzi di Israele per sradicare Hamas fin dall’inizio della campagna di Gaza e, nonostante tutto il rumore politico e mediatico sulla “questione umanitaria”, appare abbastanza chiaro che il vero problema sono i rapporti dell’Amministrazione Biden con il Qatar e l’Iran, i due principali sponsor di Hamas.
Il trattenimento delle armi, già pagate da Israele, per paura che venissero usate a Rafah, e la trappola dell’accordo emersa all’inizio di maggio, come pianificato da Egitto e Hamas, senza preavviso a Israele da parte dell’Amministrazione Biden nonostante ne fosse a conoscenza , sono azioni chiare, e sappiamo tutti che le azioni contano molto più delle parole. Poiché Washington non ha informato Israele dei cambiamenti apportati, si è ovviamente innescata un’intensa delusione israeliana nei confronti dell’amministrazione statunitense e il sospetto riguardo al suo ruolo di mediatore (abbiamo già discusso di questi temi e del fatto che l’Amministrazione Biden rappresenta “un terzo mandato di Obama”.
Ulteriori sospetti ricadono sull’Egitto, un altro partner teorico di Israele nella guerra al terrorismo che era totalmente contrario all’intervento dell’IDF nel corridoio Philadelphi. Non è di rilievo che l’IDF abbia scoperto circa 50 tunnel che collegano Rafah al territorio egiziano?
Inoltre, il fatto che l’Amministrazione Biden abbia tenuto “negoziati indiretti” con il regime iraniano sull’accordo sul nucleare appena due settimane dopo che l’Iran aveva lanciato oltre 300 droni e missili contro Israele rende l’intero quadro molto preoccupante.
Gli obiettivi di politica estera di Biden in Medio Oriente non sono in linea con la necessità di sicurezza di Israele, che implica lo sradicamento di Hamas e la neutralizzazione della minaccia iraniana. Come sottolineato dal senatore Ted Cruz confrontandosi con Antony Blinken in un’accesa udienza al Senato: “La vostra politica estera è esattamente l’opposto di quella che dovrebbe essere una politica estera americana razionale”.
Mettendo da parte la politica e parlando di questioni operative, sarà molto difficile per l’IDF entrare a Rafah, dare la caccia a Sinwar e Deif, distruggere le centinaia di tunnel sottostanti e annientare i rimanenti quattro battaglioni senza inviare le divisioni necessarie al raggiungimento dello scopo.
La settimana scorsa Aaron Cohen, esperto e veterano americano/israeliano dell’antiterrorismo, ha dichiarato a Fox News quanto sia importante per l’IDF entrare a Rafah con truppe di terra. Cohen ha spiegato che il motivo per cui Rafah è il centro dei rimanenti battaglioni di Hamas è che la campagna “pentola a pressione” condotta dall’IDF mirava, fin dall’inizio, a costringere i terroristi rimasti a convergere su Rafah, aggiungendo che l’unico modo per eliminare terroristi non è solo attraverso operazioni selettive, ma entrando a Rafah con le truppe:
“Quelle unità devono superare tutti quegli angoli di 90°, devono portare le canne di fucile all’interno delle stanze, devono portare i droni all’interno dell’area, questa è la natura della guerra non convenzionale.”
Una cosa deve essere chiara: Hamas non rilascerà mai gli ostaggi rimasti perché è l’unica leva di cui dispone l’organizzazione terroristica, e questa situazione non farebbe altro che estendersi nel tempo, a vantaggio di Hamas. Pertanto, il mantra della “pressione per i negoziati” non ha senso e ormai dovrebbe essere chiaro.
L’IDF deve andare a Rafah e “finire il lavoro” con la leadership di Hamas e le restanti unità. Questo può essere fatto solo inviando le divisioni. Non esistono piani “più contenuti” che possano consentire di raggiungere l’obiettivo, e chiunque abbia qualche esperienza sul campo di battaglia o nell’antiterrorismo lo sa perfettamente.
Il tempo è scaduto e il Primo Ministro Netanyahu deve decidere quale strada intraprendere, perché il metodo “un piede qui-un piede là” non è di alcun vantaggio per raggiungere l’obiettivo di sradicare Hamas e liberare gli ostaggi rimasti; inoltre, questa situazione rappresenta un problema per l’economia israeliana e per il ritorno alla normalità. L’ultima cosa di cui Israele ha bisogno è una lunga guerra di logoramento come quella in Ucraina, e questa è la direzione che, attualmente, è stata presa.
Israele ha dimostrato che Biden aveva torto su Rafah
A differenza di quello che pensa Biden, Rafah rimane fondamentale per qualsiasi piano di day after, poiché nulla può funzionare se Hamas governa il territorio con battaglioni militari e controlla il confine egiziano
Ricordate Rafah? Per mesi, l’amministrazione Biden si è opposta aspramente a un’invasione israeliana dell’ultima roccaforte di Hamas a Gaza. Il mantra era che Israele non aveva “alcun piano credibile” per evacuare gli 1,3 milioni di civili della città. Eppure gli israeliani sono andati avanti lo stesso e due settimane dopo hanno evacuato in sicurezza circa 950.000 persone. Doveva essere impossibile. Rafah è diventata una linea rossa per Biden, in base alla logica che non era possibile condurre una grande operazione con tutti quei civili presenti. Questa è stata la giustificazione per l’embargo sulle armi del Presidente. “Ci stiamo allontanando dalla capacità di Israele di condurre una guerra in quelle aree”, ha detto. Anche quando l’evacuazione è iniziata, il Segretario di Stato Antony Blinken ha ripetuto che Israele non aveva “alcun piano credibile”. Il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan ha aggiunto: “Crediamo ancora che sarebbe un errore lanciare una grande operazione militare nel cuore di Rafah”. Quando l’evacuazione ha iniziato a funzionare, il team di Biden è passato a criticare la prontezza di Israele per il “giorno dopo” i combattimenti principali, come se il successo a Rafah fosse una conclusione scontata. Infine, martedì, l’Amministrazione ha rivendicato il merito. “È giusto dire che gli israeliani hanno aggiornato i loro piani. Hanno incorporato molte delle preoccupazioni che abbiamo espresso”, ha dichiarato ai giornalisti un alto funzionario statunitense. Ha anche detto che l’operazione di Rafah potrebbe creare “opportunità per rimettere in pista l’accordo sugli ostaggi”. Rafah rimane fondamentale per qualsiasi piano di day after, poiché nulla può funzionare se Hamas governa il territorio con battaglioni militari e controlla il confine egiziano. Israele ha già scoperto 50 tunnel che da Rafah passano in Egitto per il contrabbando. Una volta che le truppe avranno completato lo sgombero di una zona cuscinetto lungo il confine, Israele potrà tagliare fuori Hamas dall’Egitto, una chiave per strangolare qualsiasi insurrezione possa seguire. È ragionevole chiedersi quale forza controllerà Gaza in futuro. Ma nessun altro combatterà e morirà per sconfiggere Hamas per Israele, o anche solo per resistere come potenza civile. Certamente non la debole Autorità Palestinese, che vuole un accordo di condivisione del potere con Hamas a Gaza perché altrimenti sa che verrebbe massacrata. Anche se ai liberali israeliani non piacerà sentirlo, Israele probabilmente avrà bisogno di riempire il vuoto a Gaza per un certo periodo. Anche se ai destrorsi israeliani non piacerà sentirselo dire, lo scopo sarebbe quello di fare spazio alla governance locale.
Ben-Gvir visita il Monte del Tempio e si impegna a distruggere Hamas
Non permetteremo nemmeno la dichiarazione di uno Stato palestinese, ha dichiarato il ministro della Sicurezza nazionale israeliano.
Il ministro della Sicurezza nazionale israeliano Itamar Ben-Gvir durante una precedente visita al Monte del Tempio a Gerusalemme. Fonte: Itamar Ben-Gvir/X.
Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir è salito mercoledì sul Monte del Tempio a Gerusalemme, per la prima volta dopo quasi un mese.
"Dal luogo più sacro per il popolo di Israele e che appartiene solo allo Stato di Israele, dico: Questa sera riceveremo un'altra testimonianza sul perché Hamas deve essere totalmente distrutto". I Paesi che hanno riconosciuto uno Stato palestinese oggi stanno dando una ricompensa ai terroristi", ha detto in un video dalla cima del monte.
"E io dico che non permetteremo nemmeno la dichiarazione di uno Stato palestinese. E dico un'altra cosa: per distruggere Hamas, dobbiamo andare a Rafah fino in fondo. Per riavere i nostri ostaggi, dobbiamo fermare il carburante [la fornitura di carburante alla Striscia di Gaza], stabilire che l'umanitarismo è solo per l'umanitarismo. E controllare questo luogo, questa è la cosa più importante".
Durante il suo mandato di ministro della Sicurezza nazionale, Ben-Gvir si è impegnato a visitare il Monte del Tempio, il sito del Primo e del Secondo Tempio prima che venissero distrutti rispettivamente dall'impero neo-babilonese e da quello romano.
Israele ha liberato il Monte durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967. In seguito ne ha restituito l'amministrazione al Waqf islamico sotto la custodia degli Hashemiti giordani, pur mantenendo il controllo di sicurezza israeliano.
Ben-Gvir ha spinto per l'emigrazione volontaria dei gazesi e per il reinsediamento della Striscia da parte di Israele. Ne ha parlato nel suo videomessaggio di mercoledì.
Martedì ha dichiarato al sito web Kikar HaShabbat: "Occupazione completa di Gaza, tutto è nostro. Pieno controllo israeliano, compresi gli insediamenti ebraici e l'incoraggiamento volontario dell'immigrazione. Non solo negli insediamenti che sono stati evacuati". Ben-Gvir ha detto che sarebbe disposto a vivere a Gaza.
Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha risposto più tardi nella notte, affermando in un'intervista alla CNN: "Se intendete reinsediare Gaza..., non è mai stato nei piani, e l'ho detto apertamente. Alcuni dei miei elettori non ne sono felici, ma questa è la mia posizione".
(Israel Today, 23 maggio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Diffuso un video del rapimento di cinque soldatesse da parte dei terroristi di Hamas alla base di Nahal Oz
Il Forum delle famiglie degli ostaggi e dei dispersi ha pubblicato mercoledì 22
maggio un filmato straziante che mostra il rapimento di cinque giovani soldatesse della base di Nahal Oz da parte dei terroristi di Hamas il 7 ottobre 2023, descrivendo il video come una “prova schiacciante del fallimento della nazione nel riportare a casa gli ostaggi”. Il video è stato ripreso dalle telecamere indossate dai terroristi di Hamas quel giorno, mentre attaccavano la base vicino al confine con Gaza, e mostra Liri Albag, Karina Ariev, Agam Berger, Daniella Gilboa e Naama Levy, nel filmato, girato 229 giorni fa. Tutte e cinque sono ancora tenute in ostaggio da Hamas a Gaza. Le famiglie delle cinque soldatesse hanno chiesto la diffusione del filmato, e alcuni genitori hanno dichiarato che l’obiettivo è quello di svegliare la nazione, e in particolare la leadership, per lavorare più urgentemente per garantire il loro rilascio. “Voglio che trasmettiate questo filmato ogni giorno all’inizio del telegiornale”, ha detto il padre di Liri Albag, Eli, nello studio di Canale 12 dopo la proiezione del filmato, “finché qualcuno non si sveglierà”. Il video di tre minuti autorizzato per la diffusione inizia all’interno di un rifugio della base intorno alle 9 del mattino, quando i terroristi legano le mani delle cinque soldatesse di sorveglianza il cui compito è monitorare le attività al confine, che appaiono scioccate, inorridite, ferite e sanguinanti. Uno dei terroristi urla loro: “Cani, vi calpesteremo!”. Ho amici in Palestina”, dice Levy, che ha partecipato a un progetto di coesistenza israelo-palestinese. Poi Albag chiede “qualcuno che parli inglese”. I terroristi rispondono urlando ai soldati prigionieri di fare silenzio e ordinando al gruppo di sedersi. “I nostri fratelli sono morti per colpa vostra. Vi spareremo tutti”, dice uno dei terroristi. Uno dei terroristi chiede poi ad Albag di chiamare il suo amico a Gaza, anche se non è chiaro il motivo, mentre un altro chiede da dove vengono, e Berger risponde di essere di Tel Aviv. Il filmato taglia sui terroristi che pregano, ancora nel rifugio. Uno dei terroristi descrive gli ostaggi come “donne che possono rimanere incinte”. Uno dice: “Questi sono i sionisti”, e un altro dice: “Siete molto belle”. In una dichiarazione rilasciata dopo la pubblicazione del video, il presidente Isaac Herzog ha affermato che continuerà a offrire alle famiglie degli ostaggi “forza e amore”. “Il mondo deve guardare a questa crudele atrocità. Chi ha a cuore i diritti delle donne deve parlare. Tutti coloro che credono nella libertà devono far sentire la propria voce e fare tutto il possibile per riportare a casa tutti gli ostaggi”, ha dichiarato. “La crudeltà dei terroristi di Hamas non fa che rafforzare la mia determinazione a combattere con tutte le mie forze fino a quando Hamas non sarà eliminato, per garantire che ciò che abbiamo visto questa sera non si ripeta mai più”, ha scritto il premier Beniamin Netanyahu su X. Molti familiari degli ostaggi hanno incolpato Netanyahu e il governo per il ritardo che ha impedito di raggiungere un accordo per il rilascio dei loro cari.
(Bet Magazine Mosaico, 23 maggio 2024) ____________________
«Le famiglie delle cinque soldatesse hanno chiesto la diffusione del filmato, e alcuni genitori hanno dichiarato che l’obiettivo è quello di svegliare la nazione, e in particolare la leadership, per lavorare più urgentemente per garantire il loro rilascio». Il nemico ringrazia. Proprio questo voleva ottenere: prolungare mediaticamente il terrore del 7 ottobre e colpire indirettamente il suo nemico sperando di farlo crollare dall'interno. Che vuol dire "svegliare la nazione"? Con o senza il ritorno dei loro cari, queste famiglie forse un giorno si vergogneranno di quello che hanno detto e fatto. M.C.
Lo sport unisce sempre, anche nei momenti più difficili. La Comunità Ebraica di Roma ha accolto ieri i ragazzi del Roma Club Gerusalemme, arrivati domenica per giocare con alcune squadre della Capitale. “Siamo molto felici di aver ospitato al Tempio Maggiore il Roma Club Gerusalemme. Questo è un progetto che dimostra come lo sport possa essere uno strumento importante per superare barriere e difficoltà, specialmente in questo momento storico e in modo particolare fra i giovani” ha detto durante l’incontro l’assessore allo Sport della Cer Alessandro Gai.
Ragazzi provenienti da Israele e non solo, che insieme, attraverso l’amore per il calcio, sono riusciti ad abbattere qualsiasi barriera. “Siamo arrivati domenica e siamo stati accolti con molto entusiasmo da tutti. Nella squadra ci sono tredici ragazzi israeliani, due ragazzi arabi israeliani, due arabi palestinesi, due armeni cristiani ortodossi, altri mussulmani e due belgi, figli del console belga a Gerusalemme – ha raccontato a Shalom Samuele Giannetti, presidente della squadra – Abbiamo portato inoltre alcuni ragazzi, figli delle famiglie di profughi che ormai da 5 mesi hanno abbandonato la loro dimora. Abbiamo accolto nella squadra questi giovani, offrendo completamente a nostre spese questo viaggio. Questo è il minimo che possiamo fare per loro, che da 7 mesi vivono un incubo. Una piccola goccia in un oceano di una tragedia, che ci auguriamo finisca quanto prima”.
Un viaggio simbolico, portatore di un messaggio di pace e di speranza in un momento difficile per lo Stato Ebraico. “Ricevere il presidente, gli allenatori e soprattutto i giovani atleti del Roma Club Gerusalemme, è stato un piacere ed un onore. Questo gruppo, animato dai più puri principi sportivi, è formato da ragazzi israeliani di tutte le provenienze e religioni: ebrei, cristiani, musulmani, religiosi, laici che giocano insieme, uniti da quella unione che lo sport riesce sempre a creare. Tra loro anche ragazzi sfollati dal Nord di Israele che sono stati adottati dalla squadra subito dopo il 7 ottobre – ha aggiunto Alex Luzon, assessore ai Rapporti Istituzionali della Cer – Questo gruppo dimostra ancora una volta come lo sport possa abbattere qualsiasi barriera. Samuele Giannetti, il suo presidente, è un mio amico di vecchia data ed ho seguito questa sua preziosa iniziativa sin dagli esordi. Sono fiero del lavoro che lui e il suo team sono riusciti a realizzare fino ad oggi e fiducioso per quanto altro sapranno fare”.
Inoltre, la squadra è stata accolta con una visita al Senato assieme al presidente del Roma Club. Dopodiché i ragazzi hanno proseguito allo Stadio Olimpico, dove hanno incontrato il Ministro Abodi e hanno giocato poi un match con la squadra ufficiale della Guardia di finanza. Fino all’accoglienza nel Tempio Maggiore, ospiti della Comunità ebraica: “Vorrei ringraziare la Elnett che si è attivata con entusiasmo e ha sostenuto con una sponsorizzazione questo viaggio. È sempre un piacere per noi tornare qui, quest’anno più che mai” ha concluso Giannetti.
Cinquant'anni fa. Dal «Corriere della Sera» del 16 settembre 1972
di Indro Montanelli
Che i profughi palestinesi siano delle povere vittime, non c’è dubbio. Ma lo sono degli Stati Arabi, non d’Israele. Quanto ai loro diritti sulla casa dei padri, non ne hanno nessuno perché i loro padri erano dei senzatetto. Il tetto apparteneva solo a una piccola categoria di sceicchi, che se lo vendettero allegramente e di loro propria scelta.
La terra di Israele è sempre stata la terra degli ebrei. Se leggiamo le descrizioni di Gerusalemme fatta nel 1800 da Marx e Mark Twain, leggiamo di “una città povera e miserabile abitata nella parte Est, interamente, da ebrei poveri e miserabili che erano sempre vissuti lì, da tremila anni”. Gli arabi erano sì in leggera maggioranza numerica ma in gran parte erano nomadi senza terra, l’unica vera comunità stanziale era quella ebraica che abitava le stesse case da migliaia di anni.
Gli ebrei sionisti emigrati nel ‘900 si sono massacrati a dissodare, irrigare, fabbricare desalinizzatori, sono morti a migliaia di stenti e di malaria, parassitosi, colera, ameba, tifo, setticemia e tetano. Sono morti a decine di migliaia, ma poi hanno vinto, il deserto è fiorito, dove cerano lande desolate è nato un paese di filari di vite e di limoni.
Per poter di nuovo odiare gli ebrei è violato il diritto civile, che per dirla con un toscanismo si riassume in “chi vende, poi, non è più suo”. Gli arabi la loro terra se la sono venduta, prima ai sionisti facendola pagare carissima, poi alla comunità internazionale intascando 66 anni di fiumi di denaro per risarcirgli il “dolore” di aver perso 20.000 chilometri quadrati di terra che non è mai stata loro, meno del Piemonte, che quando c’erano loro era un terra di sassi, paludi e scorpioni.
Nel 1876, assai prima dunque della nascita del sionismo, vivevano a Gerusalemme 25.000 persone, delle quali 12.000, quasi la metà, erano ebrei, 7500 musulmani e 5500 cristiani. Nel 1905 gli abitanti erano saliti a 60.000. Di questi 40.000 erano ebrei, 7000 musulmani e 13.000 cristiani. Nel 1931 su 90.000 abitanti, gli ebrei erano 51.000, i musulmani 20.000 e i cristiani 19.000. Nel 1948, alla vigilia della nascita dello Stato ebraico, la popolazione di Gerusalemme era quasi raddoppiata: 165.000 persone, di cui 100.000 ebrei, 40.000 musulmani e 25.000 cristiani. La presenza ebraica a Gerusalemme ha sempre costituito il nucleo etnico numericamente più forte. Di nessun altro popolo Gerusalemme è mai stata capitale. E’ quindi una leggenda l’affermazione che gli ebrei siano stati assenti da Gerusalemme per quasi venti secoli o che costituissero una insignificante percentuale della popolazione.
Prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale, il nazismo in Germania già perseguitava i suoi 500.000 cittadini ebrei. Le disperate richieste di quegli ebrei di essere accolti nei paesi democratici al fine di evitare quello che già si profilava chiaramente come il loro tragico destino, vennero respinte.
Nel luglio 1938, i rappresentanti di trentuno paesi democratici s’incontrarono a Evian, in Francia, per decidere la risposta da dare agli ebrei tedeschi. Ebbene, nel corso di quella Conferenza, la risposta fu che nessuno poteva e voleva farsi carico di tanti profughi. Dal canto suo la Gran Bretagna, potenza mandataria della Palestina, venendo meno al solenne impegno assunto verso gli ebrei nel 1917 di creare una National Home ebraica in Palestina, nel 1939 chiudeva la porta proprio agli ebrei con il suo Libro Bianco, nel vano tentativo d’ingraziarsi gli arabi.
E’ stata questa doppia chiusura a condannare a morte prima gli ebrei tedeschi e poi, via via che la Germania nazista occupava l’Europa, gli ebrei austriaci, cechi, polacchi, francesi, russi, italiani, e così via. Il costo per gli ebrei d’Europa, che contavano allora una popolazione di dieci milioni, fu di sei milioni di assassinati, inclusi un milione e mezzo di bambini. Appena finita la seconda guerra mondiale i 5/600.000 ebrei superstiti, in massima parte originari dell’Europa orientale, si trovarono senza più famiglia, senza amici, senza casa, senza poter rientrare nei loro paesi, dove l’antisemitismo divampava (in Polonia ci furono sanguinosi pogrom persino dopo la guerra, e nell’Unione Sovietica Stalin dava l’avvio a una feroce campagna antiebraica).
Tra il 1945 e il 1948 nessun paese occidentale, Gran Bretagna e Stati Uniti in testa, volle accogliere neanche uno di quel mezzo milione di ebrei “displaced persons”, come venivano definiti dalla burocrazia alleata. La Palestina, malgrado la Gran Bretagna e il suo Libro Bianco, sempre in vigore anche dopo la fine della seconda guerra mondiale, non fu quindi una scelta, ma l’unica speranza, cioè quella del “ritorno” a una patria, all’antica patria, una patria dove da tempo si era già formata una infrastruttura ebraica.
Nel passato la vita degli ebrei nei paesi islamici e negli stessi paesi arabi è stata nell’insieme sopportabile. Di serie B, ma sopportabile. Gli arabi hanno incominciato a sviluppare in Palestina un odio “politico” nei confronti degli ebrei pochi anni dopo l’inizio, nel 1920, del Mandato britannico. L’odio, sapientemente fomentato dai capi arabi, primo tra i quali il Gran Muftì di Gerusalemme (che durante la seconda guerra mondiale avrebbe raccolto volontari per formare una divisione SS araba andata poi a combattere a fianco dei tedeschi contro l’Unione Sovietica), doveva culminare, dopo molti altri gravi fatti di sangue antiebraici, nella strage perpetrata a Hebron nel 1928 contro l’inerme, antica comunità religiosa ebraica.
Chiunque abbia viaggiato e vissuto nei paesi arabi durante le guerre del 1947-1973, sa che l’intera coalizione araba (Egitto, Siria, Iraq e Giordania) con il sostegno dei paesi arabi moderati, avevano un solo scopo che non veniva tenuto celato: il compito non era dare una patria ai palestinesi. Era cancellare ed annientare lo Stato di Israele.Le tragiche vicende che hanno successivamente tormentato il popolo palestinese sono state sempre per mano araba. Due i fatti impossibili da dimenticare: lo sterminio dei palestinesi in Giordania per mano di re Hussein e delle sue artiglierie, dove, solo il primo giorno del terribile “Settembre Nero” si contarono 5.000 morti; le stragi nel Libano, dove i palestinesi sono stati assediati ed attaccati, distrutti e costretti alla fuga dai miliziani sciiti di “Amal” e dai siriani.
Rabbia di Israele: «La parata della stupidità irlandese-norvegese non ci scoraggia»
Il ministro degli Esteri Israel Katz ha ordinato «l'immediato ritorno in Israele» degli ambasciatori in Irlanda e Norvegia «per consultazioni, alla luce della decisione di questi Paesi di annunciare il riconoscimento di uno Stato palestinese».
Katz ha denunciato che «Irlanda e Norvegia intendono inviare oggi un messaggio ai palestinesi e al mondo intero: il terrorismo paga».
Oslo, ha annunciato poco fa il primo ministro Jonas Gahr Støre, riconoscerà lo Stato palestinese dal 28 maggio. Dal canto loro, il primo ministro irlandese Simon Harris e il ministro degli Esteri Micheál Martin parleranno alla stampa stamattina e ci si attende che facciano lo stesso.
«Israele - ha detto Katz - non sarà compiacente con chi vuole minarne la sovranità e ne mettono in pericolo la sicurezza».
Il ministro ha poi ammonito che se la «Spagna realizzasse la sua intenzione di riconoscere uno Stato palestinese, un passo simile verrà fatto nei suoi confronti». Una comunicazione sul tema è infatti attesa, sempre per oggi, pure dal premier iberico Pedro Sanchez.
«La parata della stupidità irlandese-norvegese non ci scoraggia, siamo determinati a raggiungere i nostri obiettivi: restituire la sicurezza ai nostri cittadini con la rimozione di Hamas e il ritorno dei rapiti. Non esistono obiettivi - ha concluso - più giusti di questi.»
Dopo quasi due anni di mandato, per ragioni anagrafiche lascia gli incarichi diplomatici. Il pubblico congedo è arrivato nel corso della serata organizzata dall’Ambasciata all’Hotel Rome Cavalieri, in occasione del 76° anniversario dell’Indipendenza dello Stato ebraico e dei 75 anni delle relazioni diplomatiche tra questo e l’Italia. Presenti esponenti della politica nazionale ed ebraica, compreso il presidente della Comunità di Roma Victor Fadlun, attivisti e personaggi di spicco provenienti da vari ambienti della società civile.
Nell’intermezzo del concerto durante il quale si sono esibiti i cori “Young Bat-Kol”, diretto da Dalia Lazar-Shimon e “Piccolo Coro Little Star, sotto la direzione di Alessandra Fralleone, l’Ambasciatore Bar ha preso la parola. Nel suo discorso, l’apertura è dedicata alla guerra in corso dal 7 ottobre e alle sue ripercussioni sull’opinione pubblica.
“Ogni giorno sentiamo di gruppi, nella società italiana, che chiedono la sospensione delle relazioni con Israele e il suo boicottaggio. È triste e molto spiacevole. Questa è discriminazione. Non abbiamo visto richieste simili di boicottaggio economico, culturale e accademico nei confronti di nessun altro Paese o gruppo”.
Nonostante questo, i rapporti con lo Stato italiano sono più che stabili.
“Fortunatamente, settantacinque anni di relazioni tra Italia e Israele hanno costruito una solida base di amicizia tra le due nazioni. Credo che la maggioranza degli italiani, e senza dubbio le istituzioni ufficiali del Paese, non condividano questo festival dell’odio”.
Bar ha proseguito non lasciando spazi di interpretazione sugli eventi che hanno portato alla crisi in essere nel Medio Oriente.
“Siamo in guerra perché l’organizzazione terroristica palestinese Hamas, che controllava Gaza, ha violato il cessate il fuoco in vigore fino al 6 ottobre. Come ha affermato il Consigliere americano per la Sicurezza Nazionale, un cessate il fuoco immediato e un flusso di aiuti umanitari in grandi quantità a Gaza sarebbero stati possibili subito se Hamas avesse acconsentito a liberare le donne, i feriti, i bambini e gli anziani che tiene prigionieri nei tunnel. È stato Hamas a rifiutare le proposte di Israele e di altri per un cessate il fuoco. Fintanto che Hamas continua a mantenere un’influenza di governo e militare, nessuno sarà disposto ad assumersi responsabilità per Gaza”.
In conclusione, i saluti alla “sua” Ambasciata, “la migliore al mondo per amicizia, professionalità e impegno”, e le parole dolci per sua moglie Ester, tra gli applausi del pubblico.
“La ringrazio per la sua pazienza e saggezza e per tante altre cose che non sto qui ad elencare. Senza di te, amore mio, sono metà persona. Senza di te, non sono praticamente nulla”.
Termina così, tra le foto, i fiori e il calore di chi c’è stato, la sua esperienza in Italia. La data di effettiva fine dell’incarico non è ancora nota, ma presto lascerà via Mercati per ritirarsi a vita privata.
La mattina successiva alla domenica di Pasqua del 1903, Yehiel Pesker si recò al suo negozio al mercato di Kishinev per verificare eventuali danni. Il giorno precedente, le prime notizie di un pogrom avevano sconvolto la città. Sulla via del ritorno a casa, vide circa 200 ebrei armati di mazze e persino qualche pistola: quel giorno sarebbe arrivata la seconda ondata di uno dei pogrom più famosi della storia e gli ebrei volevano essere pronti. Quando arrivarono i pogromisti ci fu una situazione di stallo, finché la polizia non intervenne contro gli ebrei e la violenza mortale continuò. Sebbene questi ebrei manifestassero semplicemente il desiderio di difendersi nel caso fossero stati attaccati, e sebbene questo fosse un breve momento del secondo giorno di una rivolta sanguinosa durata tre giorni che avrebbe scioccato il mondo, “gli antisemiti locali e i loro simpatizzanti”, secondo lo storico Steven J. Zipperstein, cercarono di sostenere che si trattasse di una escalation da parte degli ebrei e che quindi, responsabili del pogrom fossero le vittime. Altrove in città, un uomo ebreo di quasi 60 anni respinse quattro aggressori, che in seguito sparsero la voce secondo cui un ebreo aveva ucciso dei cristiani. Per alcuni, quindi, un vero e proprio libello del sangue nel mezzo di un esteso massacro, si trasformò nella storia dell’origine dell’intera rivolta. “Nelle argomentazioni avanzate dagli avvocati difensori nei processi per crimini legati ai pogrom, la rivolta di domenica venne liquidata come un putiferio che sarebbe finito rapidamente… se gli ebrei non avessero reagito in modo eccessivo”, scrive Zipperstein. “Secondo questa versione, fu l’aggressione quasi immotivata da parte degli ebrei e le successive voci di attacchi a una chiesa e l’uccisione di un prete a mettere in moto la sfortunata ma, date le circostanze, comprensibile violenza.” Tutto ciò può sembrare ridicolo, perché pochi pogrom sono conosciuti meglio di quello di Kishinev e perché ha avuto un effetto così profondo sulla storia: modellò la prospettiva di importanti figure sioniste e allarmò il mondo, diventando persino un elemento della lotta per i diritti civili negli Stati Uniti come esempio del perché le minoranze razziali ed etniche necessitavano di una protezione sancita dalla legge da parte dello Stato. Ma tralasciamo i nomi di persone e luoghi, ci troveremo a descrivere la risposta al massacro di Hamas del 7 ottobre. Gli ebrei se lo dovevano aspettare; gli attacchi sono stati essenzialmente un atto di legittima difesa; sarebbe stato un evento di portata minore se gli ebrei non avessero reagito in modo sproporzionato difendendosi. Il capo della polizia russa cercò perlomeno di sostenere l’equivalenza morale, basandosi su queste bugie, tra gli ebrei di Kishinev e i loro assassini. Si può sentire un’eco diretta di tutto ciò nelle parole di Karim Khan, pubblico ministero presso la Corte penale internazionale, che ha presentato richieste di mandati di arresto sia per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che per il leader terrorista di Hamas Yahya Sinwar: “Se non dimostriamo la nostra volontà di applicare la legge allo stesso modo, se verrà considerata applicata in modo selettivo, creeremo le condizioni per il suo collasso”. Quell’eco è probabilmente ancora più forte sul New York Times, che descrive le reazioni all’acrobazia di Khan in questo modo: “La decisione di Khan di perseguire simultaneamente i leader israeliani e palestinesi è stata criticata sia dai ministri del governo israeliano che da Hamas. Entrambe le parti si sono chieste perché siano stati presi di mira i loro alleati e non solo i nemici”. Ah sì, entrambe le parti. Un mese dopo gli attentati di Hamas, l’autore Sam Harris ha denunciato questo modo di pensare nel suo podcast in un monologo destinato a resistere alla prova del tempo. La parte fondamentale:
“Naturalmente, il confine tra antisemitismo e generica stupidità morale è un po’ difficile da discernere, e non sono sicuro che sia sempre importante trovarlo. Non sono sicuro che abbia importanza il motivo per cui una persona non riesca a distinguere tra i danni collaterali in una guerra necessaria e gli atti consapevoli di sadismo genocida che vengono celebrati come sacramento religioso da un culto della morte. Le nostre strade si sono riempite di persone che inciampano letteralmente su se stesse nel desiderio di dimostrare di non sapere distinguere tra coloro che uccidono intenzionalmente i bambini e coloro che li uccidono inavvertitamente, avendo fatto di tutto per evitare di ucciderli, mentre si difendevano dalle stesse persone che hanno intenzionalmente torturato e ucciso uomini, donne e sì… bambini innocenti…Se sei finito, con orgoglio e ipocrisia, dalla parte sbagliata di questa asimmetria – questo vasto abisso tra ferocia e civiltà – mentre marciavi attraverso il cortile di un’istituzione della Ivy League indossando pantaloni da yoga, non sono sicuro che abbia importanza che la tua confusione morale sia dovuto al fatto che ti capita di odiare gli ebrei. Che tu sia un antisemita o semplicemente un apologeta delle atrocità, probabilmente non ha importanza. Il punto cruciale è che sei pericolosamente confuso riguardo alle norme morali e alle simpatie politiche che rendono la vita in questo mondo degna di essere vissuta”.
E nel caso di Khan, se non riesci o non vuoi distinguere tra la guerra di Hamas e quella di Israele, possiedi un deficit morale che ti squalifica da qualsiasi posizione di autorità o responsabilità sugli altri. Ancora più importante, tuttavia, è l’idea centrale alla base di questa tendenza. Per gran parte della storia si potevano semplicemente punire gli ebrei per essersi difesi, per essere rimasti in vita. Un patetico pubblico ministero tronfio poteva osservare in silenzio l’assassinio degli ebrei e poi sporgere denuncia contro “entrambe le parti” non appena un ebreo prendeva in mano una mazza per legittima difesa. Perché la legge, vedete, deve essere applicata in modo uniforme. Il mondo non avrebbe fatto nulla contro Hamas, anche dopo gli atti demoniaci del 7 ottobre. Un pubblico ministero giusto deve aspettare finché non ci sarà anche un ebreo da mettere sul banco degli imputati. Questo è l’equilibrio. Questa è la giustizia. Karim Khan può essere un debole pagliaccio, ma conferisce a Israele una motivazione ferrea per la sua esistenza.
(L'informale, 22 maggio 2024)
Il viaggio in agenda e mai fatto del procuratore dell'Aia in Israele
Khan e la sua squadra sarebbero dovuti andare a Gerusalemme per discutere con il governo e vedere cosa è stato fatto. Per i giornalisti israeliani il governo di Netanyahu ancora una volta ha commesso un grosso errore di comunicazione. Le preoccupazioni per il sequestro delle attrezzature dell’Ap.
di Micol Flammini
Dietro alle minacce di un mandato di arresto contro il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant c’era un lavorio accorto, una triangolazione assennata tra Stati Uniti, governo israeliano e lo staff del procuratore della Corte penale internazionale Karim Khan. Gli accordi prevedevano che la squadra del procuratore e Khan stesso si recassero in Israele per discutere le indagini, parlare con il governo, valutare la natura degli aiuti umanitari mandati nella Striscia e verificare il meccanismo per farli entrare a Gaza. La visita di Khan, secondo accordi, sarebbe stata preceduta da quella della sua squadra che era attesa ieri in Israele. Nessuno del gruppo però è salito sull’aereo, e il governo israeliano è stato informato della decisione quando ormai Khan aveva mosso le sue accuse. La squadra del procuratore sapeva già di non dover partire quando Khan dritto davanti alle telecamere ha accusato Netanyahu e Gallant, accostandoli ai capi di Hamas, Yahya Sinwar, Mohammed Deif, Ismail Haniyeh. Per un attimo, nei mille rivoli in cui è divisa la politica israeliana, si è ritrovata l’unità, perché le modalità di reazione di Israele a Gaza sono una decisione comune, presa all’interno del gabinetto di guerra in cui oltre alla maggioranza ci sono anche esponenti dell’opposizione. Gli Stati Uniti erano tra i registi della visita di Khan in Israele, volevano che il procuratore si facesse spiegare se Israele si sta impegnando per l’ingresso degli aiuti umanitari o meno. La Casa Bianca ha fatto molta pressione sul governo di Gerusalemme, ha preteso che venisse assicurato un flusso costante di aiuti, ha costruito un molo a Gaza che permette alle navi con i rifornimenti di attraccare e lo ha fatto con la collaborazione di Tsahal, chiedendo anche a Israele di occuparsi dei valichi. Ma la visita di Khan non è mai avvenuta, il procuratore ha mosso le sue accuse e gli Stati Uniti ora lavorano a una risposta bipartisan da mandare al procuratore dell’Aia. Netanyahu e Gallant sono accusati di usare “la fame come metodo di guerra, inclusa la negazione degli aiuti umanitari, di prendere di mira deliberatamente i civili”. Sinwar, Haniyeh e Deif sono accusati di sterminio, omicidio, sequestro, stupro. Il presidente americano Joe Biden, ha detto con chiarezza che “non esiste equivalenza” tra i funzionari di Hamas e i politici israeliani e ha assicurato: “Saremo sempre al fianco di Israele contro le minacce alla sua sicurezza”. E’ stato il segretario di stato americano Antony Blinken a raccontare del viaggio che Khan e la sua squadra avrebbero dovuto compiere in Israele, ha parlato dell’impegno del governo israeliano di collaborare all’indagine e ha concluso: “Queste circostanze mettono in discussione la legittimità e la credibilità dell’indagine”. Gli Stati Uniti e Israele non hanno ratificato lo Statuto di Roma, che è alla base della Corte penale internazionale, ci vorranno mesi prima che la Corte prenda una decisione sulle accuse contro Netanyahu e Gallant, ma il timore dell’Amministrazione americana è che la prima vittima delle azioni di Khan siano i negoziati per raggiungere un accordo tra Israele e Hamas. Lo scorso fine settimana, il segretario americano per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan, ha incontrato i leader israeliani e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, ha detto che Yahya Sinwar si sente abbastanza forte da rifiutare un’intesa perché sa che la pressione internazionale contro Gerusalemme aumenterà, quindi prevede che può chiedere sempre di più allo stato ebraico, qualsiasi accordo anche a costo di compromettere la sua sicurezza. La decisione di Khan di andare davanti alle telecamere prima che in Israele è un colpo a ogni negoziato, mentre gli Stati Uniti stanno coinvolgendo l’Arabia Saudita per strutturare un piano per Gaza. Israele è una società molto critica, aspra nei confronti del governo, ma nessuno ha accettato l’equivalenza tra Sinwar e Netanyahu. Alcuni giornalisti israeliani, che da mesi evidenziano i grandi errori di comunicazione del governo, hanno detto che l’accusa di Khan è il risultato di mesi di dichiarazioni mal gestite, della mancanza di sforzi per mostrare cosa stava facendo Israele, dell’atteggiamento di una classe politica abituata a essere accusata e a essere trattata come il bullo del medio oriente. Ieri il governo, che per un giorno aveva riacquisito l’unità nazionale, si è attirato nuove critiche per la decisione di sequestrare le attrezzature dell’Associated Press, fermando la diretta dell’agenzia. Secondo il ministero delle Comunicazioni i giornalisti stavano violando la legge sulle emittenti straniere accusate di costituire un danno per la sicurezza dello stato. Non ci sono stati chiarimenti, gli Stati Uniti hanno definito la notizia preoccupante e hanno chiesto a Netanyahu di ripensarci. La decisione contro Ap non rafforza la posizione di Israele.
Lo storico americano fa a pezzi la narrazione occidentale che vuole demonizzare il leader del Cremlino
Intervista a Benjamin Abelow: «A parti invertite, Washington avrebbe fatto lo stesso. Anzi, è proprio lui ad aver causato questo disastro».
di Franco Battaglia
Specialista in Storia moderna europea, formatosi alla University of Pennsylvania (e anche medico, formatosi alla Yale school of medicine), Benjamin Abelow è autore di How the West broughtwar to Ukraine: understanding how U.S. and Nato policies led to crisis, war, and the risk of nuclear catastrophe, un best-seller, tradotto in sette lingue, compreso l'italiano, col titolo Come l'Occidente ha provocato la guerra in Ucraina» (Fazi editore, 2023). È un libro molto breve, e dovrebbe leggerlo chiunque ha voglia di ascoltare l'altra campana delle cose. Il saggio ha già ricevuto gli apprezzamenti pubblici di molti esperti, tra cui Jack Matlock, ambasciatore degli Stati Uniti in Unione sovietica, John Mearsheimer e Richard Sakwa, professori di Scienze politiche alle università di Chicago e del Kent.
- Dr. Abelow, lei afferma che la guerra in Ucraina è colpa degli Stati Uniti e della Nato. Ma l'aggressore è Putin, no? «Se si fa cominciare la storia dal giorno dell'invasione, ovviamente Vladimir Putin sembra essere la fonte del problema. Ma la storia non è iniziata il giorno dell'invasione. I nostri governi e i media ci dicono che Putin è un nuovo Hitler, o un nuovo zar o un nuovo Stalin, che è entrato in guerra per distruggere l'Ucraina e invadere altri Paesi. Non c'è alcuna prova a sostegno di questa tesi. Anzi, le prove sono completamente opposte».
- Allora perché Putin ha invaso l'Ucraina? «Il più importante fattore è stato il tentativo degli Usa di far entrare l'Ucraina nella Nato, cosa che la Russia percepisce come una minaccia inaccettabile. Non è una novità: già nel 1997, 50 tra i più importanti esperti di politica estera degli Stati Uniti inviarono una lettera pubblica al presidente Bill Clinton che lo avvertiva che l'espansione della Nato sarebbe stata un errore di politica estera di "proporzioni storiche". E nel 2007 o all'inizio del 2008 - non conosciamo la data esatta - il Consiglio di intelligence nazionale americano ha concluso che tentativi di far entrare l'Ucraina nella Nato avrebbero potuto indurre la Russia ad annettere la Crimea, e invadere l'Ucraina. Non si può prevedere il futuro meglio di così».
- Ma le risoluzioni della Nato richiedono l'unanimità: qual è stato il ruolo dei leader europei? «I leader dell'Europa occidentale all'inizio non concordavano con l'ingresso dell'Ucraina nella Nato. Quando il presidente Bush inviò il segretario di Stato Condoleezza Rice a Bucarest per cercare di convincerli, la loro opposizione fu così forte che la Rice si mise a piangere. Davvero, si mise a piangere. Alla fine, però, le pressioni americane prevalsero e i leader europei approvarono una risoluzione favorevole. Come ha ben detto lei, le risoluzioni Nato richiedono unanimità e ogni singolo leader nazionale avrebbe potuto bloccare la risoluzione, ma questi leader europei non hanno la forza, la fibra morale e l'integrità necessarie per distinguersi dal gruppo e dire no ».
- Non è che Putin sia paranoico? «Decida lei. Nel 2020 e 2021, in Estonia, la Nato ha effettuato esercitazioni missilistiche a fuoco vivo utilizzando 48 missili balistici con una gittata di 300 km. I missili sono stati lanciati a soli 110 km dal confine con la Russia. Ciò significa che i missili potevano colpire fino 190 km dentro il territorio russo. I missili non sono entrati nello spazio aereo russo, ma avrebbero potuto farlo. Ora, la Nato non stava realmente pianificando un attacco alla Russia. E questa fu solo una delle tante esercitazioni militari vicino il confine con la Russia. Ma come fanno i russi a sapere che l'Occidente non stava effettivamente progettando di attaccare la Russia? Dovrebbero fidarsi della nostra parola? Ci fideremmo della loro parola su queste cose?»
- Qual è la risposta? «Immagini uno scenario in cui il Canada sia alleato della Russia e che inizi a lanciare missili per esercitarsi a distruggere obiettivi di difesa aerea in America. Come pensate che reagirebbero gli Stati Uniti? Chiederebbero la fine di tutte le esercitazioni e l'immediata rimozione dei missili. Putin ha reagito proprio come avrebbero fatto gli Stati Uniti».
- Ma Putin sta combattendo da due anni, e ha conquistato il 20% del territorio ucraino. Come si fa a dire che non stava cercando di conquistare l'Ucraina? «Non tutti sanno che entro 24 ore dall'inizio dell'invasione, lo staff di Putin contattava l'ufficio di Zelensky offrendo l'interruzione delle ostilità in cambio della dichiarazione ucraina di neutralità. Questo è ciò che accadeva il primo giorno di ciò che Putin ha chiamato "Operazione militare speciale". Non fu un tentativo di conquista, ma un tentativo di "diplomazia coercitiva", iniziato mesi prima quando assembrava le truppe al confine con l'Ucraina. Putin stava cercando di costringere l'Ucraina ad accettare ciò che aveva cercato senza successo almeno dal 2007. Putin c'era quasi riuscito: Zelensky voleva discutere la sua offerta. Ma sembra che gli Stati Uniti abbiano interferito. La stessa cosa è accaduta il mese successivo: tra marzo e aprile del 2022 si sono svolti negoziati completi tra Russia e Ucraina, a Istanbul, in Turchia. L'ex primo ministro israeliano Naftali Bennett, che aveva contribuito a far nascere il processo di pace, ha dichiarato che un documento di lavoro per la pace era passato attraverso 17 o 18 bozze e probabilmente sarebbe culminato in un accordo. Ma proprio in quel momento, il primo ministro britannico Boris Johnson si è presentato in Ucraina da Zelensky, dicendogli: "Voi potete anche essere pronti per la pace, ma noi, l'Occidente collettivo, non lo siamo».
- Difficile pensare che Johnson avrebbe fatto una cosa del genere senza la piena approvazione del presidente Biden. «Già. In America sempre più persone si stanno rendendo conto che questo fiasco ucraino è stato altrettanto inutile, stupido e colpa dell'Occidente quanto la guerra in Iraq. Come l'Iraq, questa guerra viene sostenuta sulla base di false premesse. In Europa, pensate di opporvi al nuovo Hitler. Quando vi sveglierete, vi renderete conto che è come fu in Iraq, basato su false premesse».
- Perché Putin s'è mosso proprio nel febbraio 2022? «Nella seconda metà del 2021 si verificarono tre importanti eventi, uno dopo l'altro. Innanzitutto, in luglio la Nato emetteva un comunicato ribadendo la decisione di far entrare l'Ucraina nell'Alleanza. Due mesi dopo, il Pentagono firmava un accordo con l'Ucraina ribadendone l'ingresso nella Nato e - cosa ancora più importante - con l'impegno di armarla e militarizzarla, e ciò indipendentemente da ciò che sarebbe accaduto con la Nato in senso formale. Infine, due mesi dopo ancora, il dipartimento di Stato firmava un accordo di partenariato strategico con l'Ucraina confermando che l'Ucraina avrebbe aderito alla Nato. A sua volta, Putin inviava richieste formali sia agli Stati Uniti che alla Nato per lasciare l'Ucraina fuori dalla Nato. Ma sia gli Stati Uniti che la Nato respinsero la richiesta in modo assoluto, non ne vollero nemmeno discutere, sostenendo che un avamposto militarizzato guidato dagli Stati Uniti e al confine con la Russia non era affare della Russia».
- I leader occidentali non sarebbero d'accordo con la sua prospettiva. Come lo spiega? Anzi, probabilmente direbbero che lei è un agente del Cremlino. «I responsabili politici che hanno spinto senza sosta per l'espansione della Nato hanno causato questo disastro. Queste persone non si assumono quasi mai la responsabilità. Cercano altri da incolpare. Ci vorrebbe una notevole dose di onestà da parte di un leader che dica: "Abbiamo commesso un terribile errore". Pochissime persone hanno la capacità psicologica di riconoscere un terribile errore anche a sé stesse, tanto meno in pubblico. E così cercano di salvare la faccia: dicono che il loro piano era buono, così buono che dovremmo continuare a portarlo avanti; dicono che chi dice che il re è nudo è un agente del Cremlino. A questo si aggiunge il pessimo ruolo giocato dalla stampa: invece di agire in modo indipendente e di adempiere alla propria responsabilità sociale, i nostri media sono diventati asserviti ai nostri governi, e funzionano in gran parte come un'ala propagandistica dello Stato».
(La Verità, 21 maggio 2024) ____________________
Come nel caso della vaccinazione coatta, l’obbligo morale a odiare Putin imposto dalla narrazione “occidentale” si dimostra essere, a conti fatti, un’enorme impostura marcatamente “occidentale”. E’ questo l’Occidente di cui dobbiamo sentire il dovere di difendere la libertà? La libertà di mentire per chi comanda e l’obbligo di accettare le menzogne per chi prima ancora di ubbidire deve sentirsi minacciato per il solo fatto che fa sapere di non crederci? Purtroppo alcuni, anche tra gli amici di Israele, collegando insanamente la guerra in Ucraina con la guerra in Gaza, hanno immaginato che questo Occidente menzognero potesse essere invocato a difesa dell’esistenza di Israele. Ma la verità del diritto di Israele a vivere sulla sua terra non può essere difeso dalla menzogna della difesa della libertà occidentale. E adesso si vede. M.C.
GERUSALEMME - Uno Stato palestinese sovrano verrebbe subito conquistato da milizie terroristiche e diventerebbe un focolaio di violenza terroristica in Israele e in tutto il Medio Oriente. Molti lo sanno da anni e la rapida conquista di Gaza da parte di Hamas, appena un anno dopo il ritiro di Israele dal territorio, lo ha confermato. Eppure molti non sembrano aver imparato la lezione dello sfortunato "disimpegno" e hanno bisogno di sentirsi dire esplicitamente che uno Stato palestinese sarebbe uno Stato terrorista. Tra coloro che cercano di far ragionare i leader occidentali c'è il famoso romanziere Salman Rushdie. In un'intervista rilasciata al quotidiano tedesco Bild, lo scrittore britannico-americano di origine indiana ha dichiarato inequivocabilmente: "Se ci fosse uno Stato palestinese ora, sarebbe gestito da Hamas e avremmo uno Stato talebano. Uno Stato satellite dell'Iran". Rushdie ha poi chiesto: "È questo che i movimenti progressisti della sinistra occidentale vogliono creare?". Ha spiegato che il problema è che la maggior parte delle persone in Occidente reagisce emotivamente al conflitto, invece di guardare alla situazione in modo logico. E questo sfogo emotivo sta guidando la politica dei governi, soprattutto in un anno di elezioni. Le masse liberali che protestano contro Israele sono così ignoranti che arrivano a sostenere a voce Hamas, anche se le loro posizioni e convinzioni sono in netto contrasto con quelle del gruppo jihadista ultraconservatore. Due anni fa, Rushdie ha rischiato di morire quando uno jihadista lo ha accoltellato 14 volte durante uno spettacolo a New York. Nel 1989, l'allora leader supremo iraniano Ayatollah Ruhollah Khomeini emise una fatwa contro Rushdie per il suo libro "I versi satanici". Da allora ha subito numerosi attacchi e tentativi di assassinio.
Instagram(Israel Heute, 21 maggio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Israele non gioisce e non si preoccupa, la morte di Raisi non cambia nulla
L'incidente aereo che ha ucciso il presidente iraniano e il ministro degli Esteri Amir-Abdollahian per Gerusalemme è uno schianto inutile. Lo spassoso pilota-agente segreto del Mossad Eli Kopter.
di Micol Flammini
Nel rapporto tra Israele e la Repubblica islamica nulla cambia, anche se il presidente dell’Iran Ebrahim Raisi è morto assieme a tutti gli altri passeggeri che volavano a bordo dell’elicottero Bell 212, vecchio rimasuglio di fabbricazione americana carbonizzato nel tentativo di effettuare un atterraggio di emergenza tra le montagne nebbiose del Varzaqan, nella regione iraniana dell’Azerbaigian orientale. Raisi viaggiava con il ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian, l’imam di Tabriz Mohammad Ali al Hashem, il governatore della regione Malek Rahmati, due piloti e due guardie del corpo. Sono morti tutti e poco cambia per il futuro delle relazioni tra Iran e Israele. Dopo l’annuncio dell’incidente, alcune vignette satiriche avevano iniziato a tratteggiare l’esistenza a bordo dell’elicottero di un pilota-agente segreto del Mossad molto ardimentoso chiamato Eli Kopter. Il nome è assurdo e spassoso, ma qualcuno ha voluto vederci della verità e in poco tempo, il canale televisivo israeliano in lingua francese i24 e alcuni canali telegram anti israeliani iniziavano a riportare i dettagli del misterioso pilota pronto alla missione suicida, tramandando l’idea che Israele dovesse avere avuto un ruolo nella morte di Raisi e degli altri. I24 aveva preso per buona la satira finendo a sua volta oggetto di sberleffi, mentre canali vicini a Hamas e a Hezbollah forse avevano pensato in modo furbesco che fingere di credere all’esistenza di Eli Kopter fosse il modo più rapido per accusare lo stato ebraico. Le teorie del complotto possono nascere anche da una vignetta satirica e pure se il regime iraniano dovesse decidere di addossare una responsabilità remota a Israele, lo farebbe con poca convinzione, soltanto per tenere alta l’attenzione e l’odio contro lo stato ebraico – come fece per esempio a gennaio, dopo l’attentato a Kerman durante le commemorazioni per la morte del generale Qassem Suleimani, nonostante le rivendicazioni dello Stato islamico del Khorasan, l’allora ex vicepresidente Mohammad Mokhber ci tenne ad accusare “le mani del regime sionista”. Mokhber adesso è presidente, ha preso il posto di Raisi e tanto basta per capire che nelle intenzioni iraniane contro Israele è come se l’incidente aereo non ci fosse mai stato. Poco importa se i vertici del governo cambiano, poco importa se al posto di Amir-Abdollahian è stato nominato Ali Bagheri Kani, capo negoziatore per il programma nucleare dell’Iran. Israele guarda avanti, i funzionari iraniani sono la proiezione della volontà della Guida suprema e i funzionari passati come quelli futuri continueranno a rappresentare gli interessi e le idee di Ali Khamenei. Le morti di Raisi e di Amir-Abdollahian non cambiano la politica estera di Teheran e Israele non si è mai interessato a loro.
Il ministro degli Esteri non era un tessitore e un organizzatore della guerra contro lo stato ebraico nonostante fosse molto vicino al leader di Hezbollah e raccontasse di lunghe chiacchierate a Beirut che si protraevano fino alle quattro del mattino: parlava bene l’arabo e male l’inglese, tanto da attirarsi le critiche e le beffe dell’opposizione – ha l’inglese di un venditore ambulante, dicevano. Come Raisi, Amir-Abdollahian era un soldato fedele, non un uomo scelto per cambiare, indirizzare, rafforzare le strategie del paese in politica estera. Erano entrambi l’emanazione delle idee di Khamenei, che contro Israele vuole una guerra lenta, combattuta dai gruppi armati in giro per il medio oriente, ne rappresentavano il modo di vedere il mondo, senza neppure avere troppo potere a disposizione se non quello di esaudire ed eseguire i desideri della Guida suprema. Ognuno dei gruppi armati ha voluto esprimere la propria vicinanza alla Repubblica islamica, Hamas ha fatto le condoglianze a Khamenei per l’“immensa perdita”. Hezbollah ha reso “onore al protettore dei movimenti di resistenza”, e ha ringraziato Raisi e Amir Abdollahian per lo sforzo politico e diplomatico intenso “per fermare l’aggressione sionista”, gli houthi si sono spinti oltre fino a parlare di “presunto martirio”. Sono loro il braccio armato dall’Iran contro Israele, non hanno mai preso ordini dal presidente e dal ministro degli Esteri, la loro battaglia rimarrà la stessa, senza cambiamenti.
La Repubblica islamica non è un nemico cambiato adesso che il presidente e il ministro degli Esteri sono morti, il loro ruolo è limitato, non sono strateghi. Anche se le teorie del complotto hanno voluto dare adito all’esistenza del potente pilota Eli Kopter, agente del Mossad infiltrato nell’elicottero presidenziale, dal punto di vista di Israele quanto successo sulle montagne del Varzaqan è stato un incidente inutile.
Eden Golan canta per la prima volta in pubblico ‘October rain’ nella piazza per gli ostaggi
La cantante israeliana Eden Golan, che ha rappresentato Israele all’Eurovision Song Contest di quest’anno arrivando al quinto posto, ha eseguito la sua canzone “October Rain” senza le modifiche richieste dall’Eurovision la sera di sabato 18 maggio durante un raduno a Tel Aviv organizzato dal Forum delle famiglie degli ostaggi e dei dispersi. Il raduno mirava a raccogliere l’attenzione globale e a convincere altri Paesi a fare pressione su Hamas affinché rilasciasse i 128 ostaggi ancora trattenuti a Gaza.
«È la prima volta che canto sul palco dopo essere tornata dall’Eurovision”, ha detto Golan alla folla riunita in quella che è stata chiamata Piazza degli ostaggi. “Volevo farlo su questo palco, in questa piazza. Volevo cantare ‘October Rain’ stasera ed è la mia preghiera per riportare tutti a casa. Non smetterò di far sentire la nostra voce in Israele e nel mondo, finché tutti non torneranno a casa”, ha detto.
La canzone, che include un testo che fa riferimento agli ostaggi e alle persone uccise da Hamas, era stata originariamente scritta per il concorso Eurovision in Svizzera all’inizio del mese. Tuttavia, l’Unione europea di radiodiffusione l’ha squalificata per la presenza, a loro dire, di messaggi politici. La sua esibizione è stata rovinata dall’animosità degli altri concorrenti, dai fischi di alcuni membri del pubblico e dai raduni anti-israeliani fuori dalla sede di Malmo, in Svezia, per la guerra in corso a Gaza.
La canzone ‘October rain’ include frasi come: I promise you that never again…/Writers of history stand with me/People go away but never say goodbye…/I’m still wet from the October rain, mentre la frase finale in ebraico diceva: There is no air left to breathe…/They were all good kids, every one of them – riferito alle vittime del 7 ottobre.
(Bet Magazine Mosaico, 21 maggio 2024)
Mandato d’arresto dell’Aia, da Israele un coro di condanne: “È uno scandalo”
Le reazioni alla richiesta del procuratore Khan: “Veniamo messi sullo stesso piano degli abominevoli mostri nazisti di Hamas”.
di Rossella Tercatin
GERUSALEMME — Indignazione bipartisan. Israele accoglie la notizia della richiesta dei mandati d’arresto della Corte penale internazionale per i suoi leader, il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant, con un coro di condanne che attraversa l’arco politico e lascia sdegnati anche i critici più intransigenti dell’attuale governo.
«Questa decisione è uno scandalo. Non ci fermerà», la reazione di Netanyahu. «Qui c’è un tentativo di negare la legittimità dello Stato ebraico a difendersi. Stanno cercando di imporci limiti che non sono stati mai dati a nessun altro esercito. È un tentativo di legarci le mani, cosa che mette in pericolo il nostro futuro e la nostra esistenza. Dobbiamo resistere uniti contro questa macchia».
A scatenare la rabbia israeliana è stata anche l’equiparazione tra i propri leader e quelli di Hamas, organizzazione ufficialmente classificata come terrorista dalla maggior parte delle nazioni occidentali.
«Mentre gli assassini e violentatori di Hamas stanno continuando a commettere crimini contro l’umanità nei confronti dei nostri fratelli e sorelle, il procuratore capo mette sullo stesso piano il primo ministro e il ministro della Difesa di Israele e gli abominevoli mostri nazisti di Hamas», il commento del Ministro degli Esteri israeliano Israel Katz in una nota. Mentre il Ministro della Giustizia Yariv Levin ha parlato apertamente di decisione motivata da antisemitismo e odio antiebraico.
Dal tenore simile sono state anche le parole di Benny Gantz, che attualmente sostiene la maggioranza ed è membro dello speciale gabinetto di guerra formatosi dopo il 7 ottobre, ma solo due giorni fa aveva presentato a Netanyahu un duro ultimatum, accusando il premier di condurre il conflitto sulla base di considerazioni politiche in contrasto con gli interessi del paese.
«Con Israele che combatte seguendo uno dei codici morali più severi della storia, nel rispetto del diritto internazionale e vantando un robusto sistema giudiziario indipendente, tracciare un parallelo tra i leader di un paese democratico determinato a difendersi dal terrorismo più spregevole e i leader di un’organizzazione terroristica assetata di sangue è una profonda distorsione della giustizia e un segno di evidente bancarotta morale», ha detto Gantz, che si è spinto a descrivere l’annuncio del procuratore capo della corte «un crimine di proporzioni storiche».
Anche il capo dell’opposizione Yair Lapid ha duramente condannato la richiesta dei mandati d’arresto.
«Non è possibile emettere mandati di arresto contro Netanyahu, Sinwar e Deif (leader di Hamas, ndr)», ha detto Lapid. «Un paragone del genere non può esistere, non possiamo accettarlo ed è imperdonabile», ha aggiunto, parlando di «terribile fallimento politico». Lapid, come anche il parlamentare del Likud Danny Danon, hanno espresso l’auspicio di un intervento americano per fermare gli sviluppi successivi in seno alla corte internazionale.
Anche il Forum delle Famiglie degli Ostaggi, che da mesi critica l’operato del governo per quanto riguarda la gestione del conflitto ha espresso il suo disappunto, dichiarando il proprio “disagio” per l’equivalenza tracciata tra la leadership israeliana e i terroristi di Hamas.
Una dichiarazione di condanna dell’Aja è stata sottoscritta da 106 parlamentari su 120. A non firmare i rappresentanti dei partiti arabi. «Netanyahu è l’unico capo di governo sotto processo nel proprio paese e fuori. Vale la pena di rifletterci», ha dichiarato il deputato Ahmad Tibi.
(la Repubblica, 21 maggio 2024)
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La scandalosa richiesta di mandato d’arresto contro Netanyahu e Gallant
di Ugo Volli
• Il mandato d’arresto e le reazioni
La notizia era stata largamente anticipata già da tre settimane e c’erano già stati numerosi tentativi di scongiurarla; ma è esplosa comunque ieri, oscurando anche la morte del presidente iraniano Raisi. Il mandato di arresto emesso dal procuratore della Corte Penale Internazionale Karim Khan contro il primo ministro israeliano Bibi Netanyahu, il ministro della difesa Yoav Gallant e contemporaneamente contro tre capi di Hamas (Yahya Sinwar, Ismail Haniyeh e Mohammed Deif) ha suscitato scandalo non solo in Israele, ma molto largamente nel mondo. Contro il mandato e soprattutto l’implicita equiparazione dei più importanti politici israeliani con i capi terroristi e quindi implicitamente di Israele con Hamas si sono espressi fra gli altri il presidente americano Biden (“una richiesta scandalosa”) il segretario di Stato Blinken, il ministro degli esteri e quello della difesa britannico. il primo ministro della repubblica ceca (“proposta scandalosa e inaccettabile”), il governo austriaco. Diversi membri autorevoli del Congresso americano hanno chiesto sanzioni contro il tribunale.
• La due corti
Bisogna sapere che a L’Aya in Olanda vi sono due tribunali internazionali. Uno è la Corte di Giustizia Internazionale, davanti a cui il Sudafrica ha citato alcuni mesi fa Israele per “genocidio”. La corte ha respinto in quel momento la richiesta di provvedimenti contro lo Stato ebraico, riservandosi di deliberare sulla denuncia in seguito, ma in questi giorni vi si discute una nuovo ricorso del Sudafrica che chiede di proibire urgentemente la continuazione della guerra per impedire l’operazione a Rafah. Questa corte è un organo dell’Onu e giudica su conflitti fra gli stati che ne sono membri, in particolare rispetto alla convenzione contro il genocidio; ma non ha potere sulle persone. La Corte Penale Internazionale (CPI) è invece un organismo autonomo, istituito dal “Trattato di Roma” (1998) che ha giurisdizione solo sugli stati che l’hanno ratificato (non Usa, Russia, Cina, India e neppure Israele) per individui imputati di crimini contro l’umanità o crimini di guerra, a patto che il loro stato non abbia o non sia disposto ad applicare un procedimento giudiziario con adeguate garanzie. Entrambi questi elementi (mancata firma del trattato ed esistenza di un agguerrito sistema penale in Israele) escluderebbero la possibilità di azione per la CPI e il suo procuratore. C’è stata invece una forzatura, la cui natura politica è chiara, come si vede anche dalle dichiarazioni di Khan.
• Quel che ha detto il procuratore Khan
“Se i mandati di arresto venissero concessi – ha detto Khan – Netanyahu e Gallant dovrebbero affrontare l’accusa di far morire di fame i civili come metodo di guerra, causando intenzionalmente grandi sofferenze o gravi lesioni al corpo o alla salute, e uccisioni intenzionali.” Le accuse includerebbero anche: “Sterminio e/o omicidio, anche nel contesto di morti causate dalla fame, come crimine contro l’umanità”, ha spiegato. “Riteniamo che i crimini contro l’umanità accusati sono stati commessi come parte di un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile palestinese in conformità con la politica dello Stato. Questi crimini, secondo la nostra valutazione, continuano ancora oggi. Il mio ufficio sostiene che questi atti sono stati commessi come parte di un piano comune volto a utilizzare la fame come metodo di guerra e altri atti di violenza contro la popolazione civile di Gaza come parte della strategia di Israele per distruggere Hamas e fare pressione sul gruppo affinché rilasci gli ostaggi e anche per punire collettivamente la popolazione civile di Gaza, che percepivano come una minaccia per Israele”. Chiunque abbia un minimo di informazione imparziale sulla guerra, per esempio sugli sforzi di condurla senza danneggiare la popolazione civile e di rifornirla dei beni necessari in vari modi, capisce che il quadro di Khan è del tutto irreale.
Le reazioni israeliane
Quasi tutti in Israele hanno respinto con indignazione la richiesta di Khan. La Knesset, il parlamento israeliano ha approvato a grandissima maggioranza, 106 su 120 con la sola eccezione dei partiti arabi e dei laburisti, questa dichiarazione: “”Lo Stato di Israele è nel mezzo di una guerra giusta contro un’organizzazione criminale terroristica. L’IDF è l’esercito più morale del mondo. I nostri eroici soldati stanno combattendo con coraggio e dedizione che non hanno secondi, secondo il diritto internazionale, come nessun altro esercito lo ha mai fatto. Lo scandaloso paragone del procuratore dell’Aia tra i leader israeliani e i capi delle organizzazioni terroristiche è un crimine storico incancellabile e una chiara espressione di antisemitismo. Nessuno potrà impedire allo Stato ebraico di difendersi.” Si sono espressi nello stesso senso anche il presidente Herzog, il ministro degli esteri Katz, il ministro Gantz e molti altri.
• Il commento di Netanyahu
Il primo ministro Netanyahu ha fatto una dichiarazione televisiva in cui ha detto fra l’altro:
“L’ordinanza assurda e falsa del Procuratore dell’Aia non è diretta solo contro il Primo Ministro israeliano e il Ministro della Difesa, ma è diretta contro l’intero Stato di Israele. È diretta contro i nostri soldati, che stanno combattendo con supremo eroismo contro i vili assassini di Hamas, che ci hanno attaccato con terribile crudeltà il 7 ottobre. Procuratore dell’Aia, con quale audacia osi paragonare i mostri di Hamas ai soldati dell’esercito più morale del mondo? Con quale audacia confronti Hamas che ha ucciso, bruciato, massacrato, violentato e rapito i nostri fratelli e sorelle, e i soldati che stanno combattendo una guerra giusta che non ha eguali in fatto di moralità? In qualità di Primo Ministro israeliano, respingo con disgusto il paragone del Procuratore dell’Aia tra l’Israele democratico e gli assassini di massa di Hamas. Questa è una completa distorsione della realtà. Questo è esattamente l’aspetto del nuovo antisemitismo, che si è spostato dai campus dell’Occidente al tribunale dell’Aia. Cittadini israeliani, Vi prometto una cosa: il tentativo di legarci le mani fallirà. 80 anni fa il popolo ebraico era indifeso contro i nostri nemici, ma ora non più.”
