“Guai ai figli ribelli”, dice l'Eterno, “
che formano dei disegni, ma senza di me,
che contraggono alleanze, ma senza il mio Spirito,
per accumulare peccato su peccato.
Or la nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa sposa a Giuseppe; e prima che fossero venuti a stare insieme, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo.
E Giuseppe, suo marito, essendo uomo giusto e non volendo esporla ad infamia, si propose di lasciarla occultamente.
Ma mentre aveva queste cose nell'animo, ecco che un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prender con te Maria tua moglie; perché ciò che in lei è generato, è dallo Spirito Santo.
Ed ella partorirà un figlio, e tu gli porrai nome Gesù, perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati.
Or tutto ciò avvenne, affinché si adempiesse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:
Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele, che, interpretato, vuol dire: «Iddio con noi».
SALMO 145
Io ti esalterò, o mio Dio, mio Re, e benedirò il tuo nome in eterno.
Ogni giorno ti benedirò e loderò il tuo nome per sempre.
L'Eterno è grande e degno di somma lode, e la sua grandezza non si può investigare.
Un'età dirà all'altra le lodi delle tue opere e farà conoscere le tue gesta.
Io mediterò sul glorioso splendore della tua maestà
GENESI 2
L’Eterno Iddio formò l'uomo dalla polvere della terra,
gli soffiò nelle narici un alito vitale e l'uomo divenne un'anima vivente
ISAIA 53
Egli è cresciuto davanti a lui come un germoglio, come una radice che esce da un arido suolo.
GIOVANNI 20
Allora Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre mi ha mandato, anch'io mando voi”.
Detto questo, soffiò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”.
PROVERBI 8
Quando egli disponeva i cieli io ero là; quando tracciava un cerchio sulla superficie dell'abisso,
quando condensava le nuvole in alto, quando rafforzava le fonti dell'abisso,
quando assegnava al mare il suo limite perché le acque non oltrepassassero il suo cenno, quando poneva i fondamenti della terra,
io ero presso di lui come un artefice, ero sempre esuberante di gioia, mi rallegravo in ogni tempo nel suo cospetto;
mi rallegravo nella parte abitabile della sua terra, e trovavo la mia gioia tra i figli degli uomini.
GENESI 2
E udirono la voce dell'Eterno Iddio, il quale camminava nel giardino sul far della sera; e l'uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza dell'Eterno Iddio fra gli alberi del giardino.
GIOVANNI 3
Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito figlio affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna.
1 CORINZI 15
Così anche sta scritto: «Il primo uomo, Adamo, divenne anima vivente»; l'ultimo Adamo è spirito vivificante”.
GENESI 3
E io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la sua progenie; questa ti schiaccerà il capo, e tu le ferirai il calcagno”.
ISAIA 7
Perciò il Signore stesso vi darà un segno: ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele.
GIOVANNI 12
“Se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo, ma, se muore, produce molto frutto" .
ESODO 3
E l'Eterno disse: “Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto, e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; perché conosco i suoi affanni;
e sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani.
ESODO 29
Sarà un olocausto perenne offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io vi incontrerò per parlare con te.
E là io mi troverò con i figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
E dimorerò in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per dimorare tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro
GIOVANNI 1
E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Quelli dunque i quali accettarono la sua parola furono battezzati; e in quel giorno furono aggiunte a loro circa tremila persone.
Ed erano perseveranti nell'attendere all'insegnamento degli apostoli, nella comunione fraterna, nel rompere il pane e nelle preghiere.
E ogni anima era presa da timore; e molti prodigi e segni eran fatti dagli apostoli.
E tutti quelli che credevano erano insieme, ed avevano ogni cosa in comune;
e vendevano le possessioni ed i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.
E tutti i giorni, essendo di pari consentimento assidui al tempio, e rompendo il pane nelle case, prendevano il loro cibo assieme con gioia e semplicità di cuore,
lodando Iddio, e avendo il favore di tutto il popolo. E il Signore aggiungeva ogni giorno alla loro comunità quelli che erano sulla via della salvezza.
ATTI 4
E la moltitudine di coloro che avevano creduto, era d'un sol cuore e d'un'anima sola; né v'era chi dicesse sua alcuna delle cose che possedeva, ma tutto era comune tra loro.
E gli apostoli con gran potenza rendevano testimonianza della risurrezione del Signor Gesù; e gran grazia era sopra tutti loro.
Poiché non v'era alcun bisognoso fra loro; perché tutti coloro che possedevano poderi o case li vendevano, portavano il prezzo delle cose vendute,
e lo mettevano ai piedi degli apostoli; poi, era distribuito a ciascuno, secondo il bisogno.
LUCA 2
Or in quella medesima contrada vi erano dei pastori che stavano nei campi e facevano di notte la guardia al loro gregge.
E un angelo del Signore si presentò ad essi e la gloria del Signore risplendé intorno a loro, e temettero di gran timore.
E l'angelo disse loro: Non temete, perché ecco, vi reco il buon annuncio di una grande gioia che tutto il popolo avrà:
Oggi, nella città di Davide, v'è nato un salvatore, che è Cristo, il Signore.
MATTEO 2
Or essendo Gesù nato in Betlemme di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
Dov'è il re dei Giudei che è nato? Poiché noi abbiamo veduto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo.
Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
E radunati tutti i capi sacerdoti, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
Ed essi gli dissero: In Betlemme di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
e mandandoli a Betlemme, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima gioia.
Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.
ATTI 8
Coloro dunque che erano stati dispersi se ne andarono di luogo in luogo, annunziando la Parola. E Filippo, disceso nella città di Samaria, vi predicò il Cristo.
E le folle di pari consentimento prestavano attenzione alle cose dette da Filippo, udendo e vedendo i miracoli che egli faceva.
Poiché gli spiriti immondi uscivano da molti che li avevano, gridando con gran voce; e molti paralitici e molti zoppi erano guariti.
E vi fu grande gioia in quella città.
ATTI 13
Ma Paolo e Barnaba dissero loro francamente: Era necessario che a voi per i primi si annunziasse la parola di Dio; ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco, noi ci volgiamo ai Gentili.
Perché così ci ha ordinato il Signore, dicendo: Io ti ho posto per esser luce dei Gentili, affinché tu sia strumento di salvezza fino alle estremità della terra.
E i Gentili, udendo queste cose, si rallegravano e glorificavano la parola di Dio; e tutti quelli che erano ordinati a vita eterna, credettero.
E la parola del Signore si spandeva per tutto il paese.
Ma i Giudei istigarono le donne pie e ragguardevoli e i principali uomini della città, e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba, e li scacciarono dai loro confini.
Ma essi, scossa la polvere dei loro piedi contro loro, se ne vennero ad Iconio.
E i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.
ROMANI 15
Or l'Iddio della pazienza e della consolazione vi dia d'avere fra voi un medesimo sentimento secondo Cristo Gesù,
affinché di un solo animo e di una stessa bocca glorifichiate Iddio, il Padre del nostro Signor Gesù Cristo.
Perciò accoglietevi gli uni gli altri, siccome anche Cristo ha accolto noi per la gloria di Dio;
poiché io dico che Cristo è stato fatto ministro dei circoncisi, a dimostrazione della veracità di Dio, per confermare le promesse fatte ai padri;
mentre i Gentili hanno da glorificare Dio per la sua misericordia, secondo che è scritto: Per questo ti celebrerò fra i Gentili e salmeggerò al tuo nome.
Ed è detto ancora: Rallegratevi, o Gentili, col suo popolo.
E altrove: Gentili, lodate tutti il Signore, e tutti i popoli lo celebrino.
E di nuovo Isaia dice: Vi sarà la radice di Iesse, e Colui che sorgerà a governare i Gentili; in lui spereranno i Gentili.
Or l'Iddio della speranza vi riempia di ogni gioia e di ogni pace nel vostro credere, onde abbondiate nella speranza, mediante la potenza dello Spirito Santo.
Soltanto, comportatevi in modo degno del vangelo di Cristo, affinché, sia che io venga a vedervi sia che io resti lontano, senta dire di voi che state fermi in uno stesso spirito, combattendo insieme con un medesimo animo per la fede del vangelo,
per nulla spaventati dagli avversari. Questo per loro è una prova evidente di perdizione; ma per voi di salvezza; e ciò da parte di Dio.
Perché vi è stata concessa la grazia, rispetto a Cristo, non soltanto di credere in lui, ma anche di soffrire per lui,
sostenendo voi pure la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e nella quale ora sentite dire che io mi trovo.
FILIPPESI, cap. 2
Se dunque v'è qualche incoraggiamento in Cristo, se vi è qualche conforto d'amore, se vi è qualche comunione di Spirito, se vi è qualche tenerezza di affetto e qualche compassione,
rendete perfetta la mia gioia, avendo un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento.
Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno, con umiltà, stimi gli altri superiori a se stesso,
cercando ciascuno non il proprio interesse, ma anche quello degli altri.
Abbiate in voi lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù,
il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente,
ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini;
trovato esteriormente come un uomo, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce.
Perciò Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome,
affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra, e sotto terra,
e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre.
Così, miei cari, voi che foste sempre ubbidienti, non solo come quando ero presente, ma molto più adesso che sono assente, adoperatevi al compimento della vostra salvezza con timore e tremore;
infatti è Dio che produce in voi il volere e l'agire, secondo il suo disegno benevolo.
Fate ogni cosa senza mormorii e senza dispute,
perché siate irreprensibili e integri, figli di Dio senza biasimo in mezzo a una generazione storta e perversa, nella quale risplendete come astri nel mondo,
tenendo alta la parola di vita, in modo che nel giorno di Cristo io possa vantarmi di non aver corso invano, né invano faticato.
Ma se anche vengo offerto in libazione sul sacrificio e sul servizio della vostra fede, ne gioisco e me ne rallegro con tutti voi;
e nello stesso modo gioitene anche voi e rallegratevene con me.
Buona cosa è celebrare l'Eterno,
e salmeggiare al tuo nome, o Altissimo;
proclamare la mattina la tua benignità,
e la tua fedeltà ogni notte,
sul decacordo e sul saltèro,
con l'accordo solenne dell'arpa!
Poiché, o Eterno, tu m'hai rallegrato col tuo operare;
io celebro con giubilo le opere delle tue mani.
Come son grandi le tue opere, o Eterno!
I tuoi pensieri sono immensamente profondi.
L'uomo insensato non conosce
e il pazzo non intende questo:
che gli empi germoglian come l'erba
e gli operatori d'iniquità fioriscono,
per esser distrutti in perpetuo.
Ma tu, o Eterno, siedi per sempre in alto.
Poiché, ecco, i tuoi nemici, o Eterno,
ecco, i tuoi nemici periranno,
tutti gli operatori d'iniquità saranno dispersi.
Ma tu mi dai la forza del bufalo;
io son unto d'olio fresco.
L'occhio mio si compiace nel veder la sorte di quelli che m'insidiano,
le mie orecchie nell'udire quel che avviene ai malvagi che si levano contro di me.
Il giusto fiorirà come la palma,
crescerà come il cedro sul Libano.
Quelli che son piantati nella casa dell'Eterno
fioriranno nei cortili del nostro Dio.
Porteranno ancora del frutto nella vecchiaia;
saranno pieni di vigore e verdeggianti,
per annunziare che l'Eterno è giusto;
egli è la mia ròcca, e non v'è ingiustizia in lui.
Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno.
GENESI 6
Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che il loro cuore concepiva soltanto disegni malvagi in ogni tempo.
Il Signore si pentì d'aver fatto l'uomo sulla terra, e se ne addolorò in cuor suo.
E il Signore disse: «Io sterminerò dalla faccia della terra l'uomo che ho creato: dall'uomo al bestiame, ai rettili, agli uccelli dei cieli; perché mi pento di averli fatti».
Ma Noè trovò grazia agli occhi del Signore.
GENESI 12
Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
ESODO 3
Il Signore disse: «Ho visto, ho visto l'afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido che gli strappano i suoi oppressori; infatti conosco i suoi affanni.
Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egiziani e per farlo salire da quel paese in un paese buono e spazioso, in un paese nel quale scorre il latte e il miele, nel luogo dove sono i Cananei, gli Ittiti, gli Amorei, i Ferezei, gli Ivvei e i Gebusei.
E ora, ecco, le grida dei figli d'Israele sono giunte a me; e ho anche visto l'oppressione con cui gli Egiziani li fanno soffrire.
Or dunque va'; io ti mando dal faraone perché tu faccia uscire dall'Egitto il mio popolo, i figli d'Israele».
ESODO 6
Il Signore disse a Mosè: «Ora vedrai quello che farò al faraone; perché, forzato da una mano potente, li lascerà andare: anzi, forzato da una mano potente, li scaccerà dal suo paese».
Dio parlò a Mosè e gli disse: «Io sono il Signore.
Io apparvi ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe, come il Dio onnipotente; ma non fui conosciuto da loro con il mio nome di Signore.
Stabilii pure il mio patto con loro, per dar loro il paese di Canaan, il paese nel quale soggiornavano come forestieri.
Ho anche udito i gemiti dei figli d'Israele che gli Egiziani tengono in schiavitù e mi sono ricordato del mio patto.
Perciò, di' ai figli d'Israele: "Io sono il Signore; quindi vi sottrarrò ai duri lavori di cui vi gravano gli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi salverò con braccio steso e con grandi atti di giudizio.
DEUTERONOMIO 8
Abbiate cura di mettere in pratica tutti i comandamenti che oggi vi do, affinché viviate, moltiplichiate ed entriate in possesso del paese che il Signore giurò di dare ai vostri padri.
Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, il tuo Dio, ti ha fatto fare in questi quarant'anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti.
Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per insegnarti che l'uomo non vive soltanto di pane, ma che vive di tutto quello che procede dalla bocca del Signore.
Nel deserto ti ha nutrito di manna che i tuoi padri non avevano mai conosciuta, per umiliarti e per provarti, per farti, alla fine, del bene.
Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te,
poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato.
E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo.
Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare.
Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse.
Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola.
Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te;
poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato.
Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi;
e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro.
Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi.
Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta.
Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza.
Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno.
Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Santificali nella verità: la tua parola è verità.
Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo.
E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola:
che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno;
io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato;
ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.
ATTI 10
Voi sapete quello che è avvenuto per tutta la Giudea cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni:
vale a dire, la storia di Gesù di Nazaret; come Dio l'ha unto di Spirito Santo e di potenza; e come egli è andato attorno facendo del bene, e guarendo tutti coloro che erano sotto il dominio del diavolo, perché Dio era con lui.
E noi siamo testimoni di tutte le cose ch'egli ha fatte nel paese dei Giudei e in Gerusalemme; ed essi l'hanno ucciso, appendendolo ad un legno.
Esso ha Dio risuscitato il terzo giorno, e ha fatto sì ch'egli si manifestasse
non a tutto il popolo, ma ai testimoni che erano prima stati scelti da Dio; cioè a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.
Queste cose disse Gesù; poi levati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica il tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te,
poiché gli hai data potestà sopra ogni carne, affinché egli dia vita eterna a tutti quelli che tu gli hai dato.
E questa è la vita eterna: che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai mandato, Gesù Cristo.
Io ti ho glorificato sulla terra, avendo compiuto l'opera che tu mi hai data a fare.
Ed ora, o Padre, glorificami tu presso te stesso della gloria che avevo presso di te avanti che il mondo fosse.
Io ho manifestato il tuo nome agli uomini che tu mi hai dati dal mondo; erano tuoi, e tu me li hai dati; ed essi hanno osservato la tua parola.
Ora hanno conosciuto che tutte le cose che tu mi hai date, vengono da te;
poiché le parole che tu mi hai date, le ho date a loro; ed essi le hanno ricevute, e hanno veramente conosciuto ch'io sono proceduto da te, e hanno creduto che tu mi hai mandato.
Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi;
e tutte le cose mie sono tue, e le cose tue sono mie; ed io sono glorificato in loro.
Io non sono più nel mondo, ma essi sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, conservali nel tuo nome, essi che tu mi hai dati, affinché siano uno, come noi.
Mentre io ero con loro, io li conservavo nel tuo nome; quelli che tu mi hai dati, li ho anche custoditi, e nessuno di loro è perito, tranne il figlio di perdizione, affinché la Scrittura fosse adempiuta.
Ma ora io vengo a te; e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano compiuta in se stessi la mia allegrezza.
Io ho dato loro la tua parola; e il mondo li ha odiati, perché non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Io non ti prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li preservi dal maligno.
Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Santificali nella verità: la tua parola è verità.
Come tu hai mandato me nel mondo, anch'io ho mandato loro nel mondo.
E per loro io santifico me stesso, affinché anch'essi siano santificati in verità.
Io non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola:
che siano tutti uno; che come tu, o Padre, sei in me, ed io sono in te, anch'essi siano in noi: affinché il mondo creda che tu mi hai mandato.
E io ho dato loro la gloria che tu hai dato a me, affinché siano uno come noi siamo uno;
io in loro, e tu in me; affinché siano perfetti nell'unità, e affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato, e che li ami come hai amato me.
Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché veggano la mia gloria che tu mi hai data; poiché tu mi hai amato avanti la fondazione del mondo.
Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto; e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato;
ed io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, ed io in loro.
'Quanto a te, parla ai figli d'Israele e di' loro: Badate bene d'osservare i miei sabati, perché il sabato è un segno fra me e voi per tutte le vostre generazioni, affinché conosciate che io sono l'Eterno che vi santifica.
Osserverete dunque il sabato, perché è per voi un giorno santo; chi lo profanerà dovrà essere messo a morte; chiunque farà in esso qualche lavoro sarà sterminato di fra il suo popolo.
Si lavorerà sei giorni; ma il settimo giorno è un sabato di solenne riposo, sacro all'Eterno; chiunque farà qualche lavoro nel giorno del sabato dovrà esser messo a morte.
I figli d'Israele quindi osserveranno il sabato, celebrandolo di generazione in generazione come un patto perpetuo.
Esso è un segno perpetuo fra me e i figli d'Israele; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli e la terra, e il settimo giorno cessò di lavorare, e si riposò'.
Quando l'Eterno ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli dette le due tavole della testimonianza, tavole di pietra, scritte col dito di Dio.
Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
Abramo partì, come il Signore gli aveva detto, e Lot andò con lui. Abramo aveva settantacinque anni quando partì da Caran.
Abramo prese Sarai sua moglie e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che possedevano e le persone che avevano acquistate in Caran, e partirono verso il paese di Canaan.
Giunsero così nella terra di Canaan, e Abramo attraversò il paese fino alla località di Sichem, fino alla quercia di More. In quel tempo i Cananei erano nel paese.
Il Signore apparve ad Abramo e disse: «Io darò questo paese alla tua discendenza». Lì Abramo costruì un altare al Signore che gli era apparso.
Di là si spostò verso la montagna a oriente di Betel, e piantò le sue tende, avendo Betel a occidente e Ai ad oriente; lì costruì un altare al Signore e invocò il nome del Signore.
MARCO 10
Mentre Gesù usciva per la via, un tale accorse e, inginocchiatosi davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?»
Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio.
Tu sai i comandamenti: "Non uccidere; non commettere adulterio; non rubare; non dire falsa testimonianza; non frodare nessuno; onora tuo padre e tua madre"».
Ed egli rispose: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia gioventù».
Gesù, guardatolo, l'amò e gli disse: «Una cosa ti manca! Va', vendi tutto ciò che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi».
Ma egli, rattristato da quella parola, se ne andò dolente, perché aveva molti beni.
Gesù, guardatosi attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno delle ricchezze entreranno nel regno di Dio!»
I discepoli si stupirono di queste sue parole. E Gesù replicò loro: «Figlioli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!
È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio».
Ed essi sempre più stupiti dicevano tra di loro: «Chi dunque può essere salvato?»
Gesù fissò lo sguardo su di loro e disse: «Agli uomini è impossibile, ma non a Dio; perché ogni cosa è possibile a Dio».
Pietro gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito».
Gesù rispose: «In verità vi dico che non vi è nessuno che abbia lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi, per amor mio e per amor del vangelo,
il quale ora, in questo tempo, non ne riceva cento volte tanto: case, fratelli, sorelle, madri, figli, campi, insieme a persecuzioni e, nel secolo a venire, la vita eterna.
Ma molti primi saranno ultimi e molti ultimi primi».
PROVERBI 10
Quel che fa ricchi è la benedizione dell'Eterno e il tormento che uno si dà non le aggiunge nulla.
Allora alcuni degli scribi e dei Farisei presero a dirgli: Maestro, noi vorremmo vederti operare un segno.
Ma egli rispose loro: Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona.
Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così starà il Figliuol dell'uomo nel cuor della terra tre giorni e tre notti.
I Niniviti risorgeranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno, perché essi si ravvidero alla predicazione di Giona; ed ecco qui vi è più che Giona!
GIONA
Capitolo 1
La parola dell'Eterno fu rivolta a Giona, figliuolo di Amittai, in questi termini:
'Lèvati, va' a Ninive, la gran città, e predica contro di lei; perché la loro malvagità è salita nel mio cospetto'.
Ma Giona si levò per fuggirsene a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno; e scese a Giaffa, dove trovò una nave che andava a Tarsis; e, pagato il prezzo del suo passaggio, s'imbarcò per andare con quei della nave a Tarsis, lungi dal cospetto dell'Eterno.
Ma l'Eterno scatenò un gran vento sul mare, e vi fu sul mare una forte tempesta, sì che la nave minacciava di sfasciarsi.
I marinai ebbero paura, e ognuno gridò al suo dio e gettarono a mare le mercanzie ch'erano a bordo, per alleggerire la nave; ma Giona era sceso nel fondo della nave, s'era coricato, e dormiva profondamente.
Il capitano gli si avvicinò, e gli disse: 'Che fai tu qui a dormire? Lèvati, invoca il tuo dio! Forse Dio si darà pensiero di noi, e non periremo'.
Poi dissero l'uno all'altro: 'Venite, tiriamo a sorte, per sapere a cagione di chi ci capita questa disgrazia'. Tirarono a sorte, e la sorte cadde su Giona.
Allora essi gli dissero: 'Dicci dunque a cagione di chi ci capita questa disgrazia! Qual è la tua occupazione? donde vieni? qual è il tuo paese? e a che popolo appartieni?'
Egli rispose loro: 'Sono Ebreo, e temo l'Eterno, l'Iddio del cielo, che ha fatto il mare e la terra ferma'.
Allora quegli uomini furon presi da grande spavento, e gli dissero: 'Perché hai fatto questo?' Poiché quegli uomini sapevano ch'egli fuggiva lungi dal cospetto dell'Eterno, giacché egli avea dichiarato loro la cosa.
E quelli gli dissero: 'Che ti dobbiam fare perché il mare si calmi per noi?' Poiché il mare si faceva sempre più tempestoso.
Egli rispose loro: 'Pigliatemi e gettatemi in mare, e il mare si calmerà per voi; perché io so che questa forte tempesta vi piomba addosso per cagion mia'.
Nondimeno quegli uomini davan forte nei remi per ripigliar terra; ma non potevano, perché il mare si faceva sempre più tempestoso e minaccioso.
Allora gridarono all'Eterno, e dissero: 'Deh, o Eterno, non lasciar che periamo per risparmiar la vita di quest'uomo, e non ci mettere addosso del sangue innocente; perché tu, o Eterno, hai fatto quel che ti è piaciuto'.
Poi presero Giona e lo gettarono in mare; e la furia del mare si calmò.
E quegli uomini furon presi da un gran timore dell'Eterno; offrirono un sacrifizio all'Eterno, e fecero dei voti.
Capitolo 4
Ma Giona ne provò un gran dispiacere, e ne fu irritato; e pregò l'Eterno, dicendo:
'O Eterno, non è egli questo ch'io dicevo, mentr'ero ancora nel mio paese? Perciò m'affrettai a fuggirmene a Tarsis; perché sapevo che sei un Dio misericordioso, pietoso, lento all'ira, di gran benignità, e che ti penti del male minacciato.
Or dunque, o Eterno, ti prego, riprenditi la mia vita; poiché per me val meglio morire che vivere'.
E l'Eterno gli disse: 'Fai tu bene a irritarti così?'
Poi Giona uscì dalla città, e si mise a sedere a oriente della città; si fece quivi una capanna, e vi sedette sotto, all'ombra, stando a vedere quello che succederebbe alla città.
E Dio, l'Eterno, per guarirlo della sua irritazione, fece crescere un ricino, che montò su di sopra a Giona per fargli ombra al capo; e Giona provò una grandissima gioia a motivo di quel ricino.
Ma l'indomani, allo spuntar dell'alba, Iddio fece venire un verme, il quale attaccò il ricino, ed esso si seccò.
E come il sole fu levato, Iddio fece soffiare un vento soffocante d'oriente, e il sole picchiò sul capo di Giona, sì ch'egli venne meno, e chiese di morire, dicendo: 'Meglio è per me morire che vivere'.
E Dio disse a Giona: 'Fai tu bene a irritarti così a motivo del ricino?' Egli rispose: 'Sì, faccio bene a irritarmi fino alla morte'.
E l'Eterno disse: 'Tu hai pietà del ricino per il quale non hai faticato, e che non hai fatto crescere, che è nato in una notte e in una notte è perito:
e io non avrei pietà di Ninive, la gran città, nella quale si trovano più di centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e tanta quantità di bestiame?'
Il Signore è la mia luce e la mia salvezza; di chi temerò? Il Signore è il baluardo della mia vita; di chi avrò paura?
Quando i malvagi, che mi sono avversari e nemici, mi hanno assalito per divorarmi, essi stessi hanno vacillato e sono caduti.
Se un esercito si accampasse contro di me, il mio cuore non avrebbe paura; se infuriasse la battaglia contro di me, anche allora sarei fiducioso.
Una cosa ho chiesto al Signore, e quella ricerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per contemplare la bellezza del Signore, e meditare nel suo tempio.
Poich'egli mi nasconderà nella sua tenda in giorno di sventura, mi custodirà nel luogo più segreto della sua dimora, mi porterà in alto sopra una roccia.
E ora la mia testa s'innalza sui miei nemici che mi circondano. Offrirò nella sua dimora sacrifici con gioia; canterò e salmeggerò al Signore.
O Signore, ascolta la mia voce quando t'invoco; abbi pietà di me, e rispondimi.
Il mio cuore mi dice da parte tua: «Cercate il mio volto!» Io cerco il tuo volto, o Signore.
Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo;tu sei stato il mio aiuto; non lasciarmi, non abbandonarmi, o Dio della mia salvezza!
Qualora mio padre e mia madre m'abbandonino, il Signore mi accoglierà.
O Signore, insegnami la tua via, guidami per un sentiero diritto, a causa dei miei nemici.
Non darmi in balìa dei miei nemici; perché sono sorti contro di me falsi testimoni, gente che respira violenza.
Ah, se non avessi avuto fede di veder la bontà del Signore sulla terra dei viventi!
Spera nel Signore! Sii forte, il tuo cuore si rinfranchi; sì, spera nel Signore!
Or essendo Gesù nato in Betleem di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
Dov'è il re de' Giudei che è nato? Poiché noi abbiam veduto la sua stella in Oriente e siam venuti per adorarlo.
Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
E radunati tutti i capi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
Ed essi gli dissero: In Betleem di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
E tu, Betleem, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
e mandandoli a Betleem, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima allegrezza.
Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.
GIOVANNI 18
Poi, da Caiàfa, menarono Gesù nel pretorio. Era mattina, ed essi non entrarono nel pretorio per non contaminarsi e così poter mangiare la pasqua.
Pilato dunque uscì fuori verso di loro, e domandò: Quale accusa portate contro quest'uomo?
Essi risposero e gli dissero: Se costui non fosse un malfattore, non te lo avremmo dato nelle mani.
Pilato quindi disse loro: Pigliatelo voi, e giudicatelo secondo la vostra legge. I Giudei gli dissero: A noi non è lecito far morire alcuno.
E ciò affinché si adempisse la parola che Gesù aveva detta, significando di qual morte doveva morire.
Pilato dunque rientrò nel pretorio; chiamò Gesù e gli disse: Sei tu il Re dei Giudei?
Gesù gli rispose: Dici tu questo di tuo, oppure altri te l'hanno detto di me?
Pilato gli rispose: Son io forse giudeo? La tua nazione e i capi sacerdoti t'hanno messo nelle mie mani; che hai fatto?
Gesù rispose: il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perch'io non fossi dato in mano dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui.
Allora Pilato gli disse: Ma dunque, sei tu re? Gesù rispose: Tu lo dici; io sono re; io sono nato per questo, e per questo son venuto nel mondo, per testimoniare della verità. Chiunque è per la verità ascolta la mia voce.
Pilato gli disse: Che cos'è verità? E detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei, e disse loro: Io non trovo alcuna colpa in lui.
Ma voi avete l'usanza ch'io vi liberi uno per la Pasqua; volete dunque che vi liberi il Re de' Giudei?
Allora gridaron di nuovo: Non costui, ma Barabba! Or Barabba era un ladrone.
Parole dell'Ecclesiaste, figlio di Davide, re di Gerusalemme.
Vanità delle vanità, dice l'Ecclesiaste, vanità delle vanità, tutto è vanità.
Che profitto ha l'uomo di tutta la fatica che sostiene sotto il sole?
Una generazione se ne va, un'altra viene, e la terra sussiste per sempre.
Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo.
Il vento soffia verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri.
Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre.
Ogni cosa è in travaglio, più di quanto l'uomo possa dire; l'occhio non si sazia mai di vedere e l'orecchio non è mai stanco di udire.
Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c'è nulla di nuovo sotto il sole.
C'è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questo è nuovo?» Quella cosa esisteva già nei secoli che ci hanno preceduto.
Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi.
Io, l'Ecclesiaste, sono stato re d'Israele a Gerusalemme,
e ho applicato il cuore a cercare e a investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo: occupazione penosa, che Dio ha data ai figli degli uomini perché vi si affatichino.
Io ho visto tutto ciò che si fa sotto il sole: ed ecco tutto è vanità, è un correre dietro al vento.
Ciò che è storto non può essere raddrizzato, ciò che manca non può essere contato.
Io ho detto, parlando in cuor mio: «Ecco io ho acquistato maggiore saggezza di tutti quelli che hanno regnato prima di me a Gerusalemme; sì, il mio cuore ha posseduto molta saggezza e molta scienza».
Ho applicato il cuore a conoscere la saggezza, e a conoscere la follia e la stoltezza; ho riconosciuto che anche questo è un correre dietro al vento.
Infatti, dov'è molta saggezza c'è molto affanno, e chi accresce la sua scienza accresce il suo dolore.
ECCLESIASTE 2
Io ho detto in cuor mio: «Andiamo! Ti voglio mettere alla prova con la gioia, e tu godrai il piacere!» Ed ecco che anche questo è vanità.
Io ho detto del riso: «É una follia»; e della gioia: «A che giova?»
Perciò ho odiato la vita, perché tutto quello che si fa sotto il sole mi è divenuto odioso, poiché tutto è vanità, un correre dietro al vento.
ECCLESIASTE 12
Ascoltiamo dunque la conclusione di tutto il discorso: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto dell'uomo.
1 PIETRO 1
E se invocate come Padre colui che giudica senza favoritismi, secondo l'opera di ciascuno, comportatevi con timore durante il tempo del vostro soggiorno terreno;
sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri,
ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia.
Già designato prima della creazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi;
per mezzo di lui credete in Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria affinché la vostra fede e la vostra speranza fossero in Dio.
Avendo purificato le anime vostre con l'ubbidienza alla verità per giungere a un sincero amor fraterno, amatevi intensamente a vicenda di vero cuore,
perché siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè mediante la parola vivente e permanente di Dio.
Infatti, «ogni carne è come l'erba, e ogni sua gloria come il fiore dell'erba. L'erba diventa secca e il fiore cade;
ma la parola del Signore rimane in eterno». E questa è la parola della buona notizia che vi è stata annunziata.
1 CORINZI 15
Quando poi questo corruttibile avrà rivestito incorruttibilità e questo mortale avrà rivestito immortalità, allora sarà adempiuta la parola che è scritta: «La morte è stata sommersa nella vittoria».
«O morte, dov'è la tua vittoria? O morte, dov'è il tuo dardo?»
Ora il dardo della morte è il peccato, e la forza del peccato è la legge;
ma ringraziato sia Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo.
Perciò, fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.
Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù che sono disperse nel mondo: salute.
Fratelli miei, considerate una grande gioia quando venite a trovarvi in prove svariate,
sapendo che la prova della vostra fede produce costanza.
E la costanza compia pienamente l'opera sua in voi, perché siate perfetti e completi, di nulla mancanti.
Se poi qualcuno di voi manca di saggezza, la chieda a Dio che dona a tutti generosamente senza rinfacciare, e gli sarà data.
Ma la chieda con fede, senza dubitare; perché chi dubita rassomiglia a un'onda del mare, agitata dal vento e spinta qua e là.
Un tale uomo non pensi di ricevere qualcosa dal Signore,
perché è di animo doppio, instabile in tutte le sue vie.
Il fratello di umile condizione sia fiero della sua elevazione;
e il ricco, della sua umiliazione, perché passerà come il fiore dell'erba.
Infatti il sole sorge con il suo calore ardente e fa seccare l'erba, e il suo fiore cade e la sua bella apparenza svanisce; anche il ricco appassirà così nelle sue imprese.
Beato l'uomo che sopporta la prova; perché, dopo averla superata, riceverà la corona della vita, che il Signore ha promessa a quelli che lo amano.
E venuta l'ora sesta, si fecero tenebre per tutto il paese, fino all'ora nona.
E all'ora nona, Gesù gridò con gran voce: Eloì, Eloì, lamà sabactanì? il che, interpretato, vuol dire: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
E alcuni degli astanti, udito ciò, dicevano: Ecco, chiama Elia!
E uno di loro corse, e inzuppata d'aceto una spugna, e postala in cima ad una canna, gli diè da bere dicendo: Aspettate, vediamo se Elia viene a trarlo giù.
E Gesù, gettato un gran grido, rendé lo spirito.
Ed essendo già sera (poiché era Preparazione, cioè la vigilia del sabato),
venne Giuseppe d'Arimatea, consigliere onorato, il quale aspettava anch'egli il Regno di Dio; e, preso ardire, si presentò a Pilato e domandò il corpo di Gesù.
Pilato si meravigliò ch'egli fosse già morto; e chiamato a sé il centurione, gli domandò se era morto da molto tempo;
e saputolo dal centurione, donò il corpo a Giuseppe.
E questi, comprato un panno lino e tratto Gesù giù di croce, l'involse nel panno e lo pose in una tomba scavata nella roccia, e rotolò una pietra contro l'apertura del sepolcro.
ATTI 1
Nel mio primo libro, o Teofilo, parlai di tutto quel che Gesù prese e a fare e ad insegnare,
fino al giorno che fu assunto in cielo, dopo aver dato per lo Spirito Santo dei comandamenti agli apostoli che avea scelto.
Ai quali anche, dopo ch'ebbe sofferto, si presentò vivente con molte prove, facendosi veder da loro per quaranta giorni, e ragionando delle cose relative al regno di Dio.
E trovandosi con essi, ordinò loro di non dipartirsi da Gerusalemme, ma di aspettarvi il compimento della promessa del Padre, la quale, egli disse, avete udita da me.
Poiché Giovanni Battista battezzò sì con acqua, ma voi sarete battezzati con lo Spirito Santo tra non molti giorni.
Quelli dunque che erano radunati, gli domandarono: Signore, è egli in questo tempo che ristabilirai il regno ad Israele?
Egli rispose loro: Non sta a voi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riserbato alla sua propria autorità.
Ma voi riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni e in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all'estremità della terra.
E dette queste cose, mentre essi guardavano, fu elevato; e una nuvola, accogliendolo, lo tolse d'innanzi agli occhi loro.
E come essi aveano gli occhi fissi in cielo, mentr'egli se ne andava, ecco che due uomini in vesti bianche si presentarono loro e dissero:
Uomini Galilei, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù che è stato tolto da voi ed assunto dal cielo, verrà nella medesima maniera che l'avete veduto andare in cielo.
Allora essi tornarono a Gerusalemme dal monte chiamato dell'Uliveto, il quale è vicino a Gerusalemme, non distandone che un cammin di sabato.
E come furono entrati, salirono nella sala di sopra ove solevano trattenersi Pietro e Giovanni e Giacomo e Andrea, Filippo e Toma, Bartolomeo e Matteo, Giacomo d'Alfeo, e Simone lo Zelota, e Giuda di Giacomo.
Tutti costoro perseveravano di pari consentimento nella preghiera, con le donne, e con Maria, madre di Gesù, e coi fratelli di lui.
Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c'era più.
E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere giù dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
E udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo (skene) di Dio con gli uomini! Egli abiterà (skenao) con loro, ed essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio."
Esodo 25
E mi facciano un santuario perch'io abiti (shachan) in mezzo a loro.
Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo (mishchan) e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti.
Esodo 29
Sarà un olocausto perpetuo offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io v'incontrerò per parlare qui con te.
E là io mi troverò coi figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figliuoli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
E abiterò (shachan) in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per abitare (shachan) tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro.
Giovanni 1
E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato (skenao) per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Luca 17
Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà:
"Eccolo qui", o "eccolo là"; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi.
Giovanni 1
Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l'ha conosciuto.
È venuto in casa sua, e i suoi non l'hanno ricevuto:
ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio; a quelli, cioè, che credono nel suo nome.
Matteo 18
Poiché dovunque due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.
1 Corinzi 3
Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?
Se uno guasta il tempio di Dio, Dio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi.
Giovanni 14
Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me!
Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che vado a prepararvi un luogo?
Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi".
Matteo 11:28-30
Venite a me, voi tutti
che siete travagliati ed aggravati,
e io vi darò riposo.
Prendete su voi il mio giogo
ed imparate da me,
perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
e voi troverete riposo alle anime vostre;
poiché il mio giogo è dolce
e il mio carico è leggero.
Or sappi questo: che negli ultimi giorni verranno dei tempi difficili;
perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, irreligiosi,
senza affezione naturale, mancatori di fede, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene,
traditori, temerari, gonfi, amanti del piacere anziché di Dio,
avendo le forme della pietà, ma avendone rinnegata la potenza.
Anche costoro schiva! Poiché del numero di costoro sono quelli che s'insinuano nelle case e cattivano donnicciuole cariche di peccati, e agitate da varie cupidigie,
che imparano sempre e non possono mai pervenire alla conoscenza della verità.
E come Jannè e Iambrè contrastarono a Mosè, così anche costoro contrastano alla verità: uomini corrotti di mente, riprovati quanto alla fede.
Ma non andranno più oltre, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quegli uomini.
Quanto a te, tu hai tenuto dietro al mio insegnamento, alla mia condotta, ai miei propositi, alla mia fede, alla mia pazienza, al mio amore, alla mia costanza,
alle mie persecuzioni, alle mie sofferenze, a quel che mi avvenne ad Antiochia, ad Iconio ed a Listra. Sai quali persecuzioni ho sopportato; e il Signore mi ha liberato da tutte.
E d'altronde tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati;
mentre i malvagi e gli impostori andranno di male in peggio, seducendo ed essendo sedotti.
Ma tu persevera nelle cose che hai imparate e delle quali sei stato accertato, sapendo da chi le hai imparate,
e che fin da fanciullo hai avuto conoscenza degli Scritti sacri, i quali possono renderti savio a salute mediante la fede che è in Cristo Gesù.
Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile ad insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia,
affinché l'uomo di Dio sia compiuto, appieno fornito per ogni opera buona.
Capitolo 4
Io te ne scongiuro nel cospetto di Dio e di Cristo Gesù che ha da giudicare i vivi e i morti, e per la sua apparizione e per il suo regno:
Predica la Parola, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, sgrida, esorta con grande pazienza e sempre istruendo.
Perché verrà il tempo che non sopporteranno la sana dottrina; ma per prurito d'udire si accumuleranno dottori secondo le loro proprie voglie
e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole.
Ma tu sii vigilante in ogni cosa, soffri afflizioni, fa' l'opera d'evangelista, compi tutti i doveri del tuo ministero.
La figura di Giobbe viene di solito messa in relazione con il problema della sofferenza. Dallo studio del libro su cui si basa la seguente predicazione emerge invece che langoscioso tormento in cui si dibatte Giobbe non è dovuto allinesplicabilità del problema della sofferenza, ma al crollo di un pilastro che aveva sostenuto fino a quel momento la sua vita: la fede nella giustizia di Dio. Le buone parole con cui i suoi amici cercano di metterlo sulla buona strada lo spingono sempre di più sul ciglio di un baratro in cui corre il rischio di cadere e perdersi definitivamente: il pensiero di essere più giusto di Dio.
Marcello Cicchese
novembre 2018
Testo delle letture
1.6 Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
7 E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal passeggiar per essa'.
8 E l'Eterno disse a Satana: 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male'.
9 E Satana rispose all'Eterno: 'È egli forse per nulla che Giobbe teme Iddio?
10 Non l'hai tu circondato d'un riparo, lui, la sua casa, e tutto quello che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani, e il suo bestiame ricopre tutto il paese.
11 Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
12 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene! tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona'. - E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno.
1.20 Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello e si rase il capo e si prostrò a terra e adorò e disse:
21 'Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno'.
22 In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di mal fatto.
2.E l'Eterno disse a Satana:
3 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità benché tu m'abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo'.
4 E Satana rispose all'Eterno: 'Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita;
5 ma stendi un po' la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
6 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene esso è in tuo potere; soltanto, rispetta la sua vita'.
7 E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno e colpì Giobbe d'un'ulcera maligna dalla pianta de' piedi al sommo del capo; e Giobbe prese un còccio per grattarsi, e stava seduto nella cenere.
8 E sua moglie gli disse: 'Ancora stai saldo nella tua integrità?
9 Ma lascia stare Iddio, e muori!'
10 E Giobbe a lei: 'Tu parli da donna insensata! Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo d'accettare il male?' - In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.
3.1 Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita.
2 E prese a dire così:
3 «Perisca il giorno ch'io nacqui e la notte che disse: 'È concepito un maschio!'
4 Quel giorno si converta in tenebre, non se ne curi Iddio dall'alto, né splenda sovr'esso raggio di luce!
5 Se lo riprendano le tenebre e l'ombra di morte, resti sovr'esso una fitta nuvola, le eclissi lo riempiano di paura!
3.11 Perché non morii nel seno di mia madre? Perché non spirai appena uscito dalle sue viscere?
12 Perché trovai delle ginocchia per ricevermi e delle mammelle da poppare?
20 Perché dar la luce all'infelice e la vita a chi ha l'anima nell'amarezza,
23 Perché dar vita a un uomo la cui via è oscura, e che Dio ha stretto in un cerchio?
9.20 Fossi pur giusto, la mia bocca stessa mi condannerebbe; fossi pure integro, essa mi farebbe dichiarar perverso.
21 Integro! Sì, lo sono! di me non mi preme, io disprezzo la vita!
22 Per me è tutt'uno! perciò dico: 'Egli distrugge ugualmente l'integro ed il malvagio.
23 Se un flagello, a un tratto, semina la morte, egli ride dello sgomento degli innocenti.
24 La terra è data in balìa dei malvagi; egli vela gli occhi ai giudici di essa; se non è lui, chi è dunque'?
19.5 Ma se proprio volete insuperbire contro di me e rimproverarmi la vergogna in cui mi trovo,
6 allora sappiatelo: chi m'ha fatto torto e m'ha avvolto nelle sue reti è Dio.
7 Ecco, io grido: 'Violenza!' e nessuno risponde; imploro aiuto, ma non c'è giustizia!
24.12 Sale dalle città il gemito dei morenti; l'anima de' feriti implora aiuto, e Dio non si cura di codeste infamie!
24.22 Iddio con la sua forza prolunga i giorni dei prepotenti, i quali risorgono, quand'ormai disperavano della vita.
24.25 Se così non è, chi mi smentirà, chi annienterà il mio dire?
27.5 Lungi da me l'idea di darvi ragione! Fino all'ultimo respiro non mi lascerò togliere la mia integrità.
6 Ho preso a difendere la mia giustizia e non cederò; il cuore non mi rimprovera uno solo dei miei giorni.
31.35 Oh, avessi pure chi m'ascoltasse!... ecco qua la mia firma! l'Onnipotente mi risponda! Scriva l'avversario mio la sua querela,
36 ed io la porterò attaccata alla mia spalla, me la cingerò come un diadema!
37 Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe!
1.6 Or avvenne un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
16.19 Già fin d'ora, ecco, il mio Testimonio è in cielo, il mio Garante è nei luoghi altissimi.
20 Gli amici mi deridono, ma a Dio si volgon piangenti gli occhi miei;
21 sostenga egli le ragioni dell'uomo presso Dio, le ragioni del figlio dell'uomo contro i suoi compagni!
19.25 Ma io so che il mio Vendicatore vive, e che alla fine si leverà sulla polvere.
26 E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Iddio.
27 Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno gli occhi miei, non quelli d'un altro... il cuore, dalla brama, mi si strugge in seno!
9.32 Dio non è un uomo come me, perch'io gli risponda e che possiam comparire in giudizio assieme.
33 Non c'è fra noi un arbitro, che posi la mano su tutti e due!
42.7 Dopo che ebbe rivolto questi discorsi a Giobbe, l'Eterno disse a Elifaz di Teman: 'L'ira mia è accesa contro te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe.
32.1 Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe perché egli si credeva giusto.
2 Allora l'ira di Elihu, figliuolo di Barakeel il Buzita, della tribù di Ram, s'accese:
3 s'accese contro Giobbe, perché riteneva giusto se stesso anziché Dio; s'accese anche contro i tre amici di lui perché non avean trovato che rispondere, sebbene condannassero Giobbe.
32.13 Non avete dunque ragione di dire: 'Abbiam trovato la sapienza! Dio soltanto lo farà cedere; non l'uomo!'
14 Egli non ha diretto i suoi discorsi contro a me, ed io non gli risponderò colle vostre parole.
33.1 Ma pure, ascolta, o Giobbe, il mio dire, porgi orecchio a tutte le mie parole!
2 Ecco, apro la bocca, la lingua parla sotto il mio palato.
3 Nelle mie parole è la rettitudine del mio cuore; e le mie labbra diran sinceramente quello che so.
4 Lo spirito di Dio mi ha creato, e il soffio dell'Onnipotente mi dà la vita.
5 Se puoi, rispondimi; prepara le tue ragioni, fatti avanti!
6 Ecco, io sono uguale a te davanti a Dio; anch'io, fui tratto dall'argilla.
7 Spavento di me non potrà quindi sgomentarti, e il peso della mia autorità non ti potrà schiacciare.
8 Davanti a me tu dunque hai detto (e ho bene udito il suono delle tue parole):
9 'Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c'è iniquità in me;
10 ma Dio trova contro me degli appigli ostili, mi tiene per suo nemico;
11 mi mette i piedi nei ceppi, spia tutti i miei movimenti'.
12 E io ti rispondo: In questo non hai ragione; giacché Dio è più grande dell'uomo.
13 Perché contendi con lui? poich'egli non rende conto d'alcuno dei suoi atti.
14 Iddio parla, bensì, una volta ed anche due, ma l'uomo non ci bada;
15 parla per via di sogni, di visioni notturne, quando un sonno profondo cade sui mortali, quando sui loro letti essi giacciono assopiti;
16 allora egli apre i loro orecchi e dà loro in segreto degli ammonimenti,
17 per distoglier l'uomo dal suo modo d'agire e tener lungi da lui la superbia;
18 per salvargli l'anima dalla fossa, la vita dal dardo mortale.
19 L'uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore, dall'agitazione incessante delle sue ossa;
20 quand'egli ha in avversione il pane, e l'anima sua schifa i cibi più squisiti;
21 la carne gli si consuma, e sparisce, mentre le ossa, prima invisibili, gli escon fuori,
22 l'anima sua si avvicina alla fossa, e la sua vita a quelli che danno la morte.
23 Ma se, presso a lui, v'è un angelo, un interprete, uno solo fra i mille, che mostri all'uomo il suo dovere,
24 Iddio ha pietà di lui e dice: 'Risparmialo, che non scenda nella fossa! Ho trovato il suo riscatto'.
25 Allora la sua carne divien fresca più di quella d'un bimbo; egli torna ai giorni della sua giovinezza;
26 implora Dio, e Dio gli è propizio; gli dà di contemplare il suo volto con giubilo, e lo considera di nuovo come giusto.
27 Ed egli va cantando fra la gente e dice: 'Avevo peccato, pervertito la giustizia, e non sono stato punito come meritavo.
28 Iddio ha riscattato l'anima mia, onde non scendesse nella fossa e la mia vita si schiude alla luce!'
29 Ecco, tutto questo Iddio lo fa due, tre volte, all'uomo,
30 per ritrarre l'anima di lui dalla fossa, perché su di lei splenda la luce della vita.
31 Sta' attento, Giobbe, dammi ascolto; taci, ed io parlerò.
32 Se hai qualcosa da dire, rispondi, parla, ché io vorrei poterti dar ragione. 33 Se no, tu dammi ascolto, taci, e t'insegnerò la saviezza».
34.29 Quando Iddio dà requie chi lo condannerà? Chi potrà contemplarlo quando nasconde il suo volto a una nazione ovvero a un individuo,
30 per impedire all'empio di regnare, per allontanar dal popolo le insidie?
31 Quell'empio ha egli detto a Dio: 'Io porto la mia pena, non farò più il male,
32 mostrami tu quel che non so vedere; se ho agito perversamente, non lo farò più'?
33 Dovrà forse Iddio render la giustizia a modo tuo, che tu lo critichi? Ti dirà forse: 'Scegli tu, non io, quello che sai, dillo'?
34 La gente assennata e ogni uomo savio che m'ascolta, mi diranno:
35 'Giobbe parla senza giudizio, le sue parole sono senza intendimento'.
36 Ebbene, sia Giobbe provato sino alla fine! poiché le sue risposte son quelle degli iniqui, 37 poiché aggiunge al peccato suo la ribellione, batte le mani in mezzo a noi, e moltiplica le sue parole contro Dio».
35.9 Si grida per le molte oppressioni, si levano lamenti per la violenza dei grandi;
10 ma nessuno dice: 'Dov'è Dio, il mio creatore, che nella notte concede canti di gioia,
11 che ci fa più intelligenti delle bestie de' campi e più savi degli uccelli del cielo?'
12 Si grida, sì, ma egli non risponde, a motivo della superbia dei malvagi.
13 Certo, Dio non dà ascolto a lamenti vani; l'Onnipotente non ne fa nessun conto.
14 E tu, quando dici che non lo scorgi, la causa tua gli sta dinanzi; sappilo aspettare!
15 Ma ora, perché la sua ira non punisce, perch'egli non prende rigorosa conoscenza delle trasgressioni,
16 Giobbe apre vanamente le labbra e accumula parole senza conoscimento».
36.8 Se gli uomini son talora stretti da catene, se son presi nei legami dell'afflizione,
9 Dio fa lor conoscere la lor condotta, le loro trasgressioni, giacché si sono insuperbiti;
10 egli apre così i loro orecchi a' suoi ammonimenti, e li esorta ad abbandonare il male.
11 Se l'ascoltano, se si sottomettono, finiscono i loro giorni nel benessere, e gli anni loro nella gioia;
12 ma, se non l'ascoltano, periscono trafitti da' suoi dardi, muoiono per mancanza d'intendimento.
13 Gli empi di cuore s'abbandonano alla collera, non implorano Iddio quand'egli li incatena;
14 così muoiono nel fiore degli anni, e la loro vita finisce come quella dei dissoluti;
15 ma Dio libera l'afflitto mediante l'afflizione, e gli apre gli orecchi mediante la sventura.
16 Te pure ti vuole trarre dalle fauci della distretta, al largo, dove non è più angustia, e coprire la tua mensa tranquilla di cibi succulenti.
17 Ma, se giudichi le vie di Dio come fanno gli empi, il giudizio e la sentenza di lui ti piomberanno addosso.
18 Bada che la collera non ti trasporti alla bestemmia, e la grandezza del riscatto non t'induca a fuorviare!
37.1 A tale spettacolo il cuor mi trema e balza fuor del suo luogo.
2 Udite, udite il fragore della sua voce, il rombo che esce dalla sua bocca!
3 Egli lo lancia sotto tutti i cieli e il suo lampo guizza fino ai lembi della terra.
4 Dopo il lampo, una voce rugge; egli tuona con la sua voce maestosa; e quando s'ode la voce, il fulmine non è già più nella sua mano.
5 Iddio tuona con la sua voce maravigliosamente; grandi cose egli fa che noi non intendiamo.
38.1 Allora l'Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
2 «Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?»
42.1 Allora Giobbe rispose all'Eterno e disse:
2 «Io riconosco che tu puoi tutto, e che nulla può impedirti d'eseguire un tuo disegno.
3 Chi è colui che senza intendimento offusca il tuo disegno?... Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo; son cose per me troppo maravigliose ed io non le conosco.
4 Deh, ascoltami, io parlerò; io ti farò delle domande e tu insegnami!
5 Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l'occhio mio t'ha veduto.
6 Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere».
42.12 E l'Eterno benedì gli ultimi anni di Giobbe più de' primi.
42.16 Giobbe, dopo questo, visse centoquarant'anni, e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione.
17 Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni.
Ed avvenne che, trovandosi egli in una di quelle città, ecco un uomo pieno di lebbra, il quale, veduto Gesù e gettatosi con la faccia a terra, lo pregò dicendo: Signore, se tu vuoi, tu puoi purificarmi.
Ed egli, stesa la mano, lo toccò dicendo: Lo voglio, sii purificato. E in quell'istante la lebbra sparì da lui.
E Gesù gli comandò di non dirlo a nessuno: Ma va', gli disse, mostrati al sacerdote ed offri per la tua purificazione quel che ha prescritto Mosè; e ciò serva loro di testimonianza.
Però la fama di lui si spandeva sempre più; e molte turbe si adunavano per udirlo ed essere guarite delle loro infermità.
Giovanni 14:27
Io vi lascio pace; vi do la mia pace.
Io non vi do come il mondo dà.
Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti.
Giovanni 16:33
Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me.
Nel mondo avrete tribolazione;
ma fatevi animo, io ho vinto il mondo.
Matteo 11:28-30
Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati,
e io vi darò riposo.
Prendete su voi il mio giogo ed imparate da me,
perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
e voi troverete riposo alle anime vostre;
poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero.
Solo in Dio l'anima mia s'acqueta;
da lui viene la mia salvezza.
Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza,
il mio alto ricetto; io non sarò grandemente smosso.
Fino a quando vi avventerete sopra un uomo
e cercherete tutti insieme di abbatterlo
come una parete che pende,
come un muricciuolo che cede?
Essi non pensano che a farlo cadere dalla sua altezza;
prendono piacere nella menzogna;
benedicono con la bocca,
ma internamente maledicono. Sela.
Anima mia, acquétati in Dio solo,
poiché da lui viene la mia speranza.
Egli solo è la mia ròcca e la mia salvezza;
egli è il mio alto ricetto; io non sarò smosso.
In Dio è la mia salvezza e la mia gloria;
la mia forte ròcca e il mio rifugio sono in Dio.
Confida in lui ogni tempo, o popolo;
espandi il tuo cuore nel suo cospetto;
Dio è il nostro rifugio. Sela.
Gli uomini del volgo non sono che vanità,
e i nobili non sono che menzogna;
messi sulla bilancia vanno su,
tutti assieme sono più leggeri della vanità.
Non confidate nell'oppressione,
e non mettete vane speranze nella rapina;
se le ricchezze abbondano, non vi mettete il cuore.
Dio ha parlato una volta,
due volte ho udito questo:
Che la potenza appartiene a Dio;
e a te pure, o Signore, appartiene la misericordia;
perché tu renderai a ciascuno secondo le sue opere.
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Perché te ne stai lontano, senza soccorrermi,
senza dare ascolto alle parole del mio gemito?
Dio mio, io grido di giorno, e tu non rispondi;
di notte ancora, e non ho posa alcuna.
Eppure tu sei il Santo,
che siedi circondato dalle lodi d'Israele.
I nostri padri confidarono in te;
e tu li liberasti.
Gridarono a te, e furono salvati;
confidarono in te, e non furono confusi.
Ma io sono un verme e non un uomo;
il vituperio degli uomini, e lo sprezzato dal popolo.
Chiunque mi vede si fa beffe di me;
allunga il labbro, scuote il capo, dicendo:
Ei si rimette nell'Eterno; lo liberi dunque;
lo salvi, poiché lo gradisce!
Sì, tu sei quello che m'hai tratto dal seno materno;
m'hai fatto riposar fidente sulle mammelle di mia madre.
A te fui affidato fin dalla mia nascita,
tu sei il mio Dio fin dal seno di mia madre.
Non t'allontanare da me, perché l'angoscia è vicina,
e non v'è alcuno che m'aiuti.
Grandi tori m'han circondato;
potenti tori di Basan m'hanno attorniato;
apron la loro gola contro a me,
come un leone rapace e ruggente.
Io son come acqua che si sparge,
e tutte le mie ossa si sconnettono;
il mio cuore è come la cera,
si strugge in mezzo alle mie viscere.
Il mio vigore s'inaridisce come terra cotta,
e la lingua mi s'attacca al palato;
tu m'hai posto nella polvere della morte.
Poiché cani m'han circondato;
uno stuolo di malfattori m'ha attorniato;
m'hanno forato le mani e i piedi.
Posso contare tutte le mie ossa.
Essi mi guardano e m'osservano;
spartiscon fra loro i miei vestimenti
e tirano a sorte la mia veste.
Tu dunque, o Eterno, non allontanarti,
tu che sei la mia forza, t'affretta a soccorrermi.
Libera l'anima mia dalla spada,
l'unica mia, dalla zampa del cane;
salvami dalla gola del leone.
Tu mi risponderai liberandomi dalle corna dei bufali.
Io annunzierò il tuo nome ai miei fratelli,
ti loderò in mezzo all'assemblea.
O voi che temete l'Eterno, lodatelo!
Glorificatelo voi, tutta la progenie di Giacobbe,
e voi tutta la progenie d'Israele, abbiate timor di lui!
Poich'egli non ha sprezzata
né disdegnata l'afflizione dell'afflitto,
e non ha nascosta la sua faccia da lui;
ma quand'ha gridato a lui, ei l'ha esaudito.
Tu sei l'argomento della mia lode nella grande assemblea;
io adempirò i miei voti in presenza di quelli che ti temono.
Gli umili mangeranno e saranno saziati;
quei che cercano l'Eterno lo loderanno;
il loro cuore vivrà in perpetuo.
Tutte le estremità della terra si ricorderan dell'Eterno
e si convertiranno a lui;
e tutte le famiglie delle nazioni adoreranno nel tuo cospetto.
Poiché all'Eterno appartiene il regno,
ed egli signoreggia sulle nazioni.
Tutti gli opulenti della terra mangeranno e adoreranno;
tutti quelli che scendon nella polvere
e non posson mantenersi in vita s'inginocchieranno dinanzi a lui.
La posterità lo servirà;
si parlerà del Signore alla ventura generazione.
31 Essi verranno e proclameranno la sua giustizia,
e al popolo che nascerà diranno come egli ha operato.
E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
'E tu, figlio d'uomo, così parla il Signore, l'Eterno, riguardo al paese d'Israele: La fine! la fine viene sulle quattro estremità del paese!
Ora ti sovrasta la fine, e io manderò contro di te la mia ira, ti giudicherò secondo la tua condotta, e ti farò ricadere addosso tutte le tue abominazioni.
E l'occhio mio non ti risparmierà, io sarò senza pietà, ti farò ricadere addosso tutta la tua condotta e le tue abominazioni saranno in mezzo a te; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
Ezechiele 8:1-13
E il sesto anno, il quinto giorno del sesto mese, avvenne che, come io stavo seduto in casa mia e gli anziani di Giuda erano seduti in mia presenza, la mano del Signore, dell'Eterno, cadde quivi su me.
Io guardai, ed ecco una figura d'uomo, che aveva l'aspetto del fuoco; dai fianchi in giù pareva di fuoco; e dai fianchi in su aveva un aspetto risplendente, come di terso rame.
Egli stese una forma di mano, e mi prese per una ciocca de' miei capelli; e lo spirito mi sollevò fra terra e cielo, e mi trasportò in visioni divine a Gerusalemme, all'ingresso della porta interna che guarda verso il settentrione, dov'era posto l'idolo della gelosia, che eccita a gelosia.
Ed ecco che quivi era la gloria dell'Iddio d'Israele, come nella visione che avevo avuta nella valle.
Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, alza ora gli occhi verso il settentrione'. Ed io alzai gli occhi verso il settentrione, ed ecco che al settentrione della porta dell'altare, all'ingresso, stava quell'idolo della gelosia.
Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, vedi tu quello che costoro fanno? le grandi abominazioni che la casa d'Israele commette qui, perché io m'allontani dal mio santuario? Ma tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni'.
Ed egli mi condusse all'ingresso del cortile. Io guardai, ed ecco un buco nel muro.
Allora egli mi disse: 'Figlio d'uomo, adesso fora il muro'. E quand'io ebbi forato il muro, ecco una porta.
Ed egli mi disse: 'Entra, e guarda le scellerate abominazioni che costoro commettono qui'.
Io entrai, e guardai: ed ecco ogni sorta di figure di rettili e di bestie abominevoli, e tutti gl'idoli della casa d'Israele dipinti sul muro attorno;
e settanta fra gli anziani della casa d'Israele, in mezzo ai quali era Jaazania, figlio di Shafan, stavano in piedi davanti a quelli, avendo ciascuno un turibolo in mano, dal quale saliva il profumo d'una nuvola d'incenso.
Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, hai tu visto quello che gli anziani della casa d'Israele fanno nelle tenebre, ciascuno nelle camere riservate alle sue immagini? poiché dicono: - L'Eterno non ci vede, l'Eterno ha abbandonato il paese'.
Poi mi disse: 'Tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni che costoro commettono'.
Ezechiele 14:1-11
Or vennero a me alcuni degli anziani d'Israele, e si sedettero davanti a me.
E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
'Figlio d'uomo, questi uomini hanno innalzato i loro idoli nel loro cuore, e si sono messi davanti l'intoppo che li fa cadere nella loro iniquità; come potrei io esser consultato da costoro?
Perciò parla e di' loro: Così dice il Signore, l'Eterno: Chiunque della casa d'Israele innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità, e poi viene al profeta, io, l'Eterno, gli risponderò come si merita per la moltitudine dei suoi idoli,
affin di prendere per il loro cuore quelli della casa d'Israele che si sono alienati da me tutti quanti per i loro idoli.
Perciò di' alla casa d'Israele: Così parla il Signore, l'Eterno: Tornate, ritraetevi dai vostri idoli, stornate le vostre facce da tutte le vostre abominazioni.
Poiché, a chiunque della casa d'Israele o degli stranieri che soggiornano in Israele si separa da me, innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità e poi viene al profeta per consultarmi per suo mezzo, risponderò io, l'Eterno, da me stesso.
Io volgerò la mia faccia contro a quell'uomo, ne farò un segno e un proverbio, e lo sterminerò di mezzo al mio popolo; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
E se il profeta si lascia sedurre e dice qualche parola, io, l'Eterno, sono quegli che avrò sedotto il profeta; e stenderò la mia mano contro di lui, e lo distruggerò di mezzo al mio popolo d'Israele.
E ambedue porteranno la pena della loro iniquità: la pena del profeta sarà pari alla pena di colui che lo consulta,
affinché quelli della casa d'Israele non vadano più errando lungi da me, e non si contaminino più con tutte le loro trasgressioni, e siano invece mio popolo, e io sia il loro Dio, dice il Signore, l'Eterno'.
La pazienza di Dio e la nostra speranza
Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, noi l'aspettiamo con pazienza
(Romani 8.25).
Egli mi fa giacere in verdeggianti paschi, mi guida lungo le acque chete.
Egli mi ristora l'anima, mi conduce per sentieri di giustizia, per amore del suo nome.
Quand'anche camminassi nella valle dell'ombra della morte, io non temerei male alcuno, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga sono quelli che mi consolano.
Tu apparecchi davanti a me la mensa al cospetto dei miei nemici; tu ungi il mio capo con olio; la mia coppa trabocca.
Certo, beni e benignità m'accompagneranno tutti i giorni della mia vita; ed io abiterò nella casa dell'Eterno per lunghi giorni.
Il corpo della nostra umiliazione Siate miei imitatori, fratelli, e riguardate a coloro che camminano secondo l'esempio che avete in noi. Perché molti camminano (ve l'ho detto spesso e ve lo dico anche ora piangendo), da nemici della croce di Cristo; la fine dei quali è la perdizione, il cui dio è il ventre, e la cui gloria è in quel che torna a loro vergogna; gente che ha l'animo alle cose della terra. Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove anche aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, in virtù della potenza per la quale egli può anche sottoporsi ogni cosa.
Filippesi 3:17-21
Il rinnovamento della mente Vi esorto dunque, fratelli, per le compassioni di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, accettevole a Dio, il che è il vostro culto spirituale. e non vi conformate a questo secolo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza qual sia la volontà di Dio, la buona, accettevole e perfetta volontà.
Romani 12:1-2
Preghiera di Mosè, uomo di Dio.
O Signore, tu sei stato per noi un rifugio
di generazione in generazione.
Prima che i monti fossero nati
e che tu avessi formato la terra e il mondo,
da eternità a eternità tu sei Dio.
Tu fai tornare i mortali in polvere
e dici: Ritornate, o figli degli uomini.
Perché mille anni, agli occhi tuoi,
sono come il giorno d'ieri quand'è passato,
e come una veglia nella notte.
Tu li porti via come una piena; sono come un sogno.
Son come l'erba che verdeggia la mattina;
la mattina essa fiorisce e verdeggia,
la sera è segata e si secca.
Poiché noi siamo consumati dalla tua ira,
e siamo atterriti per il tuo sdegno.
Tu metti le nostre iniquità davanti a te,
e i nostri peccati occulti, alla luce della tua faccia.
Tutti i nostri giorni spariscono per il tuo sdegno;
noi finiamo gli anni nostri come un soffio.
I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni;
o, per i più forti, a ottant'anni;
e quel che ne fa l'orgoglio, non è che travaglio e vanità;
perché passa presto, e noi ce ne voliamo via.
Chi conosce la forza della tua ira
e il tuo sdegno secondo il timore che t'è dovuto?
Insegnaci dunque a così contare i nostri giorni,
che acquistiamo un cuore saggio.
Ritorna, o Eterno; fino a quando?
e muoviti a pietà dei tuoi servitori.
Saziaci al mattino della tua benignità,
e noi giubileremo, ci rallegreremo tutti i giorni nostri.
Rallegraci in proporzione dei giorni che ci hai afflitti,
e degli anni che abbiamo sentito il male.
Apparisca l'opera tua a pro dei tuoi servitori,
e la tua gloria sui loro figli.
La grazia del Signore Dio nostro sia sopra noi,
e rendi stabile l'opera delle nostre mani;
sì, l'opera delle nostre mani rendila stabile.
Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa' in essi ogni opera tua; ma il settimo giorno è giorno di riposo, sacro all'Eterno, che è l'Iddio tuo; non fare in esso lavoro alcuno, né tu, né il tuo figlio, né la tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro alle tue porte; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò l'Eterno ha benedetto il giorno del riposo e l'ha santificato.
Nessuno può servire a due padroni; perché o odierà l'uno ed amerà l'altro, o si atterrà all'uno e sprezzerà l'altro. Voi non potete servire a Dio ed a Mammona.
Perciò vi dico: Non siate con ansiosi per la vita vostra di quel che mangerete o di quel che berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito?
Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutrisce. Non siete voi assai più di loro?
E chi di voi può con la sua sollecitudine aggiungere alla sua statura anche un cubito?
E intorno al vestire, perché siete con ansietà solleciti? Considerate come crescono i gigli della campagna; essi non faticano e non filano;
eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro.
Or se Dio riveste in questa maniera l'erba de' campi che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà Egli molto più voi, o gente di poca fede?
Non siate dunque con ansiosi, dicendo: Che mangeremo? che berremo? o di che ci vestiremo?
Poiché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; e il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose.
Ma cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte. 34 Non siate dunque con ansietà solleciti del domani; perché il domani sarà sollecito di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.
Marcello Cicchese
dicembre 2015
Rivolta degli studenti contro Israele! Cosa c'è dietro?
Come mai le principali università degli Stati Uniti, quasi tutte, hanno improvvisamente un problema con Israele? Chi o cosa c'è dietro?
Studenti filo-palestinesi si accampano nel campus della Columbia University per protestare contro le relazioni dell'università con Israele
GERUSALEMME - Cosa vogliono gli studenti? Sono davvero interessati alla giustizia e ai diritti umani dei palestinesi? Si presume che gli studenti siano persone intelligenti. Che ne sappiano di più ed è per questo che salgono sulle barricate per la Palestina? Oppure sono stupidi e non ne hanno idea? Gli studenti sono forse portati per il naso? Due milioni di persone sono morte nella guerra civile in Sudan, e non ci sono state proteste in nessuna delle prestigiose università. Il capo di Stato siriano Assad è responsabile della morte di oltre 500.000 arabi nel suo Paese, milioni sono in fuga, e anche in questo caso gli studenti non hanno invocato una rivolta e non hanno cantato "Siria libera". Saddam Hussein ha ucciso circa un milione di persone sotto il suo governo, e anche in questo caso non ci sono state proteste nelle università americane. Dopo l'attacco giapponese a Pearl Harbor nel 1941, le forze americane uccisero circa 1,5 milioni di giapponesi. Dopo l'11 settembre, l'attacco terroristico islamico al World Trade Center di Manhattan, l'America ha risposto con una guerra contro i terroristi. In Afghanistan sono state uccise più di 400.000 persone. Nessuno ha accusato Washington di genocidio. Da giorni, gli studenti manifestano a favore della Palestina e contro Israele in rinomate università statunitensi, tra cui la Columbia University e la NYU. Più di 100 dimostranti filo-palestinesi sono stati arrestati in violenti scontri in diverse università. I disordini e il caos nei campus statunitensi sono in aumento, con scontri violenti in diverse università importanti, ben oltre la Columbia University, tra cui l'Università del Texas ad Austin, l'Università della California del Sud e l'Università MIT vicino a Boston. Nella notte, l'odio verso Israele è esploso tra gli studenti di tutta la nazione. "Quello che sta accadendo nei campus americani è spaventoso. La folla antisemita ha preso il controllo delle principali università. Chiedono la distruzione di Israele. Attaccano gli studenti ebrei. Attaccano i professori ebrei. Tutto ciò ricorda quello che è successo nelle università tedesche negli anni Trenta. È imperdonabile. Tutto questo deve essere fermato. Deve essere condannato, in modo inequivocabile. Ma questo è esattamente ciò che non è accaduto. La reazione di alcuni presidenti di università è stata vergognosa", ha dichiarato ieri il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu davanti alle telecamere. Quello che sta avvenendo in America è un evento che si è sviluppato lentamente e pazientemente negli ultimi 25 anni e che ora ha raggiunto la maturità. "L'organizzazione principale che guida le manifestazioni e che è responsabile dell'agitazione nei campus universitari è un'organizzazione chiamata Students for Justice in Palestine (SJP). L'SJP è un'estensione della Fratellanza Musulmana radicale negli Stati Uniti e opera nei campus e nelle università con l'obiettivo di promuovere un'agenda favorevole a Hamas e antisemita", afferma il dottor Koby Barda, esperto di storia politica americana e relazioni internazionali e ricercatore senior presso l'Haifa Incubator for Religious Studies dell'Università di Haifa. "Questa cellula studentesca è attiva in più di 200 campus negli Stati Uniti e mira a sensibilizzare l'opinione pubblica sulla Palestina e a marchiare e danneggiare tutto ciò che riguarda gli israeliani e l'ebraismo", ha dichiarato il dottor Barda. "Nel corso degli anni, hanno minimizzato la questione dell'anti-israelismo, sostenendo che si tratta di antisionismo. La loro idea è quella di provocare disordini e creare un ambiente che sostenga la Palestina e le proteste". I Fratelli Musulmani hanno altre sedi negli Stati Uniti, ma il SJP è responsabile delle attività tra gli studenti. "Le università sono il luogo più facile per mobilitarsi rapidamente e realizzare un cambiamento sociale", afferma Barda. Egli fa riferimento a una stretta relazione, che chiama "alleanza verde-rossa" e che è diventata sempre più forte negli ultimi anni. Con questo termine Barda intende la stretta alleanza tra islamisti e marxisti. "È un duo focoso, con un fossato ideologico tra loro, ma scelgono l'intersezione ideologica su cui possono trovare un accordo e sostengono che due minoranze unite possono costituire un programma comune senza essere d'accordo su tutto". Ciò che li unisce è l'odio verso gli ebrei e Israele, nient'altro. 8 ottobre, San Francisco, manifestazione di gioia per il massacro di Hamas. L'oratore: il Prof. Hatem Bezian dell'Università di Berkeley incita la folla allegra e descrive il massacro come il giorno dell'indipendenza palestinese. Il Prof. Bezian è la persona che 23 anni fa, da studente a Berkeley, ha fondato l'organizzazione SJP - Students for Justice for Palestine - che è alla base di quanto sta accadendo ora nel campus. L'SJP è riuscito a motivare migliaia di studenti a protestare in modo aggressivo. Molti non hanno nulla a che fare con il conflitto israelo-palestinese, la maggior parte degli studenti non ha nemmeno una vera idea di questo conflitto. E lo si vede e lo si sente quando gli viene chiesto loro dalle telecamere per cosa stanno protestando. "SJP sfrutta questi ragazzi creando segni e simboli, come l'anguria, che è diventata il simbolo del nazionalismo palestinese grazie ai suoi tre colori: verde, rosso e nero, come la bandiera palestinese. "La kufiya palestinese diventa un capo di abbigliamento obbligatorio, perché tramite TikTok viene fatto sapere quanto sia cool la kufiya durante le proteste. Se vuoi essere cool, devi indossare un berretto. L'SJP motiva questi utili idioti ad agire", afferma la dott.ssa Barda. "Molti di questi studenti di università prestigiose, che hanno tutto il futuro davanti a sé, stanno mettendo a rischio il loro lavoro attuale e futuro e le alte tasse universitarie che i loro genitori pagano per loro, e non capiscono davvero il senso delle loro azioni". Un rapporto del 2022 del Network Contagion Research Institute (NCRI) ha indicato il Qatar come il più grande donatore straniero alle università statunitensi. La ricerca ha rilevato che tra il 2001 e il 2021, 13 miliardi di dollari sono confluiti illegalmente nell'istruzione superiore statunitense, con il Qatar che ha donato un totale di 4,7 miliardi di dollari alle università statunitensi. Sembra che nel corso degli anni le università statunitensi siano state influenzate da Paesi stranieri, in particolare dal denaro del Qatar che ha trasformato le università statunitensi in incubatori di interessi qatarioti. Il regno del Golfo ha versato miliardi nell'istruzione degli studenti americani in cerca di "soft power", ma alcuni sostengono che il denaro promuova anche tendenze anti-israeliane e anti-ebraiche nelle scuole, come SJP. Tra le altre, la Carnegie Mellon University di Pittsburgh ha ricevuto 301 milioni di dollari dal Qatar tra il 2020 e il 2023. La Virginia Commonwealth University ha ricevuto 125 milioni di dollari tra il 2019 e il 2023 e la Georgetown University ha ricevuto 210 milioni di dollari tra il 2015 e il 2023, secondo quanto riportato dal Registro federale statunitense. Secondo un altro rapporto dell'AICE (Arab Funding of American Universities), quattro Stati arabi hanno ricevuto il maggior numero di donazioni tra il 1981 e il 13 ottobre 2023: Qatar (5,7 miliardi di dollari), Arabia Saudita (3,3 miliardi di dollari), Emirati Arabi Uniti (1,4 miliardi di dollari) e Kuwait (1,3 miliardi di dollari). Anche la Cina ha influenzato le università statunitensi con donazioni per un totale di quasi due miliardi di dollari dal 2012. Non sorprende quindi che i giovani siano tutti spaventati quando si parla di Israele e di ebrei. Sono pressati a farlo perché le loro università sono pagate per farlo. Non ha nulla a che fare con la matematica o la giustizia. Non importa quante persone vengono uccise nei Paesi arabi donatori, gli studenti semplicemente non ne hanno idea e vengono presi in giro. È questa la generazione dei nuovi leader negli Stati Uniti? Cosa sanno questi studenti di Hamas? Niente! Difendono un gruppo terroristico sanguinario e si mettono contro Israele. Vediamo questa crescita esponenziale di antisemitismo in tutta l'America e in tutte le società occidentali ogni volta che Israele cerca di difendersi da terroristi genocidi che si nascondono dietro i civili. Ma è Israele che viene falsamente accusato di genocidio, Israele che viene falsamente accusato di fame e di ogni sorta di crimini di guerra. È tutta una grande calunnia. Ma non è una novità. Miliardi di dollari destinati alle università americane sono utilizzati per distorcere e riscrivere la verità contro Israele. Il risultato lo vediamo oggi nei campus universitari e questo influenzerà la politica americana in futuro. Se questo è il livello degli studenti americani, allora mi dispiace per gli Stati Uniti d'America. Gli Stati Uniti stanno lentamente perdendo il loro DNA cristiano. Ecco perché Bibi ha fatto appello alle persone all'estero: "Ora è importante che tutti noi che siamo interessati e sosteniamo i nostri valori e la nostra civiltà ci alziamo insieme e diciamo basta. Dobbiamo porre fine all'antisemitismo, perché l'antisemitismo è il canarino nella miniera di carbone. Precede incendi sempre più vasti che coinvolgono il mondo intero. Chiedo quindi a tutti voi, ebrei e non ebrei, che avete a cuore il nostro futuro comune e i nostri valori comuni, di fare una cosa: Alzatevi, parlate, fate sentire la vostra voce. Fermate l'antisemitismo ora".
(Israel Heute, 26 aprile 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
L’antisemitismo digitale in Australia. Intervista ad Andre Oboler
di Nathan Greppi
Dopo il 7 ottobre, in tutto il mondo la diffusione dell’antisemitismo ha raggiunto livelli che in alcuni casi non si vedevano dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Questo odio è stato alimentato in modo particolare dalla galassia dei social, dove istigazione all’odio, notizie false e teorie complottiste circolano indisturbate. Esemplare in tal senso ciò che è avvenuto il 16 aprile a Sidney, in Australia, dove sei persone sono state uccise a coltellate. In seguito, sui social si diffuse una bufala secondo cui l’aggressore fosse uno studente ebreo di nome Benjamin Cohen, ripresa anche dall’emittente televisiva australiana 7News. In breve tempo però è emerso che il vero assalitore era un quarantenne di nome Joel Cauchi, ma nel frattempo l’accusa contro Cohen era stata rimbalzata su decine di migliaia di post e sdoganata anche da una grossa emittente, la quale si scusò pubblicamente per la disinformazione veicolata. Per capire la portata del fenomeno in Australia, dove nel 2023 la popolazione ebraica risultava essere sopra le 117.000 persone, abbiamo parlato con Andre Oboler: esperto di odio in rete e già docente di cybersicurezza alla La Trobe University di Melbourne, è il presidente dell’OHPI (Online Hate Prevention Institute), istituto di ricerca per il contrasto dell’odio online, nonché membro della delegazione australiana presso l’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance).
- Quale era il livello di antisemitismo presente in Australia prima del 7 ottobre? Guardando nello specifico ai social network, in Australia vi era già una massa consistente di contenuti antisemiti, che le piattaforme non rimuovevano se non in percentuali minime. Poi è arrivato il 7 ottobre; a quel punto, abbiamo iniziato a confrontare quanti contenuti ci venivano segnalati ogni ora. Su Gab, principale social dell’estrema destra, l’aumento di contenuti antisemiti è stato circa del 1000%.
- Su quali social è più diffuso l’odio verso gli ebrei e Israele? Innanzitutto, occorre fare una precisazione: in base ai nostri dati, che riguardano in generale il mondo anglofono a livello globale, la maggior parte dei contenuti antisemiti non fa riferimento a Israele, perlomeno non direttamente. Per capire la situazione, abbiamo monitorato 10 piattaforme social: Facebook, Twitter, Telegram, TikTok, YouTube, Instagram, LinkedIn, Gab, Reddit e BitChute. In ciascuno di questi, abbiamo passato 16 ore a monitorare i contenuti antisemiti e altre 16 ore per i contenuti islamofobi. Abbiamo suddiviso i casi di antisemitismo in 4 categorie: distorsione e negazione della Shoah, incitamento alla violenza verso gli ebrei, antisemitismo tradizionale e quello legato a Israele.
- Come si distribuiscono questi tipi di antisemitismo sulle varie piattaforme? È emerso che Facebook e Twitter sono le piattaforme dove sono più diffuse l’istigazione alla violenza e la distorsione della Shoah. Di contro, LinkedIn è quella dove è più alta la percentuale di contenuti antisemiti legati a Israele, seguita da Instagram. Ma in generale, a parte LinkedIn su tutte le piattaforme la categoria più presente è quella dell’antisemitismo tradizionale. Sia l’antisemitismo sia l’islamofobia sono aumentati dopo il 7 ottobre, ma con delle differenze: i contenuti antisemiti che abbiamo trovato sono circa 2,4 volte più numerosi di quelli islamofobi (rispettivamente 2.739 e 1.151). Se Gab è il social con il tasso di antisemitismo più alto, a sorprenderci davvero è stato LinkedIn: sebbene venga generalmente usato per cercare lavoro, questo social è quello dove l’antisemitismo è cresciuto di più, passando dall’essere praticamente inesistente prima del 7 ottobre a livelli tali da posizionarlo al 6° posto tra le 10 piattaforme analizzate per quantità di contenuti antisemiti. Infine, abbiamo verificato quanto siano attive le piattaforme nel rimuovere i contenuti antisemiti. La media complessiva tra tutte quelle analizzate è del 18%; tuttavia, se si guarda alle singole piattaforme, ci sono delle differenze evidenti: se su LinkedIn il 36% dei contenuti antisemiti viene rimosso, su BitChute e Telegram questo succede solo nel 4% dei casi. Tra gli altri social, il tasso di rimozione è del 27% su Instagram, 25% su YouTube, 24% su Twitter, 22% su TikTok e Gab, 16% su Facebook e 9% su Reddit.
- Quando si tratta di contrastare l’odio in rete, che differenze ci sono tra le leggi australiane e quelle dell’Unione Europea? La differenza è che in Australia l’antisemitismo non viene sanzionato come in Europa. L’UE può anche avere la forza di affrontare su questo punto le aziende dei social, mentre l’Australia questa forza non la possiede. In teoria le leggi sono simili, e i discorsi d’odio sarebbero proibiti anche in Australia, ma in pratica non esistono vere e proprie sanzioni per le piattaforme che permettono all’antisemitismo di circolare.
- Dopo il recente attentato a Sidney, un ragazzo ebreo è stato accusato ingiustamente di esserne il responsabile… Tutto è partito da un utente chiamato Simeon Boikov, il quale da un anno vive nel consolato russo a Sidney, e che ha chiesto asilo politico in Russia per evitare un mandato di arresto per aggressione. Per capire come si è diffusa la falsa notizia, basti vedere cos’è successo su 4Chan: all’annuncio iniziale che fosse un ebreo, degli utenti filorussi hanno aggiunto speculazioni sul fatto che fosse un agente del Mossad, o che sia stato fermato da un russo. E anche dopo che i media riportarono la vera identità dell’attentatore, su 4Chan ci fu chi continuò a dire che la colpa era degli ebrei, bollando come “fake news del governo” gli aggiornamenti più recenti e decretando come “vera” la versione originale su Benjamin Cohen.
- Ci sono stati altri casi simili a questo in Australia? Una volta è successo dopo che nel novembre 2023 a Caulfield, un sobborgo di Melbourne, un locale di hamburger gestito da un palestinese fu vittima di un incendio doloso. Siccome il locale si trova a breve distanza dalla zona ebraica di Melbourne, in molti incolparono gli ebrei per l’accaduto; ciò portò ad una protesta violenta da parte di manifestanti filopalestinesi nel quartiere ebraico. Inoltre, diverse organizzazioni che rappresentano le comunità islamiche e palestinesi in Australia dissero che si trattava di un crimine d’odio, che aveva colpito il proprietario del locale in quanto palestinese. A gennaio, le autorità hanno arrestato i veri colpevoli, due giovani che non sono ebrei e non c’entrano nulla con la comunità ebraica. Al termine delle indagini, venne dichiarato ufficialmente che non si è trattato di un crimine d’odio, a dispetto di quello che si pensava all’inizio.
- Come OHPI, organizzate mai degli incontri di sensibilizzazione nelle scuole o nelle università? Solitamente non molto, ma quest’anno stiamo portando avanti un progetto in merito. Andiamo di rado nelle scuole, però forniamo molto materiale e teniamo dei corsi di formazione per gli insegnanti, facendo loro leggere i nostri report. Siamo andati a mostrarli anche a diversi parlamentari, non solo in Australia ma anche negli Stati Uniti e in Canada.
- La classe politica e le istituzioni australiane sono consapevoli dei rischi che questo odio comporta per la sicurezza della comunità ebraica? Generalmente lo sono, ma non come da voi in Italia; ricordo ancora quando sono venuto nei vecchi uffici del CDEC a Milano, e c’erano i militari a sorvegliare la zona. In Australia questo non avviene, la comunità ebraica ha il proprio servizio di sicurezza, che però riceve fondi dal governo. Semmai, il problema è che non sono altrettanto attenti quando si tratta di contrastare l’antisemitismo online.
Un 25 aprile segnato dalle costanti tensioni e da un’aggressione quello celebrato a Milano dalla Brigata Ebraica, che ha partecipato come di consueto alla manifestazione per la Festa della Liberazione, rivendicando il proprio diritto a scendere in piazza.
Già dalla mattina l’aria che tirava attorno alla manifestazione era estremamente pesante. “Vogliamo riprenderci questa piazza e prenderla sul serio, non in modo performativo per questo abbiamo deciso di organizzare un momento di lotta che si terrà in piazza Duomo alle 13:30” hanno minacciato i giovani palestinesi e le realtà antagoniste, intervistati da Radio Onda d’urto, che si sono dati appuntamento in piazza Duomo.
Lo spezzone della Brigata Ebraica, che è stato protetto durante tutto il percorso dei City Angels, è stato invece oggetto di numerosi insulti. “Siamo abituati alle contestazioni, quest’anno non poteva certo andare meglio del passato” ha afferma a Repubblica il vicepresidente Ucei Milo Hasbani, ricordando come la Comunità ebraica di Milano abbia scelto di non sfilare con il proprio striscione in corteo. “Per me è una giornata importante, ma è veramente triste sentire ogni anno questi slogan e questi insulti contro di noi” ha sottolineato invece Roberto Jarach, presidente della Fondazione Memoriale della Shoah di Milano.
“Tutti questi giovani hanno assorbito odio. I toni vanno abbassati”, l’appello fatto poco prima dell’inizio del corteo da Davide Romano, presidente del Museo della Brigata Ebraica.
Un appello rimasto inascoltato da chi ha partecipato alla manifestazione. “Siete come i nazisti”, “assassini”, “sionisti fascisti”, “complici di un genocidio”: questi alcuni degli insulti dei filo-palestinesi al passaggio della Brigata Ebraica durante tutto il tragitto. “Fuori i sionisti dal corteo” ha invece scandito un altro gruppo posizionato volutamente al centro di corso Venezia per cercare lo scontro.
Arrivati a piazza Duomo il culmine: l’aggressione da parte di un gruppo di ragazzi, che dopo aver riconosciuto le bandiere della Brigata Ebraica e dello Stato d’Israele hanno cercato di attaccare i manifestanti pro-Israele e della comunità ebraica e hanno tirato calci contro lo striscione di Sinistra per Israele. Otto di loro sono stati fermati dalla polizia e perquisiti, alcuni di loro erano in possesso anche di coltellini.
(Shalom, 26 aprile 2024)
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Fadlun (Comunità ebraica di Roma): "Contro di noi nelle piazze un odio criminale e omicida"
Il presidente della Comunità ebraica di Roma commenta gli insulti rivolti alla Brigata ebraica nelle città italiane in occasione del 25 aprile: "Sono frasi che hanno un'eco terribile per le nostre famiglie. I pro Palestina in realtà sono solo anti-Israele e anti-ebraici"
di Luca Roberto
Come ampiamente pronosticabile nei giorni scorsi, le manifestazioni per il 25 aprile si sono trasformate in una ribalta per gli insulti contro le comunità ebraiche. Tanto a Roma, dove si sono sentiti commenti come "ebreo cane", quanto a Milano, dove agli esponenti della Brigata ebraica nel corteo organizzato dall'Anpi hanno dato degli "assassini". "Le confido una cosa", premette al Foglio con un bel po' di sconforto Victor Fadlun, presidente della Comunità ebraica di Roma. "Per me, per la mia famiglia, queste frasi hanno un significato molto concreto, affondano nel retaggio delle nostre famiglie costrette a lasciare la Libia sotto la spinta dei pogrom e della violenza antiebraica. Ad abbandonare le case, i beni, gli affetti, le amicizie. Sono frasi che hanno un’eco terribile nei ricordi di molti ebrei romani, o perché le abbiamo vissute o perché ci sono state raccontate dai nostri genitori. E sono le frasi dell’odio antiebraico, un odio criminale e omicida. Risentirle nelle piazze romane, italiane, è impressionante. Perché noi sappiamo bene che cosa significhino quelle frasi. Quanta sofferenza e quanto sangue vi siano dietro".
Fadlun questa mattina era a Porta San Paolo, insieme alla Brigata ebraica, a deporre una corona in memoria della Resistenza, festeggiando la Liberazione dal nazifascismo. E nel pieno di un momento di raccoglimento s'è ritrovato di lì a poco nel mezzo di una contestazione che aveva chiari connotati antisemiti da parte dei cosiddetti "antagonisti". Quella sensazione di sconforto descritta poc'anzi, racconta al Foglio, "vale anche per quell’altra frase che viene ripetuta spesso senza che se ne comprenda fino in fondo il significato: 'Palestina libera dal fiume al mare'", e che s'è udita per le strade d'Italia anche quest'oggi. "Significa cancellare Israele e gli ebrei dalla faccia della terra, dalle mappe. A chi parla di riconoscere la Palestina e di due popoli e due stati bisognerebbe ricordare che i palestinesi sono i primi a non voler riconoscere l’esistenza di Israele e ad avere rifiutato tutte le offerte di pace della comunità internazionale", prosegue il presidente Fadlun.
Ma com'è possibile che anche nel giorno in cui si dovrebbero festeggiare i valori della Resistenza si assista a nuovi episodi di intolleranza antisemita? "L’antisemitismo non è mai scomparso. Abbiamo cercato di spiegarlo in tutti i modi e siamo apparsi a volte come quelli che gridavano 'al lupo al lupo', come se l’odio viscerale antiebraico, capace di trovare ogni pretesto pur di manifestarsi e colpire gli ebrei in quanto ebrei, fosse diventata una nostra invenzione" dice l'esponente della Comunità ebraica capitolina. "Neanche le ricorrenze della Shoah e le tante iniziative della Memoria sono riuscite a estirpare quest’odio, che evidentemente ha radici profonde. E che torna ciclicamente nella storia, mettendo in pericolo non solo le nostre comunità, ma i valori stessi su cui si fondano la civiltà, il mondo libero, la democrazia. Ma questa non può essere una battaglia solo degli ebrei, dovrebbe appartenere a tutti. Chi manifesta a favore della pace e della Palestina dovrebbe chiedere il rilascio di tutti gli ostaggi, che è l’unico vero modo per mettere fine alla guerra, mentre non lo fa. Questo dimostra che i movimenti pro Palestina sono in realtà solo anti-Israele, e sono anti-Israele perché sono anti-ebraici". Forse che, anche in ragione di un clima sempre più rovente, nelle università, nelle piazze, si sia sottovalutato quanto stava accadendo un po' ovunque nel nostro paese? "La sottovalutazione, purtroppo, è una conseguenza spesso dell’ignoranza della storia, e anche dell’ingenuità di chi pensa che gli orrori della storia non possano ripetersi, proprio per la loro enormità", analizza Fadlun, che sin dall'attacco di Hamas dell'autunno scorso è come se avesse iniziato a segnare mentalmente i cedimenti all'estremismo che ci sono stati nelle nostre società. "Dopo il 7 ottobre abbiamo assistito da un lato all’indifferenza per la caccia all’ebreo porta a porta a cui abbiamo assistito anche con dovizia di materiale video diffuso dagli stessi terroristi, e dopo l’indifferenza anche all’accanimento contro gli ebrei e contro lo Stato ebraico che è stato costretto a difendersi e a entrare in una guerra che certamente non ha voluto. E, infine, al diffondersi e propagarsi dell’antisemitismo latente in tutto il mondo, paradossalmente proprio a partire da luoghi che dovrebbero essere i templi della cultura e della libertà: le Università". Ed è proprio l'espandersi dell'odio negli atenei, come amara conclusione, a inquietare di più il presidente della Comunità ebraica di Roma, perché "è un deja vu della storia che ben conosciamo. Basta studiare la preparazione ed evoluzione della persecuzione degli ebrei attraverso i manifesti razzisti e le leggi razziali".
Sei mesi di guerra contro Hamas e ci viene detto che Israele è più isolato che mai. Ma lo è davvero?
di John Podhoretz
Negli ultimi 60 anni Israele è stato impegnato in modo intermittente nell’autodifesa contro le incursioni o il lancio di razzi da parte dei palestinesi. In quasi tutti i casi, la parola “isolato” è stata utilizzata incessantemente dai media per descrivere la posizione dello Stato ebraico dopo aver agito per proteggere il proprio popolo in mezzo al “mondo delle nazioni” o nella “comunità internazionale” – o qualunque descrizione si possa desiderare utilizzare per quelle persone e quelle nazioni sconfitte non solo dall’esistenza dello Stato ebraico ma dalle sue intermittenti e potenti dimostrazioni di forza marziale ebraica.
Retrocedete un attimo e guardate le relazioni di Israele con il resto del mondo attraverso una lente storica e potrete capire perché il desiderio della sclerotica “comunità internazionale” di dichiarare Israele isolato è illimitato. Cos’è Israele, cosa fa Israele, cosa dice sul popolo ebraico e sul nostro posto nel mondo: tutto ciò è qualcosa di inedito. Di completamente inedito. Sconosciuto a chiunque sia attualmente in vita o ai suoi antenati risalenti a 100 generazioni fa.
Gli ebrei non ebbero letteralmente i mezzi o la capacità di difendersi per più di due millenni. Ora siamo in grado di farlo. E quando lo facciamo, diventiamo snervanti. La stessa frase “esercito ebraico” fu, fin dal 70 E.V., la definizione di un ossimoro. Ora evoca qualcosa di potente, e il fatto che sia potente significa per molti che è decisamente troppo potente. Quando Israele agisce in propria difesa, aliena queste persone e queste nazioni. E così si “isola”.
L’“isolamento” di Israele presso le Nazioni Unite iniziò immediatamente dopo la guerra preventiva di grande successo nel 1967, quando l’atto di scrivere e approvare risoluzioni per controllare e contenere Israele portò inesorabilmente alla famigerata Risoluzione “Il sionismo è razzismo” del 1975. Sei anni dopo, Israele si ritrovò nuovamente “isolato” quando annesse le alture di Golan. Si dà il caso che il giorno in cui fu annunciata l’annessione ero al Palm Restaurant di Washington DC, per un colloquio di lavoro con Charles Krauthammer e Marty Peretz della New Republic. Marty era conosciuto come uno strenuo difensore di Israele, e il nostro tavolo da pranzo fu visitato una dozzina di volte quel giorno dai notabili di Washington che chiedevano a Marty di spiegare questa azione barbara, che a loro sembrava progettata solo per placare gli elementi di “destra”. Un furto così aggressivo del territorio siriano, dichiararono i lobbisti, i mammasantissima e i membri del Council on Foreign Relations, serve solo a “isolare” Israele.
Il tentativo di sradicare l’OLP in Libano un anno dopo portò a un ulteriore “isolamento”, poiché la Casa Bianca di Reagan era ansiosa di fare sapere che lo stesso Reagan, secondo quanto riferito, aveva detto “Davide è diventato Golia” in un momento in cui presumibilmente pensava che lo Stato ebraico si fosse spinto troppo oltre.
Poi arrivò l’”isolamento” che seguì la risposta di Israele ai giovani palestinesi che lanciavano sassi durante la Prima intifada iniziata nel 1988. Reagì duramente attraverso una politica che l’allora ministro della Difesa Yitzhak Rabin chiamava “forza, potenza e percosse”. Ricordo Rabin, molto prima che il suo assassinio lo rendesse un martire per un processo di pace di Oslo di cui non aveva fiducia e di cui sembrava quasi disgustato, ruggire “Hai torto!” a Ted Koppel nel suo programma della ABC quando Koppel dichiarò che Israele si stava isolando con le sue tattiche troppo dure.
Negli anni ’90, ogni volta che un israeliano costruiva una stanza in una casa in Cisgiordania, si diceva che la politica dei coloni “isolasse” Israele dalla comunità internazionale. E dopo che tre proposte di statualità furono respinte dai palestinesi dal 1998 al 2001, e dopo che Yasser Arafat iniziò la guerra terroristica conosciuta come la Seconda intifada, non furono i palestinesi ad essere “isolati” dai loro attentati suicidi. No, fu Israele a essere minacciato di “isolamento” a causa dei suoi incessanti e infine riusciti sforzi volti a sradicare gli impianti di produzione di bombe in Cisgiordania.
Nel frattempo, nel 1999, Israele uscì unilateralmente dalla zona di sicurezza che aveva mantenuto in Libano per prevenire attacchi dell’OLP, una mossa che non fece molto per porre fine al costante stato di isolamento di Israele. Poi, nel 2006, Israele fu costretto a rispondere militarmente quando Hezbollah, sotto delega iraniana, arrivò ad occupare il territorio che Israele aveva precedentemente controllato e utilizzò l’area per lanciare bombe sul nord di Israele e rapire soldati israeliani.
Vedete uno schema? Israele è stato attaccato, Israele ha reagito…e si sa cosa verrà dopo. Le sue azioni in Libano vennero inizialmente sostenute dagli Stati Uniti, praticamente da soli, per 34 giorni. Poi il Segretario di Stato Condoleeza Rice disse a Israele che doveva finire e tornare a casa perché le cose stavano sfuggendo di mano. Se Israele non avesse dato ascolto al consiglio americano, chiarì, lo Stato ebraico non solo si sarebbe ritrovati “isolato” nella comunità internazionale. Ciò avrebbe causato una crisi nelle relazioni USA-Israele.
Israele si ritirò unilateralmente dalla Striscia di Gaza nel 2005 e la lasciò ai palestinesi. Ottomila ebrei furono costretti a lasciare le case e le serre che avevano costruito per l’agricoltura. I palestinesi saccheggiarono le case e distrussero le serre. Ciò causò il loro isolamento? Affatto. Gaza venne servita e coccolata, come è stato per decenni, da un’agenzia delle Nazioni Unite chiamata UNRWA, dedicata esclusivamente a questo scopo. Hamas prese il controllo di Gaza in breve tempo, rapì i soldati israeliani e iniziò a lanciare razzi. Nel 2009, 2012, 2014 e 2021, Israele fu costretto dalle circostanze a fare arrivare carri armati nell’area che una volta occupava e controllava militarmente. Ogni volta che lo faceva, il mondo si agitava, agitava il dito e isolava nuovamente Israele.
Per otto anni, Israele dovette affrontare un presidente come Barack Obama che lo detestava davvero. Oh, disse di no. Ma sapevamo tutti che lo detestava, e sapevamo anche che c’erano persone in America e altrove che lo amavano per questo motivo. Il suo vicepresidente ora è presidente, e per un certo periodo sembrava essere diverso. Era diverso. E poi ha smesso di essere diverso e ha cominciato a essere minaccioso, nel suo modo impotente.
Quindi eccoci qua. Ancora. Israele. Isolato.
E cosa hanno comportato questi decenni di isolamento cronico, divampati ogni volta che Israele ha preso le armi per difendersi? Tutto questo terribile, terribile isolamento: cosa ha provocato? In che modo Israele è stato danneggiato, ferito, influenzato, tormentato e terrorizzato dalla scarsa opinione in cui sembra essere tenuto da così tanti?
Non molto.
Nel 1967, Israele aveva un PIL di 4 miliardi di dollari ed era tra le nazioni più povere della terra. Nel 1977, il suo PIL era quadruplicato arrivando a 16 miliardi di dollari. Nel 1988 triplicò la cifra del 1977 e raggiunse i 50 miliardi di dollari. Ha raggiunto i 100 miliardi di dollari nel 1994 e i 200 miliardi di dollari nel 2007. Nel 2023, il PIL di Israele era di 535 miliardi di dollari ed era, a seconda di come si conta, il 25°, il 27° o il 30° paese più ricco della terra. Nel complesso, Israele vanta un’economia 125 volte più grande di quanto fosse prima della Guerra dei Sei Giorni, con un reddito pro capite di 47.000 dollari all’anno.
Quindi forse c’è un certo tipo di mesta saggezza da trarre da queste innegabili statistiche. Forse il fatto è che Israele non ha bisogno del sostegno della comunità internazionale e del Council on Foreign Relations e del panel sulla Washington Week in Review e degli imbonitori dell’Aspen Institute e dei miliardari che bevono ambrosia dagli stivali dei tiranni a Davos. Forse il fatto è che Israele è una nazione che ha avuto questa ascesa miracolosa perché ha uno scopo, che è qualcosa che la maggior parte degli altri paesi non ha o di cui non ha bisogno, e qualcosa che Thomas Friedman e i suoi simili sono (di nuovo) troppo innervositi per capire.
Israele è impegnato in uno scopo che è sia storico-mondiale che esterno alla storia. Esiste come rifugio, rifugio e patria per il popolo più apolide del mondo, e la sua pretesa di essere uno Stato non è dovuta solo al suo bisogno di protezione, ma si basa in parte su una pretesa letteralmente trascendente. Ecco perché dico che esiste anche al di fuori della storia.
Per garantire la continuità della sua esistenza, Israele deve agire. In primo luogo, deve respingere coloro che vorrebbero distruggerlo e che si sono scagliati contro di esso senza sosta sin dal giorno della sua fondazione: malfattori genocidi i cui volti amalechiti ora si stanno manifestando anche in America, davvero per la prima volta nella nostra storia.
In secondo luogo, non solo deve sopravvivere ma prosperare, perché l’adempimento del suo scopo dipende dal fatto che il potere ebraico diventi lentamente una realtà semplice, innegabile e duratura in un mondo che non ha mai conosciuto una cosa del genere prima – ed è, come ho detto precedentemente, innervosito da ciò.
Questo, in effetti, stava accadendo negli anni 2010 con gli Accordi di Abraham, finché quel progresso non fu in parte interrotto da una Amministrazione Biden bizzarramente incapace che decise di imperniare la nostra politica nazionale nei confronti della più importante nazione esportatrice di petrolio del mondo sull’assassinio di una singola persona in un consolato in Turchia diversi anni prima. Il fatto che Israele fosse cresciuto nel modo in cui era cresciuto e avesse dimostrato di essere una nazione innovativa in una regione impantanata nell’arretratezza era il suo biglietto da visita.
Ma forse era troppo concentrato sull’affrettare i tempi. Nel corso dell’ultimo decennio, infatti, Israele in qualche modo si è ritrovato, come il Sansone cieco immaginato da John Milton, “senza occhi a Gaza” – e si è reso vulnerabile al peggiore evento della sua storia. Almeno Sansone era stato accecato dai filistei nemici; i leader israeliani si sono accecati da soli. Non vedevano il pericolo crescente perché volevano guardare altrove e fare altre cose.
La sua risposta lo ha, ancora una volta, isolato. Questo isolamento sta logorando la determinazione di alcuni israeliani di condurre questa guerra fino alla vittoria o li sta facendo disperare che possa esserci una vittoria. È una cosa odiosa l’isolamento. È ingiusto, disgustoso, ipocrita e, ovviamente, antisemita alla radice.
Ma come ci hanno mostrato gli ultimi sessant’anni, quando si tratta dello scopo di Israele sia come agente di cambiamento nella storia sia come rappresentante di una forza al di fuori della storia, l’isolamento non ha alcuna importanza. Loro, noi, non siamo isolati. Loro, noi, siamo scelti.
(L'informale, 25 aprile 2024)
SALMO 47
Battete le mani, o popoli tutti;
acclamate Dio con grida di gioia!
Poiché l'Eterno, l'Altissimo, è tremendo,
re supremo su tutta la terra.
Egli sottomette i popoli a noi
e mette le nazioni sotto i nostri piedi.
Egli ha scelto per noi la nostra eredità,
gloria di Giacobbe che egli ama.
Dio è salito in mezzo alle acclamazioni,
l'Eterno è salito al suono delle trombe.
Cantate a Dio, cantate;
cantate al nostro re, cantate!
Poiché Dio è re di tutta la terra;
cantategli un bell'inno.
Dio regna sulle nazioni;
Dio siede sul suo trono santo.
I prìncipi dei popoli si radunano insieme
al popolo del Dio di Abraamo:
perché a Dio appartengono i potenti della terra;
egli è sommamente esaltato.
Chi non vuole negoziare è Hamas. La dichiarazione congiunta per fermare la guerra
Il presidente americano Joe Biden assieme ai leader di altri diciassette paesi ha rilasciato una dichiarazione congiunta chiedendo a Hamas di accettare l’accordo presentato per la liberazione degli ostaggi. “Chiediamo il rilascio immediato di tutti gli ostaggi tenuti da Hamas a Gaza da oltre 200 giorni. Tra questi ci sono i nostri cittadini. Il destino degli ostaggi e della popolazione civile di Gaza, protetti dal diritto internazionale, è di interesse internazionale”, a sottoscrivere la dichiarazione sono i rappresentanti di Argentina, Austria, Brasile, Bulgaria, Canada, Colombia, Danimarca, Francia, Germania, Ungheria, Polonia, Portogallo, Romania, Serbia, Spagna, Thailandia e Regno Unito. In questi mesi, i terroristi sono riusciti nell’impresa di demonizzare Israele, con abilità propagandistica hanno tentato con successo di rimuovere gli orrori del 7 ottobre dalla memoria, le piazze occidentali accusavano Gerusalemme di genocidio, mentre strappavano le foto dei rapiti. Hamas ha rifiutato ogni proposta di accordo, tiene gli ostaggi in prigionia come merce di scambio e aspetta che il prezzo si alzi, che la pressione su Israele aumenti.
I rifiuti di Yahya Sinwar, il leader di Hamas rimasto nella Striscia, si sono accumulati. Gli israeliani hanno accettato il cessate il fuoco di sei mesi, uno scambio per nulla equo di prigionieri per vedere gli ostaggi finalmente a casa, non si oppongono più al ritorno dei gazawi nella parte nord della Striscia. Mentre Sinwar ha provato a trascinare Israele nell’infamia internazionale, i leader hanno capito che era il momento di agire, di cambiare il paradigma, di svelare che i rifiuti vengono dai terroristi e Sinwar blocca ogni possibilità che la guerra si fermi. Il gioco delle colpevolizzazioni di Hamas ai danni di Israele ha trovato un muro, adesso è il momento della pressione che risponde a quella che è sempre stata la soluzione più semplice di questo conflitto: se i terroristi vogliono davvero fermare le bombe, basta liberare gli ostaggi. Non lo hanno fatto perché non hanno interesse a fermare le bombe.
«La scienza è un luogo di ricerca della verità, ha una sua universalità, una sua libertà. Trovo sciocco, inefficace e inutile ogni forma di boicottaggio accademico perché va contro questi concetti. Lo pensavo quando il boicottaggio è stato promosso contro alcuni colleghi matematici russi, lo penso ora quando in università c'è chi lo invoca contro Israele». Direttrice del dipartimento di Matematica «Giuseppe Peano» dell'Università di Torino, Susanna Terracini chiarisce il suo punto di vista a Pagine Ebraiche. Scienziata di fama internazionale, lo scorso 20 marzo Terracini si è trovata in una situazione scomoda. È stata l'unica a votare no a una mozione del Senato accademico contro la collaborazione con Israele. «Il testo approvato voleva essere un compromesso tra le istanze inaccettabili di un gruppo di studenti per il boicottaggio totale e una forma di vicinanza a Gaza. Io ero contraria e in ogni caso il risultato è ambiguo», sottolinea Terracini. Nel provvedimento si definisce «non opportuna» la partecipazione a un bando del ministero degli Esteri per progetti di collaborazione tra Italia e Israele. «Ma cosa vuol dire non opportuna?», si chiede Terracini. «È un divieto? Se è così è un attentato alla libertà accademica dei singoli ricercatori. Perché sono loro che partecipano al bando, non l'università di per sé». L'ateneo dovrebbe dare il consenso a fornire gli spazi e le strutture per permettere queste collaborazioni. «Non è chiaro l'effetto di tutto questo», ribadisce. Per lei tutta questa iniziativa è uno spiacevole passo falso. «Anche se credo nella buona fede di moltissimi colleghi. Volevano dare un segnale di vicinanza a Gaza e assecondare le istanze degli studenti, ma lo hanno fatto nel modo sbagliato». Per questo la scienziata sottolinea come la Comunità ebraica di Torino così come l'Ucei abbiano fatto bene a esprimere la loro netta condanna. «Se la mozione del Senato avesse chiesto un cessate il fuoco immediato e il rilascio degli ostaggi, l'ingresso degli aiuti umanitari, trattative di pace di lungo periodo, io l'avrei votata». Così non è stato, si è scelta una «strada superficiale». Da tutto questo però Terracini, in qualità anche di membro della comunità scientifica internazionale, vede un possibile sviluppo positivo. «Forse questa mozione può essere il primo passo per aprire un dialogo con i colleghi. Ci tengo a dirlo, sono persone perbene, li stimo e con loro la discussione è franca e aperta». Come dovrebbe essere in ambito accademico, dove il pregiudizio, in questo caso contro Israele, dovrebbe rimanere fuori dagli atenei. Per costruire una cultura di pace, tiene a sottolineare Terracini, «è necessario smontare le diverse retoriche dell'odio e per questo fine le collaborazioni scientifiche possono rappresentare un momento importante di confronto e di relativizzazione delle posizioni conflittuali».
A condividere questa posizione due colleghi dell'ateneo torinese: Alessandro Vercelli, vicerettore alla Ricerca biomedica, e Cristina Prandi, vicerettrice alla Ricerca delle Scienze naturali e agrarie. All'indomani del voto al Senato accademico, Vercelli e Prandi hanno tenuto a dissociarsi dalla mozione. In una lettera ai colleghi, i due vicerettori esprimono il «profondo convincimento» di come «la ricerca scientifica di alta qualità e l'università debbano rispondere alla missione» di essere catalizzatori «per unire i popoli, anziché dividerli o emarginarne alcuni». Come Terracini, anche Vercelli e Prandi avevano già espresso il proprio dissenso nei confronti di boicottaggi contro università o enti di ricerca russi o iraniani. Ma la mozione di marzo per loro «rappresenta una ferita per un'istituzione universitaria che in passato ha visto eminenti figure del mondo ebraico emarginate e discriminate dalle leggi razziali (ci annoveriamo con orgoglio tra gli istituti intitolati a Primo Levi e a Rita Levi Montalcini), ferite che non sono mai state del tutto sanate». Anche in questo la richiesta è di aprire a una «riflessione più approfondita, libera da pressioni, sulle conseguenze anche simboliche delle decisioni adottate». L'invito è ad applicare un maggiore senso critico, senza appiattirsi sugli slogan. «Alcuni pericolosi come 'From the river to the sea' di cui non sono sicura tutti conoscano il significato», afferma Terracini. Dove non manca il senso critico è invece in Israele. «Quando uno ci va è colpito dall'apertura culturale, umana e sociale che c'è nelle università. Ci si confronta spesso con abitudini o punti di vista diversi perché è ovvio trovare persone di destra, di sinistra, di background diversi. C’è un dialogo assolutamente aperto. Andandoci si capisce il significato dell'importanza di preservare l'esistenza dello Stato di Israele. Si eviterebbero gli slogan superficiali delle manifestazioni studentesche». Per Terracini l'accademia italiana «dovrebbe favorire il fatto che i nostri studenti abbiano occasioni di confronto con i coetanei israeliani e con quelli palestinesi. A maggior ragione in questo momento. Dobbiamo incentivare le collaborazioni, non boicottarle».
Nel mese della Festa della Liberazione, poi, una ultima battuta è dedicata a un lavoro fatto anni fa su alcuni matematici italiani e l'antifascismo. Su come fu uno strumento per alcuni per resistere all'oppressione. «Soprattutto nei periodi storici più drammatici l'astrazione della matematica sembra rispondere a una esigenza profondamente umana di razionalità e di partecipazione creativa. È proprio il carattere universale del pensiero matematico a renderlo veicolo di liberazione, non soltanto per gli scienziati di professione, ma per tutti».
Sottolineando che la guerra si sta protraendo più a lungo del previsto, l’agenzia di rating S&P ha anche tagliato le prospettive di credito di Israele da “stabili” a “negative”.
A causa del conflitto con l’Iran, della guerra in corso a Gaza e dell’escalation al confine settentrionale, l’agenzia di rating internazionale S&P ha annunciato di aver tagliato il rating di Israele da AA- ad A+. Inoltre, le prospettive di credito di Israele sono state declassate da “stabili” a “negative”. L’annuncio è stato inaspettato, dato che la decisione ufficiale di S&P sul rating di Israele non è prevista prima del 10 maggio.
• Perché è successo? Nell’annuncio di S&P, l’agenzia ritiene che la recente recrudescenza del conflitto tra Israele e Iran aumenti i rischi geopolitici che erano comunque elevati per Israele. Anche se S&P non vede un conflitto regionale su larga scala, la guerra tra Israele e Hamas e il confronto con Hezbollah continueranno per tutto il 2024, a differenza della stima precedente secondo cui i combattimenti sarebbero terminati in non più di sei mesi.
Inoltre, l’agenzia di rating prevede un aumento del deficit fiscale del governo all’8%, superiore all’obiettivo del 6,6% fissato dal governo stesso. “Prevediamo che il deficit pubblico di Israele salirà all’8% del PIL nel 2024, soprattutto a causa dell’aumento delle spese per la difesa. L’aumento del deficit continuerà anche nel medio termine”, ha scritto S&P. S&P stima inoltre che il rapporto debito/PIL di Israele raggiungerà il 66% nel 2024, rispetto al 60% dello scorso anno.
• Quali scenari vede S&P? Lo scenario fondamentale di S&P si basa su diversi punti: La guerra tra Israele e Hamas continua, probabilmente a un’intensità minore, per tutto il 2024, con scambi di fuoco di routine con Hezbollah sul confine settentrionale, ma senza un’escalation del conflitto diretto con l’Iran o di un più ampio conflitto regionale in Medio Oriente.
Prima delle ultime notizie sulle esplosioni in Iran, S&P scriveva: “Attualmente vediamo diversi possibili rischi di escalation militare, tra cui un confronto militare più sostanziale, diretto e prolungato con l’Iran. Israele è sottoposto a pressioni internazionali per limitare la sua risposta all’attacco del 13 aprile, mentre l’Iran ha annunciato la sua intenzione di non inasprire la situazione. Tuttavia, a nostro avviso, rimane il rischio di un incidente o di un errore di calcolo, soprattutto se ci saranno altri scambi di fuoco tra le due parti”.
Un altro scenario prevede l’espansione del conflitto con Hezbollah al confine settentrionale di Israele. “L’espansione degli attuali conflitti potrebbe presentare ulteriori rischi sociali e di difesa per Israele, che potrebbero influenzare una serie di indici economici e fiscali, a differenza del nostro scenario di base”.
• Cosa hanno fatto le altre agenzie di rating? Delle tre principali agenzie di rating internazionali, Moody’s è stata la prima a tagliare il rating di Israele dall’inizio della guerra. A febbraio Moody’s ha annunciato il primo taglio del rating nella storia di Israele e ha tagliato l’outlook del credito a negativo. Il mese scorso, invece, Fitch ha deciso di lasciare invariato il rating di Israele, tagliando però l’outlook.
• Cos’altro dice l’annuncio?
Per quanto riguarda gli aspetti positivi, S&P ha rilevato che Israele mantiene punti di forza finanziari, tra cui l’accesso ai mercati internazionali dei capitali, un surplus delle partite correnti, una forte posizione patrimoniale netta verso l’estero e significativi saldi in valuta estera il mese scorso, nonché obbligazioni per un totale di 8 miliardi di dollari in diverse scadenze (cinque, dieci e 30 anni). Il fatto che le esportazioni israeliane siano in gran parte basate sull’alta tecnologia ha giocato a favore di Israele, che secondo la società non rischia di essere danneggiato.
Sul fronte negativo, S&P ha osservato che il continuo sostegno finanziario degli Stati Uniti a Israele potrebbe essere messo in discussione se le divergenze di opinione sugli sviluppi a Gaza dovessero continuare. L’agenzia prevede che quest’anno la crescita economica sarà solo dello 0,5%, rispetto al 2% dell’anno scorso.
Picchetto dei centri sociali contro la Brigata con la stella di David, che deporrà una corona di fiori a Roma. Tensione anche a Milano, minacciata Liliana Segre.
di Francesco Bonazzi
L'unica buona notizia di questo 25 Aprile l'ha data l'Anpi:« Un benvenuto ai compagni Vigili del fuoco da parte di tutti gli antifascisti genovesi! ». Perché si, nel capoluogo ligure è finalmente arrivata la «Sezione Anpi Vigili del fuoco». E molti pompieri servirebbero oggi per placare gli animi in vista dei vari cortei per la Liberazione, dove le polemiche e gli scontri dei giorni passati sulla guerra in Medio Oriente rischiano di far passare una giornata da incubo agli ebrei italiani, da giorni minacciati dai collettivi di estrema sinistra, dalle associazioni pro Palestina e dalle frange violente degli anarchici.
Tensione e confusione sono ben rappresentate dalle parole di Maya Issa, presidente del Movimento degli studenti palestinesi: «È in corso un genocidio, quindi non permetteremo che sia esposto alcun simbolo sionista».
A Roma le organizzazioni ebraiche si guarderanno bene dal partecipare al corteo dell'Anpi per farsi insultare e si sono date appuntamento a Porta San Paolo alle 8.30 per deporre una corona d'alloro. «Non ci faremo dire da nessuno che siamo i nuovi fascisti», dice Noemi Di Segni, presidente dell'Unione comunità ebraiche. Antagonisti, studenti palestinesi e collettivi si troveranno nello stesso luogo, ma mezz'ora prima. Risultato, massima allerta per polizia e carabinieri. Il corteo ufficiale dell'Anpi parte poco distante, all'Ardeatino, intorno alle 9. A Porta San Paolo ci saranno anche quelli di Potere al popolo, che avvertono: «Continuiamo la nostra lotta per chiedere lo stop al genocidio del popolo palestinese, che resiste alle barbarie portate avanti da Israele e dell'imperialismo occidentale». Libero sfogo all'antisemitismo anche da altri partecipanti, come l'Associazione palestinesi in Italia, il cui esponente Mohammed Hannoun fa nomi e cognomi: «La senatrice Liliana Segre dubita che quello di Gaza si possa chiamare genocidio, perché c'è una esclusiva riservata alla loro lobby». Segre sfilerà con ogni probabilità a Milano e chissà se verrà fischiata.
Milano è l'altra piazza calda, con l'ormai consueta polemica sulla Brigata ebraica. Al corteo, la Brigata ci sarà con uno striscione ecumenico: «Ora e sempre la democrazia si difende». A loro nome, Davide Romano ricorda: «Dal 25 aprile del 1945 a quello del 2024 la sfida è sempre la stessa: democrazie contro dittature. E noi, ieri come oggi, non abbiamo dubbi su da che parte stare». Peccato che nella democraticissima Italia toccherà loro sfilate protetti dai City angels.
Nel capoluogo lombardo, i Giovani palestinesi si trovano in piazza Duomo, insieme ad
altre organizzazioni arabe, a Potere al popolo, ai Care, a varie sigle dell'antagonismo e ai sindacalisti di base. In un comunicato, non solo interpretano tutta la resistenza come «parte di un processo storico rivoluzionario che ha contrastato nei fatti il carattere imperialista e coloniale delle forze nazifasciste», ma la ritorcono contro il Pd e il centrosinistra. Questi partiti sarebbero colpevoli di appoggiare guerre e politiche «imperialiste e colonialiste» e «filosioniste».
Nei giorni scorsi, l'Anpi provinciale ha deciso di far sfilare i palestinesi alla fine del corteo, a debita distanza dagli ebrei e dai dissidenti iraniani. L'importante è essere uniti dall'antifascismo. Poi, che ognuno urli gli slogan che vuole. Acrobazie anche dal sindaco, Beppe Sala, per il quale «c'è un po' di controversia sullo striscione («Cessate il fuoco, ovunque», ndr), che però è una dichiarazione che fanno tutti, anche il Papa. Per questo ho invitato la Brigata ebraica a non contestare la cosa». Il risultato è che non porteranno il loro gonfalone e che Romano ha dovuto mettere i puntini sulle i: «Nello slogan di apertura del corteo c'è la richiesta del "cessate il fuoco", ma nessun cenno alla liberazione degli ostaggi nelle mani di Hamas».
E chissà quanti ebrei si sentiranno liberi di sfilare in una piazza calda come Torino, dove ci sono già state violenze nei giorni scorsi alla manifestazione dei centri sociali per la Palestina. l duri di Askatasuna promettono di tornare in scena alla loro maniera. Di fronte alla Liberazione, gli ebrei italiani si confermano meno liberi degli altri.
Vorrei proporre una breve riflessione sulla partecipazione della Comunità Ebraica al corteo del 25 aprile. Preciso che ritengo perfettamente legittimo sia partecipare a quel corteo che non prendervi parte. Ciò che ritengo invece inaccettabile è non riconoscere che esiste un problema molto grave. Ritengo inaccettabile che chi ha deciso di non partecipare venga svillaneggiato dicendo che ha scelto di andare al mare.
Vorrei ricordare che cosa è per noi il 25 aprile. È innanzitutto la liberazione dell’Italia dal nazifascismo, la fine della dittatura e la fine di una guerra terribile. Per noi ebrei però è anche qualcos’altro. È la fine del peggiore incubo della nostra storia, la fine delle deportazioni, della discriminazione razziale, degli insulti e della necessità di nascondersi. Quindi per noi è una data di enorme importanza. Gli ebrei potevano tornare a essere se stessi, a camminare a testa alta, a non nascondersi e a non aver paura.
È ancora così? Sembra proprio di no. Assistiamo a un’ondata di antisemitismo in tutta Europa e di nuovo gli ebrei devono nascondersi e tornano ad aver paura. È pericoloso per gli studenti ebrei frequentare le università. Molti devono mimetizzarsi e non mostrare simboli ebraici. Il mondo è cambiato e viviamo un momento estremamente preoccupante.
Per quanto riguarda il corteo del 25 aprile. Ormai da anni in questo corteo gruppi di facinorosi insultano gli ebrei che vi partecipano e, in particolare, la Brigata ebraica che partecipò attivamente alla liberazione dell’Italia. È vero, in questi anni gli ebrei sono stati difesi dalla possibilità di subire violenze peggiori innanzitutto dalle forze dell’ordine ma anche dai rappresentanti dei partiti democratici.
Ma è normale essere difesi? È normale dover aver paura di partecipare a un corteo di cui si dovrebbe essere parte integrante sia in quanto vittime del nazifascismo sia in quanto protagonisti della liberazione da quella dittatura? Personalmente non lo ritengo affatto normale e ritengo che le organizzazioni partigiane, quelle degli ex-deportati, le autorità cittadine e i partiti democratici debbano essere i primi a ritenere che tutto ciò non sia normale.
Non basta dire che si è contro l’antisemitismo; bisogna fare in modo che l’ostilità verso gli ebrei non abbia diritto di cittadinanza soprattutto in un momento così importante e significativo. Si può discutere quali siano gli slogan adatti a questa manifestazione… ritengo però sconcertante che gli organizzatori della manifestazione abbiano ritenuto problematico fare un riferimento alla liberazione degli ostaggi rapiti da Hamas il 7 ottobre. Posso immaginare che non fare riferimento agli ostaggi sia stato un modo per non scontentare qualcuno.
Ritengo tutto ciò molto grave. Se si vuole combattere l’odio antiebraico bisogna essere capaci di assumersi qualche responsabilità.
Tra gli arrestati dalla polizia anche studenti ebrei pro-Palestina
La Columbia University resta nell'occhio del ciclone delle polemiche per le proteste nei campus contro la situazione a Gaza e la guerra di Israele contro Hamas. Proteste che hanno suscitato l'indignazione del premier israeliano Benyamin Netanyahu che con parole durissime ha paragonato gli atenei americani "alle università tedesche degli anni ‘30", con "gruppi antisemiti che hanno preso il controllo", chiedono "l'annientamento di Israele" e "attaccano studenti ebrei". E ha chiesto di "fare di più" per "fermare e condannare in modo inequivocabile" un fenomeno "terribile".
• Repubblicani all’attacco "Quello che vediamo in questi campus è disgustoso e inaccettabile", ha detto anche lo speaker della Camera Mike Johnson, a New York per incontrare un gruppo di studenti ebrei e il rabbino dell'ateneo, Yuda Drizin. Johnson ha quindi chiesto la testa della presidente dell'università Minouche Shafik, leader "debole e inetta", a suo avviso incapace di garantire la sicurezza degli studenti ebrei, pur essendosi attirata gli strali del corpo docente per aver chiamato la polizia a sgomberare una protesta pro-palestinese in corso da giorni.
• La tendopoli della Columbia University Lo speaker è l'ultimo di una serie di leader repubblicani che nelle ultime 48 ore sono transitati per la Columbia approfittando di una settimana di pausa dei lavori della Camera: tra questi Virginia Foxx, la presidente della Commissione Istruzione che la scorsa settimana aveva messo Shafik sotto torchio dopo aver ottenuto tra dicembre e gennaio le teste delle presidenti di Harvard Claudine Gay e UPenn Liz Magill.
• Ocasio Cortez con gli studenti Si è invece schierata con gli studenti Alexandria Ocasio Cortez, che ha attaccato la leader di Columbia per aver "messo a rischio la vita" degli studenti chiamando giovedì scorso la polizia a sgomberare il campus. ’Aoc‘ fa parte della Squad, il gruppo informale di donne liberal della Camera di cui è esponente anche Ilhan Omar, la cui figlia Isran è stata arrestata per le proteste. E mentre il Senato varava un pesante pacchetto di aiuti anche per Israele, oltre duemila newyorchesi, quasi tutti ebrei, si erano radunati a Brooklyn sotto la casa del leader della maggioranza Dem Chuck Schumer bloccando la zona con un Seder simbolico nella seconda sera della Pasqua ebraica. I manifestanti - tra cui la scrittrice Naomi Klein e studenti della Columbia sospesi per aver partecipato alle proteste - hanno pregato per il cessate in fuoco e per chiedere a Schumer, che si trovava a Washington per i lavori del Senato, di bloccare gli aiuti militari a Israele. Trecento gli arresti per "condotta disordinata".
• Alta tensione Nelle stesse ore alla Columbia si è temuto il peggio, tra voci, smentite dalla governatrice di New York Kathy Hochul, di un possibile intervento della Guardia Nazionale. La tensione è calata dopo che gli studenti hanno accettato di smontare un numero "significativo" di tende e in cambio l'ateneo ha fermato per 48 ore l'orologio dei negoziati. La presidente Shafik, sempre nel mirino, si è poi riunita con il senato accademico in vista di un voto di censura che potrebbe arrivare in fine settimana. Tendopoli sono spuntate intanto in altri campus: alla Brown University in Rhode Island, a Harvard e alla University of Southern California, dove la scorsa settimana era stato cancellato il discorso alle lauree della ’prima della classe' Asna Tabassum per le sue opinioni pro-Gaza, disinvitando, per par condicio, altri vip come il regista di Crazy Rich Asian, Jon Chu, e la tennista Billie Jean King. Con l'anno accademico agli sgoccioli, crescono i timori che le proteste impattino sulle cerimonie. Al Morehouse College in Georgia, uno dei più importanti atenei per studenti afro-americani, un gruppo di professori pro-palestinesi ha chiesto di revocare l'invito al presidente Joe Biden che dovrebbe parlare il 19 maggio alla consegna dei diplomi: troppo debole a loro avviso nella difesa dei palestinesi intrappolati a Gaza.
Israele contro l'Onu: "Ha omesso Hamas dalla lista nera dei paesi che usano lo stupro come arma di guerra"
Nonostante il rapporto delle Nazioni Unite abbia appurato le atrocità di Hamas il 7 ottobre, nel magico mondo di Antonio Guterres sembra che Israele quel sabato abbia fatto tutto da solo: il gruppo terrorista non entra nell'elenco delle organizzazioni che usano lo stupro come arma di guerra.
di Giulio Meotti
Amit Soussana è stata la prima donna israeliana liberata a fornire una testimonianza diretta delle atrocità sessuali commesse da Hamas anche nei tunnel di Gaza. Racconta al New York Times di essere stata tenuta in ostaggio nella camera da letto di un bambino a Gaza con una catena alla caviglia. Il terrorista di Hamas incaricato di sorvegliarla, “Muhammad”, di tanto in tanto si sedeva accanto a lei sul letto, le sollevava la maglietta e la palpeggiava. Muhammad le chiedeva del ciclo mestruale, se si era lavata e quando sarebbe finito. Una mattina, Muhammad le slacciò la catena alla caviglia in modo che potesse lavarsi nella vasca da bagno. Poi è tornato con una pistola. “Mi ha puntato la pistola alla fronte”, ha raccontato Soussana. L’ha trascinata nella stanza del bambino, ricoperta di immagini di SpongeBob. “Poi, con la pistola puntata, mi ha costretto a commettere un atto sessuale”. Ci sono almeno quindici sopravvissuti al festival musicale Nova – in cui sono state uccise più di 360 persone – che sono stati testimoni di stupro individuale e di gruppo in diversi luoghi. Da un’indagine condotta da Haaretz emerge che l’organizzazione SafeHeart, nata per fornire sostegno psicologico ai sopravvissuti al massacro, conta almeno altri dieci testimoni oculari di stupri. Alla fine di marzo è stata resa pubblica anche una prima confessione. Manar Qassem, della Jihad islamica, arrestato dalle forze israeliane a Khan Yunis, ha confessato durante l’interrogatorio di aver violentato una donna in un kibbutz. E nonostante gli standard rigorosi, anche il rapporto delle Nazioni Unite è giunto a conclusioni chiare. Molteplici casi di violenza sessuale, inclusi stupri di gruppo, sono avvenuti in almeno tre luoghi diversi: sul luogo del Nova festival, vicino alla strada 232 e accanto a un rifugio nel Kibbutz Reim. Eppure, nel fantastico mondo di António Guterres, sembra che Israele abbia fatto tutto da solo, il 7 ottobre. Il segretario generale dell’Onu si è astenuto dall’inserire Hamas nella lista nera degli stati e delle organizzazioni che usano lo stupro come arma di guerra. Nonostante l’esplicito riconoscimento da parte dell’inviata dell’Onu Pramila Patten del chiaro legame tra l’attacco terroristico di Hamas e la violenza sessuale sistematica, la lista nera omette Hamas e comprende Repubblica Centrafricana, Repubblica democratica del Congo, Iraq (Isis), Libia, Yemen, Mali, Somalia, Siria, Sudan, Sud Sudan, Myanmar, Siria, Haiti e Nigeria. Il ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, si è detto “disgustato”. L’Onu si difende dicendo che Hamas non è uno stato, anche se agiva come tale a Gaza e molti lo vorrebbero veder riconosciuto. E poi perché allora ci sono Iraq e Libia nella testa? Neanche l’Isis e i predoni libici sono stati. Per due mesi dopo il 7 ottobre, i rappresentanti dell’Agenzia delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere e l’emancipazione femminile si sono rifiutati di incontrare le donne israeliane. A metà novembre, UN Women ha rilasciato una breve dichiarazione in cui criticava i “numerosi resoconti di atrocità di genere e violenza sessuale” perpetrati da Hamas. Il 20 novembre, Miriam Schler, direttrice del Centro antistupro di Tel Aviv, ha accusato i gruppi internazionali e l’Onu di “farsi in quattro per giustificare le atrocità e razionalizzare lo stupro”. Le Nazioni Unite hanno celebrato a livello internazionale la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Non una parola è stata detta su Hamas. Il 4 marzo, cinque mesi dopo il 7 ottobre, le Nazioni Unite hanno diffuso un rapporto su “prove chiare e convincenti sulla violenza sessuale, lo stupro, la tortura sessualizzata, i trattamenti crudeli, inumani e degradanti” impiegati da Hamas. Eppure, Hamas continua a farla franca. Ha ragione Bret Stephens quando scrive sul New York Times: “Nelle aule di tribunale iraniane la testimonianza legale di una donna vale la metà di quella di un uomo. Negli angoli della sinistra che odiano Israele, il valore dei testimoni israeliani sembra essere ancora più basso”. E se continua così, rischia di finire che a stuprare sono stati gli israeliani e che l’Unrwa è una specie di Santa Maria Goretti.
La Pasqua trascorsa da una famiglia ebraica di New York spiega quali danni arrechi all'Occidente un eccesso di criticismo
di Federico Rampini
La nuova puntata della rubrica «Oriente Occidente» di Federico Rampini parte dal racconto della Pasqua di un newyorkese: «Il mio dentista, il dottor Jonathan Goldenthal, mi ha descritto questa festa come un momento difficile. La comunità jewish a New York è spesso stata critica con Benjamin Netanyahu e sul modo in cui sta gestendo le operazioni nella Striscia di Gaza». Rampini spiega quanto diffusa sia la componente di sinistra tra gli ebrei: in molti hanno persino partecipato alle manifestazioni pro-Palestina in città.
Nonostante questo – spiega – la comunità ebraica ha vissuto la Pasqua in un clima di antisemitismo. Per la famiglia Goldenthal, Passover è stato un momento difficile anche per il contatto con il figlio trentenne». Se Jonathan è stato un “peacenick”, un pacifista degli anni ’60, il figlio è quasi un militante di destra, contrario all’ideologia “woke”. «Non è stata una festa particolarmente rilassata – spiega Rampini - Ma questo quadretto di vita familiare dei Goldenthal è interessante perché ci dice quello che è l'Occidente. Noi divisi, autocritici, dubbiosi, sempre impegnati a rimetterci in discussione. Ed è bene che siamo così. Questa nel tempo, nei secoli, è stata una delle nostre forze. L'importante è che non diventi autodistruzione, che non diventi un modo per pensare, immaginare, teorizzare che le altre civiltà, le altre culture, sono superiori alla nostra. No, non lo sono».
I fan di Hamas hanno il controllo delle università e prendono a bastonate gli studenti per la loro razza: 150 arresti a New York, 100 solo alla Columbia. Accoltellata una docente a Yale. Il professor Davidai: «Sembra il 1938». Trump: «La colpa è tutta di Biden».
di Maddalena Loy
«Quello che sta succedendo nelle nostre università - Columbia, New York university e altre - è una vergogna ed è colpa di Joe Biden: ha dato il segnale sbagliato, ha usato toni e parole sbagliate, non sa neanche chi sostiene ... è un disastro». Il commento di Donald Trump sui violenti scontri pro Hamas scoppiati nei più prestigiosi campus americani dà la misura di quanto la guerra a Gaza sia ormai un problema anche americano che Washington non sa più gestire. «Quello che sta facendo Biden è una vergogna», ha aggiunto l'ex presidente Usa mentre arrivava al tribunale di Manhattan, «non ha alcun messaggio, non ha pietà, è il peggior presidente nella storia del nostro Paese». Trump, in corsa per le presidenziali di novembre, si riferiva all'ecumenico messaggio di Biden sulle proteste antisemite nelle università, accusandolo di voler essere amico sia di Israele che del mondo arabo. «Ma non funziona: è un incompetente. Non avremo mai la pace con lui», ha chiosato. Gli scontri nei campus si stanno nel frattempo intensificando e hanno coinvolto anche estremisti esterni: nelle immagini compaiono spesso insieme agli studenti - copione già visto anche in Italia - probabilmente infiltrati per soffiare sul fuoco. La miccia è partita dalla Columbia university, dove la scorsa settimana sono state arrestate oltre 100 persone. I manifestanti hanno promesso che gli studenti ebrei sarebbero stati i «prossimi obiettivi» di Hamas, inneggiando ad AlQassam (l'ala militare di Hamas, ndr). Uno studente ebreo è stato colpito dai manifestanti a bastonate e a un gruppo è stato intimato di «tornare in Polonia». Jonathan Lederer ha raccontato a The Free Press di essere stato aggredito e molestato ripetutamente sabato scorso all'interno dei cancelli della Columbia: «Per cinque giorni, i manifestanti si sono accampati dentro al campus. La loro ultima richiesta è di definanziare la sicurezza pubblica della Columbia, ossia le uniche persone auspicabilmente incaricate di tenerci al sicuro». Boicottati anche gli insegnanti: «Stamattina ho provato a entrare al campus ma la mia chiave di accesso non funzionava», ha raccontato su X il professor Shai Davidai, «l'università si è rifiutata di lasciarmi entrare perché "non possono proteggere la mia sicurezza in quanto sono un professore ebreo": questo è il 1938». Secondo alcuni docenti, i gruppi anti israeliani si sono trasformati in una «vera organizzazione terroristica»: «Non è corretto», ha denunciato Lederer, «definirli pro Palestina, sono sostenitori attivi di Hamas e lo dicono esplicitamente». Durante le sommosse del fine settimana, gli agenti di pubblica sicurezza della Columbia non si trovavano da nessuna parte. «Alla polizia di New York non è consentito l'accesso al campus a meno che non sia specificamente richiesto dalla rettrice (l'egiziana Minouche Shqfik, ndr) e, come ha chiarito oggi il sindaco di New York, Erie Adams, non è stato richiesto. Eravamo da soli», ha rivelato Lederer. È per questo motivo che un rabbino della Columbia ha avvertito gli studenti ebrei di lasciare il campus «per la loro sicurezza», mentre i vertici universitari hanno cancellato le lezioni in presenza per «disinnescare le tensioni». Cento professori della Columbia si sono radunati per contestare la «repressione» nell'università, altrettanti hanno chiesto più protezione per gli studenti ebrei: la frattura all'interno del campus sembra insanabile. A Yale non è andata meglio. «Sono stata accoltellata all'occhio ieri sera nel campus perché sono ebrea», ha denunciato SaharTartak. «Dal 7ottobre Yale si è rifiutata di agire contro gli studenti che glorificano la violenza. Il problema», ha spiegato Tartak, «non sono gli studenti ma gli amministratori e i professori che si imboscano in mezzo alla folla senza condannare la demonizzazione degli ebrei». A Yale, la polizia ha arrestato almeno 60 persone, tra cui 47 studenti. Il bilancio degli arresti alla New York university, uno degli altri atenei americani dove sono esplose le proteste e le occupazioni contro la guerra nell'enclave palestinese, è arrivato a 150 persone. Tra gli arrestati vi sono studenti e docenti ma anche persone non collegate all'università, fa sapere la polizia, che è intervenuta su richiesta dei vertici dell'ateneo. «Stiamo osservando queste dinamiche nei campus di tutto il Paese», ha dichiarato Kaz Daughtry, vicecapo della polizia di New York. In California, il politecnico Poly Humboldt è stato chiuso dopo che manifestanti pro Hamas mascherati hanno occupato un edificio amministrativo e si sono barricati all'interno del campus. Altre segnalazioni di accampamenti nelle università dell'area di Boston (Tufts, Emerson e il M.I.T. - Massachusetts institute of technology), nell'università del Michigan e a Berkeley in California. Dopo gli arresti alla Columbia, gli studenti Usa hanno protestato in segno di «solidarietà». Manifestazioni alla Brown, a Princeton e alla Northwestern, azioni di protesta anche all'università di Boston, all'università della California e all'università della Carolina del Nord a Chapel Hill. A Washington, la situazione è ormai sfuggita di mano.
La protesta in Israele non riguarda solo Bibi. I seder senza ostaggi
Se il Qatar non sarà più mediatore per i prigionieri nella Striscia di Gaza sarà un problema. Dopo gli ultimi rifiuti di Hamas la parola "negoziato" è scomparsa
di Micol Flammini
Il primo tavolo vuoto, in Israele, è comparso a Tel Aviv, nel luogo che è stato ribattezzato Piazza degli Ostaggi: prima spazio del dolore per gli israeliani fatti prigionieri da Hamas il 7 ottobre, poi spazio dell’attesa quando il negoziato con i terroristi, mediato da Stati Uniti, Egitto e Qatar aveva portato a novembre all’unica tregua e alle prime liberazioni; oggi spazio della protesta, perché del negoziato non si sa più nulla e la rabbia delle famiglie degli oltre centotrenta sequestrati rimasti nella Striscia si sta trasformando in lotta politica. Dai primi giorni dopo i pogrom nei kibbutz che confinano con Gaza, un lungo tavolo in Piazza degli Ostaggi era diventato il luogo in cui l’assenza era diventata un’immagine concreta e chi lo aveva allestito, con le sedie vuote con appesi i volti degli ostaggi, forse non avrebbe immaginato che tutto Israele per la festa della Pasqua si sarebbe riempito di tavoli apparecchiati per qualcuno che non si sarebbe potuto sedere. Nel kibbutz di Be’eri, il 7 ottobre sono state uccise più di cento persone, trenta sono state catturate, tredici sono state liberate a novembre, sei sono morte durante la prigionia e undici rimangono ancora nella Striscia. I sopravvissuti hanno deciso di andare a Tel Aviv e di sedersi proprio nella Piazza degli Ostaggi per mostrare tutte le sedie rimaste vuote, per ora oppure in eterno, durante il seder di Pasqua. Seder in ebraico vuol dire ordine, indica tutti i riti e le tradizioni che si svolgono per la festa e quest’anno, gli israeliani hanno deciso che i loro seder sarebbero stati ribattezzati “non seder”, perché più che della festa hanno la forma della protesta, più dell’ordine sono il simbolo di un paese messo a soqquadro dall’attacco del 7 ottobre. Alcuni tavoli sono stati dati alle fiamme, un “non seder” è stato organizzato anche davanti alla casa del primo ministro Benjamin Netanyahu a Cesarea. I manifestanti urlavano contro il premier, chiedevano un accordo a ogni costo e invece di versare il vino rosso tradizionale della festa, il tavolo è stato imbrattato di vernice. La festa della Pasqua celebra il ritorno e nel paese delle assenze risulta impossibile, stonato, offensivo ricordare la fine delle prigionie di un tempo quando ancora tanti israeliani sono in prigionia oggi. La parola “negoziato” è scomparsa, dopo gli ultimi rifiuti di Hamas di acconsentire alle sei settimane di cessate il fuoco e alla liberazione di quaranta sequestrati in cambio della scarcerazione di un numero molto superiore di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, e nessuno tra i negoziatori è stato in grado di pensare a una nuova proposta. Non ci sono più viaggi tra gli emissari, soltanto una notizia che potrebbe chiudere un canale di comunicazione che finora è stato importante: il Qatar sta pensando di rinunciare al suo ruolo di mediatore. Doha ritiene di essere oggetto di una campagna denigratoria per il suo rapporto con Hamas, e rivendica la sua serietà nei negoziati. Alcuni esponenti della politica israeliana e anche membri dell’intelligence avevano invece accusato il Qatar di non fare abbastanza pressione sui terroristi, ma se adesso i qatarini si sfilassero dai negoziati, sarebbe complesso trovare un nuovo mediatore e il più remoto degli sforzi dovrebbe essere ricostruito da capo, in un momento in cui Hamas si sente abbastanza forte da tentare un ritorno a nord della Striscia e di rifiutare le proposte di cessate il fuoco. I famigliari degli ostaggi seguono queste notizie, e le lamentele che un tempo riguardavano soltanto Netanyahu adesso si stanno espandendo a tutto il gabinetto di guerra, con lentezza e tatto nei confronti di chi, come l’ex capo di stato maggiore Gadi Eisenkot, ha pagato la guerra con la perdita di un figlio al fronte. Eisenkot era a Piazza degli Ostaggi con le altre famiglie, assieme a lui c’era anche il ministro della Difesa Yoav Gallant, nessuno ha gridato contro di loro, nessuno li ha cacciati. Netanyahu è il più distante e meno empatico, ma non decide da solo.
Ogni famiglia reinterpreta i seder a modo suo, ognuno, oltre alle sedie vuote, quest’anno ha scelto di mettere sul tavolo un cibo diverso. Anche questa è una tradizione, quando nel 2014 iniziò la guerra in Ucraina, nei seder comparvero i semi di girasole, simbolo del paese e anche della resistenza di Kyiv.
E’ cosa nota che la festa di Pesach celebra la liberazione degli ebrei dall'Egitto. Meno noto è che la libertà dalla schiavitù egiziana figura nel primo dei Dieci Comandamenti: "Io sono il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dalla terra d'Egitto, dalla casa di schiavitù" (Es. 20:2; Deut. 5:6). E nel quarto comandamento, quello sull'osservanza dello Shabbat, è scritto: "Il settimo giorno è Shabbat per il Signore tuo Dio, non potrai fare alcuna opera né tu, né tuo figlio né tua figlia, né il tuo servo né la tua serva (... ) in modo che il tuo servo e la tua serva possano riposare come tu stesso, e ti ricorderai che schiavo fosti in terra d'Egitto e il Signore tuo Dio ti fece uscire da là con mano forte e con braccio disteso (Deut. 5:12-15). Numerosi sono i precetti della Torah che traggono la loro liberazione dall’uscita dall’Egitto, o per differenziarsi dai comportamenti e gli usi egiziani o per la consapevolezza che gli ebrei acquisirono vivendo in quel paese (per esempio, la condizione di straniero).
Se è chiaro da cosa siamo liberati, la domanda che ci si può porre è siamo liberi di fare cosa? Liberi di essere chi? Di stare dove? A quest'ultima domanda risponde la Haggadà di Pesach, che proprio all'inizio afferma: "Quest'anno qui (nella diaspora) schiavi, l'anno prossimo liberi (benè chorin) in terra d'Israele". Una frase che da duemila anni abbiamo recitato ogni anno, finalmente non invano: Israele è l'unico paese al mondo in cui gli ebrei sono liberi di essere ebrei, senza doversi nascondere (per esempio, nascondendo la kippà) e senza doversi giustificare se ci si comporta da ebrei.
Alle altre domande, liberi di fare cosa e di essere chi, rispondono i Pirqè Avot (le Massime di Padri, il trattato etico della Mishnà): "Disse rabbi Yehoshua ben Levi: Ogni giorno una voce celeste esce dal Monte Chorev (il Sinai) e proclama il versetto della Torah che dice: 'Le Tavole (della Legge) sono opera di Dio, e ciò che è scritto è scritto da Dio, scolpito (charut) sulle Tavole' (Es. 32:16): non leggere 'charut' bensì 'cherut' (libertà), perché non è veramente libero (ben chorin) se non colui che si occupa di Torah" (cap. 6:2). Questa massima dei Pirqè Avot si basa sulla possibilità della Torah di essere letta in diversi modi, grazie al fatto che il testo ebraico non è vocalizzato. Non si vuole sostituire un significato all'altro né eliminare quello letterale, ma solo aggiungere una dimensione ulteriore al senso del versetto. Vediamo quindi che per i Maestri della Mishnà la libertà non è incondizionata e illimitata, ma è vincolata dall'osservanza della legge. Da una parte solo chi vive secondo una legge è libero; dall'altra parte, però, tutti i numerosi precetti della Torah sembrano scolpiti nei nostri cuori e non pare che ci lascino molti margini di libertà. Alcuni pensano che lo Shabbat sia una giornata monotona e noiosa, non potendo andare ovunque vogliano o fare qualsiasi cosa: si sentono menomati nella propria libertà. Altri, all'opposto, accolgono lo Shabbat con attesa e gioia, liberi finalmente dal lavoro e dalle preoccupazioni quotidiane.
Quando un servo, nell'antichità, voleva rimanere a servizio di un padrone, invece che tornare libero dopo sei anni di lavoro come previsto dalla legge, lo si avvicinava allo stipite (mezuzà) della porta e gli si bucava l'orecchio. Per quale motivo? Spiega Rashì: Un uomo che presso il Monte Sinai ha sentito dal Signore con le sue orecchie che gli ebrei sono i Suoi servi, e non servi di servi, e nonostante ciò vuole continuare a rimanere in condizione di schiavitù presso altri uomini, gli venga bucato l'orecchio come segno di riprovazione morale per aver disdegnato la libertà (Es. 21:1-6).
È ovvio che in una società retta dalla giustizia ci debba essere libertà di pensiero, anche perché solo Colui che è Uno può leggere nella mente delle persone. È altrettanto giusto che ci debba essere libertà di espressione. Ma quando in nome della libertà di espressione si toglie ad altri la stessa libertà di esprimere la propria opinione, allora la prima non è più una forma di libertà ma di prevaricazione. E se le parole di qualcuno costituiscono un'offesa verso altri, allora queste parole non sono più legittime. Qualora quanto detto da qualcuno istighi e induca altri a commettere un reato, non può che essere vietato. Come commenta Rav Yoseph Colombo, "la vera libertà può aversi nell'ambito della legge, come ubbidienza e consapevolezza razionale della legge anziché come arbitrio e licenza" (Pirqè Avot, Carucci editore, 1977, p. 64, n. 2).
(Pagine Ebraiche, aprile 2024) ____________________
"Israele è l'unico paese al mondo in cui gli ebrei sono liberi di essere ebrei, senza doversi nascondere e senza doversi giustificare se ci si comporta da ebrei", dice Rav Di Segni, ed è assolutamente vero, perché proprio questo ha fatto nascere il sionismo laico da cui è scaturito lo Stato d'Israele come difesa dalle prepotenze dei non ebrei. Ma una volta ottenuto questo, resta la domanda: che cosa significa comportarsi da ebrei all'interno di Israele? O più radicalmente ancora: che cosa significa essere ebrei? Si può dire allora, con benevola simpatia, che Israele deve essere difeso se non altro per essere l'unico paese al mondo in cui gli ebrei possono liberamente azzuffarsi fra di loro su quello che significa essere e vivere da ebrei. M.C.
Le guerre, per quanto possibile, è sempre meglio finirle in fretta, raggiungere gli obiettivi che ci si è preposti per poi cercare di ritornare a una situazione di normalità, altrimenti si rischia di impantanarsi in una situazione di incertezza e imprevedibilità dalla quale diventa molto difficile uscire. Purtroppo il governo di unità nazionale guidato da Benjamin Netanyahu è andato proprio in questa direzione e a sette mesi dal quel tragico 7 ottobre 2023, i due leader di Hamas a Gaza (Yahya Sinwar e Mohammed Deif) sono ancora latitanti, e la pressione su Hamas per cercare di riportare a casa i restanti ostaggi è stata allentata. Nel centro e nel nord di Gaza sono rispuntati i terroristi e a Rafah l’IDF ancora non ha messo piede, nonostante i continui proclami di Netanyahu che probabilmente resteranno tali, almeno per il momento. Del resto l’amministrazione Biden non vuole assolutamente che venga dato il via all’offensiva su Rafah, in teoria a causa delle possibili perdite di civili palestinesi, in pratica però le ragioni sono ben altre, come emerso anche dalle pressioni fatte su Israele affinché non rispondesse ai più di trecento droni e missili balistici lanciati dall’Iran. E’ oramai noto che l’iniziale risposta al regime di Teheran è stata bloccata da una telefonata di Biden a Netanyahu che ancora una volta ha ceduto. Nel nord d’Israele intanto sono ancora migliaia le persone sfollate a causa dei continui attacchi di Hezbollah ed anche in questo caso Netanyahu non sembra aver fretta di lanciare un’offensiva efficace con l’obiettivo di ripristinare la normalità nella zona. Inutile prendersi in giro, l’amministrazione Biden è preoccupata di perdere le elezioni, di perdere Michigan e Minnesota, ben consapevole che molti dei voti arriveranno da quegli stessi ambienti che stanno portando avanti nelle università americane una caccia all’ebreo degna della Germania nazista degli anni ’30. Trattasi di manifestazioni dove si inneggia a Hamas, a Hezbollah, all’intifada; si invoca la morte dell’America, la distruzione di Israele, si aggrediscono gli studenti ebrei; oscenità del genere si sono viste alla Columbia University, a Yale, alla NYU ed altre ancora. Una studentessa ebrea a Yale è stata colpita in un occhio con una bandiera palestinese da un manifestante che poi è fuggito protetto dai suoi compagni. Al professore israeliano della Columbia University, Shai Davidai, è stato impedito di entrare nel campus e la sua tessera di docente è stata disattivata dopo aver criticato l’università per non aver protetto gli studenti ebrei. Sharon Knafelman, vice-presidente di Bears for Israel, associazione attiva a Berkley, ha raccontato a Fox News: “Ho visto sputare addosso al mio amico, chiamato “sporco ebreo”, ho visto una ragazza venire strangolata… Gli Stati Uniti si trovano ora davanti a una decisione, se stare o meno dalla parte giusta della storia“. Se questo è il bacino elettorale di cui l’amministrazione Biden è preoccupata, allora non c’è da sorprendersi se Washington da mesi fa di tutto per fermare Israele dallo sradicare Hamas e dal rispondere militarmente al regime iraniano. Del resto a poco più di una settimana dall’aggressione iraniana a Israele, l’agenzia di stampa tedesca Dpa ha riferito che l’Iran è nuovamente in contatto con gli Stati Uniti per la ripresa dei colloqui sul nucleare. Diversi media statunitensi hanno evidenziato come le manifestazioni siano diventate ancor più aggressive e violente nell’ultima settimana, tanto che in alcune università della Ivy League è stato richiesto l’intervento della polizia in assetto anti-sommossa per effettuare gli sgomberi. Ciò non è un caso. La non-azione di Netanyahu, i suoi continui proclami bellici privi di conseguenti azioni efficaci, il sottostare al volere dell’amministrazione Biden non stanno soltanto mostrando un’immagine debole d’Israele, mettendo in serio rischio la sicurezza del Paese (l’Iran non avrebbe mai attaccato altrimenti direttamente dal proprio territorio) ma sta anche mettendo in pericolo le comunità ebraiche all’estero. I registi delle manifestazioni pro-Hamas nelle università americane sono ben consapevoli del potere di cui dispongono, sanno di poter esercitare pressione su un’amministrazione Biden che già di suo non è mai stata incline a sostenere Israele e che è terrorizzata dell’esito elettorale. In aggiunta, vedono che il governo guidato da Netanyahu si sta mostrando debole e dunque si sentono in posizione di forza e legittimati a proseguire con gli attacchi contro gli studenti ebrei. Trump era stato molto chiaro con Netanyahu, consigliandogli di finire in fretta ciò che andava fatto a Gaza, ben consapevole che un prolungamento del conflitto avrebbe reso tutto più difficile. Netanyahu ha però fatto l’esatto contrario. Oggi, a sette mesi dal 7 ottobre, ci si trova con Hamas ancora radicato nel sud di Gaza, numerosi ostaggi mancano ancora all’appello, gli sfollati nel nord d’Israele non sono ancora potuti rientrare nelle proprie case, la risposta israeliana all’Iran è stata inadeguata (ha ragione Ben Gvir) e gli studenti ebrei nelle università statunitensi sono vittime di una persecuzione degna della Germania nazista. Un fallimento su tutta la linea che potrà anche andare a genio a Biden, ma che non giustifica Netanyahu. Sembra quasi che il premier israeliano voglia trascinare la situazione il più a lungo possibile, a discapito della stabilità e dell’economia israeliana, dunque agli interessi di Israele stesso.
Nelle università l'antisemitismo rivive sotto a un antisionismo che ora va di moda”
Parla il prof. Berti (docente di Storia delle dottrine politiche a Padova): "Oggi l'aspetto antisemita viene coperto da antimperialismo, anticolonialismo e anticapitalismo. Il boicottaggio di Israele? Sono contrario. Gli accordi riguardano le università, non gli stati”.
"Non credo che l’antisemitismo sia mai morto”. Lo dice al Foglio Francesco Berti, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Padova. Lo abbiamo raggiunto per cercare di capire se con il clima che si respira nelle università italiane (e non solo), dopo i nuovi scontri di ieri a Torino tra manifestanti pro-Palestina e Polizia, ci sia il rischio concreto che si rinfocoli, soprattutto tra i più giovani, un certo antisemitismo, che credevamo essere una pagina oramai chiusa della nostra storia. “Molti forse si erano illusi che la Shoah avesse immunizzato la società da questo veleno”, analizza Berti. “Eppure da anni c’è chi mette in guardia sul fatto che se, certo, l’antisemitismo come parola è screditato, è un termine politicamente scorretto, se la forma razzista nella quale si era proposto con grande successo nel Novecento è da tempo confinata ai proclami farneticanti di gruppi estremisti per lo più marginali, il contenuto dell’antisemitismo ha continuato a vivere in un’altra forma, ha assunto abiti nuovi, in alcune correnti dell’antisionismo. Cioè non la critica – di per sé legittima, ovviamente – verso determinate politiche dello Stato israeliano, o verso specifici governi, ma la condanna senza appello dello Stato di Israele in quanto tale. È nella forma dell’antisionismo che l’antisemitismo dapprima ha assunto in certi ambienti intellettuali, anche delle università, in tutto il mondo, una forma di nuova rispettabilità, per diventare in tempi più recenti una vera e propria moda culturale”. Secondo il docente dell’ateneo padovano, infatti, “l’elemento specificamente antisemita, impresentabile, viene coperto, mascherato, da altri aspetti, considerati invece positivi: l’antimperialismo, l’anticolonialismo, l’anticapitalismo, in generale l’antioccidentalismo”. E cioè esattamente gli ingredienti che si possono osservare nelle rivolte dei campus americani di questi giorni.
Le università Usa trasformate in roccaforti di Hamas
Clima da Germania anni ’30 alla Columbia e in altri campus, con l’accondiscendenza delle autorità accademiche. Lezione da apprendere velocemente anche in Italia
Quanto sta accadendo nei più prestigiosi campus Usa dovrebbe indurre a non prendere sottogamba le proteste pro-Hamas che da settimane subiamo anche nei nostri atenei (e non solo). La fiamma dell’antisemitismo è la stessa e l’intervento della polizia in Italia ha probabilmente impedito eccessi simili a quelli visti alla Columbia University e in altri atenei Usa.
• Le proteste alla Columbia Mercoledì scorso alla Columbia la protesta è giunta al culmine, con la richiesta all’università di interrompere gli accordi di collaborazione con istituzioni e aziende israeliane o che hanno legami con Israele – il boicottaggio accademico che è stato chiesto e in qualche caso ottenuto anche nelle università italiane – e l’occupazione del campus. Un’occupazione in pieno stile CHAZ – la “zona autonoma” autoproclamata dagli Antifa nel quartiere Capitol Hill di Seattle nel giugno 2020, nel corso delle proteste per la morte di George Floyd. Giovedì alla polizia di New York è stato finalmente chiesto dalle autorità accademiche, che fino ad allora avevano esitato, di entrare nel campus e porre fine all'”accampamento”. Gli agenti hanno smantellato la tendopoli improvvisata e arrestato 130 studenti per violazione di domicilio. Ma domenica i manifestanti pro-Hamas hanno rapidamente ricostituito il loro accampamento negli spazi pubblici della Columbia, sfidando gli amministratori e le forze dell’ordine. Il sindaco di New York Eric Adams si è detto pronto a mandare la polizia se la Columbia lo richiederà nuovamente. Agghiaccianti i canti e gli slogan intonati, nelle stesse ore in cui la rettrice, insieme ai co-presidenti del consiglio di amministrazione, testimoniava davanti al Congresso sull’antisemitismo nel campus. “We are Hamas”, “Al-Qassam (l’ala militare di Hamas, ndr), you make us proud, take another soldier out”; “We say justice, you say how? Burn Tel Aviv to the ground”; “Hamas, we love you. We support your rockets too”. Riduttivo definirla una protesta pro-palestinese, come si evince da questi slogan siamo in presenza di un esplicito sostegno ad Hamas e all’invocazione dello sterminio di ebrei.
• L’ignobile resa della rettrice Dopo giorni di proteste e un centinaio di arresti, la tensione è salita a tal punto che lunedì la rettrice Nemat “Minouche” Shafik ha assunto l’inaudita decisione di passare alla didattica a distanza per la sicurezza di studenti e docenti di religione ebraica, attirandosi le critiche bipartisan del Congresso. La rettrice ha in sostanza chiuso l’università, esortando gli studenti a non recarsi nel campus, in una dichiarazione pubblicata poco dopo l’una di notte di lunedì. Nel comunicato, si è detta “profondamente rattristata” per alcune azioni degli attivisti, che hanno eretto un “accampamento” nel campus e “irritato” studenti e docenti con slogan e canti antiebraici. Rattristata… “Abbiamo bisogno di un reset“, ha aggiunto. “Per allentare il rancore e dare a tutti noi la possibilità di considerare i prossimi passi, annuncio che lunedì tutte le lezioni si terranno online. I docenti e il personale che possono lavorare da remoto dovrebbero farlo; il personale essenziale dovrebbe presentarsi al lavoro secondo la politica universitaria. Invitiamo gli studenti che non vivono nel campus a non entrarvi”. Insomma, un clima da Germania nazista anni ’30.
• Aggressioni e intimidazioni Una studentessa ebrea della Columbia è stata ripetutamente presa a calci nello stomaco durante le proteste e, secondo quanto riportato, un’attivista le avrebbe detto di “uccidersi”. “La Columbia si è rifiutata di lasciarmi entrare nel campus. Perché? Perché non possono proteggere la mia sicurezza come professore ebreo. Questo è il 1938″, ha denunciato il prof. Shai Davidai, che si è ritrovato disattivato il tesserino universitario. Si direbbe che più che proteggere lui, l’intenzione sia quella di proteggere la “zona autonoma” pro-Hamas. “La situazione alla Columbia è degenerata al punto che la mia sicurezza fisica è in pericolo”, è la drammatica testimonianza di uno studente ebreo, Jonathan Lederer, su The Free Press. “Sabato notte, 20 aprile, sono stato aggredito e minacciato ripetutamente all’interno dei cancelli della Columbia“. E “alla fine siamo stati cacciati dal campus e ci è stato detto di ‘tornare in Polonia‘, un acuto promemoria del fatto che anche in America gli antisemiti desiderano condannare gli ebrei come me al tragico destino dei nostri antenati”. Uno dei rabbini del campus, Elie Buechler, ha esortato gli studenti ebrei a partire presto per la Pasqua ebraica: Ciò a cui stiamo assistendo dentro e intorno al campus è terribile e tragico. Gli eventi degli ultimi giorni, soprattutto la scorsa notte (sabato, ndr), hanno reso chiaro che la Pubblica Sicurezza della Columbia University e la polizia di New York non possono garantire la sicurezza degli studenti ebrei di fronte all’estremo antisemitismo e all’anarchia. Mi addolora profondamente dire che vi consiglio vivamente di tornare a casa il prima possibile e di rimanere a casa finché la situazione all’interno e nei dintorni del campus non sarà notevolmente migliorata”. Le proteste pro-Hamas non sono purtroppo confinate alla Columbia ma coinvolgono anche altri atenei della Ivy League. Dal 7 ottobre, gli studenti sono stati intimiditi e minacciati fisicamente anche ad Harvard, picchiati a Tulane, costretti a lasciare le loro sale da pranzo kosher alla Cornell. Assediati e costretti a nascondersi alla Cooper Union. Una ex stagista di National Review, Sahar Tartak, è stata “trafitta in un occhio con una bandiera palestinese” a Yale, dove gli arresti sono stati 50. “Immaginate se gli studenti neri della Columbia venissero provocati con canti come ‘tornate in Africa‘, oppure se uno studente gay a Yale fosse circondato da manifestanti omofobi e trafitto nell’occhio con l’asta di una bandiera”, ha commentatoBari Weiss. “Oppure, immaginate se un imam del campus dicesse agli studenti musulmani che dovrebbero tornare a casa per il Ramadan perché la loro sicurezza nel campus non è garantita”. Quale sarebbe stata la reazione dei media e della politica? Su X è intervenuto il miliardario Bill Ackman, chiedendo provocatoriamente: “Come risponderebbe la Columbia se gli studenti prendessero il controllo del campus a sostegno del KKK e chiedessero il genocidio di altre minoranze etniche? La Columbia continuerebbe a sostenere le manifestazioni sulla base di un impegno per la libertà di parola o il codice di condotta dell’università avrebbe improvvisamente un impatto operativo?”
• Rettrice sotto accusa Sotto accusa la rettrice, per la sua accondiscendenza. Più grave del fatto che la situazione le sia sfuggita di mano è che perseveri su una linea che di fatto lascia campo libero agli antisemiti. In un intervento sul Wall Street Journal, ancora ieri cercava di giustificarsi con la supposta necessità di conciliare “il diritto alla libertà di parola dei manifestanti filo-palestinesi e l’impatto che queste proteste stavano avendo sui nostri studenti ebrei e sui loro sostenitori”, dovendo riconoscere che “alcune cose dette durante quelle proteste e sui social media erano profondamente inquietanti e spaventose”. “Cercare di conciliare il diritto di parola di una parte della nostra comunità con il diritto di un’altra parte della nostra comunità di vivere in un ambiente favorevole o almeno libero da paure, molestie e discriminazioni, è stata la sfida centrale nella nostra università e nei campus di tutto il Paese”. Capite che, vista la situazione, si tratta di un proposito surreale, come cercare di conciliare le ragioni degli aggrediti con quelle degli aggressori. Non risultano al momento prese di posizione del più illustre laureato vivente della Columbia, l’ex presidente Barack Obama.
Nel mezzo della guerra di Gaza, un autore americano sottolinea l'eredità del popolo ebraico in un libro per bambini. E non si lascia influenzare dalle migliaia di reazioni di odio su Internet.
Con questo libro l'autore ha voluto aiutare sua figlia ad affrontare la guerra in Israele
LOS ANGELES - Lo statunitense Roman Sandler ha pubblicato a gennaio un libro per bambini su Israele nella guerra di Gaza. Si intitola "Under the Rockets‘ Glow: Shira’s Journey to Courage“ (Sotto il bagliore dei razzi: il viaggio di Shira verso il coraggio).
Il libro parla di una ragazza di nome Shira e di suo padre, che le insegna la sua eredità ebraica, da Abramo all'odierno Israele. Una sera, quando i razzi volano fuori dalla finestra della sua camera, il padre vuole incoraggiare la figlia. La storia si conclude con Shira che si addormenta e sogna un mondo di pace.
A febbraio, il libro per bambini ha attirato l'attenzione dell'attrice ebrea Mayim Bialik. Dopo che la star di "Big Bang Theory" ha elogiato il libro sui social media, le vendite del libro sono aumentate. Tuttavia, Sandler e il suo libro hanno anche ricevuto migliaia di risposte di odio da parte di attivisti anti-israeliani su Internet.
• Sandler non si lascia intimidire dall'odio "I soldati israeliani mettono in gioco la loro vita per proteggere la terra di Israele. Il mio contributo è il minimo che possa fare se può aiutare le persone", ha dichiarato il padre 34enne al sito di notizie ebraico-americano "The Algemeiner". "Vedo l'odio come una sorta di conferma che sono sulla strada giusta. Se non fai arrabbiare nessuno, non stai facendo la cosa giusta. Significa che non stai facendo nulla di importante".
Parte del ricavato della vendita sarà devoluto alle vittime dell'attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre. Il libro è dedicato alle vittime del massacro e ai soldati dell'esercito israeliano che "attualmente rischiano la vita per difendere Israele e combattere il male in mezzo a noi", ha spiegato Sandler.
• Non solo reazioni negative Sandler e la moglie israeliana vivono in California con i loro tre figli. Entrambi hanno una famiglia in Israele. Ha dichiarato a "The Algemeiner" di aver voluto scrivere il libro per bambini per spiegare alla figlia di cinque anni la gravità della guerra di Gaza in corso. Vuole aiutare i suoi figli a "capire i principi fondamentali di chi siamo come popolo [ebraico], qual è il nostro legame con questa terra e perché vale la pena combattere per essa".
È il primo libro che Sandler ha scritto. Molti genitori hanno ringraziato Sandler online per il suo libro, dicendo che ha aiutato i loro figli a capire la guerra tra Israele e Hamas. Finora sono state vendute 1.400 copie e il libro sarà presto disponibile in Israele.
(Israelnetz, 24 aprile 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
La liberazione degli ebrei dalla schiavitù e gli ostaggi di oggi a Gaza, schiavi di Hamas
Quest’anno per le famiglie ebraiche in tutto il mondo è più facile immedesimarsi nel proprio vissuto, perché Yahya Sinwar sta tenendo in ostaggio da sei mesi più di 130 persone rapite, bambini compresi
“In cosa questa sera è diversa dalle altre sere?”. Questa domanda viene reiterata quattro volte dai piccoli della famiglia in occasione della cena pasquale ebraica, che è avvenuta ieri sera e, fuori da Israele, si ripete anche questa sera. I bambini vengono invitati a osservare e sorprendersi – e tramite lo sguardo dei più piccoli lo stupore diventa più accessibile anche agli adulti – per come durante la sera avvengano cose differenti da tutte le normali cene. Si mangia solo pane azzimo e non lievitato, si sta appoggiati di lato (mentre nelle sere normali si viene sgridati se si prova a mangiare stando sul gomito!), si mangiano erbe amare e si intingono in una specie di marmellata. Ognuna di queste azioni è simbolica, così le quattro domande aprono alla narrazione dell’uscita degli ebrei dall’Egitto del Faraone, un’epopea dalla schiavitù alla libertà che ha trasformato una massa in un popolo. Un racconto che ha dato linfa a rivoluzioni di altri popoli e che ha contribuito a dare speranza al popolo ebraico nei quasi duemila anni tra la distruzione del Tempio di Gerusalemme per mano dei romani e la riconquistata libertà e indipendenza nazionale con la nascita dello Stato di Israele. Un racconto che avviene in prima persona, quasi in presa diretta, poiché il tentativo è quello di considerarsi in ogni generazione come se direttamente si avesse partecipato agli eventi narrati prima sulle sponde del Nilo e poi nell’attraversamento del mare. La ritualità di queste azioni a prima vista può sembrare un gioco ed è anche divertente, ma in questa cena così sentita son tutti anche serissimi. Negli ultimi 78 anni gli ebrei hanno potuto ascoltare i racconti dei propri genitori e ora nonni che avevano vissuto in prima persona la schiavitù nei campi di sterminio e, per alcuni più “fortunati”, la fuga e i nascondigli che avevano permesso loro di scappare dagli sgherri del Faraone di turno; in parallelo, gli ebrei provenienti dai paesi arabi hanno potuto raccontare a figli e nipoti la fuga dai propri paesi d’origine. Per gli uni e per gli altri talora è seguito l’arrivo in Israele, mentre molti ebrei europei sono tornati dove abitavano prima, ma, per tutti, questa cena è servita per aiutare a elaborare, di generazione in generazione, le persecuzioni subite, mantenendo uno sguardo di fiducia verso il futuro. Tutte queste avventure restavano ancorate in un passato terribile, talora tatuato sulla propria pelle, ma pur sempre mitigato dalla presenza alla propria tavola dei genitori e dei nonni che potevano raccontarlo in prima persona testimoniando al contempo la liberazione avvenuta.
Quest’anno tuttavia per le famiglie ebraiche in tutto il mondo è ancora più facile immedesimarsi nel vissuto della schiavitù, perché Yahya Sinwar sta tenendo in ostaggio da sei mesi più di 130 persone rapite, bambini compresi, e si rifiuta persino di dare prove concrete di chi sia ancora in vita impedendo ai loro parenti di poterli riabbracciare (o almeno di poterli tumulare). Oggi nel cuore di tutti risuonerà la frase di Mosè e Aronne, che rivolgendosi al Faraone, chiedono “lascia andare il mio popolo”.
Sul divano della casa di Ditza Or, nella zona meridionale della Samaria, c’è un poster di cartone a grandezza quasi naturale di suo figlio Avinatan. Una foto scattata poco prima che il ragazzo venisse rapito a Gaza: in questo scatto Avinatan appare in forma, con i capelli dorati, proprio come una star del cinema.
“È un ragazzo così bello” dice sua madre sorridendo. Avinatan ha conseguito una laurea in ingegneria elettrica ed è stato immediatamente accettato per lavorare nel team di sviluppo di un’enorme multinazionale. È un racconto toccante quello di questa madre orgogliosa di suo figlio, un sorriso che per un momento sembra alleggerire, solo un po’, l’oscurità che si nasconde nel suo cuore. L’oscurità che combatte con grande coraggio da quasi sette mesi in cui Avinatan è tenuto prigioniero nelle mani di Hamas. Ditza e Yaron, il padre del ragazzo, non hanno più notizie di loro figlio ormai da ottobre.
“Tutto quello che abbiamo è il video in cui si vede il suo rapimento insieme a Noa” dice Ditza. “Purtroppo, dalle testimonianze delle persone che sono state rilasciate abbiamo appreso che una volta raggiunte le profondità dell’inferno, lì a Gaza, i terroristi hanno separato gli uomini dalle donne. Alcuni di quelli che sono stati rilasciati hanno detto che Noa stava bene. Tuttavia, nessuno ha visto Avinatan. Non sappiamo nulla di lui” racconta la donna durante un’intervista rilasciata alla stampa locale.
Noa Argamani è la fidanzata di Avinatan, la sua compagna da ormai due anni. In molti hanno riconosciuto Avinatan e Noa dal video del loro rapimento, che è diventato uno dei simboli del 7 ottobre. Quel video orribile che li ha trasformati in Romeo e Giulietta della guerra, due bellissimi giovani innamorati che venivano bruscamente e forzatamente separati l’uno dall’altro.
Avinatan è ancora uno dei tanti uomini ancora tenuti prigionieri da Hamas. “Dove sono Avinatan e Noa? Perché non sono seduti qui insieme a me? Vorrei averli qui, a tenersi per mano bevendo una tisana, parlando dei loro piani per un futuro condiviso” dice ancora Ditza, la mamma del ragazzo.
E ciò che è ancora più doloroso per Ditza è che non ha ancora incontrato Noa di persona, non l’ha ancora ospitata nella sua casa. Avinatan e Noa si sono conosciuti alla Ben-Gurion University; non hanno studiato nella stessa classe eppure si sono innamorati. “Stavamo aspettando di vedere se la loro relazione diventava più seria per fare le presentazioni” dice Ditza. “A novembre, avevano in programma di trasferirsi insieme a Tel Aviv” racconta la donna.
Avinatan è il secondo dei suoi sette figli. Tre di loro sono già sposati con figli, e la donna è già nonna di nove nipoti. “All’inizio, subito dopo il 7 ottobre, tutti i miei figli sono venuti qui e hanno dormito con me. La casa era piena. Aspettavamo tutti insieme il ritorno di Avinatan” racconta la donna. Ma quel periodo è finito, e ora, dopo troppi mesi, Ditza aspetta sola il ritorno di suo figlio e della sua compagna Noa, speranzosa che potrà finalmente vederli insieme felici.
Dilagano le manifestazioni antisemite in America dove i campus universitari si sono trasformati in campi di battaglia e le proteste contro Israele si sono ben presto trasformate in una caccia all’ebreo tanto che migliaia di studenti ebrei sono stati invitati a non recarsi nei campus. Cosa sappiamo? Sappiamo che le proteste antisemite più veementi sono alla Columbia University e a Yale. Durante il fine settimana alla Columbia la polizia ha fermato circa 100 persone, non sempre studenti ma anche individui esterni all’università il cui ruolo nelle manifestazioni antisemite è al vaglio della polizia. Gli arresti hanno scatenato le proteste in diversi altri complessi universitari e in particolare a Yale dove sono state arrestate una cinquantina di persone.
• Perché manifestazioni antisemite? Perché le proteste contro Israele si sono trasformate in appelli alla intimidazione fisica degli studenti ebrei. Molti video circolati su X mostrano i manifestanti che cantano slogan chiaramente antisemiti e intimidatori verso gli studenti ebrei. Eliana Goldin, studentessa al terzo anno alla Columbia e co-presidente di Aryeh, un’organizzazione studentesca pro-Israele, ha dichiarato di non «sentirsi più al sicuro» nel campus. Goldin, che è fuori città per la Pasqua ebraica, ha detto che il campus è diventato «super opprimente», con proteste rumorose che disturbano le lezioni e persino il sonno. In un comunicato, Samantha Slater, portavoce della Columbia, ha dichiarato che l’università si impegna a garantire la sicurezza dei suoi studenti. «Mentre ogni americano ha il diritto alla protesta pacifica, gli appelli alla violenza e all’intimidazione fisica contro gli studenti ebrei e la comunità ebraica sono palesemente antisemiti, inconcepibili e pericolosi», ha detto in una nota Andrew Bates, portavoce della Casa Bianca.
• Cosa sta succedendo ora? Domenica sera i manifestanti hanno allestito accampamenti nelle università dell’area di Boston, tra cui il Massachusetts Institute of Technology di Cambridge, l’Emerson College di Boston e la Tufts University di Medford. Circa un’ora fa centinaia di studenti di Yale hanno bloccato un importante incrocio a New Haven, all’angolo tra Prospect e Grove Street. La folla canta «Chiediamo che Yale disinvesta» e «Palestina libera dal Giordano al mare». La New York University Palestine Solidarity Coalition, un gruppo di organizzazioni della New York University, ha organizzato un accampamento di tende in formazione circolare davanti alla Stern School of Business. L’accampamento è stato circondato da barricate metalliche e la sicurezza del campus della New York University sta controllando l’ingresso e l’uscita dall’area. Kaz Daughtry, vice commissario delle operazioni presso la polizia di New York, ha affermato di aver ricevuto segnalazioni di studenti a cui sono state strappate le bandiere israeliane dalle mani e che hanno ricevuto commenti odiosi contro di loro. Ma non ci sono state segnalazioni di attacchi fisici, ha detto, aggiungendo che ha incoraggiato gli studenti a denunciare eventuali aggressioni.