(Shalom, 21 maggio 2024)
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Il mandato d'arresto a Netanyahu serve a fare d'Israele l'“ebreo fra le nazioni”
Il procuratore capo della Corte penale internazionale ha chiesto alla Camera preliminare del tribunale di emettere mandati di arresto contro il premier israeliano, il ministro della Difesa di Israele, il capo di Hamas a Gaza e in esilio e quello delle Brigate al Qassam a Gaza. Per la Corte, pari sono.
di Giulio Meotti
Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant, Yahiya Sinwar, Ismail Haniyeh e Mohammed Deif. Il premier e il ministro della Difesa di Israele, il capo di Hamas a Gaza e in esilio e quello delle Brigate al Qassam a Gaza. Pari sono. Il procuratore capo della Corte penale internazionale, l’inglese di origine pakistana Karim Khan, ha chiesto alla Camera preliminare del tribunale di emettere mandati di arresto contro i cinque. Il procuratore Khan ha dichiarato che le accuse a carico dei leader di Hamas riguardano “sterminio, omicidio, presa di ostaggi, stupro e violenza sessuale durante la detenzione”, mentre quelle a carico di Netanyahu e Gallant consistono nell’aver “causato lo sterminio, la fame come metodo di guerra” e nell’aver “colpito deliberatamente i civili”. Un capolavoro di equivalenza morale.
“Mentre gli assassini e gli stupratori di Hamas commettono crimini contro l’umanità a danno dei nostri fratelli e sorelle, il pubblico ministero dell’Aja cita nella stessa frase il primo ministro e il ministro della difesa israeliani insieme ai vili mostri nazisti di Hamas: una vergogna storica che sarà ricordata per sempre”, il commento del ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz. Il presidente d’Israele, Isaac Herzog, ha detto che qualsiasi azione del genere “servirebbe solo a legare le mani di tutte le nazioni libere e democratiche nella lotta contro il terrorismo, e deve essere contrastata con determinazione”. Anche il ministro Benny Gantz ha criticato l’Aia: “Israele sta conducendo una guerra giusta a seguito del vergognoso massacro perpetrato dai terroristi Hamas il 7 ottobre. Mentre Israele combatte con uno dei codici morali più severi della storia, nel rispetto del diritto internazionale e vantando un robusto sistema giudiziario indipendente, tracciare un parallelo tra i leader di un paese democratico determinato a difendersi dal terrorismo e i capi di un’organizzazione terroristica sanguinaria è una profonda distorsione della giustizia e un palese fallimento morale. La posizione del procuratore capo è di per sé un crimine di proporzioni storiche da ricordare per generazioni”.
“È un po’ come se un tribunale internazionale avesse emesso un mandato d’arresto contro Winston Churchill per i bombardamenti su Dresda e Amburgo e non contro Adolf Hitler, il più spregevole mostro umano che l’umanità ha conosciuto” ha commentato su Yedioth Ahronoth Ben Dror Yemini. Il procuratore dell’Aia emette mandati per Israele e Hamas, ponendoli sullo stesso piano, nonostante le tonnellate di aiuti che ogni giorno entrano a Gaza e tutti i modi impiegati da Israele per avvertire la popolazione di Gaza di un attacco militare (telefonate, sms, volantini, apertura di corridoi umanitari da nord a sud).
Israele ha sperimentato per la prima volta il peso della giurisdizione internazionale nel 2001, quando in Belgio è stato emesso un mandato di arresto contro Ariel Sharon e l’ex capo di stato maggiore Raphael Eitan. Nel 2015 l’alto magistrato della Audiencia nacional spagnola, José de la Mata, ha ordinato alla polizia e alla guardia civil di arrestare Netanyahu e altri sei ex ministri se fossero entrati in territorio spagnolo. Dietro questi mandati d’arresto ci sono magistrati zeloti dal forte pregiudizio antisraeliano e gruppi di pressione filopalestinesi che avanzano le cause nei tribunali. Per evitare l’arresto a Londra, la leader dell’opposizione laburista israeliana, Tzipi Livni, aveva dovuto farsi dare l’immunità diplomatica dal governo. Se fosse andata in Inghilterra in “visita personale”, un magistrato avrebbe spiccato il mandato d’arresto. Mandati d’arresto furono spiccati in Belgio per Ariel Sharon. Il generale Doron Almog stava arrivando a Londra con un volo della El Al, quando l’ambasciata lo avvertì che c’era un ordine di arresto emesso da un magistrato per “violazioni della Convenzione di Ginevra”. Almog non scese neppure dall’aereo e Downing Street fu costretta a scusarsi. Anche l’ex direttore dei servizi segreti, Avi Dichter, ha dovuto rinunciare a una conferenza, mentre Aviv Kokhavi, capo di stato maggiore, ha cancellato una conferenza in un’accademia militare britannica. Finora questi tentativi di arresto erano stati vani. Adesso hanno il blasone del procuratore capo dell’Aia.
A differenza dei capi di Hamas, chiusi nei loro tunnel di Rafah e negli hotel di lusso di Doha, da dove ripetono che rifarebbero il 7 ottobre “ancora e ancora”, in spregio a ogni morale o diritto, irridendo mandati d’arresto o condanne internazionali, i politici israeliani devono potersi muovere, viaggiare e lavorare e i mandati di cattura hanno l’obiettivo di intimidire lo stato ebraico. Farne un paria. L’ebreo fra le nazioni.
Ebrei ortodossi esaminano i resti di un missile sparato dall'Iran vicino alla città meridionale israeliana di Arad, 28 aprile 2024
È stata una turbolenta corsa sulle montagne russe emotive in Israele e nell'intero mondo ebraico: commemorazioni, momenti di silenzio e poi di nuovo celebrazioni, anche se attenuate e piuttosto sommesse alla luce delle difficili circostanze attuali. Nel brano settimanale Emor, leggiamo le regole di comportamento prescritte per i Kohanim, la tribù sacerdotale. Non possono entrare in contatto con i morti e le loro opportunità di matrimonio sono più limitate rispetto alla media degli israeliti. Troviamo anche il comandamento del Kiddush Hashem. Ogni ebreo, non solo un Kohen, è tenuto a santificare il nome di Dio. A volte questo significa rinunciare alla propria vita per la fede, come hanno fatto milioni di nostri fratelli nel corso dei secoli. Per la maggior parte di noi, tuttavia, significa comportarsi in modo da lodare il Dio di Israele. Quando agiamo in modo moralmente, eticamente e rettamente, siamo generalmente rispettati dalle persone e questo porta onore al nostro Dio e alla nostra fede. Fin dalla prima rivelazione al roveto ardente, Dio disse a Mosè che dovevamo diventare un "regno di sacerdoti e una nazione santa". Se siamo stati all'altezza di questa chiamata, siamo stati davvero una "luce per le nazioni". Oggi Israele si trova di fronte a un mondo in cui l'ipocrisia ha raggiunto livelli senza precedenti. L'intero pianeta sembra aver perso la bussola morale e, francamente, la ragione. Persino i nostri amici ci fanno pressione, ci minacciano e ci ricattano. Ma dobbiamo fare quello che dobbiamo fare. Tutte le centinaia di preziose giovani vite che sono state stroncate saranno state vane se non finiamo il lavoro a Gaza? Le cose sembrano molto confuse. Da un lato, abbiamo assistito di recente alla mano incredibilmente miracolosa di Dio che ci ha protetto da più di 300 attacchi missilistici e di droni da parte dell'Iran. Il tasso di successo del 99,9% della nostra difesa non può essere spiegato militarmente o scientificamente. D'altra parte, abbiamo perso centinaia dei nostri migliori e più coraggiosi difensori. Dov'era Dio? C'è forse una contraddizione? Siamo in una guerra esistenziale in cui è in gioco la nostra stessa sopravvivenza. La domanda è: siamo al sicuro o no? Dio ci protegge o no? Penso al 1991 e alla guerra del Golfo. Saddam Hussein, che oggi ricordiamo a malapena, minacciava Israele con i suoi micidiali missili Scud e persino con armi chimiche. Israele distribuì maschere antigas a tutti i suoi cittadini in caso di attacco chimico da parte del feroce dittatore. L'Iraq aveva invaso il Kuwait. Gli Stati Uniti avevano intimato all'Iraq di ritirarsi e gli avevano dato una scadenza. Non era una nostra battaglia. Israele non ha confini con l'Iraq e la guerra non aveva nulla a che fare con Israele. Eppure Saddam ci ha minacciato e l'America ha dotato Israele del sistema di difesa missilistico Patriot e ci ha chiesto di starne fuori. Gli Stati Uniti si sarebbero occupati dell'Iraq. Lo fecero, ma non prima che l'Iraq avesse lanciato decine di missili Scud contro Israele. Miracolosamente, non ci fu nemmeno una vittima. Ricordo chiaramente come l'intero mondo ebraico fosse pietrificato in quel momento. Nelle comunità ebraiche di tutto il mondo, compresa la nostra, si tennero incontri di preghiera e campagne di raccolta fondi per Israele. Tuttavia, c'era una voce solitaria nel deserto che dichiarava che Israele era al sicuro e sarebbe stato al sicuro da tali attacchi. Il rabbino Menachem Mendel Schneerson, il Rebbe di Lubavitch, si spinse oltre e disse al governo israeliano che le maschere antigas non sarebbero state necessarie. E aveva ragione. Qui in Sudafrica, la Federazione Sionista organizzò una missione di solidarietà in Israele. Il Rebbe ci incoraggiò a partecipare e diversi colleghi Chabad mi accompagnarono, insieme al defunto rabbino capo Cyril Harris. Ho portato con me anche mia figlia Zeesy, di 12 anni. Era il membro più giovane della missione. Personalmente credo che Israele sia stato miracolosamente protetto da Dio dagli Scud iracheni perché Israele si stava semplicemente facendo gli affari suoi. È stato attaccato senza alcun motivo. Non avevamo fatto nulla per mettere a rischio la nostra sicurezza. Il guardiano celeste di Israele ha risposto di conseguenza. Allo stesso modo, eravamo un bersaglio del tutto innocente nel recente attacco iraniano. Non abbiamo confini con l'Iran e loro non hanno alcuna giustificazione per interferire. Quindi non abbiamo avuto nemmeno una vittima. Anche in questo caso, Dio ha miracolosamente vegliato su di noi. Ma se commettiamo errori strategici nelle nostre azioni contro Hamas, se permettiamo che le pressioni internazionali e l'opinione pubblica mettano a repentaglio la vita dei nostri coraggiosi giovani soldati, se non sganciamo bombe e mandiamo invece i soldati in edifici con trappole esplosive, allora abbiamo tragicamente delle vittime. Una cosa è vantarsi di essere l'esercito più morale del mondo (e lo siamo), ma è saggio dire in anticipo ai nostri nemici quando e dove li attaccheremo? Saremo giudicati se lo faremo, e giudicati se non lo faremo. I nostri nobili gesti senza precedenti sono completamente ignorati dal mondo e siamo ancora accusati di genocidio. Non dovremmo quindi proteggere i nostri innocenti e preziosi ragazzi dal male? Mi piace citare il padre fondatore di Israele e primo Primo Ministro David Ben-Gurion, che una volta disse: "Non importa cosa dice il mondo. Ciò che conta è quello che fanno gli ebrei". È proprio vero. Credo che quando noi facciamo ciò che dobbiamo fare, Dio fa ciò che deve fare. Che possiamo meritare ora e sempre la Sua protezione divina e che i nostri difensori siano completamente sicuri e vincenti. Ti prego Dio, praticheremo il Kiddush Hashem comportandoci come nobili esempi di umanità e non come martiri in una guerra in cui a volte sembra che combattiamo con le mani legate dietro la schiena. Sei milioni di martiri sono stati sufficienti. Non uno di più, per favore Dio.
(Israel Heute, 20 maggio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
«Il libro nero di Hamas. Le radici profonde dell'antisemitismo e il miraggio dei due Stati»
Di questo libro abbiamo riportato pochi giorni fa la demolizione che ne ha fatto David Elber di un capitolo dal titolo «L’errore di Israele: i coloni e il revanscismo biblico». Dello stesso libro riportiamo adesso un capitolo in cui l’autore dà il meglio di se stesso sottolineando che per lui la vera causa dell’insolubilità del conflitto israelo-palestinese si trova in un irriducibile «antisemitismo islamico che arriva sino al punto di negare agli ebrei le ragioni e la dignità di costituirsi in nazione, e addirittura di avere mai avuto un biblico Regno di Israele».
di Carlo Panella
Il conflitto israelo-palestinese è l'unico tra i molti nati nel Novecento che non sia mai stato risolto con una trattativa, con un compromesso. Lunga più di un secolo e molto complessa è la sua storia e in molti hanno ricostruito le vicende intricate, i pogrom, le guerre e le stragi che l'hanno caratterizzata.
Il mio scopo è illustrare e motivare una tesi di fondo che spiega tutti gli avvenimenti: l'ostacolo fondamentale che ha impedito una composizione del conflitto attraverso la trattativa non è stata l'intricata questione della Terra, la complessa vicenda di due nazionalismi in urto. Questi sono stati elementi assolutamente presenti, ma di fatto e purtroppo secondari.
L'ostacolo vero, insuperato e difficilmente superabile è in un irriducibile antisemitismo islamico di parte araba e palestinese che non è intriso solo di odio, ma che arriva sino al punto di negare agli ebrei le ragioni e la dignità di costituirsi in nazione, e addirittura di avere mai avuto un biblico Regno di Israele. Un antisemitismo islamico che incredibilmente nega le radici ebraiche in Israele.
Un antisemitismo islamico che accusa gli ebrei di avere sempre combattuto sin dai tempi della Bibbia inesistenti tribù arabe che avrebbero abitato la Palestina. Un antisemitismo islamico che arriva sino al punto di negare, come è storicamente inconfutabile, che sulla Spianata delle Moschee sorgeva il Tempio ebraico. Che riscrive la storia affermando che Gerusalemme è sempre stata araba e islamica, mai città ebraica. Un'assurdità totale, che irride alla storia reale, ma che è piantata nelle coscienze palestinesi e islamiche che vogliono liberare con le armi al Qods, Gerusalemme, da una presenza ebraica che incredibilmente ritengono abusiva e offensiva. Una faccia fondamentale dell'antisemitismo islamico ignorata e sottovalutata in Occidente.
Se si vuole comprendere la logica profonda, carsica, del conflitto e se si vuole capire la logica perversa di Hamas, più che ricostruire la dinamica dei tanti fatti, conflitti e guerre, è indispensabile andare sotto la superficie degli avvenimenti e studiare, sondare, ricostruire le fasi di formazione nella tradizione musulmana di un punto focale e profondo che caratterizza anche larga parte dell'islam contemporaneo: l'antisemitismo islamico incarnato come non mai da Hamas e dal suo pogrom del 7 ottobre 2023.
Un antisemitismo che ha enucleato mille e quattrocento anni fa nella tradizione islamica il dogma perverso del complotto ebraico come origine di tutte le fratture che si sono verificate nella comunità musulmana. Dogma del complotto ebraico poi fuso, già al tempo delle Crociate, con una tradizione antisemita cristiana che accusava sino ad allora gli ebrei dell'opposto: di avere pubblicamente, nel Sinedrio, urlato Crucifige! e poi di non avere, sempre pubblicamente, riconosciuto nel Cristo il Messia.
Un antisemitismo basato sul dogma di un complotto ebraico coloniale e imperialista che oggi si è radicato miserevolmente in tante università occidentali, in tante manifestazioni oceaniche antisraeliane e in tanta, troppa parte, dell'opinione pubblica.
L'antisemitismo islamico afferma che l'Ultimo Giorno verrà solo quando l'ultimo ebreo sulla faccia della terra sarà ucciso, là dove, all'opposto, il cristianesimo, da San Paolo e Sant'Agostino in poi, predice che il Giudizio Universale verrà quando l'ultimo ebreo sarà convertito, in pace.
Un antisemitismo feroce che ha portato il Gran Mufti di Gerusalemme, indiscusso leader dei palestinesi dal 1920 al 1948, a condividere in pieno nei suoi colloqui con il suo alleato Hitler lo sterminio di milioni di ebrei. Così, il 21 gennaio 1944 ha esortato le Ss musulmane di Bosnia che aveva fondato e organizzato: La Germania nazionalsocialista sta combattendo contro il mondo ebraico. Il Corano dice: Voi vi accorgerete che gli ebrei sono i peggiori nemici dei musulmani.
Un antisemitismo islamico che è assolutamente l'unica spiegazione del rifiuto arabo di accettare nel 1947 e oltre persino la fondazione uno Stato di Palestina, perché previsto a fianco di uno Stato di Israele.
Reiterate le proposte formali di fondazione di uno Stato di Palestina nel 1936 e nel 1939, da parte della Gran Bretagna, nel 1947, da parte dell'Onu, nel 1967, nel 2000, nel 2001 e nel 2008 da parte dei governi dello Stato di Israele. Tutte e sempre rifiutate da parte araba e palestinese.
Ribadiamo questa verità storica inconfutabile ma stranamente da tutti dimenticata: se oggi non esiste uno Stato di Palestina è solo e unicamente a causa del rifiuto arabo di fondarlo accanto allo Stato di Israele come da risoluzione ONU 181 del 1947. Tutti gli avvenimenti successivi sono stati indissolubilmente prodotti da quel rifiuto, dalle motivazioni di quel rifiuto.
Motivazioni radicate che arrivano sino all'oggi e che oscurano le possibilità che si concluda la pace con la soluzione che tutti auspichiamo: uno Stato di Palestina, visti i precedenti totalmente demilitarizzato e bonificato dai network terroristi, a fianco dello Stato di Israele.
Motivazioni che difficilmente saranno superate per una ragione tanto semplice e dura quanto complessa: l'odio islamico contro gli ebrei. Un odio che ha radici antiche e profonde, condiviso da larga parte, fortunatamente non da tutta, la comunità musulmana.
L'auspicio è che le ragioni geopolitiche, economiche e di potenza che hanno portato alla stipula dei Patti di Abramo e alle trattative con l'Arabia Saudita per il riconoscimento di Israele, si consolidino e si allarghino ad altri paesi arabi e islamici e riescano a rompere la gabbia dell'antisemitismo di cui larga parte dell'islam è prigioniero.
L’ultimo addio a Shani Louk, la ragazza divenuta simbolo del 7 ottobre
di Michelle Zarfati
Centinaia di persone hanno partecipato domenica al funerale della ventiduenne Shani Louk, il cui corpo è stato recuperato venerdì a Gaza da un commando israeliano, sette mesi dopo che la ragazza era stata rapita e poi uccisa dai terroristi il 7 ottobre.
Suo padre Nissim ha invitato il popolo israeliano a partecipare al funerale della figlia, che ha avuto luogo nel Moshav Srigim-LiOn, a sud di Beit Shemesh, nel centro di Israele.
Shani Louk è diventata un’icona del massacro di Hamas dopo che un video, trasmesso il 7 ottobre e attribuito al gruppo terroristico di Hamas, che mostrava il suo corpo martoriato sul retro di un camioncino bianco, i suoi capelli arruffati e sporchi di sangue e il corpo esanime. Era circondata da uomini armati e sfilava attraverso le strade Gaza.
In un messaggio, il presidente Isaac Herzog si è scusato per non essere presente al funerale, ricordando il talento di Louk nell’arte e nella musica. “La nostra leadership commette gli stessi errori più e più volte – ha detto Nissim il padre di Shani, citando Albert Einstein – Se continueremo a commettere gli stessi errori degli ultimi decenni, è probabile che ci perderemo e soprattutto che perderemo il nostro paese”
La madre di Louk, Ricarda, ha invece ricordato lo spirito indipendente di sua figlia e dell’amore per i viaggi, mentre amici e parenti hanno sottolineato come Shani riuscisse sempre a strappare sorrisi ed emanare luce ovunque andasse.
Gli elogi si sono conclusi con l’esecuzione di una canzone dal titolo “Non voglio più la guerra” che la stessa Louk aveva scritto.
La giovane ventiduenne, tatuatrice a tempo pieno, era uno spirito libero, che deteneva sia la cittadinanza israeliana che quella tedesca. Il 7 ottobre Shani stava festeggiando con gli amici al Nova Music Festival. La giovane è stata rapita il 7 ottobre e massacrata assieme a circa 360 ragazzi israeliani. Il corpo di Louk, così come quelli di Itzhak Gelernter e Amit Buskila, è stato recuperato giovedì sera durante un’operazione effettuata dai militari dell’IDF e dallo Shin Bet.
Il Museo di Israele ospita oggetti legati a Cristo
Il Museo d'Israele di Gerusalemme ospita un'esposizione di oggetti rari, e di grande interesse storico, chiamata "La Via dei Cristiani", che ricrea un percorso ideale nella storia della fede cristiana fin dalla sua fondazione e riflette eventi religiosi legati a Gesù Cristo.
«Avevamo detto mai più. Varsavia, Treblinka e ora Gaza». È uno degli slogan della manifestazione che si è tenuta a Parigi negli scorsi giorni, il cui video – come riportato dal sito francese tribunejuive.info – è stato visionato dall’Ufficio nazionale di vigilanza contro l’antisemitismo, il BNCVA Bureau National de Vigilance contre l’antisémitisme. Un insulto alle vittime della Shoah, e un ulteriore preoccupante segnale di come concetti che nulla avrebbero a che fare gli uni con gli altri vengano mescolati e utilizzati in nome di un presunto sostegno ai palestinesi e della libertà di espressione. Il testo sottolinea come collegare quanto successo a Treblinka con la guerra che Hamas ha imposto a Israele massacrando il 7 ottobre civili israeliani in una azione terroristica senza precedenti sia un’azione da persone senza memoria e senza vergogna, guidate dall’odio contro gli ebrei. BNCVA ha presentato denuncia alla Procura di Parigi, chiedendo che venga avviato un procedimento penale.
• Una guerra che non finisce
La guerra intorno a Israele prosegue ed è difficile vederne una conclusione. Ogni giorno vi sono notizie di scontri a Gaza, di attacchi missilistici dal Libano e altrove e di episodi di violenza antisemita più o meno grave ma purtroppo assai frequenti in quello che è diventato un nuovo fronte di guerra a bassa intensità contro il popolo ebraico diffusa in tutto l’Occidente, soprattutto nelle zone franche assicurate dalle università. Le truppe israeliane sono ora impegnate ad approfondire la pulizia di Gaza dai terroristi. Nei giorni scorsi c’è stata una serie importante di scontri nella città di Jabalia, nel nord della striscia in quartieri che non erano stati finora occupati e dove i terroristi si stavano riorganizzando. Ci sono stati combattimenti anche nella zona centrale dove ancora vi sono delle enclaves non controllate.
• Rafah
Al sud l’operazione di Rafah procede per ora non come alcuni immaginavano, cioè alla maniera di una grande battaglia frontale, ma per piccoli passi, strada dopo strada. Questo accade innanzitutto perché la tattica terrorista è quella della guerriglia: fuggire e nascondersi quando si è più deboli e di uscire allo scoperto solo per compiere agguati e incursioni. Le famose rete di gallerie di Hamas serve a questo: per rifugiarvisi evitando lo scontro e per uscirne di nuovo da un’altra parte, quando sembra possibile prendere alle spalle gli israeliani. Sono state costruite per centinaia di chilometri proprio pensando a quest’uso e purtroppo funzionano. Della attica della guerriglia fa parte tra le altre cose non accettare la sconfitta, anche quando la sproporzione di forze diventa grande: basta che qualcuno continui a sparare. Vi è poi la presenza di una popolazione che volente o nolente fa da scudo umano ai terroristi e anche la pressione di alleati e terze parti che temono di pagare un prezzo politico per la vittoria di Israele e cercano di rallentarla e possibilmente di bloccarla. A Rafah poi vi è il problema dell’Egitto, che teme sia l’immigrazione di rifugiati da Gaza, fra cui si mescolerebbero i terroristi, sia il controllo israeliano del confine che potrebbe rivelare quanta complicità ci sia stata da parte egiziana per il loro armamento. È un coinvolgimento che sembrava escluso per l’appartenenza di Hamas alla Fratellanza Musulmana, che in Egitto è nemica di Al Sisi e anche per le operazioni propagandistiche esibite anni fa dall’esercito egiziano sommergendo con acqua e liquami qualche tunnel di contrabbando. Ma le truppe israeliane, avanzando verso il centro di Rafah dal corridoio “Filadelfia” che segna il confine, hanno trovato finora almeno 50 gallerie transfrontaliere attive. Ce ne sono indubbiamente molte altre, fra cui quelle in cui sono tenuti prigionieri i rapiti ancora vivi, o accatastati i loro corpi, se sono stati uccisi.
• I venditori di cadaveri
Venerdì l’esercito israeliano ha denunciato di aver trovato nei tunnel ispezionati tre corpi di rapiti del 7 ottobre, uccisi poco dopo il pogrom e trattenuti dai terroristi. A quanto pare è in corso un’ispezione vasta nei cimiteri di Rafah con il sospetto di trovarne degli altri nascosti in questa maniera. Al di là della barbarie del pogrom, degli stupri, delle stragi, dei rapimenti condotti non solo dai terroristi inquadrati da Hamas ma anche da “civili innocenti”, emerge ora quest’altro orrore del trattenere le salme per venderle poi in cambio di un prezzo politico o militare. Non a caso nella proposta di Hamas della proposta di cessate il fuoco si parlava di “ostaggi vivi o morti”. Si volevano commerciare le salme degli assassinati. Agli occhi degli occidentali, non solo degli ebrei, questo dovrebbe essere l’abominio assoluto, già descritto in opere come “Antigone” o quel brano dell’ “Iliade” in cui il padre di Ettore si inginocchia davanti a chi l’ha ucciso per averne indietro il corpo straziato; e anche l’ira di Achille cede alle ragioni dell’umanità. Ma il commercio di salme è un costume che i terroristi islamici hanno praticato spesso e con la massima crudeltà: a Gaza in questa e altre operazioni ma anche in Siria (Ron Arad ed Elie Cohen). È un tema che gli apologeti del terrorismo non sfiorano mai, anche se proclamano di avere ragioni etiche; ma che dà un’idea precisa del livello morale dei loro eroi.
• La situazione attuale
La guerra a Gaza si è insomma diluita e cronicizzata. È impossibile concluderla senza aver eliminato il potere militare di Hamas, perché il terrorismo ne trarrebbe la conseguenza di poter progettare subito altri 7 ottobre, ma per farlo non basta eliminare le sue maggiori formazioni militari e le fortificazioni sotterranee, occorre controllare il territorio, anche se magari nella forma che lo stato maggiore dell’esercito israeliano ha scelto, cioè entrare nella Striscia, bonificare una zona e poi staccarsene e uscire per non offrire bersagli al terrorismo. In fondo è quello che le forze di sicurezza israeliane fanno da anni in Giudea e Samaria e funziona. Ciò naturalmente esclude il piano per il dopoguerra condiviso da americani e da alcuni politici israeliani, cioè chiudere a un certo punto l’operazione e affidare il territorio a forze palestinesi, anche se non di Hamas (cioè per forza l’altro grande movimento, anch’esso terrorista, che controlla l’Autorità Palestinese, cioè Al Fatah). Come ha spiegato Netanyahu sostituire un Hamastan con un Fatahstan non è affatto una soluzione, perché le cose continuerebbero come prima. Del resto l’ala militare di Fatah, le “brigate di Al Aqsa”, continuano a rivendicare la loro partecipazione al 7 ottobre. E dunque bisogna pensare che ci sarà a Gaza ancora una fase abbastanza lunga di caccia ai terroristi, e poi una situazione in cui comunque l’esercito dovrà aver via libera per impedire ogni nuova concentrazione delle loro forze.
• Il nord
Nel frattempo però si sta lentamente ma progressivamente scaldando il fronte settentrionale, dove Hezbollah ha forze ben più ingenti di quelle di Hamas, in Israele vi sono centinaia di migliaia di sfollati dai centri della Galilea e l’esercito israeliano schiera le proprie migliori unità pronte per intervenire. Gli scambi di colpi ora vanno in profondità e comportano salve di decine di missili. Non è un bel pensiero, ma forse la fase più difficile della guerra deve ancora incominciare. Perché non si tratta di un conflitto fra Israele e Hamas, ma di un’aggressione coordinata e ben pianificata contro lo stato ebraico da parte di un grande schieramento guidato dall’Iran. E che siano stati annunciati ieri dei “colloqui indiretti” fra Usa e Iran in corso in Oman che dovrebbero riguardare “l’equilibrio del Medio Oriente”, lascia molte perplessità e molti sospetti.
La riabilitazione di Israele profetizzata nelle parole del profeta Geremia è cominciata a realizzarsi con la venuta del Messia Gesù.
di Gabriele Monacis
L’ultimo libro del Tanach, l’Antico Testamento in lingua ebraica, è quello delle Cronache, un libro che comincia con una lunga genealogia che parte da Adamo, continua con Abraamo e poi elenca i diversi discendenti del popolo di Israele, divisi per le dodici tribù, fino a quelli che si insediarono nuovamente a Gerusalemme dopo la deportazione in Babilonia. Dopo questa lunga genealogia, le Cronache raccontano il periodo della monarchia di Israele, che finì con la deportazione in Babilonia. La parte narrativa inizia dalla morte di re Saul e prosegue con il regno di Davide, che occupa gran parte della prima suddivisione del libro, quello che comunemente viene chiamato “primo libro delle Cronache”. In questo primo libro, un’attenzione particolare è dedicata ai preparativi del re Davide in vista della costruzione del tempio, con il censimento dei Leviti, la suddivisione dei cantori, l’istituzione dei portinai del tempio e altre iniziative, affinché tutto fosse pronto per quando il tempio sarebbe stato edificato. Il secondo libro delle Cronache inizia con il regno di Salomone, diventato re dopo la morte di suo padre Davide. Buona parte dei capitoli che raccontano il suo regno, è dedicata all’edificazione e alla consacrazione del tempio per mano del re Salomone. Dopo la sua morte, il regno viene diviso in due regni, quello di Israele a nord e quello di Giuda a sud. Dopodiché, la narrazione si concentra quasi esclusivamente sui re di Giuda che susseguirono a Salomone. In questi capitoli, l’attenzione è posta in particolare su ciò che questi re fecero nel tempio o per il tempio: restauri, profanazioni, purificazioni e altro. Anche nel secondo libro delle Cronache, il tempio, la casa dove l’Eterno dimorò in mezzo al Suo popolo, ha un ruolo centrale. Nell’ultimo capitolo delle Cronache, durante il regno dell’ultimo re di Giuda, Sedechia, avvenne ciò che il profeta Geremia aveva profetizzato che sarebbe accaduto se il re, i capi dei sacerdoti e il popolo non avessero abbandonato i propri peccati e non si fossero convertiti all’Eterno, Dio di Israele.
I Caldei incendiarono la casa di Dio, demolirono le mura di Gerusalemme, diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi, e ne distrussero tutti gli oggetti preziosi. E Nabucodonosor deportò a Babilonia quelli che erano scampati dalla spada; ed essi furono assoggettati a lui e ai suoi figli, fino all'avvento del regno di Persia (affinché si adempisse la parola dell'Eterno pronunciata per bocca di Geremia), fino a che il paese avesse goduto dei suoi sabati; infatti esso dovette riposare per tutto il tempo della sua desolazione, finché furono compiuti i settant'anni (2 Cronache 36:19-21).
Il tempio di Salomone venne dunque distrutto dai Caldei. Ma il Tanach si conclude con due versetti dopo questi, cioè con l’adempimento della Parola del Signore per bocca di Geremia. Trascorsi i settant’anni da lui profetizzati, infatti, i figli di Israele poterono tornare nella loro terra, per ricostruire il tempio. Non è un caso, dunque, che il libro delle Cronache si concluda proprio con questa prospettiva: la ricostruzione della casa dell’Eterno come Sua dimora in mezzo al Suo popolo. Anche il Nuovo Testamento, come l’ultimo libro del Tanach, inizia con una genealogia, quella di Gesù Cristo, suddivisa in tre periodi storici con quattordici generazioni ciascuna: da Abraamo a Davide, da Davide alla deportazione in Babilonia e da quest’ultima a Gesù Cristo. Il tema con cui si conclude il Tanach, cioè il ristabilimento di Israele dopo l’esilio, sembra essere il tema che permea anche questa nuova genealogia, per anticipare il nuovo ristabilimento di Israele con Gesù Cristo. Questa volta non solo nella sua terra, ma con la sua storia. E come il ritorno da Babilonia ha comportato la ricostruzione della casa dell’Eterno, così Gesù Cristo, che nasce come figlio di Davide e figlio di Abraamo, diventa il figlio di Israele che incarna la dimora di Dio in mezzo al Suo popolo, secondo quella che era la Sua volontà fin dal Sinai: abitare in mezzo ai figli di Israele. In Gesù Cristo, però, ciò non è avvenuto in un’abitazione a mo’ di quelle degli uomini, ma è avvenuto in un uomo vero e proprio, in carne ed ossa. C’è ancora un altro aspetto che collega l’inizio del Nuovo Testamento con la fine del Tanach, ed è legato alle parole di Geremia riportate nel vangelo di Matteo. Alla fine del libro delle Cronache, questo profeta viene menzionato più di una volta, per mostrare che si era adempiuta la Parola del Signore detta per bocca di Geremia: sia quando Israele fu esiliato in Babilonia per settant’anni, sia quando Israele tornò nella sua terra dopo i settant’anni di esilio (vedi Geremia 29:10). Nei primi due capitoli del vangelo di Matteo, proprio all’inizio del Nuovo Testamento, per ben cinque volte al lettore è ripetuto che quei fatti avvennero per adempiere ciò che dissero i profeti dell’Antico Testamento. Per esempio: “affinché si adempisse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta (1:22, 2:15) – o dei profeti (2:23)”; oppure: “poiché così è scritto per mezzo del profeta (2:5)”. Ma solo in un caso, il profeta viene chiamato per nome. “Allora si adempì quello che fu detto perboccadelprofetaGeremia” (2:17). L’espressione “per bocca di Geremia” si trova in questo versetto del secondo capitolo del Nuovo Testamento e due volte negli ultimi tre versetti del Tanach (2 Cronache 36:21-23). Questa ripetizione crea un ponte tra la continuazione della storia di Israele nel vangelo di Matteo e la storia di Israele passata, vista attraverso gli occhi del profeta Geremia. L’evento che collega la storia passata di Israele, la profezia di Geremia e la storia del vangelo, è un triste evento accaduto qualche tempo dopo la nascita di Gesù. Il re Erode, essendo stato informato che a Betlemme era nato il Messia, per paura che questi diventasse re al suo posto, fece uccidere tutti i figli maschi nati a Betlemme e nel suo territorio, dall’età di due anni in giù. Questo evento tragico riporta il lettore a ciò che accadde ai primordi del popolo di Israele, quando il faraone d’Egitto decise di far annegare nel Nilo ogni figlio maschio che sarebbe nato tra i figli di Israele. La parola profetica, che cronologicamente si inserisce tra questi due eventi storici in parallelo e che viene adempiuta dalla strage di Betlemme ordinata da Erode dopo la nascita di Gesù, è ciò che fu detto per bocca del profeta Geremia:
“Un grido è stato udito in Rama; un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e rifiuta di essere consolata, perché non sono più” (Matteo2:18).
In che modo ciò che successe in quei tragici giorni a Betlemme adempì quello che fu detto per bocca di Geremia alcuni secoli prima? E perché viene tirata in ballo Rachele, che piange i suoi figli e rifiuta di essere consolata? Per rispondere a questa domanda, occorre prima di tutto considerare il contesto del capitolo 31 di Geremia da cui è preso il versetto qui citato dal vangelo di Matteo (Geremia 31:15). Il tema ricorrente nel capitolo 31 di Geremia, è la ricostruzione del popolo di Israele a seguito della sua devastazione, la gioia che essi provarono dopo il lutto, il popolo viene riunificato in un unico luogo dopo essere stato deportato fino alle estremità della terra. Parlando dei figli di Israele, l’Eterno dice:
“Avverrà che, come ho vegliato su di loro per sradicare e per demolire, per abbattere, per distruggere e per nuocere, così veglierò su di loro per costruire e per piantare” (Geremia 31:28).
Geremia 31 parla dunque di una nuova fase storica del popolo di Israele: la riabilitazione di Israele dopo la sua demolizione. In questa nuova fase, l’Eterno promette un nuovo patto con la casa di Israele e con la casa di Giuda. Un patto che non sarà come quello stabilito all’uscita dall’Egitto e che essi violarono. Questo nuovo patto prevede che l’Eterno metterà la Sua legge nel loro intimo e la scriverà sul loro cuore. Egli sarà il loro Dio ed essi saranno il Suo popolo (31:31-33). In questa nuova fase, si raggiungerà un grado di avvicinamento tra Dio e il suo popolo che non ha pari nella storia di Israele. Ecco il motivo per cui il vangelo di Matteo riporta ciò che fu detto per bocca di Geremia: per affermare che quella fase di riabilitazione è iniziata con la nascita di Gesù Cristo. Come il popolo di Israele, impersonificato dalla figura di Rachele, pianse la deportazione dei suoi figli ai tempi di Geremia, a seguito della conquista operata dai Caldei, così piansero anche le madri di Betlemme e dintorni quando il re Erode fece uccidere i loro figli maschi al di sotto dei due anni. Ma l’adempimento delle parole di Geremia non sta solo nella ripetizione di questo tragico evento storico. Sta soprattutto nel fatto che la riabilitazione di Israele, profetizzata in Geremia 31, è in atto con la nascita di Gesù Cristo. L’Eterno ricostruirà il popolo dopo la devastazione, ci sarà gioia dopo il pianto, Israele sarà riunificato in un unico luogo e non più disperso. Ma la domanda che riguarda Rachele non ha ancora una risposta: perché proprio lei viene menzionata, e non un’altra donna della storia di Israele? E qual è il legame tra il pianto di Rachele e quello delle madri di Betlemme? Cercheremo una risposta in una prossima occasione.
Una lettera calibrata, ma la pressione internazionale su Israele rafforza sempre Hamas
I ministri degli Esteri di Italia, Canada, Danimarca, Francia, Finlandia, Germania, Giappone, Nuova Zelanda, Olanda, Regno Unito e Svezia hanno scritto una lettera al loro omologo israeliano Israel Katz per avanzare richieste umanitarie in sette punti. I ministri esordiscono dicendo che Hamas deve rilasciare tutti gli ostaggi e che sono contrari all’operazione a Rafah. Nella lettera, che il Foglio ha potuto leggere, chiedono di implementare l’ingresso degli aiuti umanitari, di aprire il valico di Rafah, di lasciare aperti tutti i valichi. Ieri per la prima volta una nave carica di aiuti è attraccata al porto costruito dagli Stati Uniti a Gaza. Israele assieme all’Onu e all’Egitto vuole creare un’infrastruttura sicura a Rafah per permettere ai carichi di passare in sicurezza. L’idea di Tsahal di togliere a Hamas il controllo del valico è stata importante e fare in modo che i rifornimenti umanitari non finiscano più nelle mani dei terroristi dovrebbe essere interesse di tutti, anche dell’Egitto che teme una crisi di rifugiati palestinesi in fuga da Rafah e diretti verso la sua frontiera. L’Onu dovrebbe avere ancora più a cuore l’idea che il valico sia un posto quanto più sicuro possibile e senza infiltrazioni terroristiche. Il piano che ha presentato Israele prevede che dall’Egitto entrino i camion che trasportano benzina e intende rafforzare la capacità del valico di Kerem Shalom per gli aiuti umanitari. Nelle intenzioni di Israele c’è anche quella di affidare il controllo del valico di Rafah a palestinesi che non hanno rapporti con Hamas. Tra i firmatari si nota l’assenza degli Stati Uniti e anche della Spagna, che ieri ha detto che non permetterà ai carichi di armi diretti verso Israele di attraccare nei suoi porti. La lettera dei dieci ministri è ben calibrata, ma è una lettera a Israele e rischia purtroppo di avere l’effetto di tutti gli appelli mossi finora: far sentire Hamas più forte. E se Hamas si sente più forte grazie alla pressione internazionale su Israele, ai tavoli negoziali continuerà sempre ad avere meno motivi per accettare un accordo.
Il direttore d’orchestra israeliano Omer Meir Wellber
“M’indigna la mancanza di complessità che circola in Occidente nei giudizi sul tema che mi sta maggiormente a cuore, cioè quanto sta accadendo tra Israele e Palestina”, afferma il direttore d’orchestra israeliano Omer Meir Wellber. “Ci si affida a video superficiali di trenta secondi pescati su Instagram per valutare situazioni gravi e sofferte e scatenare proteste anti-israeliane, e l’atteggiamento dei partiti di sinistra non smentisce le approssimazioni più rozze e rischiose. Se si è contro Netanyahu vuol dire che si è antisemiti, mentre se si è contro Hamas significa che si è contro la Palestina. Ma questo è assurdo!”. S’infuoca, parlando dei problemi della sua terra, l’acclamato maestro Wellber, che è nato nell’81 a Beersheva, nel deserto del Negev, a 40 chilometri da Gaza. In questi giorni sta conducendo al Teatro Massimo di Palermo, di cui è il direttore musicale, le prove del “Tristano e Isotta” di Wagner (sì, proprio lui, il compositore adorato dai nazisti e inviso agli ebrei). L’opera debutterà sulla scena palermitana domenica 19 maggio, e durante una pausa dei lavori Omer si scaglia contro le “semplificazioni pericolose” che incrementano le reazioni di tanti occidentali alla difficilissima situazione in corso in Israele.
- Maestro Wellber, cosa la scandalizza tanto? “Il fatto che girino input razzistici avvalorati da un’estrema sinistra i cui partiti si dimostrano in crisi in tutta Europa, dove avanzano trionfalmente le destre. In realtà dovrebbe essere la sinistra a mettere ordine nei pensieri di quegli studenti universitari che oggi protestano contro Israele assumendo la questione “in toto”, e far comprendere loro che non si può celebrare un’organizzazione terroristica come Hamas, che specula sulla povertà e la sofferenza dei palestinesi. Non è ancora stata compresa la tragicità di quanto è avvenuto il 7 ottobre, ed è fondamentale tener conto del fatto che nel mio Paese si sono verificati episodi orrendi: mia madre mi ha raccontato di aver assistito al funerale di un’intera famiglia i cui membri sono stati seppelliti senza testa. Come può un ragazzo dell’Università di Milano esprimere le sue idee su drammi così dolorosi e complicati in maniera superficiale, senza una reale conoscenza storica? Le fonti non possono essere i video su Instagram. Le Università dovrebbero stimolare i giovani a fare le opportune differenze e a distinguere il vero dal non vero in maniera chiara e puntuale. In nessun caso è moralmente accettabile violentare le donne e decapitare gli anziani. Una radicale assenza di approfondimenti sta corrompendo l’intero dibattito e provocando situazioni paradossali”.
- Può fare esempi? “Ho vari amici ebrei in Germania, dove lavoro molto, che hanno deciso di votare per l’Afd, il partito populista dell’estrema destra. La comunità ebraica tedesca non si può più permettere di votare a sinistra. Inoltre, come può un’intellettuale influente come Judith Butler, filosofa e femminista statunitense, prendere posizione in modo pubblico sul conflitto israelo-palestinese attaccando in blocco Israele e non condannando la strage del 7 ottobre? È concentrata solo sulle proprie teorie e sembra non voler guardare la realtà. Ora più che mai, si sente forte l’esigenza di grandi umanisti capaci di segnalare che essere dalla parte del popolo israeliano non significa approvare l’operato di un leader criminale come Netanyahu”.
- Lei è contro Netanyahu? “Certo. Ha distrutto la fratellanza nel mio Paese. È un dittatore che ha danneggiato in maniera disastrosa il popolo ebraico. Perché in Europa nessuno lo punisce? Com’è possibile che continui a usare indisturbato la sua carta di credito in questo continente? Ma la sua presenza nefasta non potrà mai giustificare teorie che azzerano Israele. Netanyahu non va identificato col popolo israeliano, così come i palestinesi non vanno identificati con Hamas, che in sostanza è un’organizzazione nemica della Palestina”.
- In che senso? “È un gruppo di potere miliardario, i cui capi vivono in hotel a cinque stelle a Parigi, a Dubai e nel Qatar, mentre il popolo palestinese perisce nella miseria e nell’inconsapevolezza. Con tutti i suoi soldi, Hamas produce armi ma non costruisce scuole né ospedali, perché vuole mantenere ignorante la gente. Eppure la leadership europea insiste nel diffondere messaggi ambigui su questi terroristi in malafede, facendone quasi degli eroi”.
- Crede a soluzioni possibili? “In Israele vivono tre milioni di ebrei originari dei paesi arabi. E pensi che sono stati sempre sostenitori di Netanyahu. La chiave di un avvicinamento sarebbe potuta emergere proprio da lì, cioè da quella popolazione ebraico-araba che ha tanto in comune coi palestinesi: storia, lingua, cibo, cultura… E invece… Resto convinto che dovremmo lottare per un futuro senza Hamas e senza Netanyahu, chiedendo aiuto al mondo”.
- Nel frattempo lei ora sale sul podio per dirigere Wagner, il più antisemita dei compositori. “Eliminare Wagner dalla storia della musica sarebbe come cancellare il Rinascimento dalla storia dell’arte. Wagner equivale a una rivoluzione che ha cambiato tutto: senza di lui non ci sarebbero stati il jazz né i Beatles. Dopodiché l’uomo Wagner fu razzista, volgare e intellettualmente violento, e io lo disprezzo in quanto tale. Ma come musicista non posso sfuggire alla sua imponenza. Fronteggiare il “problema” Wagner è una sfida irrinunciabile. La sua musica tocca intensamente corde umane contraddittorie e oscure, e il conflitto, la contraddizione, è un territorio che ogni artista deve attraversare”.
In questi giorni è uscito in libreria un nuovo libro di Carlo Panella, “Il libro nero di Hamas: L’antisemitismo islamico e il miraggio dei due Stati” (Lindau). Panella è da anni attento e meticoloso commentatore della realtà mediorientale e in Italia uno dei più competenti conoscitori della galassia jihadista e del radicalismo islamico, tuttavia, in questo suo nuovo testo, il capitolo dal titolo, “L’errore di Israele: i coloni e il revanscismo biblico”, presenta delle forti criticità, facendosi ricettacolo di tutta una serie di gravi errori e deformazioni che pur nell’apprezzamento dell’ottimo lavoro del giornalista, non possono essere sottaciuti. David Elber si è incaricato di evidenziarli. Red. L’informale
A pagina 138 del suo ultimo libro, Carlo Panella scrive perentorio: «L’occupazione israeliana conculca larga parte dei diritti civili dei palestinesi e deve cessare. Punto». Il problema di questa affermazione apodittica è che non c’è nessuna occupazione. Il territorio di Giudea e Samaria, o Cisgiordania, o West Bank, (denominazioni successive e spurie) non è mai stato “occupato” da Israele perché apparteneva già, dal 1922, in virtù di quello che stabiliva il Mandato britannico per la Palestina, al popolo ebraico. L’occupazione ci fu, è corretto, ma fu quella illegale della Giordania che si protrasse per diciannove anni. Nel 1967 Israele riconquistò ciò che già gli apparteneva di diritto. Tuttavia, se proprio volessimo considerare quella di Israele una “occupazione” essa è terminata nel 1994 con il trattato di pace siglato con la Giordania. Inoltre, con gli Accordi di Oslo del 1993-1995, il 95% della popolazione palestinese è amministrata dall’Autorità Palestinese che ha tutte le competenze civili e di sicurezza sulla popolazione palestinese. Se ne deve forse non peregrinamente desumere che chi “opprime” i palestinesi sono i palestinesi stessi? Sempre a pagina 138, Panella scrive «resta sul tappeto l’ostacolo principale per la nascita di uno Stato palestinese: i coloni israeliani». Questo è un vecchio refrain, caro a tutte le amministrazioni americane post Jimmy Carter, con la lodevole eccezione dell’Amministrazione Trump, e a tutte le Cancellerie europee che, a ricasco americano, lo ripetono senza sosta, ma si tratta di una menzogna. Perché i coloni sarebbero un ostacolo? Perché lo dicono i palestinesi? In nessun altro caso al mondo relativo ad una contesa territoriale che implica “dei coloni” essi sono mai stati considerati un “ostacolo”. Solo alcuni esempi: Trattative tra Cambogia e Vietnam: i “coloni” vietnamiti non sono mai stati considerati un ostacolo alle trattative mediate da ONU e Francia. Trattative tra Marocco e Sahara Occidentale: il fronte del Polisario in rappresentanza del popolo saharawi ha chiesto l’allontanamento di tutti i “coloni” marocchini dal territorio del Sahara occidentale rivendicato ma ONU e Stati Uniti in qualità di mediatori hanno rifiutato la richiesta. La stessa cosa si può dire per il caso di Cipro, dove i greco-ciprioti hanno richiesto l’allontanamento di tutti i “coloni” turchi. Nessun mediatore, neanche l’Unione Europea, della quale Cipro fa parte ha mai considerato i “coloni” turchi un “ostacolo alla pace”. Israele dovrebbe fare eccezione. Perché? Continuando a pagina 138, «I coloni in Cisgiordania sono cresciuti in proporzione geometrica nei 16 anni di governo di Bibi Netanyahu». Poi a pagina 141: «A seguire, la crescita esponenziale degli insediamenti si è avuta con i governi del Likud di Bibi Netanyahu dal 2009 in poi.» Falso. La maggior parte degli insediamenti sono stati costruiti nell’arco di tempo che va dal 1967 al 1993. Dalla stipula degli Accordi di Oslo del 1993 fino ai primi anni 2000, sono sorti solo 9 nuovi insediamenti. La grande crescita demografica invece, si è verificata tra il 1992 e il 1996 (periodo di governo laburista in Israele) e si è avuta all’interno degli insediamenti già esistenti. Questa crescita è stata pari al 50% della popolazione. Solo cinque nuovi insediamenti sono stati costruiti negli ultimi venti anni. Essi sono stati costruiti ottemperando alle competenze che gli Accordi di Oslo hanno fornito alle autorità di Israele. Panella prosegue, «Nel 2024 i coloni sono 470.600 e a loro si aggiungono 230.000 cittadini che abitano nella zona est e nord della giurisdizione municipale di Gerusalemme (un settore potenzialmente palestinese) da Gilo a Ma’ale Adumim». Considerare gli abitanti ebrei di Gerusalemme come “coloni” è del tutto inaccettabile. Per fare un solo esempio, nel 1948 i giordani fecero pulizia etnica a danno degli ebrei che vivevano nella parte est di Gerusalemme e in Giudea e Samaria. Furono vittime di pulizia etnica circa 70.000 persone (oltre il 10% della popolazione ebraica del Mandato). La maggior parte di essi viveva a Gerusalemme. Per Panella, evidentemente, coloro che sono tornati alle loro case e i loro discendenti sono “coloni”. Sulla base di questo criterio sono da considerarsi “coloni” i sopravvissuti dai campi di sterminio o chi fu cacciato dalle proprie case a seguito delle leggi razziali?
«Ulteriore e gravissimo tema: attorno agli insediamenti ufficiali, il governo di Israele ha steso la cortina di «zone militari di protezione», interdette ai palestinesi». Come fa Panella a non sapere che gli Accordi di Oslo sottoscritti dai palestinesi, forniscono a Israele tutte le competenza amministrative e di sicurezza nell’Area C dove sorgono tutti i centri abitati da ebrei, motivo per il quale, la sicurezza è fornita dall’esercito israeliano così come è sottoscritto dai palestinesi? Il “gravissimo tema” di cui scrive Panella è pertanto inesistente. A p.139 troviamo scritto, «Non è infatti pensabile che lo Stato palestinese nascente sia privato della sovranità sul territorio che i coloni hanno occupato.» Repetita iuvant. I “coloni” o meglio i cittadini di Israele non hanno “occupato” nulla. Circa il 5% dei centri abitati da ebrei è stato regolarmente comprato da proprietari arabi che lo hanno venduto a caro prezzo. Oltre il 90% risiede in terre demaniali concesse dalla Stato di Israele in leasing quindi di proprietà dello Stato. Meno dell’1% risiede in terreno di proprietà araba confiscato (ma indennizzato economicamente). In ogni caso l’ultimo episodio di esproprio di territorio di proprietà araba è avvenuto nel 1978. Vogliamo dare la colpa a Netanyahu anche di questo? Dopo il ricorso fatto dai proprietari alla Corte Suprema di Israele, noto come il caso “Dwaikat contro Israele del 1979”, o caso Elon Moreh, praticamente non ci sono stati più espropri per la costruzione di centri abitati. I pochissimi casi avvenuti riguardano delle istallazioni militari. Cosa peraltro legittima per le leggi internazionali. Pagine 139 e 140: «L’ideologia fortissima dei coloni israeliani, in una Cisgiordania che chiamano Giudea e Samaria in omaggio al biblico regno di Israele, infatti si basa su un presupposto storico-religioso:…». I “coloni” israeliani chiamano la Cisgiordania con il loro vero e, sempre utilizzato nome, che è appunto quello di Giudea e Samaria. Se il fatto che sia di natura biblica pone un problema, sarà necessario cambiare il nome anche a Gerusalemme. Questi territori, nel corso dei secoli, anche durante il periodo ottomano durato 400 anni, si sono sempre chiamati Giudea e Samaria per designare questa area geografica (dal punto amministrativo i nomi erano quelli della città capoluogo). Inoltre, anche gli inglesi durante il periodo mandatario avevano utilizzato il termine di Samaria per designare un’area amministrativa. Infine anche l’ONU nella Risoluzione 181 (quella della proposta di partizione) avevano indicato quelle aree geografiche come Giudea e Samaria. Erano forse tutti dei fanatici religiosi? Ultima annotazione: il termine “Cisgiordania” o West Bank nasce solo a partire dal 1950 quando la Giordania si è annesse, illegalmente, questi territori che si trovavano nella “parte ovest del Giordano” mentre tutto il resto del territorio del regno era nella parte est. Quindi, il termine, è frutto di un’azione illegale compiuta dai giordani. Perché questo termine dovrebbe avere più valenza di Giudea e Samaria? Solo per una ragione semantica: affermare che degli ebrei “occupano” la Cisgiordania è sicuramente più credibile, per l’opinione pubblica, che affermare che degli ebrei “occupano” la Giudea. Chi ci crederebbe?
(L'informale, 18 maggio 2024) ____________________
Le puntuali osservazioni di David Elber al libro di Carlo Panella ne screditano in modo decisivo l’autore come storico. Il fatto che anche su altri libri abbia scritto cose valide sul mondo islamico aggravano la negatività per Israele di questo suo ultimo libro. E’ confermato, ancora una volta, che uomini di pensiero validissimi su altri argomenti, quando si avvicinano troppo al tema Israele vanno, in modo apparentemente inspiegabile, “fuori di testa”. I consueti collegamenti logici non funzionano più come prima. La spiegazione sarebbe semplice, ma per i più è inaccettabile: ci entra di mezzo Dio. I loro pensieri si avvicinano pericolosamente a Gerusalemme. Si potrebbe quasi sentire la voce del profeta Zaccaria che avverte: “Ecco, io farò di Gerusalemme una coppa di stordimento per tutti i popoli circostanti”. Lo stordimento parte da lontano: comincia a rivelarsi già nelle parole degli empi che “mettono la loro bocca nel cielo, e la loro lingua passeggia per la terra” (Salmo 73). Sono gli intellettuali che sul tema Israele pensano di poter trascurare quello che dice la Bibbia. Ma la Bibbia è un osso duro per tutti. M.C.
Sinagoga in fiamme nel nord della Francia. “Vogliono imporre un clima di terrore agli ebrei”
Molotov contro il luogo di culto nel centro di Rouen. Nei tre mesi successivi agli attacchi di Hamas, in Europa gli incidenti antisemiti sono stati in numero equivalente a quelli dei tre anni precedenti messi insieme. L'ombra di una strategia.
di Giulio Meotti
Venerdì mattina presto, mentre a Stoccolma, nell’area in cui si trova l’ambasciata d’Israele, sono stati sentiti degli spari e nella giornata erano in corso arresti, la polizia e i vigili del fuoco francesi intervenivano per spegnere un incendio alla sinagoga in rue des Bons enfants, nel centro di Rouen. Un uomo ha tentato di entrare nella sinagoga arrampicandosi su un bidone della spazzatura, da cui ha tirato una molotov contro il luogo di culto ebraico. Se ci fossero stati dei fedeli sarebbe stata una strage. L’uomo, armato di coltello, si è poi avventato contro la polizia, che lo ha ucciso. “Bruciare una sinagoga significa intimidire tutti gli ebrei e imporre ancora una volta un clima di terrore agli ebrei”, ha affermato Yonathan Arfi, presidente del Consiglio di rappresentanza delle istituzioni ebraiche di Francia. Rias, che monitora l’antisemitismo in Germania, ha documentato in Europa un aumento del 320 per cento degli incidenti nel mese successivo al 7 ottobre.
Nei tre mesi successivi agli attacchi di Hamas, in Europa gli incidenti antisemiti sono stati in numero equivalente a quelli dei tre anni precedenti messi insieme. Durante la cena del Consiglio di rappresentanza delle istituzioni ebraiche di Francia, a Parigi il 6 maggio, il premier Gabriel Attal ha rivelato che in Francia sono stati registrati 366 atti antiebraici nel primo trimestre del 2024, con un aumento del 300 per cento rispetto ai primi tre mesi del 2023. Un sondaggio per la Fondapol, presentato sabato da Le Parisien, rivela che la paura ha spinto il 33 per cento degli ebrei a ridurre o interrompere i viaggi con Uber, mentre il 44 per cento di chi indossa la kippah non la porta più per strada. Un segnale incoraggiante è che tre francesi su quattro ritengono che l’antisemitismo non sia solo un problema degli ebrei, ma “un problema di tutti”.
Qualche giorno fa, a Parigi, in rue des Orteaux, un ebreo di sessantadue anni con la kippah è stato prima insultato e poi picchiato alla testa all’uscita da una sinagoga. L’aggressore ha accusato l’uomo di uccidere “la gente a Gaza”. “Per la prima volta dal 1945, gli ebrei francesi hanno paura al punto da nascondersi”, confessa la filosofa Elisabeth Badinter all’Express. Le famiglie con cognomi ebraici comuni come Cohen o Levy li stanno rimuovendo dalle cassette della posta e dai cancelli per evitare di essere identificate come ebrei.
La sinagoga principale di Varsavia è stata appena attaccata con bombe incendiarie e il presidente del sindacato belga degli studenti ebrei è stato aggredito a Bruxelles. Dopo il 7 ottobre, sono state decine le sinagoghe colpite. “Palestina libera” e una stella di David verniciate su una sinagoga a Madrid. A Tilburg, in Olanda, la sinagoga subisce minacce. A Berlino vengono lanciate bombe molotov contro la sinagoga Kahal Adass Jisroel. A Lione (dove René Hadjadj, un ebreo con la kippah di 89 anni, è stato defenestrato dal 17esimo piano dal vicino di casa), la sinagoga Duchère è vandalizzata: “Vittoria ai nostri fratelli di Gaza”. A Malmö, in Svezia, una bandiera israeliana è bruciata davanti alla sinagoga.
E spesso in Francia è bastato un incendio alla sinagoga perché una comunità ebraica si svuotasse per cercare luoghi più sicuri. Una delle prime sinagoghe è stata bruciata a Trappes. “Gli ebrei hanno quasi tutti lasciato la città”, raccontano nel libro “La Communauté” due giornaliste di Le Monde, Ariane Chemin e Raphaëlle Bacqué. “Oggi a Trappes non rimane più alcun ebreo”.
Si chiama “strategia della terra bruciata”.
Startup Nation si mobilita per i bambini sopravvissuti al 7 ottobre
L’obiettivo della Startup Nation è assicurare donazioni di azioni da parte di 100 aziende tecnologiche israeliane entro la fine del 2024, che saranno convertite in contanti durante eventi di liquidità, uscite e IPO.
La piattaforma tecnologica per il mercato Valoo ha annunciato il lancio di un fondo costituito da un portafoglio di aziende private per fornire sostegno ai bambini sopravvissuti all’attacco di Hamas del 7 ottobre. Il fondo, che opera in collaborazione con il fondo sociale “Tmura”, distribuirà continuamente contanti nei prossimi 10 anni ai bambini colpiti dalla guerra del 7 ottobre. Ad oggi, il fondo ha raccolto circa $20 milioni di dollari in donazioni azionarie da parte di azionisti di aziende della Startup Nation israeliane in settori quali la sicurezza informatica e l’intelligenza artificiale. L’obiettivo è quello di ottenere donazioni azionarie da 100 aziende tecnologiche israeliane entro la fine del 2024. Finora sono state donate azioni di aziende come eToro, Via, Zesty, Reflectiz, Neuroblade e altre. L’iniziativa riceve anche il sostegno di LeumiTech, dello studio legale israeliano Meitar e di PwC. Le azioni saranno convertite in contanti durante gli eventi di liquidità, le uscite e le IPO, e i fondi saranno distribuiti a organizzazioni che sostengono migliaia di bambini affetti da necessità educative, economiche, mediche e di altro tipo, fornendo loro un sostegno finanziario a breve, medio e lungo termine nelle diverse fasi della loro vita. Il fondo utilizzerà il modello di dati di Valoo per valorizzare le donazioni, nella speranza di aumentarne l’impatto. “Ringraziamo tutti i primi donatori che hanno dato fiducia a questo importante progetto. Dopo il 7 ottobre, abbiamo cercato un modo per aiutare e ci siamo resi conto che potevamo contribuire con la tecnologia di Valoo a creare un nuovo canale di donazione in cui l’intero settore tecnologico israeliano può contribuire, sfruttando il valore unico che genera”, hanno dichiarato i co-fondatori Adi Weitzhandler e Meir Steigman. “I destinatari ottengono un bene di valore crescente che può essere convertito in contanti in base alle loro esigenze. Abbiamo creato un nuovo fondo per coloro che si occupano dei bambini e delle loro esigenze, finanziando necessità come i trattamenti di salute mentale, i bisogni primari come l’alloggio e il cibo, e persino le borse di studio. Siamo felici che chi vuole donare possa avere un impatto significativo e aiutare i bambini”. Il comitato direttivo comprende figure di spicco come l’imprenditore e venture capitalist Eyal Gura, che ha sviluppato l’idea dell’iniziativa e le collaborazioni all’interno del fondo. Tra gli altri membri figurano l’imprenditore sociale Adi Altshuler, Avner Stepak, proprietario della casa di investimenti Meitav, e altri soci amministratori di fondi di venture capital israeliani. Community O accompagna le attività del fondo con altre organizzazioni che contribuiscono con le loro competenze pro bono, tra cui lo studio legale Meitar, Avi Neuman con PWC e LeumiTech guidata da Maya Eisen-Zafrir.
Nel Nord di Israele ora c’è un deserto. “Hezbollah spara, qui non torniamo”
Il reportage. Tutta la fascia a ridosso del confine libanese è stata evacuata per ordine dell’Idf. E sessantamila persone sono sfollate altrove
di Francesca Caferri
MIGDAL TEFEN (Nord Israele) — Da ottobre, Tal Lavi Shimron vive a Beirut, non lontano dall’aeroporto internazionale Rafiq Hariri: e non lo sa. Il centro direzionale dello scalo è ciò che appare sul navigatore ogni volta che si avvicina alla sua casa nel kibbutz Adamit, a 500 metri dalla frontiera libanese, e in tutta l’area circostante. È così per lei e per le decine di migliaia di persone che vivono nella zona settentrionale della Galilea, a poca distanza (nove chilometri, dal punto dove ci troviamo) dalla Linea Blu che segna il confine con il Libano, e dai villaggi di Ayat el Cheb e Ramyeh, dall’altra parte della frontiera, che nelle giornate di buona visibilità sembrano vicinissimi. La falsa posizione che danno i Gps è il più elementare dei provvedimenti che l’esercito israeliano (Idf) ha preso per tentare di limitare gli attacchi di Hezbollah in questa zona. Il punto che Lavi Shimron ci tiene a sottolineare è che il problema non è questo. Dall’8 di ottobre, il giorno successivo all’attacco di Hamas sul Sud del Paese, qui corre il fronte dimenticato di Israele. Con gli occhi di tutti fissi su Gaza, gli scambi di artiglieria ai due lati del confine, gli attacchi israeliani – una dozzina, solo ieri – sul territorio libanese e quelli del gruppo sciita su obiettivi militari e civili da questa parte della Linea Blu, finiscono in fondo alle notizie che arrivano da questa parte del mondo. Non per la nostra interlocutrice e per gli altri 60 mila israeliani che da ottobre, su ordine dell’esercito, hanno dovuto evacuare 43 tra città e villaggi che si trovano entro cinque chilometri dal Libano, e che da allora vivono in alberghi, case affittate o ospiti di parenti. Dall’altra parte del confine, la stessa sorte è toccata a 90 mila persone. «Sono andata via di corsa, lasciando la tazza con il caffè sul tavolo: quando mi autorizzano a tornare, sempre di corsa, per prendere qualcosa, la trovo ancora lì», ci dice la signora Lavi Shimron. Tre giorni fa un pallone spia israeliano è stato abbattuto sul cielo sopra la sua casa ed è atterrato intatto in Libano: una prima assoluta, che Hezbollah ha ampiamente celebrato sui suoi canali social e tv. Sarit Zehavi, ex analista di intelligence, fondatrice e presidentessa dell’Alma research center, specializzato in analisi sul confine Nord, non sa (o non può) dire se contenesse informazioni rilevanti per il gruppo sciita. Ma è certa che nelle ultime 72 ore gli attacchi si sono intensificati: 60 missili ieri, 60 il giorno prima, compreso quello su una importante base militare vicino al lago di Tiberiade. «L’esercito dice che nel pallone non c’era nulla e ci credo: ma di certo abbiamo un occhio in meno dall’altra parte. Se a questo aggiungiamo le nuove armi che Hezbollah sta usando, eccoci all’escalation degli ultimi giorni», sostiene. Con i suoi analisti, Zehavi ha individuato tre tipi di missili che il gruppo sciita sta usando: i Kornet, con un raggio d’azione di dieci chilometri, gli Almas, che colpiscono obiettivi fra i 4 e i 16 chilometri, e Tharallah, una versione modificata e più letale del Kornet che solo da pochi giorni ha fatto la sua apparizione in questo teatro di guerra. La signora Lavi Shimron si occupa di turismo e non si intende di armi. Neanche le importa molto: quello che le interessa è tenere insieme i pezzi della sua vita. I due figli grandi che non vivono più con lei, perché le scuole dell’area sono chiuse e per studiare devono andare lontano. L’appartamento in affitto dove stringersi. Un lavoro andato a rotoli. Il mutuo che resta lì, nonostante sia stato congelato per qualche mese. A far indignare lei e altre decine di migliaia di persone è il fatto che il governo abbia rifiutato di garantire che potranno tornare a casa per il primo settembre, il giorno in cui in Israele riaprono le scuole. In occasione della festa dell’Indipendenza, martedì scorso, alcune delle comunità evacuate hanno inscenato una secessione simbolica dallo Stato di Israele nelle strade del Nord: un modo per dare sfogo alla rabbia. Né Lavi Shimron né Zehavi, che pure vive in questa zona, hanno partecipato, ma ne condividono lo spirito. «Così non può proseguire, serve un cambio di passo – spiega l’analista –. Il mio incubo peggiore è che la guerra a Gaza finisca e il mondo si dimentichi di noi. Quello che chiediamo è alla comunità internazionale di mettere da parte la risoluzione Onu 1701 (quella che nel 2006 ha messo fine all’ultimo conflitto fra Israele e il Libano, ndr) e pensare a una soluzione definitiva per fermare l’arrivo di armi a Hezbollah. E al nostro esercito una migliore strategia: non chiedo una guerra aperta, ma dobbiamo agire. All’inizio è stata data priorità al Sud, ora è tempo di un cambio di passo. Se non ci sarà, moltissime persone non torneranno: sarebbe come chiedergli di aspettare il prossimo 7 ottobre nelle loro case».