Le dimissioni del generale Haliva, simbolo del collasso della sicurezza di Israele il 7 ottobre
Il capo dell’intelligence militare disse degli allarmi su Hamas: “Aria fritta”. Lascia pure il generale Fuchs. Gli Stati Uniti valutano le prime sanzioni contro un battaglione dell’Idf.
di Giulio Meotti
Dopo il giorno più nero della storia israeliana si era formato un consenso sulla necessità di aspettare fino al dopoguerra per indagare su come Hamas fosse riuscito a invadere il paese, massacrare 1.200 innocenti e prenderne 240 in ostaggio. Dopo sei mesi cade la testa del capo dell’intelligence militare israeliana, Aharon Haliva. Lunedì 22 aprile si è dimesso, mentre dagli Stati Uniti venivano valutate le prime sanzioni americane contro un battaglione dell’esercito israeliano. “Mi porto dietro quel giorno nero, giorno e notte”, ha scritto Haliva in una lettera al capo di stato maggiore, mentre nelle stesse ore arrivavano anche le dimissioni del capo del comando centrale dell’esercito, Yehuda Fuchs. Anche lui si assume la responsabilità deglierrori sul 7 ottobre. Di oggi la notizia, riferita da funzionari di Gerusalemme al New York Times, che Israele ha evitato di colpire obiettivi militari a Teheran su richiesta americana, francese e tedesca (ha scelto una base di Isfahan). Dopo il 7 ottobre sono emerse sempre più informazioni sul collasso della sicurezza. E molte puntavano su Haliva e i suoi subordinati, compresa l’attivazione da parte di Hamas di sim card israeliane (quelle palestinesi non funzionano oltre confine). L’unità di osservatrici della base di Nahal Oz ha subìto le perdite maggiori durante l’assalto. L’unità era responsabile di monitorare 24 ore su 24 le telecamere di sicurezza lungo il confine di Gaza e di allertare esercito e intelligence. Diciassette sono state uccise il 7 ottobre e sette prese in ostaggio. Una, Naama Levy, è stata filmata a piedi nudi, trascinata per i capelli, le mani legate dietro la schiena e i pantaloni macchiato di sangue, segno della violenza sessuale. Nelle interviste con Channel 11, due colleghe hanno raccontato che nei mesi precedenti l’invasione avevano avvertito che i terroristi di Hamas si addestravano per prendere il controllo dei kibbutz e delle basi. Hanno visto e riferito tutto. Ma ufficiali di alto livello vicini ad Haliva hanno ordinato loro di fermarsi. L’hacker Rafael Hayun ha lavorato per anni per l’esercito, che gli ha fornito attrezzature per monitorare le comunicazioni di Hamas. Anche Hayun ha iniziato a riferire di Hamas che lavorava all’invasione di Israele, la penetrazione della barriera in più punti, la conquista di comunità, omicidi di massa e rapimenti. Hayun ha allertato le unità con cui lavorava. Cinque mesi prima dell'assalto, ai suoi colleghi fu ordinato di lavorare con lui. Anche l’Unità 8200 sotto il comando di Haliva ha smesso di monitorare le comunicazioni di Hamas. Anche un sottufficiale dell’intelligence esperto di Hamas con vent’anni di esperienza ha iniziato a fornire rapporti dettagliati sui preparativi di Hamas nel maggio 2022. Includevano aspetti dell’invasione che avrà luogo il 7 ottobre, compreso l’uso di deltaplani e motociclette. Il suo comandante ha annullato una vacanza con la famiglia perché aveva sentito che Haliva avrebbe visitato la loro base. Haliva ha respinto gli avvertimenti definendoli “aria fritta”. Hamas, disse Haliva, stava bluffando. Alle 4 del mattino del 7 ottobre, a causa di un aumento dei movimenti di Hamas vicino al confine, gli alti dirigenti della sicurezza, tra cui il capo di stato maggiore Herzi Halevy, il direttore dello Shin Bet Ronen Bar, il comandante del comando meridionale Yaron Finkelman e l’assistente di Haliva (Haliva era in vacanza sul mare di Eilat), ne discussero e decisero di tornare a letto. Si misero d’accordo di riparlarne alle 8 del mattino successivo. Hamas ha invaso alle 6:30. Uri Sagi, ex capo dell'intelligence militare, dirà: “Haliva non pensava che fosse abbastanza importante tornare da Eilat al Kirya (quartier generale dell’esercito a Tel Aviv)”. Dal 2022, Haliva e i colleghi dell’intelligence erano convinti che Hamas fosse stato contenuto. I media di destra israeliani tirano in ballo la politica della famiglia Haliva. L’ex moglie e madre dei suoi figli, Shira Margalit, ha sostenuto le proteste politiche che hanno investito Israele nell’ultimo anno. La figlia di Haliva ha parlato ai raduni anti Netanyahu. Ma a far cadere il capo dell’intelligence militare non è stata la politica, ma la compiacenza: come altri dell’apparato di sicurezza, Haliva pensava che Hamas fosse diventato razionale. Yitzhak Brick è l’unico ufficiale militare israeliano di alto profilo ad aver previsto che qualcosa non andava. “Potrebbe esserci un massacro, lo stato di Israele non ha ancora riconosciuto il pericolo”, aveva avvertito Brick. “Abbiamo la sensazione che tutto vada bene e che non vi sia alcuna minaccia, ma all’opinione pubblica non viene detto che Hamas si sta preparando”. Brick lo ha detto mesi prima del 7 ottobre, ma nessuno ha voluto ascoltarlo. “La verità è che una realtà immaginaria è stata creata dallo stato maggiore e diffusa in tutto l’esercito. Siamo impazziti?”
La nuova campagna di delegittimazione contro Israele
di David Elber
Non passa mese che la Casa Bianca non trovi il modo di criminalizzare Israele agli occhi dell’opinione pubblica americana e mondiale. Ormai l’obiettivo non è più solo il “governo Netanyahu”, diventato il capro espiatorio di tutti i mali di Israele, ma è Israele stesso nella sua interezza istituzionale.
Si è proceduto gradualmente.
La prima accusa è stata quella di causare una carestia a Gaza, accusa palesemente falsa dato che non sono mai mancati gli aiuti umanitari in tutte le fasi della guerra, come non se ne sono mai visti prima in nessun altro teatro di combattimento.
Per avvalorare questa tesi criminalizzante, il Dipartimento di Stato in accordo con il Pentagono ha inscenato una ridicola (oltre che inutile e pericolosa) messa in scena consistente in lanci di aiuti aviotrasportati (che ha causato anche diversi morti tra i civili). L’inutilità della cosa è stata taciuta ma è stato amplificato ad arte il messaggio che Israele è uno Stato criminale che non permette l’arrivo degli aiuti e che questo era l’unico modo per fare arrivare i beni di prima necessità alla “popolazione stremata”. La stessa cosa è avvenuta con la brillante idea di costruire un molo artificiale in mezzo al nulla. Anche in questo caso c’è stata una grande enfasi mediatica per lo “sforzo umanitario”, ma, a distanza di due mesi ancora non si è visto il molo e nessuno è morto di fame. Il vero obiettivo, però, è stato raggiunto: criminalizzare, nuovamente Israele agli occhi dell’opinione pubblica americana e mondiale. Se questo non bastasse, ci sono sempre un numero sufficiente di giudici all’Aia che non vedono l’ora di iniziare un procedimento contro Israele: sia presso il Tribunale Penale Internazionale o la Corte di Giustizia Internazionale. Si può essere sicuri che al momento opportuno, queste istituzioni politicizzate si muoveranno a comando. E i comandi saranno dettati dall’agenda politica americana, che non si farà scrupolo di “ammorbidire” le posizioni israeliane, quando le armi cesseranno di sparare e si passerà al tavolo dei negoziati. Questo accadrà, molto verosimilmente, prima delle elezioni americane di novembre.
Ora si è passati a un nuovo capitolo delegittimante che ha come obiettivo l’esercito di Israele. Non è più solo il governo democraticamente eletto di Israele a essere preso di mira, ora è il turno di un vero pilastro istituzionale dello Stato del popolo ebraico: l’IDF. Questa azione politica ricorda molto da vicino gli autodafé orchestrati dall’Inquisizione. Ne spiegheremo qui l’attuazione.
Ormai siamo prossimi alla proclamazione, da parte del Dipartimento di Stato, di sanzioni contro un’unità dell’esercito: il Battaglione Netzah Yehuda. Si tratta di un battaglione di fanteria composta da soldati religiosi, che è stato trasformato dall’attuale amministrazione americana, con l’aiuto e la compiacenza dei mass media e delle ONG, in un battaglione di “ultra ortodossi” pericolosi e fanatizzati. Per di più, il Dipartimento di Stato USA ha già fatto sapere che questo è solo il primo passo per estendere tale calunnia ad altre unità dell’esercito.
Perché si tratta di una calunnia e non di accuse circostanziate? E perché è un fatto di una gravità senza precedenti ai danni di Israele?
Il danno è enorme perché questa decisione discredita di fatto tutto il sistema giudiziario israeliano. Il fatto che gli USA sanzionino un’unità dell’esercito significa che ritengono che Israele non sia in grado di esercitare in modo corretto e imparziale i contrappesi legali e di controllo dei suoi apparati di difesa e di pubblica sicurezza. In altre parole, il “diritto complementare” esercitato dagli organi giudiziari di Israele non sarebbe in grado, secondo il Dipartimento di Stato, di intervenire autonomamente per impedire abusi o peggio uccisioni extra giudiziarie. In pratica, per l’Amministrazione Biden, Israele non è più uno Stato di diritto. Inoltre, questa accusa velata da sanzioni rinforzerà l’inevitabile corollario mediatico contro Israele. Peggio saranno le conseguenze politiche. Israele sarà ricattato quando inizieranno le future “trattative di pace”. Inoltre, è facile prevedere che verranno istituiti processi internazionali nei suoi confronti a rincalzo delle accuse a proposito del “genocidio”, dei “crimini di guerra”, dei “crimini contro l’umanità” già poste in essere. In pratica si assisterà alla demolizione legale di Israele per mezzo di processi farsa con l’intenzione di emarginarlo ulteriormente.
La falsità palese delle accuse che aleggiano sul battaglione dell’IDF preso di mira dagli Stati Uniti è provata dal fatto che nessun organo giudiziario americano ha mai condotto nessuna indagine indipendente per provarne la fondatezza. Il Dipartimento di Stato non ha mai dato mandato all’FBI, alla CIA, al Pentagono o a una commissione ad hoc di condurre le indagini. Come sono state raccolte dunque le presunte “prove”? Unicamente tramite una ONG: la Democracy for the Arab World Now. Le sanzioni proposte dal Dipartimento di Stato sono il frutto di un report di una ONG collusa con la Fratellanza Musulmana e il cui budget, di oltre due milioni di dollari all’anno complessivi, non si sa da chi sia finanziato perché l’origine non è specificata nel bilancio.
Si tratta di una ONG nota per i suoi legami con gruppi anti-israeliani e antisemiti che si occupa quasi esclusivamente di intentare cause contro rappresentanti israeliani nelle corti americane. Questa è la fonte, mentre l’unico atto d’accusa circostanziato è la morte per infarto di un arabo con passaporto americano, avvenuta circa un anno e mezzo fa dopo che aveva dato in escandescenze quando fu fermato per un controllo dell’esercito e quindi posto sotto custodia. Tutte le altre accuse rivolte contro l’unità Netzah Yehuda, sono generiche e catalogate come “abusi” o “violenze” senza alcun dato oggettivo. Per compiacere gli Stati Uniti il Ministro della difesa ha spostato l’unità dalla Giudea al Golan, prima del suo impiego a Gaza.
In conclusione, sul “lavoro” di una ONG collusa con i Fratelli Musulmani e finanziata da non si sa chi, si basa la nuova compagna di delegittimazione nei confronti di Israele.
(L'informale, 22 aprile 2024) ____________________
Quand'è che tra gli amici occidentali di Israele si è scoperta l'inaffidabilità degli Stati Uniti? L'America a stelle e strisce non ha mai sostenuto davvero Israele: l'ha soltanto "agganciato" a sé per i propri interessi. E ideologicamente ha creduto di poterlo sostituire come Paese ordinato dalla "Provvidenza" (di hitlerianana memoria) a portare pace e ordine nel mondo. Dopo essersi posto in concorrenza con Israele, è possibile che ora entri in contesa aperta con lui, appoggiando di fatto (ma negandolo a parole) i peggiori nemici dello Stato ebraico. M.C.
“Perché ho preso una pistola”. Matti Friedmann spiega come il 7 ottobre lo ha cambiato
Il racconto del giornalista. Per l’israeliano medio, le armi da fuoco sono semplicemente uno strumento di protezione contro la violenza araba che ha plasmato questa società nell’ultimo secolo.Come l’esercito, sono un male necessario Di recente sono stato in un poligono di tiro al coperto a Gerusalemme e osservavo i nuovi richiedenti di una licenza di armi: persone comuni, un uomo sulla sessantina con l’aria di un professore di Talmud, una giovane madre che era stata evacuata dalla città meridionale di Sderot dopo che i terroristi di Hamas avevano ucciso dozzine di suoi vicini il 7 ottobre e che ora vive in un’angusta stanza d’albergo nella nostra città con suo marito e due figli”. Così Matti Friedmann in un lungo articolo pubblicato il 10 aprile sulla Free Press. La giovane madre, continua, “ha sparato i suoi colpi con particolare intensità, o almeno così mi è sembrato, anche se ovviamente nemmeno lei poteva riportare indietro l’orologio al 6 ottobre. Quando l’istruttore ebbe finito con lei, è stato il mio turno. Al bancone all’ingresso c’erano tre clienti: il personale non aveva mai visto niente di simile negli ultimi sei mesi. Un venditore stava spiegando i vantaggi della pistola israeliana Masada, chiamata, sfortunatamente, come il luogo del suicidio di massa degli ebrei che pose fine al nostro precedente periodo di sovranità nel 73 d.C. Una religiosa in gonna, con i capelli coperti da una sciarpa, stava provando una fondina addominale da nascondere sotto la maglietta: è una maestra d’asilo e non vuole spaventare i bambini. Per l’israeliano medio, le armi da fuoco sono semplicemente uno strumento di protezione contro la violenza araba che ha plasmato questa società nell’ultimo secolo. Come l’esercito, sono un male necessario. La maggior parte delle persone armate che vedrai in una città israeliana sono soldati o poliziotti. Per me, il cambiamento si manifesta sotto forma di una piccola Glock, un piccolo e brutto monumento a un cambiamento in peggio in questo paese e nella vita dei suoi cittadini. Sebbene acquistare una pistola qui sia diventato più semplice, il possesso di armi è ancora strettamente limitato e comporta pratiche burocratiche che vanno oltre i sogni più sfrenati dei sostenitori del controllo delle armi negli Stati Uniti. Sono stato addestrato all’uso del fucile automatico in fanteria durante il servizio militare obbligatorio, ma come tutti i miei amici sono stato felice di restituirlo. Non credevo che la forza letale fosse necessaria nella vita civile. Quando ho compilato i moduli dopo l’attacco di Hamas, con diversi conoscenti morti e uno prigioniero in un tunnel di Hamas, mia moglie Naama ha rifornito il nostro appartamento di acqua, cibo e batterie nel caso in cui la guerra si fosse estesa a Gerusalemme. Naama non riesce nemmeno a guardare la pistola. Ma gli scenari da incubo si erano rivelati realistici e sembrava irresponsabile non prendere ogni precauzione. In contrasto con il militarismo che alcuni osservatori esterni immaginano qui in Israele, non ci sono parate militari. L’esercito tende a evitare simboli e linguaggio bellicosi, preferendo eufemismi tratti dal mondo naturale: una volta ho prestato servizio, ad esempio, in una cupa base in Libano chiamata Outpost Pumpkin, dove i dispositivi per la visione notturna sono chiamati il Carciofo. Quando a famosi generali israeliani come Moshe Dayan veniva chiesto quale fosse la loro professione, rispondevano che erano agricoltori. Per anni abbiamo subito episodi regolari in cui uomini palestinesi impazzivano in luoghi pubblici con coltelli o pistole, uccidendo persone fino a quando loro stessi non venivano colpiti e uccisi dalle forze di sicurezza o da un civile armato. Ma questo non si è mai tradotto in un possesso di armi, certamente non tra le persone che conosco. Sembravamo aspettarci che qualcun altro fosse a disposizione per proteggerci. Gerusalemme, dove vivo, e dove più di un terzo dei residenti sono palestinesi, è particolarmente vulnerabile: senza nemmeno consultare Internet, riesco a pensare a una dozzina di attacchi simili nell’ultimo anno. Eppure, nel panico dopo il 7 ottobre, quando uno dei miei vicini nel gruppo WhatsApp del nostro edificio mi ha chiesto quanti di noi possedessero armi, la risposta è stata nessuno. Ovviamente la situazione sarebbe dovuta cambiare mano a mano che avessimo assorbito due lezioni dell’attacco di Hamas. La prima era che non potevamo permetterci ulteriori illusioni sulle intenzioni dei nostri vicini palestinesi. Queste delusioni avevano appena portato alla morte di 1.200 israeliani come noi, molti dei quali assassinati nelle loro cucine e nei loro soggiorni, e al rapimento di altri 250, con il sostegno entusiastico dell’opinione pubblica palestinese. La seconda lezione riguardava il nostro presupposto di base secondo cui le forze di sicurezza sarebbero sempre arrivate velocemente. I massacri intorno a Gaza sono avvenuti ad appena un’ora di macchina da Tel Aviv, ma ho incontrato una donna di un kibbutz del sud che è stata salvata dai soldati israeliani solo 30 ore dopo l’inizio dell’attacco, durante il quale molti dei suoi vicini sono stati uccisi o presi in ostaggio. Se una mezza dozzina di camioncini di Hamas uscissero dai quartieri arabi a pochi minuti dal mio e tentassero qualcosa di simile, saremmo da soli. E’ stato in questo periodo che i miei amici, tra cui uno psicologo, un giornalista radiofonico, uno specialista in storia ebraica medievale e un professore di filosofia greca, hanno cominciato a richiedere il permesso di portare armi. Ed è stato in questo periodo che, come altre persone che conosco, mi sono ritrovato a calcolare gli angoli di fuoco all’interno della mia casa. Cosa posso colpire dalle scale? La porta d’ingresso potrebbe fermare un proiettile? Qualunque fosse l’esito della guerra di Gaza, era chiaro che avevamo già subito una sorta di sconfitta spirituale. In Israele, le armi da fuoco sono meno una questione di libertà personale, come in America, che di difesa comunitaria – il che è logico, suppongo, in un paese la cui etica è stata forgiata non dagli individualisti di frontiera ma dai kibbutznik socialisti. Recentemente ho partecipato a una sessione di formazione per nuovi proprietari di armi dell’Israele centrale, uno dei quali era Doron Ben-Avraham, 60 anni, della città di Elad. Questa città è stata teatro di un raccapricciante attacco con l’ascia da parte di due palestinesi nel maggio 2022 e una delle tre persone uccise era qualcuno che conosceva. ‘Se vedo un vicino che viene aggredito, voglio essere in grado di aiutarlo – mi sentirei male se non lo facessi’, ha detto Ben-Avraham, riflettendo quello che sembrava essere l’approccio dei venti uomini della classe. Dopo il 7 ottobre ha fatto domanda per il porto d’armi e ora è il nuovo proprietario di una Glock-19. Il corso era tenuto da un istruttore di tiro di nome Boaz, un istruttore antiterrorismo che mi ha chiesto di non usare il suo cognome. Lo fa da 20 anni. In mezzo alla corsa generale per le armi, Boaz è rimasto sorpreso nel vedere il numero di nuovi possessori di armi tra gli ultra-ortodossi, una comunità che in genere ha atteggiamenti antimilitaristi ed è felice di lasciare la propria difesa agli altri. Al poligono di tiro dove ho preso la licenza, era chiaro che alcuni dei nuovi proprietari non erano affatto in grado di usare un’arma nelle condizioni sterili del poligono, per non parlare di un attacco vero e proprio in cui avremmo dovuto mettere a rischio la vita assaliti da adrenalina e paura. Quelli con addestramento al combattimento hanno una possibilità, anche se nessuna garanzia di successo. Quando sono tornato a casa con il mio porto d’armi e una Glock 43X, ho detto ai miei figli che se mai si fossero avvicinati a un attacco a fuoco avrebbero dovuto sdraiarsi e aspettare finché non fosse finito. E’ difficile dire come ricorderemo tutto questo tra un decennio o due. Ma anche nelle settimane in cui ho lavorato a questo saggio, un israeliano con una pistola è riuscito a uccidere un terrorista, un altro palestinese di Gerusalemme, che stava sparando a persone innocenti su una strada nel sud di Israele, due dei quali sono morti. Questo è successo il 16 febbraio. Il 14 marzo, un sottufficiale in fila in un bar Aroma non ha notato il ragazzo palestinese con una felpa nera che gli si avventava al collo con un coltello, ma è riuscito comunque a estrarre la pistola e a sparare, evitando altre vittime. Un amico americano mi ha detto di recente che ogni ebreo che conosce ha un piano di emergenza, a volte segreto o difficilmente ammesso anche a sé stesso, su dove nascondersi o scappare se le cose si mettono davvero male nella diaspora: il tipo di pensiero che nasce dall’educazione alla storia ebraica mescolata con una lettura attenta degli eventi attuali, come le proteste aggressive fuori dalle sinagoghe, i colpi sparati contro le scuole ebraiche e la crescente febbre nei confronti dei ‘sionisti’. Riflettendo su questo, ho chiesto agli amici qui in Israele se avessero un piano simile. No, nessuno l’ha preparato. Il sionismo chiaramente non è riuscito a cambiare tutto nella condizione ebraica, ma sembra aver cambiato questo, per quello che può valere. Non conosco nessuno che stia preparando un nascondiglio. Ma conosco un numero notevole di persone con una nuova Glock”.
Ostaggi del 7 ottobre: tensione tra i negoziatori e Netanyahu
All’inizio della riunione del gabinetto di guerra di domenica il Primo Ministro Benjamin Netanyahu avrebbe criticato alcuni membri non citati della squadra israeliana per i negoziati sugli ostaggi, accusandoli di far trapelare informazioni false e dicendo loro di abbandonare se non erano disposti ad accettare le decisioni del governo. In citazioni quasi identiche riportate da Canale 12 e Kan TV, Netanyahu avrebbe detto durante la riunione: “Le false informazioni del team negoziale danneggiano gli sforzi per riportare indietro gli ostaggi. Diffondono la disperazione tra le famiglie degli ostaggi. Hanno portato Hamas a inasprire le sue posizioni. E sono false”. Parlando tre giorni dopo che un programma investigativo di Channel 12 aveva trasmesso le critiche anonime di due membri del team negoziale nei confronti del premier, Netanyahu avrebbe aggiunto: “Se c’è qualcuno nel team negoziale che non è disposto ad accettare le decisioni dei vertici politici e vuole generare titoli falsi e anonimi per scopi politici, dovrebbe mostrare un po’ di decenza e non essere qui”. Il gruppo di negoziatori si è recato ripetutamente a Parigi, al Cairo e a Doha nel tentativo, finora fallito, di ottenere il rilascio dei 133 ostaggi ancora detenuti a Gaza – non tutti vivi – 129 dei quali sono stati rapiti il 7 ottobre, quando migliaia di terroristi guidati da Hamas hanno preso d’assalto il sud di Israele uccidendo quasi 1.200 persone e prendendo oltre 250 ostaggi. I negoziatori per gli ostaggi non sono riusciti a ripetere gli sforzi compiuti a novembre, quando hanno raggiunto un accordo di cessate il fuoco di una settimana che ha visto il rilascio di 105 ostaggi, in cambio della liberazione da parte di Israele di circa 240 prigionieri palestinesi. La squadra negoziale israeliana è guidata dal capo del Mossad David Barnea, dal capo dello Shin Bet Ronen Bar e dal maggiore generale (ris.) Nitzan Alon, ex comandante del Comando centrale delle Forze di Difesa israeliane. “Non posso dire che senza Netanyahu ci sarebbe stato un accordo, ma posso dire che senza Netanyahu le possibilità di fare un accordo sarebbero migliori” I commenti di Netanyahu sono arrivati dopo che giovedì il programma d’inchiesta Uvda (Fact) di Canale 12 ha trasmesso interviste con due membri non citati della squadra di negoziatori, i quali hanno affermato che il premier è apparso indifferente alla sorte degli ostaggi e ha minato gli sforzi per assicurare il loro rilascio attraverso un accordo con Hamas. “Non posso dire che senza Netanyahu ci sarebbe stato un accordo, ma posso dire che senza Netanyahu le possibilità di fare un accordo sarebbero migliori”, ha detto uno dei due negoziatori. Secondo il rapporto di Kan, Netanyahu ha anche accusato il ministro della Difesa Yoav Gallant di aver fatto trapelare materiale da riunioni alle quali erano presenti solo il premier, Gallant, Barnea e Bar. “Tutto trapela”, avrebbe detto Netanyahu al termine di una recente riunione di gabinetto. “So che non è il capo del Mossad o il capo dello Shin Bet, quindi chi altro può essere?”. Gallant avrebbe partecipato alla riunione per telefono, ma si ritiene che abbia riattaccato quando Netanyahu ha espresso le sue rimostranze nei confronti del ministro. L’incidente ha suscitato ilarità a spese di Gallant tra alcuni ministri del Likud, si legge nel rapporto, che non chiarisce se Gallant abbia effettivamente riattaccato il telefono. Un rapporto correlato di Channel 12, privo di fonti, ha affermato che Israele è sconcertato dalla prospettiva che i leader di Hamas lascino il Qatar, che sta affrontando crescenti pressioni da parte dei legislatori degli Stati Uniti per i suoi rapporti con Hamas, nel contesto dei negoziati indiretti per il rilascio di ostaggi, che Doha sta mediando tra il gruppo terroristico e Israele. Secondo Channel 12, Israele pensa che la presenza di Hamas a Doha dia al mediatore Qatar un potenziale potere sul gruppo terroristico. I leader di Hamas starebbero pensando di trasferirsi in Algeria o in Turchia, il cui presidente Recep Tayyip Erdoganha ospitato il capo di Hamas Ismail Haniyeh nel fine settimana. Dei 129 ostaggi che si ritiene siano detenuti a Gaza dal 7 ottobre, l’IDF ha confermato la morte di 34 di loro, citando informazioni e risultati ottenuti dalle truppe che operano a Gaza. Hamas detiene anche i corpi dei soldati dell’IDF caduti dal 2014, Oron Shaul e Hadar Goldin, e di due civili israeliani, Avera Mengistu e Hisham al-Sayed, che si ritiene siano ancora vivi dopo essere entrati nella Striscia di propria iniziativa rispettivamente nel 2014 e nel 2015.
Israele, il mea culpa del capo dimissionario dell’intelligence militare: “Il 7 ottobre non siamo stati all’altezza”
Aharon Haliva lascia la guida degli 007 dell’esercito: “Porto con me quel giorno nero” e “il dolore della guerra”
di Paolo Brera
Cade una prima testa israeliana per il disastro del 7 ottobre, quando Hamas riuscì a forzare un blocco ritenuto erroneamente insuperabile provocando la morte di 1.200 persone e il rapimento di 253 ostaggi. Il generale
Aharon Haliva, capo della direzione dell'intelligence militare delle forze armate israeliane (Idf), si è dimesso lasciando una lettera sulla scrivania del capo di stato maggiore Herzi Halevi in cui ne spiega le ragioni. “In una decisione presa con il capo di stato maggiore e con l'approvazione del ministro della difesa, Haliva concluderà il suo ruolo e si ritirerà dall’Idf dopo aver nominato un successore attraverso un processo ordinato e professionale”, hanno reso noto le forze armate con un comunicato. Resta dunque temporaneamente in carica, ma le sue dimissioni sono comunque accettate. Haliva si prepara a lasciare dopo 38 anni di carriera militare. Ma la catena di errori e l’avere pesantemente sottostimato la possibilità che Hamas forzasse il blocco nonostante gli avvertimenti ricevuti è un macigno che pesa sulla coscienza e con cui l’intera catena di comando israeliana sa che dovrà fare i conti, prima o poi. Certamente lo dovrà fare quando si chiuderà l’emergenza della crisi, che oggi minaccia di estendersi nell’operazione di terra a Rafah. E non è l’unico errore enorme sulle spalle di Haliva, e non certo solo sulle sue: nonostante l’attacco ai pasdaran ospitati nell’ambasciata iraniana a Damasco, in cui è stato ucciso l'alto ufficiale delle guardie rivoluzionarie islamiche Mohammad Reza Zahedi, fosse stato preparato per due mesi analizzando tutte le possibili repliche iraniane e la necessaria protezione e reazione successiva israeliana, l’intelligence militare ha ampiamente sottostimato la risposta iraniana, che per la prima volta ha bucato l’Iron Dome colpendo direttamente il suolo israeliano. Nella sua lettera, Haliva si assume la responsabilità del fallimento del 7 ottobre e promette che ora farà del suo meglio, nel tempo che gli rimane al comando, perché vengano raggiunti gli obiettivi, tra cui il ripristino del dominio militare nel nord e nel sud della Striscia di Gaza, la restituzione degli ostaggi e la dissuasione alle minacce iraniane e di altri nemici. “Porto con me quel giorno nero” e “il dolore della guerra”, scrive il generale: “Sabato 7 ottobre 2023 Hamas ha commesso un attacco a sorpresa mortale contro lo Stato di Israele. La divisione di intelligence sotto il mio comando non è stata all'altezza del compito che ci era stato affidato”. La sua è la prima ma non certo l’ultima testa che cadrà per il 7 ottobre. Lo stesso generale Herzi Halevi, il capo di Stato maggiore sulla cui scrivania ha lasciato la lettera di dimissioni, si è assunto la responsabilità del fallimento già all’indomani del massacro e chi lo conosce bene non ha dubbi che si dimetterà non appena avrà portato a termine l’incarico. Le pressioni dell’opinione pubblica contro i vertici sono d’altronde sempre più forti, non solo per aver permesso il 7 ottobre scioccando l’intero Paese che da allora ha perso la percezione di sicurezza nello scudo difensivo, ma anche per l’insuccesso di questi sei mesi e mezzo in cui – nonostante le promesse e i 34mila morti palestinesi – gli ostaggi restano in cattività nelle mani di Hamas, e il capo dei miliziani Yayah Sinwar, è ancora libero e introvabile. E non è solo dalla catena di comando militare che ci si aspetta il pagamento del conto per gli errori: Vladimir Beliak, del partito Yesh Atid del capo dell’opposizione Lapid, ha twittato la richiesta di “istituire subito una commissione d'inchiesta statale. Il primo ministro deve dimettersi immediatamente”.
“L'odio verso gli ebrei nel mondo islamico non ha atteso la creazione di Israele”
Lo storico Georges Bensoussan risale alle origini dell’odio anti ebraico nel mondo musulmano. L'articolo sul Figaro.
Le Figaro – Il massacro del 7 ottobre è stato visto da molti osservatori come la conseguenza della politica israeliana nei territori palestinesi. Si può davvero ignorare questo legame, tanto più che, fino al 7 ottobre, Benyamin Netanyahu sembrava giocare la carta dello stallo?
Georges Bensoussan – Pensare di poter liquidare la questione palestinese con gli accordi di Abramo è stata cecità politica, per non dire cinismo. Tuttavia, ci piacerebbe pensare che il massacro del 7 ottobre abbia un legame diretto con la politica israeliana perché rientra nei canoni della ragione occidentale, la quale trova una motivazione semplice al massacro: l’occupazione dei territori palestinesi. Anche se il territorio di Gaza è libero dall’occupazione da diciannove anni. Come se, prima dell’occupazione del 1967, lo stato di Israele fosse stato accettato dal mondo arabo. Il riconoscimento della nazione israeliana da parte dell’Egitto e in seguito della Giordania è stato il risultato di un equilibrio di potere. La natura gelida di questi accordi di pace evidenzia la difficoltà per la psiche di gran parte del mondo arabo-musulmano di accettare la nazione ebraica. Ora che l’inversione della realtà è al suo culmine, vale la pena ricordare che fin dalla sua fondazione lo stato ebraico ha affrontato una minaccia esistenziale come nessun altro stato al mondo. La “soluzione dei due stati” sembra da molto tempo la più ragionevole. Se non fosse che è già stata proposta cinque volte e cinque volte rifiutata dalla parte araba: 1937 (piano Peel), 1947 (risoluzione delle Nazioni Unite), 2000 (Camp David), 2001 (Taba) e 2008 (piano Olmert). Nel 1947-1949, la Giordania, con la complicità di Londra, ha impedito la nascita dello stato arabo di Palestina previsto dalle Nazioni Unite e annesso il territorio palestinese della Cisgiordania. Tra il 1949 e il 1967, lo stato di Palestina avrebbe dovuto essere proclamato in Cisgiordania e a Gaza (amministrata dall’Egitto), senza l’ombra della minima presenza israeliana. Ma così non fu, e la Lega araba avallò la situazione. Nel 1949, alla fine della prima guerra arabo-israeliana, tre quarti dei rifugiati palestinesi rimasero all’interno dei confini della Palestina mandataria, ma vennero parcheggiati in dei campi benché fossero “a casa loro”. Nel 1949, solo la Giordania concesse la cittadinanza e il permesso di lavoro a questi rifugiati. Né il Libano, né la Siria, né l’Egitto acconsentirono. Mantenere i rifugiati nel loro status di rifugiati da 80 anni significa mantenere un ostacolo, perché accettare uno stato palestinese significherebbe de facto riconoscere lo stato di Israele. Per questo motivo la parte araba ha rifiutato ogni offerta dal 2000. Inoltre, a causa dei ripetuti rifiuti, questa tragedia è ora aggravata da un messianismo ebraico che i padri fondatori del sionismo volevano, giustamente, tenere a distanza.
Le Figaro – Lei sottolinea che le rivolte della piazza araba contro gli ebrei sono iniziate fin dai tempi dell’Impero ottomano. Tuttavia, è a partire dagli anni Venti del Novecento che l’antico rifiuto degli ebrei nei paesi arabi ha assunto una dimensione islamica. Come e perché è avvenuto questo cambiamento?
Georges Bensoussan – Le prime manifestazioni anti ebraiche nel mondo arabo sono concomitanti all’avvento dell’islam, con il massacro delle tribù ebraiche di Medina. L’Impero ottomano, invece, tendeva a perseguire una politica di pacificazione nei confronti delle minoranze ebraiche. La questione non è tanto il rifiuto dell’ebreo nel senso cristiano del popolo deicida, quanto piuttosto l’economia psichica dell’islam ortodosso, secondo cui l’ebreo non può essere considerato alla pari e rimane un soggetto tollerato, ma di status inferiore (…). È alla metà degli anni Venti del Novecento che il rifiuto del sionismo assume una dimensione islamica sotto la guida del Gran Muftì di Gerusalemme, Amin al-Husseini (…). È mobilitando la umma islamica che il Muftì ha iniziato la lotta contro il sionismo, e questo spiega la svolta islamica nella lotta anti sionista in Palestina.
Bisogna evitare di rimanere confusi. I 17 miliardi di dollari stanziati ieri dagli Stati Uniti e destinati a Israele, facente parti del pacchetto di stanziamenti da 95 miliardi di dollari in aiuti anche nei confronti dell’Ucraina e di Taiwan e l’intenzione dell’Amministrazione Biden di sanzionare il battaglione dell’IDF Netzah Yehuda per presunti abusi commessi in Cisgiordania, non palesa un segno di schizofrenia.
Gli aiuti a Israele stanziati con voto bipartisan non sono un grazioso regalo dell’Amministrazione Biden la quale, in questo modo, certifica il proprio speciale rapporto con Israele, ma sono il frutto di un rapporto strutturale di reciproca cooperazione, di interessi incrociati, che si situa al di sopra delle singole amministrazioni, e riguarda gli interessi nazionali americani. Anche l’Amministrazione Obama, una delle più ostili nei confronti di Israele, non fece mai mancare il sostanzioso aiuto economico di cui Israele, insieme ad altri paesi beneficia. Invece è proprio dell’Amministrazione Biden avere deciso di sanzionare un battaglione dell’IDF, composto da soldati di formazione haredi, ovvero religiosa, mentre l’IDF sta combattendo la sua guerra a Gaza contro Hamas, così come è proprio dell’Amministrazione Biden avere sanzionato mesi fa quattro cittadini ebrei residenti in Cisgiordania anch’essi accusati di abusi nei riguardi di residenti palestinesi, così come fu proprio dell’Amministrazione Obama pugnalare Israele alle spalle nell’ultimo mese della sua permanenza alla Casa Bianca, con la Risoluzione 2334, una delle più punitive mai emesse dall’ONU nei suoi confronti.
Serve poco che Benjamin Netanyahu scriva su X che questa decisione rappresenta “un picco di assurdità e di abbassamento morale”, perché gli “amici” americani oggi alla Casa Bianca sono questi e non si può fare altro che sperare per Israele, per il suo futuro, che alle prossime elezioni a novembre, Joe Biden non venga rieletto, se no, per Israele non saranno giorni facili.
Il conflitto in corso ha messo in luce in modo eclatante quanto mai, come il legame stretto di Israele con gli Stati Uniti possa essere estremamente oneroso a seconda di chi si trova alla Casa Bianca. La luna di miele con l’Amministrazione Trump è stata una felice eccezione, e se Trump dovesse essere rieletto lo sarà di nuovo, ma anche in questo caso, dopo quattro anni avrà concluso il suo mandato.
Il commissariamento americano della guerra a Gaza, ha mostrato a tutti quanto Israele sia limitato nel potere agire e quanto la propria autonomia e sovranità siano pesantemente condizionate da interessi che non coincidono coi propri.
Scegliere di essere un satellite americano in Medio Oriente comporta questo prezzo. Forse è arrivato il momento di rimodulare la storica alleanza.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, la Bulgaria fu l’unico paese in tutta l’Europa orientale a salvare interamente la sua popolazione ebraica dalle deportazioni naziste. Una storia che il paese balcanico celebra sempre con orgoglio. Tuttavia, anche qui non sono mancati casi di antisemitismo e di violenza verso gli ebrei; uno su tutti, l’attentato terroristico avvenuto il 18 luglio 2012 all’aeroporto di Burgas, pianificato presumibilmente da Hezbollah e che uccise 6 turisti israeliani e ne ferì altri 32. E all’inizio di aprile, la polizia bulgara ha trovato un deposito di armi legato a quattro presunti membri di Hamas arrestati a dicembre. Per capire come stanno vivendo la situazione attuale gli ebrei bulgari (il cui numero oscilla tra i 2.000 e gli 8.000, secondo le statistiche più recenti e a seconda che si contino o meno le famiglie miste e i non iscritti alla comunità), e quali siano oggi i rapporti tra la Bulgaria e Israele, abbiamo parlato con la storica bulgara Rumyana Marinova-Christidi: responsabile del corso di laurea in Studi Ebraici dell’Università di Sofia e docente associata, è un membro della delegazione bulgara presso l’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance).
- Quanto era diffuso l’antisemitismo in Bulgaria prima del 7 ottobre? Sono felice di poter dire che la Bulgaria rappresenta un’eccezione in Europa; storicamente, i livelli di antisemitismo sono tra i più bassi di tutto il continente. Negli ultimi anni, il Ministero degli Affari Esteri ha commissionato due tipi di sondaggi annuali sulla diffusione dell’antisemitismo: uno tra il pubblico generale, e l’altro all’interno della comunità ebraica. E tutti i dati dimostrano livelli estremamente bassi. Per fare un esempio, l’82% dell’opinione pubblica nazionale ritiene che gli ebrei siano ben integrati nella società, e dentro la comunità ebraica questa percentuale sale ad oltre il 91%. Inoltre, due anni fa i dati mostravano che alla domanda su quanto gli ebrei si sentissero al sicuro nella vita di tutti i giorni, il 44% rispondeva “assolutamente sì” e il 43% semplicemente “sì”. Prima del 7 ottobre, il governo bulgaro era già all’erta su una possibile crescita dell’antisemitismo. A differenza di molte altre nazioni, hanno preso contromisure in tempi non sospetti: nel 2017, la Bulgaria è stata uno dei primi paesi ad adottare la definizione di antisemitismo dell’IHRA, della quale divenne paese membro un anno dopo. Quasi contemporaneamente, è stato nominato un coordinatore nazionale per la lotta all’antisemitismo; se in altri Stati si tratta generalmente di un funzionario minore, in Bulgaria è anche il Viceministro degli Affari Esteri. Inoltre, sono stati firmati accordi con le principali organizzazioni ebraiche nazionali e internazionali, per instaurare una rete di cooperazione e scambio di informazioni.
- Cosa è cambiato dopo il 7 ottobre? Naturalmente, anche la Bulgaria è stata influenzata dai rigurgiti antisemiti avvenuti in tutto il mondo negli ultimi mesi. Si vedono maggiori espressioni di antisemitismo, ma per la maggior parte avvengono sui social, e ogni tanto trovi svastiche disegnate sui muri vicino alle sinagoghe. Ma non si è registrata nessuna aggressione fisica nei confronti degli ebrei. E la Bulgaria è uno dei pochissimi paesi in Europa dove non sono avvenute grosse manifestazioni contro Israele.
- Durante la Seconda Guerra Mondiale, la Bulgaria ha salvato tutti i suoi ebrei. Oggi, quanto viene tenuta in considerazione la memoria di questi fatti dall’opinione pubblica bulgara? L’anno scorso, abbiamo commemorato l’80° anniversario del salvataggio degli ebrei bulgari. Credo che sia una delle maggiori fonti di orgoglio nazionale per il popolo bulgaro; tuttavia, durante la guerra la Bulgaria era alleata della Germania nazista, aveva adottato leggi fortemente antiebraiche, e vi era un accordo scritto per cui lo Stato si impegnava a deportare gli ebrei. Nonostante ciò, per circa tre anni, i quasi 50.000 ebrei presenti all’epoca in Bulgaria vissero tranquilli senza che nessuno venisse deportato. La storia della Shoah viene insegnata approfonditamente nelle scuole, in tutti i principali libri di testo. Ciò si è intensificato a partire dal 2018, quando la Bulgaria divenne un membro a pieno titolo dell’IHRA. E l’Università di Sofia ospita l’unico corso di laurea quadriennale in Studi Ebraici presente in tutta l’Europa meridionale e orientale, e del quale sono la responsabile.
- Alle Nazioni Unite, la Bulgaria ha recentemente votato contro la messa al bando delle vendite di armi a Israele. In generale, come si sono evolute le relazioni tra Sofia e Gerusalemme dai tempi del regime comunista ai giorni nostri? Quando nacque lo Stato d’Israele, la Bulgaria fu uno dei primi paesi a riconoscerlo; e nonostante facesse parte del blocco comunista, il governo bulgaro consentì agli ebrei di emigrare in Israele con il beneplacito dei sovietici. Per questo, dopo la nascita d’Israele, circa il 90% degli ebrei bulgari fece l’aliyah. Le relazioni diplomatiche tra i due paesi si interruppero nel 1967 dopo la Guerra dei Sei Giorni, in seno al più generale allineamento del blocco orientale a sostegno dei paesi arabi. Tuttavia, sebbene non vi fossero più relazioni ufficiali, dai documenti dell’epoca sappiamo che la Bulgaria rimase un intermediario non ufficiale tra Gerusalemme e Mosca. Questo perché anche durante la Guerra Fredda, la Bulgaria conservò un’immagine positiva in Israele, dove gli emigranti ebrei bulgari erano riusciti a mantenere dei contatti con i parenti rimasti nel paese d’origine. Quando, dopo la caduta del comunismo, le relazioni ufficiali vennero ristabilite, queste divennero assai positive. Oggi la Bulgaria è un paese molto amico d’Israele, dando prova del proprio sostegno anche nei momenti difficili; dopo il 7 ottobre, tutte le forze di governo si sono dichiarate solidali con Israele e hanno condannato gli attacchi di Hamas. Il Primo Ministro e il Ministro degli Esteri hanno visitato Israele dopo gli attacchi, e l’hanno difeso nelle votazioni all’ONU. Anche dopo il recente attacco da parte dell’Iran, le forze politiche di ogni colore si sono espresse in difesa d’Israele.
- In molti paesi occidentali, abbiamo visto studenti e docenti universitari chiedere il boicottaggio d’Israele. Nelle università bulgare, quanto è diffuso questo fenomeno? Per capire la situazione, bastano due esempi: il 27 marzo di quest’anno, nella Facoltà di Storia dell’Università di Sofia, la più grande del paese dove anch’io insegno, ho invitato a parlare nel mio corso l’Ambasciatore israeliano in Bulgaria, per tenere una lezione sull’attuale situazione in Israele. E prima della lezione, abbiamo allestito dentro l’ateneo una mostra intitolata Bring Them Home, dedicata agli ostaggi israeliani rapiti il 7 ottobre. Quando abbiamo fatto tutto ciò, nessuno è venuto a chiederci il perché o a fare polemiche. In quell’occasione, dissi: “Tutti gli studenti e i professori sono i benvenuti, e ci sarà un confronto dopo la lezione. Noi siamo un’università, un’istituzione accademica, e qui dovremmo poter discutere. Questa è la missione dell’università”. Al termine, gli studenti fecero molte domande all’Ambasciatore, anche su quello che succede a Gaza, ma è avvenuto in maniera rispettosa. Non ci sono state proteste. Un altro caso è avvenuto nella prima metà di aprile: organizzai un incontro con una collega israeliana che insegna all’Università Bar-Ilan, esperta di affari turchi, che parlò dell’antisemitismo in Turchia e delle relazioni turco-israeliane. Era un incontro aperto a tutti, dove qualunque studente o docente era libero di entrare, e non c’erano misure di sicurezza all’esterno. Nonostante ciò, tutto si è svolto normalmente. Qualcosa che, da quel che mi dicono i colleghi all’estero, oggi non potrebbe accadere in altri paesi.
- In Bulgaria è presente una consistente comunità musulmana di origini turche. In che rapporti sono con la comunità ebraica? La comunità musulmana in Bulgaria, che comprende circa il 10% di tutta la popolazione, è molto diversa da quelle che si trovano altrove; per la maggior parte sono turchi che vivono qui da secoli, dai tempi dell’Impero Ottomano, e ormai hanno instaurato rapporti normali con il resto della popolazione. Sono bulgari a pieno titolo, e non hanno relazioni particolarmente negative né con gli ebrei né con i cristiani. Un altro fattore da considerare è il fatto che in Bulgaria la religione non ricopre un ruolo centrale, perché la società bulgara non è particolarmente osservante. Non ci sono tensioni di matrice religiosa qui.
- Nel 2012, la Bulgaria venne colpita dall’attentato terroristico a Burgas, nel quale diversi turisti israeliani rimasero uccisi o feriti. Le autorità bulgare sono consapevoli dei rischi per la sicurezza della comunità ebraica locale? Il governo bulgaro prende molto seriamente la sicurezza degli ebrei. E dopo l’attentato del 2012, sono stati fatti dei passi avanti nel prendere contromisure: per esempio, nell’ottobre 2023 il Consiglio dei Ministri ha adottato un piano d’azione in cinque punti per combattere l’antisemitismo. Inoltre, il Ministero della Giustizia ha istituito un gruppo di lavoro interistituzionale, del quale faccio parte anch’io, che ha il compito di elaborare emendamenti legislativi che vanno in due direzioni: combattere le attuali manifestazioni di antisemitismo, e garantire la sicurezza degli ebrei bulgari. Le autorità bulgare sono riuscite a bloccare la Marcia Lukov, un raduno neonazista che viene organizzato ogni anno in onore del generale antisemita e filonazista Hristo Lukov, Ministro della Guerra negli anni ’30. Questa manifestazione, che presenta connotati antisemiti, per molto tempo è stata permessa a causa di un buco nella legislazione contro i crimini d’odio, in quanto gli organizzatori non si dichiarano apertamente neonazisti. I partecipanti locali sono pochi, ma spesso vi prendono parte anche neonazisti che giungono apposta da altri paesi. Dopo diversi tentativi, da anni il sindaco e la polizia sono riusciti di fatto a bloccare la manifestazione. Ciò che stiamo cercando di fare ora, è di fare in modo che venga messa al bando definitivamente, cambiando la legislazione in merito.
Lo scontro diretto con l’Iran: non un episodio ma il centro di una guerra che continua
di Ugo Volli
• Perché l’Iran attacca Israele Bisogna sempre tenerlo presente: la guerra iniziata il 7 ottobre non è solo il risultato di un bestiale pogrom di massa sul territorio israeliano da parte delle organizzazioni terroristiche e di molti civili di Gaza al loro seguito; è anche una tappa importante della guerra di lunga durata dell’Iran per la distruzione dello stato ebraico. Si tratta di una campagna iniziata subito dopo la rivoluzione islamica, negli anni Settanta e rafforzata poi negli ultimi due decenni. Esso deriva da autentico e sincero odio antisemita, in parte proveniente dalla tradizione islamica, in parte ereditato dall’influenza nazista sul clero sciita, in parte dal rapporto che Arafat riuscì a costruire con Khomeini prima del suo avvento al potere. Durante il regno dello Scià Israele aveva sviluppato i buoni rapporti tradizionali fra ebrei e popolo persiano, anche sulla base di una contrapposizione fra le ambizioni geopolitiche dell’Iran a riprendere l’antica egemonia sul Medio Oriente e gli stati arabi nemici di Israele. Ora che la pacificazione con il mondo sunnita è andata molto avanti, la stessa ambizione egemonica ha mutato di segno e si contrappone a Israele e a chi ha rapporti con lui. La campagna anti-israeliana dell’Iran ha insomma due aspetti: da un lato è autentico odio fanatico per gli ebrei che si sono permessi di ritornare sulla loro terra che era stata conquistata dall’Islam. Dall’altro è il tentativo di utilizzare questo odio condiviso con larghe masse musulmane come pretesto per il progetto imperialista conquistare i paesi vicini ad Israele, costruire un “ponte terrestre” lungo mille chilometri attraverso Iraq, Siria e Libano fra l’Iran e il Mediterraneo e acquisire l’egemonia di tutto il Medio Oriente.
• La battaglia fra le guerre Negli ultimi due decenni è questo “ponte” con cui l’Iran alimenta di armi e altri materiali il terrorismo di Hezbollah è diventato dunque un bersaglio necessario dell’autodifesa israeliana, con frequenti bombardamenti delle strade, degli aeroporti, dei depositi e delle fabbriche di armamenti che ne costituiscono le tappe, con lo scopo di evitare il rafforzamento dei gruppi terroristici come Hezbollah. Per tale campagna prolungata il giornalismo israeliano aveva anche inventato un nome suggestivo: battaglia fra le guerre. Essa si è intensificata quando la guerra vera e propria è stata lanciata da Gaza, con l’appoggio dichiarato e determinante dell’Iran; ma finora gli scontri diretti fra i due paesi erano stati evitati. Israele aveva spesso colpito militari iraniani anche importanti su territorio siriano e libanese, ma non il territorio persiano vero e proprio; le risposte erano arrivate dalle marionette (o come si usa dire in inglese: i proxy) degli ayatollah: Siria, Hezbollah, Houti.
• Lo scontro diretto Tutto è cambiato quando il 1 aprile 2024, un attacco aereo israeliano contro un edificio adiacente all’ambasciata iraniana di Damasco (in realtà la sede della milizia usata dagli ayatollah per il loro lavoro sporco) ha ucciso otto persone, tra cui il capo dei pasdaran nella regione, generale di brigata Mohammad Reza Zahedi, responsabile della direzione dei proxy iraniani e dunque complice anche del 7 ottobre, e il suo vice, oltre ad alcuni terroristi cui stava trasmettendo istruzioni. Gli ayatollah hanno ritenuto di dover assolutamente rispondere all’attacco, che era perfettamente legittimo sul piano del diritto internazionale dato che si trattava di militari di uno stato belligerante. ma colpiva anche simbolicamente il loro progetto imperialista. Dopo molte roboanti dichiarazioni hanno lanciato un grande attacco contro il territorio israeliano nella notte fra il 13 e il 14 aprile, usando centinaia di droni e missili balistici e cruise. Israele, con l’aiuto di alcuni paesi amici (Usa, GB, Francia, Giordania, forse l’Arabia) ha abbattuto il 99% delle minacce e non ha subito danni significativi. È stato un trionfo della tecnologia difensiva israeliana e un’umiliante sconfitta per l’armata iraniana. A sua volta lo stato ebraico ha ritenuto di non poter lasciare senza risposta un attacco diretto del genere e usando una frazione molto piccola delle sue forze, ha condotto una missione di bombardamento su una città dell’Iran centrale, Ishafan, che ha danneggiato il sistema di difesa avanzato (di fabbricazione russa) posto a tutela degli impianti nucleari che hanno sede nei pressi. E’ un segnale molto forte, che dice agli ayatollah che Israele è in grado di penetrare con l’aviazione e i missili nel cuore del loro paese e di distruggere anche le istallazioni più difese, in particolare quelle atomiche.
• La strategia israeliana Comportandosi in questa maniera Israele è riuscito a conservare la solidarietà di Usa e degli altri alleati, ma ha mostrato anche la propria autonomia, visto che essi avevano chiesto di non reagire. Ha fatto capire infine all’Iran che il rischio di un confronto diretto è tutto dalla sua parte. Certo, sarebbe stato preferibile distruggere il programma nucleare e le forze missilistiche iraniane; ma nel quadro dei rapporti di forza presenti Israele non poteva correre il rischio di un ulteriore isolamento internazionale. Anche se i media e i politici amano accusare il governo israeliano di bellicismo ed estremismo, Netanyahu ha dimostrato anche in questa circostanza una capacità lucidissima di comprendere i limiti e le possibilità di un paese piccolo e avanzato come Israele, che lotta per la sua sopravvivenza. Ora sia Israele che l’Iran hanno dichiarato chiuso questo episodio, ma non certo la guerra. Altre sorprese sono possibili. In particolare poi, prima di raggiungere una conclusione della guerra l’esercito israeliano deve chiudere la partita con Hamas prendendo Rafah, distruggendo le sue forze militari restanti, catturando i suoi capi e liberando gli ostaggi; e deve anche riuscire ad allontanare se non distruggere il pericolo di Hezbollah dai confini settentrionali. Tutte cose che l’Iran non vuole assolutamente. Sono compiti lunghi e difficili, sia sul piano militare che su quello politico-diplomatico. Purtroppo bisogna pensare che la pace è lontana.
L’intera Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, costituisce un unicum narrativo percorso da una linea centrale costituita, dall’inizio alla fine, dalla storia del popolo d’Israele.
di Gabriele Monacis
Spesso si guarda all’Antico e al Nuovo Testamento come due libri separati. Per certe ragioni, di tipo storico e linguistico, questo potrebbe corrispondere anche al vero. Ad esempio, l’Antico Testamento è scritto in ebraico, il Nuovo è scritto in greco, per giunta in un periodo storico, il primo secolo dopo Cristo, in cui l’Antico Testamento esisteva già da alcuni secoli. Ma quando si guarda all’Antico e al Nuovo Testamento come due libri separati, non si pensa tanto al fatto che siano stati scritti in due lingue diverse – l’ebraico e il greco, appunto – e in due periodi storici distanti fra loro. Piuttosto, si fa leva sulla convinzione - o per meglio dire sul luogo comune - che l’Antico Testamento racconta la storia di Israele, e quindi interessa agli ebrei. Il Nuovo Testamento, invece, racconta la storia di Gesù, e quindi interessa ai cristiani. Pertanto gli uni si rapportano solo alla prima parte, che parla della loro storia e delle loro origini. Gli altri, i cristiani, pensano che la loro fede sia un’espressione solo della seconda parte, il Nuovo Testamento, e quindi possono benissimo fare a meno dell’Antico. Se così stessero le cose, non si capisce bene perché esista ancora un libro che si chiama Bibbia, che è appunto l’unione dell’Antico e delNuovo Testamento, messi uno dopo l’altro. Quando invece, secondo questo luogo comune diffuso un po’ dappertutto, questi due libri dovrebbero essere già separati da un pezzo. L’evidenza storica dei fatti dimostra la realtà seguente: che nel mondo esiste un libro, la Bibbia, che nel corso dei secoli, e fino ai giorni nostri, viene continuamente redatto, stampato, venduto, e anche tradotto, come un libro unico, nonostante la percezione comune che lo vede come un libro da dividere. E se questa evidenza dei fatti va nel verso contrario a quel luogo comune, raramente messo in discussione, che direzione bisogna prendere? La realtà delle cose dice che la Bibbia, in quanto tale, deve essere intesa e considerata come un unicum da leggere dall’inizio alla fine, senza separarne le sue due parti costituenti: l’Antico e il Nuovo Testamento. E se un luogo comune ci spinge a vedere le cose diversamente, esso va esaminato alla luce della Bibbia stessa e messo seriamente in discussione. Volendo dunque considerare la Bibbia come un libro unico, dove si potrebbe trovare un collegamento tra le sue due parti costituenti, cioè l’Antico e il Nuovo Testamento? Partendo dal presupposto che esista una linea rossa che attraversi l’intera Bibbia, dall’inizio alla fine, e ne colleghi le diverse parti, dove potrebbe trovarsi questa traccia? La storia di Israele è indubbiamente presente nella gran parte del libro che chiamiamo Bibbia e quindi può essere adoperata a questo scopo. Seguirne la narrazione biblica aiuterebbe il lettore a collocare i diversi libri biblici lungo questa traccia. Questa linea narrativa può essere vista come l’asse intorno al quale l’intero libro si sviluppa e si espande. Un po’ come succede in un albero. Prendiamo ad esempio un possente e maestoso cedro del Libano. Il suo asse di simmetria verticale attraversa le sue parti costituenti, come il tronco e i rami. Pur non essendo una sua componente tangibile, l’asse di simmetria di un albero è comunque individuabile da un osservatore esterno, il quale comprende che proprio attorno a quella linea ideale, l’asse di simmetria appunto, si sviluppano tutte le parti che formano l’albero: il tronco, i rami e volendo anche le radici, che pure sotterranee, si espandono in ogni direzione attorno a quell’asse in modo pressoché simmetrico. Molti non troveranno sbagliato pensare alla storia di Israele come l’asse narrativo dell’Antico Testamento. A parte i primi capitoli, infatti, la Bibbia inizia molto presto a raccontare la storia di Abramo, il primo patriarca del popolo di Israele. Da lì in poi, la narrazione segue un filo narrativo che non si interrompe mai: l’uscita dall’Egitto, poi il periodo dei giudici in terra di Canaan e in seguito quello della monarchia, la quale finisce con l’esilio babilonese e il successivo ritorno a Gerusalemme, nella terra promessa. Ma se questa è, a grandi linee, la narrazione dei fatti che segue praticamente tutto l’Antico Testamento, come può essere vero che la linea narrativa del Nuovo Testamento sia ancora la storia di Israele? Come è possibile che l’Antico e il Nuovo Testamento, per continuare la metafora dell’albero, siano uno il completamento dell’altro e abbiano un asse di simmetria comune? L’unione delle due parti integranti della Bibbia è un dato di fatto. Così ci è giunto questo libro, dopo secoli e secoli di storia. Nonostante le loro differenze linguistiche e la lontananza temporale tra i periodi storici in cui sono stati scritti, il Nuovo Testamento è collocato dopo l’Antico Testamento a formare un unico libro: la Bibbia. Ma allora dov’è l’incastro tra queste due parti che con troppa fretta e superficialità vengono separate dai lettori moderni? Vedremo di capirlo meglio in una prossima occasione.
Il sistema di difesa aerea nella base aerea di Isfahan nell’ottobre 2021. Il sistema radar si trova su una collinetta al centro, mentre quattro lanciatori di missili sono visibili sulla sinistra.
Secondo due fonti occidentali e due iraniane riprese dal New York Times, un’arma israeliana impiegata venerdì nell’attacco di rappresaglia contro l’Iran ha danneggiato un sistema di difesa che aveva lo scopo di rilevare e distruggere le minacce aeree vicino a Nantaz, una città dell’Iran centrale fondamentale per il programma segreto di armi nucleari del Paese. L’attacco, secondo le fonti occidentali, è stato studiato appositamente per trasmettere all’Iran il messaggio che Israele può aggirare i sistemi di difesa iraniani senza essere individuato e paralizzarli, utilizzando una frazione della potenza di fuoco che l’Iran ha dispiegato la settimana scorsa quando ha lanciato centinaia di droni e missili contro Israele. L’attacco iraniano, intercettato da Israele e dai suoi alleati, ha causato danni minimi. I due funzionari iraniani hanno detto che l’arma ha colpito un sistema antiaereo S-300 in una base militare nella vicina provincia di Isfahan. Il resoconto dei funzionari è supportato da immagini satellitari che hanno mostrato danni al radar di un sistema S-300 presso l’ottava base aerea di Shekari a Isfahan. Non è chiaro che tipo di arma abbia colpito il sistema di difesa aerea iraniano. Tre funzionari occidentali e due iraniani hanno confermato venerdì che Israele ha impiegato droni aerei e almeno un missile sparato da un aereo da guerra. Il missile, secondo due funzionari occidentali, è stato lanciato da un aereo da guerra lontano dallo spazio aereo israeliano o iraniano e includeva una tecnologia che gli ha permesso di eludere le difese radar dell’Iran. Né il missile né l’aereo che lo ha lanciato sono entrati nello spazio aereo giordano, hanno detto i funzionari occidentali, un gesto volto a tenere il regno fuori dal conflitto dopo aver contribuito ad abbattere le armi iraniane la settimana scorsa. Le tensioni tra Iran e Israele, da sempre nemici, sono aumentate questo mese con una serie di attacchi. Il 1° aprile, aerei da guerra israeliani hanno colpito un edificio dell’ambasciata iraniana a Damasco, uccidendo diversi comandanti delle forze armate iraniane. L’Iran si è vendicato lo scorso fine settimana, sparando una grande salva di armi contro Israele, quasi tutte intercettate. Secondo le fonti occidentali, Israele ha abbandonato un piano precedente che prevedeva di rispondere all’Iran con un attacco su larga scala. Quel piano è stato sostituito da un attacco che intendeva inviare un messaggio silenzioso ma decisivo, con l’obiettivo di porre fine al ciclo di rappresaglie. L’uso da parte di Israele di droni lanciati dall’interno dell’Iran e di un missile che non è stato in grado di rilevare, secondo le fonti occidentali, aveva lo scopo di dare all’Iran un assaggio di ciò che potrebbe essere un attacco su larga scala. L’attacco è stato calibrato per far sì che in futuro l’Iran ci pensasse due volte prima di lanciare un attacco diretto a Israele. I funzionari iraniani e israeliani si sono astenuti dal parlare pubblicamente dell’attacco di venerdì, una mossa che è sembrata volta a stemperare un conflitto che alcuni temono possa trasformarsi in una guerra regionale più ampia. Il silenzio di Israele sull’attacco, ha detto un funzionario iraniano, avrebbe permesso a Teheran di trattare l’attacco come i precedenti attacchi clandestini nella lunga guerra ombra tra i due Paesi, senza provocare una risposta immediata.
(Rights Reporter, 20 aprile 2024)
Un quarto di milione di palestinesi ha lasciato Rafah dal ritiro parziale di Tsahal
Al culmine dell'operazione militare nella Striscia di Gaza, 1,3 milioni di palestinesi vivevano nella grande città nel sud della Striscia.
Dal ritiro della maggior parte delle forze di Tsahal dalla Striscia di Gaza, circa 250.000 palestinesi hanno lasciato la città di Rafah, nel sud del territorio, per stabilirsi in aree più a nord, principalmente tra Nuseirat e Khan Younès, a sud della linea di Wadi Gaza, ha riferito Kan 11 venerdì. Al culmine dell'operazione militare nella Striscia di Gaza, 1,3 milioni di palestinesi vivevano a Rafah. Una fonte egiziana ha dichiarato giovedì al quotidiano filo-qatariota Al-Arabi Al-Jadeed che l'amministrazione statunitense aveva approvato il piano d'azione di Israele a Rafah, in cambio del quale Israele non avrebbe condotto un attacco su larga scala contro l'Iran. Tuttavia, i funzionari dell'amministrazione Biden hanno smentito questa affermazione in un'intervista a Kan News: "Israele e gli Stati Uniti non hanno mai discusso un via libera per un'azione a Rafah in cambio di un'azione limitata di Israele contro l'Iran". Inoltre, nelle prossime due settimane, Israele prevede di installare 10.000 tende nell'area esterna a Rafah. È stato anche annunciato che altre 30.000 tende sono attualmente in fase di approvvigionamento e saranno dispiegate nell'area in un secondo momento. Inizialmente Tsahal aveva previsto di lanciare dei volantini questa settimana per invitare i residenti di Rafah a lasciare l'area. Ma il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha deciso all'ultimo minuto di sospendere l'operazione per assicurarsi il sostegno degli Stati Uniti per la rappresaglia all'attacco iraniano.
21 giugno 2023: l'ayatollah Ali Khamenei, riceve a Teheran il capo di Hamas, Ismail Haniyeh (al centro),
insieme a Saleh al-Arouri (a sinistra) e altri dirigenti dell’organizzazione terrorista palestinese
Circa 133 ostaggi israeliani innocenti sono ancora trattenuti illegalmente da Hamas nei tunnel e in appartamenti nascosti all’interno della striscia di Gaza. Il 7 ottobre, Hamas e altri gruppi hanno deportato a Gaza non meno di 250 ostaggi nell’ambito di un piano chiaro e ben congegnato volto a sequestrare degli israeliani da usare come merce di scambio durante la prevista controffensiva di Israele. A questo scopo erano state preparate celle e gabbie nella soffocante rete di tunnel sotterranei di Gaza. Questo è esattamente il motivo per cui Hamas ha sequestrato gli ostaggi: per disporre di uno spietato asso nella manica che limita le mosse di Israele nelle manovre di terra e negli attacchi aerei, nonché di un formidabile ricatto che lacera sempre più la società israeliana. Dal canto loro, gli ostaggi – alcuni di oltre 80 anni, altri che hanno compiuto il primo anno di vita in cattività – stanno pagando un prezzo disumano al terrorismo antisemita. Basta ampliare un poco lo sguardo al di là della striscia di Gaza per constatare come, fino allo scorso fine settimana, a dispetto dei migliori sforzi di Israele gli occhi di tutto il mondo rimanessero puntati su un conflitto che viene definito come la “guerra Israele-Gaza” anziché – come si dovrebbe – la “prima guerra Israele-Iran”. E come giornalisti, attivisti e importanti leader mondiali si siano interamente concentrati sulla “catastrofe” umanitaria nella striscia di Gaza, per usare le parole del Segretario Generale dell’Onu, Antonio Guterres. Nella sua dichiarazione sulla “situazione in Medio Oriente”, il Consiglio Europeo ha praticamente ignorato la principale forza destabilizzante della regione, l’Iran, concentrandosi quasi soltanto sulla condizione umanitaria a Gaza. Lo stesso vale per gran parte delle dichiarazioni pubbliche dei massimi funzionari dell’amministrazione Biden. Eppure questo modo di inquadrare le cose manca totalmente il punto della questione, giacché questa guerra è plasmata da un conflitto molto più profondo, globale e strategico: la campagna iraniana su sette fronti contro Israele. E’ stato solo quando l’Iran in prima persona – e non più soltanto la sua ben oliata macchina di gregari regionali – ha lanciato contro Israele più di 350 missili balistici, missili da crociera e droni d’attacco, che la comunità internazionale ha rimodulato il suo modo di interpretare il conflitto. Adesso Ali Khamenei, la Guida Suprema dell’Iran, viene visto come il diretto responsabile del più massiccio attacco missilistico degli ultimi tempi, ancorché sventato in modo spettacolare. Gli infiniti messaggi che Israele aveva mandato non erano serviti a nulla: per avere effetto, il messaggio doveva essere concretamente visualizzabile. La guerra-ombra è ora venuta alla luce, ed è giunto il momento di mettere l’Iran di fronte alle sue responsabilità: non solo per il suo programma nucleare militare illegale, per il suo finanziamento di terroristi per procura e per il suo recente attacco su larga scala contro Israele. E’ anche ora di fare pressione sull’Iran affinché usi la sua influenza su Hamas per liberare gli ostaggi. In quanto suo protetto, Hamas dipende fortemente dall’Iran: non solo per la legittimazione e l’aperto sostegno politico del gruppo terroristico che ha ferocemente trucidato a sangue freddo 1.200 innocenti il 7 ottobre, ma anche per i 360 milioni di dollari che Hamas riceve ogni anno dall’Iran. I capi di Hamas vengono accolti in pompa magna a Teheran e la dirigenza iraniana – dalla Guida Suprema Khamenei, al presidente Ebrahim Raisi, al ministro degli esteri Hossein Amir-Abdollahian – rivendica in ogni occasione possibile il “glorioso attacco” di Hamas del 7 ottobre. Abdollahian si è spinto al punto di suggerire il trasferimento degli ostaggi in territorio iraniano. Eppure, nonostante questo andamento chiarissimo, non vi è alcuna indicazione che la comunità internazionale si renda conto che potrebbe perseguire il rilascio di tutti gli ostaggi (e la fine della guerra a Gaza) facendo pressione non su Israele, ma sull’Iran. (…) Si sente dire in continuazione che le condizioni umanitarie nella striscia di Gaza sono “terrificanti”, nonostante le oltre 450.000 tonnellate di aiuti umanitari della comunità internazionale entrate a Gaza attraverso i valichi di frontiera israeliani al ritmo ormai di 400 o addirittura 500 camion al giorno. Allo stesso tempo, con l’eccezione di occasionali dichiarazioni del Segretario di stato Antony Blinken e del Ministro degli esteri britannico David Cameron, molto raramente la comunità internazionale fa riferimento alla questione degli ostaggi, e mai con gli angosciati toni drammatici usati per descrivere la popolazione di Gaza, che proprio nei giorni corsi è stata filmata mentre affolla le spiagge di Dir Al Balah e i mercati di altre località nella striscia. Viceversa, la condizione in cui si trovano gli ostaggi è la più spaventosa possibile, senza camion di aiuti umanitari né alcuna comunicazione né informazione, e nemmeno la conferma che siano ancora in vita. Intanto, stando a quanto dicono il Mossad e il primo ministro israeliano (ma anche i rappresentanti americani), Hamas può permettersi di continuare a rifiutare deliberatamente un accordo che, a causa sua, nonostante i migliori sforzi, appare ancora improbabile. Secondo il capo di stato maggiore delle Forze di Difesa israeliane Herzi Halevi e numerosi esperti militari, la pressione militare israeliana è stata il principale fattore che lo scorso novembre ha piegato Hamas costringendola a un accordo. Ma ora che la pressione militare si è molto allentata, non sembra più funzionare. E’ imperativo riportare a casa gli ostaggi, dopo quasi 200 giorni di disumana prigionia. Invece di continuare a fare pressione su Israele per costringerlo ad accettare le condizioni folli di Hamas e compromettere ulteriormente la propria sicurezza nazionale, la comunità internazionale dovrebbe esercitare pressione sull’Iran. Basterebbe una sola parola della Guida Suprema iraniana Ali Khamenei, e gli ostaggi verrebbero rilasciati. (Da: YnetNews, 18.4.24)
(israelnet.it, 19 aprile 2024)
Israele sta facendo tutte le mosse sbagliate per compiacere Biden, mettendo in gioco la propria esistenza
di Giovanni Giacalone
Un certo numero di ostaggi sono ancora nelle mani di Hamas mentre i suoi leader di Gaza, Yahya Sinwar e Mohammed Deif, sono ancora al loro posto, così come Ismail Haniyeh e Khaled Meshaal a Doha, poiché il Qatar non è disposto a espellerli. Nessuna sorpresa, considerando che il Qatar non è un “mediatore”, come purtroppo molti in Occidente sostengono che sia, ma è piuttosto il braccio diplomatico di Hamas, che lavora fianco a fianco con il regime khomeinista in Iran. Nel nord di Israele, migliaia di cittadini sono ancora sfollati a causa degli attacchi sistematici di Hezbollah contro le aree civili. Nel frattempo, lo scorso fine settimana, oltre 300 droni e missili sono stati lanciati direttamente dal suolo iraniano verso Israele. Questa situazione è devastante per l’economia, il turismo, gli investimenti, la vita quotidiana di Israele ed è in corso dal massacro del 7 ottobre. Israele avrebbe tutte le ragioni di questo mondo, i mezzi e le capacità non solo per reagire, ma per finire il lavoro cominciato, per sradicare Hamas da Gaza, per infliggere gravi perdite a Hezbollah a condizione di non fare più alcun danno. Come ha spiegato in numerose occasioni John Bolton, questo è anche il momento giusto per colpire i siti nucleari iraniani, perché la prossima volta che il regime lancerà missili contro Israele, questi porteranno testate nucleari. Ma Israele fa esattamente il contrario, rinviando continuamente l’offensiva militare a Rafah che potrebbe porre fine ad Hamas e riportare indietro gli ostaggi ancora vivi. La pressione militare su Hamas, che avrebbe dovuto essere fondamentale per la liberazione degli ostaggi, si è allentata e da Gaza sono stati nuovamente lanciati razzi verso il suolo israeliano. I continui proclami sull’imminente attacco a Rafah, non seguiti da fatti concreti, non fanno altro che mostrare la debolezza del governo israeliano che ora appare molto più preoccupato di ciò che dice l’Amministrazione Biden, piuttosto che della propria sicurezza. Purtroppo la risposta vista contro l’Iran è la fotocopia di quanto sta accadendo a Rafah. Netanyahu non vuole scontentare Biden e quindi, pur facendo affermazioni forti del tipo “facciamo ciò che riteniamo sia meglio per Israele”, in pratica sta facendo esattamente il contrario, mostrando una debolezza che mette a serio rischio la sopravvivenza dello Stato ebraico in un’area, il Medio Oriente, dove la legge della forza è fondamentale per riuscire a sopravvivere. Persino Donald Trump ha detto a Netanyahu di finire rapidamente il lavoro a Rafah, perché era diventato evidente che le cose venivano trascinate avanti da troppo tempo, andando contro ogni concetto base di antiterrorismo e di risposta militare. Il direttore dell’Istituto internazionale per l’antiterrorismo di Herzliya, Boaz Ganor, ha spiegato molto chiaramente come l’equazione pratica del terrorismo sia “motivazione X capacità operativa”. Per avere efficacia a breve termine, la campagna antiterrorismo deve essere efficace nell’impedire all’organizzazione terroristica di perpetrare ulteriori attacchi mentre, a lungo termine, è essenziale ridurre la motivazione terroristica. Una campagna militare che non disabiliti le capacità operative dell’organizzazione non farà altro che aumentare la motivazione terroristica ed esporre lo Stato a ulteriori attacchi. Questo è esattamente ciò che sta accadendo a Gaza poiché Hamas non è stato sradicato, è ancora in grado di nuocere e, finché non sarà stato sradicato, non sarà possibile iniziare a lavorare sulla contromotivazione. Su scala più ampia, questo è anche ciò che sta accadendo con Hezbollah. L’Iran sta usando Hezbollah per rendere impossibile la vita nel nord e la risposta limitata da parte dell’IDF non fa altro che aumentare la fiducia degli sciiti. Sfortunatamente, questo modo di gestire la situazione ha anche aumentato la fiducia di Teheran. L’Iran ha risposto come ha fatto lo scorso fine settimana contro Israele quando gli Stati Uniti hanno eliminato il generale Qassem Soleimani? Ovviamente no. Tuttavia, l’Iran ha lanciato oltre 300 droni e missili contro Israele in risposta al raid di Damasco contro i comandanti dell’IRGC. È la prima volta che un nemico di Israele lancia un attacco così intenso direttamente dal proprio territorio e questo è un precedente molto pericoloso. La questione non è più nemmeno quella di chiedersi perché l’amministrazione Biden stia cercando in tutti i modi di rallentare Israele, viste le simpatie di molti membri dell’amministrazione verso l’islamismo e l’apertura verso Teheran. Dobbiamo invece chiederci perché Netanyahu continui ad ascoltarli, mettendo a rischio la sua credibilità ma anche la stabilità e l’esistenza stessa di Israele.
GERUSALEMME - Pensavo che col passare degli anni, man mano che i bambini crescevano e si trasferivano, non avrei avuto molto da fare prima di Pessach. Pensavo anche che avrebbero portato con sé la maggior parte dei loro effetti personali. Questo è quello che pensavo... Teoria e realtà sono molto distanti in questo caso. Ma a differenza degli anni precedenti, questa volta c'era una scusa per quello che è successo a casa mia. Il 7 ottobre sono cambiate molte cose, compreso il disordine in casa mia. La maggior parte dei miei figli non vive più a casa. Sono andati in riserva e sono rimasti lì per circa 4 mesi. Ogni volta che avevano una vacanza, grazie a Dio, venivano prima da noi, i loro genitori, a casa nostra, il posto naturale e giusto per loro.
Le stanze si riempivano di sempre più attrezzature, vestiti e borse. Foto: Anat Schneider
E io ero felice e grata per ogni momento. Lo aspettavo, lo aspettavo e lo desideravo. Ho pregato per questo giorno e notte. Mi sono occupata della cucina e della spesa. E mi assicuravo che in casa ci fosse sempre qualcosa da mangiare per accogliere loro e tutti coloro che sarebbero venuti con loro. E ogni volta che arrivavano, portavano con sé l'equipaggiamento militare e lo mettevano in questa o quella stanza.
Durante i giorni di riserva, i soldati hanno ricevuto molti oggetti in dono dai cittadini. E ogni volta che tornavano, avevano camicie termiche, gilet e altre attrezzature di cui non so nemmeno il nome. E ogni volta le stanze si riempivano di altri equipaggiamenti, di altri vestiti e di altre borse. E quando tornavano alla base, prendevano solo il necessario. E senza che me ne rendessi conto, la mia casa divenne un "magazzino". Poiché in quel momento non ero interessata a nient'altro che a vederli, non mi sono resa conto di come la casa fosse stracolma di attrezzature. Ora sono arrivati i giorni che precedono la Pasqua e in questi giorni, come sempre, sento un forte bisogno di rinfrescare, riordinare, rinnovare e riorganizzare la casa. Quest'anno più del solito. Ho chiesto aiuto a tutta la famiglia. Abbiamo creato ordine. E abbiamo trasformato quella che sembrava una zona militare in una casa.
Un po' più in ordine. Foto: Anat Schneider
Mentre lavoravamo insieme, continuavano a dirmi quanto fosse importante tutta questa attrezzatura. Mi hanno raccontato storie di cittadini meravigliosi che sono andati da loro e si sono presi cura di loro, e quando hanno iniziato a parlare, hanno parlato di cose di cui forse non avrebbero voluto parlare. Sono venute alla luce molte cose che non sapevo, perché di solito i miei soldati sono silenziosi. Quest'anno ho capito quanto sia importante il Seder di Pessach. Non è solo esteriore, non serve solo per spolverare e lavare il pavimento. Pessach di quest'anno è molto significativo per la nostra capacità di andare all'interno di noi, per purificare e rimuovere anche solo un po' di quello che è stato stipato lì dentro. Rilasciare un po' di angoscia e di difficoltà. Portare aria pulita nei punti dolenti e feriti e sentire, anche solo un po', l'esodo dalla schiavitù alla libertà.
E per quanto riguarda la casa fisica, abbiamo impacchettato tutto in modo ordinato e riposto in un luogo non visibile agli occhi, ma facile da trovare. E non ho dimenticato di pregare e di sussurrare nel mio cuore durante tutto questo tempo:
"O Dio, fa' che non debbano mai più usare questa attrezzatura. Ti prego, Dio, fa' che non dobbiamo più tirarlo fuori. E ti prometto che non mi lamenterò della polvere che vi si accumula sopra".
Amen.
(Israel Heute, 19 aprile 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Guerra e angoscia: Israele affronta il nemico invisibile della salute mentale
In forte aumento cure psicologiche e psichiatriche dopo il 7 ottobre
di Marina Gersony
Nelle trincee dell’animo umano, Israele si trova ad affrontare una battaglia silenziosa ma spietata. Questa non è una guerra combattuta con proiettili e armi da fuoco, ma con cicatrici invisibili e urla soffocate di dolore interiore. Mentre il Paese è alle prese con il conflitto in corso, un nemico insidioso emerge, un avversario che non può essere sconfitto con mezzi convenzionali: la crisi della salute mentale che affligge molti israeliani dopo il fatidico 7 ottobre. Il Ministero della Difesa – come riporta un editoriale del Jerusalem Post – ha annunciato con preoccupazione che quasi 8.000 membri delle Forze di sicurezza, toccati dalle tenebre della salute mentale, saranno accolti nella Divisione di Riabilitazione entro la fine dell’anno. È un grido d’allarme che squarcia il silenzio e rivela le ferite invisibili che affliggono coloro che hanno servito con onore. Le statistiche, fredde e implacabili come il vento del deserto, rivelano una verità amara: il 30% dei soldati feriti nell’attuale conflitto ha riportato danni emotivi, con il 60% di loro che combatte una battaglia interna contro il mostro del disturbo da stress post-traumatico (PTSD). È un nemico insidioso, che non risparmia né giovani né anziani, né uomini né donne.
• I tassi di disturbo da stress post-traumatico sono in aumento Ma il peso della guerra non grava solo sulle spalle dei soldati. Parliamo dei sopravvissuti, di coloro che hanno assistito all’orrore senza poterlo affrontare. Il festival Nova avrebbe dovuto essere un’esperienza di gioia e libertà, ma per molti si è trasformato in un incubo senza fine. Il fumo dei rave non è riuscito a dissolvere il buio che si è insinuato nelle anime di coloro che sono sopravvissuti, ma che ora lottano per trovare la luce: da quel giorno il calendario emotivo dello Stato ebraico è ancora fermo al 7 ottobre e prima che possa riprendere ci vorrà chissà quanto tempo ancora. I racconti dei sopravvissuti risuonano nelle aule della Knesset, come lamenti struggenti di anime in pena. «Non sarei qui se non avessi avuto il mio psicologo», confessa Na’ama Eitan, una delle voci spezzate dall’orrore. Mentre il Paese promette più di quanto possa offrire, le voci disperate chiedono aiuto, implorando di non essere abbandonate al buio.
• Anche gli operatori sanitari sotto stress Ma la guerra della mente non conosce confini. La sofferenza si diffonde come un virus, infettando non solo i corpi dei soldati, ma anche le menti di coloro che cercano di curare le ferite. Gli operatori sanitari, gli educatori, i soccorritori – tutti combattono una guerra che non hanno scelto, affrontando un nemico che non si vede. E mentre il Paese si stringe nelle spire della crisi, emergono altre tragedie nascoste nell’ombra. L’Associazione israeliana per la protezione dell’infanzia (ELI) rivela un aumento del 30% nelle richieste di aiuto per abusi fisici, sessuali ed emotivi. Le vittime della guerra non sono solo coloro che hanno indossato l’uniforme, ma anche coloro che hanno visto la guerra attraverso gli occhi spaventati dei bambini. L’orologio dell’emergenza continua a scorrere inesorabile. L’ERAN, una luce nell’oscurità, ha ricevuto oltre 172.000 chiamate di aiuto da anime affogate nell’ansia e nel trauma. Mentre il conflitto si protrae, la richiesta di soccorso cresce, come un grido di aiuto in un deserto di disperazione. E mentre la nazione si aggrappa alla speranza di un domani migliore, è chiaro che la battaglia per la salute e l’equilibrio mentale non può essere combattuta da soli. È un impegno che richiede il coraggio di riconoscere la sofferenza e la forza di tendere una mano e di offrire solidarietà a coloro che lottano nella tempesta.
• Un trauma che si somma a un altro trauma La crisi della salute mentale che si diffonde in Israele non è solo il risultato del conflitto attuale, ma si intreccia con un’altra forma di trauma che ha radici profonde nella storia del Paese. È il dolore ereditato, una ferita che si apre nuovamente con ogni generazione. Per molti israeliani, il ricordo dell’Olocausto è una presenza costante, un’ombra che aleggia su ogni aspetto della vita quotidiana. E non è solo una questione di storia; è un carico emotivo che si trasmette attraverso i fili invisibili del tempo, da una generazione all’altra. Gli studi hanno dimostrato che il trauma dell’Olocausto non si ferma alle vittime dirette, ma si insinua nel tessuto stesso della società, influenzando profondamente la mentalità collettiva. I sopravvissuti trasmettono inconsapevolmente il loro dolore ai loro discendenti, creando un’eredità di sofferenza che persiste nel tempo. Questo fenomeno è stato descritto come «identificazione radioattiva» con la Shoah, una connessione emotiva che permea le generazioni successive, anche quando il tempo avanza. Per la terza generazione, la presenza del trauma dell’Olocausto può essere palpabile, anche se non è stata direttamente vissuta. È un peso che si porta dietro, un’eredità di dolore che si manifesta in modi sottili ma significativi. Le cicatrici emotive della Shoah si intrecciano con le sfide della vita moderna, creando un terreno fertile per la crisi della salute mentale. Così, mentre Israele si sforza di affrontare le drammatiche sfide del presente, deve anche confrontarsi con le ombre del passato che continuano a gettare lunghe ombre sul suo popolo. La guerra non è solo esterna, ma interna, una lotta contro i demoni che si nascondono nelle pieghe della storia e della memoria collettiva.
Bandiera israeliana sulla pista: Siamo orgogliosi del nostro Paese! Foto Aviel Schneider
GERUSALEMME - In Israele, i media trasmettono l'immagine distorta che la maggioranza delle persone in Europa sia antisemita e che gli israeliani non siano particolarmente graditi. Il motivo sta nelle molte proteste che ci sono nelle città europee
contro l'offensiva di terra di Israele nella Striscia di Gaza. Dal punto di vista israeliano, questo sembra sempre pericoloso. Ma sono soprattutto gli immigrati arabi o musulmani che spesso danno il tono alle strade in Europa. Queste persone però non rappresentano la maggioranza. So per esperienza che le donne in Europa rabbrividiscono istintivamente quando sentono parlare in arabo per strada. Anche i nostri media riportano sempre più spesso che l'Occidente accusa Israele di genocidio. Questo spaventa molti. Non così mia figlia Eden. Non se la prende e dice sempre: "Non tutti sono antisemiti". A gennaio, Anat e io abbiamo sentito di avere un disperato bisogno di una vacanza in famiglia. L'acquisto dei biglietti aerei era un rischio, perché non potevamo essere sicuri che i nostri tre figli e il genero avrebbero avuto il tempo libero dal lavoro. Ma la nostra ferma convinzione che saremmo riusciti a volare tutti insieme non è stata delusa, perché alla fine di gennaio quasi tutti i riservisti che combattevano nella Striscia di Gaza erano stati congedati. L'8 febbraio ci siamo seduti a cena tutti insieme a Innsbruck, nove adulti e una nipote.
Dopo quattro mesi di guerra, sedersi insieme come un'intera famiglia, sana e felice, non è solo una benedizione, ma anche un miracolo e un dono. Foto: Aviel Schneider
Così Dio ha esaudito il nostro desiderio di poter staccare la spina dopo quattro mesi di guerra. In quei giorni abbiamo sentito che la guerra aveva fatto qualcosa a ciascuno di noi. Ognuno dei ragazzi aveva perso dei compagni, persino degli amici. Noi genitori non ce ne eravamo resi conto nelle prime settimane di guerra. Tutto bruciava nel paese e spesso non c'era tempo per parlare. Stare insieme è stato un momento di guarigione per tutti noi, figli e genitori, soprattutto per mia moglie. L'intera nazione è in uno stato post-traumatico, non sappiamo ancora cosa ci riserverà l'estate. Scoppierà la guerra nel nord? Di certo non ne abbiamo parlato.
• ISRAELIANI IN VACANZA A ZILLERTAL Non eravamo affatto gli unici israeliani sulle piste da sci della valle tirolese Zillertal . Abbiamo incontrato molti israeliani che la pensavano come noi, alla ricerca di pace e tranquillità in montagna dopo la guerra. Gli israeliani amano sciare e in Tirolo è possibile non solo farlo, ma anche incontrare persone. Ma sapete, lungo la strada ci siamo resi conto che non tutti erano contro di noi. Questo ha sorpreso soprattutto i nostri figli. Abbiamo incontrato più persone che stanno dalla parte di Israele che dalla parte dei nostri nemici. A chiunque abbiamo mostrato le nostre foto, abbiamo mostrato con orgoglio le bandiere israeliane, e nessuno si è arrabbiato per questo. Al contrario, la gente ci ha salutato. Abbiamo poi brindato con un bicchiere di liquore al caffè. L'etichetta porta il nome di un soldato caduto, Dekel Swissa. Il 23enne era nostro vicino di casa e la sua famiglia vuole mantenere viva la memoria di Dekel in questo modo.
Da qualche parte in montagna, abbiamo incontrato a un tavolo una famiglia italiana di Padova, i genitori e le loro due figlie. Abbiamo iniziato una conversazione.Il padre ha sottolineato di essere pienamente dalla parte di Israele: "Gli europei sono arroganti e non hanno idea di cosa stia succedendo in Medio Oriente". Si è scoperto che lavora in Siria e in Iraq e ha un buon amico a Beersheva. Gli italiani ci hanno incoraggiato a non arrenderci e a distruggere Hamas una volta per tutte. Ce lo ha detto una persona in Tirolo. Non era un antisemita. Siamo andati poi in un ristorante di barbecue. Quando siamo entrati in dieci e abbiamo parlato in ebraico, Saverio (il professore di barbecue Saverio!) ci ha salutato con Shalom e Am Israel Chai. Anche lui non è antisemita, anzi è un fan di Bibi, "l'uomo giusto al momento giusto". Nello stesso ristorante abbiamo incontrato anche il fotografo di viaggio tedesco Michael Runkel, che ha viaggiato in tutti i 193 Stati membri delle Nazioni Unite ed è stato nominato due volte per il premio Travel Photographer of the Year tra i 5 migliori fotografi di viaggio al mondo. "Fotografo solo le cose belle di questa terra", ci ha detto Michael. Ha diversi amici in Israele e parla anche un po' di ebraico. Abbiamo fatto una breve e piacevole chiacchierata a tavola, ma più tardi ho saputo che mia figlia lo aveva incontrato il giorno prima e aveva intavolato una conversazione con lui. Era stato un po' scettico sui tunnel del terrore scoperti nella Striscia di Gaza. Ok, può succedere. Non è un male.
Anche nell'albergo di Nicolò e della sua famiglia ci siamo sentiti a nostro agio e benvenuti. Già nella prenotazione telefonica, Nicolò ci ha chiesto come stava Israele. Era contento di rivederci. In albergo hanno voluto sapere di più sulla situazione del Paese. Lo stesso è accaduto con la famiglia Fankhauser in Tirolo. La famiglia di Israele è stata salutata a gran voce la sera davanti a tutti i tavoli. Al tavolo accanto c'era una bella famiglia tedesca: nonni, figlia, genero e due nipotine. La nostra Michaela ha giocato con le bambine. Ogni tanto si parlava e loro capivano che i nostri ragazzi erano tutti in guerra. Il giorno della partenza, il nonno si è avvicinato a me, mi ha abbracciato, mi ha stretto la mano e mi ha detto: "So che nella Striscia di Gaza è tutto uno schifo. Non arrenderti. Dovete vincere". Anch'io ho fatto il militare e so cos'è il terrore, ho combattuto contro la banda Baader-Meinhof". Da qualche altra parte abbiamo conosciuto Hamouda: i suoi genitori sono tunisini, ma lui è cresciuto in Sicilia e in Austria. Quando mio genero ha iniziato a parlare con Hamouda, era scettico. Non abbiamo nulla contro un musulmano nel nostro quartiere, ma dobbiamo essere prudenti. Quando abbiamo parlato con Hamouda in modo più approfondito, è emerso che ha radici ebraiche attraverso la madre. L'esperto di vini alla fine è diventato anche un amico che ha augurato a noi e a Israele la pace. Non importa dove fossimo, non abbiamo mai nascosto il nostro Israele. Al contrario, eravamo sempre orgogliosi di pronunciare il nome "Israele" quando qualcuno ci chiedeva da dove venissimo. Nessuno ci ha gridato "Dal fiume al mare - la Palestina sarà libera". Eravamo preparati a questo, ma non è successo. (E probabilmente non sarebbe finita bene nemmeno per l'altra parte). In ogni caso, abbiamo capito, soprattutto la generazione più giovane, che non tutti nel mondo sono contro di noi. Noi usiamo la frase "Israele è solo". Molte brave persone lontane invece spesso pensano a Israele meglio di quanto pensiamo noi. Sì, vorrei credere che molte persone capiscano Israele meglio e lo amino più di quanto noi pensiamo. La nostra vacanza non ci ha portato solo comefamiglia il relax che speravamo. Questi giorni ci hanno aperto gli occhi e il cuore su molte cose, tra cui questa: Non tutti all'estero sono antisemiti.
(Israel Heute, 19 aprile 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
"Come tutto è cambiato dopo il 7 ottobre" a cura di Francesco Lucrezi, Sopher Edizioni 2024 È il titolo del terzo libro sul 7 ottobre, dopo quelli, scritti a caldo, di Fiamma Nirenstein e Giulio Meotti, emotivi e incisivi. Questo libro collettaneo, curato dal professor Francesco Lucrezi ed edito da Sopher, un piccolo e coraggioso editore, è stato presentato nella Comunità Ebraica di Napoli il 10 aprile a cui ha fatto seguito una trasmissione di Radio Radicale. Un testo che esprime un grido di dolore, sconforto e speranza, potenza etica della radice, memoria, fede ebraica. Una luce di riflessione di fronte a un oceano di odio genocida, l’eterna missione universale di Israele nella sua particolarità, l’esemplarità di libertà e responsabilità dell’ebraismo, l’intensa e commovente condotta degli ebrei di Eretz Israel nell’ora della distruzione e della morte. Lo smantellamento etico razionale della valanga di menzogne mortifere in un mondo alla rovescia, della follia paradossale di un fazzoletto di terra demonizzato come imperialista, la violenza antisemita di piazza etichettata come liberatrice. Infine, un pacifismo che è un puro strumento della guerra di aggressione e sterminio. Un mondo stravolto da un odio feroce, dal piano di una nuova Shoah, in una gelida indifferenza. Occhi chiusi, cuori di pietra, menti militarizzate per isolare e eliminare Israele. Mentre l’Iran, accusato dal suo popolo di essere la sua Hamas e Isis, ha aggredito Israele con oltre trecento missili e droni, neutralizzati dall’autodifesa israeliana e dai suoi alleati. Mentre continua la nefasta politica dell’Amministrazione Biden e dell’Unione Europea di pacificazione e complicità con il regime terrorista dell’Iran, che prosegue nella sua corsa atomica. Leggiamo questo buon libro, con le sue perle di saggezza, domande radicali, inviti alla riflessione, e anche alcune espressioni discutibili ed errate (in una discussione aperta e plurale).
Il curatore Francesco Lucrezi così lo presenta:
“Il sette ottobre ha spezzato la storia, ha sconvolto le nostre vite. Si è aperto un nuovo capitolo dell’antica storia del Male. (…) Sono stati superati tutti quelli che credevamo fossero i limiti del Male. È crollata, anzi, l’idea che il Male possa avere dei limiti. Orrendi fantasmi che ci illudevamo fossero stati non certo sconfitti, ma almeno emarginati, riemergono, moltiplicati per mille, in tutto il mondo, nell’indifferenza, quando non nel compiacimento di molti. Niente sarà più come prima, tutto è cambiato”.
Emanuele Calò, autore di La questione ebraica nella società post–moderna. Itinerari fra storia e microstoria (prefazione di Ruth Dureghello, Napoli 2023) scrive con chiarezza:
“Il post marxismo, frammento sfilacciato del postmodernismo, ha segnato il passaggio dall’opzione binaria ‘borghesia-proletariato’ a quella, del tutto anfibologica, fra oppressori e oppressi. Il primo binomio faceva capo ai rapporti di produzione, mentre il secondo fa capo al solo potere. Nel caso di Israele, a fronte di una popolazione ebraica di sette milioni cinquecento mila ebrei nel mondo, vi sono 49 Stati a maggioranza islamica, e un totale di quasi due miliardi di islamici nel mondo. Sostenere che Israele detenga il potere, a fronte di un mondo islamico povero e debole, diventa davvero problematico, eppure costituisce la ‘doxa’, mentre ‘l’episteme’ diventa un marchio di infamia, tale da renderla estranea al mondo accademico, che firma manifesto su manifesto per cancellare le università israeliane dalla faccia della terra scientifica. Lo si chiami movimento ‘woke’ oppure ‘cancel culture’ o ‘political correctness’, il comune denominatore è costituito da una carica di violenza e intolleranza che ricorda alcune esperienze totalitarie, non certo di sinistra. Un pauperismo in malafede ha sostituito il ruolo del proletariato, e oscurato l’analisi di Marx sul sottoproletariato, secondo la quale esso “rappresenta la putrefazione passiva degli strati più bassi della vecchia società”, che “per le sue stesse condizioni di vita esso sarà piuttosto disposto a farsi comprare e mettere al servizio di mene reazionarie”.
Israele è criminalizzata comunque, per principio.
Dopo millenni di accuse di deicidio e di malefatte di ogni tipo, lo Stato ebraico sapeva che, anche se si fosse difeso in modo idoneo e in linea con le convenzioni internazionali, sarebbe stato comunque accusato di crimini contro l’umanità, perché Israele, nella comune percezione, è l’ebreo fra le nazioni e non uno Stato come tutti gli altri”.
Ecco le tesi di Douglas Murray, noto intellettuale britannico, collaboratore di The Spectator e autore del libro La pazzia delle folle, sui pogrom mediatici su Gaza:
La responsabilità dei gazawi andrebbe accostata a quella del popolo tedesco sotto il nazismo laddove, ad esempio, la folla gazawa sputa per strada sul cadavere di una giovane violentata, uccisa ed esibita come un trofeo. Poiché i soldati tedeschi erano traumatizzati dalle fucilazioni, i nazisti fecero ricorso alle gassazioni, invece qui non si registrano quelle reazioni, bensì vi è l’orgoglio per gli eccidi.
Per celare la Shoah, Hamas dichiara senza alcun problema di volere sterminare gli ebrei, senza ricorrere a giri di parole. Ciò vuol dire che, mentre i nazisti erano consapevoli che si trattasse di una vergogna da nascondere, Hamas se ne vanta, e fa bene, laddove molti media occidentali nemmeno se ne accorgono.
Israele è accusata di genocidio, mentre a Gaza si rileva l’esistenza di un boom demografico.”
Heinrich Himmler osservò che sulla “Soluzione Finale” Hitler raccomandò la massima segretezza, mentre Hamas esibisce con il massimo entusiasmo i suoi crimini smisurati, porta le vittime sanguinanti in trionfo tra la folla esultante.
Calò stabilisce un parallelo tra l’attuale disinformazione generalista emotiva su Gaza e i criteri esposti dal diplomatico Usa George Kennan che, in un noto lungo telegramma, informava il suo governo sulle caratteristiche del potere sovietico:
“E hanno imparato a cercare la sicurezza solo nella lotta paziente ma mortale per la distruzione totale del potere rivale, mai in patti e compromessi con esso. Non è una coincidenza che il marxismo, che aveva covato inutilmente per mezzo secolo nell’Europa occidentale, abbia preso piede e sia divampato per la prima volta in Russia. Solo in questa terra che non aveva mai conosciuto un vicino amichevole né alcun equilibrio tollerante dei poteri separati, sia interni che internazionali, poteva prosperare una dottrina che considerava i conflitti economici della società insolubili con mezzi pacifici. Dopo l’instaurazione del regime bolscevico, il dogma marxista, reso ancora più truculento e intollerante dall’interpretazione di Lenin, divenne un veicolo perfetto per il senso di insicurezza di cui erano afflitti i bolscevichi, ancor più dei precedenti governanti russi. In questo dogma (…) trovarono giustificazione la loro istintiva paura del mondo esterno, della dittatura senza la quale non sapevano governare, delle crudeltà che non osavano non infliggere, dei sacrifici che si sentivano obbligati a richiedere."
Oggi una falsificazione sistematica, schieratissima, insieme a superficialità, pigrizia e noncuranza, rendono l’Italia un paese difficilmente ospitale per gli ebrei.
Magistrale l’intervento di Rav Roberto Della Rocca (Direttore del Dipartimento Cultura e Formazione dell’UCEI). Un avvertimento fondamentale:
“Una certa celebrazione mistica del popolo ebraico, come vittima della Shoah, procede spesso, in modo parallelo, a un misconoscimento dell’ebreo come attore e protagonista nella storia contemporanea. A una sovraesposizione dei cadaveri disincarnati degli ebrei fa spesso da ”pendant” il tentativo di oscuramento del popolo ebraico nella sua specificità. Questa riproduzione dell’ebreo perseguitato diventa pericolosa quando essa viene utilizzata per dimostrare altre tesi, anziché come punto di partenza per porre domande e capire di più. Questa immagine diventa un elemento fondante, semplice e alla portata di tutti, destinata ad altri scopi, strumentalizzata per sostenere quelle tesi negazionista e antisemite, e, in molti casi, contro la legittimità dello Stato di Israele. L’immagine della vittima del nazismo viene infatti accorpata e identificata all’immagine della vittima degli israeliani per una “strana” proprietà transitiva, da cui ne consegue che “gli israeliani si comportano come dei nazisti nei confronti dei palestinesi”.
Con l’evento del 7 ottobre si tenta di assimilare la Shoah ad altri fenomeni contemporanei per ridurne l’importanza e negarne l’unicità. Ma nonostante che le azioni di Hamas abbiano rievocato gli orrori della Shoah “la situazione del popolo ebraico oggi si presenta sostanzialmente diversa rispetto a quella di ottanta anni fa. Oggi esiste uno Stato ebraico sovrano con un sistema di difesa efficace, che ha mostrato ai suoi nemici che la vita di un ebreo non è più senza valore come poteva sembrare prima del 1948. Tuttavia, la percezione di una correlazione tra la Shoah e il massacro del 7 ottobre rimane forte e trova un riscontro significativo nella tradizione ebraica, nella quale la parola fondamentale per imprimere nella memoria gli avvenimenti è ‘zachòr’, che significa ‘ricorda’. Questo termine ha un significato molto diverso dalla parola ‘historia’, intesa come ricerca, indagine, tipica dell’approccio delle civiltà greca e latina agli eventi. Nella vita ebraica ci si trova di fronte a una storia della memoria, in cui sono i flashback e le libere associazioni a dominare dove il ragionamento tematico è sicuramente privilegiato rispetto a quello cronologico”. Lo Stato di Israele è osteggiato proprio per quello che è, per i suoi valori, le sue qualità di libertà e democrazia, per essere un laboratorio politico, sociale, culturale unico al mondo.
“Israele sembra essere tutto ciò che l’Europa non riesce a diventare. Ma Israele non è una nazione inventata sulla carta. Piuttosto, è il popolo di Israele che ha saputo reinventarsi. L’esistenza di Israele dice al mondo occidentale che il popolo ebraico continua ad esserci, non intende scomparire né cedere alle lusinghe di una assimilazione che, in passato, ha rappresentato spesso la ragione della sua rovina. Cancellare la propria identità vuol dire cadere nell’indistinzione, nelle trappole di una falsa uguaglianza incapace di valorizzare qualsivoglia differenza. Il sionismo nasce proprio dall’esigenza di dare una risposta all’assimilazionismo, altra faccia dell’antisemitismo”. “In molti sostengono che se non ci fosse stata la Shoah, Israele non sarebbe mai nata. Forse è arrivato il momento di dire che – semmai – è il contrario. Israele nasce malgrado la Shoah e non è un risarcimento, perché non esistono tragedie risarcibili”.
Rav Della Rocca ci ricorda che non esiste un mitico Stato di Israele ideale, ma un Israele con le sue potenzialità e limiti, con la sfida di essere riconosciuto all’interno della comunità internazionale. Nel riferimento all’episodio biblico della lotta di Giacobbe con l’angelo “dobbiamo intendere il nome di Israele come un nome di lotta, portato da coloro che sono impegnati in un combattimento contro l’oscurità della barbarie e l’oblio della coscienza”.
Dallo scritto di Riccardo Di Segni, Rabbino capo di Roma, riportiamo:
“I testi di preghiere, sedimentati per secoli, esprimono le tante difficoltà sperimentate dai singoli e dalla collettività. Come se tutto fosse già previsto a pochissime ore dagli eventi, la stessa mattina di quel sabato, apprese le prime notizie dello scempio e della cattura di ostaggi, ci siamo trovati a ripetere una formula del rito italiano dettata da secoli di sofferenza che recitiamo ogni sabato mattina, spesso in modo automatico, ma che in quel momento riprendeva la sua drammatica attualità:
‘Fratelli d‘Israele e Israeliti che sono sottoposti a violenza, e Israeliti che sono posti in disgrazia e rapiti, che il Signore con la Sua misericordia abbia pietà di loro e sia benevolo con loro e con noi per il Suo grande nome, li salvi e ci salvi, li faccia uscire e ci faccia uscire dalla ristrettezza al benessere e dal buio alla luce, presto’”.
Francesco Lucrezi si chiede in Come è cambiata l’etica dopo il Sette Ottobre:
“Esiste, nella storia della civiltà umana, quella cosa chiamata progresso?” e poi “Ma esiste il progresso, anche sul piano dell’etica, dei valori?” La risposta: “No, non esiste”.
Paolo Ferrara, consigliere della Comunità, che si è impegnato nel dialogo tra ebrei e cristiani, riflette sul regresso di tale dialogo dopo il 7 ottobre. Forse una larga parte dei cristiani è diventata prigioniera della narrazione mediatica, senza una propria valutazione critica, e manifesta contro lo Stato ebraico a fianco dei sostenitori di Hamas, considera un’organizzazione terrorista come una forza di resistenza paragonabile alla storica resistenza antifascista. La Chiesa cattolica considera l’autodifesa israeliana come una “cieca vendetta” e invoca “una pace quasi da dimensione messianica, frutto di un sogno e non di un progetto”. Ricorda che lo stesso Gandhi scriveva nella sua autobiografia: “Sebbene la violenza non sia lecita, quando viene usata per autodifesa o a protezione degli indifesi, è un atto di coraggio, di gran lunga superiore alla codarda sottomissione”. “La Chiesa deve capire che – scrive Ferrara – non riconoscere o sottovalutare gli orrori commessi da Hamas, osteggiare Israele accusandolo di genocidio e nazismo, e non riconoscere l’enorme pericolo insito nell’aumento dell’antisemitismo, porta alla fine dello Stato di Israele e forse degli ebrei, ma che è anche un suicidio dello stesso mondo cristiano e dei suoi valori”.
Daniele Coppin, consigliere della Comunità, sottolinea un aspetto poco riconosciuto: di fronte all’intolleranza negazionista di diversi accademici e intellettuali “è stata la reazione delle persone comuni, dell’uomo strada, a quanto accaduto il 7 ottobre, la sorpresa positiva per molti di noi. Sono state tante le espressioni di solidarietà da parte dei colleghi di lavoro, di conoscenti, persone con cui non si era più in contatto da tempo, a dimostrarci una vicinanza di cui si sarebbe potuto dubitare”.
L’intervento di Sergio Della Pergola, per diversi aspetti pregevole, contiene espressioni e temi discutibili e inaccettabili. Bene quando scrive: “Il 7 ottobre lo slogan ‘Mai più’, figlio naturale della Shoah unica e irripetibile, è morto in tragiche circostanze. ‘Mai più’ che cosa, se è già avvenuto di nuovo?”. Bene la denuncia di Hamas, dell’ONU, delle femministe filo-terroriste, della Chiesa cattolica di Papa Bergoglio, dei cardinali Ravasi e Pizzaballa, degli accademici italiani e degli USA, del New York Times, dell’ISPI, della BBC, di Limes, della folla fanatica delle piazze. Giusta la constatazione del “drammatico fallimento dei servizi israeliani di intelligence militare e civile nel prevedere e nel monitorare gli eventi”. Motivata questa critica: “L’idea fondante del Premier Benyamin Netanyahu era che Hamas non costituisse un pericolo per via del deterrente militare israeliano, e che i benefici economici, incluso l’impiego di 20.000 pendolari in Israele, promuovessero la non belligeranza. Idea che si è rivelata fallimentare”. Ma quando la critica politica diventa demonizzazione finisce con l’allineamento alle condanne di Hamas, Iran, Jihad Islamica, Erdogan, e si configura il capo di un governo di relativa unità nazionale con gli stereotipi antisemiti dell’ebreo vendicativo, ecc. Quando scrive: “Ha coinvolto il paese in una disastrosa controversia interna, cercando di imporre una malaugurata rivoluzione costituzionale di carattere totalitario, portando gli Israeliani sull’orlo della guerra civile” non tiene conto di una serie di fattori. Una riforma costituzionale per sua natura deve essere bipartisan, non stravolta da una polarizzazione bilaterale. Si tratta di una controversia complessa e intricata. Sono pericolose e fuorvianti le forzature sia governative sia dell’opposizione. Per un ordine costituzionale condiviso occorre, nella divisione dei poteri, il primato della Knesset, l’indipendenza della magistratura, l’autonomia della politica. Poteri limitati, senza superpoteri.
Consideriamo l’autorevole studioso ebreo Ugo Volli, che sostiene su Shalom: “Per delegittimare la sua autodifesa, si accusa lo Stato ebraico e in particolare il primo ministro Netanyahu ‘nuova personificazione dell’ebreo maligno di medievale memoria’, di ostinazione insensata, di crimini di guerra, addirittura di genocidio. Sono falsità propagandistiche, nella migliore delle ipotesi ipocrisie e sciocca dipendenza dalla disinformazione, in cui si distinguono antisemiti, putinisti, odiatori della libertà e dell’Occidente”. Inoltre, quando Della Pergola scrive che il primo ministro avrebbe messo a repentaglio le relazioni tra Israele e Stati Uniti, tradizionalmente bipartisan, non tiene conto delle gravi responsabilità dell’Amministrazione Biden nelle indebite ingerenze sulla politica e sulla autodifesa di Israele. Attacco alla sovranità israeliana dettato da contingenze elettorali, oscillazioni e assenza di strategia globale.
Una ventata di saggezza biblica talmudica nell’intervento di Luciano Baruch Tagliacozzo (dottore in Studi Ebraici, scrittore, interprete e traduttore di testi delle Scritture e della tradizione ebraica): “Fra il XIX e il XX secolo abbiamo avuto tre rapidi cambiamenti del popolo ebraico. L’emancipazione dai Ghetti, la Shoah, lo Stato ebraico. Tutti e tre gli eventi erano stati richiesti o paventati per millenni dalle preghiere ebraiche millenarie, che a loro volta avevano sostituito l’altare dei sacrifici quotidiani dopo lo sterminio e la Diaspora da parte dei Romani. Chi ha espresso nella sua opera i nuovi significati della Parola, è stato nel XX secolo il Rabbino Avraham Yzchak Kook, nel libro Orot (le luci) e Orot Hakodesh (Le Luci della Santità). Dal suo arrivo in Israele, nel 1909, Rav Kook viaggiò nei nuovi insediamenti agricoli dell’Yshuv, propagandando nuovi significati della Torah, nuove possibilità della vita del popolo nella Terra dei padri. Questa sua opera egli la definiva con il verso biblico ‘L’oro di questa terra era migliore’; questa diversa modalità dà la possibilità alla Torah di essere vista con 70 facce, una per generazione”. “Dice Rav Kook: ‘La Terra d’Israele non è una cosa profana, una acquisizione estranea al popolo, solo in linea stessa con lo scopo del racconto collettivo, e della forza di ricostruzione materiale o persino spirituale, la Terra d’Israele è tagliata nella sua essenza, legata con un nodo vitale con il popolo, abbracciata con il tesoro intimo con la sua essenza, e per questa ragione è impossibile prescindere dalla santità di Eretz Israel.’ (Orot, 1,1)” Alla presentazione del libro, Tagliacozzo ha citato dal commento di Rashi al libro di Bereshit la parola profetica : “Ci accuseranno di essere ladri di terre!”. Nel libro seguono poi interventi più o meno significativi, tra gli altri quelli di Giuseppe Crimaldi, Cesare Israel Moscati, Rabbino di Napoli, Mario Paganoni, Paolo Pollice, ordinario di Diritto Civile, e presidente dell’Osservatorio Enzo Sereni. Un libro da leggere, e far leggere agli amici. Per contrastare l’odio smisurato, e affermare i valori radicali, radicati, indistruttibili della civiltà ebraica.
2024. Che differenza c’è tra questo Pèsach e tutti gli altri?
di Rav Riccardo Di Segni
PESACH 5784
Sappiamo tutti qual è l’importanza di Pesach e come questa festa sia l’occasione per ricordare la nostra storia, le nostre origini, per ritrovarsi in famiglia e con amici. Le regole di Pesach sono impegnative, tra pulizie, alimentazione speciale, organizzazione dei sedarìm. Per quanto siano differenti i modi di rapportarsi alle tradizioni, da chi è strettamente rigoroso e attento a tutti i dettagli a chi si limita a mangiare un pezzettino di azzima, Pesach fa parte dell’identità ebraica e la sua celebrazione fa vibrare in tantissimi ebrei, anche i più lontani, qualche corda.
La letteratura e la memorialistica di argomento ebraico, in tutte le lingue, italiano compreso, che è un fiume in piena inarrestabile, è ricca di ricordi e riferimenti a Pesach. Si potrebbe scrivere un libro-antologia raccogliendo tutte le testimonianze e le narrazioni di come si svolgeva la cena del sèder. Come quella di una grande famiglia in cui si invitavano tutti, osservanti e non osservanti, e c’era il parente che ogni anno, puntualmente, a un certo punto della lettura della haggadah, quando si parlava delle piaghe e delle punizioni sull’Egitto non si tratteneva e cominciava un’invettiva contro la crudeltà di quel racconto e non poteva ammettere una religione in cui si parlasse così della sorte del nemico. E si tratta di episodi vissuti in una famiglia ebraica italiana emancipata, ben antecedenti la shoà.
Mentre scrivo queste righe la guerra in Israele è ancora in corso e spero che si potranno leggere a guerra fnita. In ogni caso Pesach di questo anno sarà diverso per quello che è successo. Tanto da chiederci, riprendendo la domanda iniziale della haggadà, ma nishtanà, che differenza c’è tra questo Pesach e tutti gli altri? Non è certo la prima volta che viviamo un periodo in cui la nostra vita è mi nacciata e si solleva un’ondata di incomprensione, per dirla in modo pacato, nei confronti del mondo ebraico. Ma è anche un periodo nel quale siamo stati testimoni in una reazione ebraica di sentire comune, di riscoperta di unità al di sopra di divisioni sempre laceranti; una risposta non tanto scontata e per certi aspetti sorprendente.
Questo Pesach sarà diverso ma anche uguale perché ci costringerà a capire i messaggi che si trasmettono nelle letture e nelle prescrizioni rituali. Se a qualcuno non piace la storia degli egi ziani affogati nel mare, saprà dai midrashìm che anche gli angeli al servizio divino avevano fatto una silenziosa protesta per quello che succedeva. E chi non discute e litiga su questi temi non sta vivendo appieno la festa di Pesach che per definizione è il momento in cui si fanno domande e si cerca di rispondere.
Attraverso questi meccanismi dovremo riuscire a capire molte cose; che una storia di 35 secoli fa ha ancora per noi un senso fondamentale, che gli insegnamenti e gli obblighi della tradizione hanno un valore profondo e attuale e che nella complessa identità ebraica non c’è solo la tristezza della persecuzione, ma la gioia della liberazione che celebriamo a Pesach.
“In ogni generazione si ergono contro di noi per distruggerci, ma il Signore, che sia benedetto,cisalva dalle loro mani”.
La Comunità ebraica di Milano ha preso una decisione significativa in merito alla sua partecipazione alla manifestazione del 25 aprile. A seguito dell’incontro con il Comitato permanente antifascista, la Comunità ha annunciato che non sarà presente con il proprio gonfalone alla manifestazione. Questa scelta è stata motivata dalla polemica riguardante lo slogan scelto dall’Anpi, ‘Cessate il fuoco ovunque‘. Il presidente della Comunità ebraica, Walker Meghnagi, ha espresso la sua posizione dichiarando che non parteciperà personalmente al corteo. Tuttavia, è emerso che gli ebrei milanesi appartenenti a diverse organizzazioni sfileranno uniti sotto le insegne della Brigata ebraica, come segno di riconoscimento dei valori rappresentati dalla sua partecipazione attiva alla lotta di liberazione dal nazifascismo.
• Un gesto di rinascita e coesione In un momento in cui si assiste a una preoccupante rinascita dell’antisemitismo, la Comunità ebraica di Milano intende inviare un forte segnale di attaccamento al proprio paese e di gratitudine verso coloro che si sono sacrificati per la sua liberazione. In un contesto segnato da tensioni e divisioni, l’unità mostrata dagli ebrei milanesi durante la manifestazione del 25 aprile assume un significato particolare. È un gesto di coesione e di solidarietà, volto a ribadire l’importanza dei valori di libertà e democrazia conquistati con grandi sacrifici durante il periodo storico della Resistenza.
• Il valore della memoria e della trasmissione dei valori La partecipazione alla manifestazione del 25 aprile è considerata fondamentale dalla Comunità ebraica di Milano per conservare e trasmettere la memoria del periodo storico in cui la libertà è stata riconquistata a caro prezzo. È un momento simbolico per riflettere sui sacrifici compiuti nella lotta contro il nazifascismo e per ribadire l’impegno nel difendere e trasmettere alle generazioni future i valori fondamentali di libertà e democrazia. In un contesto in cui tali valori sono ancora oggi minacciati da fenomeni di intolleranza e odio, la presenza unitaria degli ebrei milanesi alla manifestazione rappresenta un’importante testimonianza di impegno civico e di coesione sociale, nella speranza di costruire un futuro più inclusivo e solidale per tutti i cittadini.
Scontri alla Sapienza, non solo studenti: nell'assalto anche anarchici e un palestinese vicino ad Hamas
I 5 anarchici presenti sono estranei all'ambiente universitario. Per 27 tra poliziotti e carabinieri necessarie cure mediche
di Silvia Mancinelli
Non solo studenti. A quanto apprende l'Adnkronos, tra i 300 che ieri pomeriggio hanno partecipato alla manifestazione promossa dal "Coordinamento Collettivi Sapienza" e dal "Movimento Studenti Palestinesi" davanti all'Università La Sapienza di Roma, c'era anche un palestinese che figurerebbe tra i componenti dell'Udap (Unione Democratica Arabo Palestinese) e sarebbe vicino a Mohammed Hannoun, Kaled El Qaisi e Igazi Soleiman, considerati contigui all'organizzazione terroristica di Hamas. Presenti alla manifestazione anche cinque noti anarchici estranei all'ambiente universitario.
L'uomo, che ha prestato servizio per un lungo periodo al Cara di Pozzallo (Ragusa) e successivamente nel centro di prima accoglienza di Lampedusa, ieri è intervenuto parlando ai ragazzi della resistenza palestinese e ha criticato lo Stato di Israele. Allo stato sono 27 le forze dell'ordine che hanno fatto ricorso alle cure mediche, 16 del Reparto Mobile di Roma, 9 della Questura e due appartenenti all'Arma dei carabinieri.
Convalidato l’arresto e rimesso in libertà anche del secondo manifestante, fermato ieri pomeriggio, durante gli scontri avvenuti alla Sapienza con i collettivi degli studenti pro-Palestina. Il giudice monocratico di Roma al termine dell’udienza ha disposto la convalida dell’arresto rimettendo in libertà il ventisettenne libico, accusato di danneggiamento aggravato. Il processo è fissato per il 23 maggio.
(Adnkronos, 18 aprile 2024)
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La Sapienza: i soliti collettivi di estrema sinistra, anti-Israele e non pro-pace
di Roberto Penna
Ieri (16w aprile) è stata una giornata piuttosto tesa presso l'Università La Sapienza di Roma. Era il giorno della riunione del Senato accademico e del Cda dell'ateneo, che dovevano pronunciarsi sulle richieste di sospensione degli accordi di collaborazione fra la celebre Università romana e gli atenei israeliani, avanzate da alcuni collettivi studenteschi e da qualche docente, come forma di ufficiale protesta nei confronti delle operazioni militari di Israele nella Striscia di Gaza. Il Senato accademico e il Cda si sono opposti fermamente all'ipotesi di boicottare la cooperazione de La Sapienza con le Università dello Stato ebraico perché, sottolineano con molta saggezza, non è con il boicottaggio della collaborazione scientifica internazionale, la rinuncia alla libertà della didattica e della ricerca, e la negazione delle associate responsabilità di ogni singolo ricercatore, che si può favorire la pace e il rispetto della dignità umana.
A causa della bocciatura delle istanze di taluni collettivi, sono avvenute ieri diverse proteste, fuori e dentro l'ateneo, sfociate purtroppo in comportamenti violenti che hanno richiesto l'intervento delle Forze dell'Ordine. Tutto è iniziato in mattinata da due studentesse che si sono incatenate al totem davanti all'ingresso del Rettorato. Le due ragazze, oltre a richiedere lo stop agli accordi con Israele, hanno invocato le dimissioni della Rettrice de La Sapienza Antonella Polimeni dalla fondazione Med Or, nata nel 2021 per iniziativa di Leonardo Spa con l'obiettivo di promuovere scambi culturali, di ricerca e formazione scientifica fra l'Italia e i Paesi dell'area del Mediterraneo. Poi, sono giunti molti altri studenti che hanno tentato di irrompere al Senato accademico, hanno manifestato davanti al Rettorato, si sono resi protagonisti di aggressioni verso gli agenti intervenuti delle Forze dell'Ordine e di danneggiamenti ad un'auto della Polizia, e non contenti di ciò, si sono recati a sfilare anche fuori dalla città universitaria, imbrattando un autobus e la serranda di un supermercato.
Il bilancio della folle giornata è di due arresti fra i manifestanti e di diversi agenti feriti. Come ha giustamente affermato la premier Giorgia Meloni, questo non è manifestare, ma delinquere. Oltre al Presidente del Consiglio, anche il ministro dell'Università Anna Maria Bernini ha condannato gli scontri consumatisi ieri a La Sapienza, del resto, non si può che stigmatizzare quanto avvenuto e se le dimostrazioni violente operate dai collettivi studenteschi erano inoltre, come sembra, supportate da un gruppo di docenti, beh, la gravità degli avvenimenti cresce perché dobbiamo tornare a parlare, nel 2024, di cattivi maestri. Siamo davanti al solito estremismo di sinistra, che parla di pace e accusa di assassinio e genocidio, non solo Israele, ma finanche i vertici de La Sapienza, a cominciare dalla Rettrice Antonella Polimeni alla quale va tutta la nostra solidarietà, ma poi si rende responsabile di vandalismo e violenza fisica. Malmenare dei poliziotti non è proprio un contributo utile alla pace nel mondo.
Le contraddizioni di questi collettivi composti da ultras di sinistra sono molteplici. Ad essi, in quanto incanalati in una ideologia ben precisa, non interessa nella maniera più assoluta la vera pace, l'auspicabile concordia internazionale fra ebrei e musulmani, ma solo infangare, quando si può, una determinata parte del mondo nella quale compaiono per primi Israele e gli Stati Uniti d'America. Non manca, in tutto questo, il pregiudizio razzista, che a parole si dice anti-sionista, ma nei fatti è antisemita. Un autentico pacifista e odiatore di tutte le armi dovrebbe, per carità, mobilitarsi per Gaza, ma anche incatenarsi davanti alle Università e urlare al mondo tutta la propria rabbia per i morti provocati dal terrorismo assassino di Hamas e per la repressione e le condanne capitali perpetrate in Iran. Eppure, i facinorosi di ieri non hanno mai sfidato la Polizia per Mahsa Amini, uccisa dagli ayatollah di Teheran per essersi opposta al velo obbligatorio.
“Quando si sparano 350 colpi, sincronizzati per attaccare Israele nello stesso momento, quando si usano tre tipi di armi fondamentalmente diverse – missili da crociera, missili balistici e UAV, si sta cercando di penetrare le difese di Israele e di uccidere degli israeliani. L’amministrazione statunitense ci sta dicendo: “Questa è una vittoria, avete già vinto bloccando i missili. Non c’è bisogno di altre azioni”. No, non è una vittoria. Sì, è un notevole successo dei sistemi di difesa aerea di Israele, ma non è una vittoria.Quando un bullo cerca di colpirti 350 volte e ci riesce solo sette volte, NON hai vinto. Non si vincono le guerre solo intercettando i colpi del nemico, e non lo si dissuade. Il nemico ci proverà più intensamente, con armi e metodi migliori, la volta successiva. Come si fa a scoraggiarlo? Esigendo un prezzo profondamente doloroso. Non è corretto dire che “nessuno si è fatto male”. C’è una bambina arabo-israeliana di 7 anni, di nome Amina Elhasuny, che sta lottando per la vita. Ecco chi ha colpito il codardo Khamenei. La Repubblica Islamica dell’Iran ha commesso un grosso errore. Negli ultimi 30 anni ha seminato il caos nella regione attraverso i suoi proxy. Una piovra del terrore con la testa a Teheran e i tentacoli in Libano, Yemen, Iraq, Siria e Gaza.” È con le parole di Naftali Bennett, ex primo ministro israeliano, intese ad affermare che Israele debba rispondere nello stesso modo in cui avrebbero risposto gli Stati Uniti se 330 missili e droni fossero stati lanciati verso le città americane che l’Unione Associazioni Italia-Israele ha voluto aprire l’incontro di martedì 16 aprile. A seguito dell’attacco missilistico più concentrato in quantità e tempo mai visto nella storia recente, conclusosi con una vittoria di Israele che ha neutralizzato buona parte degli ordigni già sopra ai cieli di Siria e Giordania, si torna ad interrogarsi sul significato del termine “genocidio”. L’incontro è stato condotto dal commentatore David Elber , che con un’accurata disamina del significato del termine “genocidio” ha cercato di spiegare perché la sua definizione non possa essere applicata al caso palestinese a Gaza. Elber ha inserito l’accusa di genocidio mossa da alcuni stati capeggiati dal Sudafrica all’interno della serie di accuse infondate mosse ad Israele dal 7 ottobre in poi, inclusa quella d’aver attaccato l’ambasciata iraniana a Damasco, causando la rappresaglia dello stato islamico. La necessità di una risposta militare di Israele all’attacco iraniano non può d’altra parte prescindere dalla consapevolezza che colpire l’Iran avrebbe impatti economici insostenibili sul mondo intero. Un prezzo che nemmeno gli alleati di Israele, in primis gli Stati Uniti in piena campagna elettorale, sembrano disposti a pagare. E la ragione per cui il governo Biden è tanto recalcitrante e moderato nella gestione pressante su Israele anche per Gaza. Elber ha condotto i partecipanti in un viaggio nel concetto di genocidio, coniato come termine dal giurista ebreo Raphael Lemkin nel 1944 ed utilizzato come base giuridica sia nel processo di Norimberga sia nella successiva convenzione contro il genocidio. Quanto specificato nell’articolo 2 della convenzione, l’intenzionalità dei crimini commessi per “distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale” è ciò che, secondo Elber, estromette il caso della guerra presente a Gaza dai casi sanzionabili. È stato grazie all’appello all’articolo 9 della convenzione che il Sud Africa ha potuto rendersi parte della controversia, portando Israele di fronte alla Corte di Giustizia internazionale, un organo, tiene a specificare Elber, politicoe non giuridico dell’ONU, in cui ogni regione del mondo elegge i propri giudici. Nel caso presente, gran parte dei giudici eletti apparteneva a stati che non riconoscono il diritto all’esistenza di Israele, sono “espressione dei governi degli stati che li hanno fatti eleggere”. Un “teatrino mediatico” presso una corte non imparziale cui Israele, secondo il commentatore, doveva rifiutarsi di partecipare. L’accusa di genocidio di cui il Sudafrica si è reso ambasciatore all’ONU, ha, secondo il commentatore, il chiaro intento politico di delegittimare lo stato d’Israele. Una riprova sta nel fatto che né l’Iran né Hamas o l’Autorità Palestinese siano mai stati messi sul banco degli imputati. Nel domandarsi perché Israele non abbia iniziato la sua “soluzione finale palestinese” in Cisgiordania, Elber ha ricordato come in quei territori l’odio antiebraico sia impartito nelle scuole, come vengano ricompensate le famiglie dei martiri che uccidono ebrei ed un codice penale commini pene detentive a quanti vendano terre ad ebrei. Un organismo politico di governo che ha a capo Abu Mazen, la cui tesi di laurea era basata sulla negazione dell’Olocausto. La questione di imputare volontarietà nella condotta militare di Israele è al centro di dibattiti e analisi. Alcuni argomenti a sfavore includono l’assenza di ordini diretti per massacri indiscriminati. Non ci sono prove documentate di una politica intenzionale di questo genere da parte dell’alto comando militare israeliano. Inoltre, le azioni militari israeliane sono spesso condotte con l’obiettivo di colpire specifici obiettivi militari, cercando di minimizzare il numero di vittime civili. Israele ha anche impiegato diverse tecniche di avvertimento per la popolazione civile, come SMS, volantini e la tecnica del “roof knocking”, per consentire ai civili di evacuare le zone target prima degli attacchi. Secondo il diritto internazionale, gli edifici civili utilizzati per scopi militari possono diventare obiettivi legittimi. Israele afferma di mirare a tali edifici solo quando vengano impiegati per scopi militari e sostiene che l’uso della popolazione civile come “scudi umani” da parte di gruppi armati palestinesi costituisca una chiara violazione delle leggi di guerra, rendendo più difficile per le forze israeliane condurre operazioni militari senza causare danni civili. Durante l’incontro è brevemente intervenuto Stefano Parisi, presidente dell’Associazione Setteottobre, ribadendo la propria incomprensione per l’atteggiamento remissivo dell’Occidente nei confronti dei terroristi e il mancato appoggio ad Israele nella battaglia contro un nemico comune. Più di 50 persone hanno partecipato a “Le false accuse di genocidio e la verità dei fatti” con David Elber e Stefano Parisi.
(Bet Magazine Mosaico, 17 aprile 2024)
Nel cuore di Gerusalemme è stato recentemente celebrato un Bar Mitzvà speciale. È quello del giovane Eitan, figlio del riservista del Corpo Corazzato Elisha Levinshtern, caduto in battaglia nel sud di Gaza a dicembre, quando un missile anticarro, lanciato dai terroristi di Hamas, ha colpito il suo carro armato. Il ragazzo ha onorato questo momento così importante della sua vita assieme ad altri 121 ragazzi, anch’essi orfani, molti dei quali a causa della guerra. L’evento si è svolto lunedì ed è stato organizzato da Colel Chabad, assieme ad un evento annuale per celebrare il compleanno del Rebbe di Lubavitch.
“È emozionante vedere che anche in una situazione così complessa e impegnativa, il popolo di Israele continua a celebrare i momenti importanti della vita ebraica”, ha detto la madre di Eitan, Hadas. La morte di Levinshtern è stata molto dura per sua moglie e per l’intera famiglia che stanno però cercando di risollevarsi. Il soldato era stato da giovane membro della Yeshivat Hesder Yerucham, che dall’inizio del conflitto ha perso 7 soldati durante i combattimenti contro i terroristi di Hamas. La Yeshivà ha infatti rilasciato una dichiarazione per rendere omaggio a Levinshtern, caduto proprio durante il periodo di Hanukkah. La celebrazione del Bar Mitzvà di Eitan è iniziata al Muro Occidentale, in cui assieme a lui tutti i ragazzi hanno ricevuto un set di tefillin da parte del Colel Chabad. I ragazzi hanno danzato insieme davanti al Kotel, dove hanno indossato i tefillin per la prima volta e letto la Torah. I giovani e le loro famiglie hanno poi partecipato a un evento di gala nella sala dell’International Convention Center di Gerusalemme. Presenti ai festeggiamenti il rabbino capo David Lau, il rabbino capo di Gerusalemme Moshe Shlomo Amar, il Presidente della Knesset Amir Ohana, il sindaco di Gerusalemme Moshe Lion e altri ministri del governo e membri della Knesset.
“La celebrazione del bar mitzvà di quest’anno è certamente diversa, ma ci ricorda che è fondamentale per tutti essere qui per le famiglie bisognose più che mai”, ha detto il rabbino Zalman Duchman, direttore del Colel Chabad
“Il numero di bambini orfani in tutto Israele è dolorosamente elevato, ma loro hanno bisogno di sapere che la vita andrà avanti e che tutti meritano di vivere giorni felici come quello che stiamo vivendo oggi. Siamo qui per dare forza a questi ragazzi, ma in realtà sono spesso loro e le loro mamme a darci forza ispirandoci con la loro grinta e tenacia ad andare a fare di più anche davanti alle tragedie”.
Il prossimo obiettivo dell'Iran è la Giudea e Samaria
L'Iran sta inondando di armi il cuore biblico della Giudea e della Samaria.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Non potete immaginare gli sforzi che l'Iran sta facendo per contrabbandare armi moderne e missili nel cuore biblico. Che impatto ha l'assassinio del generale iraniano Mohammad Reza Zahedi (Hassan Mahdawi), comandante delle Brigate Quds in Siria e in Libano, sulla portata del contrabbando di armi nel cuore biblico di Israele? Una domanda che preoccupa il sistema di sicurezza israeliano. Hassan Mahdawi era responsabile di tutti i trasferimenti di armi dall'Iran alla Siria, all'Iraq, al Libano e ai territori palestinesi di Giudea e Samaria. Hamas, la Jihad islamica e altri gruppi terroristici stanno pianificando un attacco dall'interno del Paese, mentre Israele viene attaccato a sud. Uno scenario che l'apparato di sicurezza israeliano sta prendendo più che seriamente in considerazione.
Cerimonia funebre a Teheran, in Iran, il 5 aprile 2024, con un grande striscione raffigurante sette membri del Corpo delle Guardie rivoluzionarie islamiche (IRGC) uccisi in un attacco aereo in Siria.
Nell'attacco mirato a Damasco sono stati uccisi altri sette ufficiali iraniani, tra cui ufficiali dell'Unità 4000 delle Guardie rivoluzionarie e dell'Unità 18840 della Brigata Quds, coinvolti nel contrabbando di armi verso Israele e la Samaria settentrionale. La morte di Mahadavi rivela la guerra segreta tra Israele e Iran per il contrabbando di armi iraniane in Giudea e Samaria. Le armi iraniane vengono contrabbandate in Israele e nella Samaria settentrionale in due modi:
Dall'Iran alla Siria o all'Iraq e da lì alla Giordania settentrionale e attraverso la Valle del Giordano alla regione della Samaria.
Dalla Siria al Libano e da lì attraverso il confine fino a Israele e alla Samaria settentrionale.
Una parte delle armi va a famiglie criminali della popolazione araba di Israele. E questo è un problema in sé, perché il crimine può diventare crimine nazionale, terrore palestinese all'interno di Israele.
Le reti di contrabbando iraniane operano con i terroristi della Brigata Quds, i terroristi di Hezbollah, le bande criminali e i contrabbandieri beduini nel nord della Giordania. Da due anni l'esercito giordano combatte duramente contro i contrabbandieri, compresa la droga Captagon. La droga che i terroristi di Hamas avrebbero usato nel massacro nel sud di Israele. Il Captagon provoca insonnia. Rende vigili, sopprime la stanchezza, l'ansia e la fame e fa sentire euforici. Il principio attivo fenetilina contenuto nel Captagon crea una forte dipendenza, simile a quella dello speed e della metanfetamina.
Il capo delle Guardie rivoluzionarie iraniane, generale Hossein Salami, durante una manifestazione di solidarietà con il popolo palestinese a Teheran, in Iran, il 19 maggio 2021
Alti funzionari della sicurezza ritengono che l'Iran aumenterà il contrabbando di armi verso la Samaria settentrionale nel prossimo futuro, in modo che i gruppi terroristici armati possano compiere attacchi per vendicare la morte di Hassan Mahdawi. Gli iraniani, che finora hanno contrabbandato armi di piccolo calibro come fucili, pistole e cariche esplosive, cercheranno ora di contrabbandare missili anticarro e missili antiaerei sovietici "Strela" per colpire gli aerei in decollo dall'aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv. Si tratta di una minaccia che Israele affronta da anni e per questo sta sviluppando attrezzature tecnologiche per gli aerei EL-AL. L'aeroporto si trova a soli 6 chilometri a ovest della Samaria, il che lo rende un facile bersaglio dai territori palestinesi. Questo è uno dei motivi per cui Israele sta valutando da anni di spostare l'aeroporto internazionale a sud. Secondo alti funzionari della sicurezza, nell'estate del 2021 l'Iran ha preso la decisione strategica di inondare le regioni della Giudea e della Samaria con grandi quantità di armi contrabbandate attraverso varie vie, principalmente per raggiungere le infrastrutture terroristiche di Hamas e della Jihad islamica a Jenin, Nablus e Tulkarem. Dopo aver armato Hamas e la Jihad islamica nella Striscia di Gaza, l'Iran ha iniziato a sostenere i gruppi terroristici nel nord della Samaria. Il denaro è affluito al gruppo terroristico della Jihad islamica, che ha fondato nuovi gruppi terroristici, tra cui terroristi di altre organizzazioni come Fatah, Hamas e il Fronte Popolare, oltre al gruppo terroristico del Battaglione di Jenin. Per questo motivo, le truppe e le forze speciali israeliane hanno operato in parallelo a Jenin, Nablus, Tulkarem e in altre località della Samaria durante la guerra nella Striscia di Gaza. In un'intervista al sito web dell'ufficio governativo della Guida Suprema Ali Khamenei, il generale Hossein Salami ha annunciato che l'Iran avrebbe armato le forze di resistenza in "Cisgiordania" come nella Striscia di Gaza e che questo processo era già iniziato. Ha aggiunto che la campagna contro Israele si sarebbe estesa da Gaza alla Cisgiordania e che non c'era alcuna differenza tra le due. Ha deriso Israele per non essere in grado di fermare il flusso di armi in Cisgiordania e ha affermato che questa non può essere al sicuro dal fuoco palestinese. Ha aggiunto che Gaza non è l'unico campo di battaglia della resistenza e che la lotta si è ora spostata in Cisgiordania. La guerra a Gaza sta cambiando l'elenco delle priorità dell'Iran, che è già consapevole del fatto che l'esercito israeliano ha occupato l'intera Striscia di Gaza e la strada di confine di Philadelphia, e ha bloccato il gasdotto per il contrabbando di armi dall'Egitto a Gaza. Israele presume quindi che l'Iran si concentrerà sulla madrepatria biblica di Giudea e Samaria per inondarla di armi e missili. E questorappresenta una grande sfida per l'apparato di sicurezza israeliano.
(Israel Heute, 17 aprile 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Quale sarà la risposta di Israele all’attacco iraniano?
Gli ultimi aggiornamenti
di Luca Spizzichino
Durante la visita alla base di Nevatim, che è stata colpita dai missili iraniani, il capo di stato maggiore dell’IDF Herzi Halevi ha annunciato che l’attacco iraniano effettuato domenica mattina presto incontrerà una risposta israeliana.
Mentre gli alleati chiedono moderazione e hanno chiesto di evitare una escalation, il Gabinetto di guerra israeliano ha confermato che ci sarà una risposta, che ancora deve essere definita. Alcuni sostengono un’azione rapida e decisiva per dare un segnale di forza, mentre altri invitano alla pazienza, suggerendo che l’attesa potrebbe attirare ulteriore sostegno internazionale o creare maggiori vantaggi strategici.
Nel frattempo il premier israeliano durante una riunione dei ministri del Likud ha affermato che l’Iran dovrà aspettare “nervosamente senza sapere quando potrebbe arrivare l’attacco, proprio come ha fatto fare lo stesso a Israele”. Lo Stato Ebraico, ha aggiunto Netanyahu, “risponderà all’attacco dell’Iran ma lo farà in maniera saggia e non di pancia”.
Secondo quanto riferito dal Washington Post, citandalterrido fonti israeliane, il primo ministro Benjamin Netanyahu avrebbe chiesto all’IDF i “potenziali obiettivi” per un attacco israeliano all’Iran. Secondo il quotidiano statunitensi, le opzioni includono una struttura iraniana a Teheran o un attacco informatico. Giora Eiland, ex capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale e capo del dipartimento delle operazioni dell’IDF, intervistato da Channel 12, ritiene che Israele non abbia bisogno di attaccare direttamente l’Iran, e dovrebbe invece reagire in modo diverso. “Se si vuole mettere gli iraniani al loro posto e magari anche metterli alla prova, ci sono altri due ambiti: uno è in Siria” ha spiegato Eiland, sottolineando che in questo modo si impedirebbe all’Iran di costruire una sorta di “Hezbollah 2”. Secondo lui però il luogo più importante è il Libano. “La sfida numero uno di Israele – militarmente, diplomaticamente e strategicamente – è il Libano” ha aggiunto.
Il direttore generale dell’AIEA, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, Raphael Grossi, ha espresso estrema preoccupazione per un eventuale attacco israeliano agli impianti nucleari iraniani e ha esortato “estrema moderazione”.
Il dilemma di Netanyahu. Scegliere i bersagli giusti per contenere l’escalation
di Gianluca Di Feo
Benjamin Netanyahu presiede il gabinetto di guerra. Deve affrontare il dilemma peggiore: come rispondere al bombardamento iraniano del 13 aprile.
La scelta degli obiettivi di un bombardamento è una disciplina strategica molto complessa perché deve trovare la giusta misura tra esigenze politiche e militari: la Nato la chiama “targeting” e l’insegna nell’accademia di Oberammergau sulle alpi bavaresi. Gli israeliani non hanno nulla da imparare: sono sempre stati maestri nel settore e da decenni tengono aggiornati gli elenchi dei possibili siti da colpire in numerose nazioni, a cominciare proprio dall’Iran. Ognuno viene accompagnato da valutazioni tecniche sulle modalità del raid e sulle ripercussioni politiche che potrebbe provocare. In queste ore il destino del Medio Oriente è nelle mani degli ufficiali che stanno compiendo la selezione finale dei bersagli per il governo Netanyahu. Devono risolvere un’equazione da brivido: individuarne uno che testimoni la volontà di non lasciare impunito l’attacco di sabato notte, senza però irritare la Casa Bianca e soprattutto senza causare un’ulteriore ritorsione iraniana.
Siamo davanti a un bivio di una pericolosità mai vista prima. Se la rappresaglia di Israele sarà troppo potente, allora innescherà la replica di Teheran animando una spirale di azioni e reazioni che rischia di trasformarsi rapidamente in una guerra totale. Con una serie di incognite corroborate dalla minaccia iraniana di usare un’arma inedita. Nessuno sa cosa possa essere: forse un ordigno ipersonico, messo a punto con la tecnologia russa concessa in cambio dell’aiuto in Ucraina. Oppure un missile antisatellite in grado di accecare le sentinelle israeliane in orbita fuori dall’atmosfera: sperimentazioni del genere vengono portate avanti da anni. Nessuno allo stesso tempo vuole prendere in considerazione l’ipotesi che gli ayatollah tirino fuori gli ordigni dell’apocalisse: pur non possedendo l’atomica, hanno sicuramente testate chimiche e non si può escludere che dispongano di una “bomba sporca” che disperde radioattività.
La prima decisione israeliana riguarderà dove bombardare. Si era parlato di un’operazione fuori dal territorio iraniano, che avrebbe raso al suolo una base dei Guardiani della rivoluzione: un deposito di razzi, ad esempio, con una distruzione spettacolare e preferibilmente il minimo numero di vittime. In che Paese? La Siria sembra presentare meno complicazioni: a Damasco il primo aprile c’è stata l’assalto contro il consolato della Repubblica islamica che ha determinato l’escalation e il regime di Bashar al-Assad non gode di simpatie in Occidente. In Libano invece i magazzini di munizioni sembrano essere nascosti in zone densamente popolate e ci sarebbe il pericolo di scatenare l’ira di Hezbollah, l’alleato sciita più agguerrito che finora ha limitato al minimo l’impegno bellico contro Israele. In Iraq l’incursione potrebbe avere un effetto boomerang: Biden ha appena ricevuto il premier alla Casa Bianca e sta facendo di tutto per distanziare le autorità di Baghdad dall’influenza di Teheran sulla maggioranza sciita.
Nel war cabinet di Netanyahu però l’indicazione dominante vuole che la ritorsione sia diretta contro l’origine dell’aggressione. Bisogna attaccare l’Iran, il che rende ancora più complessa l’individuazione del target ideale: il danno dovrà essere visibile, ma non clamoroso. La distruzione di una fabbrica bellica: ad esempio, quella dei droni Shahed usati in massa nello sciame di sabato notte? O del bunker sotterraneo dei pasdaran dove erano custoditi i missili balistici sparati contro l’aeroporto degli F35 israeliani? Oppure di uno dei porti dove sono ormeggiati i barchini usati dai Guardiani della Rivoluzione per abbordare mercantili e petroliere?
Iniziative contro le installazioni del programma nucleare sembrano escluse: sono le più protette, con uno schermo di batterie contraeree perfezionato dai russi. Ma più dei missili terra-aria, a frenare gli F35 dalla missione per cui si addestrano ogni giorno è la convinzione che l’ira degli ayatollah sarebbe incontenibile.
I vertici delle Israeli Defence Forces hanno presentato al governo anche un altro piano d’azione, tecnicamente definita “non cinetica”: una massiccia operazione cyber per paralizzare servizi o infrastrutture. Anche se è stato ufficialmente smentito, ci sono indizi - riportati da Politico - di un’incursione telematica partita sabato dalla Repubblica islamica proprio mentre decollavano i primi droni: non è riuscita a penetrare nei server militari ma avrebbe bloccato il controllo del traffico aereo civile. Se i voli non fossero stati fermi, si sarebbe trattato di un problema serio. Gli israeliani però sanno fare di meglio. Lo hanno dimostrato quindici anni fa quando, d’intesa con gli americani, hanno infilato il virus Stuxnet nei laboratori iraniani più segreti mandando in tilt le centrifughe dell’uranio. In qualsiasi momento possono lasciare senza elettricità l’intera Teheran o azzerare le reti dei telefonini: sarebbe un messaggio potente e incruento, una prova di superiorità tecnologica che metterebbe in guardia gli ayatollah dal proseguire a oltranza nel braccio di ferro.
Uno dei cambiamenti più importanti avvenuti nella società israeliana dopo il 7 ottobre, è stato la forte disillusione verso la possibilità di mettere in pratica la Soluzione dei due Stati. Se nella prima metà degli anni ’90, ai tempi degli Accordi di Oslo, vi era un certo ottimismo all’idea che Israele e uno Stato palestinese potessero convivere fianco a fianco, oggi sono in molti a credere che la fine dell’occupazione in Cisgiordania porterebbe solo ad una presa del potere da parte di Hamas, che da lì sarebbe in grado di colpire anche Gerusalemme e Tel Aviv. Già da tempo, c’è chi ha cercato di ipotizzare delle soluzioni alternative a quella dei due Stati, per venire incontro alle rivendicazioni palestinesi ma senza compromettere la sicurezza dello Stato Ebraico: uno di questi è Mordechai Kedar, docente presso il Dipartimento di Arabistica dell’Università Bar-Ilan, che ha servito per 25 anni nell’Aman, l’intelligence militare israeliana, raggiungendo il grado di tenente colonnello. Kedar ha teorizzato una “Soluzione a otto Stati”, che prevede la suddivisione dei territori sotto il controllo palestinese in otto emirati, ognuno indipendente dagli altri. Essi ricalcherebbero forme di governo più in linea con la tradizionale suddivisione in clan e tribù, dopo il fallimento degli Stati arabi post-coloniali. Ricordiamo che Kedar aveva partecipato alla Giornata Europea della Cultura ebraica a Milano nel 2022.
- Dopo il 7 ottobre, cosa è cambiato nella percezione israeliana dei rapporti con i palestinesi? Quando, nel giugno 2007, Hamas assunse il controllo totale della Striscia di Gaza sottraendola all’ANP, di fatto vi crearono un loro Stato: avevano il loro governo, i loro ministeri, i loro tribunali, il loro esercito, il che lo rendeva uno Stato a tutti gli effetti. In quel momento, gli israeliani li lasciarono fare, pensando che avendo i loro Stati, Fatah in Giudea e Samaria e Hamas a Gaza li avrebbero lasciati in pace. Poi, è arrivato il 7 ottobre; a quel punto, gli israeliani hanno capito che non si può più permettere a Hamas di restare lì, tantomeno di avere un proprio Stato. In secondo luogo, hanno capito che lo Stato palestinese in Giudea e Samaria guidato da Fatah prima o poi potrebbe trasformarsi in un nuovo “Hamastan”, perché così come nel 2006 Hamas vinse le elezioni, in futuro potrebbe vincerle ancora. Per queste ragioni, molti israeliani che un tempo erano favorevoli alla creazione di uno Stato palestinese, oggi non ci credono più. Sono rimasti in pochi a crederci.
- In Cisgiordania, Hamas gode di un sostegno considerevole da parte della popolazione, molto più dell’ANP. Quando Abu Mazen non ci sarà più, cosa pensa che accadrà? Prima di tutto, occorre chiarire una cosa: la maggior parte di coloro che sostengono Hamas non lo fanno perché credono nella jihad, o perché vogliano costringere le donne ad indossare il velo. Sostengono Hamas perché al momento vedono in esso l’unica alternativa all’Autorità Palestinese, che odiano in quanto la considerano un’organizzazione sionista e corrotta. Quando Abu Mazen non ci sarà più, è molto probabile che il territorio dell’ANP diventerà teatro di scontri per le strade che degenereranno in una guerra civile, portando ad uno scenario simile alla Siria e all’Iraq. Ci sono troppe persone desiderose di sostituire Abbas, e alcune di loro hanno già iniziato a reclutare combattenti e a mettere da parte denaro, armi e munizioni per quando lui se ne andrà.
- Già nel 2018, lei venne a Milano per illustrare la sua proposta degli otto emirati. Oggi, pensa ancora che sia realizzabile? Sin dal 7 ottobre, sempre più israeliani parlano di questa proposta. Oggi ne sento parlare da persone di destra, di sinistra e di centro, anche nei media, perché è l’unica soluzione con la quale Israele potrebbe convivere. Si sta pensando di applicarla anche a Gaza, suddividendola in cinque distretti e instaurando uno Stato diverso in ciascuno di questi. Il problema sono gli americani, che non vogliono questa soluzione né la capiscono. Si illudono di poter riformare l’Autorità Palestinese, come se ciò fosse possibile.
- Nel corso degli anni, c’è chi ha ipotizzato che l’alternativa migliore ai due Stati sia uno Stato unico binazionale, per ebrei e arabi. Perché questa soluzione non è praticabile? Perché stiamo parlando di due culture troppo diverse. Il multiculturalismo ha fallito ovunque: in Germania, in Francia, in Belgio, in ogni parte del mondo. Ovunque si trovi una società islamica, essa ha problemi a convivere con altre culture, specialmente in Occidente. Non è il caso di tentare un altro esperimento multiculturale in Israele, che possiede una cultura e un modo di pensare prevalentemente europei.
- Il 7 ottobre, gli arabi israeliani hanno avuto una reazione molto diversa rispetto ai palestinesi dei Territori, e diversi beduini furono anch’essi rapiti e uccisi da Hamas. A cosa è dovuto secondo lei? Va detto che c’è anche una differenza tra la reazione degli arabi israeliani al 7 ottobre e ciò che avvenne nel 2022, quando molti degli stessi scesero per le strade uccidendo gli ebrei e appiccando incendi. Stavolta è andata diversamente perché nella cultura araba, se qualcuno fa ciò che Hamas ha fatto, la risposta più naturale sarebbe quella di entrare nel loro territorio e ucciderli tutti. Se quelli di Hamas avessero fatto ciò che hanno fatto in un paese arabo anziché in Israele, oggi a Gaza avremmo due milioni di morti. È la legge del taglione, e non fa distinzione tra uomini, donne e bambini. Per questo molti arabi, soprattutto in Israele, temono che gli israeliani vogliano ucciderli tutti. La loro paura era tale che molti arabi israeliani che lavorano in città con una popolazione a maggioranza ebraica, dopo il 7 ottobre non si sono presentati al lavoro per almeno tre settimane. Proiettano su Israele la loro mentalità, e con essa il pensiero di ciò che loro farebbero al suo posto.
- Se Hamas ha potuto fare ciò che ha fatto, è stato anche grazie al sostegno economico e mediatico del Qatar, anche tramite la sua emittente statale “Al Jazeera”. Cosa dovrebbe fare Israele al riguardo? Hamas è una creazione del Qatar; non avrebbe successo in niente di ciò che fa se non fosse per il denaro qatariota. Senza il Qatar, quelli di Hamas non avrebbero un esercito né sarebbero riusciti a costruire i tunnel sotto Gaza. Il Qatar è un nemico d’Israele, e come tale dovrebbe essere trattato. Ciò significa che non si dovrebbe permettere mai più agli inviati di Al Jazeera di mettere piede in Israele o a Gaza.
- Lei ha prestato servizio per molti anni nell’Aman. Cosa dovrebbe fare l’intelligence israeliana per impedire che si verifichi un altro 7 ottobre? Andrebbero rafforzati i rami dell’intelligence specializzati nella conoscenza della lingua araba. Concentrandosi sulla cybersicurezza e sull’alta tecnologia, nell’ultimo periodo hanno sottratto risorse alla parte araba. Ciò che è successo in questa guerra, è che il settore high-tech è stato battuto dal “low-tech”, in quanto sono riusciti a violare i confini israeliani guidando trattori e motociclette. Senza nulla togliere alle nuove tecnologie, Israele deve riscoprire l’importanza delle tattiche di guerra tradizionali.
L’indice dei prezzi al consumo (CPI) israeliano è aumentato dello 0,6% a marzo, in misura leggermente superiore alle aspettative degli economisti che stimavano un incremento dello 0,5%. Nei dodici mesi fino alla fine di marzo, il tasso d'inflazione è salito al 2,7%, dal 2,5% di fine febbraio, secondo i dati diffusi oggi dal CBS - Ufficio Centrale di Statistica israeliano. A marzo i prezzi di abbigliamento e calzature sono aumentati del 2%, quelli della cultura e dell'intrattenimento dell'1,5%, la manutenzione degli alloggi dello 0,6%, la sanità dello 0,5% e i trasporti dello 0,4%. Il mese scorso, per contro, i prezzi di frutta e verdura fresca sono scesi del 3%.
L’Ufficio Centrale di Statistica ha anche pubblicato la variazione dei prezzi delle case (che non fanno parte dell’IPC generale) tra dicembre 2023-gennaio 2024 e gennaio-febbraio 2024. In media, i prezzi sono aumentati dell’1%. Questo è stato il terzo mese consecutivo in cui i prezzi sono aumentati dopo molti mesi di calo. Nella ripartizione per Regione, i prezzi sono aumentati dello 0,7% a Gerusalemme, sono scesi dello 0,2% al nord, sono aumentati dell'1,3% ad Haifa, dello 0,5% al Centro, del 2,1% a Tel Aviv e dello 0,4% al sud. I prezzi delle nuove case sono rimasti invariati.
Netanyahu: “Il nostro sarà un attacco mirato, ora tocca agli iraniani aver paura”
Completati i preparativi dell’aviazione per la risposta al bombardamento di sabato. Possibile anche un’offensiva cyber. La Casa Bianca: “Israele conosce le nostre perplessità sull’escalation”. Bozza del Consiglio europeo condanna gli ayatollah.
di Fabio Tonacci
TEL AVIV — Il dilemma israeliano è durato neanche quarantotto ore. Il Gabinetto di guerra, convocato ieri pomeriggio da Bibi Netanyahu, ha deciso che il primo attacco diretto dell’Iran allo Stato ebraico sarà vendicato. Come, dove e quando rimane un segreto, perché Israele non farà come Teheran che due giorni prima di lanciare lo sciame di droni e missili ha allertato Arabia Saudita, Iraq e Giordania. Israele colpirà senza avvertire ma calibrando il fendente, nel tentativo di non far esplodere una guerra regionale. «L’Iran dovrà aspettare nervosamente senza sapere quando potrebbe arrivare», dichiara il premier durante una riunione coi membri del Likud, il suo partito. «Risponderemo in maniera saggia e non di pancia». Il Medio Oriente quindi è appeso a un aggettivo, saggio, che da queste parti ha molteplici declinazioni. Sul tavolo delle ipotesi ci sono il raid mirato con caccia e missili su uno o più obiettivi militari in territorio iraniano (come i laboratori che sviluppano l’energia atomica per uso bellico) e anche l’assalto cibernetico alle infrastrutture sensibili. «L’aviazione israeliana — riporta l’emittente Canale 12 — ha completato i preparativi per l’attacco». Che, a questo punto e per come si sono messe le cose, appare inevitabile. Forse per Netanyahu non è mai stato neanche un dilemma. Ne era convinto fin da subito. Già nelle prime ore dopo la distruzione del consolato iraniano di Damasco dove sono stati uccisi sette pasdaran tra cui il generale Reza Zahedi, infatti, diceva e ripeteva che il suo esercito avrebbe risposto a ogni aggressione, da qualunque parte essa fosse arrivata. L’ala estremista del suo governo ora pretende da lui che dia l’ordine immediato. Dopo la pioggia di ferro di sabato notte, Biden ha invitato Netanyahu alla calma, ha provato a farlo ragionare sull’opportunità di seguire la via diplomatica delle sanzioni del G7 contro la Repubblica islamica, gli ha anche fatto capire che in caso di ritorsione militare diretta contro Teheran le forze armate statunitensi non muoveranno un dito. Netanyahu, però, non intende cedere. Neanche con il presidente americano. Troppo forte il timore di mostrarsi debole agli occhi degli ayatollah e di perdere potere di deterrenza nei confronti del nemico. E il flash d’agenzia che nella tarda serata di ieri riportava: «Casa Bianca, Israele deciderà da solo se e come rispondere, ma conosce le nostre perplessità», sa quasi di via libera. Da Teheran annunciano: «Se Israele ci assalta, reagiremo in modo ancora più duro». Visitando la base dell’aviazione di Nevatim nel deserto del Negev, colpita da cinque missili balistici iraniani che hanno danneggiato un aereo C-130, una pista in disuso e un deposito vuoto, il capo di Stato maggiore delle Israeli defence forces (Idf) lo ha detto in un modo che più chiaro non si può: «Il lancio di così tanti droni e missili nel territorio israeliano avrà la sua risposta». Il generale Herzi Halevi coglie il nocciolo del problema quando parla di «così tanti droni e missili»: pur avendone abbattuti il 99 per cento, l’azione iraniana è stata letta come una dichiarazione di guerra pronunciata dalla Guida suprema Ali Khamenei. Senza precedenti, da più fronti (vi hanno partecipato gli Houti yemeniti, gli Hezbollah libanesi e le milizie sciite irachene), e tramite l’utilizzo di armi — i missili balistici — che automaticamente provocano escalation. «Per questo non possiamo permetterci di stare fermi», dicono gli strateghi di Tel Aviv. Tutti i leader dell’Ue, nel momento dell’attesa, stanno lanciando appelli alla ragionevolezza. Il Consiglio Europeo, che si riunirà il 17-18 aprile, condanna la rappresaglia iraniana contro lo Stato ebraico e rinnova «la piena solidarietà con il popolo israeliano e l’impegno alla sua sicurezza». Lo si legge nella bozza di conclusioni del vertice, in cui è stato aggiunto un intero capitolo sul Medio Oriente. I capi dei governo chiedono di «esercitare la massima moderazione», rinnovano la volontà di «lavorare con i partner» per mettere fine alla crisi a Gaza, «raggiungendo il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi». Ma intanto l’Idf si prepara a evacuare gli sfollati palestinesi che stanno a Rafah, l’ultimo angolo della Striscia che finora non era stato occupato. E Netanyahu brama la sua vendetta contro l’Iran.
Risposta all’Iran, Israele diviso. Netanyahu tra due fuochi
Gabinetto di guerra spaccato: la decisione sulla rappresaglia ancora rinviata. Il premier stretto tra Usa e irritazione dei falchi: «Risponderemo con saggezza»
di Fabiana Magrì
TEL AVIV - Non si può lasciare Teheran senza risposta. Il consenso in Israele è unanime e trasversale, a livello politico e militare. Il «don’t» di Joe Biden telefonato a Benjamin Netanyahu sembra destinato a restare inascoltato, tanto quanto quello rivolto dal presidente degli Stati Uniti agli ayatollah nel tentativo di disinnescare l’attacco iraniano. Le opzioni sul tavolo del gabinetto di guerra coprono ogni possibile sfumatura, dalla ritorsione per le vie diplomatiche a una risposta muscolare, ma – secondo fonti citate dal Canale 12 israeliano, tutte sarebbero «dolorose» per l’Iran. Ma anche dosate in modo da non scatenare una guerra regionale e tale da ottenere il via libera degli Stati Uniti. Un funzionario israeliano ha detto che tra le opzioni militari prese in considerazione ci sarebbe un attacco a una qualche infrastruttura iraniana che invierebbe un messaggio, ma eviterebbe di causare vittime. Alcuni media iraniani – rilanciati sulla piattaforma X da analisti e osservatori – ritengono che una operazione sia «imminente», in base alle misure di massima allerta prese dalle difese aeree iraniane. Se le feste religiose possono giocare un qualche ruolo di deterrenza, questo potrebbe essere il caso di Pesach, la Pasqua ebraica che inizia la sera del 22 aprile con un «seder», una cena rituale, che quest’anno sarà celebrato in ogni caso in un clima, già di per sé, di trauma. Il senno del poi maturato in sei mesi a Gaza è la bussola con cui stanno cercando di orientarsi i ministri israeliani alle prese con il dossier Teheran. Dalle indiscrezioni intercettate dai media locali dopo una seconda giornata di consultazioni (conclusa con un aggiornamento della seduta), il primo ministro Benjamin Netanyahu starebbe premendo sul freno mentre, al contrario, l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz – prestato al governo di crisi, ma che del premier è il principale rivale politico – starebbe spingendo per una risposta in tempi brevi. «Risponderemo all’Iran, ma dobbiamo farlo con saggezza e non di pancia. Devono essere sotto stress come hanno messo noi sotto stress» ha dichiarato ieri il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ai ministri del Likud. Netanyahu sa di aver riguadagnato il sostegno internazionale che le immagini di devastazione a Gaza avevano ridotto ai minimi termini. Sabato notte ha assaporato i frutti della normalizzazione con gli Stati arabi della regione, nata per fini pacifici di collaborazione e crescita economica ma testati con successo in un momento cruciale. Passare alla storia come il premier di Israele che è riuscito a stringere relazioni con i Paesi arabi sunniti è un obiettivo irresistibile per Bibi, come lo chiamano tutti. Gantz, invece, ha ben presente che più tardi Israele risponderà all’attacco dell’Iran, più freddo sarà il sostegno internazionale e più decisa si farà l’opposizione degli Usa e degli altri alleati della nuova coalizione. Per il capo della Casa bianca, è fondamentale «evitare un’escalation in Medio Oriente». Ma per adesso il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale John Kirby si è limitato a ribadire che gli Stati Uniti «non sono coinvolti nell’eventuale risposta israeliana», ma ha scaricato sul governo di Netanyahu la responsabilità di «decidere da solo se ci sarà una risposta» all’Iran e in quali termini. «Non c’è altra scelta», ha sintetizzato il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant al telefono con il capo del Pentagono Lloyd Austin. Il Ramatkal Herzi Halevi parlando dalla base di Nevatim, uno dei target dell’attacco iraniano, ha confermato che «la risposta ci sarà». Gli scenari – secondo gli analisti – vanno da un contrattacco diretto sul territorio iraniano come ha fatto Teheran con quello sullo stato ebraico, a una forte reazione che colpisca gli alleati del regime degli Ayatollah nella regione, oppure azioni mirate sui capi delle Guardie rivoluzionarie. Un ufficiale dell’aeronautica militare ha detto a La Stampa che «l’esercito in generale e l’aeronautica in particolare sono pronti a difendere nuovamente Israele se necessario. E a compiere anche altri tipi di azioni di difesa e di attacco se necessario». «Abbiamo la capacità di arrivare lontano», ha detto ancora il generale riservista. «L’abbiamo dimostriamo altre volte nel corso della nostra storia e in passato. Anche questo – ha spiegato – fa parte della proposta che abbiamo messo sul tavolo per il nostro governo». «Come Defense Force – ha poi aggiunto – siamo pronti e mettere a disposizione del gabinetto di guerra tutte le informazioni su ciò che possiamo o che non possiamo fare. Si tratta di una varietà di opzioni. La decisione se utilizzarne una, e quando, spetta al nostro governo». Forse per smentire le voci di un ritardo nell’operazione Rafah, nel sud di Gaza, l’ufficio del capo della Kirya Gallant ha informato che il ministro ha tenuto una riunione sulle «operazioni civili necessarie» da intraprendere prima dell’offensiva dell’esercito, quindi sulla «evacuazione dei civili» dalla città valico e «sull’espansione dei mezzi per portare cibo e attrezzature mediche nella Striscia di Gaza».
(La Stampa, 16 aprile 2024)
GERUSALEMME - "Kol haKavod" può essere tradotto come "ben fatto" e quando i miei figli hanno riordinato la loro stanza, dico Kol haCavod e dico sul serio. Dico Kol haKavod anche per la maggior parte delle cose che fanno i nostri politici, ma significa il contrario. L'Iran ci ha attaccato con i suoi missili a lungo raggio e non è successo nulla, Kol haKavod. Tutti sapevano quando e come sarebbe avvenuto l'attacco, si dice addirittura che l'Iran abbia preavvisato gli Stati Uniti. Dopo l'attacco, la gente nel Paese è contenta della difesa e ha quasi dimenticato che abbiamo ancora un conto in sospeso a Gaza. Se fossi un teorico della cospirazione, sospetterei addirittura che l'Iran abbia coordinato il suo attacco con Bibi Netanyahu, perché sembra essere bloccato in un vicolo cieco a Gaza. Non vuole marciare in avanti verso Rafah, né vuole fare un accordo all'indietro per il rilascio degli ostaggi. Eppure Netanyahu ci aveva promesso qualche settimana fa che la vittoria era imminente. Non è più così, invece "c'è una data" in cui inizierà l'attacco a Rafah. La data non è stata rivelata e anche se c'è, può essere cambiata, perché è un segreto.
Bibi sembra combattuto e incapace di scegliere da che parte stare. Se ascoltasse il popolo, inizierebbe l'attacco a Rafah, ma le pressioni internazionali sembrano impedirglielo. Il popolo non vuole nemmeno un accordo con gli ostaggi in cui i terroristi vengono rilasciati, l'esercito si ritira dalla Striscia di Gaza e questo significherebbe sostanzialmente una vittoria di Hamas. Ciononostante, il governo continua a inviare negoziatori in Qatar per trattare con Hamas, come se i terroristi avessero un serio interesse a raggiungere un accordo. Nell'ultimo accordo sugli ostaggi, Hamas si è reso conto di non aver ottenuto nulla per i preziosi ostaggi. Non commetteranno di nuovo questo errore. Per loro, ora è tutto o niente. E l'Iran? Probabilmente non ha nulla da temere dopo il suo attacco simbolico a Israele. Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha proibito a Bibi di contrattaccare e sembra che lo stia facendo.
Anche se abbiamo un governo di destra con partiti religiosi, il gabinetto di guerra è composto dai vecchi capi Netanyahu, Gantz e Galant. Gantz non è stato eletto a questa posizione da nessuno e Galant appartiene al Likud, ma si comporta come un uomo di sinistra, mentre Netanyahu sembra aver perso la sua volontà. Il popolo ha eletto un governo di destra e religioso, ma non l'ha ottenuto. Allora non si trattava di guerra, ma di eleggere coloro di cui si fidavano di più per affrontare i problemi interni, come lo strapotere della magistratura. Ma anche ora, durante la guerra, la gente vuole dai nostri rappresentanti una politica più di destra e più religiosa. Ciò significa un approccio più duro al problema palestinese, una campagna più aggressiva a Gaza e una minore influenza dei nostri "amici" all'estero. Soprattutto, significherebbe fare più affidamento sulla tradizione ebraica. Abbiamo bisogno di meno realpolitik e più fiducia in Dio. Abbiamo bisogno di un esercito forte che non sia frenato dall'opinione pubblica internazionale, ma che si basi sulla legge biblica per poter fare il suo lavoro e sconfiggere il nemico.
Purtroppo, i nostri politici non ascoltano né me e né i sondaggi in Israele, che mostrano sempre un'opinione simile. Se non hanno ancora proposto loro stessi queste idee, probabilmente non lo faranno nemmeno nel prossimo futuro. Sappiamo tutti cosa bisogna fare, ma i nostri politici non vogliono attuarlo e questo è l'aspetto frustrante della nostra situazione. Poco prima della Pasqua ebraica, noi ricordiamo che anche la situazione nell'antico Egitto sembrava senza speranza, finché non arrivò un salvatore che liberò il popolo dalla schiavitù d'Israele dalla schiavitù. Uno scenario simile può essere reale anche oggi
(Israel Heute, 16 aprile 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
La buia notte d’Israele e la voglia di tornare alla normalità
La testimonianza di Daniel Lanternari
di Michelle Zarfati
La notte di sabato è stata buia e lunga per Israele. Dopo il massacro del 7 ottobre e il relativo dolore per la perdita o la scomparsa di amici e parenti, la popolazione israeliana ha dovuto nuovamente assistere ad un momento intenso di paura. Sabato sono infatti stati lanciati centinaia di missili e droni dall’Iran verso lo Stato ebraico. Nonostante l’assalto mirato dell’Iran, grazie ai sistemi di difesa d’Israele e dei suoi alleati, i danni sono stati minimi. Tuttavia, il morale degli israeliani, come degli ebrei di tutto il mondo, è stato messo ancora a dura prova. “Durante la notte tra sabato e domenica c’è stata una sensazione di forte ansia. Non è stato come il 7 ottobre, in cui siamo stati sorpresi dall’attacco, ma ricevere la notizia che centinaia di droni e missili stavano arrivando verso di noi è stato difficile. È naturale avere paura nonostante si confidi molto nei sistemi di difesa dell’Iron Dome, dell’aviazione e dell’IDF. Fin dal momento in cui siamo stati avvertiti che dalle 23.00 bisognava star vicino alle camere di sicurezza è stato difficile” ha raccontato a Shalom Daniel Lanternari cittadino israeliano del kibbutz Nir Yitzhak, nato e cresciuto in Italia e sopravvissuto alla strage del 7 ottobre.
Ore di preoccupazione, di dubbi e incertezza in cui gli israeliani e gli ebrei di tutto il mondo hanno atteso con il fiato sospeso la fine dell’attacco e la speranza di un po’ di pace. “Noi, dal 7 ottobre siamo sparsi per tutta Israele, ad esempio sabato mia moglie era con mia figlia piccola ad Eilat, mentre mio figlio assieme a degli amici. Nonostante la lontananza, siamo subito tutti andati nella camera di sicurezza. Io mi trovavo in un hotel a Ber Sheva, dove lavoro. In quell’albergo non c’erano solo turisti, ma anche arabi ed altre persone che dal 7 ottobre sono sfollati, ci siamo ritrovati tutti nelle camere di sicurezza” ha proseguito Lanternari.
Secondo il portavoce dell’esercito israeliano Daniel Hagari, durante l’attacco guidato da Teheran sono stati lanciati circa 300 proiettili contro Israele, compresi 170 droni che sono stati intercettati senza fare nessuna vittima. “Dal quel 7 ottobre niente è come prima, non siamo a casa nostra, non siamo uniti. La speranza è l’ultima morire sia per i 133 ostaggi che sono ancora nelle mani di Hamas, che per i tre presi dal nostro kibbutz. Nonostante questo, cerchiamo di essere speranzosi ma la nostra pazienza sta per finire, siamo stufi delle sirene, di vivere in questa situazione ci piacerebbe tornare a casa presto alla nostra vita” conclude Lanternari.
Dopo che un manipolo di manifestanti pro-Palestina ha fatto irruzione nel Senato Accademico dell’Università di Siena, pretendendo il boicottaggio delle cooperazioni con gli atenei israeliani, nella città toscana si è mossa una risposta di dissenso. Per dimostrare che esiste una Siena solidale a Israele, che condanna i facinorosi delle università italiane e il terrorismo di Hamas, la sezione locale del Partito Radicale ha organizzato un sit in di fronte al Duomo dal titolo “Stella di David, Stella di Libertà”. “Non scordatevi il pogrom di Hamas” incalza l’attivista dei radicali Giulia Simi, “Questo momento non è facile, per questo pensiamo che si debba essere vicini a Israele e a tutti gli ebrei del mondo. Non possiamo dimenticare e non possiamo ignorare che Israele è l’unica democrazia in Medio Oriente, l’unico Paese dell’area in cui vige lo stato di diritto, mentre Hamas è e rimane una crudele organizzazione terroristica colpevole nei decenni dell’uccisione di migliaia di civili inermi palestinesi e israeliani” Alla manifestazione hanno partecipato una ventina di persone, tra cui alcuni studenti, israeliani e non, che hanno voluto far sentire la propria voce. “Vogliamo la pace, che però si fa con le persone, non con i mostri che hanno il solo desiderio di ucciderti prima ancora di pensare al proprio bene e dei propri familiari” ha esordito Shai, studente israeliano in Erasmus presso UniSi. “Non aspettate il 7 ottobre nella vostra città per rendervene conto. Bisogna combattere Hamas, i loro sostenitori e tutti coloro che hanno festeggiato il 7 ottobre.” “Mi batto per la verità, per la libertà e quindi per Israele”, condivide Francesco, studente italiano di economia, che da tempo vede intorno a sé l’intolleranza di certi attivisti. “Di recente l’Università di Siena si è impegnata a riconsiderare le collaborazioni con Israele, ma qual è il problema che un ragazzo venga qui a studiare per un semestre? Per loro è un problema perché è israeliano.” Tra bandiere e cartelloni, l’iniziativa ha cercato di scuotere gli animi del capoluogo toscano, fulcro di una piccola Comunità ebraica di circa quaranta anime, ricordando la tragedia degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas e annunciando ulteriori manifestazioni in futuro.
(Bet Magazine Mosaico, 16 aprile 2024)
Per gli esperti Sabti e Spyer “reagire è necessario”
Mentre in Israele ferve il dibattito fra falchi e colombe (sostenute queste ultime dagli Usa) sul se e come reagire all’aggressione iraniana, per gli esperti di Medio Oriente Beni Sabti e Jonatan Spyer un dato è certo: «Israele risponderà, ma è troppo presto per prevedere come». Ospiti di un incontro della Europe Israel Press Association, i due analisti hanno per lo più escluso la possibilità che lo stato ebraico non risponda. Se è vero che l’aver intercettato oltre il 99% degli attacchi iraniani rappresenta una chiara vittoria, nel quadro degli equilibri mediorientali una risposta è necessaria.
«I media controllati dal regime in queste ore stanno presentando l’attacco di ieri come un successo. Per loro anche il solo fatto che alcuni missili, poi intercettati, siano entrati nell’atmosfera israeliana rappresenta una vittoria», ha spiegato Sabti, nato in Iran e fuggito poi con la famiglia nel 1987 dopo la rivoluzione khomeinista. Oggi ricercatore dell’Institute for National Security Studies, Sabti ha sottolineato come «una mancanza di risposta rischia di essere percepito come un segno di debolezza, spingendo Teheran a farsi ancora più audace la prossima volta». D’accordo su questa analisi Spyer per cui «esistono diversi gradini nella scala della deterrenza. Israele può scegliere fra diverse opzioni». Potrebbe colpire direttamente in Iran, ad esempio uno degli impianti nucleari usati da Teheran per arrivare all’atomica. Oppure colpire una postazione militare, sempre in Iran. O scegliere invece di prendere di mira membri delle Guardie rivoluzionarie o siti militari posizionati in paesi alleati all’Iran. Ad esempio in Siria, in Libano, in alcune zone dell’Iraq. «Dovrà essere una risposta ben calcolata, evitando di portare all’interno del conflitto Hezbollah», ha ripreso Sabti. «Non è nostro interesse coinvolgere direttamente il gruppo terroristico libanese in questo scontro», ha evidenziato l’esperto. Per entrambi Israele ora deve gestire con abilità i rapporti diplomatici con gli alleati, costruendo una risposta che abbia legittimità internazionale. Allo stesso tempo, hanno ribadito Sabti e Spyer, «una risposta ci deve essere».
Durante l’attacco iraniano, avvenuto sabato notte, le ricerche più popolari di Google in Israele sono state: “notizie”, “attacco missilistico iraniano” e la più cliccata in assoluto: “Salmi”.
La ricerca della parola “Salmi” è aumentata notevolmente, non appena sono arrivate le prime notizie dell’attacco di droni e missili iraniani e ha raggiunto l’apice verso l’una e quarantotto minuti (ora israeliana).
Sono dunque moltissimi gli israeliani che hanno cercato di impeto la parola “Tehillim” su Google, scritta maggiormente in ebraico, ma anche in inglese. Un gesto indicativo di come gli israeliani fossero in cerca di conforto e forza spirituale in mezzo all’incertezza. Inoltre, anche le ricerche di “Tikkun HaKlali”, i dieci Salmi associati al rabbino Nachman di Breslov, hanno visto un notevole aumento delle ricerche Google. Nonostante l’assalto mirato dell’Iran, grazie all’Iron Dome, il sofisticato sistema di difesa israeliano, i danni sono stati minimi. Non sorprende però che nei momenti di paura, molti si siano rivolti alla fede attraverso i Salmi, attribuiti al re David, in cerca anch’esso di conforto e protezione divina.