La misura in cui i politici e i media nascondono i fatti che minano la loro narrazione tossica per diffamare e minare la guerra di sopravvivenza di Israele è diventata mozzafiato. L'amministrazione Biden ha fatto tutto il possibile per placare il regime genocida e terrorista iraniano. Ha versato miliardi nelle casse di Teheran alleggerendo le sanzioni. Si è rifiutata di rispondere efficacemente ai ripetuti attacchi sostenuti dall'Iran contro gli interessi statunitensi. E sta facendo di tutto per impedire a Israele di intraprendere azioni che potrebbero danneggiare le relazioni dell'America con il regime iraniano, come lo smantellamento di Hamas, una delle principali forze dell'esercito per procura di Teheran contro Israele e l'Occidente. La politica americana di appeasement nei confronti dell'Iran ha lasciato molti perplessi. Avrebbero dovuto essere più vigili.
Dodici giorni prima del pogrom del 7 ottobre, Jay Solomonha riferito sul sito web di Semafor che Ariane Tabatabai, capo dello staff dell'assistente segretario alla Difesa degli Stati Uniti per le operazioni speciali e i conflitti a bassa intensità, faceva parte di una "Iran Experts Initiative" istituita da alti funzionari del Ministero degli Esteri iraniano per rafforzare la posizione di Teheran sulle questioni di sicurezza globale, in particolare sul suo programma nucleare. In altre parole, Tabatabai era un lobbista per l'Iran nel cuore del governo statunitense e godeva della massima autorizzazione di sicurezza. Semafor e il gruppo di opposizione iraniano Iran International sono entrati in possesso di un'ampia raccolta di corrispondenza ed e-mail del governo iraniano. Queste hanno rivelato che Robert Malley - che è stato il punto di contatto con l'Iran sia sotto l'amministrazione Obama che sotto quella Biden, fino a quando non è stato rimosso dall'incarico nel giugno 2023 in seguito a un "uso improprio di informazioni classificate" ancora non spiegato - aveva piazzato Tabatabai nel Dipartimento di Stato americano nel 2021 per assisterlo nei suoi negoziati con l'Iran. Il giorno in cui è apparso l'articolo di Solomon, 31 senatori statunitensi hanno scritto al Segretario alla Difesa Lloyd Austin per esprimere la loro preoccupazione: "Troviamo scandaloso che un'alta funzionaria del Dipartimento della Difesa continui a ricoprire una posizione delicata nonostante il suo presunto coinvolgimento in un'operazione di intelligence del governo iraniano". Hanno sottolineato che Tabatabai è stata segnalata da dissidenti iraniani nel marzo 2021, poco dopo la sua nomina a consigliere principale del Segretario di Stato per il controllo degli armamenti e la sicurezza internazionale, che da tempo faceva eco alle argomentazioni del regime iraniano. Nello stesso mese, Adam Kredoha riportato sul Washington Free Beacon lo shock dei dissidenti per la nomina di Tabatabai. Essi sostenevano che la donna avesse ribadito la posizione del regime iraniano in diverse apparizioni pubbliche e che suo padre facesse parte della cerchia ristretta del presidente iraniano Hassan Rouhani. Nell'aprile 2021, diversi membri della Camera dei Rappresentanti hanno chiesto una revisione dell'autorizzazione di sicurezza di Tabatabai. L'amministrazione Biden ha respinto le accuse come "calunnie e diffamazioni". Ancora più sorprendente è il fatto che Tabatabai sia a capo dell'ufficio che supervisiona i negoziati con gli ostaggi. Tre settimane dopo il pogrom del 7 ottobre, un giornalista ha chiesto al portavoce della Casa Bianca John Kirby se fosse appropriato che Tabatabai ricoprisse tale posizione alla luce delle accuse.Kirby ha risposto negativamente. Tabatabai è ancora lì. Diversi commentatori (tra cui il sottoscritto) ne hanno scritto su Internet. I media tradizionali l'hanno studiatamente ignorato. Negli ultimi giorni, hanno ignorato un'altra importante rivelazione. Fin dall'inizio della guerra a Gaza, Israele è stato accusato di uccidere in modo sproporzionato i civili palestinesi. Il Ministero della Sanità di Gaza, gestito da Hamas, ha reso note le cifre giornaliere dei civili uccisi, che hanno superato i 35.000, la maggior parte dei quali sarebbero donne e bambini. Queste cifre, diffuse dalle Nazioni Unite e utilizzate dall'amministrazione Biden e dal governo britannico per criticare e minacciare Israele, hanno scatenato manifestazioni di massa e attacchi contro gli ebrei in tutto il mondo. Ciononostante, l'8 maggio, l'Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari ha dimezzato il numero di donne e bambini uccisi a Gaza rispetto ai dati del giorno precedente. Assurdamente, il portavoce delle Nazioni Unite Farhan Haq ha cercato di affermare che la cifra di 35.000 morti è rimasta "invariata" e che l'unico nuovo sviluppo era che più di 10.000 corpi dovevano ancora essere completamente identificati. Tuttavia, questo era solo un tentativo di nascondere il fatto che l'ONU aveva costantemente pubblicato cifre palesemente ridicole per Hamas, in quanto non distinguevano tra terroristi e civili. All'inizio di aprile, dopo che gli statistici avevano etichettato queste cifre come "statisticamente impossibili", il Ministero della Sanità di Gaza ha tacitamente ammesso di avere "dati incompleti" per più di 10.000 persone nelle sue liste e ha rivelato di aver persino preso alcuni dei suoi dati dai media. L'ONU è stata ora costretta a correggere le proprie cifre senza fornire motivazioni. Poiché Israele sostiene di aver ucciso circa 14.000 combattenti, il rapporto tra civili uccisi e combattenti è ora di circa 1:1 - una proporzione di civili uccisi molto più bassa che mai in una guerra. In altre parole, si tratta di una completa smentita della menzogna incendiaria sull'uccisione "sproporzionata" di civili usata dai governi di Stati Uniti e Regno Unito e dai media occidentali per colpire Israele e fomentare l'odio contro gli ebrei in tutto il mondo. Ma né il governo né i media hanno detto una parola al riguardo. Ora Fatah - il partito al potere dell'Autorità Palestinese, il cui presidente è Mahmoud Abbas - ha ammesso di essere coinvolto nel pogrom del 7 ottobre insieme ad Hamas e ad altri gruppi terroristici palestinesi. Abu Muhammad, il portavoce ufficiale del braccio militare di Fatah, le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, ha dichiarato in un videomessaggio della scorsa settimana che le brigate hanno preso parte all'invasione "e hanno catturato molti sionisti insieme ai nostri fratelli delle organizzazioni combattenti palestinesi; alcuni di loro ci sono stati consegnati e altri sono ancora nelle nostre mani". Le brigate sono coinvolte nei combattimenti contro l'IDF a Gaza e hanno condotto più di 470 "operazioni militari" dal 7 ottobre. Secondo un rapporto di Arutz Sheva, le brigate hanno dichiarato per telegramma che negli ultimi giorni le loro truppe hanno sparato un missile anticarro contro un carro armato nel campo di Jabalya, hanno fatto esplodere un ordigno contro un carro armato a sud del quartiere di Zeytun e hanno lanciato razzi contro le truppe dell'IDF al bivio di Netzarim. Le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa sono un altro esercito per procura iraniano che consente all'Iran di attaccare Israele con la scusa della "negabilità plausibile". Come ha scritto Phillip Smyth lo scorso dicembre in un articolo per il Combating Terrorism Centre di West Point, alcuni membri delle brigate hanno ringraziato l'Iran e Hezbollah per le armi e l'equipaggiamento e hanno chiesto apertamente denaro all'Iran. Nel 2023, una fonte anonima della sicurezza dell'Autorità palestinese ha dichiarato al Jerusalem Post che il gruppo veniva pagato dall'Iran attraverso il gruppo terroristico della Jihad islamica palestinese. Pensateci: Il braccio militare di Fatah, il partito al potere dell'Autorità Palestinese, tiene in ostaggio degli israeliani. L'ala militare di Fatah combatte contro Israele nella Striscia di Gaza e nei territori contesi. L'ala militare di Fatah è finanziata dall'Iran. L'amministrazione Biden finanzia l'Autorità palestinese e si serve dell'Iran. L'amministrazione Biden sta cercando di costringere Israele ad accettare un'amministrazione guidata dall'AP a Gaza dopo la guerra. E Ariane Tabatabai è ancora al Ministero della Difesa. Nulla di tutto questo viene riportato dai media tradizionali, perché nulla può distruggere la narrazione dell'oppressione israeliana e del vittimismo palestinese propagandata dalla sinistra. Il tradimento di Biden nei confronti di Israele è ampiamente attribuito alla sua necessità di comprare la sinistra dura del Partito Democratico. Ma la sua amministrazione è stata corrotta fin dall'inizio, con molti funzionari anti-israeliani reduci da Obama. Alcuni di loro hanno sostenuto in passato gruppi terroristici palestinesi. Ora si dice che l'Iran sia sul punto di produrre armi nucleari. Se annuncerà di esserci riuscito, Stati Uniti e Gran Bretagna diranno senza dubbio di aver fatto tutto il possibile per impedirlo. E se Israele tenterà di difendersi da questo scenario da incubo, l'Occidente accuserà Israele di aggressione. I punti sono evidenti da anni. Colleghiamoli.
(Israel Heute, 17 maggio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Festival di Cannes 2024: misure di sicurezza e panel legati alla partecipazione israeliana
di Pietro Baragiola
Martedì 14 maggio ha avuto ufficialmente inizio la 77° edizione del Festival di Cannes, lo straordinario evento che ogni anno ospita i più grandi artisti dell’industria cinematografica mondiale. Nonostante il grande clima di anticipazione per i film in gara, la nuova edizione si prospetta particolarmente turbolenta per via del conflitto israelo-palestinese e gli organizzatori del festival prevedono proteste, discorsi a sfondo politico e manifestazioni per le strade della città. Alla luce delle crescenti minacce contro i rappresentanti di Israele presenti alla competizione, il Comune di Cannes ha preventivamente messo in atto delle misure di sicurezza particolarmente severe: sono state proibite le manifestazioni lungo la Croisette, la strada principale del festival, e una sicurezza privata verrà assegnata come scorta ai giurati. Inoltre sarà proibito indossare spille in segno di protesta contro la guerra o verso la restituzione degli ostaggi ancora detenuti da Hamas dopo l’attacco del 7 ottobre. La stessa Laura Blajman-Kadar, sopravvissuta al massacro del 7 ottobre, è stata invitata a lasciare velocemente il red carpet dopo aver sfilato con un abito giallo brillante adornato con una fascia con su la scritta “Bring them Home” e le foto dei volti di alcuni dei prigionieri che si trovano a Gaza, tra cui diversi dei suoi amici. Blajman-Kadar si trovava quel giorno al festival musical Nova, riuscendo a fuggire assieme al marito e sette amici, quando hanno sentito gli spari da parte dei terroristi provenienti da Gaza. Come riporta il Jerusalem Post, al fine di sensibilizzare e aumentare la consapevolezza della gravità dell’attentato terroristico, che in tanti hanno iniziato a dimenticare subito dopo, Laura ha condotto in Francia una campagna mediatica e ha pubblicato un libro, nella speranza che venga pubblicato presto anche in Italia, intitolato Croire en la vie, ‘Credere nella vita’. “A Cannes la politica dovrebbe essere solo sullo schermo. Per questo motivo abbiamo deciso di bandire questi comportamenti, in modo che l’interesse principale di tutti fosse il cinema” ha dichiarato Thierry Frémaux, direttore del festival, durante una conferenza stampa alla vigilia dell’apertura. Il segretario generale dell’evento, Francois Desrousseaux, ha voluto ulteriormente rassicurare i partecipanti della conferenza stampa affermando che, per la prima volta, nel Palais des Festivals verranno utilizzate telecamere alimentate dall’intelligenza artificiale e varchi di sicurezza che consentiranno ai partecipanti di passare più velocemente attraverso i controlli senza bisogno di aprire le tasche o le borse. “Abbiamo avuto 15 briefing sulla sicurezza, rispetto ai soliti quattro o cinque degli anni passati, quindi posso confermare che affrontiamo la questione con grande serietà” ha affermato Desrousseaux, spiegando che un’attenzione ulteriore verrà rivolta al padiglione israeliano.
• Il padiglione israeliano Situato all’interno del Marché du Film, il padiglione israeliano sarà aperto ai visitatori fino al 21 maggio e si dedicherà alla presentazione di progetti dei registi che lavorano nei territori al confine con Gaza. “L’apertura del padiglione durante questo clima di guerra riflette la resilienza di Israele e il suo impegno nel costruire ponti di cultura e dialogo internazionale anche in tempi difficili” ha affermato il Ministro della Cultura e dello Sport Miki Zohar. Tra i filmati proiettati vi saranno quelli di alcuni registi del Sapir College di Sderot che si concentrano sugli attacchi missilistici precedenti al 7 ottobre e sui loro effetti nelle vite quotidiane dei residenti della regione. Uno dei registi presenti al padiglione è Michal Lavi, il cui cognato, Omri Miran, è stato rapito dal Kibbutz Nir Oz ed è uno dei 132 ostaggi ancora trattenuti da Hamas nei tunnel di Gaza. Per promuovere il dialogo tra le diverse produzioni internazionali, il padiglione israeliano ospiterà anche una cena di Shabbat rivolta a tutti i leader dell’industria cinematografica. Questo evento sarà organizzato come ogni anno da Gadi Wildstron insieme al rabbinoMendel Schwartz e al Chai Center di Los Angeles. Nonostante nel corso della storia il Festival di Cannes abbia visto numerosi film israeliani ricevere riconoscimenti prestigiosi tra cui il Premio della Giuria 2021 conferito al regista Nadav Lapid per Ahed’s Knee, quest’anno l’unico progetto di Israele ammesso in gara è il cortometraggio It’s not Time for Pop della studentessa Amit Vaknin.
• Il cortometraggio di Amit Vaknin “Sono completamente sopraffatta dall’emozione.” Così ha voluto commentare la 28enne Amit Vaknin ad un’intervista con The Times of Israel, dopo aver scoperto che il suo progetto, It’s not Time for Pop, era stato selezionato al concorso studentesco La Cinef del Festival di Cannes. Studentessa del terzo anno di cinema della Steve Tisch School of Film and Television dell’Università di Tel Aviv, Vaknin è l’unica israeliana a partecipare all’evento di quest’anno. Il suo film della durata di 14 minuti segue le vicende di una giovane donna che non vuole celebrare l’annuale commemorazione dello Yom Hazikaron in memoria del padre, ucciso in guerra, ma preferisce trascorrerlo cercando di accaparrarsi un appartamento a Tel Aviv. Un film che non ha a che fare con i lutti del 7 ottobre ma piuttosto con le proteste contro la revisione giudiziaria che, nel 2023, ha scosso il Paese e, in particolar modo, la città di Tel Aviv. “Prima di questo scossone non mi ero mai resa conto di quanto amassi Tel Aviv di quanta preoccupazione nutro per lei” ha raccontato la giovane regista. Il film verrà proiettato il 20 maggio e Vaknin, pur essendo preoccupata per il crescente clima di tensione che circonda il festival, atterrerà a Cannes la sera del 19 maggio per presenziare di persona all’evento. Per prepararsi ad eventuali proteste, Vaknin ha affermato di aver letto attentamente tutte le regole del festival che condannano il razzismo e i commenti negativi su razza, nazionalità e religione. “È quello che c’è scritto sul regolamento e spero che tutti lo leggano. Spero di poter tornare da Cannes e dire che nutro ancora speranza nel futuro dell’umanità” ha concluso Vaknin.
Presidente della Conferenza rabbinica europea e capo della comunità ebraica di Mosca, che ha lasciato allo scoppio della guerra in Ucraina. Le sue parole al Foglio.
Il rabbino Pinchas Goldschmidt, Presidente della Conferenza rabbinica europea
Il muro dei Giusti presso il Memoriale dell’Olocausto di Parigi è stato vandalizzato con le mani rosse, riferimento diretto al massacro da parte della folla palestinese di due riservisti israeliani a Ramallah il 12 ottobre 2000, all’inizio della Seconda Intifada. Uno degli assassini mostrò le mani insanguinate dalla finestra della stazione di polizia dove furono uccisi i soldati, uno dei quali fu impiccato e l’altro linciato. Il presidente del Consiglio di rappresentanza delle istituzioni ebraiche di Francia (Crif), Yonathan Arfi, ha denunciato: “Il simbolo delle mani insanguinate dei terroristi che linciarono due soldati israeliani nell’ottobre del 2000 risuona come un grido di battaglia odioso contro gli ebrei. Abietto!”.
Il leader dei deputati macroniani, Sylvain Maillard, ha parlato di “un atto indicibile”. “Disgustoso”, secondo Olivier Faure, segretario del Partito socialista. E’ intervenuta anche la portavoce del governo, Prisca Thévenot: “A tutti coloro che dicevano che le mani rosse non erano un simbolo antisemita. A tutti coloro che li hanno giustificati. Eccoli affissi al Muro dei Giusti presso il Memoriale della Shoah. L’antisemitismo nella sua forma più sfrenata”. Ieri anche alla Sapienza gli studenti in corteo hanno lasciato impronte di mani sporche di vernice rossa davanti al rettorato. Come a Ca’ Foscari, assieme agli striscioni “fuori il sionismo dalle università”.
“E’ un antisemitismo nuovo, perché politicamente corretto e parte del discorso mainstream, per questo è molto pericoloso”, dice al Foglio il rabbino Pinchas Goldschmidt, presidente della Conferenza rabbinica europea, insignito del Premio Carlo Magno. Goldschmidt è stato il capo della comunità ebraica di Mosca dal 1993 al 2022, quando ha deciso di lasciare il paese a causa della guerra in Ucraina. “Dopo il pogrom di Hamas del 7 ottobre, l’antisemitismo è divampato in un modo che mette seriamente in pericolo la sicurezza e la libertà della vita ebraica”, ci spiega Goldschmidt. “Si presenta nella sua forma antica, razzista classica, ma assume anche nuove vesti”. “Come ‘antisionismo’, ‘critica di Israele’, ‘boicottaggio’. Si diffonde in discipline come gli studi postcoloniali. Si veste di morale, contro l’imperialismo, il capitalismo, la globalizzazione. In passato era facile identificare un antisemita. Bastava che aprisse bocca. Le persone nate in Unione sovietica sanno che l’antisionismo era usato come antisemitismo, ma ora chi manifesta nelle università in Europa e America non se ne rende conto. Parlano di ‘giudeo-nazisti’, una espressione usata dalla propaganda sovietica al tempo della Guerra fredda”.
Qualcuno immagina una fine della vita ebraica in Europa. “Non penso, ma temo che alle parole seguano gli atti, come abbiamo già visto”, ci dice Goldschmidt. “A Berlino ci sono stati molti tentativi di attacchi che sono stati sventati dalla polizia e uno dei maggiori colpevoli di questa atmosfera è l’Iran, perché pianifica gli attacchi alle scuole e ai diplomatici ebrei, ma anche perché le sue Guardie rivoluzionarie sono dei terroristi, ma pochi paesi europei sono disposti ad agire”. Goldschmidt invita gli europei a pensare all’antisemitismo non solo come a un problema ebraico. “Non penso che l’obiettivo di queste dimostrazioni siano solo gli ebrei, ci sono molti utili idioti nelle università e nei paesi che destabilizzano, l’antisemitismo è un mezzo e il fine è la destabilizzazione della vita politica in Europa e America. L’antisemitismo è un sismografo. L’estremismo di destra e di sinistra e soprattutto l’islam radicale non solo mettono in pericolo la vita ebraica in Europa, ma ne minacciano la sicurezza, la libertà e il futuro”.
Il Foglio, 17 maggio 2024)
Nel mezzo della parashà di Emòr è scritto che l’Eterno disse a Moshè: “Parla ai figli d’Israele e dirai loro le ricorrenze (Mo’adè) dell’Eterno che proclamerete come sacre convocazioni. Queste sono le Mie ricorrenze. Sei giorni si potrà fare lavoro ma nel settimo giorno vi sarà una completa cessazione (Shabbàt Shabbatòn), un giorno di sacra convocazione nel quale non farete alcun lavoro; è Shabbàt destinato all’Eterno in tutte le vostre sedi”. (Vaykrà, 23: 1-3).
Nei versetti seguenti vengono elencati i Mo’adim: la festa delle Matzòt, la festa di Shavu’òt, Rosh Hashanà, Kippur e la festa di Sukkòt. La Torà elenca sei giorni festivi: il primo e il settimo giorno di Pèsach, il giorno di Shavu’òt, il giorno di Rosh Hashanà, il primo giorno di Sukkòt e Sheminì Atzèret. In questi giorni, a differenza dello Shabbàt, è permesso cucinare e trasportare nel dominio pubblico (melèkhet okhèl nèfesh). Kippur ha le stesse regole dello Shabbàt.
x2Rashì (Troyes, 1040-1105) nel suo commento pone una domanda: se in questo passo la Torà annuncia quali sono i Mo’adìm, per quale motivo viene elencato lo Shabbàt? Citando il Midràsh Sifrà, Rashì spiega che il passo sullo Shabbàt è stato accostato a quello dei Mo’adìm per insegnare che la profanazione dei Mo’adìm è considerata come una profanazione dello Shabbàt, e l’osservanza dei Mo’adìm è considerata come l’osservanza dello Shabbàt.
La difficoltà nel testo della Torà messa in evidenza dalla domanda che ha posto Rashì, viene risolta in modo diverso da r. Eliyahu, noto come il Gaon di Vilna (1720-1797). Egli spiega che in questo passo della Torà si parla solo dei Mo’adìm e non si parla dello Shabbàt. La Torà insegna che per sei giorni festivi è permesso fare melakhòt come cucinare e trasportare nel dominio pubblico. Il settimo giorno nella lista dei Mo’adìm è Kippur, denominato Shabbàt Shabbatòn, nel quale è proibito fare alcuna melakhà, come di Shabbàt. Come nella settimana vi sono sei giorni lavorativi e un giorno di cessazione del lavoro, così nei Mo’adìm ve ne sono sei nei quali è permesso fare alcune melakhòt, e un giorno, Kippur, nel quale bisogna astenersi da ogni melakhà come di Shabbàt.
Riguardo al significato del termine Shabbàt, r. Mayer Twersky (Boston, n. 1960) in Insights and Attitudes (p. 169) osserva che è generalmente definito e tradotto come “giorno di riposo”. Egli afferma che è più preciso definire lo Shabbàt come un “giorno di cessazione”. La parola riposo ci porta a pensare a rilassarsi e ad andare in vacanza. In questo modo lo Shabbàt è visto come un giorno fatto per rilassarsi e socializzare. L’espressione “cessazione” non fa venire in mente nulla di questo. Sabato come giorno di cessazione non denota riposo ma piuttosto pausa. Shabbàt è un giorno di pausa dalle tribolazioni quotidiane. Come scrive Rashì in Shemòt (20:9) citando il Midràsh Mekhiltà, “Per sei giorni lavorerai e completerai tutte le tue opere” significa che con l’arrivo dello Shabbàt bisogna considerare che non rimane più nulla da fare, ci si può dimenticare delle preoccupazioni economiche e ci si può dedicare allo studio della Torà.
R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (p. 180) prende spunto da questa parashà per spiegare un’altra differenza tra Shabbàt e i Mo’adìm. Lo Shabbàt è un giorno santificato dall’Eterno, avendo Egli stesso cessato l’opera della creazione alla fine del sesto giorno. Per questo nel kiddùsh che recitiamo di venerdì sera concludiamo con le parole “Benedetto tu o Signore, mekaddèsh ha-Shabbàt (che santifica il sabato)”. Nel kiddùsh che recitiamo all’entrata dei Mo’adìm chiudiamo invece con le parole “Mekaddèsh Israel ve-ha-Zemanìm” (che santifica Israele e le ricorrenze). Mentre lo Shabbàt ha la propria kedushà indipendentemente dalle azioni umane, i Mo’adìm, i giorni festivi, sono santificati dal popolo d’Israele tramite la fissazione dei capi mese. L’Eterno santifica Israele, e Israele santifica le feste.
Non è più confinato dietro le quinte lo scontro in corso all’interno del governo israeliano sul futuro del conflitto a Gaza. Con una conferenza stampa, il ministro della Difesa Yoav Gallant ha portato alla luce i contrasti in corso con il primo ministro Benjamin Netanyahu sulla gestione del conflitto e soprattutto sul futuro della Striscia. In diretta tv il ministro della Difesa ha chiesto al capo del governo di «prendere una decisione e dichiarare che Israele non manterrà il controllo civile su Gaza, che non ci sarà alcun governo militare israeliano e che sarà promossa immediatamente un’alternativa al governo di Hamas nella Striscia di Gaza». Affermazioni in netta contraddizione con quanto affermato da Netanyahu solo poche ore prima: «Non ha senso parlare del giorno dopo la guerra prima di sconfiggere Hamas».
Per Gallant, invece, non pianificare un’alternativa al gruppo terroristico rischia di vanificare i risultati militari ottenuti nella Striscia in questi sette mesi di guerra. «Un governo palestinese non ostile a Gaza è nell’interesse d’Israele», ha avvertito. Mentre «un’amministrazione militare israeliana diventerebbe il principale impegno militare di Israele, con molte vittime e un pesante prezzo economico a spese di altri fronti». Come la guerra al grande nemico Iran o, nel nord, ai libanesi di Hezbollah.
A sostenere la posizione di Gallant, oltre all’establishment di Tsahal, sono i ministri Benny Gantz e Gadi Eizenkot. I tre condividono un passato da capi di stato maggiore delle forze armate e hanno minacciato di uscire dall’esecutivo se Netanyahu «non prenderà decisioni difficili». A spingere alla rottura è stata la situazione sul campo: il ritorno dei soldati di Tsahal in località come Zeitoun e Jabalia – aree considerate liberate da Hamas, ma dove i terroristi si stavano riorganizzando – e la ripresa del lancio dei missili su Sderot sono, per i tre, la dimostrazione che alla guerra sia necessario affiancare la diplomazia.
Non così per Netanyahu. «Non sono disposto a sostituire Hamastan con Fatahstan», ha replicato il premier a Gallant poco dopo le sue dichiarazioni. Un riferimento alla possibilità di affidare all’Autorità nazionale palestinese, controllata dal movimento Fatah, la gestione amministrativa dell’enclave. Un’eventualità che sia Netanyahu sia i suoi alleati dell’ultradestra vogliono evitare. Il ministro delle Finanze, il nazionalista religioso Bezalel Smotrich, ad esempio, ha chiesto al premier di portare immediatamente in consiglio dei ministri la decisione di negare qualsiasi coinvolgimento dell’Anp nella Striscia di Gaza, e poi di chiedere a Gallant di scegliere: o attua la politica del governo o lascia il suo ruolo. Dichiarazioni simili sono arrivate da Itamar Ben Gvir, ministro della Sicurezza nazionale. Sia Ben Gvir sia Smotrich, sottolinea l’analista militare Ron Ben Yishai di Yedioth Ahronoth, vorrebbero altro per Gaza: la ricostruzione nell’enclave di insediamenti israeliani. Un’opzione impossibile da accettare per Gallant, rileva Ben Yishai, che anche per questo è uscito allo scoperto. Difficile, conclude l’analista, sapere chi la spunterà in questo complicato braccio di ferro.
(moked, 16 maggio 2024)
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Netanyahu critica la richiesta di Galant di un controllo palestinese nella Striscia di Gaza
"Non sono disposto a scambiare Hamastan con Fatahstan", ha detto Netanyahu in un video messaggio al suo ministro della Difesa.
La soluzione dei due stati sarebbe la migliore ricompensa per i terroristi
Cinque mesi fa
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e altri membri della sua coalizione hanno criticato aspramente il ministro della Difesa Yoav Galant, mercoledì sera, dopo che questi ha invitato il governo a sostenere il controllo palestinese nella Striscia di Gaza dopo la fine della guerra contro Hamas. "Non sono disposto a scambiare Hamastan con Fatahstan" ha dichiarato Netanyahu in una dichiarazione video, riferendosi al partito Fatah del leader palestinese Mahmoud Abbas.
Il primo ministro ha ribadito che l'Autorità Palestinese, con sede a Ramallah, "sostiene il terrorismo, insegna il terrorismo e finanzia il terrorismo".
"La prima condizione per il 'giorno dopo' è l'eliminazione di Hamas, senza scuse", ha aggiunto, rispondendo alle critiche di Galant e dell'amministrazione Biden, secondo cui Israele non ha un piano di ritiro dalla Striscia di Gaza.
Le osservazioni di Netanyahu sono arrivate poco dopo che Galant, in una conferenza stampa, ha invitato il governo a "prendere una decisione e dichiarare che Israele non stabilirà il controllo civile di Gaza, che Israele non stabilirà un governo militare a Gaza e che un governo alternativo ad Hamas a Gaza sarà promosso immediatamente".
"Da ottobre ho ripetutamente sollevato la questione nel gabinetto senza ricevere risposta. La fine della campagna militare deve essere accompagnata da misure politiche. Il 'giorno dopo Hamas' sarà raggiunto solo se le entità palestinesi prenderanno il controllo di Gaza, accompagnate da attori internazionali", ha detto il segretario alla Difesa.
L'amministrazione Biden ha insistito sul fatto che un'"Autorità palestinese efficace e rivitalizzata" dovrebbe governare Gaza - una mossa a cui Netanyahu si oppone a causa del sostegno di Ramallah al terrorismo e della sua storia.
Alti funzionari della coalizione hanno chiesto a Netanyahu, mercoledì sera, di licenziare Galant per essersi opposto pubblicamente alla politica dichiarata dal governo.
"Il ministro Galant ha annunciato oggi il suo sostegno alla creazione di uno Stato palestinese del terrore come ricompensa ad Hamas per il più orribile massacro del popolo ebraico dopo l'Olocausto", ha dichiarato il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich in una dichiarazione citata da Ynet.
"Chiedo che il primo ministro chieda a Galant di scegliere tra l'attuazione della politica del governo e le sue dimissioni", ha aggiunto.
Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha affermato che Galant ritiene che "non faccia differenza se Gaza è governata da soldati dell'IDF o da assassini di Hamas".
"Questo è essenzialmente il concetto del ministro che ha fallito il 7 ottobre e continua a fallire. Un tale ministro della Difesa deve essere sostituito per raggiungere gli obiettivi della guerra", ha twittato Ben-Gvir.
Il ministro delle Comunicazioni Shlomo Karhi, anch'egli del partito Likud, ha dichiarato di "essere d'accordo con lui su un punto: Finché sarà ministro della Difesa, un governo militare è sicuramente una cattiva opzione".
Il governo israeliano vuole discutere una proposta per l'amministrazione militare della Striscia di Gaza per un periodo che va da sei mesi a un anno dopo la guerra, ha riferito l'emittente KAN all'inizio di questa settimana.
Il piano in esame prevede un'amministrazione civile da parte dell'Amministrazione civile dell'IDF e del Coordinatore delle attività governative nei Territori, con aziende arabe locali che forniscano servizi.
Secondo il rapporto di KAN, Israele sta considerando un graduale trasferimento del controllo a entità locali non ostili allo Stato ebraico.
La proposta è stata discussa di recente dal Consiglio di sicurezza nazionale e, secondo quanto riferito, i funzionari della sicurezza e della politica stanno parlando con le parti interessate prima di presentare il piano al gabinetto.
Netanyahu ha dichiarato in un'intervista trasmessa giovedì di voler stabilire un governo "da parte dei residenti di Gaza che non sono interessati alla nostra distruzione, possibilmente con l'aiuto degli Emirati Arabi Uniti, dell'Arabia Saudita e di altri Paesi che penso siano interessati alla stabilità e alla pace".
(Israel Heute, 16 maggio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Cinque paracadutisti dell’IDF sono stati uccisi in un incidente a Gaza. Almeno altri otto sono rimasti feriti, tre dei quali in modo grave.
Secondo le prime ricostruzioni, i cinque soldati sono stati uccisi da fuoco amico. Due carri armati, arrivati poco prima nella zona di Jabaliya, sospettavano che un edificio, preso dal 202° Battaglione della Brigata Paracadutisti, fosse occupato da terroristi e così hanno aperto il fuoco. Uno dei due carri armati avrebbe individuato la canna di un fucile da una finestra del palazzo e ha informato il carro armato accanto ad esso, che ha aperto il fuoco, apparentemente senza sapere che le truppe fossero al suo interno. L’esercito non è ancora sicuro del motivo di questo incidente, però, secondo le prime indagini, i due carri armati ancora non erano stati informati delle forze all’interno dell’edificio.
Il capitano Roy Beit Yaakov, il sergente maggiore Gilad Arye Boim, il sergente Daniel Chemu, il sergente Ilan Cohen e il sergente maggiore Betzlel David Shashuah hanno perso la vita in questo incidente.
Roy Beit Yaakov era il figlio di Hadas e Avidan, il sindaco di Eli. Il sergente maggiore Gilad Arye Boim, di Karnei Shomron, è il nipote del giornalista e conduttore radiofonico Kalman Liebskind, che lo ha ricordato come un ragazzo “pieno di luce e di bontà, un fedele soldato di questo buon paese, è caduto mentre difendeva la sua patria”. Il sergente Ilan Cohen, che viveva a Karmiel, invece era un ‘lone soldier’ proveniente dall’Argentina. I suoi genitori, David e Adriana, sono in viaggio per Israele per partecipare al suo funerale. La famiglia è stata informata dall’ambasciatore israeliano in Argentina Eyal Sela e dal console israeliano Yehuda Golan. “La comunità ebraica di Buenos Aires piange la perdita del sergente Ilan Cohen, il primo lone soldier argentino” ha affermato il rabbino capo dell’Asociación Mutual Israelita Argentina (AMIA).
L’esercito statunitense ha terminato l’installazione di un molo galleggiante per la Striscia di Gaza, secondo il Comando centrale degli Stati Uniti, e gli ufficiali sono pronti a iniziare a trasportare via mare gli aiuti umanitari nell’enclave.
Le truppe statunitensi hanno ancorato il molo alle 7:40 ora locale, afferma il CENTCOM in un comunicato, sottolineando che nessuna delle sue forze è entrata nella Striscia di Gaza.
“Si prevede che i camion che trasportano l’assistenza umanitaria cominceranno a sbarcare nei prossimi giorni”, si legge nel comunicato. “Le Nazioni Unite riceveranno gli aiuti e ne coordineranno la distribuzione a Gaza”.
Non è immediatamente chiaro quale agenzia delle Nazioni Unite sarà coinvolta.
Le forze israeliane si occuperanno della sicurezza a terra, ma ci sono anche due navi da guerra della Marina statunitense vicino all’area nel Mediterraneo orientale, la USS Arleigh Burke e la USS Paul Ignatius. Entrambe le navi sono cacciatorpediniere dotate di un’ampia gamma di armi e capacità per proteggere le truppe americane al largo e gli alleati sulla spiaggia.
Guerra di cifre tra Onu e Israele. Jenin non ha insegnato niente
L’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari delle Nazioni Unite (Ocha) ha ridotto di quasi la metà il numero di donne e minori uccisi durante la guerra in corso dal 7 ottobre 2023 tra Israele e Hamas. Cosa non torna nei numeri delle vittime nella Striscia di Gaza.
di Giulio Meotti
Quando nel 2002 l’esercito israeliano entrò a Jenin per distruggere i covi dei terroristi che vi pullulavano durante la Seconda Intifada, i palestinesi si precipitarono dai media internazionali sostenendo che Israele stava perpetrando un massacro. Saeb Erekat, portavoce di Yasser Arafat, affermò che a Jenin erano stati “massacrati cinquecento palestinesi” (cinquecento è il numero magico, anche per l’ospedale di Gaza). I media internazionali non esitarono a riprenderlo e diffonderlo senza alcuna conferma o prova o riscontro. Quando media e osservatori internazionali riuscirono finalmente entrare a Jenin, dipinsero un quadro diverso: una dura battaglia nel campo profughi, nella quale erano rimasti uccisi cinquanta palestinesi, in gran parte appartenenti a gruppi terroristici, e 23 soldati israeliani. Non un “massacro” di cinquecento civili inermi, ma una operazione antiterrorismo. Ma ormai il danno era fatto. Mentre le truppe israeliane attaccano Hamas da sei mesi, il ministero della Sanità di Gaza ha impresso nella mente del pubblico una statistica degna di un altro massacro: “Il settanta per cento dei morti a Gaza sono donne e bambini”, dice il ministero gestito da Hamas, e più di trentamila vite andate perdute. Gabriel Epstein, analista del Washington Institute for Near East Policy, aveva subito fatto notare a dicembre che qualcosa non tornava. Aveva scoperto che le morti attribuite a “fonti mediatiche affidabili” erano costituite quasi interamente da donne e bambini. Delle 6.629 vittime attribuite ai media, 1.941 erano donne, 4.678 bambini e solo dieci uomini. Dei quasi 11 mila decessi segnalati tra il 1 gennaio e il 31 marzo, i maschi adulti rappresentavano solo il 9 per cento delle vittime, anche se il rapporto tra i sessi di Gaza è vicino alla parità e più della metà dei suoi residenti sono adulti. Ora l’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari delle Nazioni Unite (Ocha) ha ridotto di quasi la metà il numero di donne e minori uccisi durante la guerra in corso dal 7 ottobre 2023 tra Israele e Hamas. Farhan Aziz Haq, portavoce del segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, ha dichiarato che le cifre si basano sui dati del ministero della Sanità di Gaza, gestito da Hamas, e che “le squadre Onu sul campo a Gaza non sono in grado di verificare in modo indipendente queste cifre, data l’enorme quantità di morti”. Un’infografica pubblicata dall’Ocha il 6 maggio riferisce che il numero di donne uccise dal 7 ottobre sarebbe di 9.500 e quello dei minori di 14.500. Due giorni dopo, l’8 maggio, l’agenzia delle Nazioni Unite ha dimezzato il numero: 4.959 donne e 7.797 minori. Secondo le stime ufficiali israeliane, quindicimila terroristi sono stati uccisi dal 7 ottobre. Il ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, ha risposto così: “Il miracolo della resurrezione dei morti a Gaza. Le Nazioni Unite riducono del 50 per cento la stima delle donne e dei minori uccisi a Gaza e affermano di essersi basate sui dati del ministero della Sanità di Hamas. Chiunque si basi sui dati falsi di un’organizzazione terroristica per incriminare Israele di spargimento di sangue è antisemita e sostiene il terrorismo. Guterres, dimettiti!”. Il rapporto tra terroristi e civili uccisi è dunque di uno a uno, come ha dichiarato il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu. “Sono stati uccisi quattordicimila combattenti e, probabilmente, sedicimila civili”. Secondo il professor Abraham Wyner, studioso di Statistica della Wharton University, le percentuali dei morti indicate da Hamas sono cresciute in modo innaturale e in misura troppo regolare e lo ha spiegato in un lungo saggio su Tablet. Alla fine della guerra forse sarà più chiaro che Israele aveva compiuto sforzi considerevoli per ridurre al minimo gli effetti della guerra sui civili, mentre Hamas continuava a utilizzare gli ospedali, le scuole e le moschee come fortezze (ieri i video dalle strutture dell’Unrwa). Alla fine della guerra forse verrà fuori un “genocidio” di terroristi.
“Era giusto dare voce a questi ragazzi e poi se non l’avessimo fatto magari avrebbero potuto rovinare la cerimonia”. Queste le parole usate da una delle organizzatrici della cerimonia di consegna delleborse di ricerca di Fondazione Veronesi per giustificare lo spazio dato in apertura dell’evento a due rappresentanti del collettivo studentesco che hanno propalato le solite calunnie anti-israeliane. Una debacle culturale degna degli anni Trenta, un cedere alla protervia e alle mistificazioni antisioniste e antisemite. Fa ancora più male in questo caso, dato che la madre di Paolo Veronesi, figlio di Umberto e presente alla cerimonia, è una sopravvissuta al lager di Bergen Belsen,Sultana Razon Veronesi.
• Questa la lettera che abbiamo ricevuto da una nostra lettrice:
Volevo segnalare un brutto episodio avvenuto ieri (15 maggio, ndr) all’Università Statale di Milano. Ho partecipato alla cerimonia di consegna delle borse di ricerca di Fondazione Veronesi, ospitata dall’Università Statale di Milano. Si tratta di un appuntamento istituzionale, di un’occasione per celebrare la ricerca scientifica italiana. L’evento si apre con due rappresentanti del collettivo universitario, chiamati sul palco a spiegare il perché della loro protesta, che si lanciano in un monologo sul “genocidio” dei palestinesi, sul dovere morale di combattere il sionismo e interrompere i rapporti con le università “militari” israeliane e invitano tutti a un momento di riflessione sulla nakba, ovvero la catastrofe, ovvero la nascita dello Stato d’Israele. I due ragazzi scendono dal palco tra qualche applauso, ringraziati della conduttrice per le loro importanti parole. Il microfono passa poi a Paolo Veronesi e alle diverse autorità presenti. Tutti parlano dell’importanza della ricerca, dei suoi incredibili progressi, del ruolo della conoscenza per costruire una società migliore. Nessuno dice una parola per dissociarsi dalle parole con cui si è aperta la cerimonia, che sono l’opposto dello spirito scientifico che si vuole celebrare. All’uscita chiedo a una delle organizzatrici perché abbiano fatto iniziare l’incontro in questo modo. Mi guarda seccata: “perché le ha dato fastidio?” “Molto, le dico”. “Beh”, mi risponde, “era giusto dare voce a questi ragazzi e poi se non l’avessimo fatto magari avrebbero potuto rovinare la cerimonia”. Io credo che più di così non si sarebbe potuta rovinare, ma temo, ed è questo che mi ferisce, di essere stata l’unica a pensarla in questo modo. Come dice Liliana Segre: l’indifferenza è già violenza. Federica Levi
• Comunità ebraica Milano, sconforto per ciò che accade in Statale
Intanto, il giorno precedente, il presidente della Comunità ebraica di Milano, Walker Meghnagi, aveva scritto una lettera al rettore dell’Università Statale, Elio Franzini, in merito ad un’altra circostanza che si era verificata sempre all’Università Statale di Milano. “Esprimo lo sconforto mio personale e della comunità ebraica di Milano a fronte dell’ennesimo episodio di cui l’Università è palcoscenico: un’assemblea ‘colonialismo e apartheid’ nell’aula 515 con la partecipazione ufficiale di due docenti della Statale per spacciare la bugia che lo Stato di Israele sia uno stato coloniale e razzista in cui vige l’apartheid”. Intanto “manifestanti filo palestinesi sono accampati nel cortile dell’università contro ogni regolamento e creando un clima di tensione”. Meghnagi cita poi il confronto avuto alcuni mesi fa con il rettore sul convegno svoltosi a Scienze politiche sul conflitto tra Israele e Hamas il 5 marzo, “che ha visto la partecipazione di noti esponenti antisraeliani. In quell’occasione lei mi ha garantito che la Statale fosse aperta a ospitare tutte le voci e che avrebbe organizzato un convegno per consentire al punto di vista israeliano di essere ascoltato dagli studenti”. Ma “tale convegno previsto per il 7 maggio non si è potuto tenere se non online”. “Non le chiediamo di difendere Israele, ma più semplicemente il diritto degli studenti a sentire opinioni differenti – conclude -. Abbiamo ben presente le difficoltà a cui potrà andare incontro, ma crediamo anche che chiudere il suo rettorato con un’iniziativa che vada a tutela della libertà di espressione applicata ‘perfino’ al mondo ebraico possa essere non solo un atto moralmente alto, ma anche un segnale ai tanti che hanno festeggiato l’annullamento del convegno e che sempre più si sentono legittimati a usare le maniere forti per imporre il loro pensiero”.
Israele: respinta la risoluzione Onu sulla Palestina
Netanyahu ha dichiarato che non permetterà la creazione di uno “stato terrorista”.
Il governo di Gerusalemme, dietro la proposta del leader dell’esecutivo Netanyahu, ha respinto all’unanimità la risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu che consente alla Palestina di diventare membro delle Nazioni Unite.
• La decisione
Il governo israeliano ha respinto all’unanimità, su proposta del premier Benyamin Netanyahu, la recente Risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu che consente alla Palestina di diventare membro delle Nazioni Unite. Lo ha fatto sapere l’ufficio del premier. “Non daremo una ricompensa per il terribile massacro del 7 ottobre. Non permetteremo loro – ha detto Netanyahu – di creare uno stato terrorista dal quale possano attaccarci ancora più forte”.
Sisi teme che la rabbia per Gaza si tramuti in rabbia contro di lui
Su Rafah il dittatore mostra i muscoli a Israele per mascherare la sua debolezza interna.
di Luca Gambardella
Tank israeliani pattugliano i confini con l'Egitto
Abdel Fattah al Sisi guarda le bandiere israeliane sventolare sui tank di Tsahal che pattugliano il valico di Rafah, a pochi metri dal versante egiziano, e teme che quelle immagini che circolano sui social network diventino la miccia di qualcosa di incontrollabile: la rabbia del dissenso in Egitto. L’avanzata israeliana ha spinto circa 400 mila palestinesi a spostarsi altrove, ad al Mawasi a ovest, oppure a nord, verso Khan Younis e Deir al Balah. Ma delle loro sorti al Cairo interessa il giusto e ciò che conta è invece quel che accade all’interno dei suoi confini, dove la sensazione diffusa è che Sisi si sia dimostrato debole, che il suo impegno per scongiurare l’avanzata degli israeliani sia stato quasi nullo. Nonostante le minacce, agli occhi di molti egiziani la “linea rossa” di Rafah è stata già superata.
“Gli israeliani ci hanno avvertiti troppo tardi”, lamentano fonti egiziane al Wall Street Journal, ventilando un imminente ridimensionamento della cooperazione con Israele, il possibile ritiro dell’ambasciatore, il congelamento degli accordi di Camp David del 1979 e l’adesione alla causa intentata dal Sudafrica alla Corte internazionale di Giustizia – una mossa, quest’ultima, che potrebbe aprire a una serie di altre adesioni nel mondo arabo. Con i colloqui per un cessate il fuoco “quasi in stallo”, come ha ammesso ieri il Qatar, all’improvviso l’Egitto ha assunto una postura apertamente ostile nei confronti di Israele, in risposta all’avanzata su Rafah. Dice il Cairo che l’operazione non era concordata: “Un’escalation inaccettabile”, la definisce al Qahera News, l’emittente televisiva controllata dai servizi segreti, che parla anche di “rinforzi” inviati al confine con Gaza.
Da quasi una settimana, l’Egitto ha bloccato il flusso degli aiuti umanitari via terra attraverso il valico della città, almeno finché gli israeliani non si ritireranno. Con l’altro valico ancora chiuso, quello di Kerem Shalom, le Nazioni Unite parlano ora di “situazione catastrofica”. Un video girato da un camionista egiziano e rilanciato sui social dall’ong Sinai for Human Rights mostra centinaia di camion carichi di cibo e beni di prima necessità fermi alla frontiera. Alcuni hanno dovuto disfarsi di parte del carico perché dopo giorni passati ad alte temperature era andato a male. Per molti egiziani quelle immagini sono un affronto alla causa palestinese, perpetrato da un regime che giudicano troppo flemmatico di fronte alla guerra a Gaza.
Ma fermando gli aiuti umanitari e ogni tipo di collaborazione con Israele, Sisi vuole evitare qualcosa che considera tanto pericoloso almeno quanto l’indignazione del suo popolo: l’umiliazione. Il dittatore non vuole che soldati israeliani controllino i camion egiziani, che si arroghino l’autorità di decidere cosa fare entrare e cosa no nella Striscia. Per questo, l’impegno di Israele era di non gestire direttamente il valico, di delegarne i controlli di sicurezza ad altri. Una condizione finora disattesa, denunciano gli egiziani. Il direttore dello Shin Bet, Ronan Bar, ha detto di volere riaprire la frontiera di Rafah, ma ha chiarito che riaffidarne la gestione a Hamas è un’ipotesi che non sarà presa in considerazione. Uno scoop di Axios ha riferito di una trattativa avviata da Israele per affidare il valico all’Autorità nazionale palestinese, ma in via non ufficiale. Per Abu Mazen è una condizione inaccettabile, però i negoziati proseguono.
In queste ore le piazze egiziane guardano con fermento ai prossimi sviluppi. Dal 7 ottobre a oggi i servizi segreti del regime hanno arrestato un centinaio di persone, accusate di avere manifestato il loro sostegno ai palestinesi. Sono le proteste universitarie – l’ultima di due giorni fa organizzata all’American University del Cairo –, quelle dei giornalisti e dei sindacalisti a preoccupare il regime. Tra Mansoura e il Cairo, due giovani studenti, Mazen Ahmed e Zeyad al Bassiouny, sono prima stati arrestati e poi fatti sparire dalle forze di sicurezza egiziane per avere diffuso volantini in sostegno ai palestinesi e sono accusati di terrorismo e diffusione di notizie false. Sono queste le crepe che Sisi teme, perché possono accendere il malcontento degli strati medio-bassi della popolazione già sofferenti. Nonostante i milioni di dollari arrivati dal Golfo e dal Fondo monetario internazionale, molti egiziani patiscono l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, la mancanza di medicinali e la svalutazione della sterlina. Così la nuova linea della fermezza del regime egiziano nei confronti di Israele va oltre la guerra a Gaza e riguarda la sua stessa sopravvivenza: se l’avanzata israeliana a Rafah dovesse palesare la debolezza di Sisi e il vuoto che si nasconde dietro ai suoi ultimatum lanciati a Benjamin Netanyahu, allora quello sarebbe il punto in cui le proteste contro Israele potrebbero trasformarsi di colpo in proteste contro il regime egiziano.
"Israele un pretesto. L'Iran vuole battere re e rais arabi"
«Il regime di Teheran è meno ideologico dei jihadisti», dice lo storico di Tel Aviv, «ma più ambizioso: è l’erede di un impero e intende primeggiare sui rivali sunniti, avversari storici degli sciiti fin dall’epoca ottomana».
Principale ricercatore e responsabile del Programma di cooperazione regionale presso il Centro Moshe Dayan per gli studi sul Medio Oriente e l’Africa e principale ricercatore presso il Centro per gli studi sull’Iran all’Università di Tel Aviv, già capo del Dipartimento di Storia del Medio Oriente e dell'Africa pure dell’Università di Tel Aviv, Uzi Rabi ha tenuto a Roma appunto un incontro appunto sul tema del ruolo iraniano nella guerra in corso a Gaza, e dei rischi che comporta. «Gaza è un problema, ma allo stesso tempo il sintomo di un problema più ampio di cui sono pure Hezbollah in Libano, gli Houthi in Yemen o Hashd al-Shaabi in Iraq. Tutti questi nomi che corrispondono sostanzialmente allo stesso fenomeno di uno Stato arabo fallito. Ma l’Iran non è uno Stato arabo, e nemmeno faceva parte dell’Impero Ottomano, come questi altri Paesi. Tra persiani e arabi c’è una storica e enorme animosità, per cui i persiani si considerano superiori. Ma in Stati arabi come Siria, Iraq, Libano o Yemen che sono collassati per effetto di guerra civili tra gruppi etnici e religiosi contrapposti si è creato un caos in cui il giocatore dominante è l’Iran, tramite una procura che si basa innanzitutto sugli sciiti locali, ma a volte portano anche sciiti dal Pakistan e dall’Afghanistan. L’Occidente ha cercato di parlare e scendere a compromessi con l’Iran, dove fino al 1979 c’era una monarchia molto amichevole sia con gli Stati Uniti che con Israele. Ma dopo è venuto un regime per il quale invece Stati Uniti e Israele sono il Grande e il Piccolo Satana. In questo momento la mappa del Medio Oriente mostra una specie di corridoio che si estende da Teheran al Mediterraneo attraverso Iraq, Siria e Libano. Il grande architetto ne fu Hajj Qasem Soleimani, che fu ucciso dagli americani quattro anni fa, ma aveva la visione di tutto ciò. Ha visto la debolezza degli Stati arabi, e ha pensato che fosse giunto il momento per l’Iran di trarre vantaggio da ciò, e diventare la forza dominante della Regione. Israele è preso come obiettivo perché serve a ottenere questo risultato, ma nei fatti l’Iran è pragmatico. Non è l’Isis o al-Qaida in cui è l’ideologia a guidare l’azione. Qui invece l’ideologia è al servizio di una azione, da parte di un giocatore che può essere molto spregiudicato, ma al tempo stesso anche prudente, e comunque organizzato».
- Dunque, Israele per il regime di Teheran non è tanto un nemico strategico, ma un pretesto tattico per infilarsi in un mondo sunnita che ha tradizionalmente per gli sciiti una forte ostilità... «Gaza non è che un punto di partenza. Il Medio Oriente si sta polarizzando in due campi principali: quello dell’Iran e soci, e quello degli Stati arabi che hanno paura dell'Iran, soprattutto se l'Iran dovesse diventare nucleare. Vorrebbero che gli Stati Uniti li appoggiassero, ma hanno dubbi su quello che gli Stati Uniti faranno, specie dopo che non sono intervenuti al momento dell’attacco dei campi petroliferi sauditi da parte di Houthi e iraniani. Dunque guardano anche alla Russia, e soprattutto alla Cina. Ed è stata infatti la Cina a mediare un accordo tra Arabia Saudita e Iran. Però molti di questi Stati hanno firmato accordi di normalizzazione con Israele quattro anni fa: Marocco, Bahrein, Emirati Arabi Uniti. Per loro, Israele non è un problema. Quando si crea un certo tipo di atmosfera, anche loro devono dire di stare al fianco dei palestinesi, ma la verità è che tali Stati vorrebbero costruire una sorta di alleanza delle forze anti-iraniane sostenute dagli Stati Uniti: compreso Israele, anche se non pubblicamente. Adesso Biden chiede infatti a Israele di fermare l’offensiva, apposta per poter arrivare a un accordo di normalizzazione con l'Arabia Saudita. Ma per Israele è difficile, per l’amaro ricordo delle atrocità del 7 ottobre».
- C’è anche un ruolo del Qatar... «È un altro esempio di uno Stato molto astuto. È il Paese più ricco del mondo, ma è minuscolo. Per garantirsi sicurezza non poteva costruire un forte esercito, soprattutto perché sono circondato dall'Arabia Saudita, dall'Iran, dall'Iraq di Saddam Hussein e della Marina Usa. Ma quando gli Stati Uniti stavano evacuando l'Afghanistan, e c’era bisogno di qualcuno che parlasse effettivamente con i talebani, chi lo ha fatto? Il Qatar. Il Qatar ha costruito il canale Al-Jazeera, che è diventato un'arma efficacissima per diventare influente. Gli arabi di tutto il mondo guardano Al-Jazeera. Gli stessi arabi israeliani quando si tratta di questioni economiche e culturali seguono la Tv israeliana, ma sulla geopolitica seguono Al-Jazeera. Vediamo come il Qatar, così piccolo, è riuscito a farsi dare i Mondiali di Calcio. Naturalmente, anche su Gaza hanno cercato di dimostrarsi come i mediatori più capaci. Sono però rimasti frustrati per il fatto che la dirigenza militare di Hamas a Gaza fa di testa sua, piuttosto che dare retta all’ala politica di stanza proprio in Qatar.»
- L’Iran ora è stato ammesso nei Brics, con Cina e Russia. «Ci sono i tre punti caldi di Taiwan, Ucraina e Israele. Il tutto ci porta in un Grande Gioco, per cui ad esempio la Russia capitalizza ciò che accade in Medio Oriente, perché distoglie l'attenzione dall'Ucraina. Ma la Russia è anche insediata saldamente nei due porti siriani di Latakia e Tartus, e aiuta l’Iran a sostenere Assad. E l’Iran sta fornendo droni alla Russia per migliorare le sue prestazioni in Ucraina. La Cina è un attore che gioca in modo molto diverso, ma che sta al fianco dell’Iran, e negli ultimi dieci anni ha sfruttato la pallida debolezza della performance americana nei confronti del Medio Oriente».
Evytar Bar-Gil, 17 anni, studente della ORT Pelech Boys School di Gerusalemme, e David Shasha, 17 anni, studente della Yeshiva Amit Kfar Ganim di Petah Tikva, hanno vinto il 61° concorso internazionale della Torah. La competizione si tiene annualmente a Gerusalemme. Entrambi i concorrenti hanno raggiunto il turno finale con punteggi identici.
David Shasha, residente a Petah Tikva, si è preparato al concorso per tre anni con il suo mentore, il rabbino Amitai Sar-Avi. “È un onore essere il vincitore del Concorso Biblico”, ha detto Shasha. “La persistenza e la volontà di vittoria mi hanno portato al successo. Sono grato al Signore, ai miei genitori, alla mia famiglia, al rabbino Amitai Sar-Avi e alla yeshiva per il loro sostegno durante questo viaggio”
Il rabbino Nitzan Berger, capo della yeshiva dove Shasha studia, ha detto alla stampa locale: “Siamo fortunati a ricevere queste soddisfazioni, è impressionante la preparazione di questo ragazzo. Tutti impariamo una grande lezione da David nel fissare i nostri obiettivi e raggiungerli, il tutto con umiltà ed eccellenti qualità morali. David è un modello per la sua ardente passione per la Torah, la sua precisione e la sua profonda attenzione ai dettagli. Tutte queste qualità lo hanno portato a diventare il vincitore del Concorso”.
Evyatar Bar-Gil studia invece in una scuola superiore precedentemente guidata dal defunto sergente maggiore Yossi Hershkovitz, caduto in guerra a Gaza lo scorso novembre. “Sono sicuro che Yossi, dall’alto, sta guardando Evyatar dall’alto con orgoglio, sapendo che anche ora, il suo spirito, la sua eredità e le sue capacità continuano a manifestarsi nel miglior modo possibile” ha detto il sindaco di Gerusalemme Moshe Lion.
Generalmente presente tra gli ospiti anche il primo ministro Benjamin Netanyahu, che quest’anno però a causa dei fitti impegni per le commemorazioni di Yom Hazmaut, ha registrato un discorso trasmesso all’inizio del quiz. “In un giorno così solenne, i nostri nemici continuano ad attaccare proprio quando Israele celebra la continuità dell’apprendimento della Torah. Non è una novità. La stessa Torah ci insegna che migliaia di anni fa, i nostri antenati, tra cui Abramo, Mosè, Giosuè e i Re Davide e Salomone, combatterono tutti contro nemici temibili. Anche allora, non abbiamo ceduto, anche allora, non abbiamo chinato la testa”, ha detto il primo ministro.
“Stiamo commemorando il 76° Giorno dell’Indipendenza di Israele, un giorno diverso da qualsiasi altro precedente. Quest’anno, Israele e il suo popolo hanno sopportato il giorno più lungo, un giorno in cui quel famoso “mai più” è tornato. La guerra infuria ancora, e ormai dal 7 ottobre piangiamo per il ritorno dei nostri 132 fratelli. Oggi insieme da qui inviamo una preghiera per il loro rapido ritorno” ha aggiunto il presidente della Knesset Amir Ohana.
Tra i talentuosi concorrenti in gara molti provenienti da zone fuori dallo Stato d’Israele come ad esempio: Noa Saubel (Regno Unito), Penina Crystal (USA), Yosef Samson (Canada), Noach Greenblatt (Sudafrica), Aviv Sharon (Canada), Mickey Sirolnik (USA), Sara Harari (Panama), Ezra Goldberg (Canada), Emmanuela Milman (USA), David Abadi (Messico) e Yoni Cady (Australia).
GERUSALEMME - Gli scienziati hanno colmato delle lacune nella nostra conoscenza della storia della città di Gerusalemme. Un team di diversi istituti di ricerca israeliani è riuscito a compilare una cronologia dettagliata della Gerusalemme dell'Età del Ferro. Questo periodo comprende i regni dei re Davide e Salomone e la distruzione del Primo Tempio da parte dei Babilonesi nel 586 a.C.. Finora, nonostante il gran numero di testi biblici e non, c'erano ancora delle lacune nella "cronologia assoluta", come ha annunciato il Weizmann Institute israeliano alla fine di aprile. I risultati sono stati recentemente pubblicati sulla rivista "Proceedings of the National Academy of Sciences" (PNAS). Allo studio hanno partecipato ricercatori del Weizmann Institute, dell'Università di Tel Aviv e dell'Israel Antiquities Authority.
• MATERIALE ORGANICO PROVENIENTE DA QUATTRO AREE
Per il loro lavoro, i ricercatori hanno raccolto materiale organico da quattro diverse aree di scavo a Gerusalemme, tra cui semi d'uva carbonizzati e scheletri di pipistrelli. Il materiale è stato analizzato con la datazione al radiocarbonio, separando il carbonio 12 dalla materia organica. Questo metodo ha fornito prove della colonizzazione nel XII secolo a.C. e dell'espansione verso ovest già nel IX secolo. Sono state trovate anche prove di un terremoto avvenuto a metà dell'VIII secolo a.C. - un evento menzionato in Zaccaria 14:5. Inoltre, è stato possibile dimostrare la successiva ricostruzione di cui a 2 Cronache 26:9: "Uzzia costruì a Gerusalemme torri alla Porta d'Angolo, alla Porta della Valle e all'Angolo, e le fortificò". Finora, tuttavia, la ricostruzione era stata attribuita al re Ezechia.
(Israelnetz, 15 maggio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
"Basta scienziati che diventano attivisti e attivisti che si credono scienziati"
Greta si toglie la maschera e appare Luca Casarini e gli scienziati aprono gli occhi: "Non eravate la verità assoluta". I ruffiani dell'apocalisse hanno sedotto le élite amorfe con i loro volantini.
Una piaga della nostra epoca è l’abuso delle credenziali scientifiche per promuovere ideologie politiche. Abbiamo visto i danni della cosiddetta “transizione ecologica”, l’Occidente che si copre la testa di cenere mentre firma un grosso assegno in bianco al Sud del mondo. Per molto tempo è sembrato che persino gli scienziati avessero perso il desiderio di leggere o dire qualcosa di diverso dai volantini distribuiti nelle piazze e nei campus. Ma forse c’è speranza e le riviste scientifiche dell’establishment ora tracciano un percorso diverso. A dare speranza è la pubblicazione da parte della prestigiosa rivista Nature di un saggio di Ulf Büntgen, un importante climatologo dell'Università di Cambridge: “Sono preoccupato dal fatto che un numero crescente di scienziati del clima diventino attivisti per il clima. Come in ogni caso accademico, la ricerca dell’obiettività deve tenere conto anche di tutti gli aspetti della ricerca sul cambiamento climatico globale. Anche se non ho problemi con gli studiosi che prendono posizioni pubbliche sulle questioni climatiche, vedo potenziali conflitti quando gli studiosi usano le informazioni in modo selettivo o attribuiscono eccessivamente i problemi al riscaldamento di origine antropica e quindi politicizzano il cambiamento climatico e ambientale. Senza autocritica e diversità di punti di vista, gli scienziati alla fine danneggeranno la credibilità della loro ricerca e potrebbero causare una più ampia reazione pubblica, politica ed economica. Allo stesso modo, sono preoccupato per gli attivisti che fingono di essere scienziati, una forma fuorviante di strumentalizzazione. Gli attivisti (non) specializzati spesso adottano argomenti scientifici come fonte di legittimazione morale per i loro movimenti, che possono essere radicali e distruttivi piuttosto che razionali e costruttivi. La fede illimitata nella conoscenza scientifica è, tuttavia, problematica perché la scienza non ha né diritto alla verità assoluta né all’autorità etica”. Non capita tutti i giorni (in effetti non capita mai) di leggere su Nature un saggio autocritico da parte di un rinomato climatologo. Ne scrive anche il Wall Street Journal. Ci voleva Greta Thunberg (la più nota degli “attivisti che si credono scienziati” e che saliva su un aereo mentre voleva che gli occidentali prendessero l’asino) che scandisce slogan pro Hamas e con la keffiah per fargli aprire gli occhi? “Greta Thunberg ha manifestato per il leader di Hamas Sinwar, invocando la deportazione degli ebrei in Polonia”, commenta il giornale degli ebrei tedeschi, Jüdische Allgemeine. E pensare che per Greta in Italia ci sono state soltanto porte girevoli: Mattarella, Draghi, il Papa, Tajani, e praticamente tutti i media. Non leggerete mai delle sue prodezze antisemite su un solo grande quotidiano italiano. È sorprendente la velocità con cui certe idee circolano e poi si integrano nel discorso anti-occidentale. Così, oltre alla sua battaglia per l’ecologia, in un perpetuo movimento “intersezionale” Greta Thunberg è riuscita a identificare i colpevoli: gli ex paesi colonizzatori (solo paesi occidentali), i razzisti (solo bianchi) e i sistemi patriarcali (a parte quelli della tradizione coranica). Questa New Age Woke si basa poi sulla convinzione che l'umanità sia entrata in una nuova era (la famosa era dell'Acquario) caratterizzata dall'avvento di una nuova spiritualità. Questa prospettiva sdolcinata sarebbe del tutto innocuea se non trasmettesse un’ostilità viscerale verso le due religioni che hanno fatto l’Occidente, vale a dire l’ebraismo e il cristianesimo. Così la “filosofa” Manon Garcia ha potuto affermare all’Università 1 di Parigi: “Non sono sicura che la donna nel suo harem abbia molta meno libertà della madre casalinga cattolica di Versailles”. Basta vedere cosa accade in questi giorni nell’alma mater dello scienziato climatico Ulf Büntgen, Cambridge, dove la cancel culture ha toccato la vertigine estrema: autocancellazione. L’università ha annunciato che il termine stesso “anglosassone” è diventato problematico, qualcosa di cui vergognarsi. Ma l’eminente storico di Cambridge David Abulafia ha fatto notare che a questo punto si dovrebbe rinunciare al termine stesso di Inghilterra, che altro non vuol dire che “terra degli Angli”. Ma allora chi ha abitato per secoli l’isola? Intanto Peter Thiel, il milionario conservatore americano, doveva barricarsi dentro Cambridge perché i fascisti rosso-verdi filo Hamas amici di Greta non lo facevano uscire. Chi vide giusto fu Michel Onfray, il filosofo francese, che la definì “la ragazza con una faccia da cyborg che ignora le emozioni: nessun sorriso, nessuna risata, nessuno stupore, nessun dolore, nessuna gioia. Pensate a queste bambole di silicone che annunciano la fine dell’umano e l’avvento del postumano. Ha la faccia, l’età, il sesso e il corpo di un cyborg del Terzo millennio. Quale anima vive in questo corpo senza carne? E’ difficile da sapere… Ogni venerdì esce da scuola offrendo in olocausto ciò che potrebbe imparare a scuola per salvare il pianeta. Il cyborg svedese ha persino annunciato che prevede di prendere un anno sabbatico per salvare il pianeta! In effetti, perché imparare le cose a scuola quando sai già tutto di tutto? Questa intelligenza è davvero artificiale, nel senso etimologico: è un artificio, in altre parole, un prodotto fabbricato. Il nostro tempo vede emergere re-bambini. Questo cyborg post-capitalista parla davvero in nome della scienza. Ma, dal culmine dei suoi sedici anni, cosa sa di astrofisica, cicli cosmici, tempeste solari e dei loro cicli. Per Greta Thunberg, sembra che la scienza sia ridotta al compendio di passaggi da recitare. E’ il mondo sottosopra! In uno spasmo di godimento sadomasochistico, tutti applaudono. E poi, il diavolo è nei dettagli, questo cyborg neutro, pallido come la morte, la sua faccia distesa dai perni del nulla, a volte firma le sue imprecazioni con l’indice e il dito medio di ogni mano, come per indicare le virgolette. Solo in questi casi sembra ancora umana. Non c’è niente di sbagliato in un bambino che vuole vedere fino a che punto il suo potere di far inginocchiare gli adulti è nell’ordine delle cose. Il peggio è in questi adulti che amano essere umiliati da una delle loro creature. Stiamo entrando nello stadio supremo del nichilismo”. Dopo il 7 ottobre in Olanda, Greta ha invitato a parlare una ragazza filo Hamas. Un uomo allora è saltato sul palco e, afferrando il microfono di Thunberg, ha detto con una certa rettitudine: “Sono venuto qui per una manifestazione sul clima, non per una visione politica”. Thunberg ha ripreso il microfono e iniziato a cantare: “Nessuna giustizia climatica sui territori occupati”. Non ci voleva uno scienziato o un professore di teoria politica per capire che questi slogan non hanno assolutamente senso. Ma quante altre celebrazioni della “resistenza” palestinese, quanti altri comportamenti nichilisti dovremo sopportare, prima che le élite smettano di vedere questi guerrieri del clima come santi e li riconoscano invece per quello che sono, rozzi emissari di una ideologia distruttiva? Al Gore e Greta Thunberg promettono di abbassare gli oceani; gli islamisti promettono un califfato. L’apocalittico verde che entro pochi anni il mondo sarà inabitabile. L’islamista che l’Europa sarà sottomessa alla sharia. Se proprio dovessi puntare… Non soltanto è Israele che fa arrivare l’acqua a Gaza. Non soltanto Israele è leader mondiale dell’utilizzo delle acque reflue. Non soltanto entro il 2030 un terzo di tutta l’energia israeliana arriverà da fonti rinnovabili. Israele è l’unico paese al mondo che oggi ha più alberi di un secolo fa. Ma tutto questo non sembra importare molto agli attivisti verdi. Il famoso ecologista svedese Andreas Malm - professore di geografia umana all’Università di Lund - dice di aver “gioito” quando Hamas ha massacrato 1.200 ebrei israeliani. Pensate che sia uno spostato? Malm in Italia è pubblicato da una casa editrice blasonata come Ponte alle grazie. “Gli arabi non dovrebbero essere gli unici a rispettare Mohammed Deïf”, afferma Malm, in riferimento al leader delle Brigate al Qassam, braccio armato di Hamas. Il Sabato Nero ha mostrato il vero volto di femministe, teoriche del gender, ecologisti, professori di scienze umane, media, antirazzisti, ovvero dei grandi gruppi di potere culturale. Una delle più grandi minacce per la civiltà occidentale sono le bugie autoprodotte dell’isteria climatica resa virale da Greta. Pillole suicide che i musulmani non prendono. The Atlantic racconta il “mondo verde senza bambini”. C’è un video della Bbc corredato da immagini catastrofiche intitolato “Climate Change: Are children really the future?”, per dare voce a chi ha deciso “di non avere figli, di fare la mia parte per i cambiamenti climatici”. Michael Meacher, ex ministro del Labour inglese, ha definito l’uomo un “virus”. “Il controllo della popolazione è la risposta al cambiamento climatico"?”, si domanda la tv pubblica canadese. L’appello “No future no children”, con l’immancabile sfondo di una foresta in fiamme, campeggia sulla home di Greenpeace. “E all'improvviso non ci sono abbastanza bambini e il mondo intero è allarmato” titola questa settimana il Wall Street Journal. “I tassi di natalità stanno diminuendo rapidamente in tutti i paesi, con conseguenze economiche, sociali e geopolitiche”. Per questo le Greta si meritano, come scrissi un anno fa, “di svegliarsi con la preghiera del muezzin”. E mentre Greta veniva portata via in manette, due attiviste ecologiste ultraottantenni rompevano la teca che custodisce la Magna Carta alla British Library di Londra. Sue Parfitt, donna-prete della chiesa anglicana, e Judy Bruce, insegnante di biologia, armate di martello e scalpello hanno ripetutamente colpito il vetro fino ad aprire una crepa, ma il prezioso documento non sembra aver subito danni. Assieme ai woke che marciano per Sinwar, esiste immagine più emblematica dell’autodistruzione senescente dell’Occidente di due vecchie passate da Greenpeace a Greta e che vogliono fare a pezzi la Magna Carta, firmata nel 1215 da re Giovanni Senzaterra, sotto la pressione dei suoi baroni, riconoscendo per la prima volta che nessuno è al di sopra della legge (compreso il sovrano) e che ognuno ha diritto a un processo equo? Di quell’atto fondamentale nella storia britannica ed europea ne restano quatto copie, due nella British Library e le altre nelle cattedrali inglesi di Lincoln e Salisbury. “La Magna Carta è venerata per la nostra storia, per le nostre libertà e per le nostre leggi”, ha detto Parfitt, vicario della Chiesa d'Inghilterra. “Ma non ci sarà libertà, né legalità, né diritti, se permettiamo il collasso climatico”. Resta da vedere se, oltre agli scienziati, i popoli europei, addestrati fin troppo a lungo a inchinarsi di fronte a minoranze violente e bugiarde - i cyborg alleati dei fondamentalisti islamici nella loro campagna contro l’Occidente - saranno pronti a riscoprirsi maggioranza.
(Newsletter di Giulio Meotti, 15 maggio 2024)
“Il fantomatico ’Stato di Palestina’ non può votare all’Assemblea Generale, ma può proporre risoluzioni, partecipare a commissioni, venire eletto nelle varie agenzie, eccetera. In pratica, può godere di uno status che non è neanche previsto nello Statuto dell’ONU, perciò è totalmente illegale, ma che è stato inventato dalla politica degli Stati che odiano Israele e ne vogliono la distruzione. Tutto ciò, nonostante l’ONU non sia deputato a creare gli Stati dal nulla ma a garantire solamente la pace tra di essi: esattamente l’opposto di quanto appLa risoluzione ha creato qualcosa di aberrante: l’ingresso all’ONU di un fantomatico stato che ha diritti ma non ha doveri. Per esempio, non deve pagare la quota annuale perché non ha diritto di voto (tanto non gli serve, avendo l’appoggio incondizionato di tutti i paesi islamici), ma usufruisce del diritto di proporre risoluzioni, di fare parte delle varie commissioni e agenzie.” Bisogna davvero essere moderati e angeli della pace come Abu Mazen, per dire quello che il premio Nobel per la Pace 2011, Karman Tawakkol, (senza dimenticare mai lo stesso premio conferito al lord of terror Yasser Arafat nel 1994) ha detto l’11 maggio in Vaticano, alla presenza, tra gli altri, del cardinale Mauro Gambetti, organizzatore della manifestazione #Be Human in vista del Giubileo 2025. Nihil sub sole novum, si intende. A Gaza sarebbe in corso una pulizia etnica insieme a un genocidio, ed è necessario “portare gli Stati Uniti dalla parte giusta della storia”, senza specificare se si intenda Hamas, anche se alla Tawakkol deve essere sfuggito che l’Amministrazione Biden sta da tempo facendo di tutto per avvantaggiare il gruppo jihadista costola palestinese della Fratellanza Musulmana a cui, nella sua declinazione yemenita, appartiene anche la Tawakkol. La sua appassionata difesa delle donne morte a Gaza in questi giorni, è stata necessariamente omissiva riguardo alle altre donne, quelle israeliane, stuprate e uccise il 7 ottobre, ma si sa, quando si perora la pace, e la parte giusta della storia, non si possono menzionare le vittime nemiche. È intervenuta l’Ambasciata di Israele, stigmatizzando il discorso come flagrantemente antisemita, ma che sia avvenuto in Vaticano, sede apostolica dove sarebbe assai opportuno che l’antisemitismo mascherato da antisionismo non avesse domicilio, di questi tempi non sorprende, come ha dovuto amaramente constatare poco tempo fa Riccardo Di Segni, Rabbino Capo di Roma.
Dopo il raccoglimento e cordoglio di Yom HaZikaron, il Giorno del Ricordo in memoria dei soldati uccisi in guerra e delle vittime del terrorismo, Israele festeggia oggi con Yom HaAtzmaut la sua indipendenza. Un 76esimo anniversario in tono minore, con il pensiero rivolto ai soldati caduti nella guerra contro Hamas e agli ostaggi ancora trattenuti a Gaza. «Questo è uno Yom HaAtzmaut diverso. Siamo orgogliosi della nostra indipendenza e del miracolo dello Stato d’Israele, ma i nostri cuori sono pieni di tristezza e dolore», ha detto il presidente israeliano Isaac Herzog durante una cerimonia nella sua residenza di Gerusalemme. Come già aveva fatto per Yom HaZikaron, Herzog ha ricordato che «non esiste comandamento più grande del riscatto dei prigionieri, e come ho detto bisogna agire con coraggio, scegliere la vita».
Molte le iniziative in tutta l’Italia ebraica, a partire dai tradizionali festeggiamenti svoltisi nel cortile della scuola comunitaria di Roma con l’intervento dei rappresentanti dello Stato d’Israele in Italia e di quelli dell’ebraismo romano e italiano. Vicinanza è stata espressa anche dalle istituzioni ai massimi livelli.
• Gli auguri di Mattarella
«I nostri paesi sono uniti da un legame profondo, fondato su valori comuni e cresciuto nel tempo grazie a un’ampia e diversificata collaborazione che ha promosso il benessere dei nostri popoli e una sempre più profonda conoscenza reciproca», scrive in un suo messaggio di felicitazioni il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. In questo giorno «di giustificato orgoglio del popolo israeliano, assistiamo con grandissima preoccupazione ai drammatici sviluppi nella regione, sempre più segnata da violenza e tensioni», aggiunge Mattarella nel messaggio inviato a Herzog. «In tale contesto, desidero ribadire l’impegno dell’Italia affinché Israele possa esercitare in pace e sicurezza il proprio diritto inalienabile a esistere». Con l’occasione Mattarella rinnova «la ferma condanna per l’atroce attacco terroristico del 7 ottobre e le espressioni del cordoglio della Repubblica Italiana e mio personale» e assicura a Herzog che «resta viva negli italiani tutti la speranza che gli ostaggi ancora nelle mani dei terroristi di Hamas possano essere quanto prima restituiti alla libertà e all’affetto dei propri cari». Per il Quirinale «è altresì indispensabile giungere a un’immediata cessazione delle ostilità nella Striscia di Gaza, anche per consentire il pieno accesso umanitario alla popolazione civile».
L’onda dell’odio antisemita, il Viminale: dopo il 7 ottobre triplicate minacce e insulti online
Nel 2024 già 400 segnalazioni, oltre 90 al mese. Il direttore del Museo della Brigata ebraica: «Dalle università alle tv, è ora di abbassare i toni»
di Luca Monticelli
Scritta comparsa sul muro dell’ex galoppatoio del Lido di Venezia
La senatrice Liliana Segre non si aspettava questa «ondata spaventosa di odio». Dopo il 7 ottobre gli ebrei italiani sono costretti a vivere in un clima ostile, i casi di antisemitismo sono triplicati rispetto al passato. Segre racconta di ricevere «minacce pazzesche», ma le intimidazioni e gli insulti raggiungono tanti cittadini di religione ebraica che «non c’entrano niente con le decisioni politiche di Israele e magari non le condividono», sottolinea la senatrice sopravvissuta ad Auschwitz. Le parole di Segre trovano riscontro nei numeri, come quelli dell’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad) diffusi ieri. Stando ai dati elaborati da associazioni e forze dell’ordine, dal 7 ottobre al 1° maggio l’Oscad conta 345 episodi riconducibili all’antisemitismo, tra cui 41 “hate crimes”, ossia crimini d’odio motivati da un pregiudizio, 175 casi di “hate speech” e 112 di incitamento all’odio online. In questo periodo, ricorda il rapporto presentato al memoriale della Shoah a Milano, si sono svolte 1.378 manifestazioni, di cui 1.109 in solidarietà al popolo palestinese e solo 39 a sostegno dello Stato di Israele. Mentre Segre confidava tutta la sua amarezza, arrivava alla Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea, il Cdec, la segnalazione di una scritta choc contro gli ebrei (poi cancellata) sul muro dell’ex galoppatoio del Lido di Venezia: “Vi cercheremo casa per casa e vi sgozzeremo”. La spaventosa onda antisemita che sta investendo il nostro Paese non viene dal nulla», evidenzia Davide Romano, direttore del Museo della Brigata ebraica di Milano, che aggiunge: «È da ottobre che diciamo di abbassare i toni, ma dal mondo universitario a quello di certi salotti televisivi si continuano a usare parole malate che portano a comportamenti malati. Si susseguono manifestazioni violente dei pro Palestina che dalle università al 25 aprile, passando per le presentazioni di libri, minacciano chi la pensa diversamente». Il Cdec fa sapere che nel 2024, tra gennaio e aprile, gli episodi di antisemitismo catalogati sono 400, oltre 90 in media al mese. Un numero altissimo, se si considera che in tutto il 2023 erano stati 454, il doppio del 2022. Alla fine del 2024, quindi, gli eventi antisemiti noti potrebbero essere oltre il triplo in confronto agli anni pre 7 ottobre. Dati che collimano con il rapporto sull’antisemitismo nel mondo pubblicato dall’Anti-Defamation League, organizzazione con sede a New York. Secondo il centro studi americano la guerra a Gaza ha scatenato uno tsunami di odio contro le comunità ebraiche in tutto il mondo: «Quello che è avvenuto dopo il 7 ottobre ha moltiplicato attacchi da destra e da sinistra contro gli ebrei». La tesi del rapporto, uscito la settimana scorsa, è che se continuano le tendenze attuali diventerà impossibile per gli ebrei vivere apertamente in Occidente, indossare la stella di David o frequentare sinagoghe e scuole ebraiche. Anche l’Ugei, l’Unione dei giovani ebrei, dice il vice presidente Ioel Roccas, ha raccolto attraverso una “Hot line” 115 segnalazioni di episodi di antisemitismo tra ottobre e marzo, ben 60 casi solo tra ottobre e novembre, «numeri esorbitanti se confrontati con gli anni precedenti». Roccas condivide le preoccupazioni degli studenti ebrei e israeliani che dal massacro di Hamas e lo scoppio della guerra a Gaza vanno a lezione con paura. «Abbiamo visto sui banchi della aule disegni di svastiche intrecciate a stelle di David e adesivi con il volto di Leila Khaled», esponente storica del Fronte per la liberazione della Palestina che partecipò a due dirottamenti negli Anni 70, e che negli ultimi mesi è stata invitata in diversi atenei italiani. «Ormai slogan come “From the river to the sea” e “Intifada” sono sdoganati. Per noi giovani ebrei è diventato impossibile confrontarci con chi organizza le occupazioni e urla “fuori i sionisti dalle università”. Non c’è dialogo nelle assemblee, c’è una vera e propria censura», continua Roccas che era in piazza il 25 aprile quando il corteo pro palestinese di Roma spostandosi da Porta San Paolo a Centocelle intonava cori «contro i media “servi del sionismo e del capitalismo ebraico». Questa è la settimana in cui si temono nuovi scontri nelle università: Torino, Padova, Roma e Napoli le città più calde. Nelle comunità ebraiche c’è grande inquietudine: oggi è Yom HaAtzmaut, l’anniversario della nascita di Israele, domani il mondo arabo ricorda la Nakba, “la memoria della catastrofe”. «Che cosa succederà? Dobbiamo aver paura di uscire di casa e andare all’università?», si chiede un giovane della comunità romana che preferisce rimanere anonimo. Alla Sapienza, ieri, all’assemblea degli studenti era presente Noura Erakat, docente in studi africani della Rutgers, famosa università del New Jersey. Erakat è intervenuta anche alle proteste della Columbia a New York e secondo alcune ricostruzioni della stampa anglosassone in passato ha partecipato a un workshop online con uno dei leader di Hamas, Gazi Hamad. L’Unione dei giovani ebrei italiani risponde lanciando un appello «a rettori, senati accademici e ministeri affinché gli atenei non diventino luogo di censura e intolleranza».
(La Stampa, 14 maggio 2024)
“Oggi proviamo sentimenti contrastanti: la gioia per questa festa e l’angoscia e il dolore per gli ostaggi che sono ancora a Gaza”. Queste le parole del presidente della Comunità Ebraica di Roma Victor Fadlun, che riassumono il mix di emozioni del mondo ebraico, che ieri sera ha festeggiato il 76esimo anniversario dell’Indipendenza dello stato d’Israele. Organizzata presso il Palazzo della Cultura dal Dipartimento Educativo Ufficio Giovani, la festa ha visto grandi e piccini festeggiare con canti e balli l’anniversario dell’indipendenza dello Stato d’Israele che cade ogni anno il 5 di Iyar.
Nell’arco dei festeggiamenti si sono susseguiti diversi discorsi, in particolare quelli del presidente Fadlun e dell’ambasciatore dello Stato d’Israele in Italia, Alon Bar. “Oggi ribadiamo la nostra volontà di difendere Israele e preghiamo affinché il prossimo Yom HaAtzmaut si possa festeggiare con gioia” ha sottolineato Fadlun, che si è soffermato sulle conseguenze che il 7 ottobre e la guerra hanno portato con sé. “Ci troviamo ancora una volta sotto attacco e obbligati a difenderci, e vinceremo anche questa volta perché alla nostra libertà teniamo più di qualunque altra cosa”.
“Quest’anno è stato molto difficile per Israele – ha affermato l’ambasciatore – con sfide senza precedenti per la nostra gente, ma nonostante ciò siamo qui”. Alon Bar si è voluto soffermare soprattutto sul valore della resilienza dello Stato ebraico. “Sono sicuro che supereremo insieme questo periodo, usciremo più forti, più saggi e consapevoli del nostro destino” ha aggiunto, sottolineando come lo spirito e la vicinanza della comunità ebraica romana siano “fonte di ispirazione per tutti noi”.
Durante la serata hanno preso la parola anche alcuni educatori delle scuole ebraiche romane, come la direttrice degli Asili Infantili Israelitici Giorgia Di Veroli e la direttrice uscente della scuola elementare Milena Pavoncello, che ha raccontato come l’amore per Eretz Israel “nella nostra scuola sia iniziato ancor prima della costituzione dello Stato d’Israele” e come sia stato ribadito con forza dopo il 7 ottobre.
Anche i giovani durante i festeggiamenti hanno potuto lanciare un messaggio in questa giornata di festa. Dai borsisti del Dipartimento Educativo Ufficio Giovani, che hanno organizzato un piccolo flash mob per gli ostaggi, ai movimenti giovanili del Benè Akiva e dell’Hashomer Hatzair, fino ad arrivare ai più grandi, con il morè Eitan Della Rocca per Tiferet Chaim e il presidente dell’Unione Giovani Ebrei d’Italia Luca Spizzichino.
L’inchiesta del New York Times sulla “Stasi di Hamas” svela l’oppressione segreta dell'organizzazione terroristica su giovani, giornalisti e persone che mettevano in discussione il governo.
Consiglio di lettura per le brigate filopalestinesi: ieri un articolo del New York Times, uno scoop, ha rivelato che i terroristi di Hamas non dominano come predoni sui palestinesi soltanto con la forza bruta. Secondo numerosi documenti ottenuti dall’intelligence israeliana e visionati dal New York Times, il capo dell’organizzazione Yahya Sinwar ha organizzato e dominato per anni un distaccamento di polizia segreta che sorvegliava gli abitanti dell’exclave e compilava dossier su giovani, giornalisti e persone che mettevano in discussione il governo. Non soltanto molti residenti della Striscia sono finiti sotto la repressione di questo corpo segreto per aver partecipato a proteste o criticato Hamas. Sinwar era interessato anche ai sospettati di intrattenere relazioni romantiche fuori dal matrimonio.
• Una specie di Stasi islamica
“Questo Servizio di sicurezza generale è esattamente come la Stasi della Germania est”, ha commentato Michael Milshtein, un’ex ufficiale dell’intelligence militare israeliana specializzato negli affari palestinesi. “Ha sempre un occhio nelle strade”. Prima della guerra in corso, l’unità aveva un budget mensile di 120mila dollari ed era composta da 856 persone, 160 delle quali erano pagate per diffondere la propaganda di Hamas. Noto come il “macellaio di Khan Younis”, Sinwar ha assassinato con le proprie mani dodici palestinesi, accusati di “collaborare” con Israele. Nel 1988, durante un interrogatorio, Sinwar ha spiegato di aver arrestato un uomo mentre era a letto con la moglie. “Dopo averlo strangolato, l’ho avvolto in un sudario e chiuso la tomba” ha detto Sinwar. Micha Koubi, che ha interrogato personalmente Sinwar, ha ricordato la confessione che lo ha colpito di più. Sinwar ha raccontato di aver costretto un uomo a seppellire vivo suo fratello perché sospettato di lavorare per Israele. “I suoi occhi erano pieni di felicità quando ci ha raccontato questa storia”. Liberiamo Gaza da Hamas.
Ma Joe Biden, sta con Israele oppure sta con Hamas?
Non riesco a capire il motivo per cui una notizia da prima pagina venga relegata (quando va bene) in settima pagina o addirittura ignorata. Eppure, se è vero che gli americani sanno dov'è Sinwar e non l'hanno detto agli israeliani per avere un'arma di ricatto su di loro, la notizia dimostrerebbe che Joe Biden non sta affatto con Israele.
di Franco Londei
È incredibile come si sia parlato poco o niente della proposta avanzata dagli Stati Uniti a Israele e rivelata sabato scorso dal Washington Post.
In sostanza gli americani avrebbero offerto a Israele «informazioni sensibili per aiutare l’esercito israeliano a individuare la posizione dei leader di Hamas, degli ostaggi e a trovare i tunnel nascosti del gruppo» a condizione però Israele avesse rinunciato all’operazione su Rafah.
Cosa significa questo? Che gli Stati Uniti hanno avuto queste informazioni e hanno scelto di non condividerle con gli israeliani, a meno che questi non facciano concessioni per non lanciare un raid su larga scala su Rafah?
Ma davvero? Non era Biden che subito dopo la strage del 7 ottobre disse: «Non mancheremo mai di coprirvi le spalle. Ci assicureremo che abbiate l’aiuto di cui avete bisogno e che possiate continuare a difendervi».
A quanto pare, Biden non ritiene che gli israeliani debbano sapere dove si trovano i leader di Hamas, che sono sempre circondati da ostaggi per scoraggiare le incursioni.
Insomma, gli Stati Uniti sanno dove si nascondono i leader di Hamas ma non lo dicono agli israeliani?
Per un momento, dimenticate di prendere alla sprovvista gli israeliani e di non dire loro delle concessioni americane ad Hamas purché accettassero un accordo per il cessate il fuoco, dimenticate il molo di Gaza, dimenticate il taglio delle esportazioni di armi verso Israele… rispetto a questo sono tutte cose secondarie. Se gli americani sanno dove si nascondono i leader di Hamas come Yahya Sinwar, l’architetto accusato degli attentati del 7 ottobre, perché non dovrebbero dirlo agli israeliani? Perché dovrebbero proteggere i leader di Hamas?
Perché stanno proteggendo le vite dei leader di un’organizzazione terroristica che ha preso in ostaggio degli americani?
Da mesi si dice che Sinwar tenga intorno a sé degli ostaggi per scoraggiare qualsiasi operazione volta a catturarlo o ucciderlo. Quindi se gli americani sanno dove sono i leader di Hamas, probabilmente sanno dove si trovano almeno alcuni degli ostaggi. E si rifiutano di condividere queste informazioni con gli israeliani, a meno che non facciano concessioni? Ma davvero?
Da che parte sta Biden? Da che parte stanno gli americani? Perché in questo momento sembra proprio che si stiano comportando come l’avvocato difensore di Hamas, cercando di ottenere il miglior accordo possibile.
Quando Biden andò in Israele subito dopo il massacro del 7 ottobre disse:
In questo momento di tragedia, voglio dire a loro [gli israeliani], al mondo e ai terroristi di tutto il mondo che gli Stati Uniti stanno dalla parte di Israele. Non mancheremo mai di proteggerli.
Faremo in modo che abbiano l’aiuto di cui i loro cittadini hanno bisogno e che possano continuare a difendersi. . . .
E il sostegno della mia amministrazione alla sicurezza di Israele è solido e incrollabile. . . .
E non ci siano errori: gli Stati Uniti stanno dalla parte dello Stato di Israele, proprio come hanno fatto dal momento in cui sono diventati la prima nazione a riconoscere Israele, 11 minuti dopo la sua fondazione, 75 anni fa.
Ebbene, da allora ogni singola parola di quella promessa è stata infranta.
Molti democratici sanno che la posizione del presidente sul conflitto è, nella migliore delle ipotesi, un miscuglio contraddittorio. È iniziato con le parole e le azioni giuste, e si è lentamente trasformato in una posizione de facto pro-Hamas, guidato da un’idea spettacolarmente sbagliata secondo cui l’intera elezione presidenziale dipende dal Michigan (lo stato più “musulmano” degli Stati Uniti) e che la vittoria nel Michigan dipenda da Elettori arabo-americani, musulmani-americani e palestinesi-americani.
Biden cerca anche l’approvazione dei giovani universitari che contestano Israele. Eppure la maggior parte dei giovani accaniti manifestanti anti-israeliani non sa niente del Medio Oriente, non sa di quale fiume e di quale mare stanno cantando, e opera con una mentalità “oppressore coloniale contro nobile selvaggio” che interpreta in maniera totalmente sbagliata la storia degli israeliani e dei palestinesi.
Quindi ripeto la domanda del titolo: da che parte sta Joe Biden? Da quella di Israele o da quella di Hamas?
(Rights Reporter, 14 maggio 2024) ____________________
"Da che parte sta Joe Biden? Da quella di Israele o da quella di Hamas?” Bella domanda. E l’autore, un indubbio amico di Israele, non sa rispondere. Sono già un po’ di volte che nei suoi articoli questo autore ripete: “Non riesco a capire”. Quello che non capisce è la politica dell’America, anzitutto, e ora gli rimane oscuro il comportamento della “grande” stampa italiana. Il che è come dire che continua a non capire la politica americana, perché è sempre dall’America che arrivano le istruzioni su quello che deve dire e non dire la "grande stampa" italiana. L’autore ha dimostrato di non aver capito come stanno le cose neppure quando ha appoggiato pienamente la politica americana contro la Russia e si è unito alla campagna contro i famigerati “putiniani”. Con questo si vuol solo far notare, e questo potrebbe riguardare anche altri commentatori di Israele, che l’autore conosce molti fatti, li riporta con cura e li sa anche raccontare bene, ma in sostanza non li capisce. Perché non li sa collocare nel loro autentico contesto e non ne capisce l’aspetto essenziale. M.C.
Merita una riflessione l’ultimo atto del 68esimo Eurovision Song Contest di sabato scorso a Malmö che ha tenuto il pubblico mondiale col fiato sospeso. Soprattutto per l’encomiabile performance di Eden Golan che, con la canzone “Hurricane”, ha suscitato forti emozioni nei suoi sostenitori ma anche tensioni a causa delle azioni degliodiatori e dei loro sostenitori sui social media e altrove. La canzone, molto bella e intensa, è stata rielaborata da una traccia precedente chiamata “October Rain” che si pensava fosse un riferimento agli attacchi di Hamas contro Israele.
• Di fatto la serata di gara canora si è trasformata in un’arena La competizione non si è infatti limitata alla musica così come avrebbe dovuto, ma è diventata un contesto politico. La giovane e talentuosa cantante israeliana è stata oggetto di una persecuzione così estrema che ha richiesto perfino un convoglio di scorta composto da più automobili solo per spostarsi dall’hotel al luogo dell’evento. Non solo: durante una conferenza stampa le è stato chiesto se avesse riflettuto sul fatto che la sua presenza avrebbe potuto comportare un rischio per altri partecipanti e per il pubblico, una provocazione fuori luogo a cui la ventenne ha risposto con un equilibrio e una compostezza ammirevoli per la giovane età. Nonostante le proteste nel corso della serata finale nei suoi confronti, il pubblico di 15 Paesi su 25 ha assegnato a Israele il numero massimo di 12 punti, consentendogli di battere il record per il numero di punti assegnati dagli spettatori. In totale, lo Stato ebraico, che alla fine del voto della giuria era solo dodicesimo con 52 punti, ne ha raccolti altri 323 dei telespettatori che gli hanno permesso di salire al quinto posto nella competizione. Un divario così significativotra il giudizio delle cosiddette giurie nazionali “professionali” e il sostegno del pubblico non si era mai visto. Un colpo di scena che ha sollevato non pochi interrogativi sul motivo per cui si sia verificato un così netto contrasto sulla performance della ventenne Eden Golan, soprattutto considerando che rappresenta Israele. Gli spettatori provenienti da Australia, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, San Marino, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito e il “resto del mondo” (Paesi senza partecipanti all’Eurovision) hanno premiato Israele 12 punti, mentre altri sette gli hanno assegnato 10 punti. Le giurie della maggior parte di questi Paesi non hanno assegnato alcun punto allo Stato ebraico.
• Un boicottaggio durato mesi Già nei mesi scorsi la partecipazione di Israele, come avevamo segnalato su questo stesso sito, è stata messa in discussione suscitando non poche tensioni e polemiche. Fino alle contestazioni degli odiatori di Israele che hanno accolto Eden durante la prova generale per la seconda semifinale di giovedì 9 maggio da fischi e grida di “Palestina libera”. Ingiurie, insulti e cattiverie che la giovane cantante ha dovuto affrontare con autocontrollo e grande coraggio e senza scomporsi nei confronti di quella parte di mondo intollerante. Come se non bastasse, durante l’evento, fuori dall’arena si sono svolte manifestazioni pro-Palestina, con l’attivista svedese per il clima Greta Thunberg allontanata dalla polizia.
(Bet Magazine Mosaico, 13 maggio 2024)
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Onore a Eden Golan
Carmela, nostra cara sorella in fede, ci ha trasmesso i sentimenti con cui ha vissuto la premiazione di Eurovision. La ringraziamo e pensiamo sia cosa utile farli conoscere anche ad altri. A sollievo di tutti coloro che amano Israele.
Dal palco canoro melmoso di Malmö una ragazza giovane e bella emerge come un angelo! In mezzo a tanto pantano pensi che si lasci affievolire… invece, esuberante e imperterrita affronta i leoni antisemiti come un gladiatore! Combattente e determinata! Che esempio d’amore per la sua Nazione: ISRAELE! La sua voce è penetrante, il suo urlo è un pugno nel petto, il suo incedere è elegante, avvolta in un vestito etereo… tutto di lei è armonioso, luminoso… la vincente!!! Ho letto alcuni retroscena, commenti di becero antisemitismo che ormai è scoppiato come un’ulcera maligna in tutto il mondo! Le menzogne su Israele si mietono e io come credente so che non è il tempo di sonnecchiare! Ho votato tutti i voti che potevo dare e ho visto, grazie a Dio, che in Italia nelle due serate decisive le hanno dato il massimo punteggio! Onore a Eden Golan che ha portato in alto ISRAELE e soprattutto lode al nostro Dio che è Sovrano su tutto e su tutti! Israele vive!!! Dimenticavo questa data così importante per Israele: il suo compleanno!!! E questo risultato di Eden Golan con gli amici della coreografia è un bel regalo per ISRAELE in questo momento di estremo dolore per gli ostaggi e la guerra in corso. Il Signore, però non sonnecchia, né dorme, Lui veglia e opera sempre con la forza della sua potenza!
• La cerimonia Erano le quattro di pomeriggio del 14 maggio 1948, in data ebraica il 5 del mese di Iyar 5708 (stranamente le date quest’anno quasi coincidono di nuovo). La sala al piano terra del vecchio museo d’arte contemporanea di Tel Aviv in Boulevard Rotschild 16, che era stata la villa del mitico sindaco Meir Dizengoff, era strapiena: duecentocinquanta persone, quasi tutte vestite di scuro, in giacca camicia bianca e cravatta, contro tutte le abitudini dell’Yishuv, l’insediamento ebraico in Terra di Israele. Sul palco in fondo alla sala c’erano 25 membri del comitato esecutivo dell’Agenzia Ebraica (Moetz HaAm, il governo de facto dell’Yishuv), mentre gli altri 12 erano bloccati all’estero o assediati a Gerusalemme. Sulla parete sopra a loro, una grande fotografia di Herzl e due bandiere del nuovo Stato. Ben Gurion aprì la riunione battendo il martelletto sul tavolo, ed i presenti intonarono l’ Hatiqvah. La lettura di Ben Gurion della dichiarazione durò 16 minuti, e si concluse con la clausola: “Chi accetta la dichiarazione della fondazione dello Stato ebraico ora si alzi”. L’accettazione fu unanime. Contro le abitudini delle riunioni dall’Agenzia era presente anche un rabbino, rav Fishman, che pronunciò la benedizione “Sheheheyanu”, quella che si usa per le novità positive. La cerimonia continuò con l’inno eseguito dall’Orchestra filarmonica di Israele e Ben Gurion la concluse annunciando: «Lo Stato d’Israele è istituito! Questo incontro è aggiornato!». Non c’era tempo da perdere in festeggiamenti, la guerra civile con gli arabi era in corso da sei mesi e già si sapeva che il giorno dopo gli eserciti dei sei stati arabi avrebbero invaso il piccolo territorio tenuto dall’Yshuv.
• Il compleanno Questa sera dunque inizia la giornata che segna il settantaseiesimo compleanno di Israele: è un’età ormai ragguardevole anche per uno Stato (ce n’è di molto più vecchi come la Gran Bretagna e la Cina; ma tanti anche più giovani, almeno come istituzioni riconosciute). E anche stasera in Israele si farà festa, si ballerà in piazza, ci si rallegrerà della vita di un Paese la cui popolazione è comunque al quarto posto al mondo per la felicità. Ma pure oggi la guerra incombe e non c’è molto tempo per le feste. Gli aerei da guerra voleranno come sempre domattina, ma accanto alla parata aerea degli anni normali saranno impegnati nei loro compiti di difesa. E però il compleanno dello Stato ebraico va celebrato nella diaspora come in Israele, se non altro per continuare ad aver coscienza di che straordinario evento si sia trattato.
• Un gesto di straordinario coraggio Quando Ben Gurion decise di forzare la mano ai dirigenti dell’Yishuv e di proclamare l’indipendenza, erano passati quasi 19 secoli dalla caduta di Gerusalemme e dell’ultima autonomia ebraica. C’era stata la profezia di Herzl e ottant’anni di immigrati che avevano provato a far fruttare la terra, la lingua era tornata viva, c’erano le scuole e le università, l’amministrazione e una inizio di esercito, insomma l’intelaiatura dello Stato; ma fu un gesto di straordinario coraggio. Erano contrari gli europei e in particolare la Gran Bretagna, ma anche il Dipartimento di Stato americano (non Truman per fortuna). E anche dentro il mondo ebraico molti consideravano avventata la proclamazione dello Stato: la maggioranza dei charedim, ma anche ebrei progressisti come Hannah Arendt e Leon Magnes (fondatore dell’Università ebraica di Gerusalemme) fecero campagna contro l’indipendenza; Martin Buber si era espresso contro e perfino Chaim Weizmann era perplesso. Gli eserciti arabi, almeno sulla carta, erano assai più forti e organizzati di quello del neonato Israele, cui mancava quasi tutto. L’appoggio dell’Urss era solo tattico, inteso a creare problemi all’Occidente, come si sarebbe visto presto. L’economia, retta dal volontaristico sistema dei kibbutz, zoppicava.
• Lo straordinario progresso e le speranze Ma il miracolo avvenne, Israele superò la guerra, vinse, crebbe, resistette ad altre guerre e al terrorismo, riuscì a produrre un sistema politico, economico, scientifico e civile di straordinaria efficacia, anche grazie alla sua capacità di cambiare: di passare dalla camicia di forza di una specie di socialismo non politicamente oppressivo ma molto burocratico a un capitalismo tecnologico fra i più avanzati al mondo; di integrare un milione e passa di immigrati dall’Unione Sovietica e altri dall’Etiopia, dallo Yemen, da tutto il mondo; di liquidare il predominio politico della sinistra e di superare anche errori come la ricerca di compromessi con il terrorismo nel nome della “pace”. La scommessa di Ben Gurion è stato forse il maggior successo politico del XX secolo. Da alcuni anni il motore politico e istituzionale di questo progresso sembra però essersi inceppato. Le elezioni a ripetizione; l’incapacità di costruire maggioranze stabili; l’odio per Netanyahu che ha bloccato a lungo l’attuazione delle scelte chiaramente di centrodestra dell’elettorato; poi la lunga e astiosa guerriglia di piazza contro il progetto parlamentare legittimo della riforma giudiziaria, che ha proiettato un’immagine indebolita dello Stato e dell’esercito dando ai nemici di Israele, Iran in testa, l’illusione di poter prevalere; il conseguente barbaro pogrom del 7 ottobre; la difficoltà di condurre la guerra anche contro le resistenze degli alleati riluttanti a permettere a Israele di sconfiggere il terrorismo: tutti questi problemi hanno suscitato turbamento e pessimismo. Ma forse proprio la guerra sta obbligando gli israeliani cementare una nuova unità e una nuova speranza. Oggi che è il compleanno di Israele tutti gli ebrei del mondo e i loro amici sentono nel cuore l’urgenza di augurare lunga vita allo Stato ebraico e, perché essa sia raggiunta concordia, fratellanza… e pazienza. Come si dice in ebraico: mazal tov, buona stella.
Egitto contro Israele alla Corte Penale Internazionale
di Sarah G. Frankl
Secondo quanto si apprende da fonti del Cairo, l’Egitto sarebbe intenzionato a unirsi al Sudafrica nella denuncia per genocidio contro Israele alla Corte Penale Internazionale (CPI).
L’Egitto ha affermato che la decisione «giunge alla luce dell’aggravarsi della gravità e della portata degli attacchi israeliani contro i civili palestinesi nella Striscia di Gaza, e della continua perpetrazione di pratiche sistematiche contro il popolo palestinese, tra cui l’attacco diretto ai civili e la distruzione delle infrastrutture nella Striscia, spingendo i palestinesi a fuggire».
La Corte Penale Internazionale dell’Aia, nei Paesi Bassi, sta esaminando l’accusa del Sudafrica secondo cui l’offensiva aerea e terrestre di Israele a Gaza, lanciata dopo il massacro del 7 ottobre da parte di Hamas, è finalizzata alla «distruzione della popolazione» dell’enclave palestinese.
Israele respinge le accuse come false e diffamatorie, affermando di rispettare il diritto internazionale e di avere il diritto di difendersi dopo che, il 7 ottobre, circa 3.000 terroristi guidati da Hamas hanno fatto irruzione in Israele attraverso il confine, uccidendo circa 1.200 persone e sequestrando 252 ostaggi tra atti di brutalità e violenza sessuale.
La decisione dell’Egitto arriva mentre Israele sta portando avanti una operazione limitata nella città di Rafah volta a stanare gli ultimi battaglioni di Hamas nonché i loro leader.
Il Cairo ha sigillato i suoi confini e nega ai palestinesi in fuga l’accesso ad un luogo sicuro.
«A Gaza è in atto una pulizia etnica e un genocidio da parte di Israele». E ancora. «Bisogna fare in modo di portare l'America dalla parte giusta della storia e impedire che venda armi ai regimi o alle occupazioni che uccidono donne e bambini. Non dovrebbero stabilire alleanze con dittatori o coloro che sono colpevoli di occupazioni». Il concerto vaticano di ieri sera - organizzato nell'atrio della Basilica di San Pietro con Allevi e Vecchioni - si è ad un tratto trasformato in un comizio pro-pal senza che la conduttrice Eleonora Daniele intervenisse per mitigare l'inarrestabile intervento del Premio Nobel per la Pace del 2011, la yemenita Karman Tawakkol, giornalista e attivista politica. In prima fila c'erano anche il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri e il cardinale Mauro Gambetti, organizzatore della manifestazione #BeHuman benedetta da Papa Francesco per preparare il Giubileo 2025. Tawakkol
era appena stata chiamata sul palco subito dopo l'esibizione di Gart Brooks, un famoso cantante country americano e le era stato chiesto della sua attività per i diritti delle donne. Ha così dato il via ad un appassionato discorso in lingua inglese partendo dal concetto di pace in assenza di oppressione e occupazione. «Esattamente quello che sta accadendo in Palestina, dove le donne pagano un prezzo altissimo, enorme e di fronte a tutto il mondo. Anche se il mondo ora tace di fronte al genocidio e alla pulizia etnica e a quello che sta accadendo al popolo palestinese a Gaza». Tawakkol è stata interrotta da lunghi applausi e così ha ripreso. «Perché si uccidono le donne a Gaza ogni giorno, vengono uccise ogni giorno». L'attivista per i diritti delle donne non menziona affatto le donne israeliane stuprate in massa il 7 ottobre. Ha poi ringraziato per l'iniziativa organizzata dalla Fondazione Fratelli Tutti diretta dal cardinale Gambetti aggiungendo anche di essersi commossa tanto quando il giorno prima ha ascoltato, proprio davanti al suo albergo a Roma, un gruppo di universitari che manifestavano per la Palestina e urlavano “Free Palestine”. «Questa a mio parere è una vittoria per tutti, non solo per il popolo palestinese. Dovete battervi contro i vostri governi - ha aggiunto - e dire di porre fine alla guerra, di non vendere le armi che uccidono le donne nel mio paese e nella mia regione. Gli studenti che stanno manifestando in America si battono non solo contro il genocidio a Gaza ma si sacrificano per cercare di far in modo che l'America venga portata sul lato giusto della storia».
(Il Messaggero, 12 maggio 2024) ____________________
Il Vaticano, sede della CCR (Chiesa Cattolica Romana), da dove per secoli è partita l’accusa agli ebrei di “deicidio”, oggi si applaude a chi accusa lo Stato degli ebrei di “genocidio”. “Not in my name”, non può che ripetere il credente nel Gesù degli Evangeli. Piccola consolazione è il leggere che la giornalista precisa che “l’attivista per i diritti delle donne non menziona affatto le donne israeliane stuprate in massa il 7 ottobre”, e anche che nel quotidiano si trova la citazione di un articolo della storica Tamara Herzig, docente all’Università di Tel Aviv, dal titolo: «Perché le femministe italiane continuano ad ignorare le donne stuprate il 7 ottobre?»
Israele, un popolo perdonato
«Nella Chiesa di Cristo non abbiamo mai perso di vista l'idea che il "popolo eletto", che crocifisse il Salvatore del mondo, debba scontare la malvagità di tale azione con una storia irta di sofferenze.»
Forse molti cristiani riterranno del tutto condivisibile una frase come questa, ed è anche naturale pensarlo, visto che proviene dalla bocca di un personaggio altamente rispettato dellarecente storia della Chiesa: il pastore luterano Dietrich Bonhoeffer, che insieme ad altri cospiratori cercò di opporsi segretamente al nazismo di Hitler e per questo morì impiccato nell’aprile del 1945, pochi giorni prima della fine della seconda guerra mondiale. Anche nel caso di Bonhoeffer qualcuno ha detto che non si tratta di antisemitismo, ma di “antigiudaismo teologico”, e ancora una volta l’aggettivo “teologico” dovrebbe servire a sminuire la gravità dell’affermazione. In realtà, è vero il contrario: proprio il riferimento a Cristo trasforma dichiarazioni come questa in diabolici strumenti di legittimazione dell’odio contro gli ebrei. La frase di Dietrich Bonhoeffer è teologicamente errata e quindi gravida di inquietanti conseguenze.La dottrina di Lutero sugli ebrei ha infettato subdolamente il protestantesimo tedesco impedendo a molti di riconoscere la diabolicità dell’ideologia nazista. Anche quei cristiani che, come Bonhoeffer, hanno riconosciuto la perversità politica del nazismo, non hanno potuto contrastare con successo chi stava portando la Germania e tutto il mondo verso il baratro proprio perché non hanno saputo riconoscere che gli ebrei erano l’obiettivo di un odio satanico. Non bastariconoscere genericamente, come ha fatto anche la chiesa cattolica, che l’accusa di deicidio non sta in piedi; non basta ammettere con voce flebile che, sì, l’accanimento contro gli ebrei non è stata una bella cosa e dichiarare umilmente di esserne pentiti. Certi pentimenti tardivi, fatti a cose compiute, quando il misfatto ormai è innegabile, esprimono soltanto il desiderio di sbarazzarsi di certi scheletri nell’armadio del proprio passato al solo fine di porre un termine a continui sgradevoli rinfacciamenti. Capire come stanno veramente le cose dal punto di vista biblico in molti casi significa cambiare radicalmente posizione e atteggiamento. Se questo non avviene, vuol dire che si tratta soltanto di ripuliture di facciata. Dire che «il popolo eletto, che crocifisse il Salvatore del mondo, deve scontare la malvagità di tale azione con una storia irta di sofferenze» è una frase radicalmente e fatalmente errata sul piano biblico. Se si ritira l’accusa di deicidio ma si mantiene una frase come questa, si resta dalla parte degli antisemiti e si aprono le porte a un altro genocidio. Chi ritiene eccessiva questa affermazione probabilmente non tiene conto della presenza di un personaggio che da sempre è interessato alla “questione ebraica”: Satana. Molti sono restii a far intervenire Satana in una questione che secondo loro dovrebbe essere esaminata con criteri puramente politici, e invece è proprio l’intervento di questa figura biblica che, senza togliere responsabilità agli uomini, fa arrivare l’odio contro gli ebrei ad una misura a cui molti inizialmente non pensavano di arrivare. Molti papi, per esempio, cercarono spesso di contrastare gli eccessi antisemiti a cui si abbandonava il popolino su istigazione del basso clero, ma non si rendevano conto che era proprio la loro dottrina a favorire, se non provocare, quegli scoppi di odio. Deve essere abbandonata una volta per tutte l’idea che dopo la morte di Gesù Dio mantenga un volto adirato verso il suo popolo e proprio per questo motivo lo sottoponga a innumerevoli sofferenze. Questo è il punto fondamentale da sottolineare. E’ vero esattamente il contrario: con la morte di Gesù Dio ha perdonato il suo popolo. Dio era adirato con Israele prima della venuta di Gesù, fin dal tempo di Isaia, e anche per questo aveva mantenuto il silenzio per circa quattrocento anni. Ma attraverso i profeti, a cominciare proprio da Isaia, aveva annunciato il giorno in cui si sarebbe riconciliato con il suo popolo, perché Egli stesso si sarebbe caricato dei suoi peccati e avrebbe perdonato la sua iniquità.
“Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e proclamatele che il tempo della sua schiavitù è compiuto; che il debito della sua iniquità è pagato, che essa ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati. La voce di uno grida: «Preparate nel deserto la via del Signore, appianate nei luoghi aridi una strada per il nostro Dio! Ogni valle sia colmata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; i luoghi scoscesi siano livellati, i luoghi accidentati diventino pianeggianti»” (Isaia 40:1-4).
Il “debito della sua iniquità” è stato pagato quando Gesù è morto in croce “colpito a causa dei peccati del mio popolo” (Isaia 53:8). Prima che per i miei peccati personali, Gesù è morto per i peccati del suo popolo, cioè di Israele. Accogliere per sé il perdono e dichiarare che il popolo d’Israele si trova ancora sotto l’ira di Dio a causa dei suoi peccati perché ha ucciso il Messia significa praticare una distorsione del messaggio biblico che prima o poi conduce ad atteggiamenti antisemiti.
L’Amministrazione Biden si è offerta di fornire a Israele importanti informazioni di intelligence per evitare una vasta operazione dell’IDF a Rafah, ha riferito sabato il Washington Post, citando quattro funzionari. Secondo il Post, le informazioni fornite dagli Stati Uniti contengono dettagli riguardanti il luogo in cui si trovano i leader di Hamas e i tunnel del gruppo terroristico. Nella giornata di giovedì, il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ha cercato di mettere una pezza alla vicenda, affermando che tali informazioni erano già state fornite a Israele: “Potremmo anche, in effetti, aiutarli a prendere di mira i leader, incluso [il leader di Hamas Yahya] Sinwar, cosa che, francamente, stiamo facendo con gli israeliani su base continuativa”. Insomma, dopo il “leak” su Washington che minacciava Israele di trattenere gli armamenti se l’IDF fosse entrato a Rafah, presa di posizione che ha creato parecchi guai all’amministrazione Biden, con proteste anche da ambienti democratici pro-Israele, ora emerge un altro fatto potenzialmente altrettanto grave. In primis, è bene tener presente che informazioni su tunnel e sulla localizzazione dei leader di Hamas a Gaza in possesso degli Stati Uniti dovrebbero essere condivise con Israele a prescindere dalla situazione sul campo. Non soltanto per la questione dell’alleanza (almeno in teoria) tra Washington e Gerusalemme, ma anche perché Hamas è classificata come organizzazione terrorista anche dagli Stati Uniti (anche qui bisogna purtroppo dire “almeno in teoria”). E’ forse per questo che John Kirby ha subito tenuto a precisare che la condivisione di intelligence con Israele era già in corso su base continuativa. E’ altresì vero che Israele certamente possiede informazioni ampie e capillari sulla presenza di Hamas a Gaza e conosce molto bene la situazione della leadership e la struttura dei tunnel, sia grazie all’avanzato apparato tecnologico in uso all’intelligence israeliana e sia in base alla humint (human intelligence) di cui dispone in loco. Resta il fatto che quanto emerso dalla pubblicazione del Washington Post fa emergere ulteriori dubbi sull’operato dell’amministrazione Biden. E’ possibile che Washington sia in possesso di informazioni sui leader di Hamas a Gaza che non ha condiviso con Israele? Se così fosse, per quale motivo gli Stati Uniti sarebbero in possesso di tali informazioni? Per quale motivo non sarebbero state ancora condivise? Tutto ciò va ad aggiungersi alll’insistenza con la quale Biden sta cercando di fermare l’offensiva israeliana su Rafah volta ad eradicare Hamas e al “trappolone” riguardante l’ultima offerta presentata a Hamas dall’Egitto la settimana scorsa, diversa da quella accettata da Israele giorni prima (e inaccettabile). Washington non aveva infatti informato Israele dei cambiamenti apportati, provocando una forte delusione israeliana nei confronti dell’amministrazione americana e sospetti riguardo al suo ruolo di mediatrice. La situazione a Washington si complica insomma sempre di più e sono in molti ormai a credere che l’amministrazione Biden sia ben più preoccupata per Hamas che per la sicurezza dell’”alleato” israeliano.
Eurovision: quinto posto per Israele, Eden Golan seconda al televoto: “Non dimentichiamo i rapiti”
di Luca Spizzichino
“Non dimentico neanche per un momento gli ostaggi e dedico a loro la mia partecipazione al concorso” ha affermato Eden Golan, che ha concluso al quinto posto un Eurovision travolto dalla politica e, soprattutto, dalle polemiche. La cantante israeliana si è assicurata il secondo maggior numero di punti dal televoto, aggiudicandosi 323 punti, dietro solo al croato Baby Lasagna, considerato anche dai bookmakers uno dei papabili vincitori della competizione, vinta dallo svizzero Nemo.
In una dichiarazione a margine della competizione, Golan ha detto di essere “molto orgogliosa” del quinto posto di Israele. “Fin dal primo momento abbiamo avuto un obiettivo, ovvero far sentire la voce forte di Israele nel mondo, e so che abbiamo raggiunto questo obiettivo alla grande”.
A viziare la posizione in classifica della cantante israeliana il punteggio molto sfavorevole della giuria. La cantante infatti non ha ottenuto 12 punti – il massimo possibile – dalla giuria di nessun paese, ma ne ha ricevuti otto ciascuno da Norvegia, Cipro e Germania; cinque dal Belgio e dall’Estonia; quattro dalla Lituania; tre ciascuno da Francia, Malta, Moldavia e Georgia; e due dalla Lettonia. L’artista israeliana ha ricevuto invece 12 punti dal televoto da Italia, Spagna, Portogallo, Germania, Belgio, Regno Unito.
Non sono mancati i fischi durante l’esibizione, tuttavia Eden Golan, come nella seconda semifinale, ha cantato “Hurricane” in maniera impeccabile. Subito dopo la performance la cantante si è lasciata travolgere dalle emozioni, dopo una settimana che l’ha vista al centro delle polemiche della maggior parte dei concorrenti, anche durante la finale. La portoghese Iolanda ha indossato un abito nella “parata delle bandiere” di apertura disegnato da un designer palestinese, e le sue unghie erano decorate con colori verde, rosso, bianco e nero, oltre a un motivo kefiah. L’irlandese Bambie Thug invece – a cui l’EBU ha ordinato di rimuovere i messaggi filo-palestinesi scritti sul loro volto in un’antica lingua irlandese – è stata vista nella green room mentre attendeva i risultati con un’immagine propal. La vincitrice dell’anno scorso, Loreen, avrebbe dichiarato prima della competizione che si sarebbe rifiutata di consegnare il trofeo a Golan, qualora Israele avesse vinto. E infine i rappresentanti della Finlandia e della Norvegia, ossia Käärijä e Alessandra Mele, che avrebbero dovuto annunciare i voti della giuria del loro paese si sono ritirati prima dello spettacolo per protestare contro Israele. Noa Kirel, che ha gareggiato l’anno scorso con tutti e tre gli artisti scandinavi, ha dedicato loro una storia sui social dove ha scritto: “Non c’è posto per l’antisemitismo”.
Nonostante tutte queste manifestazioni ostili, Eden Golan è riuscita ad aggiudicarsi un quinto posto che va a confermare la qualità del panorama musicale israeliano e la costanza in questa competizione, infatti l’Eurovision Song Contest è stato vinto per ben 4 volte dallo Stato ebraico.
Quella del medio oriente è una storia di esodi e spostamenti forzati sin dall’antichità. Ebrei, assiri e babilonesi. I romani spostavano gli abitanti delle città che temevano potessero passare al nemico. E la Cina è nata con spostamenti forzati epocali.
Sballottati, costretti a muoversi da nord a sud, e poi ancora da sud a nord. Privati di tutto. Migranti forzati, sloggiati manu militari, costretti ad accamparsi in luoghi sconosciuti. Da dove verranno magari nuovamente scacciati. Sempre che siano riusciti a sopravvivere alla guerra. I bambini in braccio, i vecchi sorretti, o portati in spalla, in fila su strade e sentieri polverosi o fangosi. Ingombri delle poche cose che gli sono rimaste. Affamati, assetati, senza più neanche la forza di essere arrabbiati. Chi non ce la fa lasciato indietro. Popoli sradicati, fluttuanti, spintonati con violenza da una località all’altra. Lì succede da millenni. Ci sono le testimonianze. Frammentarie. Oscurate dalla censura, o ingigantite dalla propaganda. “Ho raso al suolo tutte le loro città, ho portato via, come bottino, tutti gli abitanti, il bestiame, lasciando [in piedi] solo la città di Samaria [l’allora capitale del regno di Israele], che si era sottomessa quale tributaria, mentre il regno di […]”, suona la faticosa ricostruzione di un’iscrizione su argilla, in più punti lacunosa, del sovrano assiro sulle campagne militari di Tiglath-Pileser III in Siria e in Palestina (734-732 a.C.). “Li ho portati via con quel che possedevano [il loro bestiame e le loro greggi]”. Spostamento forzato. Sotto scorta armata. “O vi muovete dove vi diciamo noi, o vi ammazziamo”, si può presumere. “[Li ho costretti a superare] montagne difficoltose”, si legge negli Annali di Tiglath-Pileser, altrettanto rovinati e difficili da decifrare. Migrazione “difficile”, strada impervia, tormentosa deve essere stata davvero, se a dirlo è il sovrano che li ha fatti spostare. Non disponiamo di alcuna narrazione da parte dei deportati. Ci sono le cifre. Sballate, inaffidabili, contraddittorie, a seconda che a dare i numeri sia l’una o l’altra delle parti in causa. Per l’antichità avere due versioni spesso è un lusso. Abbiamo per lo più quella dei vincitori. Gli assiri erano scrupolosi nel far di conto. Qualche centinaio dal tal villaggio, qualche centinaio dal tal altro, in tutto “13.520 persone” annotano gli scribi di Tiglath-Pileser. Poco più di un decennio dopo, uno dei suoi successori, Sargon II, è più preciso ancora: “Li ho combattuti [i samaritani] e ho portato via 27.290 di loro, con 50 carri per le mie truppe regie”. Si tratta della campagna per domare, nel 720 a. C., la ribellione iniziata da Hamath (l’antica città siriana, non Hamas). Porta gli eserciti assiri fino a Gaza, alle porte dell’Egitto. “Ho assediato e conquistato Ashdod, Gath e Ashdod-Yam. Ho contato come spoglie gli dèi, le donne, i bambini, tutti i possedimenti e i tesori, del palazzo come degli abitanti. Ho ricostruito le loro città e vi ho sistemato gente delle altre città che avevo conquistato a oriente”. Conferma la Bibbia: “Venne Tiglat-Pileser, re di Assiria. Prese Iion, Abel-Bet-Maacà, Ianòach, Kedes, Asor, il Gàlaad e la Galilea, tutta la terra di Nèftali, e ne deportò gli abitanti in Assiria” (2 Re 15,29). Confermano gli scavi archeologici. Di Samaria, l’allora capitale del regno di Israele, Sargon dice che l’ha “ricostruita e fatta più grande di prima”. E che, dopo averla svuotata di parte dei suoi abitanti, vi ha mandato “genti delle [altre terre] conquistate”, mettendogli a capo come governatore uno dei suoi eunuchi, e imponendo “su di loro tributo e tasse come agli Assiri”. Le terre che aveva svuotato le riempì con altre popolazioni. “Ho sconfitto [le tribù di] Thamud, Ibadidi, Marsimani e Hayapa, gli arabi che vivono lontani nel deserto, dei quali nessuno dei miei governatori o funzionari aveva neppure conoscenza, che non pagavano tributo ad alcun re. E li ho spostati perché risiedessero in Samaria”, fa scrivere sempre Sargon nei suoi annali. Prima ancora aveva fatto deportare le tribù che popolavano l’altopiano iranico dalla catena dei Monti Zagros, sino ai confini dell’Egitto. Sennacherib, successore di Sargon, nel 701 mosse contro il regno di Giuda, l’altro regno ebraico, che, a differenza di Samaria, aveva mantenuto la sua indipendenza. Giostrando accortamente intese con i vicini. Il nuovo re di Giuda, Ezechia, aveva però sconvolto l’equilibrio delle alleanze. Si era avvicinato all’Egitto, gran rivale degli assiri, e stava minacciando le città filoassire sulla strada per l’Egitto. Sennacherib gli aveva mosso guerra. Ezechia aveva fortificato Gerusalemme. L’aveva attrezzata a un lungo assedio. Aveva costruito una fitta rete idrica sotterranea, di cunicoli e tunnel a cui l’assediante non poteva arrivare. Gerusalemme non capitolò, ma fu costretta a pagare un pesante tributo. Ciascuna delle due parti cantò vittoria. Succede anche al giorno d’oggi. L’importante è poter gridare in faccia al nemico, e dire alla propria gente, di avere vinto. Ecco la versione trionfalistica di parte assira: “Ezechia il Giudeo, che non si era sottomesso al mio giogo […] lo rinchiusi in Gerusalemme come un uccello in gabbia. Accumulai terrapieni contro di lui, e chi voleva uscire dalle porte della città veniva respinto alla sua miseria […] Ezechia fu terrorizzato dallo splendore della mia Signoria, e venne abbandonato dai mercenari che aveva portato a rafforzare Gerusalemme. Oltre a 30 talenti d’oro e 800 talenti d’argento, pietre preziose e gioielli, letti e seggi d’avorio, pelli e zanne d’elefante, legno pregiato, ogni genere di tesoro, come pure le sue figlie, le sue donne di palazzo, i suoi musici, maschi e femmine, dovette mandarmi a Ninive”.
Ad alcuni studiosi il numero di deportati nelle fonti assire appare così enorme che ipotizzano venissero conteggiati anche gli animali
Le iscrizioni reali assire dicono che nel corso di quella guerra Sennacherib, il successore di Sargon, aveva decuplicato la movimentazione di popolazione, rispetto alle campagne precedenti. Aveva fatto deportare 201.150 persone, “giovani e vecchi, maschi e femmine, cavalli, muli, asini, cammelli, buoi, greggi innumerevoli [di pecore e capre]”. A sommare i numeri citati nelle iscrizioni, per tutti i movimenti su e giù in tutto il regno, si arriva a 350.000 deportati. Sennacherib era uno che sapeva il fatto suo, aveva informazioni precise, disponeva della migliore intelligence dell’epoca. L’altra cosa su cui gli assiri non erano secondi a nessuno era il sistema di strade – si presume con relative attrezzature di ristoro e sorveglianza – lungo le quali spostare queste fiumane. Non per niente, da principe ereditario, era stato il capo dell’attrezzatissimo spionaggio assiro. Ad alcuni studiosi il numero di deportati appare così enorme, rispetto alle popolazioni dell’epoca, che ipotizzano vengano conteggiati anche gli animali. L’insigne assirologo dell’Università di Haifa Bustenay Oded, autore a fine anni 70 di un fondamentale studio su Mass Deportations and Deportees in the Neo-Assyrian Empire, stima che in tre secoli siano stati spostati con la forza dai 4 ai 4,5 milioni di persone.
Meglio deportati che massacrati. I bassorilievi con decapitazioni, mutilazioni, scorticamenti, torture erano volti a incutere terrore
Meglio deportati che massacrati, verrebbe da dire. Si sa che la propaganda assira, i terrificanti bassorilievi con decapitazioni, mutilazioni, scorticamenti, torture inflitte ai nemici erano volti a incutere terrore, scoraggiare ogni tipo di resistenza. Era, si ritiene, un modo di dire al mondo intero: guardate come siamo cattivi, non azzardatevi a provocarci. Appena un pochino meno spettacolari le deportazioni, gli esodi forzati, le sostituzioni di popolazioni da un capo all’altro dell’impero. Perché lo facevano? Per punire chi mal sopportava, o si ribellava al giogo assiro? Per ragioni di sicurezza, strategiche? Per rimescolare carte, alleanze e vassallaggi? La cosa più sorprendente è che spesso se li portavano in casa, fino in Assiria. Anziché allontanarli il più possibile, come si fa oggigiorno. Perché l’impero assiro aveva un bisogno disperato di forza lavoro, possibilmente specializzata (come mostrerebbe l’interesse specifico a requisire carri e reclutare aurighi e mulattieri registrato negli annali; oppure la presenza negli scavi di vasellame, fatto localmente, ma da vasai provenienti dai quattro angoli dell’impero)? Non sappiamo che sofferenze patissero i deportati, quanti ne morissero per strada nelle lunghe marce forzate. Quanti di stenti, quanti di malattie, quanti per violenza. Sappiamo però che non tutti venivano trattati male. Molti prosperarono nelle destinazioni loro assegnate. Alcuni fecero carriera nelle forze armate assire. Altri nell’amministrazione. La storia della regione che oggi chiamiamo medio oriente è lastricata di violenze, assedi, massacri. E anche, forse, soprattutto di movimenti violenti di popolazione. Era fresca la memoria delle deportazioni assire che Gerusalemme fu attaccata dal re babilonese Nabucodonosor, desideroso di conquistare i porti del Mediterraneo e di aprirsi una via verso l’Egitto. L’assedio durò un anno e mezzo e si concluse nel 586 a. C. quando la città fu sconfitta e venne distrutto il Tempio di Gerusalemme. E’ di ebrei deportati a Babilonia lo struggente coro “Va pensiero” del Nabucco di Verdi. che ancora oggi riesce a commuoverci. Miracoli della grande musica. La “Patria, sì bella e perduta” del testo di Temistocle Solera, musicato da Verdi, è ovviamente l’Italia occupata dagli austriaci. La cosa oggi incredibile è che la censura austriaca gliela lasciò passare.
Il ritorno degli ebrei da Babilonia non fu facile. I reduci che volevano ricostruire il Tempio si scontrarono con i giudei che erano rimasti
L’esilio babilonese ha lasciato un segno profondo nella cultura ebraica, gli ha dato il Talmud, detto appunto babilonese, una sterminata raccolta di commenti, pareri, norme etiche, giuridiche e rituali, condita di note, chiose, dotte discussioni, spiegazioni a margine, che spesso lasciano la questione aperta a una pluralità di interpretazioni. A liberarli e a permettergli di tornare a casa fu un re persiano, Ciro il grande, campione di tolleranza religiosa, che nel frattempo aveva conquistato Babilonia. Il ritorno non fu facile. I reduci che volevano ricostruire il Tempio si scontrarono con i giudei che erano rimasti e non erano stati deportati. Li denunciarono al nuovo sovrano persiano, chiedendogli di punirli. All’esilio sotto dominazione persiana si riferisce anche la storia biblica di Ester, ebrea, sposa del re persiano Assuero. Ce ne sono diverse versioni. E’ stata attribuita talvolta a epoche diverse. Il cattivo Aman, che spinge il re persiano a sterminare gli ebrei, è anche lui discendente di deportati dalla Palestina, ma di etnia diversa dagli ebrei. Gli va male, finisce lui impiccato all’albero che aveva fatto preparare per il giudeo Mordecai. Un’amica, Miriam Camerini, che studia da rabbina (auguri!), ne interpreta la morale nascosta come un appello al re da parte di Ester perché faccia il suo mestiere e fermi il programmato massacro e la catena di vendette. Suggestivo, ma ci devo ancora riflettere. Quello scampato pericolo gli ebrei lo festeggiano a Purim. E’ una delle due feste, del tutto laiche, che più ricordo della mia infanzia in una famiglia non praticante. Sono dominate dal racconto, dal pranzo in famiglia, non dai riti religiosi. L’altra è Pesach, il passaggio, la liberazione dall’Egitto. Anche quella è una storia di migrazione di massa, ma non forzata, né respinta, e neppure temuta come invasione, bensì strappata a fatica al faraone che non li lasciava partire.
I romani se ne intendevano di ingegneria etnica. Spostavano in tutta la penisola gli abitanti delle città che temevano potessero passare al nemico
Gli ebrei continuarono a essere deportati e perseguitati dai satrapi ellenistici eredi di Alessandro Magno. Furono a più riprese conquistati, assediati, massacrati, deportati, e infine costretti a disperdersi per il mondo, dai romani. I quali antichi romani, di deportazioni in massa, e di ingegneria etnica (i coloni) se ne intendevano. Durante la conquista dell’Italia, e poi durante la guerra portata in Italia da Annibale, spostarono forzosamente da un capo all’altro della penisola gli abitanti delle città che temevano potessero passare al nemico. Tito Livio racconta di come nel 179-80 a. C. 50.000 liguri apuani furono deportati nel Sannio, 7.000 addirittura via nave, dalla costa toscana a quella campana. Malgrado quelli implorassero che li si lasciasse a casa loro, e si fossero impegnati a non prendere le armi contro Roma (Ab urbe condita, XL, 38). Li avevano, racconta sempre Livio, affamati bruciando le loro vigne e i loro raccolti, tagliandogli vie di comunicazione e rifornimenti. Giulio Cesare aveva messo in pratica la notevole expertise acquisita in materia, spintonando per di qua e per di là, e mettendo l’una contro l’altra le diverse tribù delle Gallie, secondo la convenienza strategica del momento. Di buono c’era che non avevano il concetto di “razza” italica o romana. Solo di cittadinanza. La Cina praticamente è nata con spostamenti forzati epocali. Qin Shihuangdi, il Primo imperatore, l’aveva unificata spostando di qua e di là milioni di persone, le etnie più disparate, reclutandole nei suoi eserciti, nei grandi lavori idraulici, nella costruzione della Grande muraglia, e in quella della sua tomba. L’America si è fatta, oltre che sull’arrivo di masse sterminate di immigrati, sulle ossa delle tribù indiane spinte sempre più verso le terre più inospitali dell’ovest. Si capisce che la questione degli esodi, dell’esodo forzato (o anche dell’esodo impedito), sia da sempre la più intrattabile di tutte. Facevo il corrispondente in America quando nel 1992 assistetti in diretta al naufragio degli accordi di Oslo proprio sulla questione del “diritto al ritorno” dei palestinesi. Incredibile a ripensarci: gli avevano offerto a Camp David, su insistenza di Clinton, uno Stato palestinese nella striscia di Gaza e in gran parte della Cisgiordania, il ritorno di un limitato numero di profughi e un indennizzo per gli altri, in cambio dello smantellamento dei gruppi terroristici. Arafat rifiutò, insisteva sul diritto al ritorno per tutti. Non fece controproposte. Me l’avevano spiegata così: se Arafat firma una rinuncia al “diritto al ritorno”, i suoi l’ammazzano. La cacciata da casa propria è, da che mondo è mondo, il più pesante dei traumi. Naqba, catastrofe per eccellenza, la chiamano i palestinesi. Come catastrofe epocale fu vissuto lo scambio forzato di 18-20 milioni di musulmani e di indù tra India e Pakistan nel 1947. Come catastrofe fu vissuta nella Istanbul della mia infanzia lo scambio forzato di turchi e greci. Prima c’era stato lo sterminio degli armeni. La maggior parte in atroci marce forzate attraverso l’Anatolia devastata. Stalin aveva spostato da un capo all’altro dell’immensa Unione sovietica interi popoli, intere categorie sociali o politiche. Hitler li spostava da un capo all’altro dell’Europa per sterminarli. Non so come finirà a Gaza. Non oso pensare quanto sarà difficile negoziare su eventuali scambi e movimenti di popolazione tra Ucraina e Russia, quando e se finirà la guerra.