Perché rivolgersi specificamente ai Salmi in tempi di crisi, in mezzo ad una ricca varietà di testi biblici? Il rabbino David Stav, capo dell’Organizzazione Rabbinica ‘Tzohar’ ha spiegato che “i Salmi consistono, in gran parte, in espressioni di gratitudine per la salvezza e preghiere per la liberazione dall’angoscia. Pochi testi nella Bibbia affrontano la richiesta di liberazione da parte degli inseguitori con fervore come i Salmi. In effetti, gran parte della nostra liturgia di preghiera si basa su versetti dei Salmi, sottolineando la sua rilevanza nei momenti di bisogno” ha sottolineato il Rabbino.
In sostanza, quando si cerca conforto nella preghiera durante i periodi di crisi, rivolgersi ai Salmi è sia logico che profondamente radicato nella tradizione ebraica.
Il rabbino Stav ha aggiunto poi che “il re David proclamò che coloro che avrebbero recitato i Salmi, sarebbero stati considerati come se avessero studiato la Torah. Mentre lo studio della Torah è molto stimato, c’è una halacha che vieta la ricerca di guarigione attraverso lo studio di essa, poiché la Torah dovrebbe essere studiata per il gusto di apprendimento, non per scopi di guarigione. Maimonide e Rashba menzionarono i Salmi come un libro utilizzato per scopi di guarigione. Negli ultimi 200 anni, i Salmi hanno ricevuto sempre più importanza” conclude Stav. Secondo invece la Cabala, i Salmi non dovrebbero essere letti di notte ma solo durante il giorno. Tuttavia, il rabbino Stav chiarisce che nei casi di grande necessità, i Salmi possono essere recitati anche di notte. Esattamente come è avvenuto sabato notte.
Dopo intense trattative, la federcalcio israeliana (IFA) ha firmato uno storico accordo di cooperazione con il CONMEBOL, la confederazione calcistica sudamericana. Sotto l’egida del presidente della FIFA Gianni Infantino, il presidente IFA Moshe Zuares insieme al suo omologo Alejandro Dominguez hanno sancito un’apertura importantissima per lo sport israeliano. Fin dalla sua nascita, il percorso calcistico di Israele è stato molto travagliato a causa delle forti pressioni politiche dei paesi confinanti. Debuttando nella Asian Football Confederation (AFC), ha vinto una Coppa d’Asia nel 1964 dopo due secondi posti nel 1956 e 1960. Tuttavia, a causa di rinnovate tensioni, fu estromessa dalla federazione asiatica nel 1974, e dopo una permanenza temporanea nella OFC, in Oceania, entrò a far parte della UEFA nel 1994. Nonostante non sia mai riuscita a qualificarsi agli Europei, Israele ha dimostrato una grande abilità competitiva, raggiungendo i playoff per Euro 2020 ed Euro 2024. Per il momento, Israele non ha dato segnali di rottura con la UEFA, nella fattispecie l’accordo si limita ad estendere le collaborazioni tra nazionale mediterranea e la CONMEBOL nei programmi di formazione giovanile e arbitrale. Tuttavia, il passo epocale fa già sognare gli appassionati. Da ormai alcune edizioni, la Coppa America invita a partecipare due nazionali del resto del mondo con una sorta di wild card, cioè un permesso che dà l’opportunità di partecipare a una competizione a una squadra celebre o storicamente rinomata senza che ne abbia il diritto secondo regolamento. Nel 2019 si sono unite alle 10 squadre del torneo anche Giappone e Qatar, mentre nel 2021 avrebbero dovuto giocare Australia e Qatar, la cui partenza però è stata annullata per via della pandemia. “Questo è un momento particolarmente emozionante e storico, una svolta internazionale per l’Associazione Calcistica”, ha dichiarato Zuares in un comunicato stampa. “Abbiamo firmato un accordo di cooperazione con potenze giganti, campioni del mondo, paesi dove il calcio è un pilastro, una cultura.” La potenziale partecipazione di Israele, non solo porterebbe una novità intrigante alla competizione, ma tramite il soft power dello sport rafforzerebbe la diplomazia nella regione. Un pensiero condiviso dal presidente Dominguez, che durante la cerimonia ad Asunciòn in Paraguay ha osservato: “Durante la mia visita in Israele, ho imparato quanto amiate il gioco. Il calcio unisce le culture, indipendentemente dalla grande distanza geografica, e può contribuire alla pace.”
(Bet Magazine Mosaico, 15 aprile 2024)
- La dinamica dell’attacco L’attacco iraniano sul suolo di Israele lungamente annunciato si è svolto ieri notte con grande energia. Sono state sparati molte centinaia fra droni, missili balistici, missili da crociera, razzi Katyusha; essi provenivano dal territorio iraniano e dai suoi satelliti in Libano, Iraq, Siria, Yemen. Ed è sostanzialmente fallito: quasi tutti i proiettili sono stati abbattuti da Israele e dai suoi alleati in questa battaglia (Usa innanzitutto, ma anche Gran Bretagna e Giordania, forse l’Arabia). Ha tenuto bene la difesa aerea multistrato di Israele (composta da Iron Dome, in questo caso non utilizzabile perché è efficace su minacce vicine e poi da David Sling, per le minacce a media distanza e da Arrow per i missili balistici, più gli aerei F35 che sono capaci di abbattere i missili da crociera). I danni sono stati molto limitati. Ora l’Iran ha dichiarato conclusa la sua vendetta per l’uccisione del generale dei pasdaran Mohammad Reza Zahedi; ma naturalmente in guerra e soprattutto in Medio Oriente un attacco del genere non può restare senza risposta. Si resta dunque in attesa di una reazione israeliana, anche se Biden e altri leader occidentali hanno chiesto che non vi fosse. Israele si trova di fronte a una scelta strategica importante sul come rispondere mantenendo la solidarietà occidentale.
- Attacco vero, atto simbolico e prova delle difese? Le modalità dell’attacco lasciano perplessi. L’Iran ha fatto partire verso le 10 di ieri sera un grosso sciame di droni, che è stato rilevato facilmente dai satelliti; ma i droni ci mettono alcune ore per coprire i 1500 chilometri che separano le loro basi dal territorio israeliano, perdendo l’effetto sorpresa e lasciando molto tempo alla preparazione; poi ha sparato i missili da crociera che impiegano un paio d’ore, volando a bassissima altezza; e solo alla fine i velocissimi missili balistici. Era chiaro che la manovra, annunciatissima, sarebbe stata rilevata e probabilmente fermata. Sembrerebbe quasi un atto simbolico, ma fatto con grande dispendio di mezzi e con tre costi strategici molto notevoli: la perdita della faccia di un attacco che non ha prodotto danni; il rinsaldarsi dell’alleanza occidentale intorno a Israele; e l’esposizione alla rappresaglia del territorio iraniano, che Israele aveva finora sempre evitato di colpire direttamente e ora può legittimamente prendere di mira. Anche come atto simbolico si tratta dunque di un fallimento; forse è possibile interpretare la mossa iraniana come un tentativo di mettere alla prova le difese israeliane di fronte a un attacco aereo massiccio che avrebbe potuto forse, nelle speranze degli ayatollah, saturare le difese. Solo il futuro potrò dire se gli ayatollah impareranno da questo fallimento, che per ora rinforza Israele.
- La responsabilità dell’escalation è tutta dell’Iran All’analisi va aggiunta un ultimo tema. Vi è chi dice: se Israele non avesse attaccato a Damasco la settimana scorsa il centro dei pasdaran (che sono – ricordiamolo – le Guardie Rivoluzionarie, cioè la milizia del regime degli ayatollah), la guerra diretta con l’Iran non sarebbe partita. È un argomento sbagliato. L’Iran è in guerra con Israele da molti anni, arma e dirige i movimenti terroristi che minacciano lo stato ebraico da Libano, Siria, Iraq, Yemen e ci provano anche da Giordania e Giudea e Samaria. L’Iran controlla Hamas e Jihad Islamica, i movimenti terroristi di Gaza. Il 7 ottobre non è solo un episodio del terrorismo arabo contro gli ebrei, ma soprattutto un capitolo di questa guerra, che l’Iran ha combattuto finora dirigendo e sfruttando gli arabi. Dopo Soleimani, ucciso dagli americani alcuni anni fa, Zehedi era diventato il comandante di queste armate mercenarie, il capo della guerra iraniana contro Israele. È accertata la sua responsabilità nella preparazione del 7 ottobre, che non sarebbe certo avvenuto senza il suo assenso. Eliminarlo in una riunione dove stava dando ordini ai rappresentanti di Hezbollah e altri terroristi era non soltanto legittimo, ma doveroso. Com’è doveroso l’attacco a Gaza. La guerra non si può vincere solo eliminando gli esecutori terroristi, ma recidendo il loro legame con gli ayatollah. Che l’Iran abbia usato il suo territorio e coinvolto tutti i movimenti terroristici nell’attacco (e che contemporaneamente abbia sostituito gli Houti nel sequestrare una nave civile in acque internazionali) è un fatto importante, perché chiarisce anche agli occhi dell’Occidente responsabilità e obiettivi. Il nemico da sconfiggere per ottenere la pace in Medio Oriente non è solo Hamas, ma l’Iran.
Una cosa deve essere chiara, l’attacco dell’Iran su Israele avvenuto sabato notte con trecento droni e missili, di cui il 99 per cento intercettati e distrutti dal sistema difensivo, non è la “risposta” all’attacco di Israele al consolato iraniano di Damasco della settimana scorsa, (in realtà un quartiere generale locale delle Guardie Rivoluzionarie), ma fa parte della serrata offensiva contro lo Stato ebraico che il regime di Teheran ha intrapreso da decenni attraverso i propri delegati, in cima a tutti Hezbollah, e quindi Hamas e la Jihad islamica. Subito dopo l’attacco, l’Amministrazione Biden, che poche settimane prima del 7 ottobre 2023 aveva scongelato fondi per circa otto miliardi di dollari a favore di Teheran, si è affrettata a congratularsi con Gerusalemme per averlo neutralizzato, specificando che, nel caso di una controreazione israeliana, gli Stati Uniti non darebbero il proprio appoggio. L’Amministrazione Biden prosegue in modo palese la linea conciliatoria e morbida con l’Iran perseguita in modo deciso da Barack Obama e culminata nel 2014 con l’accordo sul nucleare iraniano fortemente osteggiato da Israele, dal quale Donald Trump uscì nel 2016. La filosofia dell’Amministrazione Biden prevede che con l’Iran, il maggiore agente di destabilizzazione regionale, si debba agire attraverso il contenimento e in virtù di esso fare accordi e concessioni. Il rientro nell’accordo sul nucleare che Joe Biden spingeva non è andato in porto unicamente per una ragione, lo scoppio della guerra in Ucraina nel febbraio del 2022. Era francamente difficile fare un accordo con chi forniva alla Russia i droni per attaccare l’Ucraina alla quale si fornivano (con il contagocce) le armi per difendersi dall’aggressione russa e quindi da quegli stessi droni, senza perdere la faccia, ma la musica non è cambiata. L’Iran, per l’Amministrazione Biden, non va toccato, e non va toccato perché si paventa che, così facendo, si giungerebbe a un conflitto di proporzioni maggiori di quello in corso con vaste ripercussioni internazionali soprattutto sul mercato petrolifero. Il problema è, che il confronto diretto di Israele con l’Iran è inevitabile, e che avvenga o non avvenga adesso o avvenga in un futuro prossimo, poco cambia. La dinamica geopolitica mediorientale, e a monte quella della volontà di potenza iraniana, sono inesorabili. Come la Germania negli anni ’40, l’Iran persegue una politica votata all’egemonia e spinta da un disegno messianico-imperialista, che, diversamente da quello perseguito dal Terzo Reich, è esplicitamente religioso e riguarda la supremazia nel mondo islamico. All’interno di questo disegno, Israele deve essere spazzato via, così come l’Arabia Saudita, custode dei luoghi sacri dell’Islam, deve soccombere. L’Iran, attraverso i suoi delegati in Libano, Siria, Iraq e Yemen, ha allungato da tempo i propri tentacoli al fine di un espansionismo esplicito che non solo non è diminuito nel corso dell’ultimo decennio ma è aumentato, sconfessando di fatto le politiche americane finalizzate al contenimento e quelle di supporto europee (non va dimenticato che nell’accordo per il nucleare iraniano, tra i firmatari c’erano Francia, Germania e Gran Bretagna). Ciò nonostante gli Stati Uniti continuano a ritenere che la cosa migliore sia quella di trovare con l’Iran una intesa, ma Israele questa intesa non la può trovare, così come non può trovare una intesa con Hamas. Dopo l’attacco su suolo israeliano da parte iraniana avvenuto ieri, Israele è impossibilitato a non rispondere malgrado il freno che il suo principale alleato vuole porgli. Nessuno Stato sovrano attaccato da un altro Stato resta inerte. Chiedere a Israele di non rispondere perché si arriverebbe all’escalation, non solo è ipocrita (l’escalation di fatto è in pieno corso), ma significherebbe metterlo in una posizione di debolezza rafforzando il regime degli ayatollah. La guerra a Gaza è in pieno stallo e lo è unicamente perché è stata commissariata dagli Stati Uniti che hanno fatto in modo che oggi il suo esito sia incerto, ora si tratta di condizionare Israele ulteriormente frenando la sua legittima risposta. Il futuro di Israele, sia riguardo all’Iran, sia riguardo a Gaza. non può dipendere dalla volontà americana. C’è da augurarsi che Benjamin Netanyahu ne sia convinto.
BE'ER SHEVA - Gli archeologi israeliani hanno ricostruito un vaso d'avorio rotto di 6.000 anni fa. Lo ha annunciato martedì l'Autorità israeliana per le antichità. Il vaso è stato scoperto nel 2020 a Horvat Raqiq, un sito archeologico vicino a Be'er Sheva, nel sud di Israele, durante lavori di infrastruttura. Il vaso è stato datato all'Età del rame (4500-3500 a.C.). Questo periodo è caratterizzato dallo sviluppo culturale, dall'estrazione del rame e dall'espansione delle reti commerciali.
ETÀ DEL RAME
Il reperto è il primo vaso d'avorio dell'Età del rame scoperto in Israele. Probabilmente è stato importato dall'Egitto o intagliato localmente da avorio importato dall'Egitto. Il recipiente è di un tipo noto ai ricercatori come amphoriskos, una piccola brocca. "Questo ritrovamento approfondisce la nostra comprensione dell'Età del rame e delle relazioni culturali della nostra regione con le culture vicine e lontane", hanno dichiarato i ricercatori. Il vaso è ben fatto. Se è stato prodotto localmente, dimostra l'alto livello degli artigiani che vivevano qui. Avrebbero saputo come trattare l'avorio ricavato dalle zanne di elefante".
PROGETTO DI RESTAURO CONGIUNTO
Il vaso ha un diametro di 20 centimetri. Lo ha reso noto Ianir Milevski, ex capo del dipartimento preistorico dell'Israel Antiquities Authority.
Le quattro piccole anse laterali sono disposte simmetricamente. Due maniglie si trovano sul collo del vaso e le altre due verticalmente sotto, nella parte più larga del vaso. I ricercatori dell'Autorità per le Antichità, gli esperti dell'Università Ebraica di Gerusalemme e l'esperta di conservazione dell'avorio Olga Negnevitsky sono stati coinvolti congiuntamente nel restauro del vaso d'avorio. Il vaso è stato presentato al pubblico giovedì a Gerusalemme in occasione della conferenza annuale della "Società Preistorica Israeliana". Sono state presentate anche altre recenti scoperte preistoriche.
(Israelenetz, 15 aprile 2024)
«Non vedo ancora la voglia di fare chiarezza sui vaccini»
Il medico: «L’archiviazione di Speranza, senza approfondire la questione, è un segnale evidente. E i miei colleghi continuano a contestarmi quando partecipo ai convegni»
«Credo che in questo momento ancora non ci sia la voglia di guardare in faccia la realtà, perché facendolo bisognerebbe mettere in discussione quelli che sono stati gli atteggiamenti incredibilmente violenti e discriminatori messi in atto contro chi, a ragion veduta, ha avuto il coraggio di dire le cose esattamente come stavano», spiega l'endocrinologo Giovanni Frajese, professore associato di Unirama Foro Italico, tra le poche voci critiche delle misure pandemiche e dell'obbligo vaccinale, costatogli nel 2022 la sospensione.
- Pochi giorni fa ha partecipato a un convegno nell'Aula Magna del Polo Universitario. La sua presenza ha causato lo sdegno di alcuni suoi colleghi medici, alcuni dei quali hanno addirittura contattato Repubblica per lamentarsi della sua partecipazione. Il giornale l'ha definita «il medico no vax e anti gender». Pare che il clima di acredine verso i suoi confronti e verso chiunque non si sia adeguato alla narrazione mainstream sul periodo pandemico sia ancora forte. «Sì, e continuano a utilizzare questo termine, che ha perso qualunque significato, "no vax", che io ho rifiutato fin dall'inizio, perché è una semplificazione che serve semplicemente a screditare la persona che fa notare qualche discrepanza tra quello che veniva propagandato, cioè delle menzogne, e quello che in realtà era scritto anche sul bugiardino della Pfizer stessa. E un peccato che i colleghi, al posto di lamentarsi, non siano venuti a sentire invece di che cosa si parlava, perché magari avrebbero potuto capire che è molto semplice rendersi conto di quello che è successo in questi anni».
- Ovvero? «Il governo e tutti gli ordini a esso collegati hanno mentito alle persone. E ora che di ciò ne venga preso atto. Per esempio, l'ex presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha detto pubblicamente che il Green pass dava la certezza di stare tra persone che non potevano contagiare, ma era una menzogna. Il vaccino non era mai stato testato per questa ragione, fin dall'inizio era noto sia all'Aifa che all'Ema. Oggi ci si deve fermare un secondo e rendersi conto di cosa non ha funzionato, anziché continuare a bollare le persone con questo tipo di parole che servono semplicemente a screditarne l'opinione senza neanche ascoltarla».
- Secondo lei la commissione parlamentare d'inchiesta potrà essere determinante nella ricerca della verità? «Diciamo che l'archiviazione, senza neanche approfondire la questione, dell'ex ministro della Salute Roberto Speranza è un segnale abbastanza chiaro della direzione in cui si vuole procedere. Siamo oramai a quasi due anni dall'insediamento del governo e ancora la commissione non è stata istituita. Non vedo dall'attuale esecutivo, al momento, la voglia di far chiarezza. Eppure dovrebbero essere decisi a comprendere tutto quello che è stato fatto. Parlo di lockdown, distanziamento sociale, mascherine e vaccinazione, quali sono stati gli effetti reali nella vita, non quelli propagandati fin dall'inizio. E gli effetti reali, documentati dalla letteratura scientifica, hanno bocciato tutte queste misure, anzi si è arrivato anche a mettere nero su bianco che, per esempio, il distanziamento sociale non aveva nessuna base scientifica, le mascherine non impediscono la trasmissione, anzi possono causare tutta una serie di problemi, eppure ancora oggi se si entra negli ospedali viene richiesta la mascherina come se fosse un dispositivo di protezione, non si sa bene da che cosa. Allo stesso modo, il lockdown ha creato una serie di problemi che stanno scontando soprattutto i nostri giovani, con una percentuale di ragazzi, e soprattutto ragazze, che soffrono di depressione.
- Cosa dovrebbe fare il governo per le vittime di effetti avversi? «Due cose: intanto prendersene carico, e secondo sdoganare la possibilità di fare ricerca scientifica seria sugli effetti collaterali, il che significa capire il meccanismo di eziopatogenesi, cioè che cosa sta causando il danno. Queste persone vivono in una condizione di grossa sofferenza giornaliera oramai da più di due anni, alcune arrivano a togliersi addirittura la vita perché non hanno la prospettiva di poter guarire o di essere presi sul serio. Abbiamo assistito anche qui a un comportamento vergognoso da parte della classe medica che trattava la maggior parte di queste persone come pazienti psichiatrici. È necessario che invece i sanitari prendano atto che l'esperimento farmacologico, perché di questo si è trattato, doveva essere eseguito con una farmacovigilanza attiva, proprio per poter registrare tutto quello che eventualmente sarebbe derivato e che non potevamo conoscere, visti i pochi tempi di sperimentazione».
- Secondo lei durante la pandemia, ma anche attualmente, tra i sanitari erano tutti convinti di ciò che facevano o si sono semplicemente adeguati, sia per non essere sospesi senza retribuzione, sia per convenienza? «Beh, direi che per rispondere a questa domanda basta vedere la percentuale di personale sanitario che si vaccinò prima che ci fosse l'obbligo. Meno del 20%. Il che significa che fin dall'inizio la maggior parte dei colleghi qualche dubbio lo aveva. Poi con l'obbligo è scattato un meccanismo di tipo psicologico completamente diverso, sono riusciti a compattare l'opinione di chi è stato forzatamente obbligato a vaccinarsi. Perfino chi come me, e altri, aveva già avuto il Covid e a distanza di 3 mesi avrebbe dovuto vaccinarsi per la stessa patologia. Un'indicazione che grida ancora vendetta, perché significa fondamentalmente non avere nessuna idea di come funziona il sistema immunitario umano».
- Il suo libro si intitola “Contrastare le minacce alla salute e all'anima delle generazioni presenti e future”. Quali sono queste minacce? «Il libro è stato scritto pensando ai bambini, poiché abbiamo assistito a una cosa che non era mai accaduta nella storia dell'umanità, cioè abbiamo fatto entrare in una sperimentazione di massa i piccoli dai 5 anni in su, dicendo che era importante proteggere i nonni dall'eventuale contagio della patologia. Abbiamo sperimentato sui bambini, sulla base di una menzogna, perché in realtà questi prodotti non hanno mai impedito la trasmissione della patologia. Queste menzogne venivano direttamente dall'Oms. La stessa Oms che sta sdoganando quello che viene oggi comunemente chiamato «il diritto alla sessualità dei bambini» e che prevede un programma di insegnamento e sessualizzazione precoce dai 4 anni. Questa francamente mi sembra una follia».
- Cosa ne pensa della somministrazione dei bloccanti della pubertà ai giovani a cui viene diagnosticata la disforia di genere? «In Gran Bretagna si stanno rendendo conto di tutto quello che è successo negli ultimi anni, della maniera troppo semplice con la quale si ricorre a degli strumenti di tipo chimico, se non chirurgico, che poi hanno delle conseguenze a lungo termine, se non permanenti. Stanno vedendo che la maggior parte delle persone che soffrono di disforia di genere dovrebbero essere trattate per problemi di tipo psicologico, psichiatrico, che stanno alla base del problema. Quindi si sta andando in una direzione che finalmente torna a essere logica. Anziché assecondare qualunque cosa la mente dica, forse prima va verificato se la situazione è realmente come viene descritta o invece è in atto un tentativo di fuga dai propri problemi, che molto spesso sono difficilmente superabili da ragazzi in quell'età».
- Anche su questo l'ambiente medico è diviso. Parte consistente della comunità scientifica, inclusa la Società italiana di pediatria, ritiene il blocco della pubertà un trattamento reversibile e utile ai minori in difficoltà. Dal suo punto di vista, questo è un approccio ideologico, anziché scientifico, conveniente da sposare? «E’ conveniente, perché si possono ottenere fondi di ricerca e perché in qualche maniera ci si aggrega a quello che è un determinato modo di pensare, che è quello che viene rappresentato di più a livello mediatico, e perciò sembra essere la parte giusta. In realtà poi questi farmaci sono associati a una serie di problemi che possono essere anche gravi. Ma di questo non si può parlare perché altrimenti è lesa maestà. Esattamente come con il Covid, tutto quello che viene propagandato e reso ideologico da un certo tipo di approccio che vuole normalizzare quello che normale non è mai stato, porta alla fine a una perdita del senso della scienza stessa, la quale diventa un mezzo di propaganda».
- Molti genitori di ragazzi con disforia di genere sono favorevoli all'uso dei bloccanti della pubertà, in quanto ritengono che abbiano aiutato i loro figli. Cosa direbbe loro? «Che per comprendere se hanno aiutato o meno i loro figli dovrebbero aspettare il tempo necessario a vedere veramente che cosa succede, e che l'esperienza internazionale, purtroppo, ha portato invece a conclusioni che sono completamente differenti. Prima di interrompere lo sviluppo fisiologico del bambino o dell'adolescente bisognerebbe pensarci cento volte. Invece c'è una superficialità diffusa, anche perché c'è un ricco giro di indotti, sia dal punto di vista farmacologico che chirurgico, collegato a questo tipo di attività».
Il Signore disse ad Abramo, dopo che Lot si fu separato da lui: «Alza ora gli occhi e guarda, dal luogo dove sei, a settentrione, a meridione, a oriente, a occidente.
Tutto il paese che vedi lo darò a te e alla tua discendenza, per sempre.
E renderò la tua discendenza come la polvere della terra; in modo che, se qualcuno può contare la polvere della terra, potrà contare anche i tuoi discendenti.
Àlzati, percorri il paese quant'è lungo e quant'è largo, perché io lo darò a te».
Allora Abramo levò le sue tende e andò ad abitare alle querce di Mamre, che sono a Ebron, e qui costruì un altare al Signore.
SALMO 83
O Dio, non restare silenzioso! Non rimanere impassibile e inerte, o Dio!
Poiché, ecco, i tuoi nemici si agitano, i tuoi avversari alzano la testa.
Tramano insidie contro il tuo popolo e congiurano contro quelli che tu proteggi.
Dicono: «Venite, distruggiamoli come nazione e il nome d'Israele non sia più ricordato!»
Poiché si sono accordati con uno stesso sentimento, stringono un patto contro di te:
le tende di Edom e gl'Ismaeliti; Moab e gli Agareni;
Ghelal, Ammon e Amalec; la Filistia con gli abitanti di Tiro;
anche l'Assiria s'è aggiunta a loro; presta il suo braccio ai figli di Lot.
Fa' a loro come facesti a Madian, a Sisera, a Iabin presso il torrente di Chison,
i quali furono distrutti a En-Dor, servirono da concime alla terra.
Rendi i loro capi come Oreb e Zeeb, tutti i loro prìncipi come Zeba e Salmunna;
poiché hanno detto: «Impossessiamoci delle dimore di Dio!»
Dio mio, rendili simile al turbine, a stoppia portata via dal vento.
Come il fuoco brucia la foresta e come la fiamma incendia i monti,
così inseguili con la tua tempesta e spaventali con il tuo uragano.
Copri la loro faccia di vergogna perché cerchino il tuo nome, o SIGNORE!
Siano delusi e confusi per sempre, siano svergognati e periscano!
E conoscano che tu, il cui nome è il SIGNORE, tu solo sei l'Altissimo su tutta la terra.
Israele: nuova brigata per il fronte settentrionale
Alla luce dell’ascesa di Hezbollah in Libano, i ministri del governo israeliano sostengono l’espansione del fronte settentrionale. Il loro obiettivo è ripristinare l’equilibrio nel nord, così come il prestigio e la deterrenza di Israele, entrambi indeboliti dalle azioni di Hezbollah. Si prevede che le operazioni della Resistenza e l’uso di missili di precisione introdurranno una nuova dinamica, che potrebbe comportare una graduale escalation, una limitata attività di combattimento o un aumento dell’intensità degli attacchi senza raggiungere al momento una guerra su vasta scala. L’esito finale dipende dall’emergere di potenziali scenari per la battaglia di Rafah, che potrebbero portare a un’escalation regionale.
• Israele annuncia nuova brigata “Harim” L’esercito israeliano ha annunciato la costituzione di una nuova brigata regionale denominata “Harim” al confine con Siria e Libano, con l’obiettivo di ricostruire le forze combattenti nel nord e prepararsi ad eventuali sviluppi sul campo. La brigata, che dovrebbe iniziare le operazioni nelle prossime settimane, sarà sotto il comando della Divisione-210 e assumerà compiti di difesa nelle aree di Jabal al-Sheikh e Jabal al-Rus (Monte Dob). Il tenente colonnello Liron Appleman guiderà la brigata al confine settentrionale. Nell’annuncio, il generale di brigata Zion Retson, vice comandante della “Divisione 210”, avrebbe affermato che la creazione della nuova brigata consentirà di rispondere in modo efficace e di prepararsi alla difesa e all’attacco in vari scenari, tenendo conto del terreno e del nemico. La sfida principale a Gaza è la guerra urbana e le difficoltà di movimento, ma anche il terreno montuoso al confine settentrionale con il Libano pone delle sfide. La nuova brigata avrà un focus regionale, in particolare sulla difesa del Monte Sheikh e del Monte Dov, che sono aree montuose al confine con le alture del Golan e il nord di Israele, formando un triangolo tra Israele, Libano e Siria.
• Alta tensione al confine settentrionale Secondo Yoaf Zeyton, corrispondente militare del quotidiano Yediot Ahronoth, la creazione della nuova brigata è una risposta alle tensioni al confine settentrionale con il Libano. Queste tensioni hanno provocato l’evacuazione di oltre 80mila israeliani dall’Alta Galilea. Il reporter militare spiega che Israele deve affrontare varie sfide e minacce in Siria, oltre a combattere Hezbollah. Pertanto, la nuova brigata è stata istituita per rispondere alle esigenze operative dell’esercito israeliano durante la guerra, seguendo il piano d’azione del Comando Nord. Inoltre, un sondaggio condotto dal Regional Knowledge Center del Tel Hai Academic College e dal gruppo di autorità della Galilea orientale, rivela che l’alto livello di sostegno sul fronte libanese influisce notevolmente sul morale dei coloni del nord. Dall’indagine emerge che solo il 60% degli sfollati è certo del proprio ritorno una volta finiti i combattimenti, mentre 4 sfollati su 10 non torneranno, numeri significativi secondo il quotidiano.
L'allarme per un possibile attacco iraniano non è ufficiale ma nei rifugi si accumulano bottiglie d'acqua; la guerra con Hamas è in corso; a una settimana dalla Pasqua le famiglie preparano un triste tavolo per i rapiti; i ragazzi nell'esercito restano tutti consegnati. Israele non è solo in guerra: è una democrazia appassionata in guerra, e questa passione crea scontro. Ma la storia dello scontro per condannare Israele alla sconfitta a causa di Netanyahu crea confusione. E quindi: nonostante la rottura fra gli Usa e Israele che avrebbe allontanato Biden da Israele, a fronte delle minacce iraniane gli Stani Uniti, dice il presidente, sono alleati d'acciaio di Tel Aviv. Ripete anche che concorda sull'eliminazione di Hamas, e che Bibi deve mantenere la promessa di aiuti umanitari per la gente, e non deve entrare a Rafah. Israele risponde: i camion si affollano a centinaia, si aprono i passaggi, dentro Gaza si combatte meno e si apre alla gente la strada per Khan Yunes. Come richiesto. E se Hamas si avventa sugli aiuti umanitari, è colpa sua, come l'ennesimo «no» sugli ostaggi.
Ma come, si dice sempre che Bibi che non è disposto a dare abbastanza e le famiglie sono contro di lui. La verità è che le famiglie sono divise: le manifestazioni che chiedono di concedere tutto e subito hanno come contrappeso quelle che protestano perché il numero dei soldati dentro la striscia è diminuito, chiedono di combattere duramente e di non fornire aiuti umanitari. Pensano che solo la pressione militare consentirà un accordo. Ma Sinwar vede che il mondo intero insiste sul suo scopo: un cessate il fuoco definitivo per ricostruire Hamas. Contando sull'Onu e l'Ue, Sinwar aspetta che l'ingresso a Rafah sia cancellato: là ha ancora 4 battaglioni. Israele da settimane lavora con gli Usa per entrare senza un disastro umanitario. Il premier non è il colpevole protagonista della scelta di Rafah: non c'è un solo membro del Gabinetto e della maggioranza alla Knesset che sia contro.
Si può essere di destra o di sinistra e volere le elezioni per un nuovo premier: niente di male. Ma che la vittoria sia necessaria per la sopravvivenza, in Israele è senso comune. Senza eliminare Hamas, nessuno accetterà, neppure l'Autorità Palestinese, di gestire il futuro di Gaza. Quando Israele distrusse il nucleare iracheno, gli Usa li condannarono. Nel 67 Lyndon Johnson minacciò: se andate soli, resterete soli. Gli Usa hanno le elezioni, Biden fa il proprio gioco. E Bibi non è di sinistra, ha vinto troppe volte, e un conservatore liberal che gestisce le leggi più avanzate per le famiglie Lgbtq ma piace ai religiosi; ha reso Israele un'avanguardia. E ha anche portato a casa il peggior disastro possibile, il 7 ottobre. Combatte una guerra lunga, ma avanza, i missili sono cessati, le perdite a Gaza sono contenute dato che 13mila terroristi sono stati eliminati, le tragedie tipo quella della World Central Kitchen capitano. Il Paese ha una gran voglia di recuperare, di vivere, di pace. Lo sforzo è eroico.
L'attacco continuo a Netanyahu confonde e distoglie l'Occidente da tappe fatali.
Guerra Israele-Hamas, l’attacco degli israeliani è inevitabile
L’attacco avverrà nella residua area della Striscia di Gaza, dove gli uomini di Hamas si sono ritirati. I principali nemici dei palestinesi sono loro stessi.
di Gianni Pardo
La cosiddetta Guerra di Gaza non è una guerra ma un gigantesco raid di polizia. E, come nelle guerre contro i pirati o i narcotrafficanti, la polizia ha il mandato di uccidere tutti gli affiliati. In altri termini, è in atto, non l’eliminazione di un popolo, ma di una fazione criminale che vorrebbe ergersi a Stato. Una gang che ha commesso delitti orrendi e deve pagare con la cancellazione fisica dal territorio. Ecco perché Israele non può non attaccare Rafah: perché sarebbe come graziare l’ultimo gruppo di resistenti e gli ultimi capi. Questo tipo di guerra non prevede un accordo di pace finale, prevede solo la sopravvivenza del più forte. Hamas ha sognato di uccidere indistintamente tutti gli ebrei; Gerusalemme sta realizzando l’eliminazione di tutti gli affiliati di Hamas. Se capita, Tsahal fa dei prigionieri, ma per i capi questa possibilità non esiste. Essi sono stati condannati a morte.
• Lo scopo della guerra per Israele è la vendetta su Hamas Addirittura è notizia di mercoledì scorso che a Gaza tre figli di Ismail Haniyeh sono stati uccisi in un attacco israeliano. Si era mai vista una cosa del genere, in una guerra? Una guerra normale è contro un altro Stato, questa guerra è contro un gruppo di persone. Lo scopo preciso non è quello di battere sul campo Hamas (non ci sarebbe partita), lo scopo preciso è la vendetta, uccidere i capi e, se possibile, fargli provare personalmente il dolore che i loro sgherri hanno inflitto agli ebrei dei kibbutzim, uccidendo anche le loro famiglie. I gazawi hanno battuto un triste record. Raramente un popolo ha suscitato una tale reazione di rigetto, a cominciare dallo stesso Vicino Oriente. A parole il mondo intero indignato li sostiene ma ciò malgrado nessuno gli apre la porta; nessuno Stato musulmano si è dichiarato disposto ad ospitare i profughi della Striscia; nessuno si è dichiarato disposto ad accogliergli. Ne è prova che Israele può progettare di passare al setaccio ogni metro quadrato di Rafah, senza che da Rafah i gazawi possano sognare di passare in Egitto. Se si presentassero a migliaia, sarebbero accolti a cannonate. Per fama universale, i gazawi sono dei pericolosi antagonisti. Del resto, che tipo di ospiti sarebbero, i palestinesi, lo dimostrò a suo tempo il piccolo Re Hussein di Giordania che li sloggiò a cannonate dal suo Paese, di cui fino al giorno prima erano stati cittadini (Settembre Nero). E lo dimostra la condizione in cui è ridotto il Libano che ha commesso l’errore di accoglierli. Troppa gente, parlando di Palestina, non sa di che parla. Gaza, storicamente, nessuno la vuole, neppure regalata. Non è uno scherzo. Ad un dato momento l’Egitto ebbe la sovranità sulla Striscia ma, dopo qualche tempo, ci rinunciò e l’abbandonò al suo destino. Poi l’occupò Israele ma presto, malgrado le veementi proteste dei coloni israeliani ivi insediati, anch’essa rinunciò alla occupazione. Fu così che dal 2005 al 2023, Gaza è stata indipendente. E ne ha approfittato per dichiarare guerra a Israele. Questa operazione di polizia è la conseguenza della natura criminale del governo di Hamas. Se a Gaza ci fosse stato uno Stato di diritto, Israele si sarebbe appellata a quello Stato per far arrestare e punire i colpevoli. O estradarli in Israele. Ma se tutta l’organizzazione statale sostiene i criminali, non rimane nessuno cui chiedere giustizia e si è obbligati a farsi giustizia da sé. A Gaza stanno vedendo come questa seconda soluzione, per i colpevoli, sia tutt’altro che uno sconto.
• Israele non ha alcun interesse ad annettersi la Striscia di Gaza Questa è la sostanza dello scontro. Israele non ha alcun interesse ad annettersi la Striscia ma non permetterà che possa costituire una minaccia armata. Dunque nessuna sovranità militare. Al massimo: «Vivete come vi pare, ma guai a voi se attaccate Israele». E nessuna forza di interposizione internazionale offre sufficienti garanzie a Gerusalemme. La parabola di Gaza è comunque meno stupefacente di quanto non si pensi. Si può anzi dire che è esemplare di come vanno le cose in Palestina. Ad ogni mossa successiva dei palestinesi consegue un peggioramento delle loro condizioni. Se, nel 1948, i palestinesi avessero accettato la soluzione dei Due Stati (come l’aveva accettata Israele) oggi si avrebbero, appunto, quei due Stati di cui tanti parlano. E invece preferirono gettare a mare gli ebrei, se possibile uccidendoli tutti. In realtà, non soltanto non ci riuscirono, ma Israele trasse fondamentali vantaggi da quella prima guerra. Lo stesso nel 1967: il mondo islamico intero si coalizzò contro Israele, ma il mondo intero perse e Israele ne trasse dei vantaggi. Poi i palestinesi cominciarono a tormentare gli israeliani con gli attacchi terroristici, e finì che Israele pose un muro (un vero muro) fra i palestinesi e il loro possibile posto di lavoro in Israele. Economicamente fu una nuova sconfitta per i palestinesi. Lo stesso con la guerra del Yom Kippur (1973), guerra con la quale Israele dette una severa lezione agli arabi e si appropriò le alture del Golan (Siria) per prevenire attacchi da quella parte. Ad ogni iniziativa intesa a far male a Israele, la condizione dei palestinesi è peggiorata.
DÜSSELDORF - Quattro ragazze musulmane, dai 13 ai 16 anni di età, sono state arrestate perché pianificavano un attacco alle sinagoghe. Erano giovanissime reclute dell'Isis. Ma anche al di là del terrorismo, l'odio contro gli ebrei è a livelli allarmanti nelle comunità musulmane, in Germania e soprattutto in Francia
Era dal 2015, annus horribilis per l’Europa con gli attacchi a Charlie Hebdo e al Bataclan di Parigi, che la minaccia terroristica non era così elevata nel continente europeo. Nel weekend di Pasqua, quattro minorenni sono stati arrestati dalla polizia tedesca perché pianificavano un attacco terroristico in nome dello Stato islamico. Lo ha annunciato ieri la procura di Düsseldorf, specificando che gli aspiranti kamikaze avevano pianificato «un attacco terroristico di matrice islamista» ed erano «pronti a commetterlo». Il quotidiano Bild ha riportato i dettagli dei quattro fermati: Albina H., 16 anni, di Iserlohn (città della Renania Settentrionale-Westfalia), Wiam S., 15 anni, e altre due ragazze di 13 e 15 anni di Monaco e Düsseldorf.
• LAME E MOLOTOV
«Vista l’età dei sospetti e l’inchiesta in corso», si legge nel comunicato, la procura di Düsseldorf non ha dato ulteriori dettagli sul tipo di attentato previsto. Ma stando alle informazioni della Bild, gli adolescenti volevano colpire con coltelli e bombe molotov poliziotti, chiese, sinagoghe, bar e club sportivi a Iserlohn.
Sempre secondo il quotidiano tedesco, il padre di una delle ragazze arrestate (Wiam S., studentessa con passaporto tedesco e marocchino), era già noto all’intelligence per aver raccolto soldi da inviare allo Stato islamico con l’obiettivo di finanziare la jihad. In un’intervista alla Süddeutsche Zeitung subito dopo l’attentato islamista di fine marzo al Crocus City Hall di Mosca, la ministra dell’Interno tedesca, Nancy Faeser, aveva sottolineato che «il pericolo del terrorismo islamico rimane acuto”». Le autorità sono ancora più in allerta perché la Germania si prepara a ospitare gli Europei di calcio (14 giugno-14 luglio).
Secondo Faeser, «attualmente, la più grande minaccia islamista in Germania (proviene) dallo Stato Islamico – Provincia del Khorasan (Isis-K)». Sempre ieri, a conferma dei timori della ministra dell’Interno, è stato annunciato l’arresto a Essen (Renania Settentrionale-Vestfalia) di un militante dell’Isis, Ossama A. Affiliato allo Stato islamico almeno dal luglio 2012, secondo quanto comunicato dalla Procura generale federale (Gba), sul jihadista pendono vari capi di imputazione: appartenenza a un’organizzazione terroristica straniera, crimini di guerra contro il patrimonio, favoreggiamento di crimini di guerra contro le persone, crimini contro l’umanità e favoreggiamento del genocidio. Ossama A. avrebbe avuto una posizione di comando nell’Hisba, la polizia religiosa dell’Isis, svolgendo inoltre un ruolo centrale nella confisca di abitazioni private in una città della regione siriana di Deir ez-Zor. Negli edifici confiscati, almeno quindici, lo Stato islamico vi ha alloggiato i suoi combattenti. In due casi, gli immobili sono stati anche convertiti in prigioni per yazidi rapiti.
Secondo il Gba, l’arrestato ha sostenuto il califfato nella riduzione in schiavitù e nello sfruttamento sessuale di donne e ragazze yazide nel quadro dell’obiettivo dichiarato dei jihadisti di annientare questa comunità.
• NELLE SCUOLE
Assieme alla Germania, è la Francia il Paese europeo col più alto numero di islamisti sorvegliati da vicino dai servizi segreti. Nelle ultime settimane, sono stati sventati diversi attacchi sul suolo francese, come confermato dal ministro dell’Interno Gérald Darmanin. Uno, nel quale erano coinvolti cinque individui, aveva come obiettivo la cattedrale gotica di Notre-Dame a Parigi. Un altro, come annunciato dal primo ministro francese Gabriel Attal, club ebraici e locali gay a Marsiglia. «Era molto radicalizzato», ha detto a Europe 1 un agente dei servizi in merito al principale sospetto, un 23enne. A fine marzo, in Belgio, sono stati arrestati quattro giovani che preparavano «un altro Bataclan» in una delle principali sale concerti di Bruxelles, La Botanique. Gli stessi, agli inquirenti, hanno confessato di aver pianificato un attacco contro la Tour Eiffel. Ma l’allarme estremismo, in Francia come in Germania, coinvolge sempre più i minorenni immigrati o figli di immigrati, con violenze ripetute nell’ambiente scolastico. Alcune settimane fa, il preside dell’istituto Maurice Ravel di Parigi, è stato costretto a dimettersi in ragione delle minacce di morte ricevute. Il motivo? Il dirigente scolastico si era permesso di dire a una studentessa di togliersi il velo, dunque di rispettare la legge francese sul divieto di esibire simboli religiosi nei luoghi pubblici. In Italia, la situazione non è come quella francese o tedesca ma le proteste e i boicottaggi contro Israele in molte università (alla Federico II di Napoli, è stato occupato il Rettorato) e le richieste di chiudere le scuole per il Ramadan mostrano che la direzione è la stessa.
Dal prossimo ottobre l’Università di Haifa sarà guidata dalla professoressa Mona Maroun, ricercatrice di fama mondiale nel campo delle neuroscienze e del post-trauma. Maroun diventerà così la prima donna araba d’Israele ad assumere l’incarico di rettrice. «Sono grata per la fiducia dei membri del Senato accademico e non vedo l’ora di iniziare», ha dichiarato Maroun dopo l’annuncio della nomina. «L’Università di Haifa per me è casa. Mi ha accolto tra le sue fila oltre 30 anni fa, come studente, poi come membro della facoltà del dipartimento di neurobiologia e ora con la carica di rettore».
Esponente della minoranza cristiana maronita, Maroun ha aperto la strada alle donne della sua comunità. È stata la prima del suo villaggio, Isfiya, sul Monte Carmelo, a conseguire un dottorato di ricerca, la prima araba a conseguire un dottorato in neuroscienze e ora la prima araba a guidare un ateneo israeliano. Per il nuovo incarico la promessa è «di proseguire a promuovere la ricerca d’eccellenza». L’obiettivo, ha affermato Maroun, «è continuare a essere un faro di scienza e di eccellenza nel cuore del Nord, promuovendo una coesistenza autentica e quotidiana tra i membri di tutte le religioni e denominazioni d’Israele». Per Gur Elroy, attuale rettore dell’Università di Haifa che da ottobre ne diventerà il nuovo presidente, la nomina della neuroscienziata rappresenta «la scelta giusta per il nostro ateneo». Non è una questione di uomo o donna, di ebreo o arabo, ma di merito, ha spiegato Elroy.
In questi anni il lavoro di ricerca di Maroun si è concentrato sul modo in cui il cervello regola le emozioni in diverse condizioni, normali e di stress. Ha studiato anche gli effetti delle sfide ambientali sulle emozioni, sul comportamento sociale e sulla memoria. La sua ricerca sui traumi infantili, racconta il sito Maariv, ha portato a nuove intuizioni sulle terapie dedicate a bambini e adolescenti.
Oltre alla sua attività accademica, Maroun è impegnata a promuovere l’istruzione superiore nella società araba. In particolare lavora per incoraggiare le giovani donne arabe a seguire percorsi di studi scientifici. In un’intervista alla Fondazione US-Israel Science, ha raccontato la sua storia famigliare. «Mio nonno è immigrato in Israele dal Libano e la mia famiglia non era per nulla benestante», ha spiegato. «Fin da quando ero piccola, sapevo che se avessi voluto fare davvero qualcosa per me stessa, avrei dovuto studiare molto duramente. Sono araba, cristiana, maronita e donna. Non so cosa si provi a far parte di una maggioranza. Ma ero determinata a fare la differenza, così come altri membri della mia famiglia della mia generazione. Nella mia famiglia ora ci sono tre professori, una ventina di avvocati e cinque medici».
Quattordici ricercatori israeliani premiati con le migliori borse di ricerca dell’UE
Ricercatori israeliani della Hebrew University, del Technion, dell’Università di Tel Aviv e dell’Istituto Weizmann riceveranno ciascuno 2,5 milioni di euro di finanziamenti dal Consiglio europeo della ricerca
Da sin. il Prof. David Kazhdan, la Prof.ssa Maren R. Niehoff
e il Prof. Nathan Lineal dell’Università Ebraica
Quattordici ricercatori di università israeliane hanno ricevuto prestigiose borse di studio avanzate dal Consiglio europeo della ricerca (CER), come è stato annunciato giovedì. Le borse di ricerca finanziate dall’UE hanno un valore di circa 2,5 milioni di euro (2,68 milioni di dollari) ciascuna, erogate in cinque anni, con un ulteriore milione di euro (1,07 milioni di dollari) disponibile in alcuni casi. Le borse sono “tra le più prestigiose e competitive borse di ricerca offerte dall’Unione Europea”. Queste borse offrono a ricercatori esperti l’opportunità di perseguire progetti ambiziosi in grado di catalizzare significative scoperte scientifiche”, ha dichiarato la Hebrew University in un comunicato che annuncia i tre vincitori. I ricercatori israeliani vincitori della Hebrew University sono stati il Prof. David Kazhdan, dell’Istituto Einstein di Matematica; il Prof. Nathan (Nati) Linial, della Scuola Benin di Informatica e Ingegneria, dell’Istituto Einstein di Matematica e del Centro Federman per lo Studio della Razionalità; e la Prof.ssa Maren R. Niehoff, titolare della cattedra Max Cooper di Pensiero Ebraico presso la Facoltà di Lettere e Filosofia. Al Technion, hanno ricevuto le sovvenzioni il prof. Michael Glickman, preside della Facoltà di Biologia, e la prof.ssa Jackie Schiller della Facoltà di Medicina Rappaport. Il Weizmann Institute of Science ha avuto sei vincitori: Irit Dinur della Facoltà di Informatica, Mike Fainzilber del Dipartimento di Scienze Biomolecolari, Sarel Fleishman del Dipartimento di Scienze Biomolecolari, Itay Halevy del Dipartimento di Scienze della Terra e Planetarie, Michal Irani, preside della Facoltà di Matematica e Informatica, e Rony Paz del Dipartimento di Scienze Cerebrali. Tre i premiati dell’Università di Tel Aviv: Yair Bar-Haim della Sagol School of Neuroscience, Amir Shpilka del Dipartimento di Informatica e Rafael Pass, anch’egli del Dipartimento di Informatica.
• Gran maestro di matematica Nel suo annuncio, la Hebrew University ha sottolineato che il Prof. David Kazhdan è stato premiato per “la sua ricerca sulla scoperta di simmetrie nascoste in vari campi matematici e l’esplorazione delle loro applicazioni. Il suo lavoro mira a illuminare connessioni inaspettate tra teorie matematiche diverse e a sfruttare queste simmetrie per risolvere problemi intricati”. Quando gli è stato chiesto di parlare delle sue ricerche nel corso di una telefonata, Kazhdan, 77 anni, ha osservato che “è del tutto impossibile presentare queste idee al grande pubblico”. La matematica di alto livello, “in generale, non si può spiegare a una persona normale: si usano termini che non conosce”, ha aggiunto. “Molte cose non sembrano simmetriche, ma ci sono connessioni nascoste”, ha proseguito. La sua ricerca è “un modo per trovare sintesi inaspettate. È difficile da spiegare. Sottolineo il fatto che, anche se lo sviluppo della matematica astratta di solito non ha applicazioni immediate, la matematica in generale è estremamente utile e applicabile, ma ci vuole tempo perché le cose si realizzino”. Kazhdan ha citato la meccanica classica newtoniana e la “serie di Fourier della matematica pura”. Entrambe, ha detto, sono oggi utilizzate nell’informatica e in molti altri modi, ma sono nate “come un pensiero totalmente astratto”. Ha ammesso che la sua ricerca matematica non ha “applicazioni pratiche immediate”, ma ha detto che a lungo termine potrebbe essere utilizzata in una miriade di modi. “Non so come la gente la applicherà”. Nato a Mosca nel 1946, Kazhdan ha avuto una carriera illustre ad Harvard, dove ora è professore emerito, prima di immigrare in Israele nel 2002. Ha ottenuto una borsa di studio MacArthur nel 1990-1995 e ha ricevuto il Premio Israele per il suo lavoro nel 2012. Ha ricevuto anche il prestigioso Premio Shaw per le Scienze Matematiche nel 2021. È la terza volta che riceve una sovvenzione avanzata dell’ERC per la sua ricerca. Kazhdan intende utilizzare la sovvenzione per finanziare studenti post-dottorato, organizzare conferenze e invitare docenti dall’estero.
• L’aggiustatore di rumore L’altro matematico della Hebrew University premiato, il Prof. Nathan (Nati) Linial, si occupa di codici a correzione di errore. “Tutte le comunicazioni, sia tra esseri umani che tra macchine, sono soggette a disturbi esterni”. Nella sua ricerca, Linial e i suoi studenti hanno sviluppato metodi matematici che impiegano l’analisi, l’ottimizzazione e la combinatoria per analizzare l’equilibrio ottimale tra il tasso di un codice di correzione degli errori e il numero di errori che può correggere”, si legge nell’annuncio. Linial, un uomo cordiale ed entusiasta, indossava una maglietta di Petaluma quando è stato contattato via Zoom in un’aula, per la piccola città californiana dove ha contribuito a sviluppare il “modello Petaluma” per la teoria dei nodi, un aspetto delle teorie matematiche che ricerca. “In generale, la mia ricerca si occupa di problemi famosi e difficili. Mi sto impegnando a fondo per risolverli. I problemi sono così noti e difficili che anche se facciamo qualche progresso, è fantastico”, ha detto. Il problema principale “riguarda la codifica e i codici a correzione di errore. Si tratta di un problema molto importante in molti modi diversi”, ha detto. Quando i computer comunicano, c’è “sempre del rumore”, cioè piccoli errori o modifiche indesiderate, “quindi il ricevitore non sempre riceve ciò che il mittente ha inviato”. “Questo si chiama ‘problema della distanza e della velocità’ nei codici. Per quanto possa sembrare strano, si tratta di una questione fondamentale e la cosa sorprendente è che gli ultimi progressi significativi sono stati fatti alla fine degli anni ’70, quindi siamo rimasti bloccati per molti anni”, ha detto Linial. La ricerca che lui e i suoi studenti stanno conducendo rappresenta “alcune nuove idee, alcuni progressi iniziali” su questo tema, ha detto. “I codici sono utilizzati ovunque, in ogni comunicazione. Molte tecnologie critiche dipendono da codici puliti… I codici a correzione di errore sono ovunque. Si tratta di questioni fondamentali e critiche per molte tecnologie”, ha sottolineato. È la seconda volta che Linial riceve una sovvenzione avanzata dell’ERC. Linial intende utilizzare i fondi per assumere altri studenti post-dottorato e investire in cluster di computer, ovvero una serie di potenti computer collegati tra loro per eseguire processi e test avanzati. Linial prevede anche di utilizzare i fondi per inviare i suoi studenti a conferenze all’estero e organizzare incontri accademici in Israele. “A causa della situazione politica del Paese, è un buon servizio portare persone dall’estero. Penso che in questi tempi le buone notizie siano poche e lontane tra loro. Mi rende molto felice… I premi sono fantastici. Ne abbiamo ottenuti due in matematica e uno in scienze umane”, ha detto.
• Un nuovo modo di guardare al passato giudaico-romano La terza borsa di studio della Hebrew University è stata assegnata alla professoressa Maren R. Niehoff, storica dell’antico giudaismo e delle culture circostanti, per “la sua ricerca sull’interfaccia tra giudaismo e cultura greco-romana, con particolare attenzione all’influenza di Roma”. Il suo lavoro analizza l’evoluzione dell’ebraismo all’interno dell’Impero romano da prospettive filosofiche, legali e letterarie, scoprendo trasformazioni parallele tra i greci e i cristiani”, si legge nel bando. Raggiunta telefonicamente, Niehoff ha spiegato che “il punto principale del progetto è creare un nuovo linguaggio sulla comprensione tra ebrei, greci, cristiani, romani e latini” nel mondo antico. “Il presupposto del progetto è che Roma ha svolto un ruolo vitale” come forza imperiale e colonizzatrice, non solo influenzando la miriade di culture sotto l’impero, ma venendo a sua volta influenzata da esse, ha spiegato. “Non possiamo comprendere lo sviluppo del giudaismo, l’emergere del cristianesimo o i drammatici cambiamenti nella cultura greca senza considerare l’impatto di Roma, che di solito viene trascurato”, ha detto Niehoff. “Tutti sanno che Roma ha conquistato il mondo antico”, quindi tradizionalmente gli storici si sono concentrati sugli aspetti militari, politici ed economici della storia romana, ha spiegato. “Questo progetto vuole mettere insieme le cose, per capire come Roma ha reinterpretato il patrimonio internazionale” e ha influenzato le culture che i Romani hanno sottomesso. La Niehoff intende utilizzare la sovvenzione per costruire un team multidisciplinare e internazionale di studenti di dottorato e post-dottorato, personale in visita e ricercatori stranieri. “L’idea è che le persone si parlino tra loro e lavorino come una squadra, per creare un gruppo di riflessione che lavori insieme quotidianamente”, ha detto. Tutte le fonti primarie sono digitalizzate, il che facilita questo tipo di collaborazione. Oltre a prevedere la pubblicazione dei risultati della ricerca, la Neihoff spera che il suo lavoro abbia “un impatto molto concreto sul sistema educativo”. Attraverso contatti con il Ministero dell’Istruzione, intende condurre seminari speciali per gli insegnanti di storia delle scuole superiori per “rinfrescare un po’ il modo in cui l’ebraismo antico viene insegnato nelle scuole superiori in Israele… speriamo di ottenere risultati molto concreti”. Una parte consiste nel tradurre alcuni testi dal greco e dal latino [in ebraico] in modo che siano più facilmente disponibili, così che i liceali e i lettori colti possano fare da soli i collegamenti tra le diverse culture”.
L’Indonesia disposta a stringere rapporti diplomatici con Israele in cambio dell’ammissione nell’OCSE
di Pietro Baragiola
L’Indonesia ha finalmente accettato di instaurare rapporti diplomatici con Israele come parte dell’accordo per essere ammessa nella prestigiosa Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) che si occupa di promuovere la crescita economica del mondo intero. La decisione è stata annunciata da un funzionario israeliano che ha preferito mantenere l’anonimato. Questo informatore ha confermato le informazioni divulgate precedentemente dal quotidiano Yediot Ahronot secondo cui ci sarebbero stati mesi di colloqui segreti tra Gerusalemme e Giacarta mediati dal Segretario generale dell’OCSE Mathias Cormann in modo da garantire un riavvicinamento tra i due Paesi. Per entrare a far parte dell’OCSE i 38 Paesi membri devono dare un sostegno unanime ma Israele si è sempre opposta all’aggiunta dell’Indonesia all’interno dell’organizzazione per via dell’antagonismo mostrato in più occasioni nei confronti di Gerusalemme. La normalizzazione dei rapporti tra questi due Paesi segnerà un’incredibile svolta: l’Indonesia sarà finalmente in grado di mettersi in pari con le nazioni economicamente avanzate mentre il mondo intero vedrà scomparire i movimenti anti-israeliani dal Paese con il maggior numero di musulmani. Inoltre, se l’Indonesia ha sempre mantenuto rapporti sottotono con Israele questa sarebbe la prima volta in cui si manifesterebbero legami aperti tra i due. “Senza avere legami ufficiali, gli scambi diretti e indiretti tra Israele e Indonesia nel commercio, nella tecnologia e nel turismo ammontano a circa 500 milioni di dollari all’anno” ha dichiarato la direttrice esecutiva dell’Israel-AsiaCenterRebecca Zefferi durante un’intervista al Times of Israel. “E con questo nuovo accordo i profitti tenderanno sicuramente ad aumentare”.
• Divergenze tra Israele e Indonesia Con una popolazione di circa 280 milioni di abitanti l’Indonesia è ilquarto Paese più popolato al mondo e il paese musulmano più popolato al mondo. Le proteste anti-israeliane sono dunque molto frequenti in questo Paese che da sempre è stato un convinto sostenitore della creazione di uno Stato palestinese indipendente. Questo odio anti-israeliano ha portato diverse conseguenze negative per l’Indonesia: una delle più recenti ha avuto luogo nel marzo 2023 quando il Paese è stato privato del ruolo di ospite della Coppa del Mondo Under 20 maschile per via della massiccia opposizione dimostrata dai suoi tifosi verso la partecipazione di una squadra di calcio israeliana al torneo. Negli ultimi mesi, sotto il presidente indonesiano Joko Widodo, l’Indonesia ha ripetutamente condannato le violenze a Gaza ed ha esortato gli altri Paesi a “fermare l’escalation, a interrompere l’uso della violenza, a concentrarsi sulle questioni umanitarie e a risolvere una volta per tutte il problema alla radice, ovvero l’occupazione israeliana della Palestina”. Sulla scia di questi fatti a gennaio Giacarta ha presentato una causa contro Israele alla Corte Internazionale di giustizia dell’Aia e ha anche appoggiato l’accusa di genocidio presentata dal Sudafrica contro lo Stato ebraico. Nonostante da tempo girassero voci di un’eventuale normalizzazione dei rapporti tra Israele e Indonesia, l’ufficio di Widodo ha sempre smentito tali teorie. Tuttavia, martedì 9aprile è avvenuto un primo evidente segnale di questo riavvicinamento tra i due Paesi: Israele ha permesso all’Indonesia di partecipare ad un lancio di aiuti umanitari a Gaza, segnando la prima volta che un aereo indonesiano ha attraversato lo spazio aereo israeliano. Solamente due giorni dopo, giovedì 11 aprile, sono state ufficialmente confermate le voci di un accordo diplomatico tra i due.
• L’accordo Secondo la testimonianza del funzionario israeliano, in cambio dell’instaurazione di relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico, Gerusalemme avrebbe revocato la propria opposizione a che l’Indonesia diventi il 39° membro dell’OCSE. Dopo tre mesi di colloqui segreti tra Gerusalemme e Giacarta, il segretario generale dell’OCSE Mathias Cormann ha inviato una lettera al Ministro degli Esteri israeliano Israel Katz per informarlo sulle condizioni dell’accordo. “Sono lieto di annunciare che il Consiglio ha ufficialmente accettato la condizione anticipata, chiara ed esplicita che l’Indonesia mantenga relazioni diplomatiche con tutti i membri dell’organizzazione prima di qualsiasi decisione di accettazione nell’OCSE” ha scritto Cormann nella lettera. “Inoltre, qualsiasi decisione futura di accettare l’Indonesia come membro dell’organizzazione richiederà un accordo unanime tra tutti i membri, compreso Israele. Sono convinto che questo concetto vi sia chiaro”. Il giornale e il sito online della rivista Ynet hanno confermato che mercoledì 10 aprile Katz ha inviato una lettera di risposta accogliendo con favore queste condizioni. “Condivido la vostra aspettativa che questo processo rappresenti un notevole passo avanti per l’Indonesia, così come mi aspetto un cambiamento positivo nei suoi rapporti verso Israele e in particolare una rinuncia alla politica discriminatoria nei suoi confronti, in modo da instaurare solide relazioni diplomatiche tra le parti” ha affermato Katz. Secondo le previsioni, il processo di adesione dell’Indonesia potrebbe richiedere dai due ai tre anni, durante i quali il Paese sarà sottoposto a un intenso processo di revisione. Come stato membro, Israele avrà il diritto di porre veto all’adesione in qualunque momento se l’Indonesia non riuscirà a stabilire legami diplomatici entro i tempi richiesti.
"Attacco contro Israele in 24-48 ore". La rivelazione Usa sui piani dell'Iran
Secondo l'intelligence di Washington, l'Iran potrebbe attaccare nelle prossime 24-48 ore. Lo stato ebraico prepara l'eventuale contrattacco qualora la rappresaglia arrivi dall'interno della Repubblica Islamica.
In uno scenario che rasenta sempre più il Il deserto dei Tartari di Buzzati, l'attacco eventuale da parte dell'Iran a Israele sembra essere atteso dal mondo intero. Tuttavia, stenta fortunatamente a non giungere, nonostante la rappresaglia minacciata in seguito all'attacco al Consolato di Damasco del 1 aprile scorso.
• Il piano di Israele in caso di attacco Ma lo stato ebraico sceglie già di passare ai fatti in via preventiva, approvando il piano per un attacco all'Iran nel caso in cui venisse colpito dal territorio della Repubblica islamica. Inoltre, è stato potenziato il coordinamento tra gli Stati Uniti e l'esercito israeliano. A riportarlo la stampa israeliana. Il capo del Pentagono, il generale Lloyd Austin da parte sua ha assicurato a Yoav Gallant che "Israele può contare sul pieno sostegno degli Stati Uniti per difenderlo dagli attacchi iraniani, che Teheran ha pubblicamente minacciato". Il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth sostiene che l'esercito israeliano e il Mossad saranno pronti alla risposta qualora Teheran dovesse bombardare Israele dall'interno del territorio iraniano e non attraverso i suoi proxy. Secondo gli 007 di Washington, la ritorsione iraniana sarebbe imminente e potrebbe essere "più grande del solito". Anche in quest'ottica, l'esercito israeliano ha vietato ai suoi membri di viaggiare all'estero senza permesso in vista dell'atteso raid. Il Financial Times, citando fonte diplomatica anonima, riporta che gli Stati Uniti hanno messo in guardia l'Iran dall'attaccare strutture o cittadini statunitensi. Gli Stati Uniti, inoltre, hanno ribadito come l'attacco israeliano non dovrà essere utilizzato come pretesto per un'ulteriore escalation nella regione.
• Le informazioni di Washington Secondo l'intelligence americana l'Iran potrebbe reagire sul suolo israeliano nelle prossime 24-48 ore. Indiscrezioni che trapelano negli Stati Uniti a mezzo Wall Street Journal. Tuttavia, lo stesso giornale cita anche una fonte vicina al regime iraniano, secondo cui Teheran non avrebbe preso ancora alcuna decisione definitiva. Gli Stati Uniti, che mantengono il loro sostegno a Israele nonostante le tensioni e le frecciatine fra Tel Aviv e Washington, hanno annunciato la limitazione degli spostamenti in Israele del proprio personale diplomatico e dei membri delle loro famiglie. Nel contesto di escalation con l'Iran, il generale americano responsabile del Medio Oriente, Michael Erik Kurilla, si trova in loco per discutere con i vertici militari del Paese delle minacce alla sicurezza nella regione. Il leader supremo dell'Iran, l'ayatollah Ali Khamenei, fa sentire anch'egli la propria voce: Israele sarà "punito" dopo l'attacco del 1° aprile in Siria, che ha distrutto il consolato iraniano a Damasco e ha causato la morte di 16 persone, tra cui sette membri del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie. "Se l'Iran effettua un attacco dal suo territorio, Israele risponderà e attaccherà l'Iran", ha risposto in persiano il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz.
• Dove potrebbe colpire Teheran Secondo il WsJ, all'inizio di questa settimana le Guardie rivoluzionaria avrebbero contattato l'ayatollah, proponendogli diverse opzioni per colpire gli interessi israeliani. Tra gli scenari presi in considerazione figura un attacco diretto contro Israele con sofisticati missili a medio raggio. Ad avvalorare questa tesi, nelle ultime ore, gli account di social vicini alle Guardie rivoluzionarie che hanno pubblicato diversi video che mostrano attacchi missilistici simulati contro l'aeroporto israeliano di Haifa e il suo impianto nucleare a Dimona. Un funzionario iraniano ha anche precedentemente affermato che l'Iran avrebbe invece colpito gli impianti elettricie di desalinizzazione israeliani se attaccato. Ma Khamenei non ha ancora preso una decisione, temendo che un attacco diretto possa rivelarsi controproducente, con l'intercettazione e la risposta di Israele (e relativa massiccia ritorsione) contro le infrastrutture strategiche dell'Iran. Teheran e i suoi alleati potrebbero anche attaccare il Golan o anche Gaza per evitare un attacco all'interno del territorio riconosciuto a livello internazionale come "Israele". Altra opzione, di cui avevamo parlato anche da queste colonne, sarebbe quella di colpire le ambasciate israeliane,in particolare nel mondo arabo, per dimostrare loro che i legami con Tel Aviv potrebbero costare molto caro.
"Hamas si aspetta la vittoria con l'aiuto di Biden", avverte un ex ufficiale dell'intelligence
A sei mesi dall'inizio della guerra, gli osservatori israeliani ritengono che Hamas non abbia rinunciato al suo fanatico obiettivo di uscire vincitore.
Yahya Sinwar, leader del movimento palestinese di Hamas,
gesticola durante un comizio a Beit Lahiya il 30 maggio 2021
Secondo gli osservatori israeliani, la leadership di Hamas a Rafah è ancora aggrappata alla sua visione fanatica della vittoria sei mesi dopo l'inizio della guerra con Israele. "Finché non saranno sconfitti in modo decisivo, hanno la possibilità di rimanere in vita a Gaza. Ecco perché sono positivi, o almeno ottimisti, sull'esito della guerra", afferma il generale di brigata in pensione Yossi Kuperwasser, ex capo del dipartimento di ricerca e valutazione dell'intelligence militare israeliana e attualmente direttore del progetto di affari regionali presso il Jerusalem Centre for Public Affairs. "Hanno pagato un prezzo elevato, ma ai loro occhi hanno anche compiuto una grande impresa il 7 ottobre. In generale, vedono il risultato come positivo perché hanno la possibilità di rimanere al potere. Questa è la cosa più importante per loro in relazione a Gaza", ha aggiunto. "In Giudea e Samaria, credo che l'equilibrio sia misto. La terza intifada che loro [la leadership di Hamas] si aspettavano non si è materializzata. Il livello di terrorismo in Giudea e Samaria è stato doloroso e ha comportato un pesante tributo per Israele, ma non ha sorpreso Israele quanto l'azione del 7 ottobre", ha affermato, "perché Israele è stato molto energico nel colpire tutte le infrastrutture terroristiche, specialmente quelle di Hamas in Giudea e Samaria". Tuttavia, ha aggiunto: "Possono anche vantarsi del fatto che l'opinione pubblica palestinese sostiene fortemente quello che hanno fatto, e il sostegno dell'opinione pubblica palestinese è considerevole". Hamas sperava che i suoi sforzi per intensificare il terrorismo in Giudea e Samaria in collusione con l'Iran, compresi i tentativi di contrabbandare armi iraniane nell'area, avrebbero creato un nuovo fronte di guerra. Sebbene questo non sia accaduto, la popolarità di Hamas tra i palestinesi in Giudea e Samaria rimane alta e l'Autorità Palestinese non ha condannato l'attacco di massa del 7 ottobre, ha dichiarato Kuperwasser. "Dall’altra parte, l'Autorità palestinese critica Hamas per i danni che ha causato nella Striscia di Gaza. Le tensioni interne al sistema palestinese permangono", afferma Kuperwasser, ma ciò non ha influito sull'ampio sostegno pubblico a Hamas. Nel nord, Hamas "si aspettava di più da Hezbollah", ha detto Kuperwasser. "L'IDF sta intraprendendo azioni mirate contro Hezbollah e Hamas in Libano e sta pagando un prezzo elevato per questo, eliminando attori importanti e centrali. Hamas non è riuscito ad attirare Hezbollah nella guerra oltre i confini stabiliti da Nasrallah", ha detto. "La solidarietà di Hezbollah è positiva per Hamas, ma non costringe Israele a dispiegare grandi forze a nord in questa fase. E può farlo anche a Rafah, se lo decide". Secondo Kuperwasser, Hezbollah attualmente non riesce a limitare la libertà d'azione di Israele, cosa che impedirebbe un'operazione a Rafah. "Al momento, c'è la possibilità che [Hamas] raggiunga i suoi obiettivi e rafforzi la sua posizione all'interno del sistema palestinese, ricevendo al contempo il sostegno dell'asse iraniano e dell'asse dei Fratelli Musulmani", ha affermato. "Si veda, ad esempio, la mossa economica della Turchia contro Israele. E Hamas potrebbe rimanere al potere. Lo ritengono ancora possibile. Ma all'interno di Hamas c'è anche il timore che ciò non accada e che Israele finisca per invadere Rafah e conquistare l'intera Striscia di Gaza. Questa preoccupazione esiste ancora. Ecco perché non suggerisco a nessuno di fare un bilancio della guerra solo perché sono passati sei mesi", ha avvertito. Tuttavia, è innegabile che tutta la strategia di Hamas oggi consiste in una campagna di pressione globale per costringere Israele a porre fine alla guerra prima che Hamas crolli a Gaza. “Per loro il modo per vincere la campagna passa attraverso [il Presidente degli Stati Uniti Joe] Biden", ha detto. "Tutto si riduce a fare pressione su Biden affinché lui faccia pressione su Israele e lo convinca a fermarsi prima che Hamas crolli a Gaza. Questa è l'idea di fondo. L'uso di ostaggi israeliani da parte di Hamas, la manipolazione delle sofferenze dei civili palestinesi a Gaza, le attività dei loro alleati all'interno e all'esterno del sistema palestinese" sono tutti al servizio di questo obiettivo. "Tutte le proteste e le pressioni politiche a livello mondiale sono considerate positive da Hamas. Così come le attività dei Democratici [americani] e di altri attori occidentali contro Israele, tutte le pressioni su Israele", ha aggiunto. “Questo non è ancora sufficiente per dire che l'obiettivo è stato raggiunto, ma ci sono certamente alcuni successi lungo la strada, e vedono molto positivamente la pressione americana su Israele". Michael Barak, ricercatore senior e responsabile della Ricerca sulla Jihad Globale presso l'Istituto Internazionale per l'Antiterrorismo (ICT) e docente presso la Scuola Lauder di Governo, Diplomazia e Strategia dell'Università Reichman di Herzliya, ha affermato che sebbene il piano di Hamas di scatenare un'ampia ondata di violenza in Giudea e Samaria durante il Ramadan sia fallito, Hamas ha obiettivi a più lungo termine. "Nel medio termine, considerano ciò che sta accadendo un successo, almeno se si crede agli articoli e alla propaganda di Hamas", ha detto Barak. "Perché pensano che l'attuale guerra sia un successo? Tra le 20 ragioni che elencano c'è il rafforzamento di quella che chiamano "la coscienza della resistenza in Cisgiordania". Nonostante il successo delle operazioni anti-terrorismo di Israele, i giovani, almeno secondo Hamas, vedono quello che sta accadendo a Gaza e la loro determinazione a unirsi alla lotta contro Israele sta crescendo", ha detto. "In secondo luogo, l'Autorità Palestinese non è più un attore, è un 'cavallo morto' che non rappresenta realmente i palestinesi, e quindi è solo una questione di tempo prima che venga sostituita, secondo Hamas", ha aggiunto. Hamas intende partecipare a una futura leadership dell'Autorità palestinese che potrebbe prendere il potere a Gaza, il che significherebbe che Israele non raggiungerebbe uno dei suoi principali obiettivi di guerra, ha avvertito Barak. A livello internazionale, Hamas vede che Israele è isolato, vede la profonda spaccatura tra gli Stati Uniti e Israele, e questo lo incoraggia, ha detto Barak. "Iahya Sinwar è anche incoraggiato dal fatto che Israele è sull'orlo dell'erosione economica. La resistenza sociale si sta indebolendo. Vede la pazienza del popolo palestinese a Gaza e il fatto che non agisce contro Hamas, il che dimostra che Hamas è l'unica risposta a Israele, non importa quanto tempo ci vorrà", sostiene. "Hamas non è scoraggiato. Al contrario, gli eventi li stanno incoraggiando. La leadership di Hamas sta andando fino in fondo. Hamas sta trascinando i colloqui con Israele sul rilascio dei prigionieri e finge di voler ottenere un successo significativo che dimostra che Hamas si preoccupa anche della popolazione civile", ha continuato Barak. Hamas non si sente molto sotto pressione e continua a controllare Rafah, al confine meridionale della Striscia di Gaza, dove mantiene una forza di polizia con i suoi quattro battaglioni rimanenti. Le tensioni tra Israele ed Egitto su Rafah sono un'ulteriore fonte di incoraggiamento per Sinwar. Barak ha ricordato che è stato proprio Sinwar a respingere qualsiasi compromesso nel periodo precedente all'accordo su Gilad Shalit del 2011, con il quale Israele ha rilasciato 1.027 prigionieri di sicurezza palestinesi - tra cui lo stesso Sinwar. "In realtà è stato Sinwar a far deragliare ripetutamente l'accordo chiedendo che Israele rilasciasse tutti i prigionieri che aveva. E cosa ha fatto Israele? Lo ha messo in isolamento e ha firmato l'accordo con i leader di Hamas Mahmoud al-Zahar e Salah al-Arouri e i rappresentanti della prigione", ha detto Barak. "Tutto questo dimostra che a Sinwar non interessa che Gaza sia ridotto in macerie, purché ottenga i risultati che desidera. Dal suo punto di vista, questi sono l'isolamento di Israele nel mondo, i problemi economici e il rafforzamento del suo sostegno tra la popolazione musulmana, sia in Occidente che nel mondo musulmano e anche in Cisgiordania", ha detto. Per quel che riguarda Israele, Sinwar si è sentito incoraggiato dalle proteste delle famiglie degli ostaggi e dalle richieste di dimissioni di Netanyahu. In definitiva, secondo Barak, Sinwar è guidato da una concezione religiosa molto forte, diffusa nei gruppi jihadisti islamici e chiamata in arabo "somud", che significa “ferma perseveranza". "Questo significa che anche se ora tutto sembra buio, tutto sembra catastrofico, devi dimostrare di credere in Dio fino alla fine. E poi Dio alla fine ti sorriderà. Questo è quello che credono".
(Israel Heute, 12 aprile 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
‘Flowers’: la nuova e la più grande mostra di fiori in Israele. Dopo gli eventi tragici degli ultimi mesi, la festività di Pesach sarà accompagnata da una quantità immensa di colori. Tale esibizione avrà luogo dal 23 al 30 aprile 2024 nel complesso di Expo a Tel Aviv e prevede l’esposizione di circa 2 milioni di fiori provenienti da tutto il mondo, i quali, uniti tra loro, compongono diverse strutture magiche. La mostra inizia presentando un mondo tropicale, nel quale sarà possibile osservare diversi animali composti da fiori, come, ad esempio, uccelli, farfalle, scimmie e serpenti, oltre che altri animali enormi.
Continuando il viaggio incantato, si potrà notare un labirinto di fiori, un lago con cigni e un’isola al centro per poi arrivare alle stelle, alla luna e al sole.
Infine, la terza parte della mostra approda nel mondo fantastico delle fiabe e, in particolare, in quello di Alice nel Paese delle Meraviglie, con scacchiere e utensili molto grandi a forma di fiori.
Con 129 shekel si potrà, dunque, assistere ad una stravagante mostra floreale, il cui allestimento è stato affidato a Haya Aloni e a Gil Taichman.
L’esperienza sarà un arricchimento tanto per gli adulti quanto per i bambini, che potranno godersi l’esperienza in compagnia della famiglia anche attraverso proiezioni di film sui fiori, cabine fotografiche, fontane d’acqua, aree di sosta e stand gastronomici, dando così forma e colore alla loro immaginazione.
Intervento accorato del giornalista Klaus Davi che, ospite della Comunità Ebraica Milanese, ha fatto una presentazione sul potere di Hamas di condizionare i social network e manipolare i giovani universitari . Dati alla mano, Klaus Davi ha spiegato alle oltre 3.000 persone sopraggiunte per assistere alla giornata di commemorazione delle vittime del 7 ottobre che, nel giro di 6 mesi, sono stati diffusi oltre 30 mila video fake dall’organizzazione terroristica. Secondo i dati citati da Klaus Davi, Hamas ha prediletto per le sue incursioni piattaforme come TikTok e Telegram (su tutti), oltre che X e Instagram.
Klaus Davi ha attaccato Telegram definendolo una ‘zona franca’ della propaganda antisemita e ha criticato l’élite giornalistica e politica italiana per essersi dimostrata disattenta rispetto al potere manipolatorio dei terroristi arabi. Nel suo applauditissimo intervento Davi ha anche citato dati elaborati da OmnicomMediaGroup per il quotidiano Libero secondo cui i servizi televisivi dedicati alle sigle terroristiche arabo-palestinesi contano di un grado di attenzionalità superiore rispetto a Israele del 30%. “Hamas ha un’immagine più pseudo rivoluzionaria e interpreta una certa attenzione dei giovani”, ha dichiarato durante l’intervento Klaus Davi. Per il massmediologo le proteste nelle università sono assolutamente legittime e non vanno minimamente ostacolate, ma sono frutto della manipolazione di Hamas a cui Israele non ha saputo contrapporre una strategia convincente.
(strettoweb, 12 aprile 2024)
“Dal 7 ottobre la vita degli israeliani è cambiata completamente. Ma ancora una volta Israele risorgerà dalle ceneri”
di Davide Romano
Ayelet Nahmias-Verbin
è una di quelle donne speciali, non credo sia capace di stare ferma. Giurista, mamma di tre figli, manager di aziende, parlamentare alla Knesset tra il 2015 e il 2019, è stata anche assistente di Yitzhak Rabin. La sua visita a Milano è legata al fatto che da 4 anni gestisce il “Fondo per le vittime del terrorismo”, che con il pogrom del 7 ottobre ha visto un’impennata di richieste.
Inizio l’intervista scherzando, forse perché conscio della drammaticità del tema che andremo a trattare. Le chiedo:
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“Ho visto il suo curriculum, ma quante Ayelet ci sono?”
Sorride, e scherza: “Probabilmente ho una gemella…..e spero che non sia cattiva come quelle dei film dell’orrore….”. Poi aggiunge: “scherzi a parte, sono sempre stata molto attiva nel sociale, nell’economia e nella politica. Mi sento a mio agio con le persone, le capisco, e forse per questo mi sento adatta alla politica, dove bisogna essere sia empatici sia sapere prendere decisioni rapidamente. La base di tutto è ascoltare il prossimo, solo così puoi assumere incarichi delicati come essere presidente del Fondo per le vittime del terrorismo. Parlando con le persone ho potuto capire la prospettiva da assumere e capire di cosa la gente ha bisogno. A partire dalla riabilitazione, che è importantissima.
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Ci sono differenze tra le vittime del 7 ottobre e le altre?
22 anni fa è stato fondato il fondo vittime da una iniziativa del Keren Hayesod. Avevamo in carico 9mila persone prima del 7 ottobre. Altre 9 mila si sono aggiunte dopo il pogrom. Lo stesso numero. Fa impressione. Ci siamo occupati di tutto: dalle garanzie economiche a quelle relative alla salute. La dimensione del bisogno degli aiuti è enorme. Il fondo era dotato di 4 milioni di dollari, ora stiamo raccogliendo molto di più e con molte più persone che lavorano con noi. L’importante per noi è esserci. Per ogni famiglia e per ogni vittima.
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A proposito dei volontari, ho ricevuto tante testimonianze dirette di gesti commoventi volti ad aiutare le vittime o gli sfollati. Perfino il cibo per i cani veniva fornito gratuitamente.
Le persone della società civile sono state incredibili e molto coinvolte. Il 7 ottobre le persone hanno capito che dovevano esserci per le vittime che hanno perso tutto: casa, partner, figli. È stato un attacco terribile, ma questa reazione è stata davvero poderosa e mi dà speranza perché ognuno in Israele ha aiutato l’altro, nonostante le differenze politiche. E sono molto orgogliosa di questo, non credo che altri popoli al mondo sarebbero stati così bravi con i loro fratelli e sorelle meno fortunati.
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Cosa ricorda di Yitzhak Rabin? Ci racconta un episodio che le è rimasto nel cuore?
Era il mio mentore. Lui vedeva se stesso come al servizio del popolo di Israele. Mi ricordo che nel 1991 venne a parlare durante un inverno freddo a un incontro di partito dove c’erano solo 4 persone. Incredibilmente parlò come se ci fossero 400 persone. Sono stata privilegiata a lavorare con lui. La sua visione era unica. E a questo proposito noi ci teniamo a dire: aiutiamo tutte le vittime, ebrei e arabi, senza distinzioni. Questo lo devo a Rabin che incarnava questo modo di vedere il mondo. Lui rispondeva a tutte le lettere: da quelle scritte dai bambini a quelle degli adulti. Era un mensch (una brava persona, in Yiddish, NdR) ed era rispettato da tante persone che non erano suoi elettori.
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Com’è cambiata la tua vita dopo il 7 ottobre?
Mio marito è partito militare la mattina del 7 ottobre. Mi ricordo precisamente di lui che parte per la guerra. La vita è cambiata completamente. Sono molto coinvolta in questa cosa, sono molto impegnata nel Fondo per aiutare tutti, e sono molto connessa con le vittime. Piango molto. E visto che vado in televisione abbastanza spesso, la gente mi ferma per strada per chiedermi: “ora cosa succederà?” Pensano io sappia molto di più degli altri, ma non è così. Io racconto sempre di chi è ancora ostaggio, anziani e donne violentate ogni giorno. La mia vita non è mai stata così. Mi sento il dovere di dare un messaggio di speranza. È difficile ma siamo risorti dalle polveri nel 1945 e ora dobbiamo rinascere nuovamente dalle ceneri del 7 ottobre. E risorgeremo, perché non possiamo fare altro. Israele necessita di essere forte perché la strada è difficile e le minacce sono molteplici. Dobbiamo essere forti per i nostri figli
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Vi occupate anche di chi ha perso il lavoro?
Noi ci occupiamo soprattutto della riabilitazione psicologica e fisica. Ma posso dirti che ci sono molte sfide economiche: la guerra costa tanto, in tanti hanno perso il lavoro. Guardiamo a tutte le necessità: dove la gente vive, lavoro, salute mentale, salute fisica, educazione bambini, welfare in generale. Noi cerchiamo di aiutare tutti. Ma la principale è la riabilitazione delle persone. Ministro e Fondo sono molto dedicati al supporto medico. E siamo privilegiati nel rapporto con il governo.
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Ci può dire qualcosa dei bambini. Qualcuno spera che – essendo giovani – forse non saranno segnati dall’orrore come gli adulti.
I bambini sono rimasti molto traumatizzati. Gali Tarshansky, 13 anni, rapita dopo che suo fratello è stato ucciso, è stata rilasciata il 29 novembre. Lei era impercettibilmente traumatizzata. Ma i bambini hanno molto sentito il trauma, non è vero che l’hanno subito meno. Sono stati traumatizzati dai terroristi: non potevano parlare né piangere. E hanno addirittura sviluppato un nuovo alfabeto. Sono silenziosi, e temo che non conosceremo mai la loro vera storia. Servirà tempo per capire tutto.
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Quale messaggio vuole mandare alla nostra Comunità?
Ringrazio per il sostegno a Israele e per permetterci alle vittime di aiutarle. Non avete idea di quanto sia importante per loro sentire l’abbraccio delle comunità ebraiche in giro per il mondo. Siate forti! Questa guerra sappiamo che ha un effetto su di voi. Dovete capire che Israele sta lavorando per mettere in sicurezza il proprio popolo. Hanno provato a spazzarci via. Il mondo si aspetta che Israele si trattenga. Ma noi abbiamo il dovere di andare avanti. Mi ricordo che c’erano persone speciali vicino al confine di Gaza, gente che voleva la pace e che aiutava i figli dei palestinesi a curarsi negli ospedali israeliani. E anche loro sono stati assassinati dai terroristi. Ci sono persone innocenti a Gaza? Lo spero. Aspetto sempre un palestinese che dia un suggerimento all’esercito per liberare gli ostaggi. Ci sarà un Giusto. C’erano nella II guerra mondiale….So che è duro essere ebrei. Ma faremo l’impossibile per rendere sicura Israele e le comunità ebraiche in giro per il mondo.
Tazrìa’. La bocca che non sa parlare, non può salvare
di Rav Adolfo Locci
“Quando uno ha sulla pelle del suo corpo un gonfiore o una crosta o una macchia lucida, e diventa sulla pelle del suo corpo un indizio di piaga di Tzaraat/lebbra, quel tale sarà portato dal sacerdote Aronne o da uno dei suoi figli sacerdoti. Il sacerdote esaminerà la piaga sulla pelle del corpo; se il pelo nella piaga è diventato bianco e la piaga appare più profonda della pelle del corpo, è piaga di lebbra; il sacerdote, dopo averlo esaminato, lo dichiarerà impuro” (Levitico 13:2-3).
L’argomento centrale della Parasha di Tazria è costituito dalle norme che regolano una particolare, ed emblematica, malattia della pelle chiamata “Tzaraat”. Questa strana patologia, secondo la tradizione rabbinica, si abbatterebbe come punizione su colui che è dedito alla lashon hara, la maldicenza.
Quando ad una persona era diagnosticata la Tzaraat, veniva messa in quarantena, gli veniva richiesto di vivere in solitudine fuori dalla sua città e, mentre si dirigeva dalla propria casa al luogo di isolamento, avrebbe dovuto annunciare: “Tameh Tameh/Impuro Impuro”.
Il Metzora, la persona colpita da Tzaraat, doveva fare questa dichiarazione per avvertire le persone di non entrare in contatto con lui affinché non diventassero ritualmente impuri. Tuttavia, i Maestri, notarono un’ulteriore ragione per questo annuncio.
Non si trattava solo di informare della sua condizione perché gli stessero a distanza, ma era anche una riservata richiesta di aiuto spirituale: per favore pregate per me!
Perché il Metzora non può pregare per sé stesso? Perché deve implorare gli altri di pregare per lui?
Il Chafetz Chayym (Rav Yisrael Meir Kagan, 1839-1933) spiega, molto semplicemente, che le preghiere del Metzora non possono essere accettate. Contaminando la sua bocca con l’uso improprio della parola, parlando male di altre persone e indulgendo in pettegolezzi, ha perso il potere della Tefillà, della preghiera, che quando esce da tale bocca è corrotta e danneggiata e non può più ottenere l’effetto desiderato.
Per questo motivo, il Metzora, non ha altra scelta che chiedere ad altri di pregare per suo conto, finché non corregge la sua colpa e si pente riacquistando così la purezza della sua bocca, condizione fondamentale affinché le preghiere pronunciate vengano accolte.
Questo è anche il motivo per cui iniziamo il giorno di Kippur con la recitazione del “Kol Nidreh”, una formula con cui annulliamo formalmente tutti i voti che abbiamo preso.