Quando Dio interviene in favore dei figli d’Israele caduti in mani straniere, quello che vuole ottenere non è in primo luogo la libertà per loro, ma la possibilità per Dio di “abitare in mezzo a loro”.
di Gabriele Monacis
Per i figli di Israele, l’esilio in Babilonia terminò quando Ciro, il re della potente nazione di Persia, emanò un suo editto e li lasciò partire. Secondo la Scrittura, l’uscita dei figli di Israele da Babilonia, che era caduta nelle mani dei persiani nel 539 a.C., non fu un’iniziativa di Ciro, ma fu per volontà dell’Eterno stesso, che destò lo spirito di questo re straniero, affinché lasciasse partire il Suo popolo. Questo epilogo, anche se con alcune differenze, ricorda l’uscita dei figli di Israele dall’Egitto. In quel caso, come in questo, fu l’Eterno a indurre il faraone, anch’egli un re straniero, a lasciar partire il Suo popolo, anche se con modi diversi in un caso rispetto all’altro. Ecco i due versetti con i quali si conclude il Tanach, l’Antico Testamento in lingua ebraica:
Nel primo anno di Ciro, re di Persia, affinché si adempisse la parola dell'Eterno pronunciata per bocca di Geremia, l'Eterno destò lo spirito di Ciro, re di Persia, il quale, a voce e per iscritto, fece pubblicare per tutto il suo regno questo editto: “Così dice Ciro, re di Persia: 'L'Eterno, l'Iddio dei cieli, mi ha dato tutti i regni della terra, ed egli mi ha comandato di costruirgli una casa in Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque tra voi è del suo popolo, l'Eterno, il suo Dio, sia con lui, e parta!'” (2 Cronache 36:22,23).
Se si considera la storia del popolo di Israele raccontata nel Tanach, quindi tenendo da parte il libro della Genesi in cui Israele non si era ancora formato come popolo, si osserva che la storia di Israele si apre e si conclude con lo stesso schema narrativo. Il popolo di Israele si trova in un paese straniero, l’Egitto all’inizio e Babilonia alla fine, e l’Eterno, in qualche modo, spinge il re di quella potente nazione a lasciarli partire. In Egitto, Israele era sotto la schiavitù del faraone, che fu spinto a lasciarli partire dal peso della potente mano dell’Eterno. In Babilonia, Israele era in esilio e il re Ciro emana un editto perché destato dall’Eterno, e lascia partire il Suo popolo affinché ritorni a Gerusalemme. Un altro elemento in comune tra le uscite di Israele dall’Egitto e da Babilonia, sta in ciò che i figli di Israele furono chiamati a fare una volta usciti da quelle nazioni. Il libro dell’Esodo racconta che, una volta giunti al monte Sinai e dopo aver stipulato il patto tra Dio e il Suo popolo, l’Eterno mostrò a Mosè il modello del Tabernacolo, cioè il luogo dove Dio avrebbe abitato in mezzo al Suo popolo. Parlando dei figli di Israele, l’Eterno disse a Mosè: “Mi facciano un santuario perché io abiti in mezzo a loro. Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti” (Esodo 25:8,9). Anche nell’editto di Ciro era previsto che i figli di Israele tornassero a Gerusalemme e costruissero lì una casa al loro Dio. Così disse il re di Persia, parlando dell’Eterno: “Egli mi ha comandato di costruirgli una casa in Gerusalemme, che è in Giuda”. Lo scopo del ritorno di Israele nella sua terra è dunque ancora lo stesso: costruire un luogo in cui l’Eterno possa abitare insieme con il Suo popolo. E questo è ciò che fecero una volta tornati da Babilonia, anche se in mezzo a tante difficoltà. Gesù Cristo nacque sotto il re Erode, come raccontato all’inizio del vangelo di Matteo. Dunque anche Gesù, come Israele, prima in Egitto e poi in Babilonia, si trova sotto la dominazione di un re straniero, Erode appunto, che in quel tempo governava la Giudea. Come il faraone in Egitto, il quale ordinò che venissero uccisi tutti i figli di Israele nati maschi, anche Erode cercò di uccidere Gesù, per paura che il Messia diventasse re al suo posto. Proprio come Dio fece con Israele in Egitto e in Babilonia, Egli sottrasse la vita di Gesù dal potere di re Erode e lo mise al sicuro in Egitto. Ecco il racconto del vangelo di Matteo.
Un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Alzati, prendi il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e restaci finché io non te lo dico; perché Erode cercherà il bambino per farlo morire”. Egli dunque si alzò, prese di notte il bambino e sua madre e si ritirò in Egitto; là rimase fino alla morte di Erode, affinché si adempisse quello che fu detto dal Signore per mezzo del profeta: “Chiamai mio figlio fuori dall'Egitto” (Matteo 2:13-15).
La frase che sottolinea il parallelo tra la storia di Gesù e quella di Israele è questa: “Chiamai mio figlio fuori dall’Egitto”. Dio chiama Gesù fuori dall’Egitto, così come Israele fu portato fuori dall’Egitto. Si vuole far notare che la Scrittura non pone tanto l’accento sul luogo in cui Dio mise in salvo colui che stava proteggendo. Israele fu messo in salvo fuori dall’Egitto (Osea 11:1); Gesù, al contrario, fu messo in salvo in Egitto. Ma l’adempimento di ciò che fu detto dal Signore per mezzo del profeta sta nell’azione stessa di Dio, che sottrasse sia Israele che Gesù, al potere di un re straniero, e li mise in salvo. Una volta che Israele uscì dalla nazione straniera, dall’Egitto ma anche da Babilonia, fu chiamato a costruire un luogo dove Dio potesse abitare in mezzo a loro. Qui la domanda è d’obbligo. Se la storia di Gesù ricalca quella di Israele, in che modo la sua venuta permise la costituzione di un luogo dove Dio potesse abitare in mezzo al Suo popolo? Infatti, negli anni in cui Gesù nacque e crebbe, il tempio a Gerusalemme esisteva già. Proprio il re Erode, dopo anni di lavori, l’aveva reso un edificio davvero imponente e maestoso. Un elemento per rispondere a questa domanda sta proprio nell’incipit della genealogia di Gesù Cristo, in apertura del Nuovo Testamento. Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abraamo. In ebraico, la parola figlio, che nel primo versetto del Nuovo Testamento compare due volte, è בֶּן (ben). La parola “costruire”, invece, si dice בָּנָה (banà). Queste due parole, oltre ad essere simili nel modo in cui vengono pronunciate, hanno la stessa radice: ב.נ.י.. Proprio la radice in comune tra le parole ebraiche “figlio” e “costruire”, potrebbe essere il collegamento che lega, ancora una volta, la fine del Tanach con l’inizio del Nuovo Testamento. Gesù Cristo, figlio di Davide e figlio di Abraamo. A Davide, Dio aveva promesso di costruirgli una casa perenne: non sarebbe mai mancato un suo discendente sul trono di Israele, quindi un suo figlio. Ad Abraamo, Dio aveva promesso una discendenza molto numerosa. Lui, che al momento di quella promessa di figli non ne aveva ancora avuti. Nella Sua Parola, Dio garantisce ad entrambi che ci sarebbe sempre stato un loro figlio che avrebbe incarnato la promessa di Dio nel corso della storia. Anche all’inizio del Nuovo Testamento, l’Eterno intende costruire un luogo in cui dimorare in mezzo a Israele, il Suo popolo. Questa volta, però, non lo fa in un’abitazione costruita dagli uomini, come ha fatto nel Tabernacolo nel Sinai o nel tempio a Gerusalemme. Lo fa proprio in un uomo, un figlio di Abraamo e di Davide. Un figlio del popolo di Israele. Se questo è ciò che il Nuovo Testamento sostiene fin dal suo primo versetto, significa che Dio può abitare in una persona? In un figlio di Israele discendente di Abraamo e di Davide? La risposta è sì, ma non è una novità del Nuovo Testamento. Infatti, questa risposta la si trova già in una profezia dell’Antico Testamento (Isaia 7:14), che il vangelo di Matteo riporta, perché si è adempiuta nel parto di una donna vergine. La nascita di Gesù avvenne, affinché si adempisse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele”, che, interpretato, vuol dire: “Dio con noi” (Matteo 1:22,23). Secondo questa profezia, il nome del figlio che sarebbe nato dalla vergine sarebbe stato Emmanuele, che significa “Dio è con noi”. Uno potrebbe chiedersi perché, nel vangelo di Matteo, l’angelo del Signore abbia detto a Giuseppe di chiamare questo figlio Gesù e non Emmanuele, come dice la profezia di Isaia. A questo riguardo, si fa notare che nella Bibbia un nome non è attribuito semplicemente per chiamare qualcosa o qualcuno, come un’etichetta. Un nome esprime una realtà, uno stato delle cose. Il nome Gesù in ebraico è יֵשׁוּעַ (yeshua), che significa “il Signore salva”. Infatti, dice l’angelo, sarà lui che salverà il suo popolo dai loro peccati. E questo è lo stato delle cose espresso dal nome Gesù. Lo stesso si può dire del nome Emmanuele. L’adempimento della profezia di Isaia non sta nel fatto che quel figlio, nato da una vergine, si chiami o meno Emmanuele. Sta nel fatto che proprio in quel figlio si è realizzato il significato di quel nome: “Dio è con noi”. Anche in questo caso, si vede come il Nuovo Testamento riprende la storia di Israele del Tanach e ne racconta lo sviluppo, la continuazione, con la nascita di Gesù Cristo. Il desiderio dichiarato di Dio nell’Antico Testamento, dall’inizio alla fine, era quello di dimorare in mezzo al Suo popolo. Gesù nasce per volontà dello Spirito Santo, quindi di Dio stesso, proprio per soddisfare quel desiderio di Dio: dimorare con i Suoi. Questa volta non lo fa in un’abitazione fatta da uomini, ma nella carne e nelle ossa di un uomo.
È molto probabile che, quando ha accettato di rappresentare Israele all'Eurovision Song Contest 2024, Eden Golan non sapesse quello a cui sarebbe andata incontro. Ancora prima di arrivare a Malmö, in Svezia, sono stati in molti a chiedersi se fosse il caso che il festival aprisse le porte a Israele alla luce di quanto succede ancora oggi a Gaza, portando di fatto Eden Golan al centro di una polemica non solo per la sua provenienza ma anche per i suoi rapporti con la Russia, che l'Eurovision ha scelto di escludere dalla competizione dal 2022. Vent'anni e oltre 760mila ascoltatori su Spotify, Eden Golan è nata in Israele nel 2003 da genitori ebrei immigrati dall’ex Unione Sovietica. È cresciuta a Mosca, dove la famiglia si è trasferita per il lavoro del padre, iniziando a muovere i primi passi nel mondo della musica fino a partecipare nel 2018 a The Voice Kids Russia, programma che l'ha resa popolarissima in patria. Lasciata la Federazione Russa nel 2022 e ritornata in Israele, con la partecipazione al talent HaKokhav HaBa Golan si è aggiudicata il posto all’Eurovision, raccogliendo ora fischi e ora solidarietà anche per via della sua canzone, Hurricane.
Inizialmente doveva chiamarsi October rain (dove l’ottobre a cui si fa riferimento è quello in cui Hamas ha attaccato Israele), ma per via di quella clausola dell'Eurovision che vieta titoli e testi che facciano riferimento alla politica, le cose sono presto cambiate. Per Eden Golan i problemi sono iniziati già durante la prima semifinale, quando è stata accolta in arena da diverse proteste che non le hanno, però, fatto perdere il sorriso. «Sono qui, sto facendo quello che amo di più, sono concentrata sulla musica e sull’energia positiva: ci sono un sacco di persone che mi supportano e ritengo sia un onore rappresentare il mio Paese, soprattutto di questi tempi. Sono concentrata su questo e sul fare un ottimo lavoro e dare il meglio di me nelle esibizioni», ha detto la diretta interessata ai microfoni della BBC, sforzandosi di (ri)mettere la musica - e non la politica - al centro della sua avventura all'Eurovision.
(Vanity Fair, 11 maggio 2024)
L'Assemblea dell’Onu apre alla Palestina. Ma l’Italia si astiene
L’ambasciatore di Israele strappa la Carta delle Nazioni Unite: “No ai nuovi nazisti”. Ora serve il via libera del Consiglio di Sicurezza, ma gli Usa opporranno il veto.
di Massimo Basile
Il discorso dell'Ambasciatore di Israele alle Nazioni Unite
NEW YORK — Mentre i tank israeliani hanno accerchiato la zona Est di Rafah, dove si trovano un milione e mezzo di rifugiati palestinesi, a più di diecimila chilometri di distanza l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato con 143 voti a favore, 9 contrari e 25 astenuti, una storica risoluzione che riconosce la Palestina come qualificata per entrare a far parte dell’Onu a pieno titolo. Al momento è solo “osservatore” e non ha diritto di voto o di nomina. Quando il risultato è apparso sui maxi schermi dell’aula, una delegata della missione palestinese ha allungato il braccio sul tavolo e stretto il dorso della mano di un collega, in segno di trionfo. I rappresentanti di Israele sono rimasti impassibili. Nel momento in cui il presidente dell’Assemblea ha letto il risultato, dall’Aula è partito un lungo applauso. L’ambasciatore israeliano Gilad Erdan, gelido, ha continuato a leggere un messaggio sul cellulare. La risoluzione è stata redatta dagli Emirati Arabi e parla di «eccezione», per evitare che altri, come Taiwan e Kosovo, possano avanzare la stessa richiesta. Nel testo si «raccomanda» il Consiglio di sicurezza, unico organismo titolato a decidere, a «riconsiderare favorevolmente la questione». Non accadrà. Gli Stati Uniti, uno dei cinque membri permanenti con diritto di veto, avevano già bloccato la risoluzione ad aprile. L’ambasciatrice Linda Thomas-Greenfield ieri non era presente, come sovente avviene quando gli Usa devono prendere una decisione impopolare. E questa è stata un’altra giornata difficile. Il secondo ambasciatore, Robert Wood, ha spiegato all’aula il no Usa alla risoluzione, una «decisione unilaterale che non raggiunge l’obiettivo». La soluzione, ha ribadito, va trovata attraversato negoziati diretti tra Israele e Palestina. «Con questa votazione — ha attaccato invece l’ambasciatore israeliano Erdan — avete aperto le Nazioni Unite ai nazisti moderni». Poi Erdan ha concluso il discorso con un gesto che rimarrà nella storia delle Nazioni Unite: ha infilato simbolicamente alcune pagine della Carta Onu in un tritacarte. Prima di lui, il rappresentante palestinese Riyad Mansour, più volte sul punto di scoppiare a piangere, aveva detto: «Mentre parliamo, 1,4 milioni di palestinesi a Rafah si chiedono se oggi resteranno vivi». L’Italia si è astenuta assieme a Germania e Regno Unito. L’ambasciatore Maurizio Massari ha confermato l’allineamento sulle posizioni americane: sì alla formula “due popoli due Stati”, ma la «soluzione deve essere raggiunta attraverso negoziati diretti tra le parti». La Vecchia Europa resta divisa. Francia e Spagna hanno votato a favore. Ungheria e Cechia contro. Mentre il responsabile della politica estera Ue, Josep Borrell, ha annunciato che il 21 maggio alcuni Paesi, tra cui Spagna, Irlanda e Slovenia, riconosceranno ufficialmente lo Stato palestinese, «e altri Paesi si aggiungeranno». Intanto a Rafah la situazione si è aggravata. Il gabinetto di sicurezza israeliano ha approvato l’“espansione dell’area di operazione” nel sud di Gaza, anche se - secondo alcune fonti - si tratterebbe di un ampliamenti “limitato”, nel tentativo di restare entro le linee rosse fissate dal presidente degli Stati Uniti Biden. Ma in Israele c’è anche chi è tentato dallo strappo, sapendo che Biden è stretto tra due fuochi: il tentativo di tenere in piedi il negoziato su tregua e ostaggi da un lato (fondamentale anche per non perdere una fetta significativa di elettorato), e la fedeltà allo storico alleato dall’altro. Gli atti e le parole dell’amministrazione seguono questa incertezza. Nel rapporto consegnato al Congresso dal segretario di Stato Antony Blinken, ci sarebbe una critica alla brutalità israeliana nella Striscia di Gaza, ma non il riconoscimento che le operazioni militari starebbero violando il diritto internazionale. Di fatto è il via libera a nuove forniture di armi. Ma con quali conseguenze politiche e militari? Uno dei portavoce della Casa Bianca, John Kirby, ha consigliato al premier Netanyahu di non andare oltre. «Noi pensiamo — ha detto — che un’operazione di terra a Rafah finirà per rafforzare Hamas, invece che indebolirla. Nuovi morti tra i civili non aiuteranno l’offensiva di Israele».
(la Repubblica, 11 maggio 2024)
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L'Onu apre le braccia alla Palestina. Ira d'Israele: distrutta la Carta in aula
L'Assemblea generale approva la richiesta con 143 voti a favore, 9 contrari e 25 astenuti. Tra questi Italia, Germania e Regno Unito. Furia del governo Netanyahu: "È un premio ai terroristi”.
Giornata storica per la Palestina, che fa un primo passo verso l'ammissione a pieno titolo nelle Nazioni Unite. L'Assemblea Generale ha adottato a larga maggioranza una risoluzione che migliora lo status palestinese garantendogli «nuovi diritti e privilegi» (ma non quello di voto), e invitando il Consiglio di Sicurezza a riconsiderare favorevolmente la sua richiesta di diventare il 194esimo paese membro dell'organizzazione internazionale. Una «decisione assurda», secondo il ministro degli esteri dello Stato ebraico Israel Katz. «Il messaggio che l'Onu manda alla nostra regione in sofferenza è che la violenza paga. È un premio ai terroristi di Hamas». Mentre l'ambasciatore Gilad Erdan ha rincarato la dose affermando che l'Onu si prepara a «favorire la costituzione di uno Stato terrorista palestinese guidato dall'Hitler del 21mo secolo». Nel testo, che ha ottenuto 143 voti a favore, 9 contrari (tra cui Usa e Israele) e 25 astensioni (inclusa l'Italia) si afferma che «la Palestina è qualificata per diventare membro a pieno titolo delle Nazioni Unite in conformità con l'articolo 4 della Carta», e si invita il Consiglio di Sicurezza a «riconsiderare favorevolmente la questione». Il via libera del Cds (dove gli Stati Uniti il mese scorso hanno posto il veto) è infatti condizione necessaria per un'eventuale approvazione piena da parte dei due terzi dell'Assemblea. L'ambasciatore americano Robert Wood, nonostante le pressioni di Israele a fermare immediatamente i finanziamenti all'organizzazione internazionale, ha spiegato che il voto contrario di Washington «non riflette l'opposizione allo Stato palestinese». «Siamo stati molto chiari nel sostenerlo - ha precisato - ma la statualità potrà derivare soltanto da un processo che implichi trattative dirette tra le parti. Abbiamo detto fin dall'inizio che il modo migliore per garantire la piena adesione dei palestinesi alle Nazioni Unite è farlo attraverso negoziati con Israele. Questa rimane la nostra posizione», ha spiegato il diplomatico. Anche l'Italia, come ha sottolineato il rappresentante permanente, ambasciatore Maurizio Massari, «condivide l'obiettivo di una pace globale e duratura che potrà essere raggiunta solo sulla base di una soluzione a due Stati», ma ritiene che «tale obiettivo debba essere raggiunto attraverso negoziati diretti tra le parti». «Dubitiamo che l'approvazione della risoluzione odierna contribuirà all'obiettivo di una soluzione duratura al conflitto. Per questo motivo abbiamo deciso di astenerci», ha aggiunto. Tra gli altri astenuti ci sono diversi paesi europei come Germania, Gran Bretagna, Albania, Bulgaria, Austria, Croazia, Finlandia, Olanda, Svezia. La risoluzione non garantisce ai palestinesi il diritto di voto, né potranno presentare la propria candidatura per i principali organi Onu come il Consiglio di Sicurezza, il Consiglio Economico e Sociale (Ecosoc) o il Consiglio per i Diritti Umani. Ma prevede diritti e privilegi aggiuntivi: essere seduti tra gli Stati membri in ordine alfabetico oppure di presentare proposte, emendamenti e sollevare mozioni procedurali in Assemblea (non concessi all'altro Stato osservatore non membro, la Santa Sede, né all'Unione Europea). Il voto Onu arriva nel giorno in cui trapela anche il contenuto di un rapporto dell'Amministrazione Biden sullo Stato ebraico, che approda al Congresso. Pur critici, gli Usa sostengono che «Israele non ha violato gli accordi sull'impiego di armi Usa a Gaza».
La questione del rifiuto da parte di Washington della spedizione di munizioni essenziali per Israele a causa delle preoccupazioni su “possibili vittime civili” a Rafah ha generato una reazione negativa nei confronti dell’Amministrazione Biden, che ora viene attaccata da più parti, inclusa la comunità filo-israeliana negli Stati Uniti, e i democratici moderati. Il tentativo di impedire a Israele di entrare a Rafah e di sradicare Hamas sta iniziando a causare più danni che benefici alla prossima corsa elettorale di Biden. L’attuale presidente potrebbe sicuramente essere preoccupato per i voti in Michigan e Minnesota, ma data la prevedibile reazione negativa che Biden sta attualmente affrontando, oltre all’ostinazione dell’amministrazione nel volere trattenere in ogni caso la spedizione, indica che la questione potrebbe andare ben oltre il semplice numero di voti da ottenere. Inoltre, il 7 maggio, un articolo pubblicato su Politico indicava che Washington sta bloccando le spedizioni di munizioni per l’attacco diretto congiunto della Boeing – sia le munizioni, sia i kit che le convertono in armi intelligenti – e bombe di piccolo diametro, come indicato da sei fonti dell’industria e del Congresso a conoscenza di quanto sta accadendo. Il fatto è stato ulteriormente confermato il 9 maggio dal Prof. Alan Dershowitz su The Dershow:
“…L’ironia è che tra le armi sequestrate ci sono le cosiddette “bombe intelligenti”, il tipo di bombe in grado di minimizzare i danni ai civili. Quindi, ecco il messaggio che questa amministrazione sembra inviare a Israele: non vogliamo che uccidiate i civili, ma vi invieremo un mucchio di bombe stupide che uccidono i civili perché non riescono a distinguere. Noi tratteniamo le bombe intelligenti che vi renderebbero più capaci di uccidere i membri di Hamas senza uccidere i civili. Questa è la punizione che vi imponiamo; questa non è una punizione nei confronti di Israele, è una punizione nei confronti dei civili di Gaza”.
Come se non bastasse, si è anche scoperto che, anche se l’ultima offerta presentata a Hamas dall’Egitto la settimana scorsa era diversa da quella accettata da Israele giorni prima (e inaccettabile), Washington non ha informato Israele dei cambiamenti apportati, provocando una forte delusione israeliana nei confronti dell’amministrazione americana e sospetti riguardo al suo ruolo di mediatrice. Fonti israeliane hanno detto ad Axios che si era reso evidente che Washington e il direttore della CIA William Burns fossero a conoscenza del nuovo documento, che conteneva “molti nuovi elementi” e “sembrava una proposta completamente nuova”, ma non avevano detto a Israele della sua esistenza. Questa circostanza è stata utilizzata da Hamas per raffigurarsi ben disposto a raggiungere un accordo facendo apparire Israele come la parte inflessibile, come spiegato da The Times of Israel. L’intero quadro evidenzia gravi preoccupazioni e solleva interrogativi sull’affidabilità dell’Amministrazione Biden come cosiddetto alleato. Attenzione, non gli Stati Uniti, ma l’“Amministrazione Biden” che è fondamentalmente la continuazione di quella di Obama, come appare chiaro dalla sua politica estera in Medio Oriente. Molti degli uomini attualmente attivi nei dipartimenti di Washington avevano già ricoperto posizioni di rilievo durante il periodo di Obama, come Jake Sullivan, Antony Blinken, Brett McGurk e Susan Rice. Durante la sua presidenza, Barrack Hussein Obama ha aperto le porte ai Fratelli Musulmani (MB) in Medio Oriente (di cui Hamas è il ramo palestinese), recandosi ad Ankara appena tre mesi dopo il suo insediamento per sostenere il partito islamista AKP di Erdogan come “un modello di democrazia” e di “Islam moderato” in Medio Oriente e nel mondo. Sfortunatamente, abbiamo tutti visto cosa è diventata la Turchia sotto il governo dell’AKP. Nel giugno 2009 al Cairo, Obama tenne un discorso intitolato “Un nuovo inizio”, davanti a un pubblico che, su richiesta della sua amministrazione, comprendeva dieci leader dei Fratelli Musulmani. In quell’occasione Washington gettò le basi per quell’iniziativa di “cambio di regime” che devastò Egitto, Tunisia e Libia. In Egitto, il governo della Fratellanza Musulmana, durato un anno e guidato da Mohamed Morsi provocò un disastro totale, con Morsi accusato di alto tradimento, di avere aperto le porte del paese alle guardie rivoluzionarie iraniane e di rapporti con Hamas e Hezbollah. Nell’estate del 2013, milioni di egiziani scesero in piazza chiedendo nuove elezioni e contestando l’Amministrazione Obama e l’allora ambasciatrice Anne Patterson, accusata di sostenere il governo islamista nonostante i disordini. Come conseguenza Patterson dovette lasciare in fretta il Cairo. Nel gennaio 2015, ben dopo la caduta di Morsi, il Dipartimento di Stato americano ospitò una delegazione di leader legati ai Fratelli Musulmani, tra cui Walid el-Sharaby, membro del Consiglio rivoluzionario egiziano, Gamal Heshmat, Abdel Mawgoud al-Dardery (due anziani membri della Fratellanza) e Maha Azzam, presidente del Consiglio egiziano per la rivoluzione, formatosi a Istanbul nel 2014 per contrastare Abdelfattah al-Sisi. Come se ciò non fosse bastato, l’Amministrazione Obama autorizzò l’invio di 1,7 miliardi di dollari in contanti al regime iraniano, liberando circa 100 miliardi di dollari in beni congelati, rafforzando in questo modo l’industria iraniana. Com’era prevedibile, Teheran utilizzò il denaro anche per rafforzare Hamas, gli Houthi, Hezbollah e le milizie sciite in Iraq e Siria. Tornando alla situazione attuale e all’Iran, vale la pena ricordare che, nonostante l’attacco perpetrato dal regime iraniano contro Israele il 13 aprile, con oltre 320 missili e droni, solo due settimane dopo una delegazione statunitense ha avviato trattative con la controparte iraniana per discutere la questione nucleare iraniana, la riduzione delle tensioni nella regione e la capacità di Teheran di mantenere la calma nella Striscia di Gaza in cambio del ripristino del precedente accordo non scritto sul nucleare tra Teheran e Washington. Non è quindi difficile capire perché l’amministrazione Biden stia cercando di impedire a Israele di sradicare Hamas, e questo è un motivo in più per cui Israele deve arrivare fino in fondo e annientare l’organizzazione terroristica palestinese.
«Ci sono due grandi alleanze: l’alleanza della pace e quella del male. Ne fa parte Hamas, che ci ha colpito il 7 ottobre con una brutalità che non vedevamo dalla Shoah, ma anche l’Iran, gli Houthi, Hezbollah, i Fratelli Musulmani e il più pericoloso di tutti: il Qatar, che li finanzia. L’obiettivo di questa alleanza del male è che il mondo sia musulmano: gli Usa e Israele sono Satana, e vogliono uccider e tutti in una logica di guerra santa. Mentre dell’altro schieramento fanno parte Israele, i paesi occidentali e gli Stati Uniti, così come i Paesi arabi, come Egitto (da 40 anni) e Giordania (35), che hanno siglato la pace negli scorsi decenni e che temono l’Iran, a cui si aggiungono quelli che hanno siglato gli Accordi di Abramo, come gli Emirati Arabi, che riconoscono che non è una questione territoriale, ma di Guerra Santa». Con queste parole Nir Barkat (al centro nella foto), Ministro dell’economia israeliano, per dieci anni sindaco di Gerusalemme, ha introdotto l’incontro organizzato mercoledì 8 maggio dal Keren Hayesod per i suoi sostenitori a Milano, una sala del SuperLab Bicocca. Alla presenza di alcuni membri dell’organizzazione, di partecipanti alla Women’s Division e di alcuni rappresentanti del consiglio della comunità ebraica di Milano e il vicepresidente dell’Ucei, il ministro, invitato dallo shaliach del Keren Hayesod Eyal Avneri(a sinistra) e dal presidente in Italia Victor Massiah (a destra), ha dato ai presenti un quadro molto chiaro della difficile situazione che sta affrontando Israele. Prima di tutto, si è soffermato sul ruolo centrale del Qatar, il grande finanziatore del terrore nel mondo, “un lupo travestito da agnello”. “Mentre l’Iran è concentrato sul versante militare il Qatar lo è su quello economico: finanziano Isis, Hamas, Hezbollah e altre sigle nel mondo, non solo contro Israele. Ma comprano anche l’opinione pubblica: hanno speso negli ultimi vent’anni di dollari nelle università, nei social media – hanno 40.000 persone che lavorano per loro sulle varie piattaforme social -. Ma i governi israeliani e il mondo ebraico hanno fino a oggi ignorato questa sfida, e il 7 ottobre ci ha dimostrato che siamo davanti a una minaccia esistenziale. L’attacco missilistico dell’Iran, che abbiamo sventato, ce lo ha confermato: Israele e il mondo ebraico sono minacciati e dobbiamo essere uniti in questa battaglia”. Barkat ha sottolineato come, dal ritiro di Israele, nel 2006, a Gaza abbiano usato enormi finanziamenti per costruire le armi i tunnel e organizzare la guerra contro la guerra, nascondendo le infrastrutture nei luoghi civili (scuole, ospedali, moschee, case). “Per questa guerra che stiamo combattendo a Gaza abbiamo due obiettivi: portare a casa gli ostaggi e eliminare Hamas, così come furono eliminati i nazisti alla fine della seconda guerra mondiale. Stiamo quindi cercando a Gaza di distruggere le infrastrutture e purtroppo sono tutti edifici civili, ma non abbiamo scelta. Lo facciamo con la metodologia della decrescita di vittime civili: quando individuiamo un palazzo di Hamas, mettiamo sopra il tetto una bomba, che scoppierà un’ora dopo, in modo di avvisare agli abitanti e consentire loro di scappare”. Per perseguire questi obiettivi, ha spiegato Barkat, l’esercito è entrato a Rafah, con il consenso di tutto il gabinetto di sicurezza, composto dalle diverse forze politiche, e sostenuto dal 90% della popolazione. “L’impegno dell’esercito è ridurre il più possibile le morti civili, è nel nostro Dna, Ma purtroppo in guerra è inevitabile. Sul numero delle vittime a Gaza, che è riportato essere più di 34.000, non si considera che almeno la metà sono terroristi. Nelle guerra è sempre stato così: I morti americani a Pearl Harbour sono stati 2.400, la reazione americana ha causato 3,5 milioni vittime giapponesi. I morti nelle Torri Gemelle furono 2.900, gli iracheni 400.000”. Per il futuro l’obiettivo è chiaro: “rafforzare l’alleanza per la pace, togliendo fondi e forza al Qatar e allo schieramento terroristico, coinvolgendo maggiormente gli emirati e i sauditi nella nostra alleanza, in modo che influenzino i palestinesi. Gli israeliani meritano dei vicini come sauditi ed Emirati, e i palestinesi meritano di diventare come queste popolazioni: nel momento in cui i palestinesi sceglieranno di abbandonare la guerra per la pace troveranno Israele disponibile a fare la pace con loro, così come abbiamo fatto con gli altri vicini. I palestinesi dovranno cambiare il loro sistema educativo, che incita a uccidere un ebreo dando a chi lo fa 1 milione di dollari, così come hanno fatto di recente gli emirati seguiti dai sauditi tre mesi fa. Hanno scelto la via della pace, e vogliono avvicinarsi al resto del mondo”. Venendo all’economia, Barkat ha spiegato come il 25% del Pil di Israele viene dalla tecnologia, contro ad esempio il 7 % negli Usa. «Abbiamo il classico high tech, e siamo molto attivi nelle tecnologie per il mondo della salute e biologia (le health life sciences), e con oltre 160 startup in questo settore, siamo secondi al mondo dopo gli Usa, con un altissimo livello di innovazione – ha spiegato -. Grazie alle tecnologie che abbiamo, sarà l’intelligenza artificiale a cambiare totalmente il mondo medico. Siamo molto forti anche computer science: pensate all’app Waze, che è stata inventata in Israele. Ma ci stiamo anche concentrando nell’Acquatech, con innovazione che utilizza l’acqua marina, e agrotech, con tecnologie per ottimizzare l’agricoltura, così come nello sviluppo di tecnologie nel deserto. Ad oggi esportiamo dall’hi tech per 1,65 miliardi di dollari, e il mio obiettivo è di arrivare a 3 miliardi nei prossimi 15 anni. E parleremo anche con l’Italia per esportare la nostra tecnologia. Israele è resiliente: abbiamo un debito del 65% rispetto al PIL, nonostante la guerra (l’Italia è al 137%, ndr)». Rispondendo alle domande dei presenti, Barkat ha affrontato diversi temi caldi. Innanzitutto il rapporto con Fatah e Turchia. «Fatah ha ancora l’obiettivo di distruggere Israele: basta ascoltare quello che dicono in arabo (non inglese). Il loro obiettivo è uccidere gli ebrei, non creare uno Stato. Mentre la Turchia comincia ad avere politiche problematiche soprattutto per il commercio, ma Israele troverà un modo per fare a meno di loro». Barkat ha poi parlato dell’impatto economico della guerra. «Abbiamo centinaia di famiglie che hanno perso i loro amati, 10.000 feriti, oltre a tutti gli sfollati dal sud e dal nord. Il governo si occupa quindi di costruire scuole e infrastrutture per loro, così come di aiutare economicamente chi è stato impattato fortemente dal 7 ottobre. Abbiamo riservisti che per mesi hanno lasciato il lavoro, ma questo non avrà conseguenze perché avremo sicuramente una crescita dopo la guerra». Interessante è anche l’impegno di Israele nel settore della sicurezza, che esporta l’80% di quello che viene prodotto. «E sicuramente questa quota crescerà nel futuro, per l’interesse degli altri Paesi». Un tema che è più volte emerso dalle domande del pubblico è stata la difficoltà di difendere le istanze di Israele in un momento così difficile e drammatico. «È importante collaborare con le comunità e le organizzazioni nei vari Paesi per fare in modo che lavorino sulla comunicazione, facendo conoscere tutti i fatti che vengono ignorati – ha spiegato Barkat -. Stiamo investendo proprio per sviluppare queste attività, cercando di combattere la propaganda contro di noi, prima di tutto sui social. Un altro fronte sui cui lavorare è fermare gli investimenti del Qatar sui media e nelle università. E poi dobbiamo spiegare meglio quello che succede in guerra quotidianamente, ma non attraverso esponenti militari. In generale si deve fare emergere quello che oggi è Israele: uno Stato resiliente, che fornisce tecnologie utili al mondo e che lotta contro il terrorismo che minaccia tutto l’Occidente».
(Bet Magazine Mosaico, 10 maggio 2024)
Due nomi
Israele e Palestina sono due nomi dietro i quali sono in lotta due campi spirituali: da una parte Dio eil Suo popolo, dall’altra Satana e le nazioni. I ben intenzionati, gli “amanti della pace” che soffrono per le intolleranze degli “opposti estremismi” vorrebbero risolvere il problema facendo a metà: due zone, dueStati, due nomi: Israele e Palestina. Come dire: un po’ a Dio e un po’ a Satana. Questi pacifisti che credono di poter essere più buoni di Dio assumendo il ruolo di mediatori tra due gruppi di violenti in lotta, in realtà finiscono sempre per difendere una sola delle due parti: la Palestina. Alla fine costituiranno le truppe di riserva dell’esercito di Satana: dopo i falchi oltranzisti dell’Islam, scenderanno in campo contro Israele le colombe accomodanti delle Nazioni Unite. E tutti e due i gruppi parteciperanno alla comune sconfitta.
“In quel giorno, nel giorno che Gog verrà contro la terra d’Israele, dice Dio, il Signore, il mio furore mi monterà nelle narici [...] Verrò in giudizio contro di lui, con la peste e con il sangue; farò piovere torrenti di pioggia e grandine, fuoco e zolfo, su di lui, sulle sue schiere e sui popoli numerosi che saranno con lui. Così mostrerò la mia potenza e mi santificherò; mi farò conoscere agli occhi di molte nazioni, ed esse sapranno che io sono il Signore” (Ezechiele 38:18,22-23).
Hamas non ha fretta, crede che i tempi lenti lo rafforzino ed è pronto a prendersi il merito del voto dell’Assemblea generale dell’Onu per rafforzare la missione palestinese
di Micol Flammini
Il gabinetto di guerra israeliano ha votato a favore di ampliare l’operazione a Rafah in modo limitato. I carri armati di Tsahal hanno diviso in due la città e la parte orientale, quella più vicina al confine israeliano, è stata isolata. E’ da febbraio che Rafah è al centro del dibattito, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato più e più volte di aver dato l’ordine di preparare tutto per un’offensiva contro la città, i quattro battaglioni di Hamas sono vivi e vegeti nelle profondità di Rafah e gli Stati Uniti, da quando si parla della città dove la popolazione è più che quadruplicata, hanno cercato di trattenere Israele senza troppa convinzione: bloccare adesso la consegna di alcune armi non lascia Tsahal senza mezzi per attaccare Rafah. In Israele c’è un vivo dibattito sui tempi della guerra e in molti si sono dati una risposta: questo conflitto sta durando troppo, l’esercito procede con lentezza, prendendosi giorni che non ha. Il giornalista del Times of Israel Lazar Berman ha spiegato che in questa guerra la velocità è fondamentale e invece l’esercito è cambiato in modo radicale rispetto al passato e non è più in grado di sostenere un conflitto rapido. E’ stata la velocità a dargli il vantaggio quando Israele venne attaccato da più lati e da più nemici, ma quando i conflitti contro lo stato ebraico sono cambiati e ha dovuto affrontare non più eserciti ma dei gruppi armati, la struttura di Tsahal ha iniziato a smontarsi. Più la guerra si allunga, più Hamas ne avrà dei benefici e l’errore non è soltanto politico ma è anche militare. L’offensiva contro la Striscia di Gaza è iniziata tardi, venti giorni dopo il 7 ottobre, quando ormai la comunità internazionale aveva dimenticato cosa era accaduto durante gli attacchi dei terroristi ai kibbutz, aveva dimenticato i morti, i rapiti, i corpi bruciati. Il sostegno a Israele era svanito e Hamas aveva già capito che con facilità avrebbe potuto portarlo dalla sua parte. Il secondo errore è stato quello di attaccare un settore di Gaza alla volta, di dividere in due la Striscia, di puntare prima su Gaza City, poi su Khan Younis infine su Rafah, consentendo ai terroristi di avere sempre un posto in cui nascondersi e spostarsi. Che Rafah fosse uno degli snodi fondamentali delle operazioni dei terroristi non era un segreto, ma da un lato Tsahal non era addestrato per attaccare tutte le città contemporaneamente e dall’altro doveva fornire alla popolazione civile bloccata nella Striscia un posto in cui rifugiarsi. E’ trascorso troppo tempo dall’annuncio dell’invasione al momento in cui l’invasione è avvenuta e troppo tempo da quando Israele ha iniziato a parlare della necessità di andare a Rafah a quando ha effettuato le manovre per procedere. Dopo i primi quattro mesi di guerra, Israele ha dovuto congedare parte dei riservisti perché l’economia del paese ne aveva bisogno e con meno uomini le operazioni nella Striscia sono cambiate. Il tempo ha rafforzato Hamas sul tavolo dei negoziati, l’ha convinto che quanto più Israele fosse stato costretto a una guerra lunga, tanto maggiore sarebbe stata la capacità dei terroristi di sopravvivere. Il calcolo non è stato sbagliato dal punto di vista del sostegno internazionale: oggi l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione per rafforzare la posizione della missione palestinese e Hamas è pronto a prendersi i meriti. Agli attacchi di Tsahal, finora i terroristi hanno risposto disperdendo i battaglioni, e raggruppandosi una volta che i soldati israeliani si erano ritirati. Hamas è militarmente indebolito, ma lancia segnali di non esserlo mentalmente. Un esempio lo ha dato domenica scorsa: mentre i negoziati al Cairo, secondo i mediatori, procedevano in modo positivo, i terroristi hanno ripreso a lanciare razzi, colpendo anche il valico di Kerem Shalom e uccidendo quattro soldati israeliani. I razzi erano stati lanciati proprio dall’area di Rafah ed era normale che da quel momento i negoziati cambiassero e gli israeliani si facessero più aggressivi nel tentativo di cercare di costringere Hamas a un accordo. I terroristi però sembrano fiduciosi nel fatto che potranno riorganizzarsi, ricostituire le loro formazioni militari e riprendere il potere dentro alla Striscia di Gaza. Perdere altro tempo allontanerebbe ancora di più Israele dall’obiettivo di eliminare la struttura militare di Hamas e uno degli errori che Berman evidenzia nel suo pezzo sta nel fatto che non c’è un piano per sostituire i terroristi. Il vuoto di potere fa sì che Hamas torni, più tempo passa tra un’offensiva e l’altra, più i terroristi riescono a ristabilire la catena di comando. Il dibattito sul ritmo della guerra è intenso in Israele, finora le colpe si sono concentrate sulla parte politica, sulla mancanza di pianificazione da parte del governo, ma presto arriverà il momento in cui si indagherà sulle scelte dell’esercito. Hamas è convinto di avere il tempo dalla sua parte. Il tempo che serve a stancare Tsahal. Il tempo che serve a far crescere la pressione internazionale. Il tempo che serve a far dimenticare cosa è accaduto il 7 ottobre.
A pagare le rivolte nelle università sono gruppi con legami nell’eversione
Tra i finanziatori, organizzazioni legate all’islamismo radicale. Critiche da Israele anche al Qatar che dà fondi agli atenei americani ma in cambio chiede riconoscimento per la sua agenda politica.
di Mauro Zanon
Nelle ultime settimane, in decine di università americane, gruppi di studenti, docenti e agitatori di professione hanno occupato aule e interrotto l’attività accademica per esprimere il loro sostegno all’organizzazione terroristica Hamas e intimidire gli studenti ebrei e filo-israeliani. Le proteste hanno spesso assunto la forma di accampamenti in luoghi centrali delle università, che hanno impedito agli studenti di confessione ebraica di accedere alle lezioni e ad altre strutture. «Quello a cui stiamo assistendo non è una risposta emotiva casuale, ma il frutto di vent’anni di lavoro e preparazione da parte di diversi gruppi anti-israeliani e pro-terrorismo», ha dichiarato a Jewish News Syndicate Gerald Steinberg, responsabile dell’Ong Ngo Monitor, con sede a Gerusalemme.
• INDEPENDENCE DAY Uno sguardo più attento alla struttura organizzativa di queste azioni di protesta rivela una complessa rete di gruppi studenteschi, Ong e governi stranieri. Tra i principali gruppi studenteschi alle origini delle proteste pro-palestinesi, con derive antisemite, c’è Students for Justice in Palestine (Sjp): «Sjp non ha un Irs (non ha l’obbligo di dichiarare le sue entrate all’Internal Revenue Service degli Stati Uniti, ndr) e la maggior parte delle fonti di finanziamento sono ignote, il che solleva grandi preoccupazioni», ha sottolineato Steinberg, prima di aggiungere: «Semplicemente non c’è trasparenza su chi li finanzia». Hatem Bazian, professore del dipartimento di Medio Oriente dell’Università di Berkeley e fondatore di Sjp, è la figura centrale di questo sistema opaco di finanziamenti, il ponte con le organizzazioni islamiste estremiste. Bazian, che lo scorso 8 ottobre, ossia il giorno dopo il massacro di Hamas in Israele, ha organizzato a San Francisco una manifestazione per celebrare l’attacco descrivendolo come il “Giorno dell’Indipendenza Palestinese”, è stato in precedenza uno dei principali raccoglitori di fondi per conto dell’Ong Kindhearts. Con sede in Ohio, Kindhearts, nel 2006, è stata chiusa dal Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti per aver finanziato illegalmente Hamas. Bazian è stato anche un importante sostenitore e oratore dell’Associazione islamica per la Palestina (Iap), che ha chiuso i battenti dopo essere stata ritenuta colpevole in tribunale nel 2004 di aver sostenuto Hamas. «Hatem Bazian, il capo dell’Sjp, ha chiari legami con varie organizzazioni terroristiche», ha dichiarato Steinberg al Jns. A confermarlo è un rapporto di 73 pagine dell’Istituto per lo Studio dell’Antisemitismo Globale (Isgap): National Students for Justice in Palestine e Students for Justice in Palestine, che dipende dalla prima, sono sigle dei Fratelli Musulmani, finanziate e assistite dal Qatar attraverso American Muslims for Palestine (Amp). Bazian è anche cofondatore di Amp, attualmente sotto inchiesta da parte del Procuratore generale della Virginia, dopo essere stata accusata di essere una reincarnazione dell’Iap. Il suo ex direttore esecutivo, Abdelbaset Hamayel, e il suo attuale direttore, Osama Abuirshaid, erano rispettivamente membri del cda e direttori dello Iap. L’Amp nega qualsiasi legame con Hamas, ma conferma le sovvenzioni tra i 500 e i 2.000 dollari a gruppi studenteschi filo-palestinesi. Salah Sarsour, membro del consiglio nazionale dell’Amp, è stato anche fra i principali raccoglitori di fondi per la Holy Land Foundation, che nel 2001 è stata riconosciuta come gruppo terroristico per aver versato più di 12 milioni di dollari a Hamas. Nel complesso, l’Isgap ha tracciato «oltre 3 milioni di dollari all’anno destinati a vari gruppi studenteschi pro-palestinesi» da «una costellazione di organizzazioni affiliate al terrorismo» alla Columbia University.
• LA GALASSIA Nel 2020, l’autore e traduttore americano Raymond Ibrahim ha pubblicato un rapporto che mostrava come il Qatar avesse investito 5,6 miliardi di dollari in 81 università americane dal 2007, tra cui Harvard, Yale, Cornell e Stanford. Ibrahim ha inoltre rivelato che il Qatar ha usato la sua influenza nelle scuole per promuovere gli studi islamici e per cancellare specificamente lo studio di altre minoranze mediorientali, tra cui cristiani, ebrei, curdi e yazidi. Il governo del Qatar ha negato qualsiasi legame con le proteste studentesche pro-palestinesi nei campus americani. Il suo ambasciatore negli States ha recentemente scritto su X che «il Qatar non influenza queste università e non abbiamo nulla a che fare con tutto ciò che accade nei loro campus negli Stati Uniti».
La rappresentante israeliana all’Eurovision, Eden Golan, parteciperà alla finale di sabato, dove sarà la sesta a cantare. L’artista si è esibita con la canzone “Hurricane”, scritta da Avi Ohayon, Keren Peles e Stav Beger, nella seconda semifinale.
Una prestazione impeccabile quella di Eden Golan che si è esibita con una ballad potente e dall’alto tasso emotivo, che è stata premiata dal televoto, in particolare dall’Italia, dove ha ricevuto il 39,31%, ossia la stragrande maggioranza dei voti. La percentuale è stata rivelata accidentalmente dall’emittente italiana subito dopo i risultati.
Durante l’esibizione si sono udite manifestazioni di dissenso da parte di una piccola parte del pubblico, nonostante ciò la cantante israeliana non si è lasciata turbare, ma anzi ha convinto il resto della Malmö Arena, che ha voluto premiare Eden Golan e la sua canzone con applausi scroscianti durante tutta la performance. Durante la semifinale, uno dei partecipanti al pubblico ha sventolato una bandiera dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Le guardie di sicurezza lo hanno immediatamente allontanato dalla sala.
Troppo tardi. Troppo tardi Israele, e con lui buona parte del mondo ebraico italiano, si è accorto di un suo punto di vitale interesse, che invece i suoi nemici molto presto hanno scorto e su cui hanno continuato per anni a battere con insistenza fino a vederne oggi un risultato indubbiamente radioso per loro. Il punto debole ha un nome che ha valore legale: “occupazione”. Quali che fossero i vari motivi di contrasto tra le parti, contro Israele è stata ripetuta all’infinito una sentenza di condanna irrevocabile: Israele occupa illegalmente territori non suoi.
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David Elber, Il diritto di sovranità in terra di Israele, Salomone Belforte & C., marzo 2024
L’autore di questo sintetico e ben documentato libro conclude con queste parole:
Come risulta chiaro da quanto esposto, un termine legale (occupazione) è stato deformato per diventare strumento politico e morale per accusare Israele di agire in modo abietto, cioè di occupare illegalmente un territorio che non gli appartiene.
Questa convinzione generale ha avuto la propria origine in seno allo Stato ebraico; non gli è stata applicata da nemici esterni. Costoro hanno soltanto trovato pronto su un vassoio d' argento il corpo contundente che non hanno mai smesso di utilizzare per criminalizzare Israele.
Un’ammissione tremenda, ma fatta troppo in ritardo. Quello che forse avrebbe potuto essere ottenuto in tempi in cui una rigorosa analisi giuridica messa a sostegno di corrispondenti azioni politiche avrebbe forse potuto contrastare l’azione dei nemici di Israele, oggi non verrebbe neppure presa in considerazione da chi ormai crede di avere tutte le ragioni politiche e morali di veder sparire Israele da quella terra che considerano rubata ad altri.
Adesso, dopo che il diffuso antisemitismo quiescente ha trovato modo di uscire allo scoperto, piovono da tutte le parti ricostruzioni di quello che sarebbe stato il processo di ricostruzione dello Stato d’Israele. Ricostruzioni false e tendenziose, senza riferimenti puntuali a documenti esistenti, appoggiate spesso da video accattivanti che dovrebbero confermare indiscutibilmente la tesi voluta: Israele occupa illegalmente quella terra, opprimendo gli abitanti originali. E questo spiegherebbe tutto. Di ricostruzioni rigorose e documentate come quelle qui commentate non c’è più bisogno.
Riportiamo allora quello che si trova scritto su questo sito da più di dieci anni:
Aver consentito al mondo di chiamare "territori occupati" quelle parti della terra di Israele che sono state liberate dall’illegale occupazione che ne avevano fatta Egitto e Giordania è uno dei più gravi cedimenti della politica israeliana degli ultimi venti anni. Israele ha ceduto diritti sperando di averne in cambio pace, e come risultato ha ottenuto che i diritti consegnati come “prova di buona volontà” in vista della pace sono stati afferrati dai nemici e usati come micidiali armi di guerra. E' significativa l'insistenza con cui tutti, anche coloro che sembrano voler prendere le parti di Israele, fanno uso ripetuto di espressioni come “territori occupati”, “forze di occupazione”, “insediamenti illegali”. Qualunque sia la frase benevola verso Israele che in seguito venga usata, rimane, indelebile, il marchio infamante dell’illegittima occupazione. Questo naturalmente turba gli animi più sensibili: “Difendiamo Israele, però... l’immorale occupazione deve finire”. Se si ha la pazienza e l’onestà intellettuale di seguire le argomentazioni di Howard Grief, di leggere i suoi articoli e, preferibilmente, il suo documentatissimo libro, certi malposti “scrupoli morali” possono essere lasciati cadere. Immorale è quell’insieme di compromessi, menzogne, penombre e oscurità che ha portato alla mistificante creazione del concetto di "stato palestinese". (NsI)
Il 25 aprile 2010 si tenne a Sanremo una cerimonia per ricordare e celebrare la Risoluzione di Sanremo del 25 aprile 1920, che si può considerare come il momento in cui fu concepito quello stato per gli ebrei che il 14 maggio 1948 si costituirà col nome di Stato d’Israele. La notizia di quella cerimonia fu diffusa anche in campo evangelico e ad essa fu presente e collaborò l’associazione EDIPI (Evangelici d’Italia per Israele). Non parteciparono invece membri ufficiali del mondo ebraico italiano. Dalla relazione presentata in quell’occasione dal delegato israeliano, ricavai l’impressione che l’argomento era poco noto, o comunque poco sottolineato, anche in Israele. Il libro di Elber ne è adesso una conferma.
Si può aggiungere un’osservazione che può servire a spiegare come mai questo argomento ha trovato l’interesse di una parte dell’ambiente evangelico italiano. Dipende dalla Bibbia. E’ la miracolosa coincidenza giuridica tra diritto biblico e diritto internazionale, come avvenne nel caso dell’editto di Ciro, che fu voluto da Dio, ma operò fra gli uomini come volontà del re di Persia. Il diritto biblico di Israele alla sua terra è stato confermato anche dal diritto internazionale. Se questa formulazione del diritto internazionale è espressione di un diritto biblico su Israele voluto da Dio, è chiaro che il tentativo di annullare questo diritto è un’azione dell’Avversario di Dio, cioè Satana. E oggi l’aspetto satanico che ha assunto questo tentativo di annullamento dello Stato d'Israele è sempre più visibile. A chi ha occhi per vedere. M.C.
Parashat Kedoshim. L’etica dell’ebraismo considera le complessità della morale
Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Il diciannovesimo capitolo di Vaykrà, con cui inizia la nostra parashà, è una delle dichiarazioni supreme dell’etica della Torà. Parla del giusto, del bene e del santo e contiene alcuni dei più grandi comandi morali dell’ebraismo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” e “Il forestiero che vive in mezzo a te sia come il tuo nativo. Amalo come te stesso, perché tu eri straniero in Egitto”. Ma il capitolo è anche straordinariamente strano. Contiene quella che sembra un miscuglio casuale di precetti, molti dei quali non hanno nulla a che fare con l’etica e hanno solo una tenue connessione con la santità: Non accoppiare diversi tipi di animali. Non piantare il tuo campo con due tipi di semi. Non indossare abiti tessuti con due tipi di materiale. (Vaykra 19:19) Non mangiare carne con il sangue ancora dentro. Non praticare la divinazione o la stregoneria. Non tagliare i capelli ai lati della testa e non tagliare i bordi della barba. (Vaykra 19:26-28) E così l’elenco continua. Che cosa hanno a che fare con il giusto, il buono e il santo? Per capire questo dobbiamo fare un enorme salto di qualità nella visione morale/sociale/spirituale unica della Torà, così diversa da quella che troviamo altrove. L’Occidente ha avuto molti tentativi di definire un sistema morale. Alcuni si sono concentrati sulla razionalità, altri sulle emozioni come la simpatia e l’empatia. Per alcuni il principio centrale era il servizio allo Stato, per altri il dovere morale, per altri ancora la massima felicità del maggior numero. Queste sono tutte forme di semplicità morale. L’ebraismo insiste sull’opposto: la complessità morale. La vita morale non è facile. A volte i doveri o le lealtà si scontrano. A volte la ragione dice una cosa, l’emozione un’altra. Più fondamentalmente, l’ebraismo ha identificato tre distinte sensibilità morali, ognuna delle quali ha la sua voce e il suo vocabolario. Esse sono [1] l’etica del re, [2] l’etica del sacerdote e, fondamentalmente, [3] l’etica del profeta. Geremia ed Ezechiele parlano delle loro sensibilità distintive: Perché l’insegnamento della legge [Torà] da parte del sacerdote non cesserà, né il consiglio [etzah] del saggio [chacham], né la parola [davar] dei profeti. (Geremia 18:18) Andranno alla ricerca di una visione [chazon] del profeta, l’insegnamento sacerdotale della legge [Torà] cesserà, il consiglio [etzah] degli anziani avrà fine. (Ezechiele 7:26) I sacerdoti pensano in termini di Torà. I profeti hanno “la Parola” o “una visione”. Gli anziani e i saggi hanno “etzah”. Che cosa significa? I re e le loro corti sono associati nel giudaismo alla saggezza – chochmah, etzah e i loro sinonimi. Diversi libri del Tanach, tra cui spiccano i Proverbi e l’Ecclesiaste (Mishlei e Kohelet), sono libri di “saggezza”, il cui esemplare supremo è il re Salomone. La sapienza nell’ebraismo è la forma più universale di conoscenza e la letteratura sapienziale è quella che più si avvicina alla Bibbia ebraica e alle altre letterature del vicini oriente antico e dei saggi ellenistici. È pratica, pragmatica, basata sull’esperienza e sull’osservazione; è giudiziosa, prudente. È una ricetta per una vita sicura e sana, senza eccessi o estremi, ma difficilmente drammatica o trasformativa. Questa è la voce della saggezza, la virtù dei re. La voce profetica è molto diversa, appassionata, vivida, radicale nella sua critica all’abuso di potere e allo sfruttamento della ricchezza. Il profeta parla a nome del popolo, dei poveri, degli oppressi, degli abusati. Pensa alla vita morale in termini di relazioni: tra Dio e l’umanità e tra gli stessi esseri umani. I termini chiave per il profeta sono tzedek (giustizia distributiva), mishpat (giustizia retributiva), chessed (amorevolezza) e rachamim (misericordia, compassione). Il profeta ha intelligenza emotiva, simpatia ed empatia, e sente la condizione di chi è solo e oppresso. La profezia non è mai astratta. Non pensa in termini universali. Risponde al qui e ora del tempo e del luogo. Il sacerdote ascolta la parola di Dio per tutti i tempi. Il profeta ascolta la parola di Dio per questo tempo. L’etica del sacerdote, e della santità in generale, è di nuovo diversa. Le attività chiave del sacerdote sono lehavdil – discriminare, distinguere e dividere – e lehorot – istruire le persone sulla legge, sia in generale come insegnanti che in casi specifici come giudici. Le parole chiave del sacerdote sono kodesh e chol (santo e profano), tame e tahor (impuro e puro). Il passo più importante della Torà che parla con voce sacerdotale è il capitolo 1 di Bereshit, il racconto della creazione. Anche qui un verbo chiave è lehavdil, dividere, che compare cinque volte. Dio divide tra luce e buio, acque superiori e inferiori, giorno e notte. Altre parole chiave sono “benedire” – Dio benedice gli animali, l’umanità e il settimo giorno; e “santificare” (kadesh) – alla fine della creazione Dio santifica lo Shabbat. In altre parti della Torà il verbo lehavdil e la radice kadosh ricorrono in un contesto sacerdotale; sono i sacerdoti a benedire il popolo. Il compito del sacerdote, come quello di Dio alla creazione, è quello di portare ordine dal caos. Il sacerdote stabilisce dei confini sia nel tempo che nello spazio. Ci sono tempi e luoghi sacri, e ogni tempo e luogo ha una sua integrità, una sua collocazione nello schema totale delle cose. La protesta del kohen è contro l’offuscamento dei confini così comune nelle religioni pagane – tra gli dei e gli uomini, tra la vita e la morte, tra i sessi e così via. Il peccato, per il kohen, è un atto compiuto nel posto sbagliato e la sua punizione è l’esilio, l’essere scacciati dal posto che spetta loro. Una buona società, per il kohen, è quella in cui ogni cosa è al suo posto, e il kohen ha una sensibilità speciale verso l’estraneo, la persona che non ha un proprio posto. La strana raccolta di mitzvot in Kedoshim si rivela quindi non essere affatto incomprensibile. Il codice di santità vede l’amore e la giustizia come parte di una visione totale di un universo ordinato in cui ogni cosa, persona e atto hanno il loro giusto posto, ed è questo ordine che viene minacciato quando il confine tra diversi tipi di animali, cereali, tessuti viene violato; quando il corpo umano viene lacerato; o quando le persone mangiano il sangue, segno di morte, per alimentare la vita. Nell’Occidente secolare conosciamo bene la voce della saggezza. È un terreno comune tra i libri dei Proverbi e dell’Ecclesiaste e i grandi saggi, da Aristotele a Marco Aurelio a Montaigne. Conosciamo anche la voce profetica e quello che Einstein ha definito il suo “amore quasi fanatico per la giustizia”. Conosciamo molto meno l’idea sacerdotale secondo cui, come esiste un ordine scientifico nella natura, esiste anche un ordine morale, che consiste nel tenere separate le cose che sono separate e nel mantenere i confini che rispettano l’integrità del mondo che Dio ha creato e che sette volte ha dichiarato buono. La voce sacerdotale non è marginale nel giudaismo. È centrale, essenziale. È la voce del primo capitolo della Torà. È la voce che ha definito la vocazione ebraica come “regno di sacerdoti e nazione santa”. Domina Vaykra, il libro centrale della Torà. E mentre lo spirito profetico vive nell’ haggadah, la voce sacerdotale prevale nella halachah. E lo stesso nome Torà – dal verbo lehorot – è una parola sacerdotale. Forse l’idea dell’ecologia, una delle scoperte chiave dei tempi moderni, ci permetterà di comprendere meglio la visione sacerdotale e il suo codice di santità, che vedono l’etica non solo come saggezza pratica o giustizia profetica, ma anche come onore alla struttura profonda – l’ontologia sacra – dell’essere. Un universo ordinato è un universo morale, un mondo in pace con il suo Creatore e con se stesso.
L’antisionismo è una forma di discriminazione antisemita, e importa poco che ci sia chi si presenta come “ebreo antisionista”
Discriminare significa trattare un gruppo di persone in modo diverso e peggiore degli altri. L'identità della persona che compie la discriminazione è del tutto irrilevante.
di Ayalon Eliach
Nel suo recente pezzo sulle proteste anti-israeliane, il rapper Macklemore dice: “Vediamo le loro menzogne, sostengono che essere antisionista è antisemita. Ho visto fratelli e sorelle ebrei là fuori manifestare e urlare Palestina libera”. È un luogo comune che viene ripetuto infinite volte: l’antisionismo, cioè negare il diritto di Israele ad esistere come stato ebraico (anziché criticare specifiche politiche israeliane) non può essere antisemita perché ci sono persone che lo fanno e si identificano come ebrei. Ecco il punto. In realtà, nel corso della storia non sono quasi mai mancati degli ebrei che si mostravano orgogliosamente solidali con oppressori e persecutori antisemiti. Diamo un’occhiata a un paio di esempi lampanti. All’inizio dell’era volgare, la più grande popolazione ebraica del mondo viveva nella sua patria ancestrale, la Giudea (nell’attuale Israele e Cisgiordania), il paese da cui deriva la parola “giudeo”. Godevano di una forma di semi-autonomia finché i Romani al potere iniziarono a negare le loro libertà. Nel 66 e.v. gli ebrei si ribellarono, ma “un gruppo di ebrei… sostenne il dominio Romano nonostante i numerosi conflitti e tensioni tra la popolazione ebraica e i funzionari Romani”. I Romani repressero nel sangue la rivolta, distrussero il Tempio ebraico di Gerusalemme, massacrarono e ridussero in schiavitù centinaia di migliaia di ebrei ed esiliarono la maggior parte dei sopravvissuti dalla loro patria dando luogo a un esilio spesso cruento, che durò per i successivi duemila anni. Rapido salto in avanti fino alla Germania dei primi anni ’30. Hitler salì al potere su una piattaforma che sosteneva che gli ebrei fossero responsabili di tutti i mali della Germania. La maggior parte degli ebrei era terrorizzata. Molti tentarono di fuggire. Ma alcuni credevano che questi timori fossero esagerati, che Hitler stesse solo simulando e che ciò di cui la Germania aveva bisogno fosse proprio l’iniziazione di autostima nazionale offerta dai nazisti. Così nel 1934, la Lega Nazionale degli ebrei tedeschi (Verband nationaldeutscher Juden), che contava migliaia di persone, esortò “tutti gli ebrei tedeschi a votare per il cancelliere Hitler”. Nel giro di pochi anni furono quasi tutti uccisi dalla Gestapo. Lo stesso vale, purtroppo, per altri gruppi e forme di discriminazione. Nei primi secoli delle colonie americane e degli Stati Uniti, milioni di afroamericani furono brutalizzati, torturati e uccisi dalla schiavitù. Ma ci furono anche alcuni afroamericani liberati che possedevano a loro volta degli schiavi. Non conosceremo mai la psicologia interiore o le recondite intenzioni di queste persone. Ma ciò che è chiarissimo è che, nei fatti, erano schierate dalla parte dell’oppressione. Sarebbe assurdo sostenere che Hitler non fosse antisemita perché aveva alcuni sostenitori ebrei, o che la schiavitù non fosse razzista perché c’erano alcuni schiavisti neri. Se gli antisionisti, compresi quelli che si identificano come ebrei, vogliono affermare che le loro posizioni non sono antisemite, che portino degli argomenti nel merito senza aggrapparsi al fatto di essere ebrei o che vi sono degli ebrei d’accordo con loro. La discriminazione in generale, e l’antisemitismo in particolare, significa trattare un gruppo di persone, in questo caso gli ebrei, in modo diverso e peggiore degli altri. L’identità della persona che compie la discriminazione è del tutto irrilevante. Se vogliono sostenere che Israele non dovrebbe garantire uno spazio speciale all’ebraismo come fede e tradizione religiosa (pur nel rispetto dei diritti dei non ebrei), allora dovrebbero spiegare perché applicano a Israele una regola diversa da quella che vale per più di 80 paesi (il 40% del mondo) tra i quali Inghilterra, Spagna, Italia e, sì, anche i Territori dell’Autorità Palestinese, che favoriscono una specifica religione nonostante abbiano al loro interno minoranze religiose e laiche. Se vogliono sostenere che Israele non dovrebbe dare automaticamente cittadinanza agli immigrati ebrei (pur accettando anche immigrati non ebrei secondo normali procedure di naturalizzazione), allora dovrebbero spiegare perché applicano a Israele una regola diversa da quella che vale per i paesi che danno automaticamente la cittadinanza a certi gruppi etnici, ma non ad altri. Per citare solo alcuni esempi: l’Irlanda a stranieri che hanno nonni irlandesi, l’Italia a stranieri che hanno antenati italiani risalenti fino a 150 anni fa, la Lituania a immigrati che discendono da persone che vivevano in Lituania prima del 1940. Se vogliono sostenere che la maggioranza ebraica in Israele dovrebbe essere costretta a lasciare le proprie case e andarsene perché una parte significativa di quella maggioranza discende da immigrati anziché da persone nate nel paese, allora dovrebbero spiegare perché applicano a Israele una regola diversa da quella che vale per altri paesi la cui popolazione discende in grande maggioranza da immigrati, come gli Stati Uniti d’America, l’Australia e il Canada. Vale la pena ripeterlo ancora una volta: la discriminazione in generale, e l’antisemitismo in particolare, significa trattare un gruppo di persone, in questo caso gli ebrei, in modo diverso e peggiore degli altri (riconoscendo loro meno diritti degli altri). Per le ragioni di cui sopra, l’antisionismo sembra proprio questo: una forma di discriminazione a danno degli ebrei, dunque antisemita. Esorto gli antisionisti a spiegare perché pensano che Israele sia sostanzialmente diverso da tutti i paesi sopra menzionati, e potremo discuterne nel merito. Ma dire che l’antisionismo non è antisemita solo perché si proclamano antisionisti alcuni che si identificano come ebrei non ha senso: per dirla con Macklemore, è una menzogna. (Da: Times of Israel, 9.5.24)
Benjamin Netanyahu non è solo. Chi pensa che il premier israeliano sia l’unico a non voler ascoltare i consigli di moderazione di Joe Biden, cambi idea. Nir Barkat, suo ministro dell’Economia, è almeno altrettanto duro. «I morti americani a Pearl Harbour sono stati 2.400, la reazione americana ha causato 3,5 milioni vittime giapponesi. I morti nelle Torri Gemelle 2.900, gli iracheni uccisi della reazione americana 400 mila. Le guerre si combattono così. Il 7 ottobre Hamas ci ha attaccato, ha ucciso 1.200 israeliani e noi non ci fermeremo sino a che non avremo smantellato le loro strutture, annientato la loro capacità di farci del male. Dobbiamo farlo, è in gioco la nostra vita».
Sindaco di Gerusalemme per 10 anni, imprenditore di successo ed ex comandante di compagnia dei parà, Barakat è venuto in Italia per incontri politici e d’affari. Ha parlato con il Corriere a Milano.
- Ministro, il livello di violenza che Israele impiega contro un’organizzazione terroristica è per molti, Usa e Onu inclusi, assolutamente sproporzionato. «Totale non senso. E spiego perché. Primo, le guerre servono a sconfiggere il nemico. Gli esempi storici lo dimostrano. Secondo, non credo alle 35 mila vittime che proclama Hamas. Noi calcoliamo di aver eliminato 12 mila terroristi e crediamo siano la metà delle vittime. Un rapporto tra obiettivi e danni collaterali eccezionale. Terzo, parlare di genocidio è assurdo. In questi anni i palestinesi sono sempre aumentati di numero e a noi sta bene. Sono loro che vogliono eliminarci “dal fiume al mare”».
- I palestinesi chiedono un loro Stato. Non lo accetta? «Non è mai esistito uno Stato palestinese negli ultimi tremila anni. Basta leggere la Bibbia: ebrei citati dappertutto, palestinesi mai».
- Quindi rinnega la firma sugli accordi di Oslo? La soluzione dei «due popoli, due Stati» è carta straccia? «Con tutto il rispetto, Hamas non è interessato ai due Stati. Vuole tutto».
- L’altro partito palestinese, Fatah, però ha riconosciuto il diritto all’esistenza di Israele. «Fatah ha lo stesso obiettivo di Hamas. Non vuole la pace, vuole uno Stato è vero, ma solo per poi prendersi anche il nostro. La loro intenzione è uccidere gli ebrei proprio come Hamas. Lo insegnano ai bambini nelle scuole».
- Le manca ogni fiducia nella controparte. Come ad Hamas. «Si può andare indietro per anni ed esaminare chi ha ostacolato la pace, discutere per ore, ma dovete capire che questa non è una disputa territoriale, è una guerra di religione. Quando aprirete gli occhi sarà chiaro anche a voi. Noi entreremo a Rafah casa per casa e sradicheremo Hamas. È l’unico modo per salvarci».
- Avete un piano per il dopo? «Non possiamo contare su una democrazia palestinese. Con gli arabi questo sistema non funziona. C’è democrazia a Dubai o in Arabia? Da loro funzionano le tribù. Quindi perché non pensare a un futuro di comunità palestinesi autonome che convivono in parallelo con Israele? Strade, economia, amministrazioni parallele. Si può fare».
- Polizia ed esercito solo a Israele? «Inevitabile».
- Un ragazzino che oggi bombardate a Gaza, secondo lei sarà un adulto ben disposto verso Israele? «Non stiamo parlando di occidentali, ma di jihadisti che preferiscono far morire i loro figli o uccidersi per la causa. Il 70% dei palestinesi ha festeggiato l’eccidio del 7 ottobre. Hamas ha detto che vorrebbe farlo di nuovo. E non è solo».
- Chi altri? «L’alleanza del male: Iran, Houthi, Hezbollah, Hamas, Fratelli Musulmani e il più pericoloso di tutti: il Qatar, un lupo travestito da agnello. Il Qatar finanzia ovunque la Guerra Santa. È colpa del Qatar se gli studenti americani contestano Israele mostrando un’ignoranza sorprendente. Il Qatar è il maggior finanziatore di quegli atenei, ha pagato i cattivi maestri che condizionano gli studenti e ora se ne vedono i risultati».
Con la decisione di trattenere una fornitura d’armi a Israele in una congiuntura critica, gli Stati Uniti confermano, se ce ne fosse bisogno, che non vogliono la vittoria di Israele su Hamas. Non solo, si tratta, oggettivamente, di un assist lanciato all’asse islamico iraniano di cui Hamas, insieme a Hezbollah è uno dei delegati. È il proseguimento della disastrosa politica mediorientale di Barack Obama, incardinata su due perni, il rafforzamento della Fratellanza Musulmana, di cui Hamas è membro, e quello di Teheran, e il distanziamento da Israele. Le armi in questione, per il momento sospese sono 1.800 bombe da 2.000 libbre e 1.700 bombe da 500 libbre. Il motivo addotto è che la Casa Bianca teme che Israele voglia usare le bombe da 2.000 libbre in zone densamente popolate della Striscia, malgrado non ci sia alcuna evidenza che ciò sia già accaduto. Interrogato ieri durante una intervista alla CNN se Israele avesse usato bombe da 2.000 libbre su aree densamente abitate, Joe Biden ha risposto affermativamente senza, tuttavia, fornire alcun dato specifico. La realtà ha la forma dell’interesse americano a che la guerra si concluda in fretta con un accordo con Hamas che Israele dovrebbe accettare obtorto collo. Ieri, il capo della Cia, William Burns ha detto a Netanyahu che dovrebbe considerare la fine della guerra come “una virgola” che prelude al punto di un accordo con l’Arabia Saudita. Non si vede poi che interesse avrebbero i sauditi ad accordarsi con Israele in funzione di deterrenza anti iraniana lasciando permanere a Gaza, Hamas che l’Iran finanzia copiosamente. Sempre ieri, in una audizione presso il Senato, il senatore repubblicano Lindsey Graham ha detto al Segretario della Difesa, Austin che trattenere le armi che servono a Israele mentre combatte chi vuole la fine dello Stato ebraico, non solo è assurdo ma è osceno. Sì, è osceno, ma i fatti sono questi. Intanto il Dipartimento di Stato sta per licenziare un rapporto sulle presunte violazioni israeliane a Gaza. La frustrazione, a Gerusalemme, è grande, ma è altrettanto grande la debolezza di un governo e di un gabinetto di guerra che non sono in grado di opporsi veramente a quello che l’Amministrazione Biden vuole. L’operazione su vasta scala a Rafah, tanto strombazzata da Netanyahu assomiglia sempre più a una chimera, mentre, nel contempo Hamas osserva compiaciuto come la macchina da guerra israeliana sia stata inceppata dagli Stati Uniti, l’alleato principale, da cui Israele non riesce in alcun modo a emanciparsi. Ci troviamo in una fase critica la quale presenta incognite ad alto rischio. Qui su l’Informale, a partire dalla fine di ottobre abbiamo documentato passo dopo passo il modo in cui gli Stati Uniti hanno progressivamente preso le distanze da Israele nonostante la retorica vuota e magniloquente delle dichiarazioni ufficiali. Adesso si è giunti a una sorta di redde rationem. Israele deve decidere, pagando un prezzo salato, se smarcarsi da questa amministrazione che sta danneggiando in modo palese i suoi obiettivi militari e politici, e quindi trovarsi di fatto isolato all’interno della comunità internazionale, pur godendo negli Stati Uniti di un forte appoggio politico da parte repubblicana, oppure se chinare la testa, subire il ricatto americano e il programma Obama-Biden, poiché solo gli sprovveduti possono pensare che la linea di azione punitiva nei confronti di Israele sia solo farina del sacco di Biden, a capo di una amministrazione dove agiscono e lo consigliano uomini fortemente legati all’ex presidente americano, il più apertamente ostile allo Stato ebraico insieme a Jimmy Carter. Saranno i prossimi eventi a mostrarci la direzione che Israele prenderà.
«I miei compagni della facoltà di Medicina negano il dolore ebraico e israeliano. Impedirei loro di curare i miei parenti»
Qualcuno piange in silenzio, qualcuno si ribella, qualcuno urla il suo dolore muto che si perde nel vuoto. Un dolore che non viene visto, capito da gran parte degli studenti negli atenei americani e che adesso si sta sempre di più diffondendo anche in Europa e in Italia. Un atteggiamento di chi nega, non ammette e strumentalizza il dolore ebraico e israeliano dopo il 7 ottobre. È quanto scrive uno studente di Medicina americano (che qui chiameremo X), che ha richiesto l’anonimato in un articolo pubblicato dal Times of Israel. Di seguito le sue parole. Parole che risuonano come un pugno nello stomaco richiamando all’attenzione un tema dolorosamente attuale e urgente. «Dieci giorni dopo il massacro del 7 ottobre, numerose organizzazioni studentesche all’interno della mia università di Medicina hanno collaborato e diffuso un messaggio in risposta alla guerra tra Israele e Hamas. In modo inquietante, la loro interminabile diatriba contro Israele non ha fatto menzione di Hamas, degli ostaggi o del 7 ottobre. Come studenti ebrei, le nostre ferite erano ancora fresche. Gli squali sapevano che c’era sangue nell’acqua e che era il momento opportuno per attaccare. Era chiaro che l’obiettivo di questi futuri medici era negare il dolore ebraico e israeliano. Umanizzare gli ebrei è servito solo come distrazione. Dopotutto, 2 milioni di palestinesi stavano per essere “sterminati”, come ha sostenuto deciso uno studente. L’incidente è passato inosservato e l’amministrazione ha deciso che sarebbe stato meglio tacere. Questo è stato il via libera a procedere in questa direzione». Sono parole durissime quelle dello studente di Medicina che spiega come i forum studenteschi online si siano rapidamente trasformati mentre i suoi coetanei hanno sminuito e addirittura giustificato il terrorismo. Il giovane racconta di aver sentito una persona affermare che gli ostaggi non erano “i personaggi principali” della storia, mentre un altro ha dichiarato che Israele ha utilizzato come arma lo stupro delle donne israeliane da parte di Hamas per giustificare la sofferenza dei palestinesi. Senza contare un altro ancora che ha negato del tutto lo stupro. Gli studenti hanno anche negato l’uso degli ospedali da parte di Hamas come basi terroristiche nonostante prove evidenti e schiaccianti. Uno studente non ebreo, secondo il racconto del ragazzo, ha tenuto una conferenza sulla definizione di antisemitismo, affermando che l’ideologia ebraica consensuale è moralmente corrotta. Non solo: proprio durante la Giornata internazionale della memoria dell’Olocausto, uno studente ha paragonato la situazione a Gaza a quella della Germania nazista, violando la definizione operativa di antisemitismo dell’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance), l’organizzazione intergovernativa fondata nel 1998 che unisce i governi e gli esperti per rafforzare, promuovere e divulgare l’educazione sull’Olocausto. Nella sua testimonianza, X osserva che emoji come l’anguria, l’oliva e la bandiera palestinese venivano utilizzati liberamente come segni di solidarietà da parte di coloro che, seppur solo leggermente meno estremi, continuavano a nutrire sentimenti di odio. Alcune persone hanno addirittura protestato di fronte all’ospedale con uno striscione che commemorava l’attacco a Al-Aqsa, che Hamas ha definito il “massacro del 7 ottobre”. X sottolinea che queste persone potrebbero essere i futuri medici della comunità. Se gli studenti hanno detto queste cose sugli ebrei di fronte a centinaia di altri studenti nei forum mediati dalle scuole di Medicina, cosa hanno scritto sui social media? E nelle loro chat di gruppo private? Cosa hanno pensato? «L’odio era diffuso ed era solo la punta dell’iceberg. Subito dopo, oltre il 30% del corpo studentesco della facoltà di Medicina ha firmato un’altra lettera all’amministrazione. Anche in questo caso non si è parlato degli ostaggi, di Hamas o del 7 ottobre». Di fatto, conclude lo studente, il dolore ebraico è invisibile per loro. «C’è molto da digerire nel contesto dell’educazione all’etica medica – osserva X –. Siamo arrivati a tollerare le macro aggressioni nell’era delle micro aggressioni contrapposte. La nostra storia insegna, ad esempio, che il pregiudizio implicito dei medici nei confronti dei pazienti neri ha portato a dei danni. È ovvio che un pregiudizio esplicito del medico nei confronti di un paziente identificabile come ebreo o israeliano potrebbe essere molto più pericoloso. E se il pregiudizio esplicito diventasse odio palese?», si chiede X. «Dopotutto, i giorni in cui il mantra era “critico solo il governo israeliano” si sono rapidamente trasformati in “sionisti e israeliani sono intrinsecamente malvagi”, come avevano sostenuto i miei compagni di classe. Possono assistere e curare un paziente come doveroso se non sono intellettualmente attrezzati a riconoscere l’umanità negli israeliani e nei sionisti?». Se gli studenti confutano le prove che descrivono dettagliatamente come Hamas opera negli ospedali e violenta le donne israeliane, sono in grado di praticare una medicina basata sull’evidenza? Dal punto di vista del paziente, come possono gli ebrei cercare in modo sicuro e affidabile cure da medici che forniranno cure compassionevoli? «Non permetterei mai alla mia famiglia israeliana di avvicinarsi all’ospedale della mia facoltà di Medicina», afferma X. Lo studente ha quindi dichiarato che l’antisemitismo è pervasivo nella facoltà di Medicina per diversi motivi. In primo luogo, gli studenti ebrei hanno paura di parlare apertamente per timore di ritorsioni. Gli alti costi irrecuperabili per iscriversi alla facoltà di Medicina richiedono un’eccessiva cautela per paura dell’alienazione sociale e del doxing, ossia di esposizione, entrambi fatti accaduti nel suo ateneo. In secondo luogo, gli ebrei antisionisti sono fortemente sovra-rappresentati tra gli accademici più giovani e distorcono il consenso che esiste nella realtà. Secondo i sondaggi a sostegno del BDS, circa il 10% degli ebrei americani sono antisionisti, anche se tale cifra è probabilmente molto più alta all’interno delle facoltà di Medicina. Nella facoltà di Medicina, la tolleranza verso gli ebrei sembra essere condizionata dalla loro posizione antisionista, che finisce per dominare la discussione. Gli studenti non ebrei, a loro volta, rappresentano questa prospettiva sovra-rappresentata per evitare accuse di antisemitismo, comportandosi in modo che gli ebrei vengano interpretati in maniera distorta. Questo comportamento riflette quello che viene insegnato agli studenti di Medicina come “bias di campionamento”, ovvero una tendenza a rappresentare un gruppo in modo parziale. A differenza di altre situazioni, come quella dei neri americani, la cui prospettiva di destra verrebbe ignorata in un contesto accademico, gli ebrei sembrano essere sempre l’eccezione. «In terzo luogo – osserva X – l’antisemitismo domina nelle università di Medicina perché, come abbiamo visto, non si può fare affidamento sul fatto che le amministrazioni agiscano in modo altruistico. Calcolano che i costi per turbare la folla palesemente ostile siano maggiori del costo per lasciare vulnerabili studenti e pazienti ebrei. Finché i sionisti avranno troppa paura di esprimere le loro preoccupazioni, i college potranno rimanere in uno stato di equilibrio tranquillo, anche se inquieto. Si può cambiare il calcolo con la pressione pubblica: gli atenei di Medicina hanno profondamente a cuore la loro reputazione». Alla luce di tutto questo, X lancia un appello e chiede di contattare quante più università di Medicina possibile e chiedere loro quali sono le politiche specifiche in atto per stabilire una cultura libera dall’antisemitismo. Chiedere loro se gli studenti vengono educati sull’antisemitismo moderno, quello che “infetta” il mondo accademico, una teoria non lontana. «Bisogna metterli in contatto con le organizzazioni di difesa degli ebrei. Probabilmente cambierebbero discorso, sarebbero vaghi e declinerebbero educatamente qualsiasi suggerimento, smascherando questa emergenza morale e mettendo in luce la necessità di intraprendere azioni aggressive a favore dei pazienti ebrei ovunque».
"Hamas perderà, ma vincerà a sinistra. Per Israele è un problema". Parla Matti Friedman
"L’opinione pubblica occidentale delle società liberal e di sinistra temo sia persa. Forse l’Europa, alle prese con una grande immigrazione islamica, sarà più comprensiva di Israele, ma In occidente, al di là di Israele, c’è una follia generale", dice al Foglio lo scrittore israelo-canadese.
La seconda settimana dell’ottobre del 1973 fu una delle peggiori nella storia di Israele. Il giorno del digiuno ebraico dello Yom Kippur, la Siria e l’Egitto lanciarono attacchi a sorpresa.Leonard Cohen era già una star internazionale. Tre anni prima al festival di Wight, dopo Joan Baez e Jimi Hendrix, Cohen aveva incantato tutti. E ora Cohen si trovava nel deserto del Sinai disseminato di carri armati e cadaveri carbonizzati per suonare a gruppi di soldati con una cassa di munizioni come palco. “Sono sceso nel deserto per aiutare i miei fratelli a combattere”, scriverà Cohen. “Venne qui in Israele nel 1973, in un momento drammatico per questo piccolo paese”, dice al Foglio Matti Friedman, giornalista e scrittore israelo-canadese che al grande musicista nello stato ebraico ha dedicato “Il canto del fuoco” (Giuntina). “Oggi gli artisti hanno paura della controversia”, dice Friedman: “Prendi Matisihau, è cancellato per il sostegno a Israele. C’è codardia e paura di assumere una posizione forte”. Matti Friedman dice che il problema non riguarda solo gli artisti. “Hamas sta perdendo a Gaza, ma vincendo nella sinistra occidentale, che ha sicuramente più simpatia per Hamas che per Israele. La sinistra ha abbandonato i suoi ideali delle società industriali per essere affascinata dalla violenza antioccidentale. Dov’è tutta la sua sensibilità per l’oppressione di gay, donne e minoranze? È pericoloso per Israele e per l’occidente, perché abbiamo bisogno di alleati in occidente, ma è pericoloso soprattutto per l’élite intellettuale. Negli anni Sessanta e Settanta, la sinistra ha subito una mutazione. Si sono innamorati di Frantz Fanon e della lotta contro l’occidente, l’America, Israele e il capitalismo, con la giustizia rappresentata da movimenti non bianchi che sono completamente regressivi. Non è solo il vecchio antisemitismo, ma una nuova tendenza antioccidentale in cui gli ebrei sono il capro espiatorio di tutto. Israele rappresenta un po’ tutti i mali dell’occidente in questa visione del mondo: coloniale, militare, bianco, occidentale. È anche un modo molto più efficace per mobilitare l’opinione pubblica”. Come finirà a Gaza, difficile dirlo. “Per un gruppo come Hamas, la vittoria non è come la intendiamo noi, come una tregua giapponese con gli americani”, ci dice Friedman. “A loro non importa che possano uscire dalle rovine di Gaza e annunciare la ‘vittoria’. Ci credono davvero. Qui tutto può cambiare in un minuto e quindi ogni previsione è scritta sulla sabbia”. Friedman dice che i media occidentali si sono inventati un medio oriente che non esiste. “È ovvio che la storia del medio oriente e del Nord Africa dei nostri tempi è caratterizzata dall’ascesa di tensioni violente e contrastanti dell’islam e dallo spostamento di queste ideologie e dei loro seguaci verso l’occidente. Si fa un grande sforzo per oscurare tutto questo, anche se il fenomeno è visibile dall’Algeria attraverso la Siria, lo Yemen e l’Iraq fino all’Afghanistan, e dalle torri gemelle al teatro Bataclan, al lungomare di Nizza e all’Arena di Manchester. Per un giornalista in Israele, le principali incarnazioni locali del fenomeno sono il Movimento di Resistenza Islamica (Hamas) e il Jihad islamico tra i palestinesi e la formidabile milizia del Partito di Dio (Hezbollah) in Libano, tutti alleati con la Repubblica islamica dell’Iran, tutti impegnati a forgiare un nuovo ordine islamico, tutti esplicitamente impegnati a cancellare l’insopportabile sacca di sovranità ebraica sullo 0,2 per cento del territorio del mondo arabo. Durante il mio periodo sulla stampa, ci si aspettava che girassimo educatamente in punta di piedi attorno ai due miliardi di aderenti all’islam e facessimo finta che la storia chiave della regione fosse un gruppo di sei milioni di ebrei che opprimevano una minoranza, i palestinesi, che volevano solo uno stato pacifico accanto a Israele. Poiché si trattava per lo più di fantasia, io e i miei colleghi siamo stati costretti a contorsioni sempre più ridicole mentre ‘costruivamo sovrastrutture emotive su eventi che non erano mai accaduti’, per usare le parole di George Orwell, e seppellivamo gran parte di ciò che stava realmente accadendo. Orwell avrebbe compreso il rifiuto di molti osservatori dei nostri tempi di credere ai dettagli degli omicidi, degli stupri e dei rapimenti di Hamas del 7 ottobre, mentre sarebbero stati ansiosi di credere qualche settimana dopo che Israele aveva deliberatamente bombardato un ospedale”. Cosa aspettarsi, dunque? “L’opinione pubblica occidentale delle società liberal e di sinistra temo sia persa, anche se l’opinione pubblica non conta sempre. Forse l’Europa, alle prese con una grande immigrazione islamica, sarà più comprensiva di Israele, così come nel mondo della politica estera ti rispettano se hai potere. Quindi Israele può uscire da questa guerra con un risultato soddisfacente in medio oriente, anche se dovesse significare un divorzio con l’opinione pubblica occidentale, che per uno come me è fonte di grande preoccupazione. In occidente, al di là di Israele, c’è una follia generale”.Il Foglio, 9 maggio 2024)
Nonostante il lungo e travagliato percorso tra minacce di boicottaggio e la scelta della canzone, la rappresentante di Israele all’Eurovision Song Contest Eden Golan è pronta per esibirsi nella seconda semifinale, che si terrà domani sera alla Malmö Arena, con il brano “Hurricane”.
Nella città svedese le misure di sicurezza sono state rafforzate, le forze dell’ordine infatti temono contestazioni o iniziative violente. Tanto che una delegazione dello Shin Bet si è recata a Malmö per coordinare i protocolli di sicurezza con le autorità svedesi. La situazione in città è talmente tesa, che i controlli per accedere al palazzetto sono stati irrobustiti e non sarà possibile portare bandiere palestinesi, proprio per evitare manifestazioni d’odio contro la giovane cantante durante l’esibizione.
Eden Golan
"Sono venuta qui per far sentire la mia voce”
, anche su indicazione dei servizi di sicurezza, sta mantenendo un basso profilo tra le crescenti minacce che circondano la partecipazione di Israele al concorso. Domenica è cominciato ufficialmente l’Eurovision con il tradizionale Turquoise Carpet, la passerella sulla quale sfilano le delegazioni e gli artisti rappresentanti di tutte le nazioni che prenderanno parte al contest musicale più seguito al mondo e una delle poche opportunità per i fan e i media di avvicinarsi e conoscere personalmente gli artisti. Tuttavia, la cantante israeliana non ha preso parte alla cerimonia perché impegnata nella commemorazione di Yom HaShoah.
Proprio per l’importanza della giornata, Israele ha fatto una richiesta speciale alla European Broadcasting Union per ottenere un posto nella seconda semifinale, dove sarà la quattordicesima ad esibirsi. La richiesta è stata fatta per permettere a Eden Golan di non fare la prova generale filmata durante Yom HaShoah.
“Sono venuta qui per far sentire la mia voce, per far sentire qualcosa alle persone e lasciare un segno nelle loro anime e per unirci attraverso la musica”, ha detto Golan a Reuters lunedì.
La competizione è estremamente popolare in Israele, che l’ha vinta quattro volte. “È un momento molto importante per noi, soprattutto quest’anno. – ha sottolineato la cantante – Mi sento onorata di avere l’opportunità di essere la voce del mio Paese”.
E per quanto riguarda le eventuali contestazioni, Eden Golan non si lascia intimidire. “Hanno il diritto di esprimere il proprio parere, io mi concentro sull’esibizione, sperando di fare la mia migliore prestazione”.
“Inaccettabile il testo approvato da Hamas. Ma Netanyahu non ha un vero piano”. Parla l’ideatore di “Fauda”
Avi Issacharoff, che prima di essere sceneggiatore è un ascoltato analista militare, analizza lo stato del conflitto a Gaza: “La bozza egiziana a cui Sinwar ha detto sì non è la stessa che è stata sottoposta a Israele.
di Francesca Caferri
TEL AVIV — In Italia il suo nome è associato prima di tutto a “Fauda”, la serie Netflix che ha raccontato al mondo le vicende di un’unità che molto assomiglia alla Duvdedan, il gruppo speciale dell’esercito israeliano che agisce sotto copertura nei Territori palestinesi. Ma qui in Israele Avi Issacharoff è prima di tutto uno dei principali analisti militari del Paese, a lungo esperto di affari palestinesi per Haaretz prima e per Yedioth Ahronoth adesso, nonché autore di pluripremiati libri sulla Seconda Intifada e sulla guerra in Libano. È in questa doppia veste che sediamo con lui per un caffè in un giardino nella zona Nord di Tel Aviv, dopo una mattinata convulsa che lui, come buona parte degli esperti qui, ha passato ad analizzare l’accelerazione di lunedì sera, quando la notizia dell’accettazione della proposta egiziana da parte di Hamas prima e l’inizio dell’offensiva di terra israeliana poi, hanno aperto nuovi scenari in una crisi che si trascina ormai da sette mesi.
- Issacharoff, ci spiega cosa è successo lunedì sera: nel giro di due ore si è passati dalla speranza di una tregua all’offensiva di terra su Rafah... «Ci è voluto un po’ per capire che la proposta dell’Egitto che Hamas aveva accettato non era quella che Israele aveva visionato. In pratica, si parlava esplicitamente di fine della guerra dopo la prima fase di stop ai combattimenti e del ritorno di 33 ostaggi vivi o morti: una clausola che dà alla leadership di Hamas la garanzia di sopravvivere, dopo aver massacrato 1.200 israeliani e averne rapiti 230. È possibile accettarlo? Mi pare folle solo parlarne».
- Se le posizioni sono così distanti, non ci sono molte possibilità di compromesso ai negoziati del Cairo: sta dicendo questo? «Non ci sono motivi né scuse per essere ottimisti: purtroppo. Siamo in un vicolo cieco, stretti fra Hamas che continua a dimostrarci che non ci sono possibilità di vivere fianco a fianco, né fra un anno né fra dieci. E un governo, quello israeliano, che non ha strategia e pensa solo a sopravvivere».
- Però c’è la pressione internazionale: il mondo chiede a Israele di fermarsi… «Se mi avesse detto sei mesi fa che Hamas avrebbe goduto del supporto a livello di opinione pubblica mondiale che ha ora, le avrei detto che aveva preso qualche pillola di troppo».
- Se sta parlando delle manifestazioni nelle università e nelle piazze, io non direi che chi protesta sia necessariamente con Hamas… «Forse ha ragione lei, forse non tutti sono con Hamas. Allora però la maggior parte di quelle persone non sa di cosa sta parlando: quelli che urlano “From the river to the sea”? («dal fiume al mare», ndr). Quelli che gridano “Free Gaza”? Quale Gaza, quella dove Hamas ha ucciso ogni forma di opposizione, dove ha instaurato una dittatura? O forse le persone che sono in piazza invocano quell’Autorità palestinese che neanche Hamas vuole?».
- Quindi che si fa? Si continua a combattere? Fino a quando? Quando Israele potrà o vorrà dire che ha vinto e fermarsi? «La vittoria per Israele sarebbe il ritorno a casa degli ostaggi e la morte di Sinwar, ma mi pare chiaro che non ci stiamo riuscendo. Ogni giorno che passa Hamas diventa più popolare fra i palestinesi, l’Autorità palestinese perde credito e noi continuiamo a non avere una strategia per il dopo: i nostri soldati hanno preso Gaza city e Khan Yunis e poi le hanno lasciate, di fatto riconsegnandole a Hamas. Può essere una strategia vincente questa? Se il governo avesse voluto discutere del day after di Gaza con l’Autorità palestinese, con i Paesi arabi e quelli europei, se si fosse parlato davvero di creare un potere politico alternativo a Hamas ci sarebbe stata qualche scelta. Ma così no. Non vedo la fine».
- E Hamas? Qual è la loro, di vittoria? «Quello che abbiamo visto prospettarsi lunedì sera. Finire la guerra ancora al potere a Gaza, con i loro leader ancora vivi, Sinwar per primo. Accettare questo per Israele non è possibile».
- Una vita fa. Prima del 7 ottobre. Stavate scrivendo la sceneggiatura per la serie 5 di “Fauda” e Lior Raz, protagonista nonché co-autore con lei, ha proposto di partire da un attacco di terra di Hamas contro un kibbutz sul Sud di Israele…(Prima di finire la frase sul volto di Issacharoff si disegna un sorriso amaro)... «E io ho detto no, perché mi pareva poco credibile: è una storia vera. Come poteva Israele con tutta la sua intelligence, con i suoi apparati, non intercettare un attacco simile? Questo ho detto. Invece è successo e ancora faccio fatica a capire come: avevamo tutte le informazioni, non sono state giudicate attendibili. Eravamo così sicuri della “deterrenza”, che a Hamas interessassero i soldi e alla gente di Gaza la prosperità. Abbiamo sbagliato tutto».
- È questa la storia della prossima stagione? «Non posso parlare. Non posso dirle altro se non che ci stiamo lavorando. E che quello che è successo avrà influenza sul nostro lavoro».
Il tedesco Nicolas Dreyer si reca in Israele per dieci giorni per svolgere attività di volontariato. È già stato molte volte nel Paese, ma il suo lavoro in agricoltura ha approfondito la sua comprensione della Bibbia. Ha scritto le sue riflessioni per Israelnetz.
Nicolas Dreyer ha trascorso dieci giorni ad aiutare il raccolto in Israele
Nell'ambito di un programma di volontariato, a febbraio sono andato in Israele per dieci giorni. Ad eccezione dello Shabbat e di occasionali gite turistiche, io e i miei compagni di volontariato ci siamo recati la mattina presto alla "nostra" fattoria di Geva Karmel, dove abbiamo lavorato nelle piantagioni di pomodori e peperoni. Il contadino Jossi e il leader del nostro gruppo ci hanno spiegato i passi necessari e ci siamo dedicati al lavoro, spesso fisicamente impegnativo, fino al primo pomeriggio.
Abbiamo potato i cespugli di pomodoro, eliminando i germogli. Abbiamo anche raccolto pomodori e peperoni, pulito i cespugli dalle foglie e dai frutti indesiderati e trattato con fungicidi, se necessario. Abbiamo raccolto le foglie tra le piante perenni e le abbiamo portate via.
Nella tarda mattinata abbiamo fatto una breve pausa-caffè e abbiamo pranzato al sacco con muesli e panini che avevamo portato con noi. Il contadino ci ha portato prodotti da forno e diverse volte ci siamo serviti delle banane del raccolto.
Le piante di pomodoro sono state selezionate e alcuni frutti possono già essere raccolti
Jossi e gli altri israeliani che lo hanno aiutato nella coltivazione degli ortaggi, come i biologi che hanno dato consigli sulla lotta alle malattie fungine, ci hanno ringraziato molto per il nostro servizio volontario. Ci hanno chiesto quali fossero le motivazioni che ci avevano spinto a trascorrere le nostre vacanze per venire in Israele come volontari in questo periodo.
Questo ci ha dato l'opportunità di parlare del legame che noi cristiani sentiamo con la terra d'Israele e il popolo ebraico attraverso le Sacre Scritture. L'agricoltore laico ha accettato. Ci ha detto che la conoscenza di Abramo, a cui è stata promessa questa terra e che l'ha coltivata personalmente e vi ha allevato il bestiame, lo motiva a fare lo stesso.
Jossi ci ha detto che le sue due figlie sono diventate religiose dopo i mostruosi attacchi del 7 ottobre. Ora osservano lo Shabbat per pregare per le Forze di Difesa israeliane.
• Connessione tra popolo, terra e scritture
Il lavoro di raccolta e di soccorso nella serra grande come un campo da calcio ha permesso a noi, la maggior parte dei quali non aveva precedenti esperienze agricole, di familiarizzare almeno un po' con la coltivazione di ortaggi in Israele. Nelle conversazioni, l'apprezzamento e il legame che esiste tra il popolo e la terra di Israele è stato molto importante per noi, così come i Paesi che sono collegati alla storia di Israele e alle Sacre Scritture nel loro complesso.
Per la prima volta mi sono reso conto che la terra, come fattore geografico regionale e le industrie basate su di essa, soprattutto l'agricoltura, ma anche la silvicoltura, compaiono spesso nella Bibbia. Perché la Bibbia copre la vita umana nell'età del rame, del bronzo e del ferro, nonché durante il periodo greco e romano, e contiene anche un numero enorme di storie e parabole relative alla realtà agricola.
Genesi 3, ad esempio, parla di semi e alberi da frutto, mentre Giudici 9, Zaccaria 4 e Romani 11 trattano degli ulivi. Genesi 9 parla delle vigne di Noè e Genesi 25 delle leggi rituali per la coltivazione delle vigne. 1 Re 21 menziona la vigna di Naboth e il Cantico dei Cantici (ad esempio 8:19) le vigne del re Salomone. In Isaia 5 e in Ezechiele 17, la vigna è usata come simbolo di Israele e anche Gesù la usa nella parabola del Regno di Dio nel Nuovo Testamento.
• Pochi operai nella messe
La mietitura è un altro dei motivi preferiti nelle parabole di Gesù. Matteo 9:37-38 utilizza il motivo della mancanza di operai nella messe in senso spirituale. Il pubblico contemporaneo di Gesù e i primi lettori dei vangeli di Matteo o di Luca (10,2-7) conoscevano fin troppo bene la realtà economica e le conseguenze della mancanza di operai per la mietitura in questa fascia di terra semi-arida ripetutamente colpita dalla carestia.
Certamentenella predicazione teologica di alcune parti della Bibbia ebraica i contemporanei conoscevano questi aspetti, sia che fossero già codificati o ancora tramandati oralmente. I profeti, in particolare, ne parlano spesso (cfr. Aggeo 1,6).
Le parole di Gesù sulla mancanza di operai per la mietitura corrispondono alla situazione reale attuale di questo settore dell'economia di Israele. Se non ci sono abbastanza mani nel raccolto, alcune parti di esso marciscono e la fornitura del cibo di cui ha bisognola popolazione non raggiunge il suo pieno potenziale. Attualmente, l'aiuto al raccolto è una parte significativa dello sforzo di difesa, e molti israeliani stanno aiutando come volontari nel loro tempo libero.
Gesù disse ai suoi discepoli: "La messe è abbondante, ma gli operai sono pochi. Pregate perché il Signore della messe mandi operai a portare la sua messe" (Matteo 9:37-38).
Durante la missione, io e dieci dei miei compagni volontari abbiamo vissuto in un appartamento nel centro di Haifa con due camere da letto, una per gli uomini e una per le donne. Abbiamo fatto i lavori di casa insieme, cucinato insieme e quindi, per molti versi, questo volontariato è stato anche un'esperienza e un esercizio di comunione cristiana con compagni di fede che non avresti mai incontrato nella tua vita quotidiana.
La chiamata comune a mostrare sostegno e amore al popolo di Dio ci ha uniti tutti. Condividere e lavorare insieme ai fratelli e alle sorelle è stato per me un grande arricchimento.
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* Nicolas Dreyer ha lavorato, tra l’altro, per l'Ebenezer Hilfsfonds Deutschland e.V. di Amburgo e per il Fondo Nazionale Ebraico JNF-KKL e.V. di Francoforte sul Meno. È secondo presidente di un'associazione tedesca per il servizio di soccorso israeliano, Christian Friends of Magen David Adom in Israel (CFMDA) e.V., ed è membro dell'Assemblea generale del Centro di studi e ricerche bibliche AMI di Gerusalemme. Ha conseguito un dottorato in Slavistica ed è docente presso l'Università Otto Friedrich di Bamberg. Si occupa di letteratura e storia ebraica in Russia e Ucraina.
Confermato: Biden blocca l’invio di bombe a Israele
Sotto fortissima pressione della sua sinistra antisemita, Biden è costretto a bloccare l'invio delle bombe pesanti a Israele e a garantire al Congresso che per i prossimi invii di armi, Israele rispetterà il diritto internazionale.
Martedì sera l’amministrazione Biden ha confermato le notizie secondo cui avrebbe trattenuto un grosso carico di bombe da 2.000 e 500 libbre che temeva Israele potesse usare in una grande operazione di terra nella città di Rafah, nel sud di Gaza. È la prima volta, dallo scoppio della guerra tra Israele e Hamas, che gli Stati Uniti bloccano un carico di armi per l’IDF, che forniscono quasi costantemente dal 7 ottobre. Washington si oppone fermamente a una grande offensiva a Rafah, convinta che Israele non abbia modo di condurla in modo da garantire la sicurezza dell’oltre 1 milione di palestinesi che vi si rifugiano. Negli ultimi mesi gli Stati Uniti hanno tenuto un paio di incontri virtuali con alti funzionari israeliani per esprimere le loro preoccupazioni riguardo a una potenziale operazione a Rafah e per presentare alternative su come Israele potrebbe colpire Hamas nella città invece di condurre un’invasione su larga scala. Questi colloqui continueranno, ma la Casa Bianca ha ritenuto che non fossero sufficienti a trasmettere le sue preoccupazioni, ha dichiarato un alto funzionario dell’amministrazione Biden. “Quando il mese scorso i leader israeliani sembravano avvicinarsi a un punto di decisione su un’operazione di questo tipo, abbiamo iniziato a esaminare attentamente le proposte di trasferimento a Israele di particolari armi che potrebbero essere utilizzate a Rafah”, ha dichiarato il funzionario. L’esame ha portato a sospendere la scorsa settimana una spedizione di 1.800 bombe da 2.000 libbre e 1.700 bombe da 500 libbre, ha rivelato il funzionario, sottolineando che la Casa Bianca era particolarmente preoccupata che Israele avrebbe usato le bombe da 2.000 libbre a Rafah, densamente popolata, come ha fatto in altre parti di Gaza. Il funzionario ha chiarito che non è stata presa alcuna decisione definitiva riguardo a questa particolare spedizione. L’alto funzionario sembra anche confermare una notizia secondo cui gli Stati Uniti avrebbero ritardato la vendita di munizioni da attacco diretto congiunto (JDAM) a Israele, ma ha chiarito che questa transazione era in una fase molto precedente rispetto alla spedizione di bombe pesanti bloccata la settimana scorsa. “Per alcuni altri casi al Dipartimento di Stato, tra cui i kit JDAM, stiamo continuando la revisione. Nessuno di questi casi riguarda trasferimenti imminenti. Si tratta di trasferimenti futuri”, ha detto il funzionario. L’alto funzionario ha sottolineato che le spedizioni di armi in esame provengono da fondi stanziati anni fa e non fanno parte degli aiuti che il Congresso ha approvato per Israele il mese scorso. “Siamo impegnati a garantire che Israele riceva ogni dollaro stanziato nel supplemento”, ha sottolineato l’alto funzionario dell’amministrazione, sottolineando che gli Stati Uniti hanno appena approvato altri 827 milioni di dollari di armi e attrezzature per Israele. La conferma da parte dell’amministrazione Biden è arrivata ore dopo che diversi suoi portavoce avevano segnalato la loro iniziale approvazione dell’operazione lanciata da Israele martedì mattina presto per conquistare il lato palestinese del valico di frontiera di Rafah con l’Egitto. I portavoce hanno affermato che gli obiettivi dichiarati da Israele nell’operazione sono legittimi, ma hanno avvertito che questa valutazione potrebbe cambiare se l’offensiva si espandesse e portasse a un ostacolo prolungato alle spedizioni di aiuti a Gaza. “Quello che ci è stato detto dalle nostre controparti israeliane è che l’operazione di ieri sera è stata limitata e progettata per tagliare la capacità di Hamas di contrabbandare armi e fondi a Gaza”, ha detto il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ai giornalisti durante un briefing. “Per ora sembra essere un’operazione limitata, ma dipende in larga misura da ciò che verrà dopo”, ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato Matthew Miller in un briefing separato. “Una delle cose che Israele ha detto – e che è molto accurata – è che Hamas [controllava] ancora il lato di Gaza del valico di Rafah, e Hamas continuava a riscuotere le entrate derivanti dall’apertura del valico”, ha spiegato il portavoce del Dipartimento di Stato. “Quindi è un obiettivo legittimo cercare di privare Hamas di denaro che potrebbe usare per continuare a finanziare le sue attività terroristiche”. Da mesi Netanyahu ha dichiarato che le truppe israeliane effettueranno un’operazione per sradicare le ultime roccaforti di Hamas a Rafah, indipendentemente dal raggiungimento di un accordo nei colloqui in corso sugli ostaggi. Secondo i funzionari della difesa israeliana, quattro dei sei battaglioni rimanenti di Hamas si trovano in città, insieme a membri della leadership del gruppo terroristico e a un numero significativo di ostaggi rapiti da Israele durante l’assalto del 7 ottobre che ha scatenato la guerra a Gaza. L’operazione dell’IDF nella mattina di martedì ha portato alla chiusura del valico di Rafah, una delle porte principali utilizzate per incanalare gli aiuti a Gaza. La chiusura è avvenuta mentre anche il vicino valico di Kerem Shalom è rimasto chiuso dopo che nel fine settimana un attacco missilistico di Hamas ha ucciso quattro soldati dell’IDF e ne ha feriti altri. La Casa Bianca ha dichiarato che Netanyahu aveva promesso al Presidente Joe Biden, durante una telefonata lunedì, che avrebbe riaperto Kerem Shalom, ma ciò non è avvenuto martedì. I portavoce dell’amministrazione hanno detto che Israele si è impegnato a riaprire Kerem Shalom mercoledì e a riaprire Rafah per i convogli di carburante. Miller ha fatto una distinzione tra l’operazione al valico di Rafah, che sembrava approvare, e l’annuncio dell’IDF di lunedì che invitava circa 100.000 palestinesi a evacuare dai quartieri orientali della città. Ha chiarito che l’evacuazione dei civili prima di un’operazione militare è ben accetta in teoria, ma ha accusato Israele di aver compiuto questo passo senza i meccanismi adeguati per prendersi cura degli evacuati una volta trasferiti. Sempre questa settimana, il Dipartimento di Stato avrebbe dovuto consegnare al Congresso un rapporto per stabilire se l’amministrazione Biden ha accettato le garanzie da parte di Israele di utilizzare le armi americane in conformità con il diritto internazionale. Il rapporto al Congresso, che sarà reso pubblico, fa parte di una nuova politica istituita da Biden a febbraio, che richiede ai beneficiari degli aiuti esteri di fornire garanzie scritte sull’utilizzo degli aiuti nel rispetto del diritto internazionale e di non ostacolare l’assistenza umanitaria. La politica è stata delineata in un promemoria che richiedeva al Dipartimento di Stato di presentare una relazione al Congresso entro mercoledì. Martedì, tuttavia, Miller ha indicato che il suo ufficio potrebbe aver bisogno di più tempo per completare il rapporto. “È possibile che slitti di poco”. In vista della scadenza di mercoledì, i legislatori progressisti hanno intensificato le loro pressioni sull’amministrazione affinché consideri Israele non conforme al diritto internazionale, il che porterebbe probabilmente a una restrizione degli aiuti militari statunitensi. Ottantotto democratici hanno firmato venerdì una lettera a Biden in cui esprimono “serie preoccupazioni riguardo alla condotta del governo israeliano nella guerra a Gaza, per quanto riguarda il deliberato rifiuto della distribuzione degli aiuti umanitari”. Israele insiste sul fatto che non blocca gli aiuti che entrano a Gaza e che qualsiasi carenza è il risultato dell’incapacità delle agenzie umanitarie di distribuirli a chi ne ha bisogno. Ha anche sottolineato l’aumento degli aiuti iniziato il mese scorso. L’aumento ha fatto seguito alla minaccia di Biden di cambiare la sua politica sulla guerra se Israele non avesse preso provvedimenti immediati per migliorare la situazione umanitaria a Gaza, che secondo i gruppi per i diritti è sull’orlo della carestia.
(Rights Reporter, 8 maggio 2024)
*
L’amico americano
di Niram Ferretti
I fatti sono quello che sono e parlano chiaro. Gli Stati Uniti vogliono che Israele si pieghi a Hamas e che accetti obtorto collo qualsiasi accordo, Joe Biden ha fretta di chiudere la questione Gaza e la sua impazienza sta aumentando.
Riepiloghiamo i fatti.
Ieri, l’ufficio politico di Hamas a Doha annuncia che Hamas ha accettato l’accordo proposto da Israele al Cairo con mediazione quatariota. L’accordo di cui parla Hamas, sostanzialmente quello già previsto che contempla quattro mesi di tregua articolati in tre fasi più il rilascio progressivo degli ostaggi e la liberazione di un numero cospicuo di prigionieri palestinesi, ha una rilevante aggiunta di cesello; Israele si ritirerà da Gaza, ovvero, la guerra terminerà con (questo non viene dichiarato ma è implicito), la vittoria conclamata di Hamas.
A stretto giro, Israele respinge l’esito proposto da Hamas. Passano le ore ed emergono retroscena interessanti. Ufficiali israeliani dichiarano che l’Amministrazione Biden era al corrente delle aggiunte ma che di esse non ha informato lo Stato ebraico. Lo zar della CIA, William Burns, presente al Cairo, avrebbe dato il proprio assenso a quella che viene chiamata eufemisticamente “una controfferta” da parte del gruppo jihadista, e che di fatto è un cappio messo al collo di Israele.
Così lavorano gli alleati, di chi? a questo punto è del tutto lecito porsi la domanda, soprattutto dopo questa porcata apparecchiata alle spalle di Netanyahu, che pure, non ha fatto altro che assecondare i desiderata della Casa Bianca continuando ad annunciare l’offensiva su Rafah e, al contempo, continuando a differirla. A corredo decorativo del tutto c’è la notizia che gli Stati Uniti stanno ritardando la consegna di migliaia di armi di precisione, quelle che limitano al massimo le vittime civili.
Nel mentre l’IDF si muove con cautela su Rafah, occupa un valico, sta in attesa, e Burns torna di nuovo al Cairo per concertare con Qatar, Egitto, Hamas, vie di uscite, chissà se ulteriormente punitive nei confronti di Israele.
Si era pensato di avere toccato il fondo a proposito dell’ostilità americana verso Israele con l’Amministrazione Obama, ma si sa che il fondo non si tocca mai realmente, e l’Amministrazione Biden lo dimostra, la prima, da quando Israele esiste, che sta facendo di tutto per fargli perdere la guerra.
Hamas non ha accettato nessun accordo, ha creato un teatro comunicativo per fare pressione su Israele
L'annuncio del gruppo terroristico per fermare l’operazione a Rafah è la differenza fra una tregua e una farsa. I preparativi per l’offensiva e la lezione da imparare
di Micol Flammini
Il pasticcio è stato credere a Hamas, all’entusiasmo con cui il gruppo ha comunicato di aver accettato la proposta di accordo di Egitto e Qatar. All’annuncio, Israele ha fatto sapere che non si trattava della stessa proposta su cui nei giorni scorsi le delegazioni stavano lavorando al Cairo, ma di un piano diverso che lo stato ebraico non aveva neppure visionato. L’entusiasmo è svanito: Hamas ha organizzato un imbroglio comunicativo, dando l’annuncio di aver accettato una bozza di accordo che non era mai stata sul tavolo e mettendo Israele nelle condizioni di diffidare dai mediatori egiziani e qatarini – con i secondi i rapporti sono già molto tesi. Il teatro comunicativo di Hamas, con i preparativi per l’attacco israeliano alla città di Rafah, aveva l’obiettivo di creare quella pressione internazionale contro Gerusalemme a cui i terroristi si affidano per ottenere la fine definitiva della guerra alle loro condizioni. Il ministro israeliano Nir Barkat, durante un incontro con i giornalisti a cui il Foglio ha partecipato, ha detto che è impossibile negoziare con Hamas senza “puntargli il coltello alla gola”, è a questo che servono i preparativi per l’attacco contro la città di Rafah, di cui ieri Israele ha iniziato a evacuare la parte orientale, quella più vicina al suo confine. Tsahal ha calcolato che sono circa centomila le persone che dovranno lasciare quella parte della città che si trova nel sud della Striscia di Gaza, in cui si nascondono quattro battaglioni di Hamas e che più che una città ormai è diventata il suono di una minaccia. Quando sui tavoli negoziali si sente pronunciare il nome “Rafah”, vuol dire che tutto potrebbe cambiare. Il problema è che la parola “Rafah” è stata detta e ridetta, sussurrata e urlata e adesso che Israele si prepara a iniziare l’offensiva il gruppo voleva fermarla con il suo annuncio senza mai però aver accettato davvero l’accordo. La farsa di Hamas era iniziata domenica: il primo atto c’era stato mentre le delegazioni erano al Cairo per trattare, e il gruppo aveva colpito il valico di Kerem Shalom, che collega Israele alla Striscia di Gaza e da cui entrano gli aiuti umanitari. L’attacco ha ucciso quattro soldati e Hamas sapeva che lo stato ebraico avrebbe reagito preparandosi per andare a Rafah, mostrando che esiste un piano per evacuare i civili e per colpire le postazioni dei terroristi. L’operazione a Rafah non è ancora partita, è in fase di preparazione, Tsahal dice di essere pronto, ha lanciato dei volantini per comunicare agli abitanti della parte est della città come raggiungere la città costiera di al Mawasi e Khan Younis, la città originaria di Yahya Sinwar da cui l’esercito israeliano si è ritirato a marzo. Israele ha poi condotto dei bombardamenti contro le postazioni da cui è partito l’attacco contro Kerem Shalom, ma le intenzioni dell’esercito non sono quelle di una grande offensiva, ma di un attacco limitato, in grado di poter far pressione su Hamas al tavolo dei negoziati. Prima che il gruppo facesse il suo falso annuncio, la linea di Israele era quella di usare Rafah per ottenere un accordo. Gli egiziani hanno riconosciuto che a dissipare l’atmosfera ottimistica di sabato, quando sembrava che le posizioni per un’intesa si stessero allineando, sia stato l’attacco di Hamas contro Kerem Shalom, e hanno chiesto a Israele di non creare le condizioni per un’invasione che porterebbe il caos al confine: oltre Rafah c’è la barriera che divide la Striscia con l’Egitto, gli egiziani hanno detto che non accoglieranno profughi e non vogliono l’esercito israeliano troppo vicino alla frontiera. Gli Stati Uniti hanno detto e ripetuto più volte a Israele che non approveranno un’operazione contro Rafah senza un piano di evacuazione dettagliato. Ieri il presidente americano Joe Biden e il primo ministro Benjamin Netanyahu hanno parlato al telefono per trenta minuti. Biden ha chiesto a Netanyahu di riaprire il valico di Kerem Shalom, chiuso dopo l’attacco di Hamas. L’attenzione degli Stati Uniti è ancora sull’evitare una crisi umanitaria, mentre proseguono spediti i lavori per la costruzione del molo che dovrebbe permettere l’arrivo via mare di un numero maggiore di aiuti. Il molo dovrebbe essere pronto a giorni e il suo funzionamento non verrebbe intaccato da un’operazione pesante a Rafah. In tutta la Striscia sono rimasti sei battaglioni di Hamas, due si trovano nella parte centrale, quattro sono a Rafah e sono quelli che hanno subìto meno perdite durante la guerra. Il piano di Israele è di liberare un quartiere alla volta, un’operazione come quella condotta a Gaza city non è più immaginabile e neppure necessaria. In questo momento, nonostante sia indebolito, Hamas ha ancora le capacità di ricostituirsi e lo dimostra l’abilità di tornare nelle zone da cui l’esercito si è già ritirato, di improvvisare postazioni di lancio di missili che sono efficaci. La pressione internazionale e la condanna esplicita contro Israele hanno portato spesso Tsahal a ritirarsi prematuramente dalle zone in cui ha combattuto. Hamas ha risposto disperdendo i suoi battaglioni, li ha trasformati in piccole squadre di pochi uomini, in attesa che l’assalto dell’esercito israeliano finisse. Per debellare Hamas e per scoprire dove sono gli ostaggi Israele avrà bisogno di rimanere più a lungo a Rafah, dovrà fare quello che per esempio non ha fatto a Khan Younis.
L’incubo del 7 ottobre e il ricordo della Shoah: la storia di Olesh tra passato e presente
di Michelle Zarfati
Oltre 200 persone la scorsa domenica si sono riunite in una casa a Gerusalemme per onorare una versione un po’ diversa dell’annuale appuntamento con Zikaron Basalon, la “memoria in salotto”. Tante famiglie, i cui cari sono stati rapiti a Gaza il 7 ottobre, si sono ritrovate per ascoltare ancora una volta le atrocità avvenute ad ottobre che sembrano essersi ripetute dopo la Shoah. Tamar Pearlman, un’ex insegnante delle scuole superiori, ha condiviso la storia di suo zio “Olesh”, Alex Dancyg, 75 anni, residente del Kibbutz Nir Oz che è stato preso in ostaggio dai terroristi di Hamas il 7 ottobre insieme ad altri 251 membri dello stesso kibbutz. La donna ha raccontato la storia della famiglia di Olesh, dei suoi nonni materni che fuggirono da Varsavia all’inizio della Seconda guerra mondiale alla volta della Russia – una storia di sopravvivenza e di piccoli miracoli. La coppia ebbe poi una figlia piccola, la madre di Pearlman, che venne nascosta da una donna non ebrea.
La coppia tornò poi dopo la guerra in Russia per ricongiungersi con la figlia. La famiglia si stabilì quindi a Varsavia dove nacque Alex Dancyg nel 1948. Vissero in Polonia fino a quando emigrarono in Israele nel 1957. In Israele, Dancyg si unì al gruppo giovanile sionista laburista Hashomer Hatzair e comincio la sua vita costruendo una sua casa nel Kibbutz Nir Oz, dove si sposò ed ebbe quattro figli.
La storia degli ebrei della Polonia e della sua famiglia ha ispirato la carriera di Tamar Pearlman, e anche di suo zio, divenuto un insegnante anch’esso e noto studioso della Shoah. L’uomo si è infatti impegnato a insegnare ai giovani israeliani la storia e la cultura della città di Varsavia.
Dancyg era a casa da solo il 7 ottobre, dopo aver trascorso la serata precedente con suo figlio Matti e la sua famiglia residente a Nir Oz. I membri della famiglia erano in contatto con lui quella mattina.
I figli di Dancyg e altri parenti sono sopravvissuti, dopo che il suo genero ha affrontato i terroristi in salotto. La sua ex moglie si è nascosta nella sua stanza di sicurezza del kibbutz con due nipoti adolescenti, tenendo chiusa la porta per otto ore.
Dancyg è stato preso in ostaggio da Hamas e dalla fine di novembre, quando circa 100 ostaggi sono stati rilasciati in un accordo di tregua temporanea, non si hanno notizie dell’uomo. Alcuni degli ostaggi che erano stati a contatto con Dancyg in prigionia hanno raccontato alla famiglia delle lezioni che l’uomo impartiva sulla Shoah nei tunnel di Gaza. “Dopo tutto ciò che i miei nonni hanno passato, speriamo ancora che mio zio sia vivo. Noi ci crediamo e lo aspettiamo”, ha detto Pearlman.
Nella Striscia di Gaza è il punto in cui entra la maggior parte degli aiuti umanitari e da cui parte una delle arterie principali. Il piano per affidarne la gestione ai civili non collegati a Hamas e la pressione per ottenere un accordo.
di Micol Flammini
Alle 7 del mattino, ora di Gerusalemme, l’esercito israeliano ha detto di aver preso il controllo del valico di Rafah dalla parte della Striscia di Gaza, dall’altra c’è l’Egitto che in questi giorni teme che le manovre militari israeliane nella parte sud della Striscia possano portare i palestinesi ad accalcarsi lungo la frontiere nel tentativo di fuggire dal lato egiziano. Il valico di Rafah è uno dei punti più importanti per l’ingresso degli aiuti umanitari, è attraverso la sua porta che entra la maggior parte dei camion carichi di rifornimenti, ma finora Israele non era mai arrivato a controllarlo. Controllare il passeggio significa indebolire la capacità di Hamas di capire e appropriarsi di cosa entra nella Striscia di Gaza e aiuta a fermare eventuali tentativi di fuga da parte dei terroristi. Secondo Axios, nei prossimi giorni Israele vorrebbe che fossero i civili palestinesi che non sono collegati a Hamas a impegnarsi nel controllo e nella distribuzione degli aiuti che entrano dall’Egitto.
Durante la notte Israele ha colpito diverse postazioni di Hamas nella parte orientale della città di Rafah, da dove ieri mattina aveva chiesto a centomila civili di evacuare perché sarebbero iniziati i bombardamenti. L’esercito aveva lanciato volantini dal cielo e fatto telefonate in arabo, non tutti i civili hanno deciso di andarsene, ma il movimento verso Khan Younis e al Mawasi – designate come zone umanitarie – è stato massiccio. La pressione sulla città di Rafah, in cui rimane il grosso della potenza militare di Hamas – quattro battaglioni che non sono stati scalfiti dai combattimenti dei mesi scorsi e anche la leadership del gruppo – è aumentata dopo l’annuncio di ieri del gruppo terrorista di aver accettato la proposta per un cessate il fuoco, basandosi su una bozza che Israele non aveva mai visionato prima. Non si trattava dell’accordo su cui si erano concentrati i negoziati nelle scorse settimane, ma di una bozza nuova che conteneva le richieste di Hamas e che tutto il gabinetto di guerra israeliano ha criticato. Il gruppo terrorista ha detto di aver agito con l’appoggio dei mediatori egiziani e qatarini e anche con le rassicurazioni degli Stati Uniti, nessuno per il momento ha confermato la versione di Hamas.
L’inizio delle manovre a Rafah non ha chiuso la fase negoziale, Israele manderà oggi una sua delegazione al Cairo.
Il Foglio, 7 maggio 2024)
La strategia "spalle al muro" e l'apertura dei jihadisti. Funziona la minaccia di Bibi
Rapido voltafaccia di Haniyeh dopo i colpi dell'Idf. Il governo israeliano lo bolla come un bluff. E non vuole ritirare i carri armati da Gaza
di Fiamma Nirenstein
È venuta sul tramonto mediorientale del giorno della Shoah israeliano, mentre dalla zona orientale di Rafah (non proprio dalla città dunque) si alzava una nuvola causata da un paio di proiettili israeliani, i carri armati sul bordo si preparavano a eventuali prossime azioni, gli abitanti delle zone più fitte si avviavano verso le strutture di soccorso preparate da israeliani e americani verso Khan Younis: dopo mesi di tentennamenti con la decisione di entrare nella roccaforte di Sinwar, il capo di Hamas Ismail Hanyeh evidentemente non indifferente all'ingresso israeliano, telefona al presidente del Qatar e gli dice che accetta la tregua proposta dai mediatori egiziani.
È un accordo sulla restituzione di parte degli ostaggi, su cui aveva detto di no alle 16? Quanti? Quando? Chi? Contro quanti prigionieri palestinesi? Non si sa ancora niente. Per ora il governo israeliano annuncia che «è un trucco», una proposta di Egitto e Qatar non concordata. Ma la sorpresa non è piccola: è la prima volta che Hamas accetta l'accordo per un cessate il fuoco e lo fa proprio nel modo in cui aveva previsto Israele, da Netanyahu a Gantz: dietro pressione militare. Il quasi ingresso di Israele a Rafah invece di chiudere porte, come da troppo sempre sostiene il consesso internazionale bloccando Israele, ne sta aprendo di inusitate.
La telefonata di ieri fra Joe Biden e Benjamin Netanyahu deve aver avuto momenti drammatici ma significativi. Bibi potrebbe aver detto a Biden: «Ho cercato di temporeggiare il più possibile, anche perché odio le stupidaggini che dicono su di me, specie sul New York Times, quando sostengono che dei rapiti non importa nulla e che butto per aria le trattative apposta, tenendo in piedi la guerra per restare al mio posto. Avrei voluto aspettare, anche se sapevo che Hamas ci prende in giro con una sadica attesa senza speranza. Ma mi capisci: dopo che ieri i terroristi hanno sparato i loro missili da Rafah, con precisione e con conoscenza della posizione dei nostri presidi militare, e mi hanno ucciso quattro soldati mentre altri 11 sono feriti, mi è difficile evitare l'azione. Era indispensabile dall'inizio. Sarò cauto, cercherò di tenere ancora la porta aperta all'accordo sui rapiti, osserverò più che posso la strada umanitaria, cominciando con lo spostamento della gente in zone sicure. Ma devo eliminare la forza militare di Hamas e quindi entrare a Rafah, cercare i miei poveri rapiti: Sinwar non li rende con le buone e devo anche mettercela tutta per prenderlo». E Biden potrebbe aver risposto: «Ti capisco. Ma sai benissimo che se entri a Rafah io non potrò altro che disapprovarti, come tutto il mondo. Il rischio per la gente non può essere accettato né da me né dai miei elettori. Anche io voglio eliminare Hamas, ma non posso pagare questo prezzo perché ne va del futuro stesso degli Usa e mio personale». Probabilmente nel frattempo Biden premeva sull'Egitto e sul Qatar perché spingessero Sinwar ad accettare. Forza militare da una parte e pressione americana dall'altra, qualcosa si è mosso. Netanyahu deve aver spiegato che spera appaiano i rapiti e si possa smettere di combattere, che si terrà sul margine di Rafah, che punta soprattutto a controllare lo Tzir Filadelfi, la zona cuscinetto strategica al confine con l'Egitto. Se non va a Rafah, come si è visto dal bombardamento su Kerem Shalom, mai gli israeliani potranno tornare a vivere a Sderot e nei kibbutz..
Israele ora è certo che entrare a Rafah era la strada giusta per costringere Sinwar a passi inusitati. Biden può aver detto a Bibi che la guerra può incattivirsi e avrà minacciato di bloccare tutti quei proiettili che per ora non lasciano le mani americane. E Israele ne ha molto bisogno. Netanyahu ha deciso e adesso devono riapparire all'orizzonte i rapiti perché cambi idea. Israele entra ma aspetta, l'America condanna ma poco. Hamas da una parte ha detto agli israeliani «Attenti, non sarà un picnic» ma poi è corso a telefonare accettando qualcosa che non aveva mai accettato. Finora Sinwar ha impedito la tregua che salvava vite e favoriva Biden. Ora può darsi che stia cercando di salvarsi la vita o di prendere di nuovo in giro tutti quanti.
Ma Israele ha le truppe già dentro, e (per ora) nessuna intenzione di spostarle.
Israele attacca Fatah e boccia la tregua annunciata da Hamas
Israele mette fine al gioco delle tre carte di Hamas e rifiuta il cessate il fuoco: «Chieste condizioni inaccettabili».
di Stefano Piazza
Il raid di Israele su Rafah dopo l’ordine di evacuazione ai civili, smaschera la pantomima di Hamas. Che nel tardo pomeriggio di ieri annuncia di aver accettato l'accordo sul cessate il fuoco, ma riceve l'immediato alt da Gerusalemme: «Le vostre condizioni sono inaccettabili». Stati Uniti (Joe Biden ha sentito Benjamin Netanyahu), Europa e Arabia Saudita continuano a opporsi all'idea di un'operazione di terra nella città a Sud della Striscia di Gaza, ma i vertici dello Stato ebraico assicurano che l'intervento sarà limitato e mirerà alla cattura dei terroristi. Il capo dell'ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ha informato il primo ministro del Qatar, Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani, e il capo dell'intelligence egiziana, Abbas Kamal, del sì del gruppo jihadista palestinese alla proposta dei due Paesi arabi per un cessate il fuoco. Lo riferisce Hamas, il cui leader-ha fatto sapere il ministro degli Esteri iraniano - ha aggiunto che « la palla è in mano» a Gerusalemme. Un funzionario israeliano ha commentato: «In attesa di dettagli sull'annuncio di Hamas. Esamineremo la risposta di Hamas. E cercheremo di capire cosa Hamas ha accettato e cosa no». Per la radio dell'esercito israeliano, «Hamas ha effettivamente approvato una proposta egiziana ammorbidita che è inaccettabile per Israele». Lo sviluppo arriva dopo una giornata ad alta tensione, iniziata all'alba con le Forze di difesa israeliane (Idf) che hanno avviato l'evacuazione dei civili palestinesi da Rafah verso i campi profughi nelle aree di Khan Yunis e al-Mawasi, dopo il lancio di volantini che invitavano la popolazione ad allontanarsi. Dopo la riposta positiva di Hamas (forse) tutto può cambiare, come ha spiegato un alto funzionario israeliano, che ha parlato con Ynet: «Tutto è reversibile, se Hamas accetterà un accordo i preparativi per l'attacco a Rafah potrebbero essere fermati». L'Idf ha specificato che si tratta comunque «di un'operazione di portata limitata mirata a spostare circa 100.000 persone». In tal senso è possibile che non si arrivi comunque a un'invasione di massa, ma a una serie di azioni mirate alla ricerca degli ostaggi e alla cattura dei capi militari di Hamas, Yaya Siwar e Mohammed Deif. Non entrare in massa a Rafah accontenterebbe l'amministrazione americana, contraria a un attacco su larga scala, come ribadito ancora ieri da Joe Biden a Benjamin Netanyahu, e lo stesso vale per la Francia, l'Inghilterra, l'Egitto e l'Arabia Saudita, che resta sullo sfondo delle trattative in prospettiva di un accordo con Israele. Hamas attraverso Al Jazeera ha fatto sapere che «l'operazione di terra a Rafah non sarà un picnic per le Forze israeliane. La nostra coraggiosa resistenza, guidata dalle Brigate al Qassam, è pienamente preparata a difendere il nostro popolo». Poi il gruppo jihadista ha lanciato un appello alla comunità internazionale «ad agire con urgenza per fermare l'incursione di Israele, che minaccia le vite di centinaia di migliaia di civili» i quali, va ricordato, sono usati da Hamas come scudi umani. A proposito di questo, l’Unrwa si è rifiutata di evacuare una zona di guerra: si tratta della prima volta nella storia che un'agenzia umanitaria si allinea alla posizione di un gruppo terrorista. Sempre a proposito di figure poco credibili, su X è intervenuto l'alto rappresentante Ue, Josep Borrell: «Gli ordini di evacuazione di Israele ai civili di Rafah fanno presagire il peggio: più guerra e carestia. E’ inaccettabile. Israele deve rinunciare a un'offensiva di terra e attuare la risoluzione 2728 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. L'Ue, insieme alla comunità internazionale, può e deve agire per evitare questo scenario». Una parola sul fatto che Hamas non libera gli ultimi ostaggi ancora in vita detenuti da ormai sette mesi? Oppure la richiesta ad Hamas di aderire alla proposta da tutti ritenuta «la migliore possibile»? Ovviamente no. Ieri mattina l'ufficio di Netanyahu ha risposto alle affermazioni del funzionario di Hamas, Moussa Abu Marzouk, e di un funzionario israeliano anonimo, secondo le quali il primo ministro israeliano è responsabile della nuova impasse nei colloqui su cessate il fuoco e scambio di prigionieri. In una dichiarazione, l'ufficio del premier ha sottolineato: «L'affermazione secondo cui il primo ministro Netanyahu, e non Hamas, avrebbe silurato l'accordo sulla liberazione degli ostaggi, è una completa menzogna e intenzionalmente fuorviante per il pubblico. La verità è esattamente l'opposto: Hamas è quello che manda all'aria ogni accordo, rifiutandosi di spostarsi di un millimetro dalle sue richieste estreme che qualsiasi governo israeliano in Israele non sarebbe in grado di accettare - in primo luogo, che Israele si ritiri completamente da Gaza e porre fine alla guerra, cosa che permetterà ad Hamas di rinnovare il controllo militare di Gaza e di riorganizzarsi per il prossimo 7 ottobre, come aveva promesso di fare». Come detto, nulla è irreversibile e la presenza del capo della Cia, William Burns, a Gerusalemme, dove ha incontrato Netanyahu, mostra che il filo della trattativa forse non si è ancora spezzato. Si è appreso da fonte militare che un quarto soldato israeliano è stato ucciso nell'attacco di Hamas avvenuto domenica presso il valico di Kerem Shalom. La vittima è Michael Rozel, 18 anni, della Brigata Nahal. Secondo l'Idf Hamas ha lanciato almeno 15 colpi di mortaio da una distanza di 300 metri da una zona umanitaria vicino a Rafah, nel Sud della Striscia di Gaza. Nell'attacco sono rimasti feriti altri 12 soldati, di cui tre in gravi condizioni. Israele ha reagito e secondo fonti sanitarie e di soccorso, nella Striscia di Gaza controllate da Hamas, 21 persone hanno perso la vita in seguito a due bombardamenti condotti dall'aviazione israeliana nel campo profughi di Yebna e nei pressi di al-Salam. Israele aveva chiuso il valico, ma ieri il premier, durante il colloquio con Biden, «ha concordato di garantire che il valico di Kerem Shalom sia aperto per l'assistenza umanitaria a chi ne ha bisogno». Visti gli sviluppi la sensazione è che le prossime 48-72 ore saranno decisive, con gli israeliani ormai pronti a entrare a Rafah.