Prima di trascorrere il giorno di Kippur in preghiera e digiuno per ricevere il perdono, dobbiamo assicurarci di non essere colpevoli di peccati che coinvolgono la parola, altrimenti le nostre preghiere saranno inutili. Se le nostre bocche portano la macchia di parole proibite, allora le nostre preghiere sono inefficaci. Un pettegolo, quindi, non solo ferisce le persone di cui parla e sparla, fa molto male anche a sé stesso.
Tutti possiamo avere problemi difficili e grandi preoccupazioni, tutti abbiamo un disperato bisogno dell’aiuto del Signore, a vari livelli, e non possiamo permetterci di perdere il potere della preghiera contagiando la nostra bocca. Assicuriamoci di mantenere la nostra bocca pura, affinché le nostre preghiere abbiano l’effetto desiderato e procedano spedite verso i cieli, dove saranno accolte da “Colui che ascolta la preghiera” con benignità e soddisfazione, Shabbat Shalom.
• Il ritiro delle grandi unità
Ha fatto molta impressione in Israele la notizia che proprio in concomitanza con l’anniversario del sesto mese dal 7 ottobre, le forze armate israeliane avessero finito di ritirare anche dalla parte meridionale di Gaza e specificamente da Khan Yunis le maggiori unità dell’esercito: la conclusione di un ritiro progressivo, iniziato ormai più di un mese fa. Ora nella striscia vi sono solo reparti relativamente piccoli, che sorvegliano gli assi stradali per impedire un ritorno incontrollato degli sfollati e gruppi speciali che con l’aiuto dell’aviazione danno la caccia ai terroristi. I vertici politici e quelli militari hanno chiarito che ciò non prefigura affatto la fine della guerra né tanto meno l’accettazione della richiesta di Hamas dell’abbandono di Gaza. Ma si tratta di uno sviluppo significativo che richiede spiegazioni. E queste spiegazioni permettono di capire molte cose sullo stato attuale della guerra.
• Addestramento ed economia
La prima ragione, ufficialmente avanzata dallo Stato Maggiore, è che le divisioni sono state ritirate per addestrarle all’attacco di Rafah (che però verosimilmente non sarà molto diverso da quello avvenuto nelle altre città di Gaza) o forse per una non improbabile estensione della guerra al nord. La seconda spiegazione è economica: tenere sotto le armi per altri mesi centinaia di migliaia di persone che al momento non sono utilizzate ha un costo per l’economia che Israele non può permettersi di sostenere. Meglio dunque congedare quelli che non sono utilizzati, per farli tornare al lavoro fino a quando non saranno forse di nuovo richiamati.
• Tattica
La terza spiegazione è tattica: tenere fermi dei grossi reparti militari in territorio nemico, senza utilizzarli, significa esporli alle tattiche della guerriglia e dunque a uno stillicidio di pericolosi attacchi mordi-e-fuggi. In sostanza, se Israele non attacca Rafah, è meglio che l’esercito non sia esposto al fuoco nemico e che solo i gruppi speciali che danno la caccia ai terroristi restino nella Striscia. Ma lo spostamento delle divisioni sembra dire che l’attacco non è imminente, anche se le forze ci sono, i piani sono stati definiti e Netanyahu ha dichiarato di aver perfino stabilito una data. Distruggere i restanti battaglioni di Hamas che si nascondono a Rafah non è certo un obiettivo al di là delle forze di Israele; e anche gestire gli sfollati è tecnicamente possibile.
• L’opposizione internazionale
Questo blocco non deriva da una scelta dei dirigenti di Israele, che a ogni occasione ribadiscono tutti, al di là dei dissensi politici, la necessità di arrivare a Rafah per completare la conquista di Gaza; ma dal veto di Biden e dall’opposizione generalizzata degli stati e dei media occidentali, che si uniscono sempre più chiaramente agli alleati dell’Iran (Mosca, Cina, Sudafrica molti paesi islamici fra cui la Turchia, i neo-comunisti del Sudamerica e in genere i governi di sinistra, dall’Australia a Canada a paesi europei come Belgio, Spagna, Irlando, Norvegia). L’attacco a Rafah, che sarebbe decisivo nel risolvere la guerra, non può iniziare proprio per questa ragione, perché sarebbe la vittoria di Israele sul terrorismo e stabilirebbe un modello; ma molti paesi non vogliono che Israele vinca e che Hamas sia spazzato via – o per ragioni derivanti dalla loro politica interna e dalle alleanze internazionali pongono tante e tali condizioni ai combattimenti da rendere impossibile la vittoria, che pure dicono di auspicare in teoria. Ciò fa sì che non solo i paesi esplicitamente antisraeliani, come quelli che ho citato prima, ma anche quelli che si dicono amici di Israele (prima di tutto gli Usa, ma anche la Gran Bretagna, la Francia e per certi versi perfino l’Italia) esprimono continuamente “preoccupazioni”, richiedono “cautele” e “provvedimenti umanitari” che di fatto minacciano l’isolamento di Israele come prezzo per la prosecuzione della guerra.
• Una propaganda menzognera
Non si tratta solo delle menzogne sui numeri dei “bambini uccisi” (“12 milioni” secondo una folle dichiarazione del presidente brasiliano Lula), dei demenziali discorsi sul “genocidio di Gaza”, della sopravvalutazione di alcuni incidenti che capitano in tutte le guerre, come la morte di alcuni operatori umanitari scambiati per truppe di Hamas, di cui Israele si è prontamente scusato. Ogni argomento è buono. C’è stato uno scandalo, per esempio, sulla “rivelazione” di un sito di estrema sinistra israeliana, prontamente ripreso da giornali di mezzo mondo e diffuso in rete, per cui l’esercito israeliano userebbe un software di intelligenza artificiale come filtro preliminare per autorizzare gli attacchi a terroristi di Hamas. Si tratta ovviamente di una garanzia in più, che sottopone a una valutazione oggettiva i sospetti della presenza nemica durante le difficilissime operazioni di combattimento contro nemici travestiti da civili e nascosti fra loro; la responsabilità poi ovviamente resta dei soldati che combattono e dei loro comandanti. Ma è bastata l’esistenza di questo software a proiettare ancora una volta contro Israele un’immagine mostruosa e disumana, tratta pari pari dalla tradizione antisemita.
La guerra insomma è oggi bloccata. Israele continua a eliminare i terroristi a Gaza e nel Libano, a eliminare le loro infrastrutture (tunnel, depositi, fabbriche d’armi), ha appena concluso la seconda importantissima operazione all’ospedale (si dovrebbe piuttosto dire: la caserma) AlShifa, dove ha arrestato e eliminato centinaia di terroristi, scoprendo numerose armi e importanti documenti di intelligence. Ma non può procedere per ora né a eliminare il pericolo terrorista al nord, né a Gaza e neppure può liberare i rapiti, su cui Hamas, sentendosi rafforzato dalla demonizzazione internazionale di Israele, rifiuta anche di iniziare le trattative se Israele non si ritira e finisce la guerra dichiarandosi in sostanza sconfitto. Da questo blocco prima o poi bisognerà uscire. Netanyahu, al contrario di quel che dicono gli antisemiti nei giornali e in rete, non mostra nessuna arroganza o follia bellicista, ma da mesi cerca pazientemente di riportare l’America alla scelta comune di sconfiggere il terrorismo. Ha ottenuto qualche risultato, per esempio sono ripresi gli indispensabili rifornimenti di armi e munizioni. Ma non ha smosso il veto di Biden su Rafah. Israele pazienta. Ma prima o poi dovrà agire per non perdere la vittoria costruita finora, col consenso degli Usa o meno E quello sarà il momento più difficile per Israele e per gli ebrei del mondo.
Polizia e manifestanti durante una manifestazione per il rilascio degli ostaggi israeliani nella Striscia di Gaza e contro l'attuale governo israeliano a Gerusalemme, 30 marzo 2024
GERUSALEMME - I media arabi riportano il caos che c’èin Israele, e questo è negativo per noi. Mentre siamo in guerra dobbiamo restare uniti e non protestare. Anche se non siamo d'accordo e non ci piacciamo, non dobbiamo mostrarlo al mondo esterno. L'ho detto più volte nelle ultime settimane a tutti i miei amici che sono scesi di nuovo in piazza. Come se il popolo di Sion non avesse nulla di più importante da fare che protestare in continuazione. Alcuni protestano contro Bibi, altri per Bibi. Alcuni protestano contro Bibi e altri per Bibi. Alcuni non vogliono fare il servizio militare per motivi religiosi come i loro fratelli e sorelle e protestano; altri protestano e bloccano l'accesso alla Striscia di Gaza per gli aiuti umanitari. Tutti hanno un motivo per cui la loro protesta è così urgente, come se potesse mettere in ombra tutto, la guerra e gli ostaggi israeliani nella Striscia di Gaza. A mio avviso, questo è del tutto esagerato e folle. Il popolo di Sion viene gettato nel caos dall'esterno, e questa è l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno in questi giorni. Prima della guerra, il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah ha fatto conoscere "quanto le proteste che vedeva in Israele lo incoraggiassero ad attaccare Israele". E se nel Paese questo non si ferma, i nostri nemici diventeranno ancora più audaci.
Aviel Schneider (sec. da sin.) con la moglie Anat e Michael Löwe con la figlia
Il primo mercoledì sera di aprile, mi sono seduto con mia moglie Anat e il nostro amico Michael Löwe di Berlino e sua figlia Yaeli al Café Joshua in Azza Street (Gaza Street) a Gerusalemme, non lontano dalla residenza privata della famiglia Netanyahu a Rechavia. Michael è un navigato ambasciatore di Israele e un vero leone per la verità su Israele. Abbiamo potuto raggiungere il caffè solo a piedi, poiché tutte le strade laterali di Azza Street erano chiuse. Dopo poco tempo, il rumore si è fatto sempre più forte intorno a noi, si vedevano sempre più fiaccole da tutte le stradine laterali, la polizia bloccava tutti gli ingressi di Gaza Street con le sue auto, gli squadroni di motociclisti e i cannoni ad acqua. Ma in qualche modo i manifestanti sono riusciti a sfondare le barriere da Radak Street e a svoltare a destra in Azza Street verso la casa di Bibi. Il tutto sotto la scorta della polizia. Poi sono tornati indietro e hanno girato in un'altra strada. C'erano anche i nostri amici, naturalmente. Li ho invitati da Joshua per un drink, ma mi hanno detto che al piano di sotto era tutto chiuso. Un misto di oppositori di Bibi di ogni tipo, compresi i familiari degli israeliani rapiti a Gaza, che hanno perso la pazienza dopo quasi sei mesi e non vedono luce all'orizzonte. Non so quanti manifestanti ci fossero quella sera, un migliaio o più. Ma tra i tanti in Azza Street ho incontrato anche il mio amico e compagno di lunga data nelle riserve, Guy. Era il mio ufficiale e dopo la "festa" in strada si è comprato qualcosa da portare via al Café Josua. Come altri, vede tutto in modo diverso e crede che il governo debba essere cambiato con urgenza, altrimenti cadremmo nel baratro. Nella situazione attuale, queste proteste non servono a nulla, frustrano la popolazione del Paese e incoraggiano i nemici all'estero. La leadership di Hamas, ovunque si trovi, e il canale televisivo qatariota Al-Jazeera riferiscono 24 ore su 24 del caos nella famiglia israeliana. E secondo me, questo aumenta il prezzo che Hamas ci chiede di pagare per gli ostaggi israeliani. Negli ultimi due mesi, Israele non ha ottenuto alcun risultato nei negoziati con Hamas per un possibile accordo sugli ostaggi, nonostante il successo nella guerra contro Hamas nella Striscia di Gaza. Al contrario, Hamas sta inasprendo le sue condizioni, in primo luogo a causa del caos nelle strade del Paese e in secondo luogo a causa delle pressioni americane su Israele. In cambio del rilascio degli ostaggi, Hamas chiede ora in primo luogo un cessate il fuoco completo e permanente, in secondo luogo il ritiro completo delle truppe dalla Striscia di Gaza e in terzo luogo il ritorno incondizionato dei residenti palestinesi alle loro case nel nord della Striscia di Gaza. Questi sono i prerequisiti per i negoziati su un eventuale accordo sugli ostaggi. "Il mondo arabo ci osserva da vicino e riconosce immediatamente le manifestazioni. Infatti, hanno trasmesso la manifestazione in diretta sabato sera (30 marzo). Hanno citato l'emittente israeliana e hanno mostrato ai loro telespettatori come Israele stia sprofondando di nuovo nel caos, che metterà gli israeliani contro se stessi", ha dichiarato l'esperto di Islam Mordechai Kedar alla radio israeliana. Secondo Kedar, gli arabi intorno a noi credono che gli israeliani sconfiggeranno se stessi attraverso queste manifestazioni, volendo cose che sono contro la legge, come le elezioni. "Perché ci dovrebbero essere elezioni? solo perché a qualcuno non piace qualcuno? Vedono il caos che regna qui in Israele, e a queste persone non importa del caos finché mantengono la loro influenza sulla società israeliana, che sia attraverso la Corte Suprema o altre istituzioni".
Manifestanti protestano per il rilascio degli ostaggi israeliani detenuti nella Striscia
di Gaza e contro l'attuale governo israeliano a Gerusalemme, 30 marzo 2024
Il problema è che ci sono anche parenti di israeliani rapiti che protestano per un motivo completamente diverso. Vogliono semplicemente riavere i loro figli o i loro genitori e possono chiederlo solo al Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu che, a loro avviso, sta ritardando un accordo sugli ostaggi. Hanno perso la fiducia nel governo e vedono Bibi come responsabile di tutto ciò. "Benjamin Netanyahu sta ostacolando qualsiasi accordo per il rilascio e i rapiti stanno morendo in cattività. Dovrebbe essere rimosso dall'incarico immediatamente. Si frappone tra noi e i nostri cari", hanno dichiarato in lacrime a N12 gli israeliani i cui familiari sono detenuti a Gaza. "Joe Biden vede anche come Netanyahu stia rovinando tutto e diffondendo illusioni su Rafah abbandonando i rapiti, contrariamente alla posizione del governo e del gabinetto. Abbiamo parlato con molti membri del Likud che non capiscono perché Netanyahu si stia "piegando" a Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich. Ma questo divide anche il forum delle famiglie degli ostaggi rapiti, perché non tutti sono d'accordo. Altri mantengono un profilo basso e non vogliono ostacolare il governo. Il ministro delle Finanze religioso israeliano Bezalel Smotrich, con il quale non sono d'accordo su molte cose, ha detto di recente, e io sono pienamente d'accordo con lui: "Ci sono una manciata di famiglie che non posso e non voglio condannare. Ci sono coloro che le sfruttano cinicamente per i loro fini politici. Ai miei occhi, stanno facendo un danno enorme non solo alla vittoria nella guerra, ma anche all'unità e a tutti gli sforzi per riportare a casa i rapiti". Yahya Sinwar vede tutto questo. Sorride, applaude, si arrampica sugli alberi e rafforza la sua posizione contro Israele". Ma i miei cari amici di sinistra non vedono tutto questo, perché ciò che li spinge è spesso solo l'odio cieco verso Bibi, ed è per questo che gridano "Yalla in the streets". Anch'io non sono d'accordo con molte cose del governo e con Bibi al vertice. Ma basta con la politica! Abbiamo un nemico comune e una lotta comune. Questa è una guerra che dobbiamo vincere, non è una questione di cosa possiamo fare, ma di cosa dobbiamo fare! E la disputa politica interna, come accadeva fino al 6 ottobre, è la migliore arma dei nostri nemici contro di noi. Vediamo nelle reti e nei media arabi come il caos in Israele incoraggi i nostri nemici. Ma questo non convince alcuni dei manifestanti, soprattutto quelli che non hanno altro in mente che scendere in piazza in modo rumoroso e aggressivo. La sola idea che i soldati combattano a Gaza e al confine settentrionale del Libano e siano pronti a sacrificare la propria vita per questo Paese e questo popolo fa male. Grazie ai soldati in prima linea, i loro fratelli e sorelle nell'entroterra possono permettersi il lusso di continuare a lottare, nelle strade, in politica o nei media. Questo rende l'intera guerra inutile, quindi queste proteste devono finire.
(Israel Heute, 11 aprile 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Come l’Amministrazione Biden sta indebolendo Israele
di David Elber
L’impostazione politica dell’Amministrazione Biden sta portando concretamente a un confronto militare diretto tra Israele e l’Iran. Sulla carta gli USA dovrebbero essere l’alleato più stretto di Israele, ma, nei fatti, lo stanno indebolendo politicamente e militarmente. Questa politica è sicuramente interpretata dall’Iran come una occasione d’oro per cercare di colpire lo Stato ebraico. Si possono individuare due distinte strategie operate da Joe Biden e dal suo partito: una di natura politica e una di natura militare.
Dal punto di vista politico, l’amministrazione americana non perde occasione per accusare Israele in tutti i forum internazionali di “uso eccessivo della forza”, di causare una carestia e di non essere all’altezza degli approvvigionamenti per la popolazione di Gaza. Si tratta di una presa di posizione che sta condizionando pesantemente l’opinione pubblica la quale dà ormai per scontato che Israele affami gli abitanti di Gaza, e che ha come risultato collaterale quello di scatenare manifestazioni di odio antisemita nelle piazze di tutto il mondo. Oltre a ciò, si sta consumando un isolamento internazionale dello Stato ebraico senza precedenti: diversi paesi occidentali hanno dichiarato di volere riconoscere uno Stato di Palestina senza che vi siano i minimi requisiti legali per poterlo fare, altri hanno iniziato a parlare di embargo sulle armi o di boicottaggio vero e proprio. L’Amministrazione Biden, anziché fare sentire il proprio pieno e incondizionato appoggio a Israele fa approvare al Consiglio di Sicurezza dell’ONU risoluzioni che lo danneggiano, accusandolo di non fare abbastanza per proteggere la popolazione civile, quando gli Usa stessi e i paesi NATO in tutte le loro guerre non hanno mai messo in atto nulla di paragonabile a quello che ha fatto e sta facendo Israele. Tutto ciò ha come conseguenza quella di criminalizzare Israele in modo parossistico.
Ultimo ma non ultimo, l’Amministrazione Biden è impegnata in attacchi politici quotidiani atti a delegittimare il governo Netanyahu. A tale fine, numerosi esponenti dell’amministrazione e altri rappresentati democratici (come Chuck Shumer leader della maggioranza democratica al Senato) attaccano il governo israeliano invocando elezioni anticipate proprio quando Israele sta combattendo una guerra. È palese che un’ennesima crisi politica in Israele porterebbe a un’ulteriore posizione di debolezza del paese rispetto all’Iran e ai suoi delegati.
Se oggi Israele fosse attaccato da Hezbollah, dagli Houthi e dall’Iraq tramite gruppi di sciiti alleati dell’Iran, come potrebbe difendersi? Solamente attaccando direttamente l’Iran, che è il mandate di tutti gli attacchi, e questa azione provocherebbe nuove condanne, nuovo odio nelle piazze e un ulteriore isolamento. Senza considerare che una guerra diretta con l’Iran provocherebbe l’immediato incremento del costo del petrolio e la chiusura dello stretto di Hormuz con le prevedibili conseguenze sull’economia mondiale.
Inoltre, cosa rimarrà degli accordi di Abramo con un Israele indebolito e attaccato dall’Iran? Nessun paese arabo ha interesse ad allearsi con Israele se non in chiave anti iraniana per la sua forza militare e di deterrenza.
Dal punto di vista militare, se gli USA decidessero di bloccare le forniture militari nei confronti di Israele, ciò contribuirebbe a indebolire ulteriormente il paese, incentivando i suoi nemici a prenderlo di mira.
Israele non può combattere una lunga guerra contro gli iraniani e i suoi alleati su diversi fronti: Libano, Siria, Iraq e Yemen, dovrà necessariamente e strategicamente colpire direttamente l’Iran che è a capo di questi gruppi paramilitari e terroristici. Per Israele l’unica soluzione possibile è colpire chi sta a capo di tutti i gruppi. Le implicazioni potrebbero essere spaventose sotto ogni punto di vista. Difficile fare previsioni fino a dove una guerra così si potrebbe spingere.
Per tutti questi motivi, gli Usa dovrebbero dare il loro totale appoggio a Israele, ma invece fanno il contrario, stanno indebolendo Israele per renderlo vulnerabile: agiscono in modo sconsiderato e pericoloso. Per 50 anni la Guerra Fredda si è retta sulla deterrenza cosa che ora manca completamente a Israele, percepito in una condizione di vulnerabilità come mai in passato.
Ultime notizie da Israele: incontro con il giornalista Michael Sfaradi
di Anna Balestrieri
Ci sarà un ingresso militare a Rafah? Perché il parziale ritiro delle truppe dal sud di Gaza, significa che la guerra sta finendo o altro? Come procede la trattativa per il rilascio degli ostaggi? Stiamo andando verso le (ennesime) elezioni? Una serie di interrogativi che preoccupa ognuno di noi. Il giornalista Michael Sfaradi ha cercato di darvi risposta durante un evento online organizzato il’8 aprile dall’Unione Associazioni Italia-Israele, sottolineando l’importanza di analizzare la situazione con calma e senza farsi trascinare dalle emozioni. Ha iniziato ponendosi la domanda su chi avesse la responsabilità di proteggere i confini a sud di Israele, evidenziando una mancanza di preparazione sia a livello politico sia militare. I dubbi che erano stati sollevati circa lo stato della difesa dei confini meridionali nelle settimane precedenti il 7 ottobre sono stati ignorati. Si fa sempre più impellente quindi la necessità di un’indagine indipendente per individuare i responsabili ed epuri le forze armate dalle mele marce per garantire che simili errori non si ripetano. Una risposta parlamentare adeguata dovrà essere fornita non solo a familiari ed amici delle vittime del massacro, ma ugualmente ai cari dei più di 600 soldati che hanno perso la vita a partire dall’inizio del conflitto. Insensato, secondo Sfaradi, indire elezioni prima che le responsabilità politiche e militari siano state accertate. Chi mai vorrebbe che chi ha fallito sieda nella prossima Knesset? “Una democrazia è pulita solo se si fa pulizia prima”, ha commentato il giornalista, rimarcando la differenza tra l’opinione della strada e quanto riportato dai media internazionali. “Bisogna prima capire chi sia degno di sedere nelle 120 poltrone della Knesset, poi votare il primo ministro e capire quale tipo di governo prenderà in carico una nazione ferita”. Il giornalista ha anche discusso delle trattative per il rilascio degli ostaggi, esprimendo preoccupazione sulle possibili conseguenze di una liberazione massiccia, citando il precedente del caso Shalit e le implicazioni a lungo termine di simili negoziati con Hamas. Ha evidenziato il dilemma etico e strategico di dover bilanciare il desiderio di riportare a casa gli ostaggi con il rischio di creare incentivi per futuri attacchi e sequestri. E’ noto che tra i 1100 terroristi liberati per riportare a casa il giovane soldato vi fu l’ora ricercato Sinwar e con lui molti altri che hanno partecipato al pogrom del 7 ottobre, La domanda della nazione circa il prezzo da pagare per la liberazione degli ostaggi e’ quindi comprensibile, sapendo che Hamas terrà sempre qualcuno in prigionia per tenere Israele sotto scacco drammatizzando le divisioni interne fra chi ha visto i suoi cari tornare a casa e chi li sa ancora in balia del nemico.
• Una lose-lose situation
Sfaradi ha criticato la comunità internazionale per l’ipocrisia nella gestione del conflitto, che fa pressioni solo su Israele ignorando la parte che ha aggredito. Il giornalista ha evidenziato il doppio standard applicato sia dall’Italia sia dalla Gran Bretagna nell’approccio alla fornitura di armi ad Israele in quanto paese belligerante. Standard costituzionale non applicato dagli stessi paesi nel caso ucraino, nel quale ad attaccare è stato, quantomeno, un paese di diritto, e non un’organizzazione terroristica come nel caso di Hamas. Ha criticato anche l’approccio selettivo degli Stati Uniti nel fornire armamenti, evidenziando la necessità di considerare le conseguenze di tali decisioni. Sfaradi ha sottolineato il ruolo guida di Israele nell’antiterrorismo europeo e ha esortato le democrazie europee a unirsi per affrontare le sfide legate all‘estremismo islamico. Ha sollevato interrogativi sulla politica estera italiana, chiedendosi il motivo di una presunta filo-arabia. Sfaradi ha richiamato un episodio storico del 1973, quando gli aiuti ad Israele furono impediti di attraversare i cieli europei, evidenziando la crescente preoccupazione per la presenza dell’islamismo radicale nel continente, citando esempi come Birmingham e le celebrazioni del Ramadan. Il giornalista ha poi esaminato l’atteggiamento dei palestinesi di Gaza verso gli ostaggi, criticando la mancanza di solidarietà e sottolineando il sostegno diffuso ad Hamas nonostante la distruzione causata dalla guerra. Ha ribadito che il conflitto non è solo una questione territoriale, ma anche una lotta contro il terrorismo.
Il padre di una vittima del terrorismo irrompe nella stanza del detenuto di sicurezza
Quando il padre di una vittima del terrorismo viene a sapere che un terrorista deve essere curato in un ospedale israeliano, si mette in viaggio. Poco dopo, entra nella stanza del detenuto e ordina: "Buttatelo fuori di qui!"
Israeliani cercano un terrorista in una stanza dell’ospedale Hadassah
GERUSALEMME - Mercoledì ci sono state scene caotiche all'ospedale Hadassah sul Monte Scopus a Gerusalemme: Herzl Hajjaj, padre di Shir Hajjaj, un soldato israeliano ucciso in un attacco terroristico nel 2017, si è recato nella stanza di un sospetto terrorista palestinese per protestare contro il suo trattamento nella struttura israeliana.
"Abbiamo ricevuto le informazioni dal personale dell'ospedale che non voleva curarlo", ha detto Hajaj alla stazione radio "Galei Israel". "Ho usato il tempo che avevo tra un lavoro e l'altro e sono andato lì". Quello che è successo dopo è ripreso in un video che Hajjadzh ha diffuso via X.
• È qui che viene curato quel figlio di un cane?”.
Il video mostra due uomini che entrano in una delle stanze dell'ospedale: "È qui che viene curato il figlio di un cane?", chiede uno di loro. Secondo i media israeliani, si tratta di Hajjaj. Nella stanza ci sono due soldati israeliani. Un uomo è sdraiato sul letto. Si presume che sia un detenuto della sicurezza, ma il suo nome non è noto e non è quindi possibile identificarlo.
I soldati costringono gli intrusi israeliani a uscire dalla stanza. Hajaj grida loro: "Buttate fuori lui, non noi! State curando dei terroristi! Non vi vergognate?". Quando un altro uomo gli si avvicina e gli fa notare che si trova in un ospedale, Hajjaj risponde: "Siete un ospedale? Siete un bordello!".
• Quanto velocemente abbiamo dimenticato il 7 ottobre?".
Hajaj ha poi dichiarato a "Kanal 12": "Sono deluso dal fatto che stiano curando dei terroristi in ospedale. I terroristi non dovrebbero occupare i letti degli israeliani. Dovrebbero ricevere solo lo stretto necessario. Parte del deterrente contro il terrorismo è che i terroristi devono sapere che non saranno curati".
La madre di Shir ha dichiarato al quotidiano "Ma'ariv": "Non è logico dare cure mediche a chi ha ucciso e violentato le nostre figlie e i nostri figli". E ha continuato: "Non dovete fornire cure avanzate, ma solo cure di base". E ha osservato: "Quanto velocemente abbiamo dimenticato il 7 ottobre? Quanto velocemente abbiamo dimenticato quello che ci hanno fatto? Non abbiamo imparato nulla?".
• Ora trasferito ad Ashdod?
Il Ministero della Sanità israeliano ha annunciato in una dichiarazione ai media israeliani mercoledì che il sospetto terrorista è stato trasferito dall'ospedale. Secondo la dichiarazione, è stato portato al "Campo dello Yemen" vicino a Be'er Sheva. Si tratta di un centro di detenzione per prigionieri palestinesi, che offre anche assistenza medica al di fuori degli ospedali civili.
"La nostra linea è chiara: i terroristi non possono entrare negli ospedali in Israele", ha spiegato il Ministero. Tuttavia, non saranno impedite cure specifiche "se i militari indicano una necessità operativa critica, compresa la necessità di un esame salvavita". L'ospedale Hadassah ha dichiarato che non sarebbe stato informato della provenienza dei prigionieri.
Giovedì pomeriggio, il portale di notizie "Ynet" ha riferito che il sospetto terrorista aveva trascorso una notte all'ospedale Soroka di Be'er Sheva, contrariamente alle informazioni fornite dal Ministero della Salute, ed era stato poi trasferito all'ospedale Assuta di Ashdod. Secondo una dichiarazione del suo direttore Eres Birnbaum all'inizio di novembre, la struttura aveva già trattato terroristi in passato "in conformità con il giuramento medico".
• Un tema caldo dal 7 ottobre
Il trattamento dei terroristi negli ospedali israeliani durante la guerra ha più volte suscitato scalpore. L'allora ministro della Sanità, Moshe Arbel (Shas), aveva già dichiarato in ottobre che i terroristi avrebbero dovuto essere curati dall'esercito e dai servizi segreti nazionali . Tuttavia, secondo un rapporto di "Kanal 12", a gennaio 25 terroristi erano stati curati negli ospedali israeliani.
Il forum "Bochrim HaChajim", che rappresenta le famiglie in lutto delle vittime del terrorismo e a cui Herzl Hajaj appartiene, ha scritto su Facebook: "Sono finiti i giorni in cui le famiglie in lutto rimanevano in silenzio". L'Associazione medica israeliana scrive sul suo sito web che i medici israeliani si impegnano a rispettare le convenzioni internazionali: "Nonostante gli atti barbarici di Hamas, i medici forniranno le cure necessarie. I terroristi saranno puniti in seguito, come è consuetudine in uno Stato di diritto".
(Israelnetz, 11 aprile 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Israele, 40.000 tende per evacuare Rafah. L’Iran cerca la vendetta ma usando gli alleati
Netanyahu: «Hamas è morta, nessuno ci fermerà». Blinken: «Non c'è una data per l'invasione. Negoziati ancora in stallo.
di Salvatore Drago
Tra pressioni internazionali e movimenti interni che ne chiedono a gran voce le dimissioni, la sola e unica strada percorribile per Benjamin Netanyahu sembra ormai essere quella della vittoria totale a Gaza. Le ultime dichiarazioni del premier israeliano non lasciano spazio ad altre interpretazioni. Prima l'annuncio di aver già stata fissato la data in cui le forze dell'Idf invaderanno Rafah, poi il messaggio con cui ha salutato le truppe di stanza in una base militare posta a ridosso della frontiera: «Completeremo l'eliminazione dei battaglioni di Hamas, anche a Rafah. Nessuna forza al mondo ci fermerà». Affermazioni bellicose che allontanano sensibilmente il raggiungimento di una tregua, nonostante i continui inviti da parte degli Stati Uniti e la proposta che avrebbe messo sul tavolo dei negoziati il direttore della Cia, William Burns: sei settimane di cessate il fuoco in cambio del rilascio di 40 ostaggi. La sensazione però, arrivati a questo punto, è che su queste basi non ci può essere e non ci sarà nessuna trattativa. Un altro indizio dell'imminente invasione via terra da parte delle truppe delle Forze di difesa israeliane a Rafah, proviene da un'informazione rilasciata da un funzionario israeliano all'Associated Press, ovvero che il governo israeliano starebbe acquistando 40.000 tende per favorire una rapida evacuazione di circa un milione e mezzo di palestinesi che si sono rifugiati nella città al confine con l'Egitto dall'inizio della guerra. Ieri, tuttavia, c'è stata un a smentita americana riguardo al fatto che Israele abbia fissato una data per entrare a Rafah. Da Washington ha parlato il segretario di Stato, Antony Blinken: «Continuiamo ad avere un dialogo con Israele su un'eventuale operazione a Rafah e siamo profondamente preoccupati per la sicurezza dei civili. Non c'è nessuna data sull'inizio di un attacco israeliano nell'area». Nel frattempo, i vertici dell'Idf hanno reso noto di aver ucciso il capo dell'ufficio di emergenza di Hamas a Gaza: «Hatem Alramery guidava l'ala militare di Hamas operativa nel campo dei lanci di razzi all'interno del battaglione Maghazi nella parte centrale della Striscia», si legge nel comunicato diffuso su Telegram. Per il gruppo terroristico che dal 2006 governa la Palestina, ha parlato nelle ultime ore il portavoce, Sami Abu Zahry: «I negoziati con Israele non stanno andando bene. Netanyahu non è interessato a un cessate il fuoco, ma solo alla questione del rilascio degli ostaggi», ha detto in un'intervista ad Al Jazeera, «le richieste di Hamas sono chiare: la fine dell'aggressione contro il nostro popolo». Popolo palestinese che ieri, in occasione dell'Eid al-Fìtr - la festa che segna la fine del Ramadan - ha visto piovere dal cielo aiuti umanitari, con pacchi contenenti cibo, vestiti e giocattoli lanciati dall'esercito della Giordania in collaborazione con altri Paesi come Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia, Paesi Bassi, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Indonesia. Questo mentre Save the Children ricorda che negli ultimi sei mesi a Gaza è morto un bambino ogni quarto d'ora e il ministero della Sanità dell'enclave palestinese, controllato da Hamas, aggiorna il bollettino da inizio conflitto a 75.993 feriti e 33.360 vittime, di cui 153 nelle ultime 24 ore. Sul campo di battaglia, mentre Israele si prepara alla minaccia proveniente dall'Iran, con gli ayatollah sempre più assetati di vendetta dopo il raid della settimana scorsa all'ambasciata iraniana a Damasco, si surriscalda sempre più il fronte a Nord, al confine con Libano e Siria. Dopo la pioggia di razzi lanciati sulle alture del Golan, nelle prime ore di ieri mattina caccia israeliani hanno bombardato un deposito di armi e munizioni nel Sud della Siria, a Mahajjah. Per quanto riguarda invece la minaccia proveniente dagli Hezbollah, l'Idf ha portato a termine una maxi esercitazione militare proprio nei pressi del confine con il Paese dei Cedri che ha coinvolto oltre alla 146a divisione, anche la Marina, l'Aeronautica e la polizia. Capitolo Iran. Come detto, Teheran freme per vendicare quanto accaduto dieci giorni fa a Damasco, anche se nelle ultime ore sembra essersi raffreddata l'ipotesi di un attacco diretto da parte del Paese guidato da Ali Khamenei, consapevole di poter subire ritorsioni su scala internazionale. Motivo per cui starebbe pensando di affidare l'attacco a forze alleate come gli Hezbollah o gli Huthi. A sostenere questo scenario è un'informazione trasmessa a Gerusalemme dall'intelligence americana, secondo cui sarebbe improbabile che l'Iran attacchi direttamente Israele, affidandosi ai diversi gruppi terroristici che sostiene per lanciare un attacco verso Israele e al tempo stesso non provocare un'escalation nella regione che possa portare eventuali reazioni americane. A tal proposito, va segnalata anche la chiamata alle armi da parte del comandante della Marina delle Guardie rivoluzionarie iraniane, Alireza Tangsiri, che in un intervento pubblico ha esortato tutti gli eserciti islamici a coalizzarsi per fermare Israele: «Mi rivolgo ai Paesi islamici che pensano che i sionisti siano in realtà loro amici, se il nostro grande profeta fosse qui e vedesse questi crimini, rimarrebbe in silenzio oggi?», ha detto. «I sionisti hanno fallito nella battaglia di Gaza perché non sono riusciti a sconfiggere Hamas o a liberare gli ostaggi». Iran che, tramite il portavoce della magistratura, Masoud Setayeshi, ha annunciato che denuncerà Israele al tribunale internazionale per il crimine commesso al suo consolato a Damasco.
Guerra a Hamas. Israele avverte tutti: Se l'Iran ci attacca, noi attaccheremo loro
di Matteo Legnani
Israele è pronto alla guerra con l’Iran. Lo ha detto, durante una visita ufficiale a Roma, il ministro degli Esteri di Gerusalemme, Israel Katz. L’esponente del Likud (lo stesso partito del premier Benjamin Netanyahu) ha spiegato che «se l’Iran ci attaccherà direttamente, noi attaccheremo l’Iran. E se saranno le milizie alleate dell’Iran a farlo, come rappresaglia per la distruzione del consolato a Damasco, attaccheremo anche loro» ha avvertito Katz, rispondendo alle minacce di un attacco su suolo israeliano pervenute nei giorni scorsi da ambienti vicini a Teheran.
Guerra su tutti i fronti, dunque, se sarà necessario. Perché, ha spiegato ancora il ministro, «il nostro ritiro da Khan Younis è avvenuto perché il lavoro lì era finito.
Ma questo non significa che, in un futuro prossimo, non entreremo a Rafah. Se troveremo un accordo per la liberazione di tutti gli ostaggi che sono ancora in mano a Hamas, ci sarà un temporaneo cessate il fuoco e le nostre forze armate non entreranno a Rafah. Ma lo faranno comunque in futuro, a tempo debito, e Hamas non si illuda che non accadrà».
Katz ha poi messo in guardia Europa e Stati Uniti sul pericolo rappresentato dall'Iran: «A noi è chiaro che l'Iran sia la testa del serpente. Da Decenni, ormai, finanzia il terrorismo in questa regione del Medio oriente, e non ha mai smesso di farlo. Oggi c'è l’Iran dietro Hezbollah che ci lancia missili dal Libano e dietro gli Houthi che attaccano Eilat da sud. Ma l'occidente fa finta di niente. Fa finta di non sapere che Teheran ha fornito a Hezbollah 150mila missili per distruggerci. E non fa quello che dovrebbe fare con sanzioni e pressioni politiche e militari per impedire che Teheran si doti dell'arma atomica».
Un altro fronte delicato sarà quello del dopo-guerra a Gaza. Il rappresentante del governo di Benjamin Netanyahu ha ribadito che «Israele non intende restare nella Striscia dopo che le operazioni militari saranno terminate. Sarà la comunità internazionale a prendersi la responsabilità della Striscia, una volta sconfitta Hamas. Ma chiunque verrà ad amministrare Gaza deve lasciare a Israele la possibilità di intervenire sul tema della sicurezza, lasciarci entrare nel caso dovessimo vedere nuove organizzazioni terroristiche prendere piede nella Striscia».
Quanto all’ipotesi dei due Stati, Katz ha affermato che «nessun leader politico in Israele, non solo Netanyahu, oggi sostiene quell’ipotesi. Dopo il 7 ottobre la nostra opinione pubblica non vuole più che la sicurezza dello Stato ebraico dipenda dai palestinesi. Neanche Hamas ha mai voluto due Stati, punta a creare il califfato islamico».
L’unica strada percorribile, secondo Israele, è «il negoziato diretto con i palestinesi, con chi è al potere, per trovare un modo per convivere. Lo stiamo già facendo in Cisgiordania, ad esempio, dove collaboriamo sulla sicurezza con l’Autorità nazionale palestinese, anch’essa spaventata dai terroristi».
Così i terroristi manipolano le narrazioni mediatiche per i loro finiParla un portavoce della Jihad islamica
La divisione di Intelligence dell’IDF ha rivelato in esclusiva lunedì la registrazione dell’interrogatorio del portavoce dell’ufficio politico della Jihad Islamica, Tariq Salami Odeh Abu Shlouf. Secondo quanto riportato da i24news, il terrorista ha gettato luce sui modi in cui le organizzazioni terroristiche manipolano i media arabi e internazionali, evidenziando la diffusione sistematica di false rappresentazioni e menzogne. Durante il suo interrogatorio, l’uomo è tornato sull’incidente accaduto all’ospedale Ahly Al-Arabi Baptist Hospital (Al-Mamadani) all’inizio della guerra, il 17 ottobre. Un attacco missilistico della Jihad islamica è fallito e ha colpito l’ospedale, provocando morti e feriti. Hamas ha subito accusato Israele di aver bombardato l’edificio e il mondo intero si è precipitato a condannarlo. L’IDF tuttavia ha subito dimostrato di non avere nulla a che fare con tutto ciò. «La Jihad ha orchestrato la narrazione secondo cui un razzo israeliano avrebbe colpito l’ospedale Al-Mamdani», ha confessato il terrorista, ammettendo che l’organizzazione ha deliberatamente ingannato l’opinione pubblica, accusando Israele di essere responsabile dell’incidente. Il terrorista ha poi fornito dettagli su come è stata orchestrata e divulgata questa menzogna. «Per diffondere questa storia, l’organizzazione ha intrapreso varie azioni. Hanno fabbricato una storia in cui il razzo, attribuito all’«occupazione», avrebbe preso di mira un ospedale. Hanno basato la loro narrazione su alcuni articoli della stampa internazionale», ha spiegato. Riguardo alle immagini fuorviantiprovenienti dalla Striscia di Gaza, che ritraggono bambini e adulti feriti, il portavoce della Jihad ha dichiarato: «Le decisioni riguardanti la diffusione di tali immagini dipendono dal dipartimento o dalle direttive del movimento. Abbiamo notato un particolare interesse nello sfruttare una certa narrazione e lo abbiamo implementato. La decisione è presa dal segretario generale, Ziad Nakhaleh, e poi discussa dal dipartimento dei media tramite WhatsApp. Anche se la storia è falsa, viene comunque promossa». Tariq ha inoltre svelato che i gruppi terroristici mantengono contatti diretti e costanti con Hamas, sfruttando tutte le risorse disponibili negli ospedali e nei servizi della Striscia di Gaza. «È in queste stanze che si prendono decisioni cruciali, come l’attacco ad Israele. Hanno accesso a internet ed elettricità 24 ore su 24. Hanno requisito una stanza per la radiologia, l’urgenza, la medicina interna o specialistica senza interrompere completamente i servizi», ha dichiarato. Del resto, la strategia mediatica jihadista non rappresenta affatto una novità, avendo una storia che precede di gran lunga l’attuale conflitto tra Israele e Gaza. Nell’intricato labirinto della propaganda terroristica, la Jihad prospera tra un costante flusso di tweet e chat segrete, che si celano persino dietro i riflettori dei videogiochi. La retorica jihadista si sviluppa attraverso un continuo bombardamento di messaggi cifrati, accompagnati da fotomontaggi e video d’azione, capaci di catturare l’attenzione. Con grande capacità, lo Stato Islamico ha saputo capitalizzare e continua a farlo sfruttando l’evoluzione del panorama digitale e dei social media per diffondere la sua propaganda. Coinvolgendo attivamente il pubblico nella creazione e diffusione dei propri messaggi, l’organizzazione terroristica ha sfruttato ogni canale disponibile: dai social media alle riviste digitali, dalle radio locali ai manifesti, con l’intento di plasmare le opinioni pubbliche, reclutare nuovi adepti e consolidare il proprio dominio territoriale. In breve, la Jihad ha dimostrato (e continua a dimostrare) una sorprendente abilità nel modellare la sua strategia comunicativa per rafforzare il proprio potere, attrarre nuovi seguaci e influenzare le opinioni sia nel mondo occidentale che arabo. Oltre alle immagini di guerra e alle esecuzioni brutali, la sua propaganda dipinge costantemente un quadro di controllo territoriale e capacità di soddisfare i bisogni della popolazione. Il portavoce Tariq era uno dei 500 terroristi arrestati in un’operazione congiunta IDF-Shin Bet presso l’ospedale di Shifa, dove stava lavorando per promuovere attività di incitamento e propaganda. «Ogni zona e ogni ospedale ha un ruolo specifico. Per Shifa, sono l’ambulanza e l’urgenza. C’è un individuo che ha legami con il capo dell’ambulanza, che utilizza per trasportare leader, ricercati, feriti e altri individui. Viaggia insieme a loro», ha concluso.
(Bet Magazine Mosaico, 10 aprile 2024)
C’è un solo modo per Israele di vincere la guerra contro Hamas, iniziata, è bene ricordarlo, a seguito dell’eccidio di 1200 cittadini israeliani e del rapimento di 240, avvenuto il 7 ottobre 2023. Questo modo è l’operazione militare a Rafah, ultimo avamposto di Hamas, dove si trovano ancora intatti quattro battaglioni residuali dei ventiquattro certificati (altri due sarebbero ancora presenti nel centro della Striscia), e con loro, presumibilmente, i capi del movimento più gli ostaggi ancora vivi, che non si sa a quanti ammontino.
Vincere la guerra che Hamas ha provocato, significa terminare il controllo politico-militare dell’organizzazione salafita nella Striscia, e per potere raggiungere questo obiettivo è necessario andare fino in fondo, distruggere gli ultimi battaglioni rimasti e idealmente, eliminarne i capi. Una volta raggiunto questo obiettivo, l’esercito israeliano dovrà restare a Gaza per il periodo necessario a bonificare il territorio dalle sacche di gruppuscoli jihadisti sparpagliati, attuando operazioni specifiche e mirate di controinsorgenza, ma prima di spegnere i fuochi sparsi, va spento il fuoco principale.
È ormai chiaro che gli Stati Uniti non vogliono l’ingresso di Israele a Rafah, nonostante affermino che Hamas deve essere annientato. Si tratta, tuttavia, di due obiettivi inconciliabili. L’ipotesi di strategie alternative all’operazione di terra a Rafah, meno invasive e altrettanto efficaci, sono irrealistiche e hanno l’unico scopo da parte americana di fare credere che Hamas possa essere sconfitto diversamente, costringendo Israele a prolungare ancora di molti mesi una guerra già troppo lunga.
Israele non ha che due alternative, o entra a Rafah come ha fatto nelle altre parti della Striscia dove, nell’arco di sei mesi ha smembrato diciotto dei battaglioni esistenti di Hamas, distruggendo i quattro residuali, e così facendo entrando platealmente in contrasto con gli Stati Uniti, oppure evitare di farlo, compiacere l’Amministrazione Biden e rassegnarsi a proseguire al rallentatore la guerra allontanando nel tempo una meta che non si sa se potrà essere raggiunta.
È inevitabile che la situazione di stallo attuale debba modificarsi a breve, a fronte anche di tensioni che si stanno accumulando nel paese, dalle manifestazioni in crescita contro il governo allo scopo di farlo cadere, agli attriti tra coloro che vorrebbero vedere partire l’operazione a Rafah, in testa Bezalel Smotrich, Itmar Ben Gvir ma anche un moderato come Gideon Sa’ar, e Netanyahu, il quale continua ad annunciare l’operazione militare senza che, di fatto, ci siano segnali tangibili della sua imminenza.
Sullo sfondo resta, ovviamente, la questione degli ostaggi ancora detenuti nella Striscia e negoziati che non portano a nessuno sbocco a causa dell’intransigenza di Hamas, per il quale, la precondizione essenziale è un cessate il fuoco permanente e dunque la certificazione della sconfitta di Israele.
Il cessate il fuoco, il più lungo possibile, e idealmente tale da non permettere alla guerra di riprendere lena è quello di cui ha bisogno Joe Biden per puntellare la sua rielezione alla Casa Bianca a novembre, ma per Israele, sarebbe l’esito peggiore.
La conduzione ondivaga di Netanyahu in quello che si trova a essere il maggiore momento di crisi che sta vivendo Israele dalla fine della Seconda intifada, fatto di accondiscendenza alle imposizioni americane e di momenti di risposte apparentemente risolute, non può sciogliere il nodo che si è creato. Solo la determinazione reale di entrare a Rafah e non reiterati annunci possono scioglierlo. Il momento di decidere se vincere o perdere la guerra non può essere differito ancora a lungo.
Il nuovo sistema di difesa navale israeliano, il C-Dome, ha fatto il suo primo battesimo di fuoco nella notte di lunedì, dopo aver intercettato un drone entrato nello spazio aereo israeliano da est, vicino all’area di Eilat, nel sud di Israele.
Il C-Dome è la versione navale del famoso sistema di difesa missilistico Iron Dome e sarà installato sulle corvette di classe Sa’ar 6 della Marina israeliana. Il progetto si unisce al sistema di difesa Barak, progettato per abbattere minacce più grandi e distanti.
Il Ministero della Difesa, l’IDF, la Rafael Advanced Defense Systems e le Israel Aerospace Industries hanno condotto con successo prove del sistema C-Dome lo scorso maggio, circa cinque mesi prima dello scoppio della guerra.
Durante queste prove, le truppe dello squadrone missilistico Shayetet 3 hanno lanciato intercettori simulati contro le minacce esistenti e future che le navi di classe Sa’ar 6 potrebbero incontrare durante il conflitto, come razzi, missili da crociera e droni. Nella sperimentazione, i sistemi navali sono stati integrati nell’apparato di difesa multistrato, testando nuove tecnologie per migliorare l’efficacia operativa dell’apparato di difesa aerea in mare e a terra.
“Il successo della sperimentazione segna un’altra importante pietra miliare nello sviluppo del sistema contro le minacce esistenti e future nei vari teatri operativi dell’IDF”, hanno condiviso i militari. Il sistema C-Dome è progettato per intercettare razzi, missili e droni per proteggere le infrastrutture marittime, le piattaforme di gas e altre risorse navali. Lunedì notte, poco prima di mezzanotte, nella città di Eilat e nei suoi dintorni è suonato l’allarme a causa di un’infiltrazione di droni da est. Poco dopo, l’IDF ha annunciato che le forze navali avevano identificato l’obiettivo sospetto che era entrato nel territorio israeliano e lo avevano intercettato con successo, utilizzando il nuovo sistema C-Dome. L’intercettore è stato lanciato dalla nuova corvetta Sa’ar 6, secondo quanto ha detto l’IDF. All’inizio del mese, l’IDF ha riferito che un drone, lanciato dalle milizie filo-iraniane provenienti dalla Giordania, aveva colpito una base navale a Eilat. L’allarme lanciato allora è stato il primo a Eilat in tre settimane, in seguito al quale l’IDF ha affermato che un “obiettivo sospetto che aveva attraversato la Giordania verso il territorio israeliano” era esploso nella zona della baia di Eilat, provocando lievi danni a un edificio senza però feriti. Nel frattempo, la Resistenza islamica in Iraq, composta da milizie filo-iraniane che operano in Iraq e Siria, ha annunciato di aver attaccato un “obiettivo vitale” in territorio israeliano pubblicando una foto con la didascalia “Eilat e oltre Eilat”.
Kiev e Nato verso la sconfitta dopo due anni di massacri
di Maurizio Belpietro
La sconfitta dell'Ucraina non è più un'ipotesi remota. Ormai ne parla con facilità anche chi fino a ieri rifiutava di considerare la possibilità di trattare per porre fine alla guerra, considerando una sola possibile soluzione del conflitto, cioè la vittoria piena sulla Russia. Dal sostegno senza se e senza ma a Kiev, in poche settimane si è passati a frasi che aprono la strada a un'intesa che preveda un compromesso. Colpiscono le parole di Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, da sempre uno dei falchi più determinati nel sostegno a Volodymyr Zelensky. «Alla fine dei conti», si è lasciato sfuggire durante un'intervista alla Bbc, «deve essere l'Ucraina a decidere che tipo di compromessi è disposta a raggiungere». L'ex premier norvegese, un tempo acceso rivoluzionario e poi altrettanto acceso conservatore, mai si era spinto a parlare di compromesso, ma solo di riconquista dei territori occupati dai russi, con il pieno ripristino della sovranità di Kiev. Le parole usate dal politico di lungo corso, che ha già pronto un posto da governatore del fondo che gestisce il patrimonio della Norvegia, di certo non sono state casuali. Ma se qualcuno non avesse inteso, Stoltenberg ha aggiunto altro: «Dobbiamo consentire loro (agli ucraini, ndr) di essere in una posizione in cui possano effettivamente raggiungere un risultato accettabile al tavolo dei negoziati». Dunque, non si parla più di ricacciare le armate di Vladimir Putin dal Donbass e dalla Crimea, ma solo di ottenere un'intesa onorevole, che salvi la faccia a tutti, in particolare a Zelensky. Anche un altro falco, l'alto rappresentante della Ue, Joseph Borrell, ammette che la situazione in Ucraina è estremamente difficile e che la macchina militare russa marcia a tutta velocità, riconoscendo che tra i due Paesi in guerra «c'è un'evidente asimmetria». Parole diplomatiche, per dire che Kiev rischia di soccombere. Del resto, lo stesso Zelensky e il suo capo dell'esercito, per sollecitare l'invio di nuovi armamenti, da giorni paventano la sconfitta. Certo, questi ultimi agitano il rischio di una ritirata per suscitare sensi di colpa negli alleati e fare pressioni per ottenere nuovi missili e sistemi di difesa. Tuttavia, anche i loro discorsi confermano che la débàcle militare ucraina non è più un'eventualità non contemplata a Washington o Bruxelles, ma anzi è una questione all'ordine del giorno. Comunque vada, e cioè sia che il fronte ceda alla pressione dei russi, sia che, come dice Stoltenberg, Kiev si decida a intavolare un compromesso per limitare i danni, appare evidente che a uscire con le ossa rotte dopo due anni di conflitto non sarebbero i soli ucraini, ma anche i loro alleati, vale a dire noi occidentali. Non riuscire a far battere in ritirata le truppe di Putin nonostante gli aiuti militari ed economici, sarebbe una sconfitta epocale, la dimostrazione che non è più l'Occidente a dettare legge e che l'America non è più il guardiano del mondo. Certo, di fronte alle centinaia di migliaia di morti, dall'una e dall'altra parte, davanti alle centinaia di miliardi di danni che la guerra si porta dietro, le considerazioni geopolitiche non appaiono determinanti, ma in questo caso lo sono. La sconfitta dell'Ucraina, o se volete l'accettazione di una trattativa che riconosca a Mosca parte dei territori reclamati da Putin, sarebbe una sconfitta militare di Kiev, ma pure un disastro politico dell'Europa e degli Stati Uniti che, dopo la fuga precipitosa e ignominiosa dall'Afghanistan, si macchierebbe anche dell'onta di aver contribuito al disastro ucraino. Secondo il Washington Post, Donald sarebbe pronto ad abbandonare Kiev al proprio destino, ma forse il piano è fatto circolare dalla stessa Casa Bianca, per spingere Zelensky ad accettare una trattativa prima che sia troppo tardi. Prima cioè che i bombardamenti a tappeto di Putin spazzino via la resistenza di un esercito indebolito dopo due anni di guerra. Insomma, l'obiettivo è imporre la pace prima del voto americano, per evitare a Joe Biden di presentarsi al voto senza una soluzione per l'Ucraina. Se i ragionamenti del candidato democratico sono comprensibili, resta però da chiedersi se due anni di guerra e mezzo milione di morti fossero proprio indispensabili.
Sono racconti commossi, strazianti, coinvolgenti: le parole dei familiari degli ostaggi evocano le sensazioni di questi mesi, ricostruiscono le storie personali e colpiscono nel profondo dei sentimenti per quanto accaduto a neonati, bambini, donne e uomini fatti prigionieri dei terroristi di Hamas da oltre 6 mesi. Civili innocenti immortalati dai miliziani durante il rapimento o durante la prigionia con espressioni terrorizzate, sangue sui pantaloni e ferite sui volti e in altre parti del corpo. Le loro sorti sono spesso incerte e i parenti non hanno più avuto notizie dei loro cari da quel sabato d’autunno.
Le testimonianze sono state esposte alla stampa italiana dai parenti di Agam Berger, della famiglia Bibas, di Omri Miran, di Guy Bilboa Dalal e di Tamir Nimrodi, accompagnati in Italia dal ministro degli Esteri israeliano Israel Katz.
“Non sappiamo se siano vivi o morti” ha spiegato in italiano Bezalel Schneider che ha parlato a nome della famiglia Bibas. Bezalel è lo zio di Shiri Bibas, fratello della madre di Shiri, Margit Schneider Silverman, assassinata a Nir-Oz il 7 ottobre assieme al marito e al padre di Shiri, nella loro casa incendiata dai terroristi che hanno lasciato morire soffocati i suoi cari. “Mi fanno pensare ai nazisti” ha commentato Bezalel. Quel giorno, da una casa dello stesso kibbutz, la nipote Shiri (32 anni) è stata presa in ostaggio insieme ai suoi piccoli Ariel (4) e Kfir (1) e al marito Yarden (34 anni).
“È una disgrazia molto grande per la nostra famiglia” ha spiegato Bezalel. Le immagini dei piccoli Bibas, con i loro capelli rossi, in braccio alla madre Shiri, hanno fatto il giro del mondo lasciando tutti con il fiato sospeso dopo che non sono stati inclusi tra gli ostaggi liberati in seguito al primo accordo con Israele, quando donne anziane e bambini sono stati liberati in cambio di prigionieri palestinesi che si trovavano nelle carceri israeliane.
Sono state la cugina e la sorella di Agam Berger, due giovani donne, a parlare di Agam, una ragazza diciannovenne amante del violino e con il sogno della pace, il cui rapimento ha scosso il mondo che ha visto il filmato dell’adolescente con le mani legate dietro la schiena, ferita, e con i pantaloni del pigiama sporchi di sangue, mentre veniva caricata terrorizzata su un furgone da terroristi armati. Ashley, cugina di Agam, ha raccontato che un’altra ragazza che era tenuta ostaggio insieme ad Agam, una volta liberata, ha chiamato la loro famiglia per augurare buon compleanno al padre da parte di Agam. È l’unico messaggio che la ragazza è riuscita a mandare alla famiglia da Gaza.
“Sappiamo che le donne hanno subito e stanno subendo violenze sessuali. E se fossero incinte? E se avessero bisogno di un aborto?” si domanda preoccupata Ashley. “Noi siamo abituati al terrorismo e ai missili. Ma questo è un altro livello di malvagità”.
Dani, il padre di Omri Miran (46 anni) ha la barba lunga e bianca. Omri è stato preso in ostaggio dai miliziani di Hamas. Se l’è fatta crescere per sentirsi più vicino al figlio, ipotizzando che i terroristi non gli permettano di radersi. Omri ha due figlie, Roni e Alma, rispettivamente di 2 anni e mezzo e 6 mesi. I terroristi hanno obbligato Omri ad aprire la porta di casa minacciando di ferire Tomer, un suo vicino. Quando lo stavano portando via, la bambina piccola voleva raggiungere il papà. Sua moglie è riuscita solo a dirgli “Ti amo, prenditi cura di te e non essere eroico”. È l’ultima volta che lo ha visto. “Due mesi dopo la piccola ha chiesto alla mamma se Omri è ancora il suo papà” ha detto con le lacrime agli occhi Dani.
Alon, padre di Tamir Nimrodi, ha mostrato ai giornalisti la fotografia del figlio, un ragazzo di diciannove anni, rapito dai miliziani il 7 ottobre. Lo hanno rapito senza occhiali. Del ragazzo non si sa più nulla. La famiglia ha trovato nella sua cameretta un biglietto in cui parla dei suoi 3 grandi obiettivi nella vita: riuscire ad aiutare tante persone, avere un grande gruppo di amici e non ferire nessuno. Tamir è ancora prigioniero a Gaza.
È ancora nelle mani dei miliziani di Hamas anche Guy Gilboa Dalal (23 anni), rapito al Nova Festival. La madre Meriav parla di suo figlio come un ragazzo intelligente, che ama la cultura giapponese, tanto da averne imparato da solo la lingua. Guy suona strumenti musicali e ha sempre tanti amici intorno. Quel giorno era al festival con il fratello Gal, sopravvissuto al massacro.
Gal ha spiegato di aver visto suo fratello in uno dei primi filmati pubblicati da Hamas: “Era legato ed impaurito. È stato rapito insieme ad un suo amico di infanzia, mentre due suoi amici sono stati brutalmente ammazzati”. Una storia straziante di un ragazzo che si era recato al festival per ballare e celebrare la pace e l’amore e che si è invece imbattuto nella violenza e nella cieca crudeltà. “Mi rivolgo ad ogni madre: aiutatemi a respirare ancora per favore!” supplica Meriav.
Wikipedia e Israele: una ricerca rivela i pregiudizi dell’enciclopedia online
di Nathan Greppi
Da quando è stata fondata nel 2001, Wikipedia ha assunto un ruolo sempre più centrale nelle vite di ognuno di noi: ogni volta che facciamo una ricerca su Internet, che sia per un compito scolastico, una tesi di laurea, motivi di lavoro o semplice curiosità, non possiamo quasi fare a meno di consultare l’enciclopedia online creata da Jimmy Wales per avere quantomeno un’infarinatura di base sui temi che ci interessano. Per capire la portata del fenomeno, ad oggi Wikipedia conta un totale di oltre 55 milioni di pagine in più di 300 lingue, con 84 miliardi di visite solo nel 2023. Sebbene in teoria Wikipedia sia tenuta a mantenere un profilo neutrale e oggettivo, soprattutto sui temi più scottanti, non sono mancati nel corso del tempo episodi in cui veniva appurato che gli utenti che vi creano e modificano contenuti tendono ad agire sulla base dei propri preconcetti ideologici; al punto che nel luglio 2021, il co-fondatore di Wikipedia Larry Sanger disse che la sua creazione non era più attendibile. Ciò si è visto in maniera evidente in merito al conflitto israelo-palestinese, e in particolare dopo il 7 ottobre; a dimostrarlo, una ricerca condotta dall’accademica israeliana Shlomit Aharoni Lir per conto del WJC (World Jewish Congress), pubblicata nel marzo 2024 e intitolata The Bias Against Israel on Wikipedia.
• Wikipedia sbilanciata contro Israele I risultati della ricerca si concentrano principalmente sulla versione in lingua inglese, quella con il maggior numero di visite. Invece che attenersi al principio di neutralità, molte pagine che parlano di Israele e Palestina tendono ad enfatizzare solo gli aspetti che mettono in cattiva luce lo Stato Ebraico, ad esempio citando solo fonti filopalestinesi, senza spiegare il punto di vista israeliano né il contesto generale. Un altro problema sono le regole imposte dagli amministratori: spesso questi tendono ad avere un potere enorme nello stabilire quali modifiche siano accettabili e quali no. È emerso che alcuni amministratori hanno bloccato o limitato le attività degli utenti israeliani, ad esempio usando come scusa la regola secondo cui gli utenti che non hanno realizzato almeno 500 modifiche e sono attivi da meno di 30 giorni hanno un margine di manovra più limitato.
• Esempi concreti Un esempio riguarda la pagina “Palestinian genocide accusation”, inerente alle accuse rivolte a Israele di compiere un genocidio dei palestinesi, rinvigoritasi dopo il 7 ottobre. Già il titolo, spiega l’autrice della ricerca, tende ad essere sbilanciato verso chi ritiene fondata l’accusa, mentre sarebbe stato più neutrale scrivere “Allegations of Palestinian Genocide”. La pagina è quasi tutta concentrata sulle accuse contro Israele, citando fonti di parte, mentre le voci a favore d’Israele risultano assai minoritarie. Inoltre, gli episodi di violenza contro Israele da parte dei suoi nemici vengono minimizzati, facendo credere che sia Israele il solo paese aggressore della regione. E per finire, la pagina viene inclusa in fondo nella categoria “Genocidio”, rafforzando di conseguenza la percezione che le accuse siano fondate. Questo non è l’unico esempio di pagina Wikipedia con un’impostazione ostile verso Israele: in “Palestinian Enclaves”, per descrivere i Territori palestinesi si fa ricorso a termini come “prigione a cielo aperto” o “Bantustan”, dal nome delle aree del Sudafrica dove un tempo vigeva la segregazione razziale. Si propongono quasi solo voci critiche nei confronti d’Israele, che prendono per vero il paragone con l’apartheid sudafricano, senza mettere dall’altro lato abbastanza voci filoisraeliane. Un’altra pagina, “Comparisons Between Israel and Nazi Germany”, cerca di sdoganare fin dal titolo le accuse a Israele di comportarsi come la Germania nazista. Mentre “Zionism as Settler Colonialism”, cerca di normalizzare l’idea secondo cui il sionismo sia una forma di colonialismo, facendo riferimento solo a fonti filopalestinesi ed emarginando quelle che si oppongono a certi paragoni.
• Doppio standard Se le pagine filopalestinesi prosperano su Wikipedia, di quelle filoisraeliane si richiede sempre più spesso la cancellazione: almeno quattro pagine sui massacri compiuti da Hamas il 7 ottobre nei kibbutz di confine hanno visto degli utenti chiederne la cancellazione, riuscendo a sopravvivere per un soffio quando la cosa veniva messa ai voti. Altre pagine invece o sono state cancellate (“Hamas beheading incidents”, sulle decapitazioni compiute da Hamas), o sono state trasformate in sezioni minori di pagine più grandi (“Yakhini massacre”, sul massacro di sette israeliani avvenuto nel kibbutz Yakhini, trasformato in una sottosezione della più ampia pagina sugli attacchi di Hamas del 7 ottobre).
• Le difficoltà degli utenti israeliani Nel condurre la ricerca, la Aharoni Lir ha intervistato diversi utenti israeliani di Wikipedia, alcuni dei quali operano sulla versione in inglese. Dalle loro conversazioni, è emerso come molte pagine ostili a Israele risultino chiuse ad ulteriori modifiche, tranne che per gli utenti di lunga data. Inoltre, alcuni di loro hanno denunciato messaggi ostili da parte degli amministratori, i quali riservano agli israeliani un trattamento più severo rispetto agli utenti di altre nazionalità.
• Altri episodi controversi Ci sono stati anche altri episodi controversi in merito a Wikipedia: il 12 dicembre 2023, la versione del sito in lingua araba venne oscurata per un solo giorno in segno di solidarietà nei confronti dei palestinesi. Da quel momento, il logo di Wikipedia in arabo è stato rifatto con i colori della bandiera palestinese (foto in alto). Inoltre, è stato aggiunto un banner dove si legge: “In solidarietà con i diritti del popolo palestinese. No al genocidio a Gaza. No all’uccisione di civili. No a prendere di mira ospedali e scuole. Non c’è imbroglio o doppio standard che tenga. Fermiamo la guerra e creiamo una pace giusta e inclusiva”. Tutto questo violando platealmente il principio di neutralità, e senza menzionare nemmeno una volta i fatti del 7 ottobre. Oltre a Israele, un’altra controversia riguarda le pagine che trattano il tema della Shoah: secondo uno studio pubblicato nel 2023 sul The Journal of Holocaust Research, nell’ultimo decennio un piccolo gruppo di utenti avrebbe influenzato i contenuti relativi alla Shoah su Wikipedia, dirottandone la narrazione verso ricostruzioni piene di stereotipi e luoghi comuni.
• Suggerimenti utili Al termine della ricerca della Aharon Lir per il WJC, vengono proposte una serie di linee guida su come cercare di contrastare la mancanza di neutralità in merito a Israele. Prima di tutto, occorrerebbe istituzionalizzare le iniziative per contrastare i pregiudizi su Wikipedia, ad esempio mettendo insieme un comitato di ricercatori che monitorino costantemente la narrazione che traspare sul sito. Dovrebbero pubblicare dei resoconti regolari sui risultati delle loro ricerche, e organizzare incontri con la comunità degli utenti che creano e modificano contenuti al fine di sensibilizzarli sulla questione. Un’altra tattica sarebbe quella di cambiare le norme con le quali vengono scelti gli amministratori, costringendoli a presentarsi con i loro veri nomi anziché con pseudonimi. Questo servirebbe anche ad impedire che bullizzino e discrimino gli utenti israeliani nascondendosi dietro l’anonimato. Andrebbero inoltre riviste le regole sulla selezione delle fonti, in modo da ospitare una più vasta gamma di opinioni che non siano sbilanciate da una sola parte. Infine, andrebbero implementate delle misure per contrastare le violazioni del principio di neutralità, ad esempio con strumenti di intelligenza artificiale, e fare in modo che gli utenti che violino tale principio si assumano le proprie responsabilità.
Arte, libri, oggetti quotidiani: la storia degli ebrei nel Novecento italiano in mostra al Meis
Lo storico Mario Toscano e l’editore Vittorio Bo sono i curatori dell’esposizione. Oggetti e testimonianze filmate, tra cui quella della senatrice Liliana Segre, che dialogano con le opere e i documenti esposti.
La complessa sfida di sintetizzare la storia dell’ebraismo italiano durante il Novecento, un secolo straordinariamente ricco e al tempo stesso spaventosamente drammatico, è affrontata dalla mostra “Ebrei nel Novecento italiano”, inaugurata il 29 marzo e visitabile fino al 6 ottobre presso il Meis, Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara.
Lo storico Mario Toscano e l’editore e divulgatore scientifico Vittorio Bo, curatori dell’esposizione, hanno scelto il criterio guida di descrivere le trasformazioni dei contenuti del concetto di cittadinanza nei passaggi tra regime liberale, dittatura fascista e repubblica democratica, costruendo in tal modo un originale percorso espositivo in grado di cogliere le scelte e le responsabilità dello Stato e della società civile e le risposte fornite dalla minoranza ebraica: una relazione, quest’ultima, che partendo da una dimensione politica e normativa ha investito ogni aspetto della vita quotidiana.
Allo scopo di illustrare l’evoluzione delle forme di integrazione, assimilazione e emarginazione realizzatesi nel corso del Novecento, la mostra espone una selezione di oggetti molto diversi (opere d’arte, oggetti rituali, strumenti di uso quotidiano, documenti storici, ricordi di famiglia, filmati, libri, riviste e fotografie) che – ci ricorda il Presidente del Meis Dario Disegni – «raccontano la Storia d’Italia, le vite di donne e uomini che hanno cambiato il Paese e le toccanti piccole vicende quotidiane vicine a ognuno di noi».
Il percorso espositivo si sviluppa su due piani paralleli: un grande tavolo centrale con oggetti e testimonianze filmate, tra cui quella della senatrice Liliana Segre, che dialogano con le opere e i documenti esposti nelle sale attigue, divisi in sette sezioni (dalla prima «I risultati dell’integrazione» relativa al periodo 1900-1922, all’ultima «Identità, memoria e rappresentazione» inerente agli anni 1988-2000), funzionali innanzitutto a testimoniare la piena appartenenza degli ebrei italiani alla più ampia vita della comunità nazionale, anche nei momenti più drammatici.
Una mostra dunque capace di evidenziare il ruolo fondamentale di una minoranza che si è riconosciuta e integrata nella vita del Paese senza smarrire la sua identità culturale e religiosa e che, nella varietà dei messaggi e dei contenuti, «invita i visitatori – come messo in evidenza dai curatori nell’introduzione del catalogo – ad uno stretto confronto con chiunque voglia conoscere anche la propria storia di cittadini italiani (e non solo) specchiandosi in un ‘altro’, che diventa inevitabilmente sé stesso».
Importante sottolineare infine come “Ebrei nel Novecento italiano” rappresenti l’ultimo tassello di un preciso e necessario percorso fondativo, avviato nel 2017 con la mostra “Ebrei una storia italiana. I primi mille anni” e proseguito nel 2019 con “Il Rinascimento parla ebraico” e nel 2021 con “Oltre il Ghetto. Dentro&Fuori”, che il Meis ha voluto intraprendere per illustrare la millenaria storia dell’ebraismo in Italia: anni di intenso lavoro espositivo, didattico e di promozione della conoscenza intesa come antidoto al pregiudizio – attività questa più che mai necessaria proprio in questi ultimi mesi caratterizzati dal drammatico conflitto in Medio Oriente e dalla preoccupante ripresa dell’antisemitismo – che hanno saputo consolidare il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara come una delle realtà culturali più interessanti del panorama nazionale ed internazionale.
In vista del 25 aprile i partigiani puntano sullo slogan «Cessate il fuoco ovunque», ma non chiedono la liberazione degli ostaggi di Hamas. La reazione: accordi traditi.
di Giorgio Gandola
C'è il picco del raffreddore (dicembre), c'è il picco dei pollini (maggio), c'è il picco delle depressioni post-vacanze (settembre). E poi c'è il picco dell'Anpi. Ci avviciniamo al 25 Aprile e i custodi dell'ortodossia resistenziale alzano il volume, rispolverano i memorabilia, scandiscono l'agenda della Festa della Liberazione, diventata negli ultimi anni più divisiva di un derby di Roma. In attesa delle scontate polemiche su chi dovrà mostrare la patente democratica per scendere in piazza (a naso il governo di centrodestra), l'Anpi si allena con le frasi fatte. «Lo slogan della manifestazione di Milano sarà "Cessate il fuoco ovunque". Noi non chiediamo un cessate il fuoco e basta, lo chiediamo ovunque. E importante evidenziarlo». A ribadire il colpo di fantasia è il presidente nazionale
Gianfranco Pagliarulo, impegnato a trovare escamotage per far sì che quel giorno ci sia la celebrazione di tutto e del suo contrario. Devono avergli detto che «Cessate il fuoco ovunque« va bene anche per il Nagorno Karabakh, per la Transnistria, per gli Huthi yemeniti e per smettere di fumare, quindi lui si è molto sorpreso quando sia gli ebrei sia gli ucraini hanno rispedito (per la seconda volta) lo slogan al mittente. «Spero che sia stata una dimenticanza anche in questo caso», ha replicato Davide Romano, direttore del Museo della Brigata ebraica, che parteciperà al corteo di Milano. «Per noi "Cessate il fuoco" e "Liberazione degli ostaggi" sono due concetti che vanno portati avanti insieme». Già la scorsa settimana Primo Minelli, responsabile milanese di Anpi, si era dimenticato di citare gli ostaggi in un'intervista a La Repubblica nella quale magnificava lo spirito unitario delle celebrazioni di quest'anno. Viste le contrapposizioni e i distinguo sarà molto difficile. Lo spirito unitario evapora subito. Romano di fatto smentisce la sintonia: «Gli accordi con Anpi erano chiarissimi, il richiamo agli ostaggi è decisivo. Se n'è dimenticato Minelli qualche giorno fa, va bene, può capitare, caso chiuso. Ora se ne dimentica Pagliarulo. Cosa sta succedendo? C'è un problema a ricordare 133 civili ebrei (donne e bambini compresi) che sono in mano a degli stupratori e degli assassini? E' per me imbarazzante dovere richiamare l'Anpi al rispetto dei patti su questioni di civiltà, ma devo farlo perché non siano dimenticati anche loro. Come è già avvenuto per le 1.200 persone uccise tra indicibili torture il 7 ottobre, il peggiore massacro di ebrei dal 1945». Sulla stessa lunghezza d'onda è Kateryna Sadilova che, in rappresentanza della comunità ucraina, conferma di non condividere l'ambiguità del claim. «Partecipiamo da qualche anno al corteo con la Brigata ebraica, ci teniamo a commemorare i caduti ucraini in Italia e non ci riconosciamo nelle parole dell'Anpi. Sono sinonimo di una pace astratta, ipocrita, complice, vigliacca che non vede le fosse comuni con dentro i corpi martoriati e le camere di tortura». Pagliarulo ribadisce lo slogan, gli altri ribadiscono la contrarietà a un'Anpi impegnata a mettere la testa sotto la sabbia per dissimulare ciò che è chiaro a tutti: l'associazione storicamente filosovietica (come le brigate Garibaldi del tempo che fu) e da sempre filopalestinese, è semplicemente alla ricerca di una formula di marketing per compiacere tutti. Con l'obiettivo involontario di non accontentare nessuno. «Cessate il fuoco ovunque» non vincola all'impegno per il rilascio degli ostaggi israeliani, né alla solidarietà con la resistenza dell'esercito ucraino.
E' il solito pasticcio all'italiana, stigmatizzato da Daniele Nahum (consigliere comunale milanese dei Riformisti) con una frase decisiva: «Se i partigiani non fossero stati armati e se gli alleati non fossero intervenuti militarmente, parleremmo di un'altra storia». È importante che l'Anpi riesca a sciogliere in fretta il nodo lessicale per poi dedicarsi ai fascisti su Marte, tema sul quale rimane imbattibile.
Negli Stati Uniti le donne ebree ortodosse protestano per ottenere il divorzio
Quello religioso, diverso da quello civile, che può essere concesso solo dal marito e senza il quale restano isolate nelle loro comunità: alcune di loro hanno organizzato uno sciopero del sesso.
di Francesco Costa
Le donne di alcune comunità ebraiche ortodosse dello stato di New York, negli Stati Uniti, stanno protestando contro le norme tradizionali che regolano il divorzio. Si tratta di regole religiose che attribuiscono molto potere al marito, e che in molti casi non permettono alle donne di terminare una relazione, anche dopo aver ottenuto il divorzio civile. La protesta è iniziata da diverse settimane per sostenere una donna di 29 anni, Malky Berkowitz. La famiglia di Berkowitz vive a Kiryas Joel, una comunità tradizionalista di circa 38 mila abitanti abitata quasi esclusivamente da ebrei ortodossi, a un’ottantina di chilometri da New York. Da quattro anni Berkowitz sta cercando di convincere il marito a concederle il divorzio religioso: finora, però, le sue richieste non hanno avuto successo, e lei è costretta a continuare a vivere con lui. Comunità come quella di Kiryas Joel sono in tutto soggette alla legge statunitense. Al tempo stesso però accolgono persone che seguono rigidamente gli usi dettati dalla legge ebraica ortodossa, e che vivono separati dal resto della popolazione. Si tratta, comunque, di una minoranza dentro alle comunità ebraiche statunitensi, che vivono in modo più laico e non sono fisicamente separate dal resto della popolazione. Secondo Adina Sash, una donna ebrea ortodossa di Brooklyn che è la principale organizzatrice e portavoce della protesta per il divorzio, quello di Berkowitz non è un caso isolato. «Solo nell’ultimo anno abbiamo protestato per garantire il divorzio religioso a diciotto donne», ha detto. Questa protesta, ha chiarito, è diretta a sostenere «tutte le donne ortodosse, ovunque vivano», e a denunciare un problema che è «sistemico». Secondo la legge ebraica, un matrimonio religioso può essere sciolto solo quando il marito consegna a sua moglie un documento, chiamato get, che di fatto è una specie di permesso che attesta che la donna è libera dall’autorità del marito e può incontrare e sposare altri uomini. Se questo non avviene, per la comunità la coppia rimane legalmente sposata, anche se il divorzio è già stato riconosciuto da un tribunale civile. Quando una coppia di ebrei ortodossi si sposa, celebra il rito civile oltre a quello religioso. Ma a causa delle loro convinzioni religiose, per le donne il divorzio civile non è abbastanza per ritenere davvero sciolta l’unione matrimoniale. Ottenere il get è importante perché è prescritto dalle autorità religiose e perché, banalmente, fa parte dei doveri che le donne ortodosse sentono di dover rispettare. Inoltre, il divorzio religioso è per loro essenziale per essere delle donne libere e non ostracizzate all’interno delle comunità in cui vivono. Una donna che vuole divorziare, ma non riesce a ottenere il get, non è indipendente, non può risposarsi e non può avere figli con un’altra persona. Le donne in questa situazione rimangono bloccate all’interno di un matrimonio religioso che non possono abbandonare: nella tradizione ebraica sono chiamate agunot, cioè letteralmente mogli «in catene». È una pratica che può facilmente portare ad abusi: può capitare che un uomo sfrutti il get come arma di ricatto nei confronti della moglie, chiedendo per esempio in cambio una somma di denaro, la custodia dei figli, o anche per imporre alla moglie di non avere rapporti con altri uomini. È un problema comune a molte comunità ortodosse. In Israele è stata creata una associazione, Yad La’isha, che si occupa di sostenere le donne che si trovano in questa situazione (e che secondo la stessa organizzazione in tutto il mondo sarebbero più di 2.400 ogni anno). Nel Regno unito, non concedere il get è considerato reato. Ma negli Stati Uniti, dove secondo il Pew Research Center vivono 5,8 milioni di ebrei ortodossi e dove alle comunità religiose viene garantita una grande autonomia, il problema è più complicato: le autorità civili non si interessano molto al problema (visto che, dal punto di vista dello stato, il divorzio è avvenuto, e la donna è libera di lasciare il marito) e le autorità religiose, esclusivamente composte da uomini, raramente decidono di intervenire. Così, spesso, le donne che vogliono divorziare devono organizzarsi e inventarsi dei metodi per persuadere il marito a concedere il get. Spesso si tratta di metodi di pressione pacifici, ma non sempre: nel 2015 a New York due uomini, Mendel Epstein e Binyamin Stimler, vennero condannati per avere organizzato un gruppo che sequestrava e picchiava i mariti recalcitranti, con lo scopo di convincerli ad acconsentire al divorzio religioso. Adina Sash ha spiegato che, per sostenere Malky Berkowitz, le attiviste hanno organizzato proteste in diverse comunità ortodosse attorno a New York. Hanno anche iniziato uno «sciopero del sesso», rifiutando di avere rapporti con i propri mariti fino a quando Berkowitz non otterrà il divorzio. La tradizione ebraica proibisce i rapporti durante le mestruazioni. Alla fine del ciclo, le donne ortodosse devono immergersi in un mikvah, un bagno rituale, prima di avere un rapporto col proprio marito. Sash ha invitato le donne ad astenersi dal mikvah, sfruttando le regole di purificazione per rifiutare il sesso coniugale; oppure a rifiutare i rapporti sessuali durante il riposo tradizionale del sabato, considerati particolarmente importanti. Sash ha spiegato come, per la natura stessa dell’iniziativa, sia difficile avere cifre precise su quante donne partecipino allo sciopero. Secondo lei, questa strategia serve per dare visibilità alla protesta, ma è anche un modo per fare pressione sugli uomini della comunità, e convincerli a loro volta a sostenere attivamente Berkowitz e le altre agunot. L’idea di sfruttare il sesso come mezzo di protesta ha attirato sulle attiviste molte critiche. Hershel Schachter, un importante leader religioso ortodosso statunitense, in una lettera ha detto che «suggerire una tattica di questo tipo è una ricetta per il disastro». Sash ha anche spiegato di essere regolarmente vittima di minacce e intimidazioni. Il diritto al divorzio, per Sash, è parte di una questione più ampia, che riguarda il ruolo delle donne all’interno della loro comunità. Anche se le regole variano, di solito le donne ebree ortodosse sono soggette a molte restrizioni: devono vestirsi in modo casto (per esempio, evitando gonne che scoprano le ginocchia), rasarsi la testa e indossare delle parrucche in pubblico. I matrimoni di solito vengono combinati dalle famiglie quando gli sposi sono appena maggiorenni e non si conoscono. Sash sostiene che anche se le regole non cambieranno, usare il sesso come mezzo di protesta serve a introdurre una discussione sul consenso e sul rapporto sessuale vissuto come obbligo: «Si tratta di un modo per permettere alle donne di riaffermare il controllo sul proprio corpo. È anche un modo di dire ai nostri leader che le donne non stanno più al loro gioco».
Israele ritira le truppe e prepara l'assalto a Rafah: ecco cosa può succedere adesso
TEL AVIV - Israele toglie il tappo a Rafah e ritira tutte le truppe combattenti di terra dal Sud della Striscia. Subito dopo l’uscita da Khan Yunis della Divisione 98, i primi sfollati palestinesi hanno iniziato a risalire dall’estremo Sud dell’enclave, dove sono stati confinati per quattro mesi. In previsione della massiccia operazione militare a Rafah, approvata a tutti i livelli della catena di comando e pronta per essere lanciata, questo movimento spontaneo di persone - dicono funzionari dell’esercito - faciliterà l’evacuazione dei civili che rimarranno nella città-valico. Ufficiali di Tsahal negano che a determinare il cambio di passo sia stata la pressione degli Usa o l’onda d’urto del disastroso errore che una settimana fa ha causato l’uccisione di sette operatori umanitari. «Il ritiro delle truppe da Khan Yunis è stato effettuato quando Hamas ha cessato di esistere come struttura militare nella città», ha messo in chiaro il ministro della Difesa Yoav Gallant.
La mossa di Tsahal, per analisti e funzionari militari, si inquadra nella prossima fase strategica in cui sta entrando il conflitto. I riservisti della “Utzbat HaEsh” (Formazione di Fuoco) hanno terminato la missione di distruggere la brigata Khan Yunis di Hamas. Come già avvenuto al Nord, il modus operandi anche in quella zona virerà su attacchi mirati. L’esercito continuerà ad agire su target precisi. Sul modello dell’ultima operazione nell’ospedale Al Shifa.
Resta a Gaza la brigata Nahal, con il compito di tenere sotto controllo il Corridoio Netzarim, una cintura perpendicolare alla costa, all’altezza del kibbutz israeliano Beeri, che divide Gaza in due parti, tenute attentamente non comunicanti tra loro. Per impedire ai palestinesi di tornare nella parte settentrionale della Striscia, uno dei nodi irrisolti nelle trattative per un accordo tra Israele e Hamas. E per consentire alle organizzazioni umanitarie di portare gli aiuti direttamente nel Nord.
Resta, ben presente sul campo, l’intelligence. L’esercito è in fase di osservazione. «Terranno d’occhio i terroristi rimasti e come si riorganizzano. E poi li attaccheranno costantemente, ma con raid limitati, senza bisogno di rimanere tutto il tempo “on the ground”. Restare dentro senza essere in modalità di pieno attacco mette in pericolo i nostri soldati», dice a La Stampa Amit Avivi, ex generale che durante la sua carriera militare ha ricoperto il ruolo di vice comandante della Divisione Gaza.
Il ritiro dei combattenti da Khan Yunis è funzionale alla preparazione dell’invasione di Rafah. Da un lato l’esercito sta portando la popolazione a migrare spontaneamente, alleggerendo la pressione dei rifugiati che, in ottica militare, rendono la città sul confine con l’Egitto un paniere di uova dentro cui è impossibile muoversi. E «per poter spostare le persone - conferma Aviv - dobbiamo allontanare la divisione, perché vogliamo che la gente si senta rassicurata e si metta in viaggio verso Khan Yunis». C’è anche un aspetto legato alla riorganizzazione e ridistribuzione delle truppe israeliane. Dopo mesi e mesi sul campo hanno bisogno di una pausa ma anche di rifornire le attrezzature, di recepire i nuovi ordini. Non è certo la fine della guerra. «Le nostre forze hanno lasciato l’area per prepararsi alle loro future missioni, inclusa quella a Rafah», ha ribadito il capo della Difesa. L’altra è l’eliminazione dei due battaglioni rimasti attivi nei campi profughi, come Deir el-Balah, nel centro della Striscia.
L’esercito prevede che la partenza da Khan Yunis porterà anche «ulteriori opportunità operative e di intelligence». L’allentamento della presenza dei combattenti potrebbe attirare i capi di Hamas nel mirino, indurli a uscire allo scoperto, in superficie, tra la folla. «Quando l’Idf comunicherà alla popolazione di spostarsi da Rafah a Khan Yunis, avverrà lungo corridoi umanitari controllati da telecamere dotate di intelligenza artificiale - precisa l’ex vice comandante della Divisione Gaza - in modo tale da impedire il più possibile il passaggio dei leader terroristi e degli ostaggi». Ma se per qualche motivo un comandante di Hamas sfidasse i controlli, «potrebbe rappresentare un’opportunità», ammette Avivi.
Hamas ha accolto il ritiro, sebbene parziale, delle truppe israeliane come una vittoria. Ma l’impatto sull’accordo e «la natura dei colloqui non cambia», secondo il funzionario israeliano. Che esclude anche un cessate il fuoco temporaneo a fini umanitari per la coda del Ramadan, nei giorni di Eid al-Fitr, come hanno lasciato intendere indiscrezioni dal Qatar e dall’Egitto. «Sappiamo che gli ostaggi sono a Rafah e nelle zone in cui non siamo entrati, nei campi profughi del centro. Se non arriviamo presto agli ostaggi - dice - non avremo altra scelta che entrare e cercare di liberarli con l’esercito». A quel punto, se la via diplomatica non avrà trovato una soluzione per l’altro fronte, quello al confine fra Israele e Libano, Israele si dice pronto per il successivo scenario bellico. «Questa guerra ha mostrato al mondo ciò che Israele ha sempre saputo - ha dichiarato il premier Benjamin Netanyahu -. L’Iran è dietro i numerosi attacchi dei suoi alleati contro di noi. A chiunque ci faccia del male, o ne abbia l’intenzione, faremo noi del male a loro».
(La Stampa, 8 aprile 2024)
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Il ritiro di Israele da Gaza sud non vuol dire che la guerra è finita
La decisione dei vertici dell'IDF coglie tutti di sorpresa e, nonostante le precisazioni, non è ben chiaro cosa voglia dire
Il Capo di Stato Maggiore dell’IDF, Gen. Herzi Halevi, ha dichiarato domenica che, nonostante il ritiro di tutte le forze di terra di manovra dalla Striscia di Gaza, la guerra contro Hamas continua ed è tutt’altro che finita. Ha anche detto che l’IDF saprà come tornare a combattere nel caso di una tregua temporanea come parte di un accordo sugli ostaggi, e che il ritorno degli ostaggi in Israele è una questione più urgente di altri obiettivi. “Stiamo combattendo questa guerra in modo diverso, diverso dalle guerre precedenti”, ha affermato Halevi in una dichiarazione alla stampa che segna i sei mesi dall’attacco di Hamas del 7 ottobre e dall’inizio della guerra. “La guerra a Gaza continua, e siamo lontani dal fermarci. Alti funzionari di Hamas si nascondono ancora. Li raggiungeremo prima o poi. Stiamo facendo progressi, continuando a uccidere altri terroristi e comandanti e a distruggere altre infrastrutture del terrore, anche la scorsa notte”, ha dichiarato. “Non lasceremo le brigate di Hamas attive in nessuna parte della Striscia. Abbiamo dei piani e agiremo quando lo decideremo”. Contemporaneamente allo sforzo offensivo, permettiamo l’introduzione di aiuti umanitari nella Striscia. L’interesse di Hamas è quello di presentare una crisi umanitaria a Gaza, per fare pressione per la fine della guerra”, ha detto Halevi. Ha aggiunto che “Hamas sta cercando di prendere il controllo degli aiuti umanitari e impedisce la loro distribuzione, per tornare a controllare la Striscia di Gaza – questo non dove accadere”. “Pertanto, continuiamo a smantellare Hamas dalle sue capacità militari e governative, per portare… stabilità alla regione”, ha continuato Halevi. In un messaggio simile, il ministro della Difesa Yoav Gallant ha affermato che il motivo del ritiro delle truppe dalla Striscia è quello di prepararsi all’offensiva prevista nella città più meridionale di Gaza, Rafah. Gallant ha affermato che, grazie ai successi militari, Hamas ha “smesso di funzionare come organizzazione militare in tutta la Striscia di Gaza”, ma poi si è contraddetto, dicendo che l’IDF si sta ancora preparando ad affrontare i battaglioni di Hamas rimasti a Rafah. Un portavoce di Gallant ha poi chiarito che il ministro della Difesa si riferiva all’area di Khan Younis e ad altre parti della Striscia dove l’esercito aveva operato, e non a tutta Gaza. “I risultati della 98esima Divisione e delle sue unità sono estremamente impressionanti: hanno preso di mira i terroristi, distrutto obiettivi nemici, magazzini, armi, [siti] sotterranei, quartieri generali, sale di comunicazione”, ha detto il ministro della Difesa. “Le forze sono uscite [da Gaza] e si stanno preparando per le loro missioni future. Abbiamo visto esempi di tali missioni in azione a Shifa [Hospital], e anche per la loro futura missione nell’area di Rafah”, ha detto Gallant. “Raggiungeremo una situazione in cui Hamas non controllerà la Striscia di Gaza e non funzionerà come struttura militare che rappresenta un rischio per i cittadini dello Stato di Israele”, ha aggiunto. I funzionari israeliani hanno dichiarato che 18 dei 24 battaglioni originari di Hamas nella Striscia di Gaza sono stati smantellati, il che significa che non funzionano come unità militare organizzata, sebbene esistano ancora cellule più piccole. Quattro battaglioni di Hamas rimangono praticamente intatti nel sud di Gaza, a Rafah, e altri due si trovano nella parte centrale della Striscia. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha ripetutamente affermato di approvare i piani militari per un’operazione a Rafah, anche se non ha dato il via libera alla loro realizzazione. Il progetto di offensiva a Rafah ha suscitato grande costernazione nella comunità internazionale, anche da parte degli Stati Uniti e dell’Egitto, a causa del fatto che la città meridionale di Gaza ospita ora più di un milione di palestinesi sfollati da altre zone della Striscia. Israele ha dichiarato che sta preparando piani per evacuare e proteggere i civili da Rafah come parte dei suoi piani offensivi.
• L’IDF sta lavorando “per restituire tutti gli ostaggi il più rapidamente possibile” Parlando dell’operazione del fine settimana per recuperare il corpo dell’ostaggio Elad Katzir, Halevi ha detto: “Tutti noi avremmo voluto riaverlo vivo. Non ci siamo riusciti”. “Continueremo ad agire in qualsiasi modo. Continueremo i nostri sforzi, di intelligence e operativi, per restituire tutti gli ostaggi il più rapidamente possibile”, ha detto. “Come capo di stato maggiore, sento personalmente la responsabilità di restituirli, così come gli altri comandanti dell’IDF e i suoi soldati”. Halevi ha detto che i colloqui per la negoziazione degli ostaggi dovrebbero essere “fatti in modo responsabile e attento e i dettagli dovrebbero essere lasciati nelle stanze giuste”. “L’IDF è abbastanza forte perché lo Stato di Israele sappia come pagare il prezzo per il ritorno dei suoi figli e delle sue figlie”, ha continuato. “Abbiamo un dovere morale nei loro confronti e l’IDF saprà sopportare anche un prezzo difficile e saprà anche tornare a combattere con forza”. “Quando siamo entrati in guerra all’inizio, sapevamo e avevamo detto che sarebbe durata a lungo, per raggiungere gli obiettivi. Abbiamo ottenuto risultati molto significativi nei combattimenti a Gaza, ma gli obiettivi non sono ancora stati pienamente raggiunti: il ritorno di tutti gli ostaggi a casa, il ritorno di tutti i residenti del nord e del sud alle loro case in sicurezza e lo smantellamento di Hamas nell’intera Striscia di Gaza, in modo da consentire un governo che non sia Hamas nella Striscia di Gaza”, ha dichiarato. “Questa realtà è estremamente complessa e non ci sono soluzioni semplici. Conduciamo la guerra con responsabilità e determinazione. Non dobbiamo farci illusioni”, ha affermato. “Come abbiamo detto, alcuni obiettivi richiederanno molto tempo e non molleremo finché non li avremo raggiunti. La restituzione degli ostaggi è importante e urgente, e il suo timer è diverso da quello degli altri obiettivi”, ha aggiunto Halevi.
• Israele “in una guerra su più fronti Parlando delle minacce dell’Iran di rispondere al presunto assassinio da parte di Israele dell’alto ufficiale dell’IRGC in Siria, Halevi ha detto che l’IDF è pienamente preparato a qualsiasi scenario. Israele sta affrontando “una guerra su più fronti”, ha detto. “Non c’è motivo di farsi prendere dal panico, ma non c’è nemmeno spazio per l’autocompiacimento. Dobbiamo essere consapevoli della situazione e sempre pronti”, ha dichiarato Halevi. “Le truppe dell’IDF sono preparate e operano in tutti gli ambiti, a sud, a nord, in Giudea e Samaria [la Cisgiordania] e in ambiti più lontani. L’IDF sa anche come affrontare l’Iran, sia in attacco che in difesa”, ha avvertito. “Ci siamo preparati per questo, abbiamo buoni sistemi di difesa, sappiamo come agire con forza contro l’Iran in luoghi vicini e lontani. Lavoriamo in cooperazione con gli Stati Uniti e con i partner strategici nella regione”, ha continuato Halevi. Ha affermato che dall’inizio della guerra a Gaza, “l’Iran ha cercato di disconoscere e nascondere il suo coinvolgimento diretto, ma sappiamo che attiva, dirige, finanzia e trasferisce conoscenze a tutti i suoi proxy nella regione, da Hezbollah, attraverso la Giudea e la Samaria fino allo Yemen”. “L’Iran non minaccia solo Israele, ma l’intero mondo occidentale e arabo, l’Iran è un problema globale, era e rimane il grande problema”, ha aggiunto.
• Il 7 ottobre è un momento “spartiacque Apparendo per affrontare il dibattito in corso sulla leva Haredi e su altre modifiche al servizio obbligatorio, Halevi ha detto che l’IDF dovrà essere più grande e subire cambiamenti per evitare che un attacco come quello del 7 ottobre si ripeta. “Il 7 ottobre è uno spartiacque nella sicurezza israeliana. Abbiamo iniziato a indagare sui complessi eventi di questo giorno, impareremo e prenderemo decisioni”, ha dichiarato alla stampa. “Le ipotesi di lavoro con cui abbiamo operato, gli scenari a cui ci siamo preparati, la percezione del nemico che abbiamo avuto, è chiaro che devono cambiare”, ha dichiarato Halevi. L’IDF deve essere più forte, più grande, in modo che ciò che è accaduto il 7 ottobre non si ripeta”. E naturalmente questi non sono gli unici cambiamenti”, ha aggiunto. “Le decisioni che prendiamo oggi hanno un effetto decisivo e critico sulla costruzione della forza dell’IDF nel futuro prossimo e remoto”, ha continuato Halevi. “Non abbiamo il privilegio di rimandarle. Ritardare le decisioni sulla costruzione della forza dell’IDF mette in pericolo la sicurezza del Paese”, ha aggiunto, in un apparente riferimento alle notizie secondo cui il Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich si sarebbe opposto all’acquisto di nuovi jet da combattimento da parte dell’esercito.
Pomeriggio particolarmente intenso, quello di domenica 7 aprile, quando nella sala centrale della Sinagoga di via Guastalla, una serie di personalità comunitarie e istituzionali cittadine e nazionali hanno preso la parola per ricostruire, come ha specificato il Rabbino Capo Alfonso Arbib “uno dei periodi peggiori della nostra storia recente”. Ad introdurre l’evento, il vicepresidente e assessore ai Giovani
lan Boni
Ilan Boni, vicepresidente della Comunità ebraica di Milano
che prima di aprire l’evento col suo intervento, ha fatto trasmettere un breve video che ricostruisce le varie fasi storiche dell’odio antiebraico sull’antisemitismo di Rav Jonathan Sacks, ex rabbino capo del Commonwealth scomparso qualche anno fa.
• 6 mesi dal sabato maledetto Subito dopo l’assessore Ilan Boni ha ricostruito la successione di eventi da quel “terribile sabato mattina di sei mesi fa, che ha cambiato la storia per sempre”. “Sono le sei del mattino” ha cominciato così la sua meticolosa ricostruzione “l’ora di inizio dell’attacco di Hamas, un’offensiva avvenuta su più fronti con il lancio di migliaia di missili, droni che mettono fuori uso le telecamere della sicurezza. Uomini che atterrano in territorio israeliano a bordo di piccoli deltaplani a motore e trattori che buttano giù un muro che fino a quel momento sembrava indistruttibile. L’assalto porta in Israele migliaia di miliziani di Hamas armati di lanciarazzi, granate e mitra. Le caserme militari cadono dopo pochi minuti, soldati vengono freddati sopra i loro letti, e chi non viene ucciso viene portato via in mutande. Interi villaggi che diventano luoghi dell’orrore, famiglie sterminate nei loro letti, anziani massacrati dalle granate, madri costrette a vedere i loro figli uccisi, torture, abusi, persone bruciate vive, future madri a cui viene tagliato il ventre preso il feto e buttato via”. Successivamente egli ha ripercorso il massacro al Festival della Musica, il Super Nova di Reeim, “giovani ragazzi che si danno appuntamento, non hanno un mitra o una divisa, non hanno alcuna cattiva intenzione se non quella di è ballare, passare del tempo assieme, sorridere. L’attacco è inaspettato e tremendo, molti non ce la faranno, alcuni si sono salvati nascondendosi sotto la boscaglia o nelle loro case dentro un armadio o sotto il letto costretti a restare immobili magari dentro un armadio, costretti a rimanere in silenzio per ore nonostante quello che hanno visto. Stasera siamo qui per ricordare con un dolore immenso le millecinquecento vittime che hanno perso la vita in quelli attacchi e se siamo qui è anche per onorare queste persone che non ci sono più. In tempi come questi in cui ci sentiamo spesso isolati e spaventati è fondamentale sapere che non siamo soli. Gli eventi in Israele e l’antisemitismo crescente ci mettono davanti a una realtà difficile , tuttavia la vostra presenza stasera ci da tanta speranza e fiducia e ci fa sentire meno soli”.
• Rav Alfonso Arbib: “Stiamo vivendo forse il periodo peggiore dopo la II Guerra Mondiale”
I nostri Maestri dicono che quando si ricorda è perché stiamo cominciando a dimenticare – ha esordito
Rav Alfonso Arbib
Rav Alfonso Arbib, Rabbino Capo di Milano
-. Quello che successo è stata un’ondata di solidarietà iniziale, poi è scesa e tutto questo è stato rimosso. Ci riuniamo qui oggi non solo per non dimenticare ma perché stiamo vivendo un periodo estremamente difficile, forse il periodo peggiore della storia ebraica dopo la Seconda Guerra Mondiale, sicuramente nella mia storia personale un periodo peggiore di questo non c’è. È un momento in cui ci sentiamo soli e vi ringrazio doppiamente perché alleviate questo sentimento. Veniamo spesso accusati di esagerare a parlare di antisemitismo, ma abbiamo migliaia di anni di storia per capire che non stiamo esagerando. Il sette ottobre è stato dimenticato da molte persone, a volte se ne parla ma con assoluta freddezza dicendo senza alcuna emozione che bisogna ricordare e condannare. Ma è possibile che questo non porti emozioni? Questo mi impressiona come la questione dei rapiti, ed è meglio usare questa parola, come in ebraico, che ostaggi, violentemente presi dalle loro case: le loro foto sono state strappate dall’inizio e non riesco a definire questo in altro modo se non come odio e antisemitismo. C’è un odio antico con cui non si fanno i conti e che viene considerato irrilevante per il mondo. Ogni volta che questo accade succedono cose terribili e vi chiedo di fare in modo che tutto questo non venga dimenticato e che l’odio antisemita sia qualcosa che possiamo un giorno lasciarci alle spalle”.
• Meghnagi: “L’Occidente deve agire, è una battaglia di tutti” “Mi ha chiamato poco fa mia figlia da Israele che mi ha detto di aver preparato il kit di sopravvivenza, comprando medicinali, acqua minerale, una pila elettrica e il bunker è pronto – ha raccontato il presidente della Comunità ebraica di Milano
Walker Meghnagi
-. Parliamo di milioni di israeliani che stanno pensando a come sopravvivere, ma l’Occidente deve reagire, quello che è successo è odio, non è possibile avere uno stato in pace coi vicini. È l’Occidente che deve agire, i Paesi arabi moderati sono pronti. Terribile quando dicono di fermare le armi a Israele, che ha bisogno di munizioni per difendersi, non per attaccare. Noi amiamo la vita, crescere insieme nel rispetto delle religioni. Qui in Occidente si dice di fermare la guerra, ma Hezbollah ha lanciato missili e migliaia di persone sono sfollate dalle case. Immaginate se a Monza o a Como dicessero di andare tutti in Piemonte, in Abruzzo, in Emilia Romagna cosa fareste? Chiedo di combattere con noi perché la battaglia non è solo nostra ma è anche vostra.”
• Milo Hasbani (Ucei): “L’ignoranza è quello che fa crescere l’antisemitismo” In conclusione per la parte comunitaria, ha parlato
Milo Hasbani
che ha ringraziato tutti per la vicinanza. “Sono stati sei mesi in cui tutte le nostre comunità hanno seguito la stampa, le dichiarazioni dei politici e le ricostruzioni spesso non molto corrette però fortunatamente abbiamo molte persone vicino a noi. Ringrazio tutti da parte della presidente Ucei e soprattutto due persone che con grande coraggio hanno dato le dimissioni perché non hanno pensato alla poltrona e non hanno accettato quanto si dice di Israele, come Roberto Cenati e Daniele Nahum”. Hasbani ha poi ricordato i pericoli dell’ignoranza. Durante una trasmissione una ragazza laureata all’università che non riusciva a tenere un discorso, senza conoscere la storia ripeteva continuamente che “Israele ammazza i bambini. Questa ignoranza è quella che fa crescere l’antisemitismo, l’8 maggio sarà il mio compleanno e vorrei dire che non voglio passare questo mese così ma devono liberare queste persone subito”.
Dalla guerra di Gaza Israele sta ottenendo solo incertezze
Janiki Cingoli, decano del giornalismo italiano, spiega a Riflessi la situazione politica e militare a oltre sei mesi dall’inizio della guerra più lunga combattuta da Israele.
di Massimiliano Boni
- Qual è la situazione sul campo oggi a Gaza? Non mi sembra variata granché rispetto ad alcune settimane fa, quando l’avevo definita una guerra di attrito. Attualmente le brigate dell’esercito israeliane impegnate a Gaza sono due e mezza, quindi una ridotta presenza militare, concentrata particolarmente nell’area di Khan Yunis, con operazioni rivolte a eliminare le sacche di resistenza di Hamas (rilevante in particolare quella rivolta all’ospedale di Al Shifa, dove sono stati uccisi o arrestati centinaia di miliziani che vi si erano nuovamente rifugiati), e anche per impedire che Hamas torni ad infiltrarsi nel nord di Gaza. Quanto a Rafah, le operazioni durante il periodo del Ramadan sono state minime, ad eccezione del grave incidente occorso nei confronti degli operatori della ong WCK.
- La risoluzione dell’ONU, votata alcuni giorni fa con l’astensione degli Stati Uniti, che imponeva un cessate il fuoco a Israele, contestualmente alla liberazione degli ostaggi, ha avuto effetti sulle scelte del governo israeliano? La risoluzione è stato chiaramente un segnale inviato a Israele, ma occorre tener presente che essa richiedeva un cessate al fuoco per il periodo del Ramadan, cioè fino a domani. Sostanzialmente aveva l’obiettivo di impedire un aumento imprevedibile dell’escalation militare durante questo mese, che in effetti è trascorso senza grandi operazioni militari, ad eccezione dei casi che indicavo prima, e fortunatamente anche senza gravi incidenti sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme. Naturalmente, oltre alla risoluzione, ha contato molto la pressione crescente degli Stati Uniti verso Netanyahu. La scorsa settimana i media israeliani e americani hanno dato conto di una telefonata intercorsa tra Biden e Netanyahu, in cui il primo ha minacciato la possibilità concreta di cambiare le politiche dell’amministrazione USA nei confronti di Israele, nel caso in cui questo non avesse preso misure immediate, verificabili e operative a favore della popolazione civile di Gaza. L’effetto è stato la convocazione del Consiglio di Gabinetto, organismo più allargato rispetto a quello di Guerra, che ha deliberato di aprire il porto di Ashdod e il valico di Erez per consentire un maggiore afflusso di beni, e di fare di tutto per evitare ulteriori incidenti.
- La situazione della assistenza alla popolazione civile di Gaza è così migliorata? Mi sembra che resti intatta la questione di una distribuzione efficiente dei beni alimentari, come dimostrato anche dei tragici incidenti accaduti nel corso della distribuzione del cibo alla popolazione, con oltre cento morti e feriti nella calca. Israele non vuole provvedere direttamente alla distribuzione del cibo, e i clan locali sono stati più volte minacciati da Hamas, che in alcuni casi è arrivata anche a uccidere dei loro capi. Quanto all’UNRWA, Israele ha più volte manifestato la sua totale sfiducia nei confronti di tale organizzazione.
- Una delle accuse che viene mossa ad Israele è di voler affamare di fatto la popolazione di Gaza quasi provocando una carestia, come forma di pressione nei confronti di Hamas per la liberazione degli ostaggi. Direi che l’atteggiamento di Israele in questi mesi di guerra è stato ondivago. Vi sono stati miglioramenti nei quantitativi affluiti, ma si sono registrate anche una serie di distorsioni e di incongruenze, che sono culminate con gli incidenti cui mi riferivo prima. La gestione e la distribuzione degli aiuti alimentari non è certo risolta e non credo che lo sarà a breve.
- Perché? È un problema collegato a quello di chi si deve far carico dell’amministrazione civile di Gaza. Il problema è se sia opportuno o meno utilizzare quelle migliaia di persone che costituiscono i quadri impiegatizi a Gaza e che oggi di fatto sono nell’impossibilità di lavorare. È possibile fare affidamento sugli impiegati civili, i medici, gli infermieri, le levatrici, e sulle stesse forze di polizia locale, che operavano a Gaza prima del 7 ottobre? È evidente infatti che non è in alcun modo pensabile una totale sostituzione di tale personale con altro di fiducia. A Gaza vi erano 50.000 impiegati di Hamas, più altri 40.000 che dopo il colpo di Stato del 2007 hanno continuato ad essere pagati dall’Autorità Palestinese pur senza recarsi al lavoro, e che potrebbero essere lo scheletro di una nuova amministrazione civile, con le necessarie scremature. Fino adesso Israele ha mostrato più volte di non riuscire a fare una netta distinzione fra personale civile e personale militare, la conseguenza è l’enorme difficoltà a gestire la distribuzione degli aiuti a Gaza ed in prospettiva di assicurare la sua amministrazione locale.
- Dopo l’attacco al consolato iraniano di Beirut della scorsa settimana, pur non rivendicato da Israele, ma attribuito con certezza allo Stato ebraico, quanto è probabile un’estensione del conflitto? Certo si tratta di un ennesimo atto di “guerra in mezzo alle guerre” (war between the wars). Esso fa seguito a una serie d’altre azioni molto penetranti, come l’uccisione di scienziati iraniani, o il boicottaggio delle strutture di ricerca iraniane, che hanno caratterizzano da anni il rapporto fra Israele e l’Iran. Il problema è che stavolta l’attacco è avvenuto ad una sede diplomatica, quindi giuridicamente in territorio iraniano. Si tratta da questo punto di vista di un salto di qualità. Da giorni le ambasciate israeliane di tutto il mondo sono in massima allerta, e per alcuni giorni sono rimaste chiuse. È difficile al momento prevedere se e quale sarà la reazione della Repubblica islamica. Né può escludersi una rappresaglia nei confronti di basi americane in Iraq e in Siria, o un allargamento del conflitto con Hezbollah.
- Come giudichi la strategia militare di Israele fino a questo punto? Non si comprende bene la sua logica complessiva. L’obbiettivo di una vittoria totale su Hamas, sbandierato da Netanyahu, è chiaramente irraggiungibile. L’organizzazione islamica ha mantenuto almeno i due terzi dei suoi effettivi militari sui 30.000 stimati, ma li ha dispersi in piccole cellule terroristiche conducendo azioni di guerriglia mirate. Le perdite israeliane dopo il 7 ottobre ammontano oramai a 600 caduti. I capi di Hamas si nascondono nel dedalo dei tunnel, ben protetti dallo scudo degli ostaggi. L’altissimo numero delle vittime palestinesi, oltre 32.000, per circa i due terzi civili, ha isolato Israele nel mondo, facendo impallidire il ricordo degli orrori del 7 ottobre. Lo stesso rapporto con gli USA si è deteriorato, a cominciare da quello con Biden. Tra gli ultimi episodi, l’annullamento, dopo l’approvazione della risoluzione al Consiglio di Sicurezza, della missione di esperti israeliani a Washington per discutere della possibile operazione a Rafah, che poi invece è stata riconfermata. Ma i rappresentanti americani hanno decisamente ribadito la loro contrarietà, per la mancanza di garanzie per la popolazione civile, ed anche per il rischio di deterioramento delle relazioni con l’Egitto. In sintesi, quella israeliana mi pare una tatticalizzazione della strategia, manca un orizzonte politico complessivo, e soprattutto una riflessione sul day after il conflitto, su come sarà possibile gestire Gaza, sul possibile ruolo dell’Autorità Palestinese, e di come inserire l’iniziativa diplomatica in un quadro di stabilizzazione regionale, che consenta la ripresa del processo di normalizzazione con i sauditi e lo stesso Qatar, nell’ottica di un processo verso una possibile situazione a due stati.
- La politica interna di Israele è in movimento: come vanno attualmente le cose nelConsiglio di Guerra? Il Consiglio di Guerra è stato istituito dopo il 7 ottobre. Esso comprende il Ministro della Difesa Gallant (Likud), Gantz (National Unity), e come osservatori Dermer, Ministro per gli affari strategici, del Likud, e Eisenkot di National Unity, oltre ovviamente a Netanyahu. In queste settimane abbiamo visto più volte Netanyahu in minoranza, perché Gallant si è progressivamente spostato sulle posizioni di Gantz: sul negoziato per gli ostaggi, sulla possibilità di utilizzare quadri civili dell’ANP a Gaza, sulla questione degli aiuti alimentari, sulla questione dirimente della coscrizione dei giovani ebrei ultraortodossi.
- La scorsa settimana Gantz ha chiesto elezioni anticipate a settembre. Che possibilità hala proposta di essere accolta da Netanyahu? Oggi la situazione politica israeliana è di fatto bloccata. La richiesta di Gantz testimonia la sua crescente difficoltà a restare nel Consiglio di Guerra, data la situazione di paralisi in cui versa. L’ingresso nel governo di unità nazionale lo ha premiato nei sondaggi, che oggi gli danno fino a 30 seggi nel prossimo Parlamento. I partiti che appoggiavano i precedenti governi Bennett-Lapid potrebbero contare, nel caso che si andasse a votare, su una maggioranza di circa 68 seggi sui 120 della Knesset. Il problema tuttavia è che non è sufficiente che il governo vada sotto in qualche singola votazione, o anche che venga approvata una mozione di sfiducia nei suoi confronti. La legge israeliana prevede la sfiducia costruttiva, con la presentazione di una maggioranza e di un governo alternativi. Nell’attuale Knesset Netanyahu può contare sul blocco di destra di 64 seggi, uscito dalle elezioni di fine 2022. Mentre i partiti che appoggiavano i governi Bennett-Lapid hanno 51 seggi. Anche sommando i 5 seggi dei deputati arabo-israeliani della Joint List, si arriverebbe a 56. Anche una mozione per lo scioglimento anticipato della Knesset avrebbe difficoltà a passare, perché il blocco dei partiti di destra è abbarbicato al potere. Ciò nonostante, il governo israeliano è sempre più fragile e diviso, soprattutto per la questione della coscrizione militare degli ultraortodossi.
- Di che si tratta? La Corte Suprema ha bocciato ogni ulteriore rinvio riguardo la proroga dell’esenzione dei giovani ultraortodossi che studiano nelle Yeshivot, mantenuti con sussidi statali, e con il 1° aprile questi finanziamenti cesseranno, e questi giovani dovrebbero essere richiamati. Gallant ha dichiarato che non presenterà alcuna proposta che non abbia prima l’approvazione di Gantz e di Eisenkot. Al contrario, gli ultraortodossi hanno dichiarato di non accettare la coscrizione: c’è chi ha minacciato un’emigrazione di massa dallo Stato ebraico, o chi ha dichiarato che il contributo degli ebrei ultraortodossi a questa guerra è quello di pregare per chi combatte. È evidente che simili posizioni non incontrano il favore dell’opinione pubblica, tanto più che ai riservisti è stato chiesto di tornare anticipatamente al fronte e di prolungare il periodo di servizio attivo, anche perché si teme sempre un’escalation a nord con gli Hezbollah. Questo può essere un punto su cui il governo potrebbe cadere: laddove i partiti ultraortodossi, lo Shas, sefardita, e Degel Ha Torah, aschenazita, che insieme hanno 18 seggi, facessero venire meno il loro appoggio al governo per opporsi alla coscrizione obbligatoria, si aprirebbe la crisi. Ma è difficile che si arrivi a questo, e che questi rinuncino al flusso di finanziamenti alle loro istituzioni che la partecipazione al governo gli assicura.
- Questa guerra a tuo avviso segna anche il termine della parabola politica di Netanyahu? Io penso sia arrivato al termine della sua traiettoria politica, e in maniera ingloriosa. Ma lotta disperatamente per restare al potere fino alla scadenza naturale del 2026, anche se pare difficile. Ma i guasti che può continuare a produrre possono essere devastanti. Oggi è difficile immaginare chi governerà Israele nel prossimo futuro. Certamente Netanyahu ha molti rivali all’interno del Likud, fra cui Gallant, la cui popolarità è crescente; però il problema, ripeto, è capire se si andrà ad elezioni anticipate. La maggioranza è chiaramente logorata, e tuttavia il blocco di destra è consapevole che un voto anticipato significherebbe perdere il potere, e per molti anche un seggio in Parlamento. Pensa a Ben Gvir, o a Smotrich, o agli ultra religiosi. Questa certezza certamente è un incentivo a rimanere uniti.
- Quali sono le prospettive per uscire da questa guerra? Nell’immediato bisogna vedere come procederà il negoziato in corso per la liberazione degli ostaggi. In una prima fase si tratta per il rilascio, delle donne, anche soldatesse, dei bambini, dei malati. L’offerta di Israele è di rilasciare 400 detenuti palestinesi in cambio. Al momento Hamas tira le trattative per il lungo. La questione è che Sinwar, nella sua lucida follia, è un acuto conoscitore della realtà israeliana, che ha imparato a studiare nei molti anni trascorsi in carcere. Il suo obiettivo si è realizzato: voleva attirare Israele nella trappola di Gaza e ci è riuscito. Il risultato è che oggi la guerra ha prodotto oltre 30.000 vittime, di cui 2/3 civili, come ammette anche l’IDF.
- Una volta che si sarà raggiunta questa prima fase, cosa potremmo aspettarci? La trattativa riguarderà il rilascio degli uomini e dei militari. Qui l’esito è ancora più incerto, perché occorrerà comprendere quante migliaia di prigionieri Israele sarà disposto a concedere per ottenere indietro gli ostaggi. Ma la pressione dell’opinione pubblica sta montando, come dimostrano le ultime dimostrazioni cui hanno partecipato oltre 100.000 manifestanti. E si sta saldando il fronte della protesta per il rilascio degli ostaggi con quello contro l’esenzione degli ultraortodossi.
- E a seguire cos’altro ci si può aspettare? L’altra questione è la fine delle operazioni militari. È evidente che l’obiettivo di Netanyahu, la vittoria totale su Hamas, non c’è e non ci potrà essere. Certo, Hamas può essere sconfitto sul terreno militare, e alcune suoi battaglioni sono stati eliminati. Ora è in ballo la possibile operazione su Rafah. Ma Hamas eviterà lo scontro frontale, puntando su una guerriglia endemica di lunga durata. Il problema è che Hamas è una ideologia, per quanto aberrante, che punta all’eliminazione di Israele, e come tale ha ormai permeato profondamente la società palestinese, non solo a Gaza: un ultimo sondaggio dimostra come anche a Ramallah, in Cisgiordania, la popolarità di Hamas è molto cresciuta.
- L’Europa può giocare un ruolo? Mi pare manchi una risposta unitaria, se non le dichiarazioni solo formali di Borrell. Non c’è un consenso per l’opposizione paesi est europei. E così le iniziative di Macron, al Consiglio di Sicurezza per il cessate il fuoco, e in Libano per evitare l’escalation con Hezbollah; di Sanchez, per il riconoscimento di uno Stato palestinese; o della stessa Meloni, che vuole evitare un’azione a Rafah pur esprimendo solidarietà a Israele, procedono in ordine sparso. Quanto alla sinistra italiana, Elly Schlein è ondeggiante: condanna il 7 ottobre, chiede il cessate il fuoco, però è muta sul boicottaggio delle università israeliane, e sulle manifestazioni studentesche anche filo Hamas; ciò malgrado le pressioni di Sinistra per Israele. Forse vuole rincorrere i movimenti e ha timore della concorrenza dei 5 stelle.
- Per tornare alla guerra: non è possibile immaginare un assetto definitivo e pacifico per Gaza? Qui si tocca il tema forse più complicato, ossia il futuro governo di Gaza. A chi spetta? Potrebbe essere la ANP, se si riuscirà a rianimarla. Il tentativo di formare il nuovo governo da parte di Abbas, nominando un suo uomo di fiducia, Moustafà, appare già precario, perché L’Egitto e il Qatar hanno mandato segnali di scontento per la scelta fatta. Il problema reale a me sembra la necessità di una ricomposizione fra Hamas e Fatah, perché un governo che escludesse una delle due parti non sarebbe mai accettato dall’altra. Tutto questo richiama più in generale la riforma dell’Olp. Si tratta di un processo di ricomposizione voluto fortemente da Egitto e dal Qatar, ma certo poco accettabile per Israele. Insomma, oggi la situazione, non solo militare, ma anche politica, è di estrema complessità e difficoltà.
- Dunque, che prospettive si hanno per Israele? Ho l’impressione che dovremo prepararci a un lungo periodo di instabilità, che forse neppure il prossimo governo israeliano sarà in grado di risolvere. Occorrerebbe una visione politica strategica da parte del governo israeliano, che punti a una soluzione di medio periodo credibile e al rilancio della stabilizzazione regionale, puntando al raggiungimento di relazioni diplomatiche con l’Arabia Saudita e, forse, anche con il Qatar, nell’ottica di una soluzione a due stati della questione palestinese.
Purtroppo oggi questa non è la politica del governo israeliano. Assistiamo a un orizzonte politico di scarso respiro, in cui prevale la politica del giorno per giorno.
A sei mesi dall’attacco del 7 ottobre. Che cosa è in gioco
di Ugo Volli
• La terribile invasione
Oggi sono passati esattamente sei mesi da quella terribile alba del 7 ottobre in cui migliaia di missili colpirono d’improvviso le città israeliane, la barriera di protezione della frontiera internazionalmente riconosciuta fra Israele e Gaza fu abbattuta in più punti e circa 3000 terroristi bene armati e organizzati, seguiti da molti “civili”, invasero il territorio israeliano, devastando tutto il territorio ai confini della Striscia, uccidendo circa 1200 persone in grande maggioranza civili, inclusi vecchi e bambini, rapendone circa 250, e violentando molte centinaia di donne. Inizialmente vi fu una reazione di solidarietà di tutto il mondo civile, ma essa si indebolì moltissimo dopo la doverosa reazione di autodifesa israeliana e oggi l’opinione pubblica mondiale, o almeno la grande maggioranza dei media e dei politici, sembra essersi dimenticata di quel che è accaduto soli sei mesi fa e lascia soli Israele e gli ebrei a combattere per la loro sopravvivenza.
• Il piano
Per capire questa dinamica bisogna superare l’orrore provocato dalla crudeltà e dalla barbarie dell’assalto e analizzare quel che è accaduto in termini politici e strategici. Nell’irruzione del 7 ottobre Hamas non era solo, ma era accompagnato da diversi altri gruppi fra cui “Jihad Islamica”, “Martiri di Al Aqsa” (l’ala militare di Fatah, il partito del presidente dell’Autorità Palestinese Mohamed Abbas) e fu seguito pure da “civili” di Gaza, che si macchiarono di alcuni dei crimini più atroci. Ma l’attacco di Hamas non era il frutto di un raptus di follia omicida, era il primo passo scoperto di un piano strategico costruito dall’Iran, condiviso con altri terroristi come Hezbollah e Houti, preparato concretamente per molti anni, accumulando armi e tunnel di attacco, addestrando le milizie, studiando nei dettagli la struttura difensiva israeliana. L’obiettivo dichiarato di questo piano è la distruzione di Israele e il genocidio degli ebrei che ne costituiscono la popolazione. Esso è scattato sei mesi fa perché i nemici di Israele avevano la fondata percezione che lo stato e anche l’esercito fosse stato paurosamente indebolito dai tentativi dell’estrema sinistra di rovesciare il governo legittimo di Israele con il pretesto della riforma giudiziaria: un tentativo che ancora oggi, in piena guerra, incoscientemente o forse colpevolmente si ripete.
• Una guerra lungamente preparata
Israele dunque non si è trovato solo ad affrontare il più grande attentato terroristico almeno dall’attacco alle Twin Towers di New York, il più feroce femminicidio e rapimento di massa: ha dovuto difendersi da una guerra di sterminio che si propone la sua distruzione. È una guerra multifronte, diretta dall’Iran, con attacchi che vengono da Gaza, dal Libano, dalla Siria, dallo Yemen, dall’Iraq e che si sta tentando di estendere alla Giordania. Lo scontro a Gaza è arrivato a distruggere buona parte delle forze terroriste, ma non ancora a eliminarle del tutto, anche a causa delle durissime resistenze che vengono dagli Usa e dall’Unione Europea; quello con Hezbollah è stato a lungo nella fase dello scambio di colpi alla frontiera ma si sta approfondendo e estendendo. È un grave rischio per Israele attaccare Hezbollah, perché questo movimento terrorista ha missili assai più numerosi e precisi di quelli di Hamas, truppe meglio armate e addestrate e probabilmente fortificazioni sotterranee ancora più potenti e difficili da conquistare di quelle di Gaza; ma il rischio di non eliminare questa minaccia è probabilmente ancora più grave. L’Iran, che è la testa della piovra, è lontano, dieci volte più popoloso di Israele e quaranta volte più vasto, soprattutto è ormai vicinissimo all’arma atomica o già la possiede; non è detto che scelga di entrare direttamente in guerra, anche perché è in piena crisi economica e sociale, ma il pericolo strategico viene di lì. Ma il problema vero del Medio Oriente è sconfiggere la sua aggressività imperialista.
• Guerra giuridica e di opinione
La guerra si combatte non solo sul terreno (e per acqua e nel cielo), ma anche sul versante legale (grazie alla denuncia di alleati di Hamas come il Sud Africa), su quello diplomatico all’Onu e soprattutto su quello dell’opinione pubblica. Vi è un potente schieramento internazionale per bloccare l’azione di Israele a Gaza e sugli altri teatri di guerra prima che siano raggiunti risultati decisivi come la conquista di Rafah e l’eliminazione della dirigenza di Hamas. Per delegittimare la sua autodifesa, si accusa lo Stato ebraico e in particolare il primo ministro Netanyahu (nuova personificazione dell’ebreo maligno di medievale memoria) di ostinazione insensata, di crimini di guerra, addirittura di genocidio. Sono falsità propagandistiche, nella migliore delle ipotesi ipocrisie e sciocca dipendenza dalla disinformazione in cui si distinguono antisemiti, putinisti, odiatori della libertà e dell’Occidente.
• Le conseguenze
Bisogna essere chiari: se questa campagna avesse successo e Israele fosse costretto a fermarsi prima di aver eliminato il pericolo, la sua stessa esistenza sarebbe a rischio. Hamas avrebbe dimostrato che è possibile colpire duramente gli ebrei e farla franca, magari con gravi danni ma senza essere schiacciati; conoscerebbe allora una popolarità inaudita non solo fra la popolazione palestinese, ma fra gli arabi in generale; il progetto iraniano procederebbe dal Libano, con nuovi tentativi di azioni simili al 7 ottobre; probabilmente la Giordania entrerebbe nella sua orbita e anche i maggiori stati sunniti ne trarrebbero la conclusione che non ci si può fidare dell’alleanza americana né della potenza militare israeliana per difendersi dall’imperialismo iraniano e che non si può non venire a patti con esso; l’intera costa sud del Mediterraneo fino al Golfo Persico, da buona parte dell’Africa fino ai confini dell’India entrerebbe a far parte della grande alleanza cinese di cui la Russia è oggi un partner subordinato. L’Europa sarebbe accerchiata e minacciata e Est (anche a causa del difficile andamento della guerra in Ucraina) e a Sud, le sue vie di rifornimento sarebbero tagliate; gli Stati Uniti sarebbero di nuovo isolati come durante la Seconda guerra mondiale. La sorte di Israele in particolare sarebbe segnata. Se invece Israele riuscisse a concludere la sua azione fino alla vittoria, non solo Hamas o Hezbollah, ma l’Iran stesso sarebbe contenuto, la posizione filo-occidentale di parte del mondo arabo si confermerebbe, insomma ci sarebbe una decisiva battuta di arresto dell’asse imperialistico Cina-Russia-Iran.
• Proclamare la verità
Questa è la posta strategica che si continua a giocare oggi da sei mesi e nel prossimo futuro in particolare a Rafah e al confine fra Israele e Libano. Ancora una volta, come diceva La Malfa, il destino dell’Occidente si decide sotto le mura di Gerusalemme. L’opinione pubblica occidentale, ipnotizzata dai media vecchi e nuovi e dalla piccola furberia di politici e pseudo-opinionisti sembra non capire che il gioco la riguarda, che deve appoggiare Israele non solo perché è una democrazia liberale attaccata, lo stato degli ebrei minacciati da una seconda Shoah, ma anche perché dal risultato di questa guerra dipende anche il suo futuro. Spetta a noi, esili ma decise voci ebraiche, spiegare ancora una volta al mondo una verità decisiva.
C'era un uomo, di nome Giuseppe, che era membro del Consiglio, uomo giusto e buono,
il quale non aveva acconsentito alla deliberazione e all'operato degli altri. Egli era di Arimatea, città della Giudea, e aspettava il regno di Dio.
Si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù.
E, trattolo giù dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo e lo mise in una tomba scavata nella roccia, dove nessuno era ancora stato deposto.
Era il giorno della Preparazione, e stava per cominciare il sabato.
Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea, seguito Giuseppe, guardarono la tomba, e come vi era stato deposto il corpo di Gesù.
Poi, tornarono indietro e prepararono aromi e profumi. Durante il sabato si riposarono, secondo il comandamento.
LUCA 24
La risurrezione di Gesù
Ma il primo giorno della settimana, la mattina prestissimo, esse si recarono al sepolcro, portando gli aromi che avevano preparati.
E trovarono che la pietra era stata rotolata dal sepolcro.
Ma quando entrarono non trovarono il corpo del Signore.
Mentre se ne stavano perplesse di questo fatto, ecco che apparvero davanti a loro due uomini in vesti risplendenti;
tutte impaurite, chinarono il viso a terra; ma quelli dissero loro: «Perché cercate il vivente tra i morti?
Egli non è qui, ma è risuscitato; ricordate come egli vi parlò quando era ancora in Galilea,
dicendo che il Figlio dell'uomo doveva essere dato nelle mani di uomini peccatori ed essere crocifisso, e il terzo giorno risuscitare».
Esse si ricordarono delle sue parole.
Tornate dal sepolcro, annunciarono tutte queste cose agli undici e a tutti gli altri.
Quelle che dissero queste cose agli apostoli erano: Maria Maddalena, Giovanna, Maria, madre di Giacomo, e le altre donne che erano con loro.
Quelle parole sembrarono loro un vaneggiare e non prestarono fede alle donne.
Ma Pietro, alzatosi, corse al sepolcro; si chinò a guardare e vide solo le fasce; poi se ne andò, meravigliandosi dentro di sé per quello che era avvenuto.
Gesù sulla via per Emmaus
Due di loro se ne andavano in quello stesso giorno a un villaggio di nome Emmaus, distante da Gerusalemme sessanta stadi;
e parlavano tra di loro di tutte le cose che erano accadute.
Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù stesso si avvicinò e cominciò a camminare con loro.
Ma i loro occhi erano impediti a tal punto che non lo riconoscevano.
Egli domandò loro: «Di che discorrete fra di voi lungo il cammino?» Ed essi si fermarono tutti tristi.
Uno dei due, che si chiamava Cleopa, gli rispose: «Tu solo, tra i forestieri, stando in Gerusalemme, non hai saputo le cose che vi sono accadute in questi giorni?»
Egli disse loro: «Quali?» Essi gli risposero: «Il fatto di Gesù Nazareno, che era un profeta potente in opere e in parole davanti a Dio e a tutto il popolo;
come i capi dei sacerdoti e i nostri magistrati lo hanno fatto condannare a morte e lo hanno crocifisso.
Noi speravamo che fosse lui che avrebbe liberato Israele; invece, con tutto ciò, ecco il terzo giorno da quando sono accadute queste cose.
È vero che certe donne tra di noi ci hanno fatto stupire; andate la mattina di buon'ora al sepolcro,
non hanno trovato il suo corpo, e sono ritornate dicendo di aver avuto anche una visione di angeli, i quali dicono che egli è vivo.
Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato tutto come avevano detto le donne; ma lui non lo hanno visto».
Allora Gesù disse loro: «O insensati e lenti di cuore a credere a tutte le cose che i profeti hanno dette!
Non doveva il Cristo soffrire tutto ciò ed entrare nella sua gloria?»
E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture le cose che lo riguardavano.
Quando si furono avvicinati al villaggio dove andavano, egli fece come se volesse proseguire.
Essi lo trattennero, dicendo: «Rimani con noi, perché si fa sera e il giorno sta per finire». Ed egli entrò per rimanere con loro.
Quando fu a tavola con loro prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede loro.
Allora i loro occhi furono aperti e lo riconobbero; ma egli scomparve alla loro vista.
Ed essi dissero l'uno all'altro: «Non sentivamo forse ardere il cuore dentro di noi mentre egli ci parlava per la via e ci spiegava le Scritture?»
E, alzatisi in quello stesso momento, tornarono a Gerusalemme e trovarono riuniti gli undici e quelli che erano con loro,
i quali dicevano: «Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone».
Essi pure raccontarono le cose avvenute loro per la via, e come era stato da loro riconosciuto nello spezzare il pane.
Come i DEM americani e i media mainstream lavorano per Hamas
Senza dimenticare le ONG che sparano numeri a caso senza citare una sola fonte attendibile
di Franco Londei
Che bisogno ha Hamas di fare la guerra a Israele quando ci sono i DEM americani e i grandi media che lavorano per i terroristi palestinesi? Per quale assurdo motivo Hamas dovrebbe rischiare la vita dei suoi miliziani quando attraverso il SUO cosiddetto “ministero della sanità”, gli basta diffondere qualche notizia, presumibilmente esagerata, su morti civili, feriti e fame a Gaza per ottenere che tutto il mondo attacchi Israele? Perché mai Hamas dovrebbe accettare un accordo sugli ostaggi quando gli basta fare tutto il possibile per peggiorare la catastrofe umanitaria e guardate Biden, i DEM americani e i grandi media incolpare e far pressione su Israele affinché scenda a compromessi con i terroristi? Oggi i dati diffusi dal cosiddetto “ministero della salute” di Hamas sono considerati dai grandi media alla stregua di dati attendibili diffusi da un organo attendibile, quando sappiamo tutti benissimo che anche in passato Hamas ha diffuso dati sulle vittime maggiorati fino al 200%. Vogliamo dire che anche una sola vittima innocente è troppo? È giusto, è corretto. Ma allora perché non cominciamo con il chiedere ad Hamas di non usare i civili come scudi umani, di non mettere depositi di armi dentro o nei pressi di abitazioni civili o addirittura negli ospedali? Eppure non ho sentito un solo media mainstream condannare Hamas per l’uso di civili come scudi umani, per l’uso di ospedali come deposito di armi, per le centinaia di razzi difettosi ricaduti sulla Striscia e sulle vittime provocate da questo fenomeno del tutto trascurato. E poi, sembra che a Gaza ci siano solo donne e bambini. Dove sono gli uomini a Gaza? Possibile che qualsiasi incidente accada a Gaza coinvolga “in maggioranza donne e bambini”? Possibile che il fantomatico Ministero della salute di Hamas sappia il numero delle vittime esattamente cinque minuti dopo un bombardamento? Israele, con tutta la tecnologia di cui dispone ci ha messo tre mesi per dare il numero esatto delle vittime del massacro del 7 ottobre. E poi ci sono le ONG. Qualche giorno fa Save the Children l’ha sparata veramente grossa affermando che «in sei mesi di guerra a Gaza, poco più del 2% della popolazione infantile, quasi 26.000 bambini sono stati uccisi o feriti a Gaza». Sono andati addirittura oltre i dati di Hamas senza citare almeno una fonte attendibile che confermi quei numeri. Citano molto genericamente “loro partner” . Facile immaginare che i loro partner siano gli stessi famigerati terroristi dell’altrettanto famigerato ministero della salute di Hamas. Ribadisco il concetto: anche una sola vittima civile è troppo. Ma anche vedere questi numeri tirati fuori a casaccio, senza la conferma di UNA SOLA fonte attendibile, è davvero avvilente sia per i media che per quelle ONG che si definiscono “corrette”. Hamas non ha più bisogno dei missili, il pogrom per suo conto contro gli ebrei lo stanno facendo i DEM americani, i media mainstream e le ONG disoneste. Basta scrivere un paio di veline al giorno e il gioco è fatto.
Gran Bretagna e America fanno dello Stato ebraico il loro capro espiatorio.
di Melanie Phillips
Mentre Israele combatte per la sua sopravvivenza contro l'Iran e i suoi proxy, viene sottoposto a un Auto-dafé virtuale dai suoi presunti alleati. Domenica sera, Israele ha commesso un errore enorme e tragico. Ha ucciso sette operatori umanitari quando ha sparato tre missili di precisione, uno dopo l'altro, contro un convoglio di tre veicoli appartenenti all'organizzazione umanitaria World Central Kitchen (WCK), che stava andando a consegnare aiuti ai civili nella Striscia di Gaza. Sebbene un'indagine dell'IDF non abbia ancora chiarito cosa sia successo, gli israeliani hanno riconosciuto che si è trattato di un terribile errore causato da un "errore di identificazione". In guerra succedono cose brutte e questa è stata una terribile tragedia. Ma la ferocia della reazione è sorprendente. Israele è accusato di aver deliberatamente attaccato il convoglio di aiuti, dimostrando che Israele non ha alcun riguardo per le morti dei civili, non ha cuore né coscienza. La risposta della WCK va ben oltre la rabbia e l'orrore giustificati, diffamando Israele con accuse infondate e incendiarie. Il direttore esecutivo dell'organizzazione, Erin Gore, ha accusato Israele di un "attacco mirato" volto a scoraggiare le organizzazioni umanitarie che lavorano a Gaza e di usare il cibo "come arma di guerra". Il fondatore della WCK, José Andrés, ha accusato Israele di attaccare il suo staff "sistematicamente, auto per auto". Ma questo non perché l'IDF volesse uccidere gli operatori umanitari con i quali aveva precedentemente lavorato a stretto contatto per consegnare gli aiuti a Gaza. È perché le tre auto sono state tutte "identificate male" per lo stesso terribile errore. Nella nebbia della guerra, gli incidenti di "fuoco amico" sono purtroppo fin troppo comuni. Tuttavia, questo non è stato riconosciuto nella reazione dell'opinione pubblica mondiale. Il portavoce del Pentagono John Kirby ha detto che l'America era "indignata". Il presidente Joe Biden si è detto "affranto" e ha affermato che Israele "non ha fatto abbastanza" per proteggere i civili. Il primo ministro britannico Rishi Sunak ha dichiarato che "troppi operatori umanitari e civili comuni hanno perso la vita a Gaza e la situazione è sempre più intollerabile". Il ministro degli Esteri britannico Lord Cameron ha definito la morte degli operatori umanitari "totalmente inaccettabile". Questa è ipocrisia e amnesia selettiva. Sia gli Stati Uniti che il Regno Unito hanno commesso simili tragici errori in tempo di guerra, causando la morte di ben più di sette persone. In un incidente del 2011, durante l'intervento NATO in Libia, di cui l'allora Primo Ministro Cameron era estremamente entusiasta, sono stati uccisi 13 civili, compresi i medici. Nel 2006, le truppe statunitensi in Iraq hanno erroneamente ucciso operatori umanitari a Mosul. Nel 2008, hanno ucciso decine di persone a una festa di matrimonio afghana, compresa la sposa. Sia l'amministrazione Biden che il governo britannico hanno usato la tragedia del convoglio di aiuti per sostenere che Israele sta uccidendo "troppi civili" a Gaza e sta ostacolando la consegna degli aiuti. Ma si tratta di menzogne. Anche se si crede alle cifre poco plausibili delle vittime di Hamas, ci sono circa 1,3 civili per ogni combattente - una percentuale di civili uccisi in guerra di gran lunga inferiore a quella di qualsiasi altro esercito al mondo. In termini di aiuti, le cifre rilasciate ogni giorno dal COGAT, il coordinatore israeliano degli affari civili a Gaza, mostrano che centinaia di camion di aiuti sono stati autorizzati ad entrare. Tutto questo non ha fatto alcuna differenza per coloro che desiderano diffamare Israele. La Gran Bretagna è stata particolarmente feroce. Cameron, ora sostenuto da diversi parlamentari, minaccia di bloccare la vendita di armi a Israele. Alicia Kearns, presidente del Foreign Affairs Select Committee della Camera dei Comuni, ha suggerito che la condivisione di intelligence con Israele potrebbe essere "ridimensionata" se i consulenti legali del governo concludessero che Israele ha violato il diritto umanitario internazionale. In che mondo vivono questi politici? La Gran Bretagna riceve un sostegno inestimabile dall'intelligence e dalla cooperazione militare israeliana e compra più armi da Israele di quante ne venda a Israele. Ora, non meno di 600 alti avvocati ed ex giudici britannici si sono uniti a questa caccia alle streghe, scrivendo una lettera scioccante a Sunak che non solo ripete la feroce propaganda anti-israeliana, ma si basa su una sorprendente, infiammante e dimostrabile falsità. La lettera afferma che due mesi fa, in una causa intentata dal Sudafrica contro Israele, la Corte internazionale di giustizia ha concluso che "c'è un rischio di genocidio nella Striscia di Gaza". Questo è falso. La Corte non ha detto nulla del genere. La Corte si è limitata a fare riferimento al "diritto dei palestinesi di Gaza di essere protetti dal genocidio" e al "diritto del Sudafrica di chiedere a Israele di rispettare la Convenzione sul genocidio" e ha detto: "Almeno alcuni dei diritti invocati dal Sudafrica e per i quali chiede protezione sono plausibili". La corte ha usato la parola "plausibile" per riferirsi solo ai diritti dei palestinesi e del Sudafrica. Sebbene la lettera citasse accuratamente la sentenza nella sua seconda pagina, gli avvocati britannici - tra cui alcuni dei più rispettati in Gran Bretagna - l'hanno comunque grossolanamente travisata per diffondere l'insinuazione che Israele potrebbe commettere un genocidio. Questa non è stata la loro unica diffamazione. Hanno ripetutamente affermato una "carestia imminente" e la "deliberata inflizione della fame". Ma non c'è nessuna carestia o carenza a Gaza. Ci sono aree in cui i rifornimenti scarseggiano perché Hamas li ha rubati. Tuttavia, molti video sui social media mostrano mercati alimentari ben forniti e bancarelle di shawarma. Gli avvocati hanno anche ripetuto l'affermazione di Hamas secondo cui più di 32.000 palestinesi sono stati uccisi nella Striscia di Gaza, il 70% dei quali erano donne e bambini. Tuttavia, queste cifre non includono nemmeno uno dei 13.000 combattenti che Israele sostiene di aver ucciso, mentre gli statistici hanno liquidato le cifre di Hamas come poco plausibili o semplicemente inventate. Gli avvocati hanno affermato che Israele sparava deliberatamente sui palestinesi "affamati" che facevano la fila per il cibo, citando come esempio un incidente avvenuto a febbraio in cui 118 civili sono stati uccisi e 760 feriti mentre si trovavano intorno a un camion di cibo. Tuttavia, il disastro è stato causato da persone calpestate in una calca, una conclusione ora confermata dalle dichiarazioni dei terroristi di Hamas catturati, che hanno affermato che il disastro non è stato causato dai bombardamenti dell'IDF ma dal sovraffollamento. Gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno già deluso Israele in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, quando il mese scorso hanno approvato una risoluzione che chiedeva un cessate il fuoco immediato che avrebbe visto la resa di Hamas. Gran Bretagna e America non si sono mai comportate con tale cattiveria nei confronti di nessun altro Paese al mondo. Israele è in prima linea nella lotta contro l'Iran e l'Islam radicale, che hanno dichiarato guerra all'Occidente. Israele sta facendo il lavoro sporco per l'Occidente - e sta subendo pesanti perdite nel processo - perché l'America, la Gran Bretagna e il resto dell'Occidente non sono disposti a combattere per difendere la loro civiltà. L'America e la Gran Bretagna si rifiutano di affrontare la guerra islamica contro il mondo libero in cui gli arabi palestinesi sono le truppe d'assalto per rendere l'Occidente impotente di fronte alla jihad islamica. Invece, America e Gran Bretagna sostengono ampiamente la causa palestinese. Di conseguenza, si rivoltano contro Israele e ne fanno il loro capro espiatorio. Così facendo, alimentano pregiudizi radicati sul presunto potere diabolico degli ebrei e sulla loro sete di sangue, gettando benzina sul fuoco dell'odio per gli ebrei che sta consumando l'Occidente. Sembra che il mondo si stia rivoltando contro la nazione ebraica e voglia liberarsene. Ma ci sono molte persone oneste che vedono chiaramente ciò che sta accadendo e sono inorridite. E gli Stati del Golfo e innumerevoli altri musulmani, riconoscendo il nazismo islamista per quello che è e che significa per loro, fanno silenziosamente il tifo per Israele. Il popolo ebraico ha subito persecuzioni, schiavitù, pogrom, inquisizione e genocidio in vari momenti e per mano di vari gruppi e Stati. Ha sofferto di varie forme di antisemitismo - il desiderio di sradicare gli ebrei come religione, razza e nazione. Tuttavia, non è mai stata sottoposta a un attacco globale e concertato come questo.
(Israel Heute, 6 aprile 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
RAMALLAH - Il nuovo primo ministro palestinese
Muhammad Mustafa
ha presentato il suo gabinetto. Esso vuole attuare la "rivitalizzazione" dell'Autorità Palestinese (AP) richiesta dagli USA. I rappresentanti statunitensi ne sono entusiasti. Gli israeliani, che conoscono alcuni dei ministri come agitatori antisemiti, sono piuttosto scettici.
• Scimmie e maiali Allah li ha trasformati (gli ebrei) in scimmie e maiali". Questa affermazione proviene da un sermone di Muhammad Mustafa Najem, che domenica ha prestato giuramento come ministro degli Affari religiosi a Ramallah. Si riferisce al Corano.
L’organizzazione israeliana "Palestinian Media Watch" (PMW) raccoglie dichiarazioni di questo tipo e da anni monitora la società e i media palestinesi. Il suo fondatore, Itamar Marcus, mette in guardia Israele e gli Stati Uniti dai sostenitori del terrorismo nella presunta "rivitalizzazione" dell'Autorità palestinese. Consiglia loro di chiedere che vengano sostituiti immediatamente. Le accuse del PMW si basano su una serie di video che possono essere visualizzati sul sito web dell'organizzazione.
• Discutibile capacità di riforma Il nuovo governo dell'AP è composto da 23 membri, tra cui quattro donne. Il Segretario di Stato americano Antony Blinken (democratico) si è congratulato telefonicamente con il presidente palestinese Mahmoud Abbas (Fatah) lunedì. Il governo americano è ansioso di lavorare con il nuovo gabinetto per promuovere la pace, la sicurezza e la prosperità. Ora è possibile attuare le riforme necessarie.
Il PMW si chiede fino a che punto un governo che ha tra le sue fila sostenitori del terrorismo possa avviare il processo di pace. Najem e il ministro per gli Affari femminili, Muna al-Chalili, sono particolarmente sotto i riflettori.
• Assassino glorificato Muhammad Mustafa Najem può essere accusato di retorica antisemita. In un sermone trasmesso dalla televisione ufficiale dell'Autorità palestinese durante la "seconda intifada", ha caratterizzato gli ebrei come "segnati da presunzione, orgoglio, arroganza, rivolta, slealtà e tradimento". Il suo discorso si concludeva con la frase: "Allah, concedici la vittoria sugli ebrei e su coloro che si schierano con loro!".
Ci sono esempi più recenti per il ministro Al-Chalili. Nel 2018, ha parlato a un evento commemorativo per il terrorista Dalal Mughrabi, che guidò il cosiddetto Massacro della Strada Costiera l'11 marzo 1978. In questo attacco a un autobus civile furono uccise 37 persone, tra cui dodici bambini. Al-Chalili lo ha descritto come una "operazione di resistenza di qualità".
• Terrore = resistenza Poco dopo l'attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre, Al-Chalili ha parlato a una conferenza e ha sottolineato il diritto dei palestinesi di "resistere" all'"occupazione degli ultimi 75 anni". Per lei il problema è l'esistenza di Israele.
Una settimana prima della conferenza, l'Unione generale delle donne palestinesi, che Al-Chalili presiede, ha organizzato una veglia per chiedere il rilascio dei terroristi imprigionati. Sui manifesti c'erano immagini con la didascalia "Libertà per l'eroico prigioniero". Una mostrava Ibrahim Hamed, responsabile dell'omicidio di almeno 53 persone.
Perché alle nostre università serve il dialogo con Israele
di Giorgio Barba Navaretti
Il Carlo Alberto è un’istituzione aperta, che fonda la sua missione sul dialogo e la collaborazione internazionale tra studiosi alla frontiera della ricerca scientifica. In momenti di gravi tensioni geopolitiche è fondamentale aprire e attivare nuovi canali di collaborazione. Le discipline del Collegio, l’economia, le scienze politiche, la sociologia e la giurisprudenza, sono alla base di qualunque possibile scenario di risoluzione dei conflitti attualmente in corso in Medio Oriente e non solo. I nostri ricercatori vogliono capire, studiare, dialogare, avere nuove opportunità di ricerca con colleghi che operano in questo momento in contesti difficilissimi e di grande instabilità.
Il consiglio di amministrazione del Collegio ha così deciso all’unanimità (con il favore anche di tutti i membri designati dall’Università di Torino) di esplorare nuove collaborazioni con atenei israeliani e basati nei territori controllati dall’Autorità Palestinese. In particolare abbiamo approvato un programma di scambio per visiting professor, che permetterà a docenti dei nostri partner di passare del tempo al Collegio e in seguito, quando, speriamo presto, i venti di guerra si saranno placati, ai nostri ricercatori di potersi spostare in Medio Oriente per avere una comprensione migliore di quanto sta accadendo.
È stato facile iniziare subito dall’Università di Tel Aviv con cui avevamo già dei rapporti informali. Ora stiamo esplorando come replicare lo stesso modello di collaborazione con istituzioni basate nei territori controllati dall’Autorità Palestinese. E naturalmente saranno possibili altri accordi, nei limiti delle nostre capacità di budget. È un momento molto difficile per le università. Ovunque, in Italia come nei migliori atenei del mondo stanno emergendo contrapposizioni profonde tra professori, tra studenti, tra studenti e professori. Contrapposizioni molte volte fondate su delle grandi semplificazioni di problemi ed eventi molto complessi, drammatici e che pongono profondi quesiti morali. In questi frangenti la ragione non sta mai da una parte sola. Al Collegio pensiamo che l’ultima cosa da fare sia silenziare o addirittura eliminare il dialogo tra istituzioni che sul confronto delle idee fondano la propria missione. Questo confronto, a volte difficile e duro, è il solo che possa aiutare a comprendere il contesto e a trovare nuove possibili soluzioni, per quanto si possa essere persi e confusi nella complessità degli eventi.
Questo principio è condiviso da tutti coloro che partecipano alla governance della nostra istituzione e penso anche da moltissimi tra i docenti delle università e dei centri di ricerca del nostro paese perché è un valore imprescindibile su cui si deve fondare la vita accademica. Ma è un principio che deve essere enunciato con chiarezza e senza ambiguità e questo è quanto tentiamo di fare con la nostra iniziativa, per quanto piccola. Come ha ben ricordato la Presidente della CRUI Giovanna Iannantuoni, «le polarizzazioni portano a semplificazioni che non aiutano il dialogo». Il Collegio è ora aperto ai ricercatori israeliani e palestinesi, nella convinzione che la “diplomazia della scienza” debba sempre e comunque rimanere viva e attiva.
Dal 7 ottobre gli israeliani si sentono più vicini agli ebrei della diaspora
di Michelle Zarfati
Il Ministero degli Affari della Diaspora ha presentato il “Diaspora Proximity Index”, un sondaggio che riflette i sentimenti della società israeliana nei confronti dell’identità ebraica, della solidarietà ebraica reciproca, delle relazioni tra Israele e la diaspora e della conoscenza israeliana della diaspora.
Lo studio ha evidenziato che la connessione tra i cittadini ebrei israeliani e la diaspora si è rafforzata notevolmente dopo il 7 ottobre. Ciò si riflette nei risultati dell’indagine, che mostrano che oggi il 67% degli israeliani prova un senso di solidarietà con gli ebrei nella diaspora, con un aumento del 4% su base annua. Circa il 76% degli israeliani sente un destino condiviso con gli ebrei nella diaspora, segnando un aumento del 6,6% rispetto all’anno precedente.
I dati mostrano anche che oltre la metà (56%) degli israeliani ritiene che la società israeliana dovrebbe considerare le opinioni e gli interessi degli ebrei della diaspora in materia di politica estera e sicurezza, che potrebbero modificare lo status e la situazione degli ebrei all’estero. Questo rappresenta un aumento generale di circa il 2% rispetto allo scorso anno, con un aumento del 7% tra la popolazione laica e una diminuzione del 6,5% tra la popolazione religiosa del paese.
La stragrande maggioranza della popolazione (89%) ritiene che Israele dovrebbe agire per mitigare il discorso antisemita e anti-israeliano sui social media. Per quanto riguarda le aspettative dalle relazioni con la diaspora, il 95% degli israeliani si aspetta che gli ebrei della diaspora agiscano per Israele in tempo di guerra. Circa il 60% della popolazione israeliana crede che la guerra a Gaza avrà un impatto positivo sulle relazioni con la diaspora ebraica.
Avi Cohen-Scali, direttore generale del Ministero degli Affari della Diaspora, ha commentato: “Nei momenti più difficili in cui Israele combatte per la sua esistenza, gli israeliani sentono di non essere soli nella lotta, che i nostri fratelli e sorelle dall’altra parte del mare sono con noi e il nostro futuro è intrecciato al loro”.
A Roma chiusa l’ambasciata per timore di attentati
Un grave errore causato da «un’identificazione sbagliata, sbagli nelle decisioni e un attacco contrario a standard operativi». Chi ha approvato il raid «pensava di colpire Hamas» e non certo «il personale di World Central Kitchen». Sono le conclusioni dell’indagine avviata dall’esercito israeliano dopo la morte dei sette operatori umanitari a Gaza. Analizzati i risultati, il capo delle forze armate Herzi Halevi ha deciso la rimozione di due alti ufficiali e l’ammonimento formale di altri esponenti di spicco dell’esercito per un incidente «che poteva essere evitato».
Con 28 voti a favore, 13 astenuti e sei contrari, il Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu ha intanto adottato una risoluzione che chiede che Israele sia ritenuto responsabile di «eventuali crimini di guerra» e «crimini contro l’umanità». I sei paesi contrari sono Stati Uniti d’America, Germania, Bulgaria, Argentina, Paraguay e Malawi, mentre tra gli astenuti figurano Francia, India e Giappone. A favore il Sud Africa, che contro Israele ha intentato di recente una causa per “genocidio” all’Aja. E due nazioni arabe, Emirati Arabi Uniti e Marocco, che a partire dal 2020 hanno “normalizzato” le relazioni diplomatiche con Gerusalemme nel solco degli Accordi di Abramo. L’ambasciatrice israeliana Meirav Eilon Shahar, nell’abbandonare l’aula per protesta, ha definito la risoluzione «una macchia per il Consiglio dei Diritti Umani e per l’Onu nel suo insieme», anche per la non menzione «né di Hamas né dei crimini del 7 ottobre».
Allarme internazionale per possibili attacchi terroristici iraniani dopo l’uccisione a Damasco del generale Mohamad Reza Zahedi. Per precauzione varie rappresentanze diplomatiche dello Stato ebraico sono oggi chiuse. Tra cui, come riferiscono vari organi di informazione, l’ambasciata a Roma.
Biden avverte Netanyahu: la politica su Gaza cambierà se Israele non soddisfa le condizioni degli Stati Uniti
"Se non cambierà nulla da parte israeliana, dovranno esserci dei cambiamenti da parte nostra", ha dichiarato il consigliere della Casa Bianca John Kirby.
Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha invitato il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu a migliorare la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza. Secondo un rapporto della Casa Bianca sulla conversazione di giovedì, il presidente Biden ha sottolineato che la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza è migliorata. "Il Presidente Biden ha sottolineato che gli attacchi agli operatori umanitari e la situazione umanitaria generale sono inaccettabili", si legge nel rapporto. Ha chiarito che Israele deve annunciare e attuare una serie di misure specifiche, concrete e misurabili per ridurre i danni ai civili, le sofferenze umanitarie e la sicurezza degli operatori umanitari". Biden ha anche chiarito che la politica degli Stati Uniti nei confronti di Gaza dipenderà dalla nostra valutazione delle azioni immediate di Israele su questi passi", prosegue la dichiarazione. Durante il briefing della Casa Bianca di giovedì pomeriggio, i giornalisti hanno chiesto ripetutamente al consigliere per la sicurezza nazionale John Kirby se Biden avesse minacciato Netanyahu. Kirby si è rifiutato di dire quali cambiamenti politici specifici avrebbe apportato Washington se Israele non avesse soddisfatto le condizioni degli Stati Uniti. "Se non cambia nulla da parte israeliana, ci devono essere cambiamenti da parte nostra", ha detto Kirby. "Devono esserci passi concreti. Aspettiamo di vedere cosa annunciano. Vediamo cosa ordinano. Vediamo cosa fanno". Il consigliere della Casa Bianca si aspetta che Israele annunci dei cambiamenti entro "ore e giorni". Kirby ha anche detto che l'appello era una risposta diretta agli attacchi aerei di lunedì sera contro un convoglio della World Central Kitchen, per i quali Israele ha rivendicato la responsabilità. Sette operatori umanitari sono stati uccisi, tra cui un cittadino statunitense. Israele ha dichiarato che sta indagando sull'incidente. Al momento della stampa, l'ufficio di Netanyahu non aveva ancora rilasciato una dichiarazione o un rapporto sulla conversazione con Biden. La telefonata di giovedì è la prima conversazione pubblicamente confermata tra i due leader dopo l'adozione di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a marzo che chiedeva un cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi. Questo è stato fatto in una frase, senza collegare esplicitamente i due punti. La risoluzione è stata adottata con 14 voti favorevoli, 0 contrari e l'astensione degli Stati Uniti. Secondo la Casa Bianca, Biden ha fatto commenti simili giovedì. "Ha sottolineato che un cessate il fuoco immediato è essenziale per stabilizzare e migliorare la situazione umanitaria e proteggere i civili innocenti, e ha invitato il Primo Ministro ad autorizzare i suoi negoziatori a raggiungere immediatamente un accordo per riportare a casa gli ostaggi", ha dichiarato la Casa Bianca. Christians United for Israel ha rilasciato una dichiarazione su una presunta "conversazione telefonica tesa con il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, in cui il Presidente ha chiesto un cessate il fuoco immediato per la guerra a Gaza". "Il presidente Biden sta facendo il gioco del nemico, minando gli sforzi di Israele per sconfiggere Hamas", ha dichiarato il pastore John Hagee, fondatore e presidente del CUFI. "Se il presidente vuole aiutare israeliani e palestinesi, dovrebbe fare tutto ciò che è in suo potere per accelerare la fine di Hamas, non per garantirne la sopravvivenza", ha detto Hagee. Fare richieste a Israele non è la risposta alla pace in Medio Oriente e non lo è mai stata". "Questa guerra è iniziata dopo che Hamas ha inviato migliaia di terroristi in Israele per stuprare e uccidere israeliani innocenti", ha aggiunto Sandra Parker, presidente del CUFI Action Fund. "Il massacro del 7 ottobre non farà avanzare gli interessi palestinesi e nessuno associato a questa atrocità sfuggirà alla giustizia", ha detto Parker. Prima l'amministrazione Biden e il Congresso capiranno questi semplici fatti e agiranno di conseguenza, prima Israele sconfiggerà Hamas, libererà gli ostaggi e riporterà la stabilità nella regione".
• NESSUN SOSTITUTO ALLA VITTORIA Il portavoce del Dipartimento di Stato americano Matthew Miller aveva precedentemente negato che la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite subordinasse il rilascio degli ostaggi a un cessate il fuoco o che l'astensione di Washington dal voto sulla risoluzione riflettesse un cambiamento nella politica statunitense. "Oggi, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, gli Stati Uniti hanno ribadito che il cessate il fuoco deve essere subordinato a un accordo per il rilascio degli ostaggi”, ha scrittoa marzo. La telefonata di giovedì ha fatto seguito a una videoconferenza tra il consigliere per la sicurezza nazionale statunitense Jake Sullivan e il segretario di Stato Antony Blinken con il segretario israeliano agli Affari strategici Ron Dermer e il consigliere per la sicurezza nazionale Tzachi Hanegbi per discutere di una possibile operazione militare di terra nella città di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza.
Benjamin Netanyahu incontra una delegazione di membri repubblicani del Congresso organizzata dall'AIPAC a Gerusalemme il 4 aprile 2024
La NBC ha riferito mercoledì che l'incontro è stato "teso" e che Dermer "ha gridato e agitato le braccia" contro le sue controparti statunitensi per aver criticato il piano umanitario di Israele per Rafah. Gli Stati Uniti avevano affermato che il piano non era realistico, sottolineando che non teneva conto delle strutture igienico-sanitarie, delle forniture di cibo e acqua o del numero di tende necessarie per ospitare la popolazione civile. Giovedì Netanyahu ha detto a una delegazione di 15 membri repubblicani del Congresso, il cui viaggio è stato organizzato dall'AIPAC, che Israele sta cercando la vittoria finale nella guerra contro Hamas. "Vinceremo. Di sicuro", ha detto Netanyahu ai membri del Congresso. "La vittoria è a portata di mano. È molto vicina, e non c'è niente che possa sostituire la vittoria". "C'è un contromovimento, un tentativo di imporci uno Stato palestinese che sarà un altro rifugio del terrore, un altro punto di partenza per un tentativo come lo è stato lo Stato di Hamas a Gaza. Questo è respinto dalla stragrande maggioranza degli israeliani", ha aggiunto Netanyahu. "Abbiamo appena avuto un voto alla Knesset: 99:9. Avete numeri del genere?", ha chiesto. "Penso che potreste avere questi numeri se portaste la stessa risoluzione al Congresso. Penso che avrete una maggioranza simile o almeno una maggioranza molto forte".
(Israel Heute, 5 aprile 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Difficile dare torto a Michael Oren, ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, quando afferma che il contrasto attuale tra Israele e Stati Uniti rappresenta “La peggiore crisi tra i due paesi da settanta anni a questa parte”.
Oren istituisce il paragone con il 1956, quando Eisenhower minacciò ritorsioni contro Israele se non avesse lasciato la penisola del Sinai, “Si tratta di un cambiamento di rotta durante una guerra che Israele non ha iniziato. Si è partiti da una dichiarazione di sostegno, per poi arrivare da parte della Casa Bianca a chiedere di fermare la guerra”.
E fermare la guerra a Gaza è in effetti l’obiettivo malcelato dell’Amministrazione Biden da almeno tre mesi a questa parte. La motivazione è assai semplice da riassumere. A ormai solo sette mesi dalle prossime elezioni americane il dissenso domestico nei confronti di Biden per il suo appoggio alla guerra di Israele contro Hamas si è fatto sempre più marcato, al punto che spesso, durante i suoi interventi pubblici e i suoi primi comizi elettorali, è stato interrotto numerose volte mentre parlava da manifestanti che gli chiedevano conto di Gaza.
Il megafono della propaganda islamica coniugato a quello della sinistra, ha trasformato l’operazione militare di Israele all’interno della Striscia in uno sterminio di civili senza precedenti, nonostante i numeri forniti da Hamas stesso e palesemente inattendibili affermino il contrario. Ma la propaganda ha notoriamente come scopo quello di creare una realtà parallela in cui la verità è menzogna e la menzogna è verità.
Mai nessuna guerra urbana recente è stata combattuta da un esercito con una tale attenzione alla popolazione civile in un contesto di difficilissima operatività dove essa viene usata come protezione per i terroristi e quindi come carne da macello. Gli americani, che nelle recenti battaglie di Falluja e Mosul non hanno lontanamente applicato i criteri richiesti a Israele, lo sanno bene, ma su tutto domina regina l’ipocrisia e la necessità di mostrarsi presso l’opinione pubblica estremamente zelanti relativamente ai criteri umanitari che solo Israele al mondo è tenuto a rispettare.
Nonostante le limitazioni poste, in sei mesi Israele è riuscito a ottenere risultati eccellenti sul terreno. Oggi, nella Striscia la struttura portante di Hamas non controlla più il territorio, la maggioranza dei suoi battaglioni sono stati distrutti e restano qui e là a combattere sacche sparpagliate di jihadisti. Gli ultimi quattro battaglioni si trovano barricati a Rafah, all’estremo sud di Gaza ai confini con l’Egitto, ed è lì che Israele conta di stanarli per potere vincere la guerra.
È su questo obiettivo fondamentale e finale che si sta consumando l’attrito maggiore tra Gerusalemme e Washington.
La Casa Bianca non vuole l’operazione di terra paventando un’ingente perdita da parte dei civili, essendosi addensati a Rafah circa un milione e cinquecentomila sfollati, Israele sa che senza questa operazione la guerra sarebbe persa, perché Hamas non ha mai pensato di potere sconfiggere militarmente il più avanzato esercito del Medio Oriente, ma di riuscire a sopravvivere, di costringerlo a non completare l’operazione militare e a lasciare la Striscia prima di averlo fatto. A questo scopo a Hamas serve maledettamente un cessate il fuoco che sia il più possibile prolungato, idealmente definitivo, il problema è che questo cessate il fuoco serve anche a Joe Biden per mero lucro elettorale.
Dunque Israele potrà vincere la guerra solo e unicamente se si opporrà definitivamente alle esigenze politiche degli Stati Uniti.
Nel 1956, durante la crisi di Suez, Ben Gurion cedette a Eisenhower, ma non si trattava di una rinuncia così grande come quella che Joe Biden chiede a Benjamin Netanyahu, quella di perdere la guerra e compromettere la propria sicurezza.
L’agenzia di rating cambia l’outlook di Israele in negativo a causa del rischio di un’escalation regionale, di maggiori spese militari, di prospettive economiche incerte e di una politica locale conflittuale
Oggi Fitch Ratings ha rimosso Israele da “credit rating negative” e ha confermato il rating A+ del Paese, ma con un outlook negativo, citando l’incertezza sulla durata e l’entità della guerra con il gruppo terroristico di Hamas e il suo peso sul debito pubblico.
“I rischi geopolitici associati alla guerra a Gaza rimangono elevati e i rischi di escalation restano presenti, ma Fitch ritiene che i rischi per il profilo di credito si siano ampliati e il loro impatto potrebbe richiedere più tempo per essere valutato”, ha scritto Fitch, spiegando le ragioni per cui ha rimosso l’outlook negativo dal credit watch.
A ottobre, l’agenzia di rating ha messo il punteggio di credito A+ di Israele sotto osservazione negativa, citando l’aumento del rischio di un’escalation regionale di rilievo in seguito alla guerra con Hamas, che aveva messo il Paese a rischio di un declassamento del rating. L’agenzia di rating statunitense Moody’s, a febbraio, ha tagliato il rating di Israele di una tacca, da A1 ad A2, e ha modificato l’outlook in negativo, citando l’impatto della guerra sulla spesa pubblica e i rischi fiscali e politici.
Israele a quasi sei mesi di guerra a Gaza dopo il brutale attacco guidato da Hamas del 7 ottobre, in cui i terroristi palestinesi hanno ucciso circa 1.200 persone, per lo più civili, e ne hanno prese 253 come ostaggi nella Striscia di Gaza.
Di fronte ai continui attacchi del gruppo terroristico Hezbollah, dal Libano e sostenuto dall’Iran, e delle milizie sciite in tutto il Medio Oriente, Israele ha intensificato i suoi attacchi contro obiettivi terroristici legati all’Iran in Siria, uccidendo numerosi agenti del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche, oltre a membri di Hezbollah e di altri gruppi per procura iraniani.
Israele è diventato sempre più impaziente dei quotidiani scambi di fuoco con Hezbollah sul fronte settentrionale, che si sono intensificati negli ultimi giorni, e ha avvertito della possibilità di una guerra vera e propria.
Fitch ha dichiarato di aver modificato l’outlook creditizio di Israele in negativo alla luce del rischio di un’escalation regionale, di un aumento delle spese militari permanenti e di prospettive macroeconomiche incerte, che potrebbero compromettere la capacità di Israele di ridurre in futuro la sua crescente massa debitoria in un contesto di politica interna fratturata.
“I rischi di un allargamento dell’attuale conflitto israeliano fino a includere scontri militari su larga scala con più attori – per un periodo di tempo prolungato – rimangono elevati”, ha dichiarato Fitch. “Questo non è il nostro scenario di base, ma una tale escalation su larga scala, oltre alle perdite umane, potrebbe comportare una significativa spesa militare aggiuntiva, la distruzione di infrastrutture, un cambiamento duraturo nel sentimento dei consumatori e agli investimenti, e quindi portare a un ampio deterioramento dei parametri di credito di Israele”.
Il capo economista della casa d’investimento IBI, Rafi Gozlan, ha affermato che Fitch probabilmente sta cercando di capire meglio se la guerra prolungata avrà ripercussioni a lungo termine sull’economia e sulle sue prospettive di crescita prima di intraprendere ulteriori azioni sul punteggio di credito di Israele.
Parashà di Sheminì: L’importanza delle leggi alimentari
di Donato Grosser
In questa parashà vengono specificati gli animali kashèr e quelli che non lo sono. Il testo si conclude con queste parole: “Questa è la legge concernente i quadrupedi, gli uccelli, ogni essere vivente che si muove nelle acque e ogni essere che striscia sulla terra, affinché sappiate distinguere ciò che è impuro da ciò che è puro, tra l’animale che si può mangiare da quello che non si deve mangiare” (Vaykrà, 11: 42-47).
I maestri nel Midràsh Sifrà (173) osservano: (Perché è scritto) “per distinguere ciò che è impuro e ciò che è puro”: non dovrebbe essere detto “tra la mucca e l’asino”?. Si, ma (le loro differenze) non sono già spiegate (nella Torà)? Qual è allora l’intento (delle parole) “tra l’impuro e il puro”? (La risposta è) tra ciò che è impuro e puro per te: tra la shechità (che ha tagliato) la maggior parte della trachea (dopo la shechità dell’esofago, nel qual caso l’animale è kashèr), e la shechità della (sola) metà della trachea (dopo la shechità dell’esofago, nel qual caso l’animale è una nevelà e quindi non è kashèr). E in cosa consiste questa differenza? Nello spessore di un capello.
R. Meir Leibush Wisser (Ucraina, 1809-1879) detto Malbim dalle sue iniziali, commenta che l’espressione “distinguere” viene usata quando è necessario distinguere tra due cose che sono uguali, e la sola differenza è, per esempio, che uno è kòdesh (sacro) e l‘altro chol (profano). Per cose che sono totalmente differenti, come un asino e una mucca, non è necessario parlare di distinzione. Questo è il motivo per cui i Maestri affermano che la Torà intende distinguere tra due animali uguali: all’uno è stata fatta una shechità secondo le regole; all’altro invece no, per la differenza minima di un capello.
Questo passo midrashico viene citato da r. Moshè Chayim Luzzatto (Padova, 1707-1746, Acco) nella sua opera morale Mesillàt Yesharîm (La salita degli uomini retti). Nel capitolo intitolato “I dettagli della nettezza”, nel quale spiega l’importanza di essere totalmente puliti dalle trasgressioni, egli scrive:”Sotto questo aspetto i cibi proibiti sono peggiori di tutte le altre proibizioni perché entrano nel corpo della persona e diventano carne della sua carne”. La differenza di un capello tra un animale proibito e uno permesso “mostra quanto sia grande la forza delle mitzvòt per cui lo spessore di un capello costituisce la differenza tra impurità e purità”.
Sullo stesso argomento R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (p.74) osserva che nella Torà si parla di preghiera solo in un versetto (Devarîm, 11:13) mentre vi sono molti capitoli che trattano le leggi alimentari. Egli scrive che per l’uomo è più facile pregare che astenersi da del cibo che lo attrae. L’uomo è pronto a servire Dio in modo spirituale ma risente ogni interferenza nelle sue abitudini alimentari, o nel modo in cui soddisfa i sui desideri fisici. Tuttavia la Torà insegna che è impossibile santificare lo spirito senza disciplinare il corpo. Egli aggiunge che la Torà non rigetta il corpo. Il corpo è parte dell’essere umano e così pure lo spirito. Ma il corpo non dev’essere quello di un selvaggio. Dev’essere santificato ed elevato.
Mercoledì l’IDF ha annunciato di aver rafforzato il suo schieramento di difesa aerea e di aver richiamato un certo numero di riservisti, mentre il Paese si prepara ad una più che probabile risposta iraniana all’attacco in Siria all’inizio della settimana, in cui sono stati uccisi diversi alti funzionari militari iraniani. Sia l’Iran che il suo proxy Hezbollah hanno giurato che Israele non rimarrà impunito per l’attacco di lunedì a un edificio consolare vicino all’ambasciata iraniana a Damasco, che ha ucciso Mohammad Reza Zahedi, il più alto ufficiale del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche in Siria, insieme al suo vice, ad altri cinque ufficiali dell’IRGC e ad almeno un membro del gruppo terroristico Hezbollah. Un notiziario di Channel 12, che rifletteva sulle preoccupazioni israeliane su una possibile rappresaglia, ha sottolineato la possibilità che l’Iran risponda lanciando missili direttamente dal proprio territorio piuttosto che attraverso uno dei suoi gruppi per procura, che comprende milizie in Libano, Iraq e Yemen. Se da un lato Israele potrebbe accontentarsi di lasciare che il ciclo di ostilità si esaurisca, dall’altro, nel caso in cui l’Iran rispondesse attraverso un proxy, come una raffica di razzi di Hezbollah, un attacco dal territorio iraniano spingerebbe probabilmente le Forze di Difesa israeliane a lanciare una rappresaglia significativa, rischiando di far precipitare ulteriormente le tensioni. “Non sarei sorpreso se l’Iran sparasse direttamente contro Israele”, ha dichiarato alla rete l’ex capo dell’intelligence militare Amos Yadlin, spiegando che un attacco missilistico effettuato a gennaio dall’Iran contro il vicino Pakistan ha creato un precedente per tale azione. Secondo i media in lingua ebraica, la decisione di rafforzare le difese aeree e di richiamare le truppe è stata presa in seguito a una valutazione della minaccia. Dopo l’attacco di lunedì, Hezbollah ha lanciato diversi razzi contro Israele dal Libano, anche se non ci sono indicazioni che vadano oltre il quotidiano fuoco transfrontaliero che dall’8 ottobre ha aumentato la tensione alla frontiera settentrionale di Israele. La Guida Suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, ha giurato vendetta per l’attacco di lunedì e manifesti che ripetono le sue parole sono stati affissi in tutta Teheran, in segno di pressione pubblica per una risposta iraniana. “La sconfitta del regime sionista a Gaza continuerà e questo regime sarà vicino al declino e alla dissoluzione”, ha detto Khamenei in un discorso ai funzionari del Paese a Teheran tenutosi mercoledì. “Gli sforzi disperati come quello che hanno commesso in Siria non li salveranno dalla sconfitta. Naturalmente, saranno anche schiaffeggiati per questa azione”, ha aggiunto. Il ministro della Difesa Yoav Gallant ha dichiarato mercoledì che Israele sta “aumentando la preparazione” di fronte alle minacce provenienti da tutto il Medio Oriente. Parlando ad un’esercitazione ad Haifa, Gallant ha detto che l’establishment della difesa del Paese sta “espandendo le nostre operazioni contro Hezbollah, contro altri organismi che ci minacciano”, e ha ribadito che Israele “colpisce i nostri nemici in tutto il Medio Oriente”. “Dobbiamo essere preparati e pronti per ogni scenario e ogni minaccia”, contro nemici vicini e lontani”, ha detto Gallant, assicurando che “sapremo come proteggere i cittadini di Israele e sapremo come attaccare i nostri nemici”. In merito agli attacchi quotidiani al confine settentrionale da parte degli Hezbollah in Libano, sostenuti dall’Iran, Gallant ha affermato che uno dei problemi principali che Israele sta affrontando è come permettere a circa 80.000 israeliani sfollati di tornare alle loro case nel nord di Israele. “Preferiamo… un accordo che porti alla rimozione della minaccia, ma dobbiamo prepararci alla possibilità di [usare] la forza in Libano, che può anche prendere in considerazione lo scenario che stiamo descrivendo qui, che è uno scenario di guerra, e dobbiamo essere preparati a questo problema e capire che può accadere”, ha detto Gallant. L’esercitazione ha valutato il coordinamento tra le autorità locali, i ministeri e i servizi di soccorso in uno scenario di guerra, “alla luce della crescente necessità di riportare i residenti del nord alle loro case”, ha dichiarato il Ministero della Difesa. Dall’8 ottobre, le forze guidate da Hezbollah hanno attaccato quasi quotidianamente le comunità e le postazioni militari israeliane lungo il confine, affermando di farlo per sostenere Gaza, in piena guerra. Finora, le scaramucce al confine hanno provocato otto morti civili da parte israeliana e la morte di 10 soldati e riservisti dell’IDF. Ci sono stati anche diversi attacchi dalla Siria, senza alcun ferito. Hezbollah ha quantificato in 267 i suoi membri uccisi da Israele durante le schermaglie in corso, soprattutto in Libano, ma alcuni anche in Siria. In Libano sono stati uccisi altri 50 agenti di altri gruppi terroristici, un soldato libanese e almeno 60 civili, tre dei quali erano giornalisti. Il presunto attacco israeliano a Damasco è avvenuto dopo che Israele ha indicato che stava intensificando l’azione contro Hezbollah, colpendo siti più profondi all’interno del Libano, nel tentativo di fare pressione sul gruppo affinché cessasse il lancio quotidiano di razzi. Il fatto è avvenuto poche ore dopo che una milizia sostenuta dall’Iran ha lanciato un drone contro Eilat, colpendo una base navale, in uno degli attacchi più gravi contro Israele dallo scoppio della guerra il 7 ottobre. Parlando a condizione di anonimato, funzionari statunitensi hanno detto che stavano osservando da vicino per vedere se, come in passato, i proxy sostenuti dall’Iran avrebbero attaccato le truppe statunitensi di stanza in Iraq e Siria dopo l’attacco israeliano di lunedì, ma non avevano raccolto alcuna informazione che suggerisse che lo avrebbero fatto. Questi attacchi iraniani sono cessati a febbraio, dopo che Washington si è vendicata dell’uccisione di tre truppe statunitensi in Giordania con decine di attacchi aerei su obiettivi in Siria e in Iraq legati al Corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane e alle milizie che esso sostiene. Una fonte statunitense estremamente attendibile che ha parlato a condizione di anonimato, ha detto che l’Iran si è trovato di fronte al dilemma di voler rispondere per scoraggiare ulteriori attacchi israeliani, evitando al contempo una guerra totale. “Si sono trovati di fronte al dilemma che, se rispondessero, potrebbero dare il via a un confronto che chiaramente non vogliono”, ha dichiarato. “Stanno cercando di modulare le loro azioni in modo da dimostrare che sono reattivi ma non provocano un’escalation”. “Se non rispondessero in questo caso, sarebbe davvero un segnale che la loro deterrenza è una tigre di carta”, ha aggiunto, affermando che l’Iran potrebbe attaccare Israele vero e proprio, le ambasciate israeliane o le strutture ebraiche all’estero. Il funzionario statunitense ha affermato che, data l’importanza dell’attacco israeliano, l’Iran potrebbe essere costretto a rispondere attaccando gli interessi israeliani, piuttosto che colpire le truppe statunitensi. Anche Elliott Abrams, esperto di Medio Oriente presso il think tank statunitense Council on Foreign Relations, ha affermato di ritenere che l’Iran non voglia una guerra totale con Israele, ma che potrebbe colpire gli interessi israeliani. “Penso che l’Iran non voglia una grande guerra Israele-Hezbollah in questo momento, quindi qualsiasi risposta non avverrà sotto forma di una grande azione di Hezbollah”, ha detto Abrams, riferendosi al gruppo libanese visto come il più potente proxy militare di Teheran. “Hanno molti altri modi per rispondere… ad esempio cercando di far saltare in aria un’ambasciata israeliana”, ha aggiunto. L’Iran potrebbe anche rispondere accelerando il suo programma nucleare, che Teheran ha incrementato da quando, nel 2018, l’allora presidente americano Donald Trump ha abbandonato l’accordo sul nucleare iraniano del 2015, progettato per limitarlo in cambio di benefici economici. Ma i due passi più drammatici – l’aumento della purezza dell’uranio arricchito al 90%, considerato una qualità da bomba, o la ripresa dei lavori per la progettazione di un’arma vera e propria – potrebbero ritorcersi contro e invitare Israele o gli Stati Uniti a colpire. “Entrambe le cose verrebbero viste da Israele e dagli Stati Uniti come una decisione di dotarsi di una bomba. Quindi… stanno correndo un grosso rischio. Sono pronti a farlo? Non credo”, ha detto la fonte, che segue da vicino la questione.