La sceneggiata mediatica di Hamas sull’accordo con Israele
di Ugo Volli
• Il negoziato
Nella convulsa e confusa trattativa fra Israele e Hamas, condotta con molta insistenza da Stati Uniti, Egitto e Qatar, ieri sera c’è stata una serie di colpi di scena. Israele aveva dichiarato qualche giorno fa di accettare “un’offerta molto generosa” (così definita dal segretario di Stato Usa Blinken) che comprendeva la rinuncia per il momento a entrare nell’ultima roccaforte di Hamas Rafah, una tregua di 6 settimane, la liberazione di una trentina di rapiti in cambio del rilascio di un numero molto più alto di terroristi condannati e detenuti nelle carceri israeliane, il permesso di un rientro controllato di parte degli abitanti di Gaza Nord. È un accordo che ha suscitato parecchie critiche in Israele, proprio per il fatto di concedere moltissimo a Hamas. Nel pomeriggio di ieri sembrava che anche questa proposta fosse stata rifiutata come le precedenti da Hamas, che aveva annunciato il ritiro della sua delegazione dalla sede delle trattative al Cairo. Israele aveva minacciato di iniziare le operazioni a Rafah se Hamas non avesse accettato l’accordo entro una settimana e aveva iniziato a distribuire alla popolazione civile della città volantini e messaggi con le istruzioni per allontanarsene verso una zona al sicuro dei prossimi combattimenti.
• Il colpo di scena
Poi è venuto il primo colpo di scena. Hamas ha annunciato con molto clamore di aver accettato la proposta di cessate il fuoco. Sembrava che si aprisse una prospettiva di liberazione per i rapiti. Però rapidamente è emerso che ciò che i terroristi accettavano non era la proposta di Israele, ma un’altra formulata dal Qatar (che copre il doppio e contraddittorio ruolo di mediatore ufficiale e di protettore di fatto dei terroristi) e dall’Egitto (che ha una posizione contraddittoria anch’esso, perché vorrebbe apparire come difensore degli abitanti di Gaza ma rifiuta in tutti i modi di accoglierli sul suo territorio che confina con la Striscia e in particolare con Rafah).
• L’obiettivo di Hamas
Da quel che si sa, questa proposta accettata da Hamas differisce da quella cui Israele aveva consentito soprattutto in un punto ma fondamentale. Per i terroristi il cessate il fuoco è solo un passaggio verso la fine immediata della guerra, senza la conquista di Rafah, la distruzione delle loro forze militari ancora organizzate che vi hanno sede, senza la cattura o l’eliminazione dei capi che hanno condotto prima il pogrom del 7 ottobre e poi la guerra di questi mesi. In sostanza quel che vuole Hamas è restare al potere a Gaza ed espellerne l’esercito israeliano, il che naturalmente significherebbe evidentemente la sconfitta dello stato ebraico, perché sarebbe la premessa della ripetizione di stragi come quella di sette mesi fa. Tutti i sacrifici sostenuti da Israele, tutti i morti, tutto il costo economico e umano di questi mesi sarebbero vanificati. È chiaro che questa resa dello stato ebraico – l’obiettivo di Hamas – sarebbe una catastrofe storica per Israele e una vittoria altrettanto storica per il terrorismo e l’Iran che lo sostiene e lo dirige. Il rifiuto di Israele era ovvio ed è stato sottolineato dall’operazione militare per cui l’esercito ha colpito ieri notte numerosi obiettivi terroristici a Rafah ed ha anche preso il controllo del valico con l’Egitto, un passo importante che rassicura il paese vicino e sigilla l’enclave terrorista.
• Le ragioni della sceneggiata
Perché dunque è avvenuta la sceneggiata di Hamas? Bisogna ricordare sempre che “la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi” (Clausewitz). Hamas è molto abile a fare politica contro Israele e sa che può vincere solo su questo piano, non su quello delle armi. Dalla sua ha chiaramente l’alleanza guidata dall’Iran, appoggiata sullo sfondo da Russia e Cina, ma anche l’orribile rigurgito antisemita che circola per l’estrema sinistra e le università occidentali. Ma può contare anche sulla pavidità europea e dell’amministrazione americana che per opportunismo di politica interna considerano importante una pace qualunque magari pessima ma veloce, rifiutando di accettare i sacrifici necessari per l’eliminazione di un terrorismo che non minaccia solo Israele ma anche tutto l’Occidente. Hamas specula anche sulle divisioni della società israeliana, sulla tentazione della sinistra di dare una spallata contro Netanyahu e sul legittimo desiderio delle famiglie dei prigionieri di fare qualunque cosa per liberarli, anche se la logica politica e militare chiede di privilegiare l’eliminazione di Hamas su compromessi che riprodurrebbero il rischio. L’annuncio era una delle molte mosse di Hamas per cercare di bloccare e sconfiggere Israele. La pressione sul governo israeliano oggi è enorme, e Hamas lo sa bene. Non a caso Netanyahu ha scelto l’altro ieri l’occasione solenne delle celebrazioni di Yom HaShoà per dichiarare che “il mondo deve sapere che se ci lascerà soli ad affrontare il terrorismo, lo faremo da soli”.
Dati allarmanti dall’Antisemitism Worldwide Report 2023
di Anna Balestrieri
“Se le tendenze attuali continueranno, calerà il sipario sulla possibilità di condurre una vita ebraica in Occidente: indossare una stella di David, frequentare sinagoghe e centri comunitari, mandare i figli in scuole ebraiche, frequentare un club ebraico nel campus o parlare ebraico”. Giunge in una serata dolorosa, l’erev Yom ha-Shoah, dedicata al ricordo delle vittime dell’Olocausto, la notizia della pubblicazione del Rapporto Mondiale sull’Antisemitismo per il 2023. I dati sono tutt’altro che rassicuranti e segnalano un aumento degli episodi di antisemitismo in tutto il mondo, in particolare nei Paesi occidentali, con incrementi significativi rilevati in vari paesi, tra cui Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Argentina, Germania, Brasile, Sudafrica, Messico, Paesi Bassi, Italia e Austria. Questa impennata è da attribuirsi solo in parte alla guerra in risposta al pogrom del 7 ottobre. La maggior parte dei paesi con una significativa popolazione ebraica ha registrato un aumento del numero di incidenti di matrice antisemita già nei primi nove mesi del 2023, prima dell’inizio della guerra. Secondo il report, “il 7 ottobre ha contribuito a diffondere un incendio che era già fuori controllo.” Il Rapporto, di 150 pagine, comprende saggi approfonditi su diversi Paesi e uno studio sui profili dei diffusori di contenuti antisemiti sui social media. Sottolinea come i discorsi d’odio si articolassero già prima che Israele lanciasse la sua campagna a Gaza, anche nei principali campus universitari, e invita quindi a non considerare la recente ondata di antisemitismo come una risposta emotiva alla guerra. La politica di alcuni aggressori antisemiti di dichiarare che “il loro problema è con Israele, non con gli ebrei, per poi attaccare gli ebrei e le istituzioni ebraiche” dovrebbe essere smascherata.
• L’antisemitismo negli USA Va sottolineato che la minaccia non proviene solo dalle “fonti convenzionali” dell’odio antiebraico degli ultimi decenni, ossia gli attivisti dell’estrema sinistra. Un Rapporto dell’Università di Tel Aviv sull’antisemitismo negli Stati Uniti afferma che “Contrariamente alla saggezza convenzionale, gli incidenti del dopo 7 ottobre sono stati guidati anche dall’estrema destra americana. Neonazisti, suprematisti bianchi e altri hanno glorificato Hamas e hanno usato la guerra per diffondere propaganda antisemita e teorie cospirative, secondo le quali la crisi farà avanzare la sostituzione della maggioranza bianca in Occidente con i migranti provenienti dal Medio Oriente. Negli Stati Uniti le frange stanno invadendo il centro politico sia da destra che da sinistra, rendendo molto più difficile la lotta all’antisemitismo.” Secondo il Rapporto dell’Anti-Defamation League, a New York, la città con la più grande popolazione ebraica al mondo, la Polizia ha registrato 325 crimini di odio antiebraico nel 2023 rispetto ai 261 registrati nel 2022, la Polizia di Los Angeles ne ha registrati 165 rispetto a 86, e ne ha registrati 50 rispetto a 39. L’ADL ha registrato 7.523 incidenti nel 2023 rispetto ai 3.697 del 2022 (e secondo una definizione più ampia, 8.873); il numero di aggressioni è passato dalle 111 nel 2022 alle 161 nel 2023 e quello degli atti vandalici da 1.288 a 2.106. Le università si sono attrezzate con uno speciale kit per la denuncia online di episodi antisemiti alle autorità competenti.
• L’antisemitismo in altri paesi con significative comunità ebraiche Anche in altri Paesi si è assistito a un drammatico aumento del numero di attacchi antisemiti, secondo i dati raccolti dal Rapporto da agenzie governative, autorità di polizia, organizzazioni ebraiche, media e ricerche sul campo. È da segnalare l’impossibilità di tracciare episodi di violenza in paesi come la Federazione Russa.
• La mancanza di misure efficaci contro il diffondersi dell’antisemitismo Secondo il Prof. Uriya Shavit, responsabile del “Centro per lo Studio dell’Ebraismo Europeo Contemporaneo” e dell'”Irwin Cotler Institute”, se le tendenze attuali continueranno, la vita ebraica in Occidente potrebbe essere gravemente compromessa. Critica la mancanza di misure efficaci contro l’antisemitismo e suggerisce di delegare la responsabilità di combatterlo al Ministero degli Affari Esteri. “Non siamo nel 1938 e nemmeno nel 1933”, ricorda Shavit. “Eppure, se le tendenze attuali continueranno, calerà il sipario sulla possibilità di condurre una vita ebraica in Occidente: indossare una stella di David, frequentare sinagoghe e centri comunitari, mandare i figli in scuole ebraiche, frequentare un club ebraico nel campus o parlare ebraico”. Shavit rivolge il suo “j’accuse” e le sue critiche al Ministero per gli Affari della Diaspora e la Lotta all’Antisemitismo, definendolo “ridondante”: “un piccolo esempio di quanto lo sia: qualche mese fa, in un altro rapporto, abbiamo notato che il link fornito sul loro sito web in inglese per la segnalazione di incidenti antisemiti porta a una pagina vuota. La cosa ha fatto notizia sui media. E cosa è successo? Niente. Nessuno si è preoccupato di risolvere il problema. La pagina continua a essere vuota. Non ci sono limiti alla negligenza e alla mancanza di professionalità”.
• L’allarme dell’Anti-Defamation League: è l’anno più cupo della nostra storia Jonathan Greenblatt dell’ADL descrive l’impennata di incidenti antisemiti come uno “tsunami di odio” dopo il pogrom del 7 ottobre, sottolineando la necessità di agire per affrontare questa minaccia. I numeri del rapporto sono impressionanti e segnano l’anno più cupo nella storia dell’Anti-Defamation League, che opera da più di un secolo e si occupa di questo audit da 45 anni.
Negoziati Hamas-Israele in stallo. Gli States negano aiuti a Netanyahu
Niente accordo su cessate il fuoco e scambio ostaggi. Segnale Usa a Gerusalemme
di Stefano Piazza
La delegazione di Hamas ha consegnato nel tardo pomeriggio di ieri la risposta «ai fratelli mediatori di Egitto e Qatar, dove si sono tenuti colloqui approfonditi e seri». Di seguito, la delegazione di Hamas ha lasciato Il Cairo per consultazioni e tornerà martedì per nuovi negoziati. Lo riferisce l'emittente egiziana Al-Qahera, citando una fonte informativa. Contestualmente, il capo della Cia, William Burns, è giunto a Doha per un incontro col primo ministro Mohammed Bin Abdul Rahman alThani, con l'intento di discutere l'impegno per raggiungere un accordo sugli ostaggi a Gaza.
Questa notizia è stata riportata da Barak Ravid, del sito Axios, citando fonti informate. Secondo quanto riportato dalla Cnn - che cita anonimi funzionari statunitensi e israeliani - la finalizzazione di un eventuale accordo per un cessate il fuoco a Gaza potrebbe richiedere ancora diversi giorni. Le fonti indicano che qualsiasi possibile intesa che combinasse un temporaneo cessate il fuoco con il rilascio degli ostaggi a Gaza «sarebbe seguita da negoziati approfonditi sui dettagli dell'accordo». Mentre la delegazione di Hamas si trovava al Cairo per gli incontri con i mediatori, il direttore del Mossad David Barnea è rimasto in Israele, segnale che mostra come le parti siano lontane dall'intesa, mentre Axios scrive che gli States la settimana scorsa hanno sospeso la consegna di munizioni a Israele. È una mossa che preoccupa Tel Aviv.
Poco prima di consegnare la risposta ai mediatori su Telegram, il capo di Hamas lsmail Haniyeh ha scritto: «Hamas vuole raggiungere un accordo globale che ponga fine all'aggressione, garantisca il ritiro dell'Idf e raggiunga una seria intesa sullo scambio di prigionieri. Che senso ha un accordo se il cessate il fuoco non è il suo primo risultato? Abbiamo mostrato flessibilità ma il punto di partenza è la fine della guerra». Immediata la risposta di Netanyahu: «E’ Hamas che impedisce un accordo per il rilascio degli ostaggi, Israele era ed è tuttora pronto a concludere una tregua nella lotta per liberare i nostri rapiti, ma Hamas è trincerato nelle sue posizioni estreme, prima fra tutte la richiesta di ritirare tutte le nostre forze da Gaza. Pertanto, Israele non accetterà le richieste di Hamas».
Ieri 10 razzi e colpi di mortaio hanno colpito il valico di Kerem Shalom, al confine fra Israele e Striscia di Gaza. Hamas ha rivendicato l'attacco, dichiarando di aver preso di mira una base militare e affermando che ci sono vittime israeliane. Secondo quanto riportato dal quotidiano Haaretz, almeno 10 persone sono rimaste ferite e sono state trasportate in ospedale. A seguito dell'attacco, il valico, che è utilizzato per la distribuzione di aiuti umanitari, è stato chiuso.
Sempre nella giornata di ieri le forze israeliane hanno confermato che sono stati lanciati circa 65 razzi dal Libano alcuni dei quali, secondo il Times of Israel, sono stati intercettati. Infine, il governo israeliano ha votato all'unanimità per chiudere tutte le attività del network qatariota Al Jazeera e il segnale via cavo dell'emittente è stato spento. L'ufficio del ministro israeliano delle Comunicazioni, Shlomo Karhi, ha più volte affermato di avere prove che i giornalisti di Al-Jazeera «stavano passando informazioni sensibili al nemico», ad esempio sulle posizioni di truppe israeliane. Poi, nel febbraio scorso, l'esercito israeliano ha anche pubblicato prove che dimostrano che i corrispondenti di Al-Jazeera Muhammed Wishah e lsmail Abu Omar erano comandanti militari di Hamas e Abu Omar si è addirittura filmato mentre partecipava agli attacchi del 7 ottobre.
Razzi da Rafah: tre vittime. Biden ferma carico di armi
Israele chiude il valico di Kerem Shalom dopo un attacco: soldati morti. E gli Usa sospendono gli aiuti
di Matteo Sacchi
Mentre la diplomazia internazionale prosegue faticosamente il suo lavoro sul terreno gli scontri e le provocazioni non si fermano, anche se nella giornata di ieri sono stati relativamente a bassa intensità. Israele ha nuovamente chiuso il varco di Kerem Shalom, che divide la Striscia di Gaza e il territorio israeliano, dopo che alcuni razzi sono stati lanciati proprio nella direzione del varco dalla città di Rafah.
Secondo i cronisti del Jerusalem Post almeno tre soldati sono morti e undici sono rimasti feriti nell'attacco a un campo militare vicino al valico, utilizzato da migliaia di camion per consegnare aiuti umanitari a Gaza. Il varco si trova vicino al confine tra Egitto e Israele, a pochi chilometri da quello di Rafah, ed è stato chiuso per varie settimane tra ottobre e dicembre prima di essere riaperto. Hamas ha immediatamente rivendicato l'attacco come a marcare il fatto di disporre ancora di un potenziale missilistico, anche se enormemente ridotto dal lungo martellamento di Tsahal.
Israele non ha ancora compiuto alcuna ritorsione su vasta scala. In risposta, le forze dell'Idf hanno effettuato solo attacchi mirati verso Rafah, colpendo i lanciatori e un edificio adiacente utilizzato da Hamas. Nel frattempo più di un milione di civili palestinesi stanno continuando a rifugiarsi nella città più meridionale della Striscia di Gaza, considerata dai militari israeliani l'ultima grande roccaforte del gruppo terroristico Hamas. Anche solo la chiusura del varco, che si trova nel sud-est del territorio, provocata dall'attacco di Hamas potrebbe avere conseguenze umanitarie in breve tempo. Era uno dei pochi punti da cui era possibile far entrare dentro alla Striscia.
Lanci di razzi e di droni si sono registrati anche dal confine con il libano. Hezbollah, secondo fonti militari israeliane, avrebbe lasciato più di sessanta ordigni. In questo caso però non sono state registrate vittime né tra i civili né tra i militari. Quella del gruppo paramilitare sarebbe stata una risposta all'attacco che nella notte di sabato l'aviazione israeliana ha portato su obiettivi di Hezbollah nel sud del Libano, tra cui una struttura militare vicino a Khiam e un posto di osservazione vicino a Matmoura. Intanto è trapelata la notizia che, la scorsa settimana, l'amministrazione Biden ha bloccato una spedizione a Israele di munizioni fabbricate negli Usa. Lo riporta Axios, che cita funzionari israeliani, sottolineando come sia la prima volta, dall'attacco del 7 ottobre in Israele, che gli Stati Uniti fermano una fornitura di armi per i militari israeliani.
E oggi, a poche ore dall'ennesima fumata nera sulla tregua con Hamas, è atteso a Tel Aviv il direttore della Cia, Bill Burns, dopo le sue visite in Egitto e Qatar.
Botte e minacce online. In Italia raddoppiano i crimini contro gli ebrei
di Fausto Carioti
Pietre d'inciampo bruciate. Fra profanazioni, minacce e percosse, in Italia è raddoppiato il numero dei crimini antisemiti
C’è stato un tempo in cui i nemici degli ebrei erano tutti di estrema destra e la sinistra comunista difendeva la causa sionista. Tanto che quello dell’Urss, nel maggio del 1948, fu il primo governo a riconoscere de jure l’esistenza dello Stato d’Israele. Tre quarti di secolo dopo le cose sono molto diverse, come spiega il Rapporto 2023 sull’Antisemitismo nel mondo pubblicato ieri dalla Università di Tel Aviv e dalla Anti-Defamation League. Dopo l’inizio della guerra a Gaza si è scatenata «la peggiore ondata di incidenti antisemiti dall’epoca della Seconda guerra mondiale» e l’odio per Israele e gli ebrei è cresciuto ulteriormente in Europa e nel resto d’Occidente, dove da tempo aveva smesso di essere monopolio dei neonazisti.
«Una delle sfide più significative poste dall’antisemitismo contemporaneo», si legge nello studio, «è la sua espressione sia da parte dell’estrema destra che da parte dell’estrema sinistra, e che entrambe queste espressioni hanno invaso il pensiero mainstream».
Il fenomeno risulta «particolarmente evidente negli Stati Uniti», come dimostrano le cronache dagli atenei. Nel 2023, all’interno degli Usa, ci sono stati 7.523 atti di antisemitismo (più del doppio rispetto al 2022), il dato peggiore dal 1979, anno in cui si è iniziato a tenere la conta.
Ma da questo lato dell’Atlantico non è andata meglio. In Italia, dove si contano circa 27mila ebrei, l’Osservatorio sull’antisemitismo ha registrato lo scorso anno 454 episodi (contro i 241 del 2022): 259 avvenuti online e 195 nel “mondo reale”. Nessun atto di violenza estrema o letale, che nel nostro Paese (a differenza che in Francia e altrove) è cosa rara. C’è stata comunque un’aggressione fisica, nel dicembre 2023, ai danni di un giovane studente ebreo preso di mira da un compagno di classe che gridava «Palestina libera» e «Viva la Palestina» e ha spinto altri a picchiarlo e minacciarlo. In aumento anche le scritte antisemite e gli atti di vandalismo contro le proprietà degli ebrei in Italia.
L’impennata è avvenuta tra ottobre e dicembre, quando nel nostro Paese si sono registrati 216 episodi di violenza (nel mondo reale o in quello virtuale) rispetto ai 67 dello stesso periodo del 2022. Ma già nei primi nove mesi del 2023 c’era stato un aumento: 238 episodi in confronto ai 174 del 2022. E questo non è avvenuto solo in Italia: prima del 7 ottobre gli atti di antisemitismo erano aumentati anche negli Stati Uniti, in Francia e nel Regno Unito.
Il professor Uriya Shavit, che dirige il Centro per lo studio della gioventù ebraica europea contemporanea, evoca spettri del passato: «L’anno non è il 1938 e neanche il 1933. Tuttavia, se le tendenze attuali continueranno, calerà il sipario sulla possibilità di condurre in Occidente una vita da ebrei: indossare una Stella di David, frequentare sinagoghe e centri comunitari, mandare i bambini alle scuole ebraiche, frequentare un club ebraico nei campus delle università o parlare ebraico». Situazione che ha già spinto 40mila ebrei francesi, dal 2010 a oggi, a fare Aliyah, ritorno in Israele.
E stavolta la sinistra non può certo dirsi innocente. Una parte importante del rapporto è dedicata ai «fallimenti» nelle università statunitensi, dove comandano le élite liberal. Il documento spiega che i programmi per promuovere «diversità, equità ed inclusione», nei quali sono stati investiti tanti soldi e tanta retorica, «possono aver iniziato a identificare l’antisemitismo tradizionale di destra come una minaccia per le comunità ebraiche (...), ma si sono dimostrati largamente incapaci, prima e dopo il 7 ottobre, di identificare e scoraggiare l’antisemitismo di estrema sinistra, minimizzando o ridimensionando le sue manifestazioni».
In Norvegia è stato chiesto agli ebrei che hanno avuto «incidenti» dopo il 7 ottobre chi fosse stato il responsabile dell’episodio più grave.
«La risposta più comune», ricorda il rapporto diffuso ieri, «è stata “qualcuno con un background musulmano” (63%), seguita da “qualcuno con una visione di sinistra” (48%). Solo il 5% ha indicato che l’aggressore era “qualcuno con una visione di destra”». E questa «distribuzione dei colori ideologici e religiosi dell’antisemitismo attuale», prosegue lo studio, è probabilmente valida anche per la Svezia e la Danimarca ed «è stata riscontrata pure nei principali sondaggi sugli ebrei in Europa condotti nel 2012 e nel 2018 dall’Agenzia Ue per i diritti fondamentali». L’antisemitismo è risorto e fa davvero paura, ma stavolta le sue tinte dominanti sono il verde dell’islam e il rosso della sinistra.
Daniele Nahum: abbiamo sottovalutato l’antisemitismo di sinistra
di Ester Moscati
Daniele Nahum, consigliere comunale a Milano, impegnato in politica fin da giovanissimo, prima con i Radicali di Marco Pannella poi nel Partito Democratico, è oggi approdato all’area Riformista.
- Che cosa significa essere militante nell’area della sinistra e trovarsi in questo clima pesantemente anti-israeliano, antisionista e spesso antisemita, nelle piazze e nell’università? Secondo me abbiamo sottovalutato il tema dell’antisemitismo a sinistra. Quello di destra c’è e va combattuto, ma in confronto è quasi folcloristico e numericamente contenuto. L’antisemitismo di sinistra è invece più pervasivo, influente, diffuso. Ha sdoganato il termine “genocidio” riferito alla guerra a Gaza e ha dato nuova forza all’odio contro gli ebrei. La vulgata delle “vittime trasformate in carnefici” nasce nella sinistra, così come la parola “sionismo” usata come un insulto. Sono sicuro al 1000 per cento che tutto ciò che si scrive sui muri delle nostre città contro gli ebrei e Israele viene oggi dalla sinistra radicale. Essere un ebreo di sinistra è quindi difficile, una battaglia continua. Sono uscito dal PD in polemica con il fatto che la dirigenza ha scelto di non intervenire in modo drastico per fermare questa deriva e perché i giovani del Partito hanno sposato la causa palestinese in modo non obiettivo, ma settario e antisionista, come dimostrano gli incontri che hanno organizzato a Milano (uno di questi, “Colonialismo & Apartheid in Palestina. Una lunga storia di occupazione illegale e Resistenza” è stato poi annullato proprio per le polemiche, ndr). Temo quindi che nel futuro prevarrà nel partito un’area massimalista. Io nasco come Radicale, poi sono stato 12 anni nel PD, ma ora spero di dare il mio contributo alla crescita dell’area riformista che si riconosce nei valori dell’Atlantismo, dell’Occidente e del sostegno a Israele.
- Nel tuo impegno anche come Unione giovani ebrei italiani hai intessuto anni fa delle relazioni con i giovani musulmani. Queste relazioni sono proseguite nel tempo? Al di là della COREIS, con cui la comunità ha rapporti costanti e molto amichevoli, ci sono delle aree dove tu vedi la possibilità di una interlocuzione, di un dibattito civile e di un desiderio di comprendersi? Oggi non vedo spazi di dialogo con i giovani islamici, al di là di quelli che si riconoscono nella COREIS. In genere, i giovani palestinesi in particolare che sono dietro alle manifestazioni di questi mesi, vogliono la “Palestina libera dal fiume al mare”, quindi la cancellazione di Israele. Non c’è dialogo possibile in questo momento. Purtroppo.
Guerra Israele-Hamas, studente contestato alla Statale: “Situazione in peggioramento”
Il 23enne aveva detto di non essere d’accordo col boicottaggio degli accordi con gli atenei dello Stato ebraico
Pietro Balzano, 23 anni, iscritto al corso di Scienze Politiche Internazionali della Statale di Milano, era stato contestato, durante un incontro tra Rettore e collettivi studenteschi, per aver detto di non essere d’accordo col boicottaggio degli accordi con gli atenei israeliani. “Il clima non è bello soprattutto se consideriamo che accade nelle università dove la conoscenza e la democrazia dovrebbero essere i concetti di base. Ed è proprio nelle università che tutto ciò sta venendo meno. Si è partiti contestandomi in un evento in teoria neutro e poi si è arrivati a minacciare i relatori di un evento pro Israele. La situazione sta peggiorando”, ha affermato lo studente a margine del presidio contro l’antisemitismo, organizzato in piazzale Cordusio a Milano. “Si passa da una contestazione dell’opinione contraria, in un evento che in teoria dovrebbe essere neutro, all’annullamento diretto perché minacciati i relatori. Quindi è una situazione che va aggravandosi e sta peggiorando”, ha aggiunto il ragazzo in merito alla cancellazione del convegno ‘L’unica democrazia del Medioriente. Israele fra storia e diritto internazionale’, in programma per il 7 maggio.
Bisogna abbracciare gli ex-ortodossi, ma senza rinunciare alla religione
Abbassare l’asticella non conviene. Nello schieramento dei sionisti religiosi in Israele (quelli con la kippà a uncinetto) servono nuove strategie per affrontare nuove situazioni.
di Rav Chayim Navon
Gershom Scholem è stato lo stimato fondatore della moderna ricerca sulla Kabbalà. Quando studiavo all’Università Ebraica, scoprii che nel negozio di libri del campus veniva venduta un’edizione fotografata della “Copia personale dello Zohar del Prof. Scholem”, con le sue annotazioni, come se fosse un rebbe chassidico. Oltre al genio accademico, Scholem era noto anche per la sua profonda sensibilità storica. Già nel 1926 predisse ai pionieri atei in Israele il rinascimento della tradizione: “Dio non rimarrà muto nella lingua con la quale migliaia di volte lo hanno implorato di tornare nelle nostre vite”. In questo articolo mi concentrerò su un’altra sua profonda affermazione: secondo Scholem, l’ortodossia avrebbe un vantaggio educativo perché richiede ai giovani dei sacrifici. Negli ultimi anni, molti israeliani che hanno ricevuto un’educazione religiosa, che però si comportano al massimo in modo tradizionale, dichiarano apertamente di identificarsi ancora con il sionismo religioso. Ci siamo imbattuti in un aspetto tragico di questo fenomeno durante la ricorrenza di Simchàt Torà (il 7 ottobre del 2023 NdT), quando non poche delle vittime del massacro nel quale hanno perso la vita con uno straordinario eroismo, si sono rivelate come provenienti dal sionismo religioso, anche se non stavano celebrando la festa in modo molto ortodosso (Festival Nova NdT). Alcuni deducono da questo episodio che bisognerebbe riconsiderare la definizione di ortodossia del sionismo religioso, in maniera che possa contemplare anche una vita condotta senza un impegno totale alla Halakhà e alla fede. Penso che sia un errore totale. Se vogliamo rafforzare i fiori più belli sui rami più lontani dell’albero, non possiamo certo tagliarne le radici. Pensate ai Lubavitch. Chabad è, in certo senso, il movimento spirituale più influente nel popolo ebraico oggi, e i suoi membri operano in tre cerchi d’influenza. Nel cerchio più ampio, sono felici di accogliere chiunque accetti di ascoltare qualcosa da loro. Quando ci si avvicina ancora un po’, sono disposti a chiamare “Chabad” quasi chiunque sia disposto a mantenere un minimo di comportamento chassidico. Ma nel cerchio interno, le yeshivòt Chabad insistono con tenacia sulla profonda teologia e sui requisiti molto alti formulati dai precedenti Rebbe di Lubavitch. Questo nucleo duro e profondo non solo non danneggia l’influenza pubblica che hanno i Chabad, ma al contrario la facilita. Una collettività che desidera che molte persone si rifugino sotto le proprie ali, deve sviluppare ali enormi, non restringerle. Organizzazioni religiose in tutto il mondo hanno imparato questa verità. Negli anni ’60 la Chiesa Cattolica decise di aggiornare i propri riti. Ha rimosso l’antico latino dalle preghiere; ha abolito il divieto di mangiare carne il venerdì e ha reso più accomodante la confessione. Il risultato è stato un esodo in massa dalla Chiesa Cattolica, sia di sacerdoti e sia di semplici credenti. Nel 1963, 167 sacerdoti hanno lasciato la Chiesa, ma nel 1970 erano già 3.800 a farlo. Prima di queste decisioni, il 75% dei cattolici americani partecipava regolarmente alle funzioni in chiesa; dopo, la percentuale di fedeli era scesa al 45%. Le persone possono identificarsi con un movimento religioso che pretende molto, anche se faticano a rispettarne tutte le richieste. Ancora di più: si può mantenere una condotta religiosa incerta e parziale, solo ai margini di una realtà religiosa più rigorosa. Quando un ex-ortodosso arriva in sinagoga solo per dire il Kaddish per il padre scomparso, può contare sulle almeno dieci persone nel suo quartiere, che frequentano la sinagoga per tre volte al giorno, tutti i giorni. La donna debolmente osservante, che ci tiene all’immersione nel mikvè (bagno rituale NdT) , può contare sulla volontaria nella sua città che è di turno di shabbàt in quel mikvè. Chi propone di abbassare l’asticella dei nostri requisiti religiosi non sembra avere una profonda comprensione della natura umana e del carattere della comunità religiosa. Dalla parte opposta, a volte sento da educatori e rabbini una risposta che trovo altrettanto sbagliata. Quando tradizionalisti ed ex-ortodossi confondono i confini della società sionista religiosa, c’è chi chiede in risposta di definire meglio questi confini e trasformarli in mura che servano a chiarire chi è dentro e chi è fuori. Mentre i facilitanti ideologizzati che ho citato in precedenza si avvicinano agli ebrei conservativi (una corrente ebraica non ortodossa NdT), questi rigoristi imitano gli ebrei di tradizione lituana. Anche questa è a mio avviso una posizione sbagliata. Chi è sicuro di sé non si sforza di circondarsi solo di persone simili a lui. Dal canto mio cerco di educare i miei studenti alla fede profonda e al pieno rispetto della Halakhà, ma non ho alcun interesse a escludere coloro che non soddisfano questo standard. A paragone con il resto del mondo, la percentuale di coloro che provengono dal sistema educativo religioso e che continuano a osservare i precetti è molto elevata. E se anche coloro che non si considerano completamente religiosi desiderano far parte di questa società – per me è un guadagno netto. La chiave per il successo educativo e la prosperità di una comunità sono un alto standard di requisiti, unito alla tolleranza verso coloro che non riescono a soddisfarli. Se non poniamo requisiti, non saremmo una corrente religiosa, ma un club fallimentare. Se non manifestiamo tolleranza, non saremmo una comunità vitale che irradia forza, ma solo una setta fanatica e rabbiosa. Dobbiamo saper distinguere tra sionismo religioso e sionista religioso. Cos’è il sionismo religioso? Su questo potrei scrivere un trattato. Chi è un sionista religioso? Chiunque lo desideri.
(Makor Rishon 3.5.2024)
GLOSSARIO: “Sionisti religiosi” (a volte chiamati in Italia “nazional-religiosi”) corrispondono nel mondo ebraico anglosassone ai “modern orthodox”, partecipano alla società civile e fanno il servizio militare, sono ormai divisi in correnti più o meno liberali. “Ex-ortodossi” è la traduzione del neologismo in sigla “Datlash-Datì lesheavàr”, sono gli ebrei che hanno abbandonato l’impegno all’osservanza totale dei precetti. “Debolmente osservanti” è la traduzione del neologismo ebraico-inglese “Datì Light”-Religioso leggero”, e sono più osservanti comunque dei semplici tradizionalisti.
La genealogia in apertura del Nuovo Testamento è lì a mostrare che in Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abraamo, la storia di Israele è continuata così fino ad oggi e non ci sarà mai un giorno in cui il peccato, o la disperazione, o la morte potranno mettere la parola fine alla sua storia.
di Gabriele Monacis
Il Nuovo Testamento inizia con queste parole:
Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abraamo (Matteo 1:1).
L’italiano traduce con il termine “genealogia” l’espressione che in greco significa letteralmente “libro (o rotolo) delle origini”. Anche nelle genealogie della Genesi si trova questa stessa espressione, ovviamente in ebraico: סֵפֶר תֹּלְדוֹת – sefertoldot (vedi Genesi 2:4 e 5:1). Come già visto, una genealogia si trova all’inizio delle Cronache, l’ultimo libro del Tanach, l’Antico Testamento in ebraico. La genealogia non è altro che una storia in estrema sintesi, in cui ogni nome è legato al precedente e al successivo da una qualche relazione, come lo sono gli eventi storici. Un anello dopo l’altro, in ordine cronologico, a formare una catena storica, fatta di nomi che al loro interno contengono storie di vita, quindi di eventi storici più o meno noti. Proprio questo “libro delle origini” diventa l’elemento che riprende la storia di Israele dell’Antico Testamento e la continua nel Nuovo Testamento, con la genealogia di Gesù Cristo. Questo incastro tra le due parti che costituiscono la Bibbia vede nel ritorno dall’esilio a Babilonia il preludio per un nuovo ristabilimento del popolo di Israele. Non solo nella sua terra, come avvenuto dopo il ritorno dall’esilio, ma anche con la sua storia. Ad una prima lettura, senza voler addentrarsi nei dettagli che riguardano i singoli nomi, le genealogie nel libro delle Cronache e nel vangelo di Matteo differiscono in due aspetti principali. Il primo riguarda il primo nome della lista. Nella genealogia delle Cronache è Adamo, in quella di Matteo è Abraamo. Anche Davide costituisce un caposaldo, il secondo dopo Abraamo. Gesù Cristo, nella genealogia di Matteo, è dunque figlio di Davide e figlio di Abraamo, coloro ai quali Dio promise qualche cosa che non avrebbero visto loro, ma i loro discendenti. Gesù Cristo, in questo senso, è il figlio della promessa di Dio. La seconda differenza riguarda i nomi femminili. Delle quattro donne dell’Antico Testamento menzionate nella genealogia di Matteo – Tamar, Raab, Rut e Bat Sheba - solo Tamar è menzionata anche nella genealogia delle Cronache. Le altre no. Oltretutto, era consuetudine che solo i nomi dei padri venissero riportati nelle genealogie, non quelli delle donne. Evidentemente, inserire il nome di queste quattro donne, e anche quello di Maria, la madre di Gesù, è frutto di una precisa volontà di chi ha redatto questa genealogia. Per quale motivo? Come visto in precedenza, i figli di queste cinque donne – le quattro dell’Antico Testamento più Maria – sono nati da unioni non convenzionali, per un motivo o per un altro. Ma non in tutti i casi l’unione è avvenuta per un peccato di tipo sessuale commesso dall’uomo e dalla donna. Nel caso di Tamar e Giuda e di Bat Sheba e il re Davide sì. La Scrittura dice esplicitamente che queste due coppie si unirono al di fuori del loro contesto matrimoniale, e quindi contro la legge morale. Tamar si travestì da prostituta per poter unirsi a suo suocero Giuda e avere dei figli da lui; nel caso di Davide e Bat Sheba, Dio stesso condannò la loro unione e il figlio che ne nacque morì in tenera età. Anche Raab, la prostituta di Gerico, ha senz’altro vissuto una vita non conforme alla legge morale comunemente riconosciuta, almeno fino a quando abitava a Gerico, e quindi prima di entrare a far parte del popolo di Israele. Nulla di questo tipo, però, si può dire di Rut, che sposò Boaz quando era vedova di uno dei figli di Naomi e gli partorì un figlio, di nome Obed. Né tanto meno si può dire di Maria, la madre di Gesù, che rimase incinta mentre era vergine per volontà dello Spirito Santo. Ma allora, se non è per un peccato commesso, che cosa hanno in comune queste cinque donne? Perché sono inserite intenzionalmente nella genealogia di Gesù Cristo in apertura del Nuovo Testamento? La risposta sta nel fatto che in tutte queste storie di donne e di unioni non convenzionali c’è un processo di riabilitazione delle persone coinvolte. Vediamo in quali termini. La figura di Giuda viene ristabilita all’interno della sua famiglia proprio dopo aver riconosciuto il proprio errore unendosi a Tamar. Di Tamar disse: “Lei è più giusta di me” (Genesi 38:26), riconoscendo così la propria responsabilità in quello che era successo. Nei capitoli successivi, lo si vede alla guida dei suoi fratelli quando questi si trovano in Egitto davanti a Giuseppe. Il loro padre Giacobbe, in punto di morte, ne riconosce la leadership e profetizza che il Messia sarà un suo discendente. La figura di Giuda è ristabilita, a partire dal suo pentimento, con un ruolo di primo piano, cosa che non aveva prima della storia con sua nuora Tamar. Raab, colei che aveva protetto le spie dei figli di Israele prima che Gerico venisse distrutta, viene risparmiata insieme con la sua famiglia. Non solo ne esce salva, ma viene integrata nel popolo di Israele, viene trapiantata da una città distrutta sotto il giudizio di Dio ad un popolo che vive sotto la benedizione di Dio. “Ma a Raab, la prostituta, alla famiglia di suo padre e a tutti i suoi Giosuè lasciò la vita; e lei ha dimorato in mezzo a Israele fino al giorno d'oggi, perché aveva nascosto i messaggeri che Giosuè aveva mandati a esplorare Gerico” (Giosuè 6:25). Rut era una moabita. Dopo la morte di suo marito in terra di Moab, vuole seguire sua suocera Naomi quando questa decide di tornare nella sua città, Betlemme. Ecco le parole di Rut a Naomi quando questa le chiedeva di rimanere a Moab: “Non insistere perché io ti lasci, e me ne vada lontano da te; perché dove andrai tu, andrò anch'io e dove starai tu, starò pure io, il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio” (Rut 1:16). Non solo Rut si trasferì a Betlemme con Naomi, ma lì sposò Boaz e gli partorì un figlio, Obed, che sarebbe poi diventato il nonno del re Davide. Rut dà alla luce un discendente alla famiglia di Naomi, che era rimasta senza marito e senza figli e quindi era destinata a scomparire. Questa famiglia viene così ristabilita all’interno del popolo di Israele. Queste sono le parole che l’Eterno disse al re Davide attraverso il profeta Natan, dopo che il re aveva preso per sé Bat Sheba, la moglie di Uria: “Perché dunque hai disprezzato la parola dell'Eterno, facendo ciò che è male ai suoi occhi? Tu hai fatto morire con la spada Uria l'Ittita, hai preso per te sua moglie, e lo hai ucciso con la spada dei figli di Ammon.” (2 Samuele 12:9). La risposta di Davide fu breve ed essenziale: “Ho peccato contro l’Eterno”. L’Eterno perdonò Davide, che non morì. Morì invece il figlio che Bat Sheba aveva concepito e la casa di Davide attraversò un periodo molto difficile, in cui il re Davide dovette scappare per non essere ucciso dal proprio figlio Absalom, che voleva diventare re. Diventò re invece Salomone, il figlio che Bat Sheba aveva partorito a Davide in quegli anni turbolenti. A seguito del pentimento, Dio ristabilì Davide e impedì che perdesse il suo trono. Non solo. Proprio dalla donna con cui il re aveva peccato, nacque Salomone, colui che diventò re di Israele dopo Davide e che Dio stabilì saldamente nella sua casa. Le quattro donne dell’Antico Testamento, dunque, hanno tutte attraversato un processo di riabilitazione, di ristabilimento di una condizione che era compromessa in precedenza. Come un passaggio dalla morte alla vita, dalla maledizione alla benedizione. Si arriva così alla quinta donna della genealogia di Matteo: Maria, la madre di Gesù. Del suo passato prima che partorisse Gesù, si sa che era vergine e promessa sposa di Giuseppe. Ma essendo anche lei una delle donne inserite nella genealogia di Gesù Cristo, a quale processo di ristabilimento Maria ha preso parte? La risposta è nelle parole che un angelo del Signore rivolse a Giuseppe in sogno, quando questi si era proposto di lasciare Maria, che era rimasta incinta:
“Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria tua moglie, perché ciò che in lei è generato è dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati”. (Matteo 1:20,21).
Eccolo il ristabilimento di Israele, che invece di morire per i propri peccati, come poteva succedere al re Davide quando peccò con Bat Sheba, è salvato dai suoi peccati. E a salvarlo è Gesù Cristo, il figlio della promessa, che ristabilisce Israele nella sua posizione davanti a Dio. Il ritorno dall’esilio in Babilonia, l’evento con cui si conclude l’Antico Testamento nel libro delle Cronache e che costituisce uno dei tre capisaldi della genealogia di Gesù Cristo nel vangelo di Matteo, dopo quelli di Abraamo e Davide, diventa l’evento storico che anticipa la nuova fase della storia di Israele: come il popolo fu ristabilito nella sua terra dopo un periodo di esilio in Babilonia, così è ristabilito nella sua dimensione storica: è stato popolo fino alla nascita di Gesù Cristo e non smetterà di esserlo nel corso della storia. Cioè non morirà come popolo, perché è lui, dice l’angelo del Signore parlando di Gesù, che salverà il suo popolo dai loro peccati. Il libro delle origini del Messia di Israele, la sintesi della storia della sua famiglia, partendo da Abraamo, passando per il re Davide e per il ritorno dall’esilio in Babilonia, diventa la catena storica che riprende la storia di Israele e la porta avanti, marcandone la direzione che questo seguirà. Come una retta che interpola dei punti, che in questo caso sono gli antenati e le antenate di Gesù Cristo. Ne viene fuori un ritratto storico fatto di peccati commessi seguiti da pentimenti e riabilitazioni, di momenti di disperazione seguiti da nuove e inaspettate ripartenze, di morti seguite da nuova vita. La genealogia in apertura del Nuovo Testamento è lì a mostrare che in Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abraamo, la storia di Israele è continuata così fino ad oggi e non ci sarà mai un giorno in cui il peccato, o la disperazione, o la morte potranno mettere la parola fine alla sua storia. Perché è Gesù che salva il suo popolo dai loro peccati.
Dopo sei mesi di guerra, una guerra che come mai nessun’altra prima ha esposto Israele al vituperio generale, a una criminalizzazione senza fine, sembra giungere a destinazione l’accordo con Hamas, il peggiore accordo possibile, perché nonostante verrà detto in modo fraudolento che, se verrà effettivamente siglato, la guerra continuerà dopo la tregua, che Hamas verrà sconfitto, che si entrerà a Rafah, che il bene trionferà sul male e la luce sulle tenebre, con questo accordo Hamas ha vinto. Dura dirlo, è dura ammetterlo, ma come scrive Camus ne La Peste, l’evidenza ci si può sforzare di non vederla, ma “ha una forza terribile che finisce sempre per vincerla su tutto”. La forza terribile dell’evidenza sta in un accordo disastroso per Israele, che in vista della progressiva liberazione degli ostaggi, concede a Hamas, come abbiamo già scritto, tutto, ovvero gli concede il ritiro dell’IDF dalla Striscia, di fatto già in atto da dicembre e poi da aprile, e di potere restare al suo interno.
La dissonanza cognitiva, quella che nel Seicento faceva dire a numerosi seguaci del falso Messia Shabbatai Zevi, che si trattava veramente del Messia, nonostante la sua conversione all’Islam, farà dire a chi ne è affetto, che Israele vincerà. Lasciamo alle illusioni gli irriducibili della vittoria, noi de L’Informale, come sa chi ci segue, preferiamo concentrarci sulla realtà, anche quando non ci piace, soprattutto quando non ci piace, perché riteniamo sia un dovere farlo.
Questo accordo capestro che si appresta alla sua chiusura, lo hanno voluto gli Stati Uniti, ma senza l’avallo di Benjamin Netanyahu, che non ha mai pensato di vincere a Gaza, e del Gabinetto di guerra, non lo avrebbero ottenuto.
Scriviamo da mesi che Israele la guerra la stava perdendo, e non ci vantiamo di averlo fatto, né siamo soddisfatti di averci visto giusto, avremmo preferito prendere una cantonata.
A fine novembre, Daniel Pipes, nostro ospite abituale, ci disse che la guerra di Israele contro Hamas sarebbe stata un “mezzo fallimento”. Recentemente, alla luce degli ultimi sviluppi, ha dovuto incrementare il proprio pessimismo.
L’Amministrazione Biden e Hamas, alleati incongrui, possono brindare. Vedremo nelle prossime ore e giorni quale impatto avrà il suggello dell’accordo sulla tenuta del governo, dove sia Bezalel Smotrich che Itmar Ben Gvir hanno più volte messo in guardia Netanyahu dal siglare un accordo penalizzante per lo Stato ebraico.
Da un primo errore fatale altri ne discendono a cascata. Il primo errore è stato quello di legittimare una formazione jihadista sanguinaria in un interlocutore.
Secondo i media israeliani, Benjamin Netanyahu teme più di ogni altra cosa i mandati di arresto della Corte penale internazionale dell'Aia contro la conduzione statuale e militare israeliana. E perché? E’ perché Netanyahu è odiato all'estero ed è altrettanto impopolare in patria. All'estero si protesta contro Israele e in Israele si protesta contro Netanyahu. Qualche giorno fa ho letto una piccola notizia del giornalista e commentatore israeliano Nadav Eyal, il quale diceva che una fonte a Washington gli aveva suggerito un'idea: "Trasformare Benjamin Netanyahu nel vostro Slobodan Milosevic". Avevo già sentito parlare di questa manovra politica settimane fa a Gerusalemme. Spero che nel popolo israeliano non ci sia un Giuda Iscariota che tradisce Benjamin Netanyahu. A.S.
L’ex presidente jugoslavo Slobodan Milosevic durante il suo processo all'Aia, 14 febbraio 2002
GERUSALEMME - Da ricordare: l'ex presidente della Serbia fu consegnato al Tribunale internazionale per i crimini di guerra dal governo serbo nel 2001. Milosevic fu accusato di crimini di guerra, crimini contro l'umanità e genocidio durante le guerre in Croazia, Bosnia e Kosovo tra il 1991 e il 1999. Milosevic fu anche accusato di essere parzialmente responsabile del genocidio di circa 8.000 abitanti musulmani della città bosniaca orientale di Srbenica nel luglio 1995.
È la stessa Corte penale internazionale dell'Aia che attualmente sta decidendo se emettere mandati di arresto per alti funzionari israeliani. La fonte americana non ha voluto farlo di persona, ma ha fatto capire agli israeliani che questa potrebbe essere una mossa politica per sbarazzarsi finalmente del capo di Stato israeliano Benjamin Netanyahu, da tempo in carica e controverso. È solo un'idea. Ma nelle ultime settimane ho sentito questa idea provenire da diverse parti della popolazione. Anche da amici della sinistra liberale sento dire che un tale tradimento non sarebbe un peccato, ma una benedizione per il futuro di Israele. "Per salvare il popolo da un dittatore come Bibi, anche il tradimento alla Corte penale internazionale non è un peccato", dicono i suoi oppositori. In realtà, questo non è necessario, ci sono abbastanza nazioni che vogliono perseguire Israele con tanto amore per la Corte penale internazionale, forse con l'aiuto e la collusione di colleghi israeliani che vogliono sbarazzarsi di Bibi. Detto fra noi, sarebbe possibile ritenere Netanyahu responsabile di tutti gli errori di Israele nella guerra nella Striscia di Gaza e quindi mettere in moto il processo, sacrificare politicamente Netanyahu per assolvere il Paese di Israele dai suoi peccati nella Striscia di Gaza. Israele non viene forse condannato dai media di tutto il mondo anche per il genocidio, come è avvenuto in Serbia, per la qual cosaMilosevic alla fine è stato crocifisso? Qual è la differenza tra Netanyahu e Milosevic? Per la maggior parte dell'opinione pubblica mondiale, il leader ebreo di Israele è ritenuto essere peggiore del presidente serbo Milosevic. Israele è ritenuto responsabile della morte di 33.000 palestinesi nella Striscia di Gaza, tra cui 14.000 bambini. I terroristi morti non sono considerati. Sì, questo è il punto. A pochi mesi dall'orribile attacco del 7 ottobre, Israele è già sul banco degli imputati della Corte penale internazionale. Più di mille israeliani sono stati torturati, stuprati, uccisi e massacrati durante il Black Sabbath - eppure, contro ogni logica, è Israele e non Hamas ad avere problemi politici. Chiunque sia un criminale di guerra come Hamas,probabilmente può essere risparmiato da un'incriminazione davanti a un tribunale internazionale per crimini di guerra, fin dall'inizio. Cosa c'è da accusare, sono tutti terroristi in ogni caso, sono tutti malvagi e non si sottomettono a nessun ordine mondiale o procedimento giudiziario. O in quale altro modo dobbiamo intendere tutto questo? Milosevic si è dimesso da presidente della Jugoslavia nell'ottobre del 2000 a seguito di manifestazioni di massa, è stato poi arrestato nell'ambito delle sanzioni imposte alla Serbia ed estradato al Tribunale per crimini di guerra dell'ONU all'Aia. Questo è avvenuto un anno dopo su istigazione del primo ministro serbo e filosofo Zoran Dindic. Dindic era il suo avversario politico nel Paese e decise di estradare Milosevic alla Corte penale internazionale "per il bene del Paese". Non vi sembra che questo assomigli a Israele? Manifestazioni di massa e sanzioni?
Qui sto facendo delle ipotesi e ho l'impressione che Netanyahu conosca questo scenario dalla Serbia. Per questo motivo è molto pressato dal fatto che la Corte penale internazionale possa emettere simili mandati di arresto contro Israele. Chiunque ci sia dietro. Secondo diverse fonti dell'apparato di sicurezza, questo spiega perché Netanyahu ha permesso negli ultimi giorni l'ingresso nella Striscia di Gaza di un numero maggiore di aiuti rispetto al solito, cosa che in precedenza si era rifiutato di fare, su pressione dei suoi ministri religiosi di destra Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich. Netanyahu ha anche esortato i suoi ad aprire rapidamente il valico di frontiera settentrionale di Erez, chiuso dal 7 ottobre. "La stessa persona che all'inizio della guerra ci ha costantemente fatto pressione per bombardare i valichi di frontiera con Gaza e per dire che non c'è più un collegamento tra Israele e Gaza, ora sta spingendo per permettere l'ingresso di aiuti a Gaza", ci ha detto una fonte dell'esercito. Si pensa che portare aiuti e cibo possa contribuire a ritardare o impedire l'emissione di mandati di arresto. Non solo, alcuni commentatori dei media ritengono che dietro i possibili mandati d'arresto contro Benjamin Netanyahu e i vertici militari israeliani ci sia Washington stessa, altrimenti il tribunale per crimini di guerra delle Nazioni Unite all'Aia non avrebbe avviato questo processo. Ciò non sarebbe accaduto senza l'approvazione americana. Questo dovrebbe servire a fare pressione sul governo israeliano per porre fine alla guerra nella Striscia di Gaza. È strano che Washington non voglia che ci sia un'offensiva di terra israeliana a Rafah, anche se questa è tatticamente e strategicamente necessaria per schiacciare Hamas una volta per tutte. Questo è il desiderio silenzioso dei governi arabi della nostra regione. È abbastanza chiaro allora che Benjamin Netanyahu è diventato un peso eccessivo per Washington, ed è per questo che Washington vuole vedere un Israele senza Bibi. Se le pressioni americane dovessero impedire a Bibi di entrare a Rafah per una questione di ostaggi, Washington presume che il suo governo cadrà - perché la maggioranza vuole che la guerra finisca con la distruzione di Hamas. Non importa chi porterà a termine questa missione, la sua coalizione di governo, o il popolo o la Corte penale internazionale, l'importante è che Bibi sia politicamente fatto fuori. E’ questo lo stato d'animo che si vive all'ombra della guerra - e questo non è buono.
(Israel Heute, 4 maggio 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Il bignami dei fan di Hamas: chi ha ispirato gli studenti che odiano Israele
Ecco i pensatori su cui si sono formati gli universitari che protestano contro lo stato ebraico e inneggiano ai "dannati della terra".
di Giulio Meotti
Fanon è la bibbia di una nuova teologia, il terzomondismo e un'apologia della violenza dei dominati come esorcismo liberatorio.
Applicando Fanon alla Palestina, gli emuli dello psichiatra vedono il sionismo come il nuovo colonialismo bianco. "Ebrei, tornate in Polonia".
Per Said, il sionismo ha assimilato gli ebrei all'occidente e quindi hanno perso il loro semitismo , sono diventati "orientalisti" e quindi razzisti.
Questa ideologia ha portato all'assunto che tutti i paesi poveri siano automaticamente buoni e tutti quelli ricchi intrinsecamente cattivi.
Uno dei grandi dibattiti americani alla fine degli anni Ottanta riguardava il corso di “cultura occidentale”. Jesse Jackson nel 1988 aveva guidato una protesta a Stanford con il famoso canto, “Hey, hey, ho, ho, Western Culture’s got to go” (“la cultura occidentale deve sloggiare”). Ancora nel 1970, dieci delle cinquanta principali università americane avevano un corso obbligatorio di “civiltà occidentale”, mentre trentuno lo offrivano come facoltativo. Oggi, secondo il rapporto “The Vanishing West”, nessuna università offre più simili corsi. La Columbia University offre invece un corso di “civiltà contemporanea”: anticolonialismo, sesso e gender, antirazzismo, climatologia, Frantz Fanon e Michel Foucault, Barbara Fields e il collettivo Combahee River, meditazioni sulla tratta transatlantica degli schiavi e su come il cambiamento climatico sia un “déjà vu coloniale”. Ross Douthat sul New York Times racconta su quali testi si formano gli studenti per Gaza (e per Hamas) che hanno gettato nel caos le università della Ivy League americana (ma anche i dipartimenti di scienze umane in Italia e Francia). “Per il mondo che si preparano a influenzare e guidare, leggono testi che sono davvero importanti solo per comprendere la prospettiva della sinistra contemporanea”, scrive Douthat. “Nelle letture del XX secolo del curriculum della Columbia, l’èra dei totalitarismi semplicemente svanisce, lasciando la decolonizzazione come l’unico grande dramma politico del recente passato. Non c’è Orwell, né Solzhenitsyn; vengono assegnati i saggi di Hannah Arendt sulla guerra del Vietnam e le proteste studentesche in America, ma non ‘Le origini del totalitarismo’ o ‘Eichmann a Gerusalemme’. Il conservatorismo di qualsiasi tipo è naturalmente vietato. Il cambiamento climatico incombe su tutto, ma ci si aspetta che l’attivismo per l’ambiente si fonda in qualche modo con l’azione anticoloniale e antirazzista. Israele diventa l’unico capro espiatorio per i peccati dei defunti imperi europei e dei regimi suprematisti bianchi. Uno degli organizzatori delle proteste della Columbia paragona esplicitamente i ‘sionisti’ ai proprietari di schiavi di Haiti”. La Columbia University, il cui nome dovrebbe evocare Cristoforo Colombo e il viaggio verso un nuovo mondo, ci invita oggi a esplorare uno strano universo in cui occidentali sessualmente e culturalmente confusi, che beneficiano di tutti i privilegi che una società democratica offre, abbracciano slogan e parole d’ordine di Hamas. Radicalizzare gli studenti occidentali è sempre stato un po’ come far inciampare i ciechi. Ma considerarli giovani ingenui che attraversano una fase di ribellione, come un nuovo Sessantotto, come vorrebbe l’ineffabile Alexander Stille su Repubblica, significa nascondere ciò che c’è di nuovo. La natura profondamente inquietante della rabbia dei privilegiati occidentali. Gli studenti per Hamas leggono “I dannati della terra” di Frantz Fanon, la bibbia di una nuova teologia, il terzomondismo e la sua ridistribuzione manichea delle colpe, quelle dell’Europa che derivano dalla sua stessa natura, mentre i torti dei paesi del sud dipendono solo dalle circostanze. La teorizzazione della rivolta dei colonizzati, degli oppressi, si risolve in un’apologia della violenza insurrezionale come esorcismo liberatorio. Il dannato che assurge ad archetipo esistenziale. “The Rebel’s Clinic: The Revolutionary Lives of Frantz Fanon” di Adam Shatz (Farrar, Straus e Giroux) traccia i legami tra gli scritti di Fanon, l’abbraccio accademico della teoria anticolonialista e il sostegno alla violenza e al terrore da parte della sinistra universitaria. Shatz racconta come Fanon sia diventato un’icona della sinistra con “I dannati della terra”, pubblicato poco prima di morire di leucemia a trentasei anni nel 1961. Il libro di Fanon non è passato inosservato, ma tradotto e citato con devozione da movimenti radicali, tra cui le Pantere nere, la guerriglia latinoamericana, i rivoluzionari islamici dell’Iran e i terroristi palestinesi. Nato in Martinica nel 1925, Fanon combatté contro i nazisti nel 1944 come cittadino francese. Studiò medicina a Lione ed esercitò la psichiatria nella colonia algerina. Vedeva un mondo manicheo diviso tra il bene e il male, senza alcuna possibilità di compromesso, comprensione reciproca o convivenza pacifica. Il colonizzatore è “l’elemento corrosivo che distrugge tutto ciò che gli si avvicina”. In queste condizioni, la violenza è una reazione naturale e logica ai colonialisti. La biografia di Shatz mostra che Fanon credeva veramente nel potenziale rigenerativo della violenza e nell’uccisione di massa degli europei come medicina benefica per i colonizzati. Nella sua famosa introduzione a “I dannati della terra”, Jean-Paul Sartre sostenne la necessità della violenza, dicendo: “Abbattere un europeo significa prendere due piccioni con una fava: restano un uomo morto e un uomo libero”. Applicando Fanon alla Palestina, gli emuli dello psichiatra vedono oggi il sionismo come il nuovo colonialismo bianco. “Jews have Poland”, dice Jill Stein alla Columbia. “Tornatevene in Polonia”, le fanno eco gli studenti. L’osservazione di Fanon secondo cui “il colonizzato è un perseguitato che sogna continuamente di diventare persecutore” sembra il programma del 7 ottobre. Nelle guerre coloniali, scrive Fanon, “il bene è semplicemente quello che a ‘loro’ fa del male”. “La decolonizzazione non è una metafora”, hanno intonato i fan occidentali del “Diluvio di Al Aqsa”. In un mondo diviso tra nazioni colonizzate e postcolonizzate, la violenza è accettabile e giustificata dopo che Fanon ha fornito, se non il suo permesso, una motivazione per la distruzione indiscriminata. In Canada, l’incendio di dozzine di chiese è stato riportato dai media come una reazione naturale alle voci (false) di fosse comuni di bambini della Prima Nazione nelle scuole residenziali. Gli studenti pro Gaza si abbeverano anche a Herbert Marcuse, che a Berkeley annunciò che viviamo in un regime di falsa tolleranza. “Marcuse è il progenitore del progressismo woke”, scrive Damon Linker su The Week. Della stessa opinione Joseph Epstein sul Wall Street Journal: “Il sogno di Marcuse si è avverato”. Il “mercato delle idee”, sentenziò Marcuse, è in mano a coloro che hanno interesse a perpetuare una politica repressiva, da qui il diritto naturale alla resistenza per le minoranze oppresse. Siamo in piena cancel culture, l’idea che la libertà di parola sia semplicemente una forma di discriminazione. Non solo. In chiusura al suo bestseller del 1967 “L’uomo a una dimensione”, Marcuse immagina il “Grande Rifiuto” provenire da “coloro che formano la base della piramide sociale – gli outsider e i poveri, i disoccupati, le razze perseguitate, i detenuti delle carceri e degli istituti psichiatrici”. Oggi si chiama “intersezionalità”. Nel bignami dello studente pro Hamas c’è un altro nome: Paulo Freire, marxista brasiliano e pedagogista scomparso nel 1997, che con la sua “Pedagogia degli oppressi” ha permeato completamente le scuole di formazione degli insegnanti occidentali. Dal 2016, Freire è il terzo autore accademico più citato di tutti i tempi nel campo delle scienze sociali. E uno degli uomini più influenti di cui non abbiamo mai sentito parlare. L’obiettivo di Freire era quello di creare una “rivoluzione perpetua” in tutta la società indottrinando i giovani con il desiderio utopico di “trasformare il mondo”. Ciò doveva essere fatto abbandonando il vecchio modello di apprendimento in cui gli studenti venivano istruiti su fatti, cifre e date da una figura autoritaria adulta che stava in prima fila nella classe. La conoscenza è una sorta di capitale, accumulato dai ricchi e dai potenti, e deve quindi essere ridistribuito tra i poveri. In un’inversione del famoso motto di Francis Bacon “la conoscenza è potere”, la conoscenza è oppressione, dalle cui catene gli studenti devono essere liberati. Freire è uno dei padri dell’ideologia “decolonizzare il curriculum”, in cui vedeva l’alfabetizzazione stessa semplicemente come uno strumento in più di cui la classe dirigente erede degli europei aveva abusato per imporre un sistema alieno di capitalismo sui lavoratori nativi sfruttati dell’America Latina. L’educazione diventa così una sorta di antieducazione. A Newark, nel New Jersey, è stata aperta una “scuola superiore Paulo Freire”, dedicata a istruire i ragazzi sfortunati del posto attraverso i suoi metodi. I punteggi dei test dei bambini erano così bassi che anche le autorità locali hanno sentito il bisogno di intervenire e chiudere la struttura, citando la sua mancanza di “rigore didattico”. Poi ci sono gli scritti di Walter Rodney, l’intellettuale radicale della Guyana pubblicato dalla Columbia University Press, che sentenziava: “La violenza mirata al recupero della dignità umana e all’uguaglianza non può essere giudicata con lo stesso metro della violenza mirata al mantenimento della discriminazione e dell’oppressione”. Ecco il cuore del relativismo radicale della Ivy League che si salda alle idee di Kimberlé Crenshaw, che ha teorizzato l’“intersezionalità” nella svolta del postmodernismo, in cui il progressismo si rivolta contro sé stesso e lottare contro ogni “gerarchia binaria” è non solo legittimo, ma doveroso. Si passa da una richiesta di uguaglianza a una richiesta di gerarchia opposta, dove il “dominato” diventa il “dominante”. E alla Columbia insegnava Edward Said, l’altro nome nel pantheon degli studenti filo Hamas. Said era la quintessenza dell’intellettuale occidentale e, al tempo stesso, l’esponente più prestigioso del “fronte del rifiuto” palestinese. E’ l’autore di “Orientalismo”. Celebre fu la foto in cui si fece ritrarre, nel Libano meridionale, a lanciare sassi ai soldati israeliani che si ritiravano. Nacque in una casa di ricchi commercianti, anche se fu tutta la vita un corsaro dei sofferenti. Nacque da un padre palestinese cristiano con passaporto americano e da una madre palestinese fiera della sua cultura anglicana. Fu battezzato con il nome inglese di Edward, i genitori erano fieri di quel nome vittoriano. Crebbe tra due mondi in conflitto, consapevole di appartenere a entrambi e a nessuno. Poco dopo la nascita di Israele, Edward fu mandato a perfezionare la sua istruzione negli Stati Uniti. La sua peggiore eredità, oggi dominante nei campus americani, fu un sillogismo che lo rese celebre in tutto il mondo: l’“orientalismo”, il razzismo occidentale nei confronti dell’oriente arabo, è antisemitismo perché gli arabi sono semiti; il sionismo ha assimilato gli ebrei all’occidente e quindi hanno perso il loro semitismo, sono divenuti “orientalisti”, cioè antisemiti; i palestinesi sono i nuovi ebrei e gli ebrei di oggi sono i nuovi nazisti. In questa nuova cosmologia accademica, Hamas è la punta della liberazione collettiva contro l’occidente, il nord del mondo, i “colonizzatori”. E’ un mondo magico in cui tutta la politica e gli affari mondiali, visti attraverso il prisma woke, sono appiattiti in una visione neo gnostica. Quello che sta uscendo dalle nostre università è un’estensione del disgusto per la civiltà che è stato inculcato ai giovani in molti anni. Tutto ciò che resta loro è il richiamo della barbarie, la convinzione demenziale che la ferocia sia lodevole se il suo obiettivo è colpire “l’occidente”. Questa ideologia ha portato all’assunto che tutti i paesi poveri siano automaticamente buoni e tutti quelli ricchi intrinsecamente cattivi. Europa e America sono super oppressori. La Cina è trattata con indifferenza o indulgenza. Il regime iraniano è visto come un alleato, poiché si oppone al “Grande Satana”. Hamas è, per definizione, una “vittima”. Israele, una democrazia multireligiosa, è l’oppressore. “La vita può sorgere solo dal cadavere in decomposizione del colono” scrisse Fanon. In occidente c’è stata un’ondata di giubilo alla vista di mille cadaveri israeliani.
Il Foglio, 4 maggio 2024)
In questi giorni, le immagini della polizia che entra nella Columbia University per sgombrare la Facoltà americana dagli occupanti pro- Palestina consente di fare un focus allarmante sullo stato delle università americane e – per estensione – su quelle europee e italiane. Un’ondata di antisemitisimo sta investendo il mondo accademico dopo l’aggressione di Hamas nei confronti di Israele il 7 Ottobre e la paradossale reazione di molti studenti è quella di una marcata difesa a oltranza della Palestina e dei palestinesi, anche quelli violenti, anche quelli terroristi .
Sotto attacco dunque finisce Israele, non la politica israeliana Proprio l’esistenza stessa dello Stato di Israele. Quello che colpisce, infatti, è che negli studenti progressisti americani non v’è una critica politica alle scelte di Netanyahu. Non vi è quella capacità di analisi che si poteva riscontrare nel movimento di contestazione studentesca dei decenni passati che, sebbene ingenua sul piano politico, poteva diventare elemento di riflessione anche per la classe dirigente. No. in questo caso, si inneggia alla distruzione di Israele attraverso slogan agghiaccianti e false accuse, che ripropongono orgogliosamente la propaganda terrorista e che tuttavia trovano ampia eco nelle istituzioni persino internazionali. Per questa minoranza rumorosa e pericolosa di studenti, Hamas cessa di essere una organizzazione terroristica per diventare una congrega di “resistenti antifascisti”. Israele da vittima diventa aggressore nazista (sic!) in un rovesciamento della storia e delle tradizionali categorie che mette i brividi perché si diffonde a macchia d’olio incurante della verità.