In pochissime ore il premier Netanyahu e il presidente Herzog con i ministri si sono scusati per il “tragico errore”
di Enrico Franceschini
Il mea culpa di Israele per l’uccisione dei sette operatori umanitari di World Central Kitchen a Gaza è un fatto raro. Nel giro di 24 ore, Benjamin Netanyahu ha espresso “profondo rammarico per un tragico errore”, il ministro della Difesa Yoav Gallant e il Presidente della Repubblica Isaac Herzog si sono pubblicamente scusati, il generale Herzi Halevi, capo di stato maggiore dell’esercito, ha parlato di “grave sbaglio”, concludendo senza mezzi termini: “Non doveva accadere”. Nel dicembre scorso, nota il New York Times, il governo di Gerusalemme impiegò giorni a riconoscere la propria responsabilità per un bombardamento nel centro della Striscia che aveva causato la morte di decine di civili. Questa volta la reazione è stata rapida, collettiva e di contrito imbarazzo. In sei mesi di guerra, non era mai successo. Un’ammissione di colpa così netta si è verificata di rado nei 76 anni di vita dello Stato ebraico. Gli israeliani non amano l’autoflagellazione: una delle caratteristiche nazionali è la chutzpah, espressione yiddish che significa “sfacciataggine”, a costo di ferire i sentimenti altrui e di cacciarsi nei guai. Conseguenza in parte di una secolare storia di oppressione, in cui gli ebrei erano costretti a piegare la testa, come non intendono più fare da quando hanno uno stato. Perché stavolta l’hanno fatto? Si possono individuare tre motivazioni. La prima è che, a differenza dei quasi 200 operatori umanitari palestinesi morti dall’inizio del presente conflitto, sei delle sette vittime sono stranieri (tre britannici, un americano-canadese, un australiano, un polacco), di Paesi tra i più stretti alleati di Israele: la strage potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso nel distanziamento dell’Occidente dall’operazione israeliana a Gaza. La seconda ragione è che l’accaduto può dare altre prove all’accusa di crimini di guerra rivolta a Israele presso la Corte Penale Internazionale dell’Aia. La terza è che Israele ha bisogno di World Central Kitchen: la ong ha reagito all’incidente con la sospensione delle attività umanitarie nella Striscia, aggravando il rischio di carestia, catastrofe di cui le Nazioni Unite imputano la responsabilità a Gerusalemme. Le indiscrezioni dei giornali israeliani indicano altre due possibili ragioni. Una è che Israele abbia capito che la guerra di Gaza si combatte su un duplice fronte: il campo di battaglia e l’informazione globale.
Vincere sul secondo non è meno importante che sul primo: se non esprimessero senso di colpa, Netanyahu e i suoi ministri fornirebbero altro materiale ad Hamas per guadagnare consensi davanti all’opinione pubblica internazionale. C’è infine un’ulteriore possibilità, che il destinatario del messaggio sia interno, non solo esterno: ovvero le forze armate e i servizi di sicurezza di Israele. La stampa di Gerusalemme riporta scarsa coordinazione fra i comandanti locali e il comando centrale: ognuno decide per proprio conto. Un certo caos appartiene alla tipica anarchia israeliana, ma rischia di compromettere tutto, sommato al nuovo errore attribuito all’intelligence: secondo fonti del quotidiano Haaretz, l’ordine di tirare missili sul convoglio umanitario sarebbe stato provocato dalla sospetta presenza di un leader di Hamas a bordo. L’uomo di Hamas non c’era: se per un tranello ordito dai jihadisti, magari nascondendo sull’auto un telefonino, o per un’informazione errata, poco cambia, è il secondo abbaglio per l’infallibile spionaggio israeliano dopo il mancato allarme sull’aggressione del 7 ottobre. Il senso del messaggio governativo a militari e spie sarebbe: così non si può andare avanti. Sono tutte ipotesi. Ma il mea culpa di Israele è abbastanza inedito da poter diventare un game changer: una svolta. Resta da vedere se aiuterà a portare al rilascio degli ostaggi e al cessate il fuoco, come chiedono la comunità mondiale e una parte crescente della società israeliana.
Joe Biden e papa Bergoglio, la ricerca del consenso e la rinuncia alla morale della responsabilità
di Paolo Salom
Il leader politico del lontano Occidente, il presidente americano Joe Biden, ritiene che il Primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, sia un problema al punto da attaccarlo pubblicamente con parole dure: “Fa più male che bene allo Stato ebraico”. Il leader spirituale del lontano Occidente, Papa Bergoglio, afferma che a Gaza è “guerra tra due irresponsabili”. Intanto il resto del mondo impazzisce di manifestazioni antisemite. Se credete di trovarvi in un brutto sogno sappiate che non è così: questa è la nostra realtà, dove il bene è il male e il male è il bene. Proviamo a capire. Davvero Netanyahu è la causa del disastro del 7 ottobre? Io non scrivo, qui, di politica israeliana perché – al di là delle opinioni personali che ho, come tutti – ritengo che spetti unicamente agli israeliani giudicare apertamente chi li governa. A Gerusalemme, dalla ri-nascita dello Stato ebraico, siede un governo democratico, eletto dai cittadini: avere un’idea sull’efficacia o meno di questo o quell’esecutivo è legittimo, per carità. Ma resta un esercizio di stile, visto che la facoltà di incidere sulla realtà politica è appannaggio, come è giusto e ovvio, soltanto a chi esercita il proprio diritto di voto. Quello che posso fare, e chi mi segue lo avrà ormai capito, è sostenere Israele, dalla mia comoda poltrona italiana, senza se e senza ma: io credo da sempre che la vita della golah e quella dello Stato ebraico siano legate a filo doppio, nelle gioie e nei momenti difficili. Perciò trovo assurdo che il Presidente americano, leader di una nazione che ha reso la democrazia un sistema sacrale tanto da farne un bastione della libertà nel mondo, attacchi con tanta sicumera il capo dell’unica democrazia in una regione di sanguinarie dittature. E per di più lo fa, pubblicamente, proprio nel momento più difficile di quel Paese, trascinato in una guerra che non ha voluto, ferito da atti di ferocia che non si vedevano nel mondo dai tempi della Shoah. Il governo Netanyahu resta in ogni modo una questione interna degli israeliani: che peraltro, in questo frangente, sono uniti e solidali nel cercare di cancellare la minaccia mortale ai propri confini, malgrado le manifestazioni di piazza. Ma forse, e qui azzardo un giudizio, Joe Biden ha in mente il suo di problema: le elezioni di novembre, oscurate da una situazione domestica tutt’altro che semplice per la propria parte elettorale, sempre più radicalizzata dalle voci di chi guarda a Israele (e agli ebrei) con il paraocchi del pregiudizio. Quanto al Pontefice: trovo che equiparare aggressore e aggredito, metterli sullo stesso piano (“irresponsabili”) sia una distorsione della realtà, una rottura della morale capace di riportare i rapporti tra Chiesa e mondo ebraico agli anni terribili che immaginavamo sepolti nella Storia. Capisco gli appelli alla pace, capisco la protezione dei più deboli. Ma la giustizia, sulla Terra, non può prescindere dalle responsabilità. Chi si è macchiato di violenze indicibili su donne, bambini, anziani, colpiti in un giorno di festa nelle loro case, nei loro letti, trascinati come ostaggi nei tunnel di Gaza, non può essere considerato alla stregua di chi combatte per difendere la propria nazione ferita. In passato, papa Pio XII, ancora oggi criticato per i suoi silenzi durante la Seconda guerra mondiale, comunque aveva fatto aprire le porte di chiese e conventi per proteggere molti ebrei disperati che cercavano di sfuggire alla furia nazifascista. Ancora oggi la sua figura, tuttavia, resta storicamente controversa. Ora, e questo non è un giudizio ma un fatto, è inaccettabile il solo paragonare gli aguzzini di Hamas ai soldati di Israele, in guerra per sopravvivere nonostante tutto e tutti. Se Gaza è distrutta è colpa solo e soltanto di chi l’ha governata per decenni con l’unico intento di demolire lo Stato ebraico. Noi questo lo vediamo con chiarezza. E non accettiamo lezioni di moralità da chi tradisce la propria per motivi di convenienza. Am Israel Chai.
Tutti noi nel Paese dobbiamo ammettere che ci siamo illusi. Ci siamo illusi di poter risolvere tutto secondo le nostre idee. Israele ha immaginato per decenni che se noi accogliamo i palestinesi, anche loro accoglieranno noi. Abbiamo sempre guardato attraverso occhiali rosa e ci siamo convinti che i loro cuori si sarebbero aperti e i popoli si sarebbero avvicinati. Ma stavamo mentendo a noi stessi, come si dice in ebraico. Negli anni successivi al fallimento dell'accordo di Oslo del 1993, la consapevolezza è gradualmente caduta. Perché ci raccontiamo l'irrealtà? Lo facciamo perché rifuggiamo dalla guerra. Ma nella Bibbia Dio ci dice di non avere paura delle guerre perché "Egli è un Dio grande e terribile che combatte per Israele". Israele deve smettere di ingannare se stesso.
di Aviel Schneider
GERUSALEMME - Come promemoria, gli accordi di Oslo avrebbero dovuto essere completati entro cinque anni, cioè entro il 1998, come Israele li aveva pensati, ma da allora tutto è andato storto. Israele pensava che, in cambio della cessione della terra ai palestinesi, avrebbe ricevuto la pace o almeno la tranquillità. Ma i nemici sono diventati sempre più affamati e hanno preteso sempre di più da Israele. Da allora, i governi israeliani sono caduti sempre più in basso nella convinzione che Israele debba costantemente alimentare i palestinesi, la leadership dell'OLP a Ramallah o il regime di Hamas a Gaza. Abbiamo assecondato questa chimera, ma così facendo abbiamo mostrato più considerazione per i nostri nemici che per noi stessi. L'amore politico per il nemico non funziona in Medio Oriente. (Non funziona nemmeno altrove, anche se l'Occidente continua a insistere perché Israele lo faccia).
• FALSO CONCETTO "Non si tratta di un falso concetto, ma di una mancanza di vera lungimiranza", afferma Salman Shoval, 93 anni, ex politico, diplomatico e banchiere del Likud. “La definizione stessa di concetto si basa sul fatto che certi fatti sono stati pensati prima, ma in questo caso non c'è stata nemmeno un'anticipazione. Si è trattato piuttosto di un processo di autoinganno e autopromozione, a cui hanno partecipato tutti i politici israeliani, di destra e di sinistra. Lo stesso vale per i media del Paese, che alla fine sono stati assimilati dall'intera società". Sicuramente dalla maggioranza. Nato a Danzica nel 1930, il politico non ha sempre militato nel partito di destra Likud, ma in precedenza nel partito di sinistra Mapai e si è unito al Partito Laburista di David Ben Gurion nel 1965. È stato due volte ambasciatore di Israele a Washington.
Ma perché ci inganniamo? Israele ha paura delle guerre! In un certo senso, la società israeliana nella sua forma attuale non è più in grado di condurre guerre importanti che causano molti morti. Per questo motivo il Paese sta facendo tutto il possibile per evitare i conflitti militari. Naturalmente, nessuno in politica lo ammette, ma la gente parla in questi termini. E qui ci stiamo ingannando. Pensiamo di poter risolvere qualsiasi cosa al tavolo dei negoziati. Più di 6.000 israeliani sono stati uccisi nella Guerra d'Indipendenza del 1948, e questa cifra è ancora più grave perché gli abitanti di Sion erano solo 650.000 - uno su cento è morto in questa guerra. La guerra dello Yom Kippur del 1973, con 2.700 soldati uccisi in tre settimane, fu una guerra terribile e lasciò l'intera nazione traumatizzata. Esattamente 50 anni dopo, Israele ha subito un trauma ancora maggiore quando è stato invaso nel sud. 1.400 israeliani sono stati massacrati e Israele è entrato in una guerra in cui l'offensiva di terra nella Striscia di Gaza è costata finora la vita a circa 300 soldati. Oggi Israele ha dieci milioni di abitanti. L'1% sarebbe pari a 100.000 soldati uccisi oggi, un numero di vittime impensabile. Oggi nessuno può concepire un migliaio di vittime. "La società israeliana crolla quando ci sono centinaia o addirittura migliaia di morti", è una frase che sento dire da molte persone. Nella prima guerra del Libano del 1982, quando ero un soldato in Libano, 400.000 israeliani protestarono contro la guerra - a causa di centinaia di israeliani uccisi. Se la guerra attuale continuerà e il bilancio delle vittime aumenterà, aumenteranno anche le manifestazioni nel Paese. Questo non significa che non ci sia spirito di lotta, ma che il governo è sotto pressione. È per questo che Israele parla sempre di guerre brevi, guerre con un colpo di grazia e un numero minimo di morti. E così immaginiamo di poter risolvere tutto a livello politico. E non mancano i concetti e le belle formule, false formule di pace.
• TERRA IN CAMBIO DI PACE" Questo è il concetto di base con cui tutti siamo cresciuti. Per decenni ci siamo convinti che la pace arriverà se rinunciamo al cuore biblico della Giudea e della Samaria, più la Striscia di Gaza. I governi occidentali e arabi ci hanno inculcato questo concetto e Israele ci ha creduto davvero. Ma purtroppo l'equazione non ha funzionato. Con gli Accordi di Abramo (settembre 2020), Israele ha infranto questo mito. Anche senza la formula "terra in cambio di pace", i governi arabi stanno facendo pace con Israele, e di questo dobbiamo ringraziare il Primo Ministro Benjamin Netanyahu. È stato lui a sostenere il contrario: "Prima faremo la pace con l'altro 99% dei Paesi arabi e poi i palestinesi dovranno fare la pace con noi", ha sottolineato Netanyahu. La cosa ha funzionato, anche se era completamente contraria alle nostre idee. Siamo chiari: "Terra in cambio di pace" è sbagliato.
• “L’ACCORDO DI OSLO PORTA LA PACE” Dopo un'intifada durata sei anni, Israele ha cercato una svolta. In quei sei anni, 1.200 palestinesi sono morti negli scontri con i soldati israeliani, più 160 israeliani, 60 dei quali erano soldati. Si trattava semplicemente di un numero eccessivo di morti per la società israeliana dell'epoca. Itzchak Rabin e Shimon Peres avranno avuto buone intenzioni, ma si sono illusi di avere un vero partner nell'OLP di Yasser Arafat. Il governo di sinistra pensava che invitando l'OLP nel Paese avrebbe inaugurato una nuova era in Terra Santa. Il Nuovo Medio Oriente di cui parlava il Ministro degli Esteri Shimon Peres non ha bussato alla porta. Il bilancio delle vittime è aumentato drammaticamente da entrambe le parti, i terroristi suicidi si sono fatti esplodere in tutto il Paese e gli autobus sono andati in fiamme. La fantasia della pace è esplosa davanti ai nostri occhi. Non è la pace che porta la sicurezza, ma la sicurezza che porta la pace. "Oslo porta la pace" era sbagliato.
• “L’EVACUAZIONE DELLA STRISCIA DI GAZA PORTA SICUREZZA”
Coloni ebrei di Gush Katif, nella Striscia di Gaza, vengono evacuati dai soldati israeliani
Il disimpegno unilaterale di Israele nell'estate del 2005 è stato un altro errore. È stata un'idea del Primo Ministro di destra Ariel Sharon, che aveva una reputazione mondiale di integralista. La politica degli insediamenti ebraici nel cuore biblico della Giudea e della Samaria gli valse il soprannome di "Bulldozer". Il suo governo evacuò 8.000 ebrei da 22 insediamenti nell'enclave ebraica di Gush Katif. All'epoca, il governo si convinse che tutto sarebbe andato meglio con il ritiro unilaterale delle truppe dalla Striscia di Gaza. Il 26 ottobre 2004, la Knesset approvò il piano di ritiro. Anche Benjamin Netanyahu, ministro delle Finanze, votò a favore. Un anno dopo l'evacuazione della Striscia di Gaza da parte di Israele, i palestinesi hanno votato. Alle elezioni del 2006, Hamas ha sconfitto il Fatah al potere nella Striscia di Gaza e ha conquistato 74 seggi su 132 in Parlamento. Hamas ha poi preso tutto il potere, cosa che Fatah ha etichettato come un colpo di Stato. Di conseguenza, nel 2007 la Striscia di Gaza è stata isolata da Israele e dall'Egitto. Un anno dopo, Hamas aveva già attaccato Israele con migliaia di razzi. Questo era esattamente lo scenario contro cui gli oppositori del disimpegno avevano messo in guardia. Questo scenario si è ripetuto più volte negli anni successivi, tanto che Israele ha dovuto condurre operazioni nella Striscia di Gaza ogni pochi anni. Ancora una volta, i leader israeliani si sono ingannati e non si aspettavano i razzi. Che l'evacuazione della Striscia di Gaza avrebbe portato sicurezza era sbagliato.
,• L’ECONOMIA PORTA LA PACE" Benjamin Netanyahu e il suo partito di destra Likud hanno guidato diversi governi dal 2009. In questi anni è stato coniato il concetto di gestione dei conflitti. Bibi lo intende nel senso che è meglio gestire il nemico che combatterlo all'infinito. Così come la sinistra ha creato Oslo, la destra ha creato il mostro Hamas. Durante la campagna elettorale del 2009, Bibi ha promesso di distruggere Hamas, ma in seguito ha inventato un concetto secondo cui Hamas era un oggetto di valore politico e l'Autorità Palestinese un peso. Nel corso degli anni, il suo governo ha alimentato il mostro con il denaro del Qatar. Innumerevoli tonnellate di cemento e altri materiali da costruzione sono stati fatti entrare nella Striscia di Gaza e i tunnel del terrore sono stati costruiti principalmente e segretamente con essi.
Ancora una volta, ci siamo ingannati, pensando che finché Hamas terrorizza, Israele ha una buona scusa per la comunità straniera: uno Stato palestinese non ha senso in questo momento. Ma allo stesso tempo si credeva anche che un'economia in crescita avrebbe tranquillizzato la gente. Negli ultimi anni, decine di migliaia di lavoratori palestinesi sono stati ammessi in Israele con il consenso dell'apparato di sicurezza. Si pensava che in Israele avrebbero guadagnato molto di più e che questo reddito avrebbe aiutato la Striscia di Gaza. Nessuno si è reso conto che i palestinesi spiavano i kibbutzim. In questa vicenda, i governi, insieme all'intero sistema di sicurezza, non solo hanno fantasticato sul fatto che un'economia fiorente avrebbe portato la pace, ma si sono addormentati. Poiché tutti i vertici hanno immaginato una falsa realtà, il 7 ottobre 2023 si è verificato il massacro. Se il popolo vuole risolvere tutto a livello politico perché ha paura della guerra, allora il popolo di Israele ha anche dimenticato quale "Dio grande e terribile" ha. Prima di prendere la terra, Mosè disse:
"Non abbiate paura di loro, perché il vostro Dio combatte per voi!". (Deuteronomio 3)
"Non abbiate paura di loro, perché il vostro Dio è in mezzo a voi, un Dio grande e terribile". (Deuteronomio 7)
Nelle leggi di guerra, Dio promette:
"Ora, quando si tratterà di combattere, il sacerdote si avvicini, parli al popolo e dica loro: "Israele, ascolta: oggi andrai a combattere contro i tuoi nemici; non sia turbato il tuo cuore. Non temete, non vi sgomentate e non abbiate paura di loro. Perché il tuo Dio è con te e combatterà con i tuoi nemici per aiutarti" (Deuteronomio 20).
(Israel Heute, 4 aprile 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Livello di sicurezza senza precedenti per la rappresentante israeliana Eden Golan e l’intera delegazione all’Eurovision Song Contest, evento musicale internazionale che si terrà a Malmö, in Svezia, da martedì 7 a sabato 11 maggio 2024.
La squadra sarà accompagnata da una scorta di agenti dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interno israeliano, che sarà la più numerosa dall’inizio della guerra, superando anche quella assegnata alle squadre sportive israeliane durante le partite internazionali degli ultimi mesi.
Tali misure sono state ritenute necessarie a causa del conflitto in corso a Gaza e del diffuso sentimento antisraeliano espresso da molti dei residenti di Malmö nelle proteste di ottobre scorso. Un altro fattore che ha contribuito a rafforzare il livello di sicurezza è stato la recente uccisione del generale iraniano Hassan Mahdavi in un attacco a Damasco, attribuito a Israele.
Per questo lo Shin Bet, considerando Eden Golan un potenziale bersaglio, ha effettuato già diverse visite nella città svedese e ha deciso di limitare il numero di persone che faranno parte della delegazione dello Stato ebraico.
Golan farà la sua prima apparizione sul palco dell’Eurovision durante la seconda semifinale in programma il 9 maggio, dove si esibirà con “Hurricane”, 14esima canzone in scaletta.
Il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica dell'Iran ha avvertito Israele, affermando che attacchi mortali contro il Paese saranno "effettuati presto". "Il fronte della resistenza farà il suo dovere" scrive Ynet News. La minaccia di Teheran arriva dopo l'attacco di lunedì a Damasco e attribuito a Israele, in cui sono rimasti uccisi un alto comandante iraniano e diversi altri ufficiali. "Questo crimine vigliacco non resterà senza risposta" aveva dichiarato martedì scorso in una nota il presidente iraniano, Ebrahim Raisi, dopo il raid sull'ambasciata iraniana in Siria che ha fatto undici vittime, tra cui sette membri della Forza Quds dei Pasdaran, i generali Muhamad Reza Zahedi e Muhamad Hadi Haj Rahimi, e cinque consiglieri militari.
A Israele "con la forza di Dio faremo rimpiangere questo crimine e altri simili" aveva detto la Guida Suprema dell'Iran, l'ayatollah Ali Khamenei. "Il regime malvagio sarà punito per mano dei nostri uomini coraggiosi". "Questo crimine dimostra che il nemico israeliano continua a essere stolto nel credere che, liquidando i dirigenti, possa fermare l'ondata ruggente della resistenza popolare" avevano detto dal 'partito di Dio' libanese Hezbollah, promettendo "punizione e castigo" per il raid israeliano. "Certamente, questo crimine non passerà senza che il nemico riceva punizione e vendetta" ha assicurato il gruppo sciita, secondo quanto avevano riporta la rete televisiva libanese Al Manar, vicina a Hezbollah. Secondo il gruppo libanese, questo raid darà "maggiore determinazione a resistere e affrontare" un nemico "arrogante e assetato di sangue".
Cosa bisogna sapere dell’attacco israeliano a Damasco
di Ugo Volli
• Il bombardamento di Damasco
Come i giornali hanno ampiamente riportato anche in Italia, lunedì aerei israeliani hanno effettuato un bombardamento di precisione sul quartiere diplomatico di Damasco, colpendo una dependance dell’ambasciata iraniana senza toccare né l’edificio principale, né la rappresentanza canadese che erano distanti pochi metri. La casa colpita era usata come quartier generale delle “guardie rivoluzionarie” (pasdaran) dell’Iran, cioè la milizia privata del regime degli ayatollah, usata al posto dell’esercito regolare per le operazioni sporche, fra cui i rifornimenti e la direzione militare di satelliti iraniani come Hamas, Hezbollah, Houti. Al momento dell’attacco nella sede dei pasdaran era in corso una riunione al massimo livello fra rappresentanti iraniani e siriani, che probabilmente serviva a dare disposizioni a questi ultimi per la guerra di usura che essi pure conducono contro Israele. L’attacco, che questa volta non è affatto esagerato definire chirurgico, ha eliminato tutti coloro che vi partecipavano, fra cui il generale responsabile del collegamento con i terroristi anti-israeliani, Mohamad Reza Zahedi, l’ufficiale iraniano più alto in grado ucciso nel corso di questa guerra, il suo vice e altri cinque capi dei pasdaran.
• Le reazioni
L’Iran ha reagito con furia all’attacco, promettendo vendetta e sostenendo che Israele avesse violato la neutralità diplomatica, il che è insensato non solo alla luce dei precedenti iraniani (invasione e sequestro dell’ambasciata americana a Teheran, attentato all’ambasciata israeliana di Buenos Aires) ma soprattutto per il fatto che si trattava di una riunione militare fra ufficiali di eserciti ufficialmente in guerra con Israele. Non sono mancate però le solite reazioni convulse degli stati schierati contro Israele e una dichiarazione americana in cui si sosteneva che gli Usa non avevano alcun legame con l’episodio, il che si capisce bene alla luce della politica di tutte le amministrazioni democratiche recenti e anche di Biden orientate a una “relazione positiva” con gli ayatollah, anche se questi armano i terroristi che bombardano le sedi americane in Medio Oriente, continuano a costruire un armamento atomico in violazione delle regole internazionali e proclamano continuamente il loro odio per gli Usa, il “Grande Satana”. Ma tutto sommato non vi è stato lo scandalo che gli ayatollah cercavano di costruire, anche perché l’episodio è stato messo in ombra dall’incidente in cui l’esercito israeliano ha colpito per errore alcuni volontari internazionali a Gaza.
• Il quadro strategico
Il conflitto d’attrito che Israele sostiene al Nord contro Hezbollah, siriani e altri alleati minori dell’Iran si va approfondendo ed estendendo. Israele ormai colpisce le concentrazioni militari e i depositi di armi di Hezbollah in tutto il Libano e in Siria fino ad Aleppo, a diverse centinaia di chilometri dal confine. La ragione è che le guerre moderne sono decise in buona parte dalla logistica delle armi e dei combattenti e che non sono combattute più solo in prima linea ma per tutta la profondità strategica dell’apparato che le alimenta. Ma soprattutto è chiaro a tutti oggi che Israele non sta combattendo semplicemente contro Hamas, che è un’entità solo parzialmente autonoma; e neppure contro “i palestinesi”, che non sono davvero in senso proprio un popolo né uno stato; tanto meno contro chi cerca di colpire lo stato ebraico “per solidarietà”, come Hezbollah, gli Houti, i terroristi iracheni.
• La guerra con l’Iran
Il vero nemico di Israele è l’Iran, che combatte per mezzo dei suoi dipendenti arabi una guerra per procura; un po’ come già negli anni Sessanta l’Egitto di Nasser usava i “fedayn” come si chiamavano allora i terroristi, per colpire Israele senza sparare direttamente. Anche l’Iran dice oggi di non voler essere direttamente coinvolto nella battaglia, per evitare l’attacco israeliano che potrebbe distruggere il suo apparato nucleare ma anche perché non se lo può permettere, vista la diffusione del dissenso interno. Invece usa i suoi militari come “consiglieri”, distribuendo le sue armi, le informazioni di cui dispone, i denari che sottrae agli usi civili per far combattere al suo posto Hamas, Hezbollah e gli altri come mercenari. È questa distribuzione di risorse belliche che Israele ha cercato di bloccare il più possibile per molti anni, in quella che è stata definita “battaglia fra le guerre”; ora che la guerra aperta è scoppiata, il compito è ancora più urgente. Israele ha bisogno di annullare definitivamente Hamas, ma anche di tagliare le unghie a Hezbollah e per farlo deve innanzitutto bloccare i rifornimenti e i collegamenti che vengono dall’Iran. La guerra insomma è fra Israele e Iran e i capi dei pasdaran che la dirigono sono obiettivi importanti. Non bisogna pensare che queste siano “provocazioni” cui Teheran potrebbe reagire. La guerra è già lì e l’Iran fa già quel che può e che gli conviene per distruggere lo stato ebraico. Se Israele riuscirà e vincere la guerra che l’Iran gli sta portando per procura, lo stesso regime degli ayatollah sarà fortemente ridimensionato. Questa è la ragione per cui gli stati arabi sunniti più importanti per la prima volta non si oppongono se non a parola all’azione di Israele e la resistenza iraniana la appoggia.
Le torce sono accese, mancano le picche, forse arriveranno. Così muniti, ieri, un gruppo cospicuo di manifestanti si è diretto a Gerusalemme verso l’abitazione di Benjamin Netanyahu.
Ronan Bar, a capo dello Shin Bet, ha stigmatizzato la protesta evidenziando come ci sia una netta linea di demarcazione tra una manifestazione legittima e una protesta illegale e violenta.
Circa un mese fa viene pubblicato il rapporto annuale dell’intelligence americana sulle minacce alla sicurezza degli Stati Uniti, dove è scritto che a Washington si aspettano in Israele “grandi proteste che chiedono le sue (di Netanyahu) dimissioni e nuove elezioni”. Prescienza, o semplicemente un buon coordinamento tra la Casa Bianca e tutti quegli attori, in testa Yair Lapid e Ehud Barak, l’anziano ex fugace premier israeliano trasformatosi negli anni in Masaniello, che vorrebbero togliere di mezzo Netanyahu, issare metaforicamente la sua testa su una picca e favorire i programmi americani?
Fare cadere Netanyahu e portare Israele alle elezioni paralizzando di fatto l’operazione militare a Gaza, per Washington sarebbe l’ideale visto che con Netanyahu e l’attuale governo in carica Joe Biden non riesce a ottenere più di quello che è già riuscito a ottenere, costringere un paese attaccato a combattere una guerra vincolandolo ad aiuti umanitari che gli Stati Uniti per primi non hanno mai messo in atto in questa misura nelle guerre da loro combattute o coordinate.
La morte dei sette operatori umanitari del World Center Kitchen, un tragico incidente, per il quale l’IDF ha ammesso subito la propria responsabilità, e sul quale è stata immediatamente aperta una indagine, non aiuta nell’operazione in corso a Gaza e offre agli Stati Uniti e agli altri paese che gli stanno apertamente dando addosso, di rincarare le reprimende.
Cosa succederà quando, dopo Ramadan, ormai agli sgoccioli, Israele entrerà a Rafah, dove è obbligato a entrare se non vuole che questa guerra ormai in corso da sei mesi, si trasformi in una burla atroce?
L’acme dell’odio deve sopraggiungere, e sopraggiungerà, c’è da giurarci. Si tratterà di ridurre ancora di più a brandelli l’immagine martoriata di Israele, anche se più di quanto sta avvenendo, in effetti, è difficile immaginare come.
Manifestazione pro-Israele a sei mesi dall'attacco di Hamas
Domenica prossima alle 15 in Piazza Dei Signori a Verona si terrà l'evento "7 ottobre: La disfatta della Ragione" per commemorare le vittime ed analizzare l'attuale situazione.
VERONA - Domenica prossima, 7 aprile, saranno passati 6 mesi esatti dal grave attacco terroristico di Hamas ai danni di Israele. E per commemorarne le vittime, alle 15 in Piazza Dei Signori a Verona, è stata organizzata la manifestazione "7 ottobre: La disfatta della Ragione". L'evento è stato organizzato sotto l’egida dell'Associazione 7ottobre e aiuterà ad «analizzare una serie di tematiche cruciali su Israele, con particolare attenzione alla contemporaneità e alle implicazioni degli eventi recenti per la società e per il mondo», hanno spiegato le organizzatrici Federica Iaria, Giorgia Gaida, Mirta Mordakhai, Marina Sorina e Paola Coppi.
Il programma del pomeriggio prevede una serie di interventi di esperti e testimoni, in presenza o in video, con intermezzi musicali e possibilità di dialogo con il pubblico. In questo modo si intende favorire il confronto e lo scambio di idee, promuovendo una maggiore consapevolezza e una maggiore comprensione delle complesse dinamiche che caratterizzano il conflitto in corso in Medio Oriente.
«Mostreremo i volti, le storie e le vite spezzate dalla violenza compiuta il 7 ottobre e contestualizzeremo questa strage alla luce della realtà attuale dello Stato d’Israele - hanno aggiunto le organizzatrici - Preoccupante è il rigurgito di antisemitismo che manipola in modo improprio i concetti di genocidio, apartheid e boicottaggio. La disfatta della ragione oggi può manifestarsi nella diffusione della disinformazione e propaganda, nell'assenza di argomentazioni fondate sui fatti, nell'abbandono dei principi democratici a favore di un'autorità arbitraria o per descrivere situazioni in cui il dibattito pubblico è dominato da retorica demagogica. Questo evento vuole avere un valore commemorativo, divulgativo e soprattutto umanitario. L'attacco progettato da Hamas è stato unico nel suo genere per brutalità, devastazione e sistematicità della violenza. E tra le vittime, oltre agli israeliani, ebrei, arabi, drusi, ci sono stati anche turisti, studenti e lavoratori provenienti da diverse parti del mondo».
Italia. Crescita esponenziale della propaganda antisemita
La Relazione annuale 2023 dell’Osservatorio antisemitismo della Fondazione Cdec.Il testo è supportato da tabelle, grafici e da un apparato iconografico non poco inquietante, cifra di odio e di abissale incultura del Paese; un “discorso” estremamente chiaro, diretto, che veicola apologia del nazifascismo e istigazione all’odio razziale.
La piaga dell’antisemitismo è contestuale alla situazione sociale economica culturale del Paese. Innanzitutto, un ruolo da non sottovalutare è quello di un quadro internazionale con le sue guerre destabilizzanti che inducono paura, incertezze, preoccupazioni per un futuro annebbiato da carovita, costi dell’energia, crisi climatica… Tutto ciò fa «crescere il rancore, le attitudini razziste, xenofobe e antisemite». «Nel 2022 il Censis descriveva un paese “che vive in uno stato di latenza”» e Demos parlava di «“un tempo senza tempo”» con sondaggi relativi a tematiche esistenziali, che vanno dall’ambiente al riscaldamento climatico, dalle guerre alla globalizzazione a vittime di disastri naturali, da epidemie ad atti terroristici. I dati di Ipsos sono attinenti alle disuguaglianze sociali che inducono all’indebolimento del ceto medio producendo disorientamento, frustrazione, rabbia: crescita della povertà (81%), una condizione economica di difficoltà (64%) contro una maggiormente solida (36%). Tutti questi dati, unitamente alla «[…] percezione di una immigrazione incontrollata, spingono a cercare ancoraggi identitari fondati sulla primazia degli italiani e sulle subculture xenofobe e razziste». Il 40% tradisce insofferenza nei confronti dei migranti e il 62% ne contesta l’accoglienza, segnatamente gli ultraquarantenni (oltre il 65%) né meno i ceti medio (65%) e popolari (59%) con un forte picco di richiesta di blocco migratorio da quasi i due terzi di popolazione. Altra faccia della situazione italiana è quella data dalla vulnerabilità giovanile. Si registra una dispersione scolastica acuta, la più alta dell’UE e nelle famiglie maggiormente disagiate: «un minore su sette lascia prima la scuola, altri ragazzi non raggiungono le competenze di base alla fine del percorso di studi». Il circuito sofisticato delle fake news ingenera disinformazione e disorientamento. Le preoccupazioni sono indotte da una tale massa di notizie fuori controllo da renderne estremamente difficile una selezione. «Oggi circa 47 milioni di italiani, il 93% del totale, si informano su almeno una delle fonti disponibili, l’83,5% sul web e il 74,1% sui media tradizionali», mentre 700.000 rinunciano a ogni sorta di informazione. L’antisemitismo su scala mondiale è cresciuto esponenzialmente anche a causa della guerra nel Medioriente. Un fattore concomitante del crescente antisemitismo è dato dalla «[…] crescita di retoriche negazioniste dello sterminio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale e un uso strumentale e distorto della memoria della Shoah contro gli ebrei». Da prendere in considerazione pure una crescita di episodi, anche di estrema gravità, dopo il 7 ottobre. Da un lato, la conoscenza degli ebrei è alquanto scarsa e, dall’altro, pregiudizi e luoghi comuni sono non poco diffusi e condivisi. I pregiudizi presentano una triplice faccia: i soliti luoghi comuni forieri di odio (35% [un italiano su tre]); negazione/relativizzazione/banalizzazione della Shoah (35% [sentimenti antisemiti moderati 33%; più decisi 2%]; «[…] un’ostilità antisemitica legata ad Israele» (45% [7% fortemente; 38% moderatamente]; in Europa si arriva al 49% (fortemente+moderatamente). Il conflitto induce a forti timori circa un allargamento del conflitto. Circa atti e discorsi antiebraici nel 2023, su 923 segnalazioni solo 454 «[…] sono state rubricate come episodi di antisemitismo; un numero superiore all’anno precedente (241). «Non era mai accaduto di registrare un numero così elevato di episodi nel corso di dodici mesi, di cui 216 tra ottobre e dicembre». Tali episodi sono sottesi da matrici ideologiche: antigiudaismo tradizionale (cristiano e islamico): 25; antisemitismo neonazista/neofascista, negazione e banalizzazione della Shoah: 90; antisemitismo legato ad Israele (stereotipi antisemiti riflessi su Israele): 156; odio verso gli ebrei in quanto tali: 120; potere ebraico sulla politica e la finanza (cospirativismo giudeofobico): 63. Sotto tiro sono anche le scuole: aggressioni, molestie, bullismo antisemita… Di fronte a tali dati estremamente preoccupanti e da non sottovalutare, vanno ricordate le buone pratiche, molto numerose, messe in atto nel 2023 tra giugno e dicembre, a contrasto dell’antisemitismo. Tra queste, il ripristino in Senato all’unanimità della Commissione Segre. A metà maggio, presso il Memoriale della Shoah a Milano, un convegno su «Le vittime dell’odio», presenti figure istituzionali tra cui il ministro dell’interno Piantedosi. A Roma, il 20 giugno, un seminario per giornalisti promosso dall’Ordine dei giornalisti e dall’Ambasciata di Israele in Italia, oltre a varie istituzioni ebraiche. La problematica dell’antisemitismo ha interessato anche il mondo dello sport in forza dell’impegno istituzionale da parte della Federazione italiana giuoco calcio e Associazione Italiana Arbitri. Quanto a iniziative editoriali, il mese di luglio vede l’uscita, per i tipi di Giuntina, di un testo collettaneo a cura di Milena Santerini, L’antisemitismo e le sue metamorfosi. Ulteriori iniziative: in sede parlamentare viene approvato il progetto di un Museo della Shoah (ottobre); il Memoriale della Shoah di Milano ha visto, nel corso del 2023, 145.000 visitatori; a Roma si è svolta una manifestazione cui hanno aderito figure politiche e società civile (dicembre). Inoltre, un appello a condannare l’antisemitismo è giunto dal presidente della Repubblica e dalla presidente del Consiglio. E il nuovo anno è iniziato con la nomina del generale Pasquale Angelosanto a Coordinatore nazionale per la lotta contro l’antisemitismo, in sostituzione del prefetto Giuseppe Pecoraro (4 gennaio).
Il capo dell’IDF si scusa per il tragico incidente che ha coinvolto gli operatori umanitari di WCK a Gaza
Il capo dell’IDF sull’incidente che lunedì sera ha colpito le auto dei soccorsi umanitari a
Gaza, provocando la
morte di 7 membri del personale della WCK (World Central Kitchen) ha detto: «È stato un errore che ha fatto seguito a un’errata identificazione, di notte, in condizioni di guerra molto complesse. Non sarebbe dovuto succedere. Non c’era nessuna intenzione di danneggiare gli operatori umanitari».
Le reazioni internazionali non si sono fatte attendere.
Biden, come riporta il Times of Israel, ha detto che non si è trattato di un incidente isolato, perché Israele non sarebbe in grado di proteggere gli operatori umanitari e i civili palestinesi a Gaza.
In seguito al tragico incidente l’organizzazione WCK ha sospeso le operazioni a Gaza.
Halevi, capo dell’IDF ha ribadito l’importanza della presenza di organizzazioni come WCK, proprio per evitare che la situazione si trasformi in una vera e propria carestia.
La
World Central Kitchen
è una delle organizzazioni più apprezzate dall’IDF, ed è la stessa che ha cercato di tenere fuori l’UNRWA dallo sforzo umanitario,
considerati i legami con l’organizzazione terroristica di Hamas.
• Indagini fatte anche da organismi esterni Tra i lavoratori uccisi c’erano cittadini dall’Australia, Polonia, Gran Bretagna, un cittadino con doppia nazionalità statunitense e canadese e dipendenti palestinesi locali.
A far luce sull’accaduto, come ha spiegato Halevi, si affiancheranno anche degli organismi indipendenti. Ogni singolo dettaglio che emergerà nei prossimi giorni verrà direttamente condiviso con il WCK e le altre organizzazioni internazionali. «Questo incidente è stato un
grave errore.
Israele è in guerra con Hamas, non con il popolo di Gaza. Siamo dispiaciuti per il danno involontario ai membri della WCK», ha aggiunto il capo dell’IDF.
Le tre auto che sono state colpite stavano facendo ritorno dal confine con l’Egitto, in un viaggio che sarebbe stato coordinato con l’IDF, dopo aver scaricato 100 tonnellate di aiuti umanitari nelle città di
Deir al-Balah. Il quotidiano Haaretz parlando con fonti militari anonime avrebbe detto che l’incidente è stato causato non da una mancanza di coordinamento tra IDF e WCK, ma da una mancanza di disciplina tra le varie divisioni dell’esercito.
• l messaggio del presidente Isaac Herzog
Come riporta il sito i24news martedì sera il presidente israeliano
Isaac Herzog ha chiamato
José Andrés, fondatore di WCK, per esprimere la sua «profonda tristezza e le sue sincere scuse. Israele è impegnato nel condurre un’indagine approfondita sull’incidente», ha detto Herzog, oltre a ringraziare Andrés e la WCK per il loro importante operato.
Gaza: ex ministra britannica Braverman, Hamas deve essere eliminato
LONDRA - "Il movimento islamista palestinese Hamas deve essere eliminato e il Regno Unito non deve prendere le distanze da Israele". Lo ha dichiarato l'ex ministra dell'Interno britannica, Suella Braverman, criticando il ministero degli Esteri per aver permesso che nel Paese prenda piede una visione prevalente "pro-Palestina".
Lo riporta il quotidiano "The Telegraph" che riporta le dichiarazioni della ex ministra durante un tour dei siti attaccati da Hamas lo scorso 7 ottobre. Braverman ha affermato di aver ricevuto rassicurazioni sul fatto che Israele non sta violando il diritto internazionale e sta consentendo l'ingresso di aiuti umanitari a Gaza. "Sono arrabbiata quando vedo l'arretramento di Paesi come gli Stati Uniti e il Regno Unito. Non è il momento di allontanarsi da Israele".
Descrivendo il movimento islamista palestinese Hamas come un "culto della morte", Braverman ha aggiunto: "Questo è il momento di rafforzare il nostro sostegno a Israele. I vertici di Hamas hanno affermato che il 7 ottobre era solo una prova generale e che non si fermeranno davanti a nulla pur di distruggere Israele. Per questo Hamas deve essere eliminato". "Se non distruggiamo queste forze terroristiche malvagie, che si presentano non sono solo qui ma anche in molte forme in tutto il mondo, allora la stessa civiltà occidentale dovrà affrontare una vera minaccia", ha concluso Braverman.
Damasco, Israele attacca il consolato d’Iran: «Era in corso un vertice jihadista»
Alto il rischio di escalation con Hezbollah pronto a difendere l’alleato iraniano
Sei missili lanciati da modernissimi caccia F-35 israeliani colpiscono nel pomeriggio il consolato iraniano a Damasco, nel distretto di Mezzeh della capitale siriana, e sventrano i due piani dell’edificio contigui alla residenza dell’ambasciatore dell’Iran in Siria, Hossein Akbari.
Un attacco chirurgico, che scatta mentre è in corso un vertice segreto tra funzionari dell’intelligence iraniana e militanti palestinesi e a cui partecipano anche i leader della Jihad islamica.
Il blitz, secondo le prime ricostruzioni, uccide otto persone, tra cui l’ottantenne capo della forza Quds, l’élite d’intelligence delle guardie rivoluzionarie iraniane in Siria e Libano, già rappresentante dell’Ayatollah Khamenei in Libano, generale
Mohammad Reza Zahedi, insieme al vice, Mohammad Hadi Rahimi, e al numero 1 dei pasdaran in Siria e Libano, Hussein Amir Allah. Zahedi comandava 4mila pasdaran impegnati a sostenere l’esercito del presidente siriano Bashar Al Assad, ed era anche la testa di ponte tra il suo Paese e Hezbollah, permettendo al movimento libanese di ricevere le armi da Teheran. L’ambasciatore Akbari assiste alla distruzione dalla sua finestra e resta illeso insieme a tutta la famiglia.
• L’OPERAZIONE Emerge in Israele che gli israeliani, per quanto non si siano fatti scrupolo di colpire una struttura diplomatica, prima di entrare in azione hanno aspettato che il console iraniano si allontanasse, lasciando soli i militari. Ferite le guardie siriane davanti alla struttura. Si tratta del raid più eclatante per i suoi obiettivi da parte israeliana in Siria, dopo che lo scorso dicembre era stato ucciso in un attacco aereo a Damasco un altro generale delle guardie rivoluzionarie, Razi Mousavi, e dopo gli ultimi tre giorni in cui i raid israeliani avevano provocato 53 morti in Siria, inclusi 38 soldati e 7 membri di Hezbollah, l’organizzazione sostenuta dall’Iran. Poche ore prima dell’attacco, un drone lanciato dalle milizie filo-iraniane aveva colpito una base navale israeliana nella città meridionale di Eilat, sul Mar Rosso, danneggiando un hangar. «Siria e Libano sono diventate un’estensione del campo di battaglia», commenta con la France Press il direttore dell’Istituto per le analisi militari del Vicino Oriente e del Golfo, Riad Kahwaji. «Gli aerei israeliani hanno martellato obiettivi quasi ogni giorno in entrambi i Paesi, in un grande sforzo per distruggere le infrastrutture militari di Hezbollah».
• LA REAZIONE Il generale ucciso era stato a capo della forza Quds in Libano e Siria fino al 2016. L’ambasciatore iraniano a Damasco, Akbari, promette «una risposta dura» e il ministero degli Esteri di Teheran sollecita una «iniziativa internazionale contro la violazione israeliana». Israele, seguendo la prassi, non conferma, non smentisce, e non commenta. Intanto circolano sul web le immagini dell’edificio crollato, del fumo, delle macchine bruciate. L’agenzia siriana Sana fa sapere che inutilmente la contraerea ha cercato di fermare i caccia di Tel Aviv, intercettando qualche missile. Il ministro della Difesa di Damasco, Faisal Mekdad, è andato sul posto e ha condannato il «vergognoso attacco terroristico che aveva come bersaglio l’edificio del consolato iraniano e ha ucciso molte persone innocenti». Una chiave di lettura arriva da un dispaccio dell’agenzia russa Tass, che senza fare riferimento al raid riporta le parole di un professore della Hebrew University di Gerusalemme, Vladimir Mesamed, che sottolinea come Israele possa essere costretta a «reagire a suo modo se la comunità mondiale non fa nulla per prevenire che l’Iran riesca a dotarsi dell’arma nucleare. Il che significa che potrebbero esserci sviluppi molto seri sul fronte militare». E lo stesso presidente Biden ha ribadito di recente che non consentirà mai all’Iran di diventare una potenza militare nucleare.
(Il Messaggero, 2 aprile 2024)
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Chi era Zahedi, il generale ucciso a Damasco da un raid di Israele
Da boia di Khamenei ad armiere di Hezbollah e riferimento delle milizie sciite tra Siria e Iraq. È il colpo più grande dall’uccisione di Soleimani
di Francesco Battistini
«Prego l’Onnipotente Allah perché tu abbia il più grande successo nell’adempimento delle tue responsabilità». Sul calendario persiano era il primo giorno del mese di Bahman dell’anno 1384, ovvero il 21 gennaio 2006: quasi vent’anni fa. Ed era stata la Guida Suprema in persona, Ali Khamenei, a pescare dal mazzo quel generale Mohamed Reza Zahedi, che tanto s’era distinto nel reprimere le manifestazioni di protesta in Iran, e investirlo con solenne decreto «della mia massima fiducia, nel nome di Allah il Compassionevole e Misericordioso».
E quindi: con quel pronunciamento dell’Ayatollah Massimo, il fidato Zahedi diventava in un sol colpo comandante delle forze di terra, d’aria e di mare del Corpo delle Guardie della Rivoluzione islamica, milioni di pasdaran; responsabile della sicurezza in tutta Teheran, dove torturare chi s’oppone è la regola; responsabile di tutte le attività d’intelligence della Forza Quds in Siria e in Libano, quella che ha come missione principale la liberazione della Gerusalemme musulmana dal nemico sionista.
• Omicidio mirato
Non è difficile capire perché a Gerusalemme, ora, s’esaltino per essersi liberati di Zahedi. L’omicidio mirato più importante degli ultimi cinque anni: «Dopo i droni che nel 2020 uccisero il generale Qassem Soleimani — spiega l’ex capo dell’agenzia israeliana per la sicurezza, Tamir Hyman —, non era mai stato centrato un obbiettivo così importante. Sembra che l’Iran stia finalmente pagando un prezzo, per essere dietro la maggior parte delle attività offensive contro Israele».
Zahedi contava su molte identità (Reza Mahdavi, Hassan Mahdavi, Alireza Zahedi) e molte cariche. È stato folgorato su una via di Damasco da sei missili che hanno colpito il quartiere di Mezzeh — lo stesso d’un raid aereo di gennaio, che aveva eliminato quattro grandi pasdaran — e assieme al consolato iraniano hanno polverizzato l’uomo di collegamento fra Teheran e gli Hezbollah, l’armiere di tutte le milizie sciite che operano fra Siria e Iraq, da quarant’anni l’eminenza grigia dei guardiani della Rivoluzione e di 4 mila pasdaran dislocati sopra Aleppo.
A 63 anni, sulla lista nera Onu, sotto sanzioni negli Usa e in Australia, nell’Ue e in Gran Bretagna, il generale era da un decennio il punto di riferimento di tutta la muqawama, la resistenza filoiraniana che sostiene il dittatore Bashar al Assad. Reclutando 15 mila uomini tra sciiti afghani e pachistani, era riuscito a fondare le brigate Fateriyoun e a sbaragliare la pericolosa concorrenza sunnita dell’Isis. Un altro gruppo paramilitare da lui ideato, Nujaba, s’è sempre distinto per capacità militari: i suoi miliziani, per dire, considerano «troppo molle» la muqawama condotta dagli sciiti iracheni o dagli Houthi yemeniti.
• Militare e politico
D’esperienza ne aveva, il generale, e a Teheran ricordano ancora il pugno di ferro della sua brigata Sarallah nel reprimere le contestazioni studentesche del 1999 e del 2009. Nei pasdaran, Zahedi era entrato giovanissimo ai tempi dell’assalto all’ambasciata americana, e da allora ne aveva scalato le gerarchie. Le sue mostrine ricordavano le «eroiche ondate umane» della guerra contro l’Iraq: «Avevamo quattro divisioni — amava vantarsi — alle quali, ovunque andassimo, nessuna forza irachena era capace di resistere. Ogni volta che agivamo, vincevamo. Senza eccezioni».
Molti dei consiglieri del presidente iraniano Raisi sono ex generali della Forza Quds — ormai una cassaforte di soldi e di petrolio del regime — e pure Zahedi, dicono, vedeva per sé un ruolo a metà fra il militare e il politico. Gli israeliani sono arrivati prima, e promettono di non fermarsi: a dicembre hanno eliminato il generale Mousawi, a gennaio il generale Omidzadeh, a febbraio un’auto d’ufficiali della Forza Quds. Quando cinque anni fa venneammazzato il generalissimo Soleimani, un ayatollah disse che per vendicarlo non sarebbe bastato il sangue di tutti i leader americani: la vendetta si fermò solo perché, nella foga, gli iraniani abbatterono per errore un incolpevole Boeing ucraino che passava di lì, e fecero 176 morti. Stavolta, chissà.
I nemici di Israele e degli ebrei dovrebbero studiare la storia ebraica.
di Uri Pilichowski
Il tentativo di capire gli eventi attuali del Medio Oriente senza conoscerne la storia è destinato a fallire. Cercare di capire Israele senza conoscere la storia ebraica e il sionismo è altrettanto inutile.
Più di 100 anni fa, il popolo ebraico si rese conto che non sarebbe mai stato sicuro senza un proprio Paese, un proprio governo, un proprio esercito e il potere di determinare il proprio futuro. Nel corso della sua storia, lo Stato di Israele è stato attaccato più volte. Sebbene Israele abbia cercato la pace con i suoi nemici fin dall'inizio, non ha mai conosciuto un giorno di pace.
Gli storici impiegheranno decenni per capire cosa ha portato al massacro del 7 ottobre. Senza dubbio molti nemici di Israele - e anche alcuni amici - daranno la colpa alla politica israeliana. Molti israeliani e i loro sostenitori affermeranno che si è trattato del secolare antisemitismo del fondamentalismo islamico.
La storia insegna che questi ultimi hanno ragione. La violenza araba e musulmana contro gli ebrei risale alle origini dell'Islam. La violenza araba palestinese contro gli ebrei è iniziata decenni prima della fondazione di Israele. La devozione di Hamas alla violenza è radicata nella sua natura.
Ci sono molte persone, compresi alcuni ebrei, che cercano di distinguere tra il popolo ebraico, il sionismo e lo Stato di Israele. Hamas e altri terroristi palestinesi non fanno questa distinzione. I terroristi palestinesi hanno attaccato ebrei sionisti e non ebrei, ebrei antisionisti in Israele ed ebrei antisionisti fuori da Israele. I palestinesi, gli arabi, i musulmani e i loro sostenitori invocano regolarmente l'omicidio degli ebrei. Questa violenza si basa sull'odio, non sulla politica.
Inoltre, l'odio non nasce da solo. È giustificato dalla cultura e dall'ideologia. L'ideologia palestinese comune è razzista e caratterizzata dal genocidio. Sostiene che gli ebrei non hanno una storia nella terra d'Israele e quindi non hanno il diritto di viverci. Di conseguenza, i palestinesi credono falsamente che il loro terrorismo porterà alla pulizia etnica degli ebrei in Israele.
I palestinesi non capiscono che questo è un suicidio. Il sionismo non è una moderna ideologia colonialista. È l'espressione moderna di una convinzione millenaria. Il profondo attaccamento del popolo ebraico alla sua patria storica è radicato in ogni aspetto dell'ebraismo. L'idea che gli ebrei abbiano aspettato 2.000 anni per tornare nella loro terra, rischiare la vita e l'incolumità per riportarla al suo antico splendore, costruire un intero Paese e poi abbandonarlo di nuovo è assurda.
I sostenitori dei palestinesi commettono un errore simile. O non capiscono che i palestinesi sostengono la pulizia etnica, o la sostengono attivamente. Non si rendono conto che questo è moralmente ripugnante e, in ultima analisi, autodistruttivo.
La stragrande maggioranza degli ebrei è sionista. Il loro sostegno alla convinzione del movimento sionista che il popolo ebraico abbia il diritto e la necessità di una patria non ha vacillato. Anzi, ad ogni attacco palestinese, i sionisti si sentono giustificati nella loro convinzione che gli ebrei siano al sicuro solo nella loro terra, con il loro esercito a proteggerli. I nemici di Israele dovrebbero studiare la storia ebraica. Allora capirebbero che il popolo israeliano e il suo Stato non andranno da nessun altra parte.
(Israel Heute, 2 aprile 2024 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Gli ebrei americani (non i giovani) sostengono Israele. Lo studio del Pew Research Center
Un recente sondaggio del Pew Research afferma che la stragrande maggioranza della popolazione ebraica americana sostiene le azioni di Israele. Ma c’è una questione di demografia, con i più giovani più distanti.
Era il 2021 quando Ron Dermer, già ambasciatore dello Stato ebraico a Washington e ora ministro degli Affari Strategici nonché componente osservatore del Gabinetto di Guerra istituito a seguito dei fatti del 7 ottobre, suggeriva di dare la priorità al dialogo con gli evangelici rispetto a quello con gli ebrei americani. Solo i primi, infatti, oltre a costituire forse più del 25% della popolazione americana contro il 2% rappresentato dai secondi (dati citati dallo stesso Dermer), manifestano sostegno appassionato e incondizionato alla causa di Israele; viceversa, solo per alcuni tra gli ebrei, peraltro per circa un terzo riformati, le esigenze strategiche di Gerusalemme compaiono in cima alla lista delle priorità.
In effetti, la relazione tra la comunità ebraica americana nel suo complesso e Israele difficilmente può essere definita in termini lineari. Nonostante l’intesa tra le due capitali rimanga solida seppur nella dialettica contingente, gli Stati Uniti sono una superpotenza che tende per sua natura ad assimilare gli elementi di alterità in modo tale che obbediscano ai propri piuttosto che agli altrui imperativi strategici. Memorabile, in questo contesto, è lo scambio di battute tra Golda Meir e Henry Kissinger riportato nel film di prossima uscita ‘Golda’: “Io sono innanzitutto un americano, in secondo luogo un Segretario di Stato, in terzo luogo un ebreo” afferma lo stratega di Washington; “Dimentica – risponde la Premier – che in Israele leggiamo da destra a sinistra”.
Più di recente, Bill Ackman, finanziere di New York di origine ebraica e strenuo difensore della causa israeliana postosi alla guida della rivolta contro le istanze ultra progressiste entrate in rotta di collisione con le comunità ebraiche presenti negli atenei d’Oltreoceano, non ha trovato una sponda amica in Henry Kravis, anch’egli tra i più noti esponenti, col fondo KKR da lui creato, della finanza di Wall Street e proprietario di quel Business Insider che ha apertamente accusato di plagio Neri Oxman, moglie di Ackman con un passato da ufficiale dell’Aeronautica israeliana e già nota docente al MIT.
Un recentissimo studio del Pew Research Center, però, sembra contraddire i presupposti dell’analisi di Dermer. Con la consueta profondità di analisi, infatti, il noto istituto di ricerca demoscopica evidenzia come l’89% della popolazione ebraica americana affermi la validità delle ragioni di Gerusalemme nel recente conflitto (il 7% la nega e il 4% non ha un’opinione), contro un 74%-5%-19% tra i bianchi evangelici e un 69%-7%-23% tra i bianchi protestanti non evangelici. L’azione di Tsahal ha quindi determinato un effetto di “rally around the flag”, di stringersi attorno alla bandiera che dura anche a distanza di quasi sei mesi dallo spaventoso attacco perpetrato da Hamas.
A sorprendere, semmai, è il dato riguardante i musulmani d’America, i quali, interrogati sulle ragioni di Israele, rispondono solo per il 54% definendole “non valide”, con un 18% che le ritiene addirittura “valide”, così come lo stesso giudizio di validità delle ragioni di Hamas è espresso dal 49%. È una comunità islamica che appare quindi più divisa e dubbiosa (più di un quarto non esprime una posizione certa su entrambi i quesiti) di quanto non si sia indotti a credere, anche se il fatto di vivere molto concentrata in determinate zone è fonte comunque di grande preoccupazione da parte del presidente Joe Biden in vista della scadenza elettorale di novembre, per via del sistema uninominale che premia proprio la concentrazione in particolare nei collegi solitamente in bilico.
Si può quindi ritenere che Israele possa trovare elementi di conforto nei dati del Pew? È indubbio che le tradizionali fonti di sostegno alla propria causa non manifestano particolari segni di cedimento neppure a fronte del crescente richiamo, da parte della comunità internazionale, alla proporzionalità della reazione militare e alla ricerca di una soluzione negoziata. Una vittoria di Donald Trump darebbe poi caratura presidenziale a tale sostegno, come si evince dal suo recente incoraggiamento a Israele a “portare a termine il lavoro”.
Ciò che dovrebbe preoccupare Gerusalemme, però, è il dato demografico, con la fascia dei giovani americani tra i 18 e i 29 quasi egualmente divisi tra chi sostiene Israele (38%), chi non lo sostiene (27%) e chi non ha un’opinione (34%). È pur vero che a mano a mano che si cresce nella classe di età i favorevoli a Israele aumentano (65% negli over 65) fino a portare a 58% il dato medio complessivo, così come va riconosciuto che invecchiando le proprie posizioni possono essere riviste. Non va dimenticato, però, che la classe 18-29 è quella che può essere chiamata alle armi. Anche per difendere, se necessario, lo Stato ebraico.
Un affondo nel secolo scorso, il più drammatico, atroce, buio ma anche vitale della storia plurimillenaria dell’ebraismo italiano
di Micol De Pas
Si è appena inaugurata la mostra al MEIS – Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah – la mostra Ebrei nel Novecento italiano a cura di Vittorio Bo e Mario Toscano con l’allestimento di Antonio Ravelli. Una storia che comincia alla fine dell’Ottocento, dopo l’unità d’Italia e lo smantellamento dei ghetti, quando gli ebrei diventano cittadini a tutti gli effetti. Il periodo è carico di ottimismo e di fervente attività in tutti gli ambiti, da quello politico, con figure come il Presidente del Consiglio Luigi Luzzatti e il Ministro della Guerra Giuseppe Ottolenghi, alla vita culturale, al lavoro e alle storie più intime e famigliari. Da qui si percorre poi un secolo di storia denso, problematico, fatto di inclusioni ma anche di esclusioni, di leggi razziali – e il 1938 viene documentato con precisione come l’anno di una frattura drammatica – e di Shoah, per dedicare poi particolare attenzione al dopoguerra e all’elaborazione, ancora in corso, dell’Olocausto. Si parla dell’attentato alla sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982, della visita del pontefice al Tempio maggiore della capitale e delle nuove relazioni con lo Stato e con la società civile. Un viaggio appassionato tra mille sfaccettature che raccontano, nel percorso espositivo quasi tutte le tematiche che hanno caratterizzato il secolo definito “breve”: appartenenza religiosa ed educazione, rapporti con la Chiesa cattolica, vita artistica e letteraria, fascismo e antifascismo, persecuzione e Shoah, nascita dello stato d’Israele, sionismo e antisionismo, i musei ebraici, la Giornata della Memoria, la Giornata della Cultura ebraica e la memoria come istituzione. Che diventa oggetto di riflessione: cosa significa non dimenticare?
Corrado Cagli (1910-1976), Passaggio del Mar Rosso, Roma, 1935, tempera encaustica su tavola
La politica della memoria mostra i suoi limiti, da tempo ci si domanda se e in che modo l’istituzione della Giornata della Memoria sia efficace, abbia una sua valenza educativa e pedagogica o se non abbia perso, invece, interesse. Alberto Cavaglion nel catalogo della mostra scrive: «Quanto sta accadendo in Italia, dopo il 7 ottobre 2023, smaschera la fragilità e diciamo pure l’inautenticità di un avvicinamento al mondo ebraico tutto proiettato sui temi della memoria; di un uso però strumentale del passato (e dunque anche degli ebrei come personaggi della letteratura e del cinema) che poco ha aiutato a comprendere la reale portata dell’odio antiebraico e a maturare una coscienza civile. Il diffondersi in questi mesi, anche e direi soprattutto nel mondo universitario, svela le incongruenze di un avvicinamento che, essendo strumentale, ci appare adesso in tutta la sua infondatezza». Cita questo stralcio del testo di Cavaglion Giulio Busi sullo scorso inserto domenicale del Il sole 24 ore per parlare di questa mostra come necessaria, al di là degli scoramenti che sono comunque il motore della storia, insieme alle delusioni. Per Busi, «Tutto quello che si è fatto, per avvicinare all’ebraismo e per denunciare le persecuzioni, non è stato invano. Nessuna generazione può illudersi di aver “completato” il lavoro. È su questa coscienza di incompletezza, della necessità di un incessante, a volte avvilente “daccapo”, che si basa la fragile, e pure così tenace, durata ebraica».
Ritratto di Primo Levi con il figlio Renzo, 1963-1964
Ecco perché dunque questa mostra, che non è semplicemente una raccolta di avvenimenti disposti ordinatamente sulla linea del tempo, ma un affondo nella storia e nella società italiana lungo 100 anni, si rivela necessaria. Quella “durata” ebraica, come la definisce Busi, è in effetti il filo rosso dell’esposizione, che mette in scena quasi un’istantanea (solo 100 anni!) della storia plurimillenaria del giudaismo italiano, scegliendo un frammento però emblematico, perché è il ‘900 il secolo più contradditorio, atroce, buio e al contempo vitale della storia ebraica. Il percorso espositivo mostra quanto sia stato fondamentale l’apporto dell’ebraismo nel Novecento italiano. Come spiega Busi nel suo articolo, sono piccoli numeri, ma che causano un impatto ampio su società cultura, politica e vita civile: «Le proporzioni, assolute e relative,», scrive, «non sono solo un momento statistico. Sovra-proporzionale non è un’espressione elegante, è appunto sbilanciata. Troppo lunga, difficile da pronunciare, indica però una costante ebraica. Un gruppo che incide più degli altri in alcuni ambiti – professioni liberali, attività economiche, vita artistica – a dispetto delle proprie dimensioni demografiche». Si tratta di una convinzione falsata o di un dato reale, si chiede poi Busi? Ebbene, la risposta è la mostra. Perché fotografa un fatto: non è possibile fare la storia del Novecento italiano senza parlare dell’Italia ebraica.
(JoiMag, 2 aprile 2024)
Hamas "si scusa" con i gazani per le sofferenze causate dalla guerra
Tuttavia, ha insistito sul fatto che la battaglia deve essere combattuta "fino alla fine", al fine di raggiungere "la vittoria e la libertà per i palestinesi".
In un lungo messaggio pubblicato domenica su Telegram, Hamas si è "scusato" con la popolazione di Gaza per "le sofferenze e le difficoltà causate dalla guerra". Ringraziando la popolazione, di cui ha riconosciuto lo "sfinimento", ha tuttavia affermato che la battaglia deve essere combattuta "fino alla fine", per ottenere "la vittoria e la libertà per i palestinesi".
La guerra, lanciata dopo gli attacchi senza precedenti del 7 ottobre sul suolo israeliano da parte dell'organizzazione terroristica al potere a Gaza, ha provocato 32.000 vittime nella striscia costiera, secondo un bilancio non verificabile di Hamas. Diversi alti esponenti di Hamas, tra cui Khaled Meshaal, ex capo dell'ufficio politico, hanno affermato negli ultimi mesi che le morti nella Striscia di Gaza erano "un sacrificio necessario" per raggiungere la "vittoria finale". Pur non fornendo cifre, Israele stima che quasi la metà delle vittime di Gaza siano terroristi affiliati ad Hamas o ad altre fazioni.
Nel suo comunicato stampa, l'organizzazione islamista afferma che sta cercando di alleviare le difficoltà dei gazani "controllando l'aumento dei prezzi" e coordinando le azioni sociali attraverso "comitati popolari, famiglie e altri gruppi armati". In pratica, Hamas saccheggia gran parte degli aiuti umanitari che arrivano nella Striscia di Gaza, costringendo Israele e le organizzazioni internazionali a trovare vie alternative.
Arrestata la sorella del terrorista e leader di Hamas Haniyeh: “Sostiene il terrorismo”
La polizia israeliana ha arrestato questa mattina la sorella del terrorista e leader di Hamas Ismail Haniyeh con l’accusa di sostenere l’organizzazione terroristica. Lo riferiscono vari media locali. Le forze di sicurezza dello Stato ebraico hanno fatto irruzione nella casa della donna di 57 anni che si trova nella città di Tel Sheva, nel sud del paese.
All’operazione, come riferiscono alcune fonti, hanno partecipato polizia e Shin Bet. La polizia afferma di aver trovato nell’abitazione, documenti, telefoni e altri oggetti che provano il legame della donna con il terrorismo e “gravi reati contro la sicurezza”.
La donna, inoltre, comparirà oggi stesso nell’aula del tribunale di Be’er Sheva per l’udienza che dovrebbe estendere la sua detenzione.
Tra i più importanti storici dell’ebraismo nel secondo Novecento, il milanese Daniel Carpi (1926-2005) è stato studioso del sionismo e autore di studi che hanno approfondito la storia degli ebrei in Italia nel tardo medioevo e nell’età moderna, ma anche la “questione ebraica” e l’antisemitismo. “Camminando per la via. Memorie degli anni 1938-1945”, pubblicato in ebraico nel 1999 e appena tradotto da Giuntina a cura di Giacomo Corazzol, è il racconto degli anni drammatici della guerra e della persecuzione nazifascista, che iniziarono per lui con il «pianto dirotto» che lo colse alla notizia dei provvedimenti antisemiti che decretarono l’espulsione dei bambini ebrei dalle scuole pubbliche.
Nel momento in cui la persecuzione dei diritti diventò persecuzione delle vite, Carpi fuggì verso il Meridione d’Italia già libero insieme al padre: un viaggio avventuroso di cui restituisce una testimonianza vivida, lungo quei «sentieri montuosi» che portarono l’agognata salvezza. A Bari incontrerà poi Enzo Sereni e farà la conoscenza con i soldati della Brigata ebraica. Un destino diventerà così ineludibile per il giovane Carpi: emigrare nell’allora Palestina mandataria, il nascente Stato d’Israele, che raggiungerà nel marzo del 1945 a bordo di una nave britannica salpata da Taranto e stipata di persone. Sono poche pagine conclusive quelle che il diarista dedica all’avvenimento, ma dalle quali traspare tutta l’emozione per l’avvistamento della Terra d’Israele un mattino, sul fare dell’alba, «attraverso la bruma sottile che avvolgeva le pendici del Carmelo». Una nuova vita può così iniziare, che gli darà grandi soddisfazioni professionali, come la cattedra di Storia ebraica di cui è stato titolare per vari decenni all’Università di Tel Aviv.
Il libro è introdotto da alcune riflessioni dello storico Alberto Cavaglion, che sottolinea: «Ciò che si riscontra nelle pagine di Carpi è l’esperienza concreta dell’umano vivere e dell’umano agire, un’esperienza inattingibile ove manchi l’immaginazione empirica: si impara dalla vita e non soltanto dalle carte d’archivio».
Israele e Medio Oriente, tra guerre imminenti e probabili accordi di pace
Intervista a Eldad Pardo, tra i massimi esperti oggi della “questione iraniana”. Tutti i paesi musulmani “moderati” si sono rivelati, nei fatti, dalla parte di Israele. Chi sta aiutando Hamas? Solo l’Iran e il Qatar. L’Egitto ha chiuso i confini, la Giordania ha mandato un aiuto umanitario simbolico (d’accordo con Israele), l’Arabia Saudita punta i propri missili contro lo Yemen per difendere lo Stato ebraico. Nella realtà i paesi coinvolti negli Accordi di Abramo possono davvero fare la differenza in Medio Oriente.
di David Zebuloni
Il conflitto tra Israele e Hamas, a differenza di quanto si possa pensare in Europa, non è fine a se stesso e non vede coinvolti solo gli israeliani e i palestinesi. Al contrario, la guerra secolare che non dà pace allo Stato Ebraico e mette in pericolo costante la sua esistenza, è in realtà parte di un conflitto molto più ampio, che vede coinvolto l’intero Medio Oriente e il suo destino. Per sbirciare dietro le quinte del conflitto e capire a fondo il ruolo centrale dell’Iran, nonché la possibilità che vi sia una pace duratura in quella fetta di mondo tanto tormentata, abbiamo incontrato il professor Eldad Pardo, docente presso la Hebrew University di Gerusalemme e tra i massimi esperti degli studi sul regime iraniano, in Israele. Un pozzo inesauribile di conoscenze da cui attingere informazioni approfondite e, anche, una certa dose di ottimismo circa il ruolo di Israele nel sempre più complesso scacchiere mediorientale. «Professore, l’Iran non ha confini o risorse in comune con Israele. Dunque, che cosa vuole da noi?», gli chiedo. «In effetti, non ha alcun senso logico – risponde lui sorridendo. – Tuttavia, vi sono alcune nazioni che vivono nella piena convinzione di avere una missione da compiere. Così, per esempio, accade alla leadership iraniana, che dopo la nota rivoluzione alla fine degli anni Settanta, è stata per la prima volta nella storia sostituita da un regime religioso e non laico. Una leadership sciita, dunque dalla visione apocalittica. Però, a differenza di altre realtà, come quella a Gaza, per esempio, dove Hamas gode del sostegno della maggior parte della popolazione locale, in Iran il regime non è sostenuto dal popolo. Anzi, in realtà esso rappresenta solo una piccola fetta di popolazione. C’è chi dice che solo il 10% è con il regime, c’è invece chi parla del 30%. In ogni caso, si tratta di una minoranza assoluta che si è impossessata della maggioranza». Secondo l’esperto, e con grande sorpresa di chi lo ascolta, il legame che unisce l’Iran allo Stato Ebraico è molto più profondo di quanto ci si possa immaginare. «Una cosa che non si sa è che lo stesso regime iraniano in questione, ha preso ispirazione da Israele – racconta Pardo con tono appassionato. – La fondazione dello Stato d’Israele per mano di visionari quali Theodor Herzl e David Ben Gurion, nonché il modello di uno Stato Ebraico che fungesse da casa per tutti gli ebrei del mondo, ha influito molto su Khomeini. Sì, nonostante l’odio profondo che nutriva per Israele, egli ha imparato molto dal modello sionista. È proprio un paradosso: Israele era per lui un nemico e, al contempo, una fonte d’ispirazione. Khomeini riconosceva che lo Stato Ebraico era stato fondato contro ogni probabilità e apprezzava la sua struttura fondamentalmente religiosa. Così, convinto che l’islam fosse migliore dell’ebraismo, era altrettanto convinto di poter fare ciò che ha fatto Israele, ma con risultati ancora più importanti». Il progetto iraniano, dunque, era e rimane lo stesso. «La sua visione era quella di unire inizialmente tutti i paesi musulmani sotto un dominio iraniano, e poi annettere anche le comunità iraniane sparse per il mondo. Ancora oggi il regime agisce secondo questo ideale, e questo spiega in parte l’odio nei confronti di Israele», puntualizza. «Un odio in primis religioso e ideologico. Nonostante i due paesi non abbiano confini comuni, infatti, l’entità sionista impedisce al regime iraniano di agire da redentore e mettere in pratica il suo grande piano. Cioè, impedisce all’Iran di creare un solo grande Stato islamico. Il conflitto, dunque, non è solo religioso, ma anche strategico: finché Israele esisterà, l’Iran non potrà mai impadronirsi di tutto il Medio Oriente. Detto ciò, non dimentichiamoci che l’entità sionista non è l’unica d’intralcio al progetto iraniano. Forse, prima ancora di voler mettere in ginocchio Israele, il regime vorrebbe conquistare l’Arabia Saudita. Così facendo, egli s’impadronirebbe dei due luoghi sacri principali dell’islam, la Mecca e Medina, e tutti gli arabi del mondo, compresi quelli europei, verrebbero in pellegrinaggio non più nella vecchia regione saudita, ma nel nuovo Iran unito. L’Ayatollah, tuttavia, non è il solo ad avere fantasie imperialiste. Gran parte del mondo arabo sogna di unire tutte le nazioni musulmane, ma ognuno desidera farlo per conto proprio. Erdoğan il turco, per esempio, sogna di ricreare l’impero ottomano perduto». Ed ecco che cosa non mi torna: nonostante il conflitto in questione abbia moventi e fini religiosi, gli ebrei, in teoria, possono vivere in Iran e negli altri paesi arabi citati, purché rinuncino ad ogni rapporto e legame con Israele e con il sionismo. «Non è forse un paradosso questo?», domando. «Questo è un grande paradosso -, conferma il professore. – L’islam non ha nessun problema con gli ebrei, purché questi siano una minoranza debole e sottomessa. Il problema sorge quando gli ebrei non sono deboli, bensì forti e indipendenti in uno Stato che appartiene a loro. E non finisce qui. L’altro grande paradosso dell’islam vede l’imposizione religiosa. Voglio dire, secondo l’ideale islamico, tutti devono essere musulmani, credenti e praticanti. Così, anche quei cittadini che professano un’altra religione, come le minoranze ebraiche o cristiane nei paese arabi. Tuttavia, lo stesso islam dice che non si può imporre la propria fede agli altri, poiché questa deve essere frutto di un sentimento di amore sincero nei confronti di Allah. Quindi, la minoranza ebraica può professare la propria religione in un paese ostile come quello iraniano». Tornando al 7 ottobre, alla strage compiuta da Hamas, al conflitto israelo-palestinese che va avanti da decenni e che sembra non avere soluzioni diplomatiche che possano risolverlo o porvi fine: in che cosa questo conflitto somiglia al conflitto freddo che caratterizza quello con il regime iraniano? «Esiste un elemento religioso comune all’Iran, ma in questo caso, il movente palestinese è più nazionalista. Meno idealista e più pratico. Essendo più vicini al confine, qui si combatte per la terra», dichiara il professore, questa volta con fare più solenne o, forse, semplicemente più preoccupato. «Come gli iraniani sognano un Medio Oriente iraniano, così i palestinesi sognano un’unica nazione palestinese dal fiume al mare. Per poter realizzare il loro sogno, anche in questo caso, Israele deve essere annientata. Inoltre, i palestinesi sono convinti che gli ebrei provengano tutti dall’Europa. Si sbagliano, ovviamente. La maggior parte degli israeliani provengono dal Medio Oriente e anche quelli che effettivamente vengono dall’Europa, sono originari di qui e ancora parlano la lingua locale. Storicamente parlando, dunque, è l’islam l’entità colonialista nel territorio ebraico». «Si può parlare di antisemitismo palestinese, inteso come lo si intende in Europa?», chiedo esitante. «Assolutamente sì -, afferma Eldad Pardo senza esitare. – Oggi sappiamo che le organizzazioni terroristiche sono influenzate dall’ideologia antisemita europea. Non a caso, nell’ultima guerra, sono state trovare a Gaza diverse copie dei Protocolli dei Savi di Sion e del Mein Kampf.Non erano lì a caso. All’interno dei libri, sono state trovate diverse sottolineature. Ovvero, qualcuno ha studiato a fondo il testo. Ed ecco l’ennesimo paradosso: questi terroristi negano la Shoah, ma sostengono che Hitler abbia fatto bene a fare ciò che ha fatto. La materia che non studiano e che non vogliono conoscere, invece, è l’archeologia. Peccato. Se avessero aperto uno scavo archeologico, avrebbero scoperto che la presenza ebraica in Terra d’Israele c’è sempre stata, così come c’è sempre stata una comunità ebraica locale. Gran parte dei palestinesi invece, sono migrati qui, in queste terre, negli ultimi duecento anni».
• IL TEMPISMO DELL’ATTACCO DI HAMAS
Secondo alcuni, il tempismo dell’attacco di Hamas non era casuale, ma volto a interrompere quello che sembrava essere un imminente accordo di pace con l’Arabia Saudita. Specie, dopo l’ultimo discorso a proposito del Premier Netanyahu all’ONU. Anche secondo Pardo, esiste un collegamento tra i due eventi. «Il Medio Oriente è diviso in due fazioni -, spiega. – La prima è islamista rivoluzionaria, militarista e dittatoriale, capeggiata dall’Iran ma non solo. Anche il Qatar, la Turchia e i Fratelli Musulmani, per esempio, ne fanno parte. La loro visione è fondamentalista, ovvero è basata sulla convinzione che l’islam deve comandare il mondo. Pertanto, secondo questo schieramento, i paesi musulmani devono unirsi per distruggere l’Occidente, soprattutto dopo che questi l’ha umiliato per così tanti anni. Il primo obiettivo è l’Europa, poi gli USA e poi ancora gli altri Stati. Il secondo schieramento, capeggiato dall’Arabia Saudita a degli Emirati Arabi, dall’Egitto e dalla Giordania, è moderato, non rivoluzionario bensì conservativo. Questi aspirano a una lenta democratizzazione della regione, con il fine di unire il Medio Oriente secondo il modello europeo. Questa fazione accetta le altre fedi e religioni, così come accetta l’esistenza di uno Stato Ebraico. Non vogliono arrivare alla libertà assoluta che vige in Europa, però vogliono sfruttare le risorse del Medio Oriente e renderlo un centro economico e culturale a tutti gli effetti. In questo caso, Israele ha un doppio ruolo: non solo aiutare a sconfiggere l’Iran, ma aiutare anche a sconfiggere la natura terrorista stessa della fazione nemica, che cerca sempre di distruggere e distruggersi dall’interno». Il 7 ottobre ha danneggiato in modo irreversibile il rapporto tra Israele e i suoi alleati arabi? «Assolutamente no, anzi, anche se passivamente, tutti i paesi musulmani si sono rivelati dalla parte di Israele. Pensaci, chi sta aiutando Hamas? Nessuno. L’Egitto ha chiuso i confini, la Giordania ha mandato un aiuto umanitario simbolico concordato prima con Israele. Naturalmente, per ovvi motivi, esiste una sorta di solidarietà con la causa palestinese, questi Paesi possono immedesimarsi più facilmente in loro di quanto possano immedesimarsi nell’entità sionista; tuttavia, riconoscono che tutto ciò che Hamas ha da offrire loro è una guerra senza fine, poiché Israele non è destinata a sparire. Ma non solo: considerato l’approccio islamista espansionista di Hamas e della sua fazione, riconoscono anche che una volta finita la guerra contro Israele, comincerà un’altra guerra. In Spagna, in Sicilia, a Vienna, a Malta. Non c’è fine. Questo è uno scenario che loro non accettano. Loro non desiderano combattere l’Europa. Al contrario, loro vogliono essere come l’Europa. Israele, per questo motivo, non ha mai condotto prima una guerra così lunga e così indisturbata. Una guerra in cui l’Arabia Saudita punta i propri missili contro lo Yemen per difendere Israele. Ti rendi conto? È quasi impensabile, eppure è la realtà. I paesi coinvolti negli Accordi di Abramo possono davvero fare la differenza in Medio Oriente».
• I LIBRI DI TESTO NELLE SCUOLE DEI VARI PAESI ARABI Uno dei compiti accademici più importanti del professor Eldad Pardo consiste nello studio della pace in Medio Oriente tramite i libri di testo delle scuole nei vari Paesi arabi. «È un processo lento, ma cominciamo a vedere l’inizio di un cambiamento -, racconta l’esperto, questa volta entusiasta. – In Egitto, per esempio, dove si studiano gli accordi di pace di Israele. O negli Emirati Arabi, dove la narrativa è cambiata circa il conflitto israeliano. Anche l’Arabia Saudita, da questo punto di vista, è costantemente in miglioramento. Tuttavia, nei Paesi come la Giordania e Bahrein, c’è ancora molto lavoro da fare. Ciò che preoccupa maggiormente, è che in tutte le mappe geografiche orientali, Israele ancora non esiste. Ovvero, Israele non è ancora riconosciuta del tutto». Una delle parole ricorrenti utilizzate da Eldad Pardo è paradosso. Un paradosso che vede coinvolta anche l’Europa e il suo abbraccio forzato alla causa palestinese, nonché islamica. «L’Europa è lacerata tra la sua parte inconscia e quella conscia – commenta in chiusura, ora con un tono indubbiamente amaro. – Nel suo conscio è contro l’antisemitismo e a favore di Israele, ma nel suo subconscio è ancora fortemente anti-giudaica e predilige, pertanto, la presenza musulmana nel suo territorio. Così, apre ai musulmani le porte di casa sua, nonostante li tema fortemente. Nonostante sappia perfettamente che questi hanno come solo obiettivo quello di abolire la democrazia e imporre la loro ideologia islamica. I musulmani, al contrario degli ebrei della Diaspora, hanno ambizioni espansionistiche: vogliono comandare, applicare la Shaaria. Dunque, ciò che l’Europa non capisce ancora è che, agendo contro Israele, e contro gli ebrei, agisce in realtà contro se stessa». Ma non è forse sempre stato così?
«Svastiche antisemite? Non sempre, dipende dal contesto»
Poliziotto scatena l'indignazione della comunità ebraica al corteo pro Palestina. La polizia metropolitana ha sottolineato che la persona con il segno della svastica era già stata arrestata al momento di questa conversazione
Sabato di proteste fiume pro-Palestina in Europa, contro i bombardamenti di Israele su Gaza. Durante un corteo a Londra è andata in scena una discussione tra un agente della Metropolitan Police e una donna ebrea. Lo scambio è avvenuto a causa di un cartello da parte di uno dei manifestanti. Cartello che, secono la donna, riportava una
svastica
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L'indignazione dei presenti e della comunità ebraica si è scatenata a causa delle parole del poliziotto: «Le svastiche - dice - devono essere prese nel loro contesto», aggiungendo che «non necessariamente sono antisemite o un disturbo dell'ordine pubblico».
• Il litigio A quel punto la donna comincia ad alzare i toni. «Credo che il simbolo in sé...», comincia a dire l'agente, ma subito viene interrotto dalla donna che urla: «Per favore, per l'amor di Dio, filmate tutto questo». Intorno a loro si sentono le proteste: «È antisemita!».
Il poliziotto comincia a spiegare come funziona la legge sull'ordine pubblico prima di essere interrotto nuovamente: «Potrebbe spiegare in quale contesto una svastica non disturba l'ordine pubblico?», ha chiesto lei. L'uomo ha risposto: «Non ho detto nulla al riguardo, dico solo che tutto deve essere considerato nel contesto, no?».
La situazione si fa ancora più calda. «Perché - incalza lei -, una svastica non è antisemita? Ha bisogno di un contesto? È questo che mi confonde: non si tratta nemmeno più di Israele».
L'agente risponde: «Non ho una conoscenza approfondita di segni e simboli. So che la svastica è stata usata dal Partito Nazista durante la sua nascita e nel periodo in cui era al potere in Germania, ne sono consapevole».
• La nota della polizia La polizia metropolitana ha sottolineato che la persona con il segno della svastica era già stata arrestata al momento di questa conversazione. Le forze dell'ordine hanno dichiarato in un comunicato: «Siamo a conoscenza di un video online della protesta nel centro di Londra che mostra un'interazione tra un ufficiale e una donna durante la quale avviene uno scambio riguardo i manifestanti che mostrano striscioni offensivi, comprese le svastiche», riporta il The Standard.
«L’ufficiale si è poi offerto di far accompagnare la donna per identificare eventuali altri manifestanti che la preoccupavano, ma dopo essersi voltato per parlare con il suo supervisore, lei se n’è andata», conclude la nota.
• La protesta della comunità ebraica
Un portavoce dell'associazione Campaign Against Antisemitism ha dichiarato che «questa interazione è assolutamente sconcertante». La sola idea «che un agente di polizia britannico possa immaginare un contesto in cui la svastica nazista sia un'immagine accettabile da esporre in pubblico è già abbastanza angosciante, ma che sia incerto sul suo significato nel contesto di una marcia che trasuda antisemitismo è ancora più grave», ha concluso i portavoce.