I campus americani inneggiano all’intifada, al grido di “Palestina libera” Alcune organizzazioni studentesche italiane propalestinesi hanno seguito l’esempio malsano, e programmano a loro volta l’intifada universitaria per il prossimo 15 Maggio. Un delirio che va avanti oramai da tempo e che costituisce un pericolo per la democrazia oltre che per la libertà e l’incolumità degli ebrei, soprattutto per gli studenti. Divulgare via social quanto ebbe a dire Osama Bin Laden agli americani, nel 2002 per rivendicare la strage dell’11 settembre, invocando la morte per americani ed ebrei sono segnali di qualcosa che non ha alcuna valenza politica ma che diventa puro e semplice antisemitismo.
Un antisemitismo antropologico che non ha alcuna ragione politica Ma è semplicemente fondato sull’odio per l’ebreo. La foglia di fico della distinzione – invero, inesistente – fra antisemitismo e antisionismo, non regge più. Ne sono persino orgogliosi gli stessi manifestanti. Perché, dunque, si sta verificando tutto questo? Sarebbe sciocco e ingenuo pensare a un semplice moto di contestazione anti-Netanyahu o, peggio ancora, a una rivolta pacifista analoga a quella che si sviluppò durante la guerra in Vietnam e persino durante le guerre in Iraq. Siamo innanzi a qualcosa di ben diverso e pericoloso, che investe la società americana e la stessa civiltà occidentale nel suo complesso. Intanto – come fa notare Cominelli – una composizione demografica che si va delineando in modo radicalmente difforme da quella consueta e conosciuta. La crescita numerica di popolazione non europea sgancia la popolazione dalla tradizionale cornice valoriale che nel bene o nel male ha costruito l’America nei decenni. Dall’altro, la pervasiva narrazione Woke con il suo carico di razzismo anti-bianchi, accusati di essere colonizzatori, imperialisti e criminali. Una negazione delle origini storiche, filosofiche, morali e valoriali, rende l’Occidente prigioniero di una contestazione delle sue stesse basi esistenziali e che va oltre il conflitto arabo-israeliano.
Ciò che viene contestato non è solo Israele, ma il modello che Israele rappresenta nel mondo: democrazia, stato di diritto, libertà. Questo è il nuovo nemico da abbattere perché non consono al canone politically correct della nuova sinistra progressista e antisemita. Benché non si ricorra alla tradizionale polarizzazione destra/sinistra, quanto più a un evidente negazione generazionale, non si può sottacere la matrice progressista delle proteste antisemite nelle università americane. Una sinistra estrema dunque che tiene sotto scacco persino il Presidente Biden, e ha agganci importanti persino in parlamento.
Alla Camera la mozione contro l’antisemitismo ha visto il voto contrario di 12 Democratici Una sinistra americana dunque che vede crescere la propria componente estremista e che trova in Occasio Cortez e in Talib le sue amazzoni guerriere. Ma proprio questa saldatura tra estremismo progressista americano e le violente manifestazioni antisemite degli studenti offrono anche lo spaccato di un modo diverso in cui viene concepita l’Università. Essa cessa di essere luogo di confronto democratico, e diventa teatro del “nichilismo senza abisso”, come affermava già dal lontano 1987 Allan Bloom. Un mind-set in cui si rinuncia volentieri ai saperi fondamentali, a distinguere tra il vero e il falso, ai principi fondativi della democrazia dell’Occidente per inclinare verso un populismo accademico in cui la verità lascia il posto all’opinione che, in quanto tale, deve essere libera e rispettabile a prescindere (quale che ne sia il contenuto, persino se violento e razzista). E’ una questione antica che trova oggi dei preoccupanti sviluppi che come detto riguardano non solo una banda più o meno numerosa di studenti ideologizzati, ma anche cariche politiche e universitarie senza distinzione. Se si pensa che alcune rettrici di prestigiose università americane riconducono quanto sta accadendo negli atenei americani a mera espressione della libertà di manifestazione del pensiero sottovalutandone la carica violenta e antidemocratica, ci si può rendere conto di come questo relativismo sia destinato a generare mostri. Se l’invocazione al genocidio del popolo ebraico cessa di essere una aberrazione per diventare un’opinione, e se tale opinione diventa la base per l’azione politica, si capisce che il danno è ormai fatto.
La democrazia è vulnerata e la libertà vilipesa e stuprata Dipende dal contesto” è il nuovo mantra entro il quale tutto è lecito, anche l’antisemitismo. Insomma, esso non è un male assoluto, ma diventa una variabile ammissibile a seconda del contesto. Come qualcuno ha detto, “It depends from the context” è il nuovo “Arbeit macht frei”. Ebbene di questo relativismo nichilista e autolesionista una parte di sinistra americana è indubbiamente colpevole, palesemente ottusa nel non vedere la contraddizione tra la difesa della nuova “religione dei diritti (LGBT, Body Shaming, razzismo, inclusione ecc.) e la violenza antisemita di cui si fa in qualche modo portavoce. Assistiamo perciò al fallimento di un modello culturale, di una classe dirigente e di una classe intellettuale che proprio dalle università prende il via per contagiare tutto l’Occidente, riportando indietro le lancette della storia. Ma, poiché, il fondamento dell’antisemitismo sulla teoria della razza, per costoro è troppo poco chic, meglio fondarlo sulle parole d’ordine tradizionali: antimperialismo, anticapitalismo, terzomondismo, e su quelle nuove: cancel culture e Wokismo. Come afferma sempre Giovanni Cominelli “Tutte ragioni “di sinistra”! L’ignobile antisemitismo fondato su motivi “nobili”.
Il 47% degli elettori Usa a favore del divieto alle proteste filo-palestinesi nei campus universitari
Un nuovo sondaggio, riportato dal Forward, ha analizzato il dibattito sempre più acceso tra gli elettori statunitensi riguardo le proteste a sostegno della Palestina nelle università del Paese. Un dibattito divisivo che si è esteso anche in numerosi atenei europei e italiani. Il sondaggio Usa rivela che il 47% degli intervistati ritiene che tali manifestazioni dovrebbero essere vietate, mentre solo il 30% è favorevole a consentirle. Questa tendenza è stata riscontrata anche nelle proteste a favore di Israele, con il 41% dei votanti che sarebbe per il loro divieto. Inoltre, una schiacciante maggioranza del 76% degli elettori ha espresso il loro sostegno alle università che richiedono un intervento della polizia per proteggere i campus dall’escalation della violenza. Il sondaggio, condotto dal 27 al 28 aprile dalla società tecnologica e di dati Morning Consult, ha coinvolto 1.986 elettori registrati in tutto il Paese, con un margine di errore stimato di circa più o meno 2 punti percentuali. Le opinioni sugli aiuti umanitari ai palestinesi e sull’assistenza militare a Israele hanno evidenziato un divario significativo. Il 58% degli intervistati si è espresso a favore degli aiuti umanitari alla Palestina, rispetto al 47% che sostiene gli aiuti militari a Israele. Inoltre, la maggioranza schiacciante del 60% ha espresso il desiderio di vedere un cessate il fuoco. Quando si tratta di condanne specifiche, il 46% degli intervistati sostiene le università che prendono posizione contro gli attacchi di Hamas contro Israele. Tuttavia, un terzo degli elettori ritiene che le università dovrebbero condannare la guerra di Israele a Gaza. Le opinioni sull’appello degli attivisti studenteschi per il disinvestimento da Israele sono state variabili: meno della metà degli intervistati, pari al 39%, ha espresso sostegno a questa causa, mentre il 30% non ha espresso alcuna opinione in merito. Morning Consult ha rilevato che il sostegno al disinvestimento è risultato più forte tra i votanti provenienti da famiglie più abbienti e istruite, che tradizionalmente sono le principali fonti di donazioni per le università. Questo sondaggio è stato condotto prima degli ultimi sviluppi, tra cui l’espulsione da parte del Dipartimento di Polizia di New York degli attivisti dalla Columbia University, lo smantellamento di un accampamento filo-palestinese a Los Angeles precedentemente attaccato da manifestanti filo-israeliani e l’arresto di persone al Dartmouth College. L’opinione pubblica, quindi, potrebbe essere influenzata da futuri eventi e sviluppi sul terreno.
Un convegno su Israele saltato per “alto rischio di contestazioni” ma che poteva essere svolto in modalità online, come proposto dal rettore dell’Università Statale di Milano Elio Franzini che avrebbe dovuto ospitarlo. Un cortocircuito o un difetto di comunicazione tra organizzatori e Ateneo, questo ancora non è chiaro. I fatti, però, dicono che il convegno dal titolo "L'unica democrazia del Medioriente. Israele fra storia e diritto internazionale" organizzato dalle associazioni “Pro Israele” e “Italia-Israele” programmato per il 7 maggio è stato annullato per timore di disordini e tafferugli, come già allertato dalla Questura di Milano nonostante i vertici dell’università avesse proposto una soluzione più sicura. «Volevamo proporre un'ora di dibattito civile, ma non c'è più democrazia. Abbiamo deciso di rinviare tutto per senso di responsabilità. Ma non siamo più disposti a tollerare», riflette la presidente dell'associazione “Italia-Israele” di Savona, Cristina Franco.
«A differenza di altri - proseguono gli organizzatori - abbiamo rispetto dei poliziotti, delle strutture e delle autorità universitarie. La nostra non era propaganda, volevamo dare un contributo serio al dibattito su Israele. Ma a quanto pare non è possibile». Infine la precisazione: «Non è stata una mancanza di volontà da parte del rettore Elio Franzini, persona davvero eccezionale», ma il rischio di incidenti è stato giudicato «altissimo» da parte della Questura che per l'evento avrebbe dovuto schierare la celere in assetto antisommossa e allestire altre misure di contenimento. Anche con la possibile chiusura di aule e uffici dell'ateneo. Peccato che, una nota dell’ateneo di via Festa del Perdono precisa di non essere stata informata della decisione di annullare l’incontro se non, a cose fatte, da organi di stampa: «L’Associazione non si è premurata di informare della decisione il Rettore né, tantomeno, di rispondere alla proposta inoltrata ieri pomeriggio di svolgere il convegno on line e non, come inizialmente programmato, in presenza», puntualizza la nota diffusa dall’Ateneo. «La scelta di trasformare l’incontro in modalità online, non certo di annullarlo, è stata assunta dal Rettore Elio Franzini dopo attenta valutazione delle condizioni ambientali interne ed esterne all’Università, nell’intento di minimizzare i rischi per la sicurezza del pubblico e dei relatori, sentita anche la Digos. La consueta interlocuzione con la Digos ha fornito elementi utili alla valutazione generale anche se - lo si vuole ribadire con fermezza - la decisione di tenere il convegno on line è stata presa direttamente dal Rettore Elio Franzini. Tale decisione intendeva salvaguardare il diritto degli organizzatori al confronto pubblico, bilanciandolo con il dovere della tutela della sicurezza dell’ateneo e degli studenti che resta sempre la prima e imprescindibile responsabilità del Rettore», conclude la nota.
Durante il convegno sarebbe stato anche proiettato il docufilm #NOVA sul massacro commesso dai terroristi di Hamas al Nova Festival lo scorso 7 ottobre oltre agli interventi di Hillel Neuer, direttore esecutivo UN Watch, Marco Cuzzi della Statale, Alessandra Veronese dell'Università di Pisa e la testimonianza di Alexandre Del Valle sulla Fratellanza Musulmana in Europa.
Hamas vuole tenere lo stato ebraico bloccato nei colloqui per il cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi. Sa di avere ancora le forze per ricostituirsi militarmente e tornare a governare la Striscia, ma per farlo deve evitare che inizi l'operazione a Rafah.
di Micol Flammini
Come se il negoziato fosse una tela di ragno in grado di impigliare Israele e il suo esercito, i rifiuti di Hamas alle ultime proposte di accordo puntano a bloccare lo stato ebraico da ogni mossa futura e ad aumentare la tensione su una possibile operazione a Rafah, la città meridionale della Striscia di Gaza in cui sono rimasti quattro battaglioni di Hamas, intatti militarmente e ben armati, e anche parte della leadership del gruppo. Ogni “no” dei terroristi è un passo di Israele verso Rafah, ogni “no” è un carro armato in movimento, ogni “no” disegna degli obiettivi da colpire su un territorio il cui sottosuolo è un reticolo di tunnel in cui potrebbe nascondersi anche Yahya Sinwar, colui che finora ha pronunciato personalmente ogni rifiuto ad accordarsi con lo stato ebraico. Hamas vuole imprigionare Israele nel limbo di un non-accordo. Mentre l’attenzione internazionale è su Rafah e sulle conseguenze di un attacco contro la città in cui si sono rifugiati circa un milione e mezzo di palestinesi, il gruppo della Striscia è riuscito a oscurare il dramma degli oltre centotrenta israeliani tenuti in ostaggio da duecentonove giorni. L’ultima offerta negoziale era stata presentata dall’Egitto e accettata dagli israeliani che avevano acconsentito a un cessate il fuoco per il ritorno di trentatré ostaggi. Ieri Hamas ha detto che intende rifiutare l’offerta ma senza ritirarsi dal negoziato, ha dato una risposta ambigua promettendo di mandare una squadra di negoziatori al Cairo per parlare di una nuova prospettiva di accordo. Cerca di guadagnare il tempo necessario per aumentare la pressione internazionale su Israele e il timore americano che un’offensiva a Rafah potrebbe avere delle nefaste conseguenze elettorali sul presidente americano Joe Biden. Il segretario di stato Antony Blinken, di ritorno dal suo ultimo viaggio in medio oriente, non ha detto che gli Stati Uniti sono contrari a un’operazione a Rafah, ha sottolineato che non sostengono un’operazione fatta senza un piano di evacuazione per i civili. Sconfiggere Hamas a Rafah non è un piano avventato, gli Stati Uniti lo sanno, anche l’Egitto, che è proprio lì al confine ne è consapevole, e Hamas vuole fare di tutto per evitare che accada, perché proprio quella potrebbe essere la fine del movimento. Le richieste del gruppo della Striscia sono: un ritiro completo dell’esercito israeliano da Gaza e la fine della guerra. Queste due condizioni consentirebbero a Hamas di ricostituirsi, di tornare a governare la Striscia, di rafforzare il proprio potere militare e quindi di riorganizzarsi per nuovi attacchi contro Israele. Non sono soltanto gli israeliani a voler evitare il ritorno di Hamas nella Striscia, ma neppure gli Stati Uniti sono favorevoli. L’Arabia Saudita che si prepara a una lenta ma dirompente normalizzazione nei rapporti con Israele non è interessata alla sopravvivenza di una forza che governa la Striscia con l’intenzione di iniziare una nuova guerra e secondo Bloomberg in questi mesi ha censurato ogni commento sui social relativo al conflitto. La sopravvivenza di Hamas non è nell’interesse di nessuno, neppure nella costituzione di un futuro stato palestinese. Ismail Haniyeh, uno dei capi di Hamas che da anni vive in Qatar da dove amministra i propri affari e quelli del gruppo, ieri ha parlato con il capo dell’intelligence egiziana, Abbas Kamel, e riguardo al negoziato ha detto che lo spirito di Hamas è positivo. Non è il momento di chiudere la porta, ma di lasciare uno spiraglio per bloccare Israele. Hamas è stato indebolito dalla guerra, ma non ancora eliminato, l’offensiva a Rafah potrebbe essere il passo che manca per togliere la potenza militare al gruppo e per questo i funzionari della Striscia sono intenzionati a ritardarla. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che ogni giorno viene contestato e nei sondaggi appare come uno dei leader più indeboliti, ha detto che Israele farà di tutto per vincere. Gli israeliani faticano a pronunciare la parola “vittoria”, in pochi considerano tutto ciò che è accaduto dopo il 7 ottobre come una guerra in cui si vince, semmai si sopravvive, si mette in sicurezza lo stato.
Caro papà ti sbagli, Israele non è affatto un miracolo della Storia…
Tre generazioni a confronto: ma chi sono i giovani jewish Usa che in nome dei diritti umani scendono in piazza contro Israele? E perché lo fanno? Ecco come il 7 ottobre ha cambiato il sentiment degli ebrei americani su Israele. Un divorzio annunciato. Lo spiega il giurista e pensatore Noah Feldman.
di Ester Moscati
«Not in my name»: è uno slogan che le giovani generazioni ebraiche in Italia e in Europa hanno usato di recente per dissociarsi da alcune politiche del governo israeliano. Creando così malumori nella generazione dei loro genitori (e nonni) che per lo più tendono, almeno nei momenti più duri per Israele, a schierarsi con lo Stato ebraico “senza se e senza ma”. Molto più di una battaglia di slogan: siamo davanti a uno scontro generazionale, come non si vedeva dagli anni Settanta. È una metamorfosi ideologica nel quadro dell’identità ebraica, che rischia di modificare l’assetto dei rapporti tra Israele e Diaspora in un prossimo futuro. E se è vero che ciò che succede negli Stati Uniti è destinato ad approdare in Europa dopo pochi anni, che cosa accadrà in Italia, che cosa ne sarà del legame tra ebrei italiani e Israele nel futuro prossimo? La domanda è ineludibile e urgente, almeno da ciò che possiamo cogliere dalla lettura di un saggio di Noah Feldman, professore di diritto all’Università di Harvard, editorialista per Bloomberg Opinion e autore di Essere un ebreo oggi: una nuova guida a Dio, Israele e il popolo ebraico. Una parte ampia di questo saggio è stata pubblicata sul Washington Post, il 5 marzo 2024. Della riflessione di Feldman, è particolarmente interessante la parte che riguarda i giovani ebrei della Gen Zeta (la generazione dei trentenni), che si contrappone ai liberal, critici sì, ma ancora saldamente, nel momento del bisogno, dalla parte di Israele. Feldman analizza la situazione e le ragioni di una svolta che, forse, sarà definita “epocale” se, come si teme da più parti, finirà per togliere a Israele il sostegno incondizionato dell’ebraismo americano e, di conseguenza, la partnership privilegiata con gli USA. Il conflitto a Gaza, seguito alla strage del 7 ottobre perpetrata con inaudita ferocia da Hamas, ha messo gli ebrei di tutto il mondo nella condizione di affrontare l’impatto e il significato di Israele sulle loro vite e sui loro sentimenti più profondi. Ma paradossalmente, per i giovani ebrei americani, l’orrore del pogrom contro inermi civili israeliani non si è tradotto in solidarietà incondizionata ma ha rivelato la complessità del sentimento verso Israele, una “dissociazione morale” difficile da comprendere.
- Un doloroso conflitto generazionale Viene da chiedersi: abbiamo perso una generazione ebraica? Forse sì. “La comunità degli ebrei americani progressisti sta attraversando un doloroso conflitto generazionale: una lotta familiare venata di amore e dolore. Da un lato – scrive Feldman – ci sono persone che hanno più o meno la mia età: i leader del movimento della Gen X (la generazione dei cinquantenni), sia rabbini sia laici. Dall’altra parte del conflitto ci sono i ragazzi, le cui opinioni su Israele sono spesso molto diverse. Alcuni ventenni-trentenni progressisti della Generazione Zeta partecipano ad organizzazioni universitarie come Studenti per la Giustizia in Palestina”. Due mondi in collisione, due visioni del mondo contrapposte. I cinquantenni “sono, per la maggior parte, democratici di centro o di centrosinistra. I leader ebrei progressisti della generazione X sono (ancora) sionisti liberali. Amano Israele. Lo criticano anche. Desiderano che Israele sia più giusto nei confronti dei palestinesi. Vorrebbero che ci fosse una soluzione al conflitto israelo-palestinese. Hanno le proprie organizzazioni sioniste liberali, come J Street, un corpo di lobbying che si autodefinisce ‘la sede politica degli americani filo-israeliani e filo-pace’, e il New Israel Fund, il cui obiettivo è promuovere la democrazia liberale, compresa la libertà di parola e i diritti delle minoranze, e combattere la disuguaglianza, l’ingiustizia e l’estremismo” che rischiano di minare i valori e l’immagine di Israele. “Quando però Israele viene attaccato, – precisa Feldman – la Gen X risponde con solidarietà e sostegno. Il loro impegno verso lo Stato ebraico e verso gli altri ebrei è indiscusso”. Non accade lo stesso per la Gen Zeta. La descrizione che Noah Feldman fa della Gen Zeta apre uno scenario più inquietante per il futuro delle relazioni tra ebraismo americano e Israele. I giovani tra i venti e i trent’anni “si riconoscono – scrive – nell’organizzazione Studenti per la Giustizia in Palestina, un collettivo di organizzatori che sostiene oltre 200 organizzazioni di solidarietà con la Palestina nei campus universitari. Il 12 ottobre, mentre Israele iniziava la sua risposta all’attacco di Hamas contro i civili israeliani, l’ufficio nazionale dell’SJP ha postato sui social media ‘condannando il progetto sionista e il loro ultimo attacco genocida contro il popolo palestinese’. Jewish Voice for Peace addirittura sostiene la campagna BDS di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni e lavora a fianco di SJP. Il suo sito web vanta 60 capitoli, 200.000 sostenitori e 10.000 donatori. L’organizzazione afferma di ‘essere guidata da una visione di giustizia, uguaglianza e libertà per tutte le persone’. Ne consegue, per JVP, che ‘ci opponiamo inequivocabilmente al sionismo perché è contrario a quegli ideali’. Il 14 ottobre, l’organizzazione ha pubblicato: ‘Come ebrei statunitensi [noi] crediamo che mai più significhi mai più per nessuno, e questo include i palestinesi. Mai più è adesso’, affermano”.
- Giovani ebrei antisionisti: perché? “Sembra probabile – precisa Feldman – che una percentuale relativamente piccola di ebrei progressisti della generazione Zeta si sia radicalizzata fino al punto di dichiararsi apertamente antisionista”. Triste? Sì. Così molti ragazzi arrivano a rinnegare Israele in nome dei diritti umani e di una idea fuorviante di colonialismo di cui Israele sarebbe l’emblema, secondo le derive più assurde dell’ideologia terzomondista. Tuttavia, nel suo saggio, il docente di Harvard sottolinea come alcuni temi siano particolarmente sentiti dai giovani ebrei, soprattutto universitari, che vivono quotidianamente in un contesto sempre più impregnato di ideologia woke, semplicistica e manichea. “Molti sono in conflitto su cosa dovrebbero ‘pensare’ di Israele. – scrive Feldman – Altri preferirebbero non pensarci affatto. Ma sono tantissimi quelli che si sono convinti dell’analogia, propagandata nei campus universitari, tra l’Israele di oggi e il Sud Africa ai tempi dell’apartheid”. Lo scontro generazionale si dipana quindi su “tre età”. Ci sono ancora i senior che, attraverso l’American Israel Public Affairs Committee, hanno coordinato negli ultimi decenni gran parte delle pressioni pro-Israele da parte degli ebrei americani. E si alleano strettamente con qualunque governo sia al potere in Israele. Poi ci sono i leader e gli attivisti ebrei progressisti delle generazioni X e Z. “Si trovano in disaccordo tra loro riguardo a Israele. – spiega Noah Feldman – L’antagonismo è doloroso per entrambe le parti, come spesso lo sono i conflitti generazionali. I progressisti di mezza età pensano che i ragazzi non siano riusciti a capire quanto importante dovrebbe essere Israele per loro in quanto ebrei. I ragazzi invece sono convinti che i ‘vecchi’ siano impantanati in un’ideologia screditata. Voglio suggerire che la spaccatura generazionale rifletta non due diverse concezioni di ebraicità progressista, ma due diverse visioni di Israele, rifratte attraverso un impegno comune per la giustizia sociale. L’ebraismo progressista esprime ciò che considera i valori biblici di giustizia, uguaglianza, libertà e simili”.
- Fedeli ai valori ebraici, non a Israele La “fedeltà”, per entrambe le generazioni, sembra andare quindi più all’ebraismo e al suo sistema valoriale piuttosto che a Israele. Lo Stato ebraico, a seconda dei casi, dei sentimenti e delle ideologie di riferimento, non sembra più incarnare quei valori, almeno non sempre e non del tutto. Nel sistema di valori rientra il rapporto tra Shoah e Israele. “L’Olocausto è diventata una lezione morale, il Never Again – scrive nel suo saggio Feldman – alla pari della schiavitù degli ebrei in Egitto. Israele divenne un modello di redenzione; poteva svolgere questo ruolo perché era possibile immaginare lo Stato ebraico come liberale e democratico”. Ma se Israele non incarna più i valori della democrazia liberale, per la generazione Zeta “non può fungere da ideale morale per gli ebrei progressisti le cui convinzioni impongono la dignità umana universale e l’uguaglianza. Nei termini più crudi possibili, – sintetizza Feldman – un Dio di amore e giustizia non può benedire o desiderare uno Stato che non cerca di garantire uguaglianza, dignità o diritti civili e politici a molte delle persone che vivono sotto la sua autorità”. Non si prendono in considerazione, in questo ragionamento, solo i cittadini israeliani, ebrei o arabi o appartenenti alle altre minoranze, che godono di pari diritti in Israele, ma anche i palestinesi della Cisgiordania, sottoposti a “occupazione” militare. “Per gli ebrei progressisti, – secondo l’analisi di Feldman – uno Stato che nega la parità di trattamento ai suoi ‘sudditi’ non è né democratico né propriamente ebraico. Né è democratico nel senso politico progressista americano. Da ciò ne consegue che per gli ebrei progressisti sinceri e impegnati, rimanere sionisti sarebbe un tradimento dei loro valori ebraici, se Israele non corrispondesse agli ideali della democrazia liberale”. Quindi, se i sionisti pensano che i progressisti ebrei americani debbano a Israele una totale e incondizionata lealtà, i progressisti ebrei ritengono invece di dovere la loro lealtà ai principi divini di amore e giustizia. Un conflitto di valori? Sì. Dopo il 7 ottobre, le immagini degli israeliani assassinati e presi in ostaggio ricordano gli orrori dell’Olocausto. D’altra parte, Israele è uno Stato-nazione dove attualmente governa una leadership le cui azioni e opinioni differiscono da quelle dei progressisti ebrei americani. Anche i più riflessivi tra i giovani progressisti si trovano ad affrontare una sfida profonda. Credono negli insegnamenti della giustizia sociale che li costringono all’azione sociale. Ma scoprono di non poter evitare quella che vedono come la realtà contraddittoria di Israele. Le loro convinzioni sulla moralità ebraica e sul tikkun ‘olam rendono difficile un incondizionato sostegno a Israele. “La loro soluzione – la loro soluzione ebraica, progressista e sinceramente sentita – è esprimere la propria fede nella giustizia sociale criticando o condannando Israele per i suoi fallimenti in termini di uguaglianza, libertà, dignità e diritti umani. Emerge – dice ancora Feldman – che i giovani ebrei progressisti, critici di Israele, sentono un legame non dichiarato con Israele anche se lo respingono. Non sentono alcun impegno nei confronti dello Stato esistente. Ma sentono un particolare bisogno di criticare Israele perché è importante per la loro visione del mondo in quanto ebrei. Non possono ignorare Israele, così lo coinvolgono nelle loro vite, attraverso il veicolo della critica progressista”. La frase “Not in my name – non nel nostro nome” coglie il senso di un rapporto di odio-amore, un ripudio che è allo stesso tempo il segno di una connessione ineludibile. “Questo è il motivo – spiega il saggio – per cui molti giovani ebrei progressisti sono in prima linea nel movimento filopalestinese nei campus universitari. Per quanto difficile da accettare per le generazioni più anziane, la causa non è l’odio verso se stessi. Piuttosto, la critica a Israele e il sostegno alla causa palestinese costituiscono l’essenza della loro progressiva espressione di sé in quanto ebrei”. Ma che cosa accadrà quando i giovani di oggi diventeranno adulti e assumeranno la leadership dei loro movimenti? Acquisiranno una visione più pragmatica? Avranno una più chiara consapevolezza delle ragioni di Israele? “Il giudaismo progressista – conclude Feldman – dovrà elaborare il suo atteggiamento a lungo termine nei confronti di Israele”. Forse questa generazione declinerà la propria ebraicità in altri modi: familiare, spirituale e personale, anche se l’ebraismo “vivo” non può prescindere da una dimensione collettiva. Ma che cosa ne sarà dei rapporti tra Stati Uniti e Israele, se dovesse mancare l’appoggio degli ebrei americani allo Stato ebraico? È una incognita per tutto l’Occidente.
(Bet Magazine Mosaico, 3 maggio 2024) ____________________
Nel sionismo laico la bomba è scoppiata. Se le cose stanno come l'autore le descrive (e in realtà già da un po' si intravedevano) sta venendo meno il sostegno al sionismo morale, quello fondato sull'eccellenza del pensiero ebraico in fatto di valori come libertà, democrazia, soccorso ai bisognosi, lasciando in un sottofondo sfumato elementi biblici fondamentali come Dio,nazione, terra, senza i quali, è ovvio, non si può parlare di Messia. E infatti i sionisti laici non ne parlano. Il contrasto non sopito tra laici e religiosi in Israele significa certamente qualcosa. Se ne dovrà riparlare. M.C.
David Elber, “Il Diritto di Sovranità in Terra di Israele”. Salomone Belforte Edizioni, Livorno 2024.
Un libro che doveva essere scritto, ed è stato scritto. Esemplare per la conoscenza dei fondamenti legali dell’esistenza, e della libertà dell’indipendenza politica ebraica nello Stato di Israele. Ecco: David Elber, “Il Diritto di Sovranità in Terra di Israele”. Prefazione di Niram Ferretti, Postfazione di Bat Ye’or. Salomone Belforte Edizioni, Livorno 2024. Elber lo ha scritto con spirito scientifico, ampia e rigorosa documentazione, anche con un’emozione controllata nello smascheramento della leggenda nera dei falsi che alimentano un oceano di odio e morte, che vuole l’annientamento fisico degli ebrei. Un totalitarismo dominante, fanatico, genocida. Dunque, il diritto di esistere di Israele contro il crimine di esistere si fonda sulla roccia del diritto internazionale, in modo inconfutabile e incontrovertibile. Elber lo mostra su un piano di rigore giuridico, con la confutazione scientifica delle fragili, contorte, ideologiche s-ragioni al servizio degli imperialismi e negazionismi antisemiti. Una realtà giuridica solida e articolata, che demolisce la leggenda nera dell’”usurpazione”, delle “terre occupate”, e del “corpo estraneo”. In questo tempo barbaro in cui gli ebrei sono condannati a morte dalle nuove leggi razziali di odio e sterminio, la razionalità del diritto internazionale si leva e si eleva con il suo monito di giustizia. Nell’ora buia in cui una costellazione di terrore genocida, negazionismo, fanatismo antisemita, democrazie che tradiscono se stesse, vuole imporre a Israele una capitolazione davanti a chi vuole distruggerlo, vuole legittimare un totalitarismo sadico apocalittico, possiamo leggere queste pagine. Il fondamento granitico consiste nel riconoscimento, nella scoperta del legame storico indistruttibile tra il popolo ebraico di sempre e la Terra di Israele. Il diritto internazionale ha dato una veste legale a tale realtà pre-esistente, storica, sacra, laica-popolare, spirituale e materiale, radicale e radicata, consuetudinaria. Nessuna invenzione artificiale, ma solo legalizzazione di una realtà auto-evidente. Lo scopo del libro è mostrare “tutte le principali tappe giuridiche presenti nel diritto internazionale, che rappresentano le chiavi per dimostrare come il diritto internazionale abbia fornito al popolo ebraico la piena legittimità sulla sovranità territoriale su tutto il territorio del Mandato per la Palestina ‘propriamente detta’ – cioè la porzione mandataria a ovest del fiume Giordano, come deciso dalla Società delle Nazioni il 16 settembre 1922 e, conseguentemente, la piena sovranità sul medesimo territorio allo Stato di Israele, che ne è il suo successore.” (p.17) La tesi avversa di Israele “potenza occupante” delle terre di Giudea e Samaria, Gaza è un’aperta violazione del diritto internazionale. Il Mandato per la Palestina del 1922, approvato dalla Società delle Nazioni, si fonda sull'articolo 22 del Patto della Società delle Nazioni e sui principi stabiliti della Dichiarazione Balfour sulla costruzione di una patria ebraica, riconosciuti dalla comunità internazionale in continuità con la Risoluzione della Conferenza di Sanremo. Il Mandato riconosce l’intero popolo ebraico, quello già abitante in Palestina e quello residente altrove, come titolari del diritto a un proprio stato. E confermava che gli ebrei già in Palestina ci stavano “per diritto e non per tolleranza”. L’Articolo 5 del Mandato conferma che la titolarità della sovranità territoriale apparteneva al popolo ebraico e alla Gran Bretagna che, come mandatario- tutore si limitava ad amministrarlo a beneficio degli stessi ebrei. Elber confuta il mito di una ONU dotata di potere legislativo. Nell’Articolo 38 della Corte Internazionale di Giustizia “le uniche fonti di diritto internazionale riconosciute sono le convenzioni/trattati e il diritto consuetudinario. In pratica, sono solamente gli Stati a emanare le norme di diritto internazionale e non le organizzazioni internazionali come l’ONU, che non è un organo legislativo, ma un’organizzazione politica composta da Stati.” (p.76) Altre sono le competenze dell’ONU: “L’ONU è stata creata nel 1945 per dirimere pacificamente eventuali controversie che si possono creare tra gli Stati, mediante proposte e pareri al fine di evitare conflitti armati.” (p.77) Ne consegue che l’ONU non crea gli Stati e neppure ne stabilisce i confini, perché l’ONU non possiede la sovranità territoriale ma si limita ad accettare quegli Stati già indipendenti che fanno una richiesta di adesione. Anche l’Assemblea Generale possiede il potere limitato di dare pareri e proporre soluzioni agli Stati membri e al Consiglio di Sicurezza. “In relazione al popolo ebraico, l’ONU non ha creato alcun diritto, semplicemente ne ha fatto proprio uno già riconosciuto dalla comunità internazionale a partire dal 1920 con la Conferenza di pace a Sanremo.” (p.84). La Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale dell’ONU, in un errato luogo comune, viene ritenuta il fondamento dello Stato di Israele: “Ma questa convinzione è una falsità, che però si riverbera in molti ambienti accademici, negli organi di informazione e persino all’ONU stessa, e nella Unione Europea. Invece, tale Risoluzione è stata solo un tentativo della comunità internazionale di cercare una soluzione al conflitto sanguinoso durante l’ultimo periodo del Mandato per la Palestina. L’iter per la sua formulazione è iniziato con la decisione inglese di rinunciare al ruolo mandatario. Tale decisione fu comunicata il 2 aprile 1947 e fu presa per un duplice motivo: l’impossibilità economica a mantenere la presenza militare sul territorio e, soprattutto, la sempre maggiore ostilità della locale popolazione ebraica e araba, ormai in procinto di combattere una vera e propria guerra civile. Così, il 2 aprile 1947 il governo britannico fece formale richiesta all’ONU in base all’articolo 10 dello Statuto, per avere un parere in merito al futuro dell’amministrazione del Mandato per la Palestina ‘propriamente detta’, cioè quello che ne rimaneva dopo l’indipendenza della Transgiordania, avvenuta l’anno precedente.” (p.91) L’Assemblea Generale si limitò a dare un consiglio al Regno Unito, Stato mandatario, su come procedere a una possibile spartizione territoriale del Mandato. Ma era indispensabile che ebrei e arabi “dovessero dare il proprio assenso per rendere vincolante il principio legale del ‘pacta sunt servanda’ (i patti devono essere osservati). Gli ebrei accettarono, mentre gli arabi opposero un secco rifiuto e decisero per la guerra.” (p.94) La Risoluzione restò lettera morta. Ma in seguito gli arabi le hanno attribuito poteri che non aveva, e l’hanno trasformata in uno strumento di delegittimazione della presenza ebraica in terre dove aveva diritti legali, cioè Giudea, Samaria e Gaza. Questo snaturamento è servito anche per disconoscere Gerusalemme come capitale legittima di Israele. Inoltre, si manifestava la decisa ostilità di George Marshall, segretario di Stato USA con la presidenza Truman, proprio contro l’indipendenza dello Stato di Israele. “Per tutti questi motivi, la dirigenza ebraica si trovò costretta ad accettare la proposta ONU di spartizione del territorio, già assegnato al popolo ebraico dalla Società delle Nazioni, pur di avere un minimo appoggio politico internazionale (che sperava potesse essere anche militare in caso di attacco arabo) e soprattutto per potere liberamente accogliere le centinaia di migliaia di sopravvissuti della Shoa che erano detenuti nei campi di concentramento inglesi a Cipro, in Germania, in Austria, nelle colonie britanniche africane e asiatiche. Questa era la più grande priorità per il nascente Stato di Israele.” p.106) Mentre arabi e britannici non accettarono la proposta ONU, la leadership ebraica la accettò “nonostante fosse molto penalizzante per il popolo ebreo”. Negli ultimi decenni si è diffusa la tesi che Israele occupi i territori di Giudea e Samaria. “Tale convinzione è così radicata anche negli ambienti ebraici della Diaspora e in Israele stesso – soprattutto in quelli di sinistra – che la si considera una certezza fattuale.” (p.122) Questa leggenda nera è diventata uno strumento distruttivo per attaccare Israele, da parte di diverse amministrazioni Usa e, peggio ancora, da parte dell’ONU e dell’Unione Europea. Con particolare intensità dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, con la quale Israele, dopo essere stata aggredita da diversi eserciti arabi, riuscì a vincere con la riconquista dei territori di Giudea e Samaria, occupati dalla Giordania nel 1948, e della Striscia di Gaza occupata dall’Egitto. Ma alle fonti della delegittimazione ci sono errori israeliani: “Il regista della fiction fu Meir Shamgar, l’allora avvocato generale dell’esercito di Israele, poi divenuto procuratore di Stato e successivamente presidente della Corte Suprema. Fu lui a decidere che tutti i territori conquistati da Israele al termine della guerra fossero amministrati nello stesso modo: ovvero secondo quanto disposto dalle Convenzioni dell’Aia e di Ginevra che regolano i territori occupati dopo un conflitto. Ciò a prescindere dal fatto che i vari territori conquistati da Israele (Giudea, Samaria, Striscia di Gaza), secondo il diritto internazionale, già appartenessero al popolo ebraico e quindi dovessero essere amministrati in modo differente (in base alla legge civile israeliana) rispetto agli altri territori conquistati (Golan e Sinai) che dovevano essere amministrati secondo i dettami dell’occupazione militare.” (p.123) Il mito dei territori occupati è stato costruito con il contributo di clamorosi errori dei governi di Levi Eshkol e Menachem Begin, e di accademici quali Yoram Dinstein dell’Università di Tel Aviv. Inoltre: “Un’altra importante puntata di questa fiction pseudolegale l’ha fornita la Corte Suprema di Israele grazie al suo presidente di allora, Aharon Barak. In almeno due sentenze, egli ha dichiarato Giudea, Samaria e Gaza come ‘territori occupati’ senza fornire alcuna informazione in merito a chi detenesse la sovranità prima della presunta occupazione israeliana.”(p.131) Lo stesso procedimento è stato usato dalla Corte di Giustizia Internazionale. “La conseguenza di tutto ciò è stata quella di collocare a livello internazionale la tesi della presunta occupazione, ingigantendola in modo sempre più accusatorio e falso: dai ‘territori occupati’ si è passati nel corso degli anni al concetto di ‘occupazione illegale’, poi di ‘occupazione illegale dei territori palestinesi’ e via via al concetto di ‘insediamenti illegali’ o ‘insediamenti ostacolo alla pace’, anche se il concetto di insediamento nemmeno esiste nel diritto internazionale. Ciò è avvenuto con il solo fine di criminalizzare lo Stato di Israele”. In tutti questi modi, il saldo fondamento legale della legittimità di Israele è stato sostituito da una narrazione falsa e pseudolegale, con l’effetto nefasto di passare da un saldo fondamento di diritto internazionale alla demonizzazione di Israele. È accaduto e continua ad accadere, anche dopo il 7 ottobre: come sopraffatto dall’ampiezza e intensità dell’ondata antisemita universale, dal tradimento del diritto internazionale da parte dei governi occidentali, Israele, nel tentativo di aggrapparsi a un appiglio internazionale, finisce con il rovinare la sua causa e i suoi interessi vitali con l’assimilazione di tesi false autodistruttive. Per tornare alle fonti della certezza del diritto internazionale, alla ricerca della verità giuridica e politica, al coraggio fisico e morale della Resistenza Ebraica, contro l’inferno dei mostri antisemiti, un libro come questo è più che utile, è indispensabile. Vi invito alla sua illuminante lettura.
(L'informale, 3 maggio 2024) ____________________
Sono anni che Notizie su Israele fa opera di divulgazione di tesi come quelle sostenute in questo libro, ma stranamente nel mondo ebraico italiano non hanno trovato molta risonanza. Ecco un elenco di articoli su questo argomento. M.C.
Punterà ad almeno una vittoria di tappa la Israel Premier Tech, tra le 22 squadre protagoniste della centosettesima edizione del Giro d’Italia al via nel fine settimana da Torino. La squadra israeliana è alla sua settima partecipazione consecutiva e arriva da un inizio di stagione importante, con tanti successi all’attivo. Al Giro d’Italia arriva con una formazione in cui ad alcuni veterani di consolidata esperienza come il canadese Michael Woods, vincitore nel 2023 di una tappa al Tour de France, si affiancano giovani talenti in rampa di lancio. Tra loro un italiano, il 24enne Marco Frigo. E un israeliano, il 23enne Nadav Raisberg. È la prima grande corsa a tappe per Raisberg, che ha ben figurato in alcune “classiche” di primavera tra cui la Milano-Torino e le Strade Bianche nel senese. Ma il Giro è un’altra cosa. L’occasione di una vita.
«Abbiamo scelto Nadav Raisberg perché è esattamente il ciclista di cui abbiamo bisogno in questo Giro», ha spiegato il direttore sportivo Oscar Guerrero. «È un ciclista completo, veloce ma anche forte in salita. Sarà in grado di aiutarci nelle tappe di montagna, negli sprint e nei tentativi di fuga. Con la licenza magari di provare a ottenere anche un risultato in solitaria».
Professionista da pochi mesi, in alcune dichiarazioni veicolate dal team, Raisberg si è detto «molto emozionato» per l’opportunità che gli è stata offerta. «Ho trascorso le ultime settimane in quota, allenandomi ad Andorra senza soluzione di continuità. Bici, bici e soltanto bici. Nel tempo libero tra un allenamento e l’altro ho studiato con attenzione ogni tappa, arrivo quindi preparato a questa corsa. L’obiettivo è finirla, ma anche aiutare i miei compagni di squadra a ottenere dei successi».
C’è molta attesa per questo Giro in casa Israel Premier Tech. «Ogni vittoria è una soddisfazione, ma in questo momento particolare lo è ancora di più», sottolinea il proprietario della squadra, il filantropo israelo-canadese Sylvan Adams, in una intervista su Pagine Ebraiche di maggio. «I nostri atleti sul gradino più alto del podio sono infatti la migliore risposta possibile all’agenda portata avanti dai boicottatori di Israele, ai veleni che immettono nel discorso pubblico e alle minacce che talvolta rivolgono in modo scomposto. Ne stiamo ricevendo di nuove, anche in relazione a Giro d’Italia e Tour de France. Per ora solo verbali. Ma non sono preoccupato».
Non si parla (bene) di Israele: salta il convegno alla Statale di Milano. Troppe minacce
“Israele: storia di una democrazia sotto attacco. Terrorismo, propaganda e antisemitismo 4.0. La sfida all’Occidente” era in programma il 7 maggio. Dopo giorni di intimidazioni da parte di collettivi e gruppi anti israeliani gli organizzatori hanno deciso di annullare l'evento.
“Israele: storia di una democrazia sotto attacco. Terrorismo, propaganda e antisemitismo 4.0. La sfida all’Occidente”. Era questo il titolo del convegno che alla Statale di Milano avrebbe dovuto tenersi il 7 maggio, con la proiezione del docufilm #NOVA sul massacro commesso dai terroristi di Hamas al Nova Festival lo scorso 7 ottobre. Organizzato da Cristina Franco, presidente Associazione Italia Israele di Savona, il convegno avrebbe dovuto aprirsi con i saluti del rettore, Elio Franzini, e poi gli interventi di Hillel Neuer, direttore esecutivo UN Watch; Marco Cuzzi della Statale, Alessandra Veronese dell’Università di Pisa, finio alla testimonianza di Alexandre Del Valle sulla Fratellanza Musulmana in Europa. Niente da fare. Da giorni erano arrivate minacce e intimidazioni alla volta del convegno, dei convegnisti e dell’università da parte del solito giro di collettivi, anarchici e gruppi anti israeliani. La questura era pronta ad allestire un cordone di sicurezza e la minaccia era passata da “alta” ad “altissima”. Alla fine, Cristina Franco e gli altri organizzatori hanno deciso di annullare l’evento. “Il messaggio che è passato è che, mentre l’altra parte ha avuto il diritto persino di occupare le università italiane, a noi è stato impedito di poter discutere pacificamente del 7 ottobre e di Israele, se non a rischio di violenze”, ci dice Franco. Le era stato anche offerto di spostare online l’evento dai media della Statale. “Anche no, grazie”, taglia corto Franco. “O si ha la stessa possibilità data all’altra parte, oppure niente. La foglia di fico non la accetto”. La morale della storia sta tutta in quel titolo: “Israele: storia di una democrazia sotto attacco. Terrorismo, propaganda e antisemitismo 4.0. La sfida all’occidente”. La democrazia e la sua ancella che è la libertà di parola sotto attacco, la propaganda che dilaga nelle università, l’antisemitismo che ne è il rumore di fondo e l’occidente che è il nemico comune.
Il Foglio, 2 maggio 2024)
Hamas ha risposto ancora una volta "no" alla proposta di Israele per un cessate il fuoco
Il gruppo ha rifiutato l'ultima offerta israeliana per una tregua e la liberazione degli ostaggi, che Blinken aveva definito "generosa". Oggi è attesa la controproposta. I negoziati vanno avanti, mentre lo stato ebraico fa pressione preparando l'offensiva a Rafah.
di Micol Flammini
La risposta di Hamas all’ultima proposta israeliana per un cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi è arrivata dal Libano, dove vive Osama Hamdan, uomo di Hamas che ha rilasciato un’intervista a al Manar tv, un’emittente legata a Hezbollah. Hamdan ha detto: “La nostra posizione sull’attuale documento negoziale è negativa… ma non vuol dire che i colloqui finiscono qui”. Per oggi è attesa la controproposta di Hamas, che vuole imporre come condizione per la liberazione degli oltre centotrenta ostaggi israeliani la fine della guerra e il ritiro completo dell’esercito israeliano dalla Striscia di Gaza. La condizione non è ammissibile, vorrebbe dire che Hamas sarebbe di nuovo nelle condizioni di riprendere il controllo totale del territorio dal quale ha escogitato e lanciato l’attacco del 7 ottobre contro i kibbutz del sud, uccidendo più di mille civili e rapendone più di duecento. Israele aveva già abbassato di molto le sue condizioni. Per veder tornare gli ostaggi aveva acconsentito a un cessate il fuoco di sei settimane, al ritiro dei soldati da alcune zone della Striscia, al ritorno dei palestinesi nella parte settentrionale di Gaza e alla liberazione di un numero molto alto di palestinesi che sono detenuti nelle carceri israeliane. La proposta di Israele era stata definita “generosa” da Antony Blinken, il segretario di stato americano in questi giorni si trova in medio oriente e ha più volte ripetuto che se l’accordo fallisce, la responsabilità è di Hamas. Le manifestazioni dentro a Israele sono quotidiane, i cittadini chiedono un accordo per vedere tornare gli ostaggi, alle richieste umanitarie si sommano quelle politiche con la domanda di dimissioni del primo ministro Benjamin Netanyahu. Sono queste immagini che convincono Hamas che Israele potrà cedere alle sue richieste. Lo stato ebraico intanto sta preparando l’offensiva a Rafah, la città nel sud della Striscia dove si sono rifugiati circa un milione e mezzo di palestinesi e dove si troverebbero quattro battaglioni di Hamas. Probabilmente anche la leadership del gruppo vive nei tunnel sotto la città rifugio, ma un’offensiva potrebbe portare a un numero molto alto di vittime civili e, secondo i numeri diffusi dal ministero della Salute di Gaza, gestito da Hamas, i morti sono già più di trentatremila. Gli Stati Uniti sono contrari a un'invasione che non sia preceduta da un’evacuazione attenta della popolazione.
Il segretario di Stato americano Antony Blinken visita il valico di Keren Shalom
Mercoledì Israele ha riaperto l’unico valico sul confine settentrionale della Striscia di Gaza per la prima volta da quando è stato attaccato da Hamas il 7 ottobre, permettendo ai camion degli aiuti di passare attraverso il checkpoint di Erez. Lo sviluppo è avvenuto mentre il Segretario di Stato americano Anthony Blinken ha visitato Kerem Shalom, il principale valico attraverso il quale gli aiuti umanitari sono affluiti da Israele a Gaza negli ultimi mesi, e il porto di Ashdod, da cui gran parte degli aiuti viene inviata all’enclave. Blinken ha detto che, sebbene gli aiuti all’enclave palestinese siano stati incrementati, è necessario fare di più. Il diplomatico americano ha anche effettuato una breve visita, non annunciata, al Kibbutz Nir Oz, che è stato devastato dall’assalto di Hamas del 7 ottobre, con 38 residenti uccisi e 72 rapiti – alcuni dei quali sono poi tornati – su una popolazione di circa 400 persone. I residenti non sono più tornati nel kibbutz, che giace ancora in gran parte in rovina, con molti edifici incendiati e danneggiati. La riapertura del valico di Erez – che normalmente facilita il passaggio delle persone, non dei rifornimenti – è stata per mesi una delle principali richieste delle agenzie umanitarie internazionali, per alleviare la situazione umanitaria che si ritiene sia più grave tra le centinaia di migliaia di civili nel settore settentrionale di Gaza. Il checkpoint è stato in gran parte distrutto dal gruppo terroristico di Hamas durante l’assalto del 7 ottobre al sud di Israele. Nelle vicinanze, all’interno di Gaza, l’esercito ha poi trovato un enorme tunnel di Hamas abbastanza largo da poter essere attraversato da un’auto. L’esercito ha dichiarato che mercoledì circa 30 camion che trasportavano cibo e forniture mediche dalla Giordania sono entrati nella parte settentrionale di Gaza attraverso Erez, subendo una “attenta ispezione di sicurezza” prima di entrare. Le Forze di Difesa Israeliane hanno dichiarato di aver effettuato lavori di ingegneria nell’area per il passaggio pedonale e per quello da utilizzare per il transito dei camion. Le forze di ingegneria hanno “costruito infrastrutture di ispezione e protezione nell’area, così come strade asfaltate in territorio israeliano e nella Striscia, consentendo l’ingresso di aiuti nella parte settentrionale della Striscia, rafforzando al contempo le difese delle comunità [al confine con Gaza] nell’area”. Il valico, al capolinea di un’importante autostrada, è il più vicino a Gaza dal porto israeliano di Ashdod, dove vengono spediti alcuni aiuti umanitari. Il col. Moshe Tetro, capo dell’Amministrazione israeliana di coordinamento e collegamento per Gaza, ha detto di sperare che il valico sia aperto tutti i giorni e contribuisca a raggiungere l’obiettivo di 500 camion di aiuti che entrano a Gaza ogni giorno. Questo sarebbe in linea con le forniture di prima della guerra e molto di più di quanto questa abbia ricevuto negli ultimi sette mesi. “Questo è solo un passo delle misure che abbiamo preso nelle ultime settimane”, ha dichiarato ai giornalisti. All’inizio della giornata, il ministero degli Esteri della Giordania ha denunciato che due dei suoi convogli di aiuti che trasportavano cibo, farina e altri aiuti sono stati “attaccati dai coloni”, senza fornire dettagli sull’accaduto, ma aggiungendo che entrambi i convogli sono riusciti a proseguire il loro viaggio e a raggiungere la loro destinazione. Gli attivisti del gruppo israeliano Tzav 9, che si oppone agli aiuti umanitari a Gaza finché Hamas non libera i 133 ostaggi che detiene, hanno tentato mercoledì mattina di bloccare i camion degli aiuti in vari punti del Paese. Un comunicato del gruppo affermava che l’obiettivo era far arrivare Blinken al valico di Kerem Shalom e non trovarvi alcun camion. La campagna non sembra aver avuto successo, poiché l’IDF ha dichiarato zona militare chiusa parte del percorso dei camion e l’area del valico. Honenu, un’agenzia di assistenza legale di destra, ha dichiarato che quattro uomini che avevano “bloccato i camion di aiuti diretti a Gaza” mentre passavano vicino all’insediamento cisgiordano di Ma’ale Adumim sono stati arrestati dalla polizia, che ha dichiarato che l’attacco ha danneggiato diversi camion e il loro contenuto. Il governo giordano ha condannato l’incidente e ha dichiarato di ritenere le autorità israeliane pienamente responsabili di garantire la protezione dei convogli di aiuti e delle organizzazioni internazionali.
• Progressi negli aiuti reali, ma devono essere accelerati A Kerem Shalom, Blinken ha visitato l’area del valico e osservato le procedure di ispezione insieme al ministro della Difesa Yoav Gallant e ad altri funzionari della Difesa, che hanno informato il diplomatico statunitense e il suo team sugli sforzi umanitari dell’IDF a Gaza. Gli hanno anche illustrato le azioni intraprese per prevenire attacchi errati agli operatori umanitari, dopo l’incidente in cui sono stati uccisi sette membri del gruppo World Central Kitchen. Il valico di Kerem Shalom è stato chiuso dopo il 7 ottobre, quando Israele ha imposto un rigido blocco su Gaza, ma ha riaperto al traffico limitato a dicembre, diventando il principale punto di ingresso per gli aiuti provenienti da Israele. I funzionari israeliani possono ispezionare 55 camion ogni ora a Kerem Shalom e lavorano dalla mattina al tramonto, ha dichiarato Shimon Freedman, portavoce per i media internazionali del COGAT, un organismo del Ministero della Difesa che funge da collegamento con i palestinesi. Israele ha cercato di dimostrare che non sta bloccando gli aiuti a Gaza, soprattutto da quando il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha lanciato un duro avvertimento a Netanyahu, affermando che la politica di Washington potrebbe cambiare se Israele non prenderà provvedimenti per affrontare i danni ai civili, le sofferenze umanitarie e la sicurezza degli operatori umanitari. Il fuoco dei carri armati echeggiava da Gaza mentre Blinken vedeva per la prima volta da vicino la Striscia a sei mesi dall’inizio della guerra. Il complesso di Kerem Shalom, delimitato da spesse mura di cemento, è il luogo in cui i camion degli aiuti diretti a Gaza vengono trattenuti per essere ispezionati, un processo che i gruppi di aiuto hanno lamentato essere un grosso ostacolo. Israele ha affermato che l’intoppo si trova più avanti nel processo, nel meccanismo di distribuzione delle Nazioni Unite. Più tardi, Blinken ha visitato il porto di Ashdod, attraverso il quale gli aiuti internazionali arrivano via mare e vengono gestiti prima di partire per Gaza. Accompagnato dal consigliere per la sicurezza nazionale israeliano Tzachi Hanegbi, Blinken ha affermato che i progressi nel migliorare l’accesso umanitario a Gaza sono reali ma, dato l’immenso bisogno nell’enclave palestinese, devono essere accelerati. Blinken ha ribadito che gli Stati Uniti “non possono e non sosterranno una grande operazione militare a Rafah in assenza di un piano efficace per garantire che i civili non vengano danneggiati, e senza aver visto tale piano”. “Allo stesso tempo, ci sono altri modi – e, a nostro avviso, modi migliori – per affrontare la vera sfida di Hamas che non richiede una grande operazione militare” a Rafah, ha detto Blinken. Gli Stati Uniti hanno esortato Israele a non lanciare la prevista offensiva su Rafah, dove si ritiene siano nascosti i vertici di Hamas e detenuti molti degli ostaggi, ma anche dove circa 1,5 milioni di civili si sono rifugiati. Martedì Netanyahu ha dichiarato di essere intenzionato ad attaccare Rafah, che si raggiunga o meno un accordo.
“Non è pacifismo perorare il cessate il fuoco esponendo la bandiera di una sola parte e accusando l’altra, indicibilmente, di “genocidio” in spregio alla storia e alla verità”. Così commenta la Comunità ebraica di Livorno quanto accaduto al Teatro Goldoni il 26 aprile al termine della Turandot di Puccini, quando il cast si è riunito sul palco esponendo lo striscione “Cessate il fuoco, stop al genocidio” con una bandiera palestinese. “Non è pacifismo ignorare la sorte degli israeliani e degli altri rapiti da Hamas il 7 ottobre – incalza il comunicato stampa -. Non è pacifismo voltarsi dall’altra parte o rifugiarsi in contorte e criptiche affermazioni, pur di non riconoscere gli stupri avvenuti e in atto sulle donne israeliane rapite; il commercio da parte di Palestinesi, quali macabri trofei, delle teste mozzate di vittime dell’aggressione di Hamas; i razzi, i droni e missili che ad oggi, con la complicità di potenti alleati, piovono su Israele.” Il sindaco del capoluogo toscano Luca Salvetti non ha condannato l’episodio, citando dei precedenti a La Scala di Milano e ribadendo la linea dell’amministrazione comunale di esporre solamente la bandiera della pace, senza quella israeliana. Un atteggiamento definito “vano” e “improbabile” dalla comunità ebraica locale, poiché quanto andato in scena al Teatro Goldoni è stato un richiamo al “pregiudizio, mascherato da pacifismo, contro Israele” e “una mera operazione di propaganda politica”. Parole a cui fanno eco quelle dell’Associazione Italia-Israele di Livorno, che tramite la sua pagina Facebook denuncia “un’azione fuori contesto culturale, politico ed istituzionale e con l’esposizione di un messaggio completamente imposto al pubblico presente, che era a teatro solo per vedere un’opera lirica, senza alcuna possibilità di contraddittorio o replica di una posizione diversa.”
(Bet Magazine Mosaico, 2 maggio 2024) ____________________
L'odio contro gli ebrei, istigato e alimentato dal "principe di questo mondo", ha ormai trovato modo di dilagare senza argini. La possibilità di sostituire la religiosa e obsoleta accusa di "deicidio" con quella nuovissima e laica di "genocidio" è stata avidamente afferrata non sarà più lasciata cadere. Non basta pensar male degli ebrei, non basta dirne male intorno a sé quando capita, per alcuni è un dovere aizzare tutti all'odio contro gli ebrei oggi rappresentati da Israele. E' una missione, pensano questi antisemiti di nuovo conio. Forse sono pochi quelli che li seguono nella loro militanza antiebraica, ma sono molti quelli che non obiettano, e non si sa quanti siano quelli che approvano e sono contenti che siano altri a fare la fatica di dirlo in pubblico. M.C.
Messaggio a quelli che in Occidente inneggiano alla guerra contro Israele “con ogni mezzo necessario”
Quando gridate “intifada” approvate stragi di innocenti e non fate avanzare di un solo passo la causa del popolo palestinese
di Sherri Mandell
Quando dite di volere un’intifada, una sommossa globale contro gli ebrei, condonate l’assassinio a sangue freddo di persone innocenti come mio figlio Koby e il suo amico Yosef, che erano in terza media quando i terroristi nel 2001, all’inizio della seconda intifada, li hanno picchiati a morte con delle pietre, abbandonandoli in una grotta con le pareti imbrattare di sangue. Koby era il nostro figlio maggiore. Amava il baseball, il basket e la pizza. Era solo un ragazzino, uscito per un’escursione. Ecco di chi state invocando l’uccisione quando gridate “con ogni mezzo necessario”. Quell’assassinio non ci ha scacciati da Israele. Quell’assassinio non ha portato la pace. Quell’assassinio non ha recato nessun risultato positivo per i palestinesi. Sostenere l’assassinio non aiuta in alcun modo la causa palestinese, non lo ha fatto 23 anni fa e non lo fa oggi. Quando dite di volere un’intifada, quando gridate “resistenza con ogni mezzo necessario”, portate verso la sconfitta la causa del popolo palestinese senza rendervene conto. Condonate l’assassinio di intere famiglie come la famiglia Fogel, trucidata nella sua casa. La figlia di 12 anni rincasò quella sera e trovò tutta la sua famiglia massacrata: madre, padre, un bambino di 3 mesi e due fratelli. Un bambino sopravvissuto, di 2 anni, sedeva accanto ai genitori che giacevano in un lago di sangue. Cercava di svegliarli. I sopravvissuti della famiglia Fogel non hanno lasciato Israele. L’assassinio della famiglia Fogel non ha fatto avanzare di un solo passo l’agenda politica dei palestinesi. Quando dite di volere un’intifada, condonate l’assassinio di Hallel Ariel che aveva 13 anni quando un terrorista la pugnalò a morte nel suo letto. Quando dite di volere un’intifada globale, state dicendo che credete nell’uccisione di ebrei durante i seder di Pasqua, come quello al Park Hotel di Netanya nel 2002, dove furono trucidati 30 israeliani. Credete nell’assassinarci nelle discoteche, come il Dolphinarium di Tel Aviv dove venne fatta strage di 21 israeliani, per la maggior parte adolescenti. Volete ucciderci dentro le scuole, come nella yeshiva Mercaz HaRav dove un terrorista ha sparato e ucciso otto adolescenti. Quando invocate un’intifada, siete complici di atrocità e omicidi. Incoraggiate la violenza e l’antisemitismo. Sostenete l’islamismo estremista, Hamas e l’Iran che vogliono annientare la nazione di Israele. Incoraggiate i palestinesi a uccidere e a sequestrare ostaggi, come hanno fatto il 7 ottobre, come se questo fosse un percorso verso la pace. Venite usati. La vostra presunzione di superiorità morale e la vostra rabbia vengono sfruttate a sostegno del terrorismo contro gli ebrei in qualsiasi parte del mondo. Non ne uscirete vittoriosi. Piuttosto, la vostra sensibilità verrà smorzata e messa a tacere dal momento che prendete parte a un’orgia di odio. Invece di resistere con “ogni mezzo necessario”, immaginate di cambiare il vostro slogan: “pace con ogni mezzo necessario”. Immaginate di dire a Hamas di rilasciare gli ostaggi e smettere di lanciare missili: in questo modo la guerra potrà finire. Pace con ogni mezzo necessario: questo è uno slogan che servirebbe a mettere fine a questa guerra, a riportare a casa gli ostaggi e anche a incoraggiare il governo israeliano a promuovere uno stato palestinese.
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Da: Times of Israel, 1.5.24
Come Netanyahu sta trascinando Israele verso la disfatta
di Giovanni Giacalone
Gli obiettivi iniziali del governo e dell’IDF erano due: eradicare Hamas e liberare tutti gli ostaggi utilizzando la pressione militare. Secondo Netanyahu i due obiettivi non erano in contrasto tra loro. Le cose però sono andate diversamente se oggi Israele si trova a dover fare delle concessioni inaudite nei confronti di quell’organizzazione terrorista che doveva sradicare. Eppure la campagna militare è stata impostata su un meccanismo di pressione da nord verso sud con concentrazione finale su Rafah ed era prevedibilissimo che l’ultima fase avrebbe richiesto, per forza di cose, l’ingresso nell’ultima area urbana rimasta, dove sarebbero confluiti i leader di Hamas a Gaza assieme ai restanti ostaggi.
La resa di Israele a Hamas, apparecchiata dagli Stati Uniti con il concorso dell’establishment politico-militare israeliano, lo stesso che si è reso responsabile di non avere saputo prevenire l’eccidio del 7 ottobre scorso, è limpidamente evidente nell’accordo proposto al Cairo, i cui termini sono i seguenti:
Ci sarà una prima fase della durata di 40 giorni durante la quale Israele si ritirerà dalle aree densamente popolate e terminerà le proprie ricognizioni aeree per dieci ore quotidiane. I primi ostaggi a essere liberati saranno quelli femminili, contestualmente Israele si ritirerà dall’area costiera.
Nel corso del ventiduesimo giorno verranno anche rilasciati gli ostaggi maschili, gli edifici distrutti saranno evacuati e si inizierà a ripristinare l’attività degli ospedali e dei panifici. Nello scambio con gli ostaggi femminili, Israele rilascerà venti terroristi a cui è stata inflitto il carcere a vita. Israele inoltre consentirà ai terroristi feriti nella guerra di lasciare Gaza per essere curati.
La seconda fase che durerà quarantadue giorni sarà quella in cui verrà annunciato un cessate il fuoco definitivo, ovvero la fine della guerra. In cambio, Hamas rilascerà i restanti ostaggi, militari inclusi, ottenendo a sua volta il rilascio di altri terroristi.
Hamas risponderà a breve a quanto Israele ha concesso. Praticamente tutto.
Dall'America a Parigi, il gesto filo palestinese che richiama il linciaggio di Ramallah
I palmi delle mani macchiati di rosso sono il nuovo simbolo della protesta per Gaza (e un po' per Hamas): sono apparse nel campus del Pratt Institute di New York, ma anche al Campidoglio, alla Columbia e alla Science Po in Francia,
I palmi delle mani macchiati di rosso sono il nuovo simbolo della protesta per Gaza (e un po’ per Hamas). Sono apparse ieri nel campus del Pratt Institute di New York. “Quale modo migliore per terrorizzare gli studenti e i docenti ebrei e costringerli alla sottomissione, se non il simbolo del linciaggio degli ebrei?”, ha detto Rory Lancman del Brandeis Center for Human Rights Under Law. Anche gli studenti davanti a Sciences Po a Parigi mostrano le mani di rosso. Pernelle Richardot, eletta socialista di Strasburgo, ha denunciato: “Spinti dall’odio antisemita, nel silenzio assordante di una parte della sinistra, gli studenti benpensanti di Sciences Po glorificano un linciaggio”. E lo scrittore ed editorialista Raphaël Enthoven: “Questo simbolo non è un appello al cessate il fuoco, ma alla carneficina”.
Era l’ottobre del 2000 quando Vadim Norzich e Yosef Avrahami, due riservisti israeliani, imboccarono la strada sbagliata, finendo a Ramallah. Furono catturati dalla folla, torturati e dilaniati. Dalle finestre del commissariato di polizia, i loro assassini si affacciarono, estasiati, mostrando a tutti le mani sporche di sangue. “Dateli a noi o veniamo a prenderli”, gridavano come in un 7 ottobre.
Un palestinese spaccò una finestra per infierire sul corpo dei due soldati. Poi furono buttati dalla finestra. Fu un’équipe del Tg5 a filmare la profanazione dei corpi (la Rai scrisse all’Anp dicendo che loro “non fanno queste cose”, riprendere i pogrom). Norzich, era immigrato dalla Russia e si era appena sposato con Irina, incinta del loro primo figlio. La moglie di Avrahami, Hani, quel giorno provò a cercarlo sul cellulare. Uno, due, tre squilli, Hani aveva sentito che a Ramallah era successo qualcosa. Le rispose un palestinese, che le chiese in ebraico: “Chi cerchi?”. Hani: “Mio marito Yosef”. E il palestinese: “L’ho appena ucciso”. Hubert Launois, studente di Sciences Po e membro del Comitato Palestinese, si è difeso così: “È un simbolo che può essere scioccante, che è controverso, si riferisce a eventi tragici. E se si riferisce a questo evento, allora è una deriva antisemita”. Un po’ come Jeremy Corbyn ha sempre detto di non sapere perché facesse la “rabia”, la mano con il pollice piegato che è il simbolo dei Fratelli Musulmani. Occupazioni e blocco delle lezioni intanto alla Sorbona, Strasburgo, Rennes, Saint-Étienne e altre città francesi. Anche gli studenti dell’Università delle Arti di Berlino (UdK) – ampiamente riconosciuta come una delle scuole d’arte più importanti al mondo – hanno mostrato i palmi dipinti di rosso. Nei giorni scorsi, manifestanti anti-israeliani con le mani dipinte di rosso sono entrati al Campidoglio. Anne Bayefsky, presidente di Human Rights Voices, ha spiegato il significato: “Nessun ebreo israeliano dimentica cosa significassero quelle mani macchiate di sangue”. Non bastava che gli ebrei della Columbia fossero aggrediti al grido di “Tornate in Polonia”, “radere al suolo Tel Aviv” e “Hamas, ti amiamo”. Ora ci sono anche i palmi per inneggiare a nuovi linciaggi.
Il Foglio, 1 maggio 2024)