Chi rapisce un uomo, sia che lo venda, sia che gli si trovi fra le mani, sarà messo a morte.
Esodo 21:16

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Il Re dei Giudei
Il Re dei Giudei

Dalla Sacra Scrittura

MATTEO 2
  1. Or essendo Gesù nato in Betleem di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d'Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo:
  2. Dov'è il re de' Giudei che è nato? Poiché noi abbiam veduto la sua stella in Oriente e siam venuti per adorarlo.
  3. Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui.
  4. E radunati tutti i capi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informò da loro dove il Cristo doveva nascere.
  5. Ed essi gli dissero: In Betleem di Giudea; poiché così è scritto per mezzo del profeta:
  6. E tu, Betleem, terra di Giuda, non sei punto la minima fra le città principali di Giuda; perché da te uscirà un Principe, che pascerà il mio popolo Israele.
  7. Allora Erode, chiamati di nascosto i magi, s'informò esattamente da loro del tempo in cui la stella era apparita;
  8. e mandandoli a Betleem, disse loro: Andate e domandate diligentemente del fanciullino; e quando lo avrete trovato, fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo.
  9. Essi dunque, udito il re, partirono; ed ecco la stella che avevano veduta in Oriente, andava dinanzi a loro, finché, giunta al luogo dov'era il fanciullino, vi si fermò sopra.
  10. Ed essi, veduta la stella, si rallegrarono di grandissima allegrezza.
  11. Ed entrati nella casa, videro il fanciullino con Maria sua madre; e prostratisi, lo adorarono; ed aperti i loro tesori, gli offrirono dei doni: oro, incenso e mirra.
  12. Poi, essendo stati divinamente avvertiti in sogno di non ripassare da Erode, per altra via tornarono al loro paese.
GIOVANNI 18
  1. Poi, da Caiàfa, menarono Gesù nel pretorio. Era mattina, ed essi non entrarono nel pretorio per non contaminarsi e così poter mangiare la pasqua.
  2. Pilato dunque uscì fuori verso di loro, e domandò: Quale accusa portate contro quest'uomo?
  3. Essi risposero e gli dissero: Se costui non fosse un malfattore, non te lo avremmo dato nelle mani.
  4. Pilato quindi disse loro: Pigliatelo voi, e giudicatelo secondo la vostra legge. I Giudei gli dissero: A noi non è lecito far morire alcuno.
  5. E ciò affinché si adempisse la parola che Gesù aveva detta, significando di qual morte doveva morire.
  6. Pilato dunque rientrò nel pretorio; chiamò Gesù e gli disse: Sei tu il Re dei Giudei?
  7. Gesù gli rispose: Dici tu questo di tuo, oppure altri te l'hanno detto di me?
  8. Pilato gli rispose: Son io forse giudeo? La tua nazione e i capi sacerdoti t'hanno messo nelle mie mani; che hai fatto?
  9. Gesù rispose: il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori combatterebbero perch'io non fossi dato in mano dei Giudei; ma ora il mio regno non è di qui.
  10. Allora Pilato gli disse: Ma dunque, sei tu re? Gesù rispose: Tu lo dici; io sono re; io sono nato per questo, e per questo son venuto nel mondo, per testimoniare della verità. Chiunque è per la verità ascolta la mia voce.
  11. Pilato gli disse: Che cos'è verità? E detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei, e disse loro: Io non trovo alcuna colpa in lui.
  12. Ma voi avete l'usanza ch'io vi liberi uno per la Pasqua; volete dunque che vi liberi il Re de' Giudei?
  13. Allora gridaron di nuovo: Non costui, ma Barabba! Or Barabba era un ladrone.
Marcello Cicchese
ottobre 2019

Come cerva che assetata
Come cerva che assetata

Dalla Sacra Scrittura

SALMO 42
  1. Come la cerva desidera i corsi d'acqua,
    così l'anima mia anela a te, o Dio.
  2. L'anima mia è assetata di Dio, del Dio vivente;
    quando verrò e comparirò in presenza di Dio?
  3. Le mie lacrime sono diventate il mio cibo giorno e notte,
    mentre mi dicono continuamente: «Dov'è il tuo Dio?»
  4. Ricordo con profonda commozione il tempo in cui camminavo con la folla
    verso la casa di Dio, tra i canti di gioia e di lode di una moltitudine in festa.
  5. Perché ti abbatti, anima mia? Perché ti agiti in me?
    Spera in Dio, perché lo celebrerò ancora; egli è il mio salvatore e il mio Dio.
  6. L'anima mia è abbattuta in me; perciò io ripenso a te dal paese del Giordano,
    dai monti dell'Ermon, dal monte Misar.
  7. Un abisso chiama un altro abisso al fragore delle tue cascate;
    tutte le tue onde e i tuoi flutti sono passati su di me.
  8. Il Signore, di giorno, concedeva la sua grazia,
    e io la notte innalzavo cantici per lui come preghiera al Dio che mi dà vita.
  9. Dirò a Dio, mio difensore: «Perché mi hai dimenticato?
    Perché devo andare vestito a lutto per l'oppressione del nemico?»
  10. Le mie ossa sono trafitte dagli insulti dei miei nemici
    che mi dicono continuamente: «Dov'è il tuo Dio?»
  11. Perché ti abbatti, anima mia? Perché ti agiti in me?
    Spera in Dio, perché lo celebrerò ancora; egli è il mio salvatore e il mio Dio.
SALMO 43
  1. Fammi giustizia, o Dio, difendi la mia causa contro gente malvagia;
    liberami dall'uomo falso e malvagio.
  2. Tu sei il Dio che mi dà forza; perché mi hai abbandonato?
    Perché devo andare vestito a lutto per l'oppressione del nemico?
  3. Manda la tua luce e la tua verità, perché mi guidino,
    mi conducano al tuo santo monte e alle tue dimore.
  4. Allora mi avvicinerò all'altare di Dio, al Dio della mia gioia e della mia esultanza;
    e ti celebrerò con la cetra, o Dio, Dio mio!
  5. Perché ti abbatti, anima mia? Perché ti agiti in me?
    Spera in Dio, perché lo celebrerò ancora; egli è il mio salvatore e il mio Dio.
Marcello Cicchese
gennaio 2008

Vanità delle vanità
Vanità delle vanità, tutto è vanità

Dalla Sacra Scrittura

ECCLESIASTE 1
  1. Parole dell'Ecclesiaste, figlio di Davide, re di Gerusalemme.
  2. Vanità delle vanità, dice l'Ecclesiaste, vanità delle vanità, tutto è vanità.
  3. Che profitto ha l'uomo di tutta la fatica che sostiene sotto il sole?
  4. Una generazione se ne va, un'altra viene, e la terra sussiste per sempre.
  5. Anche il sole sorge, poi tramonta, e si affretta verso il luogo da cui sorgerà di nuovo.
  6. Il vento soffia verso il mezzogiorno, poi gira verso settentrione; va girando, girando continuamente, per ricominciare gli stessi giri.
  7. Tutti i fiumi corrono al mare, eppure il mare non si riempie; al luogo dove i fiumi si dirigono, continuano a dirigersi sempre.
  8. Ogni cosa è in travaglio, più di quanto l'uomo possa dire; l'occhio non si sazia mai di vedere e l'orecchio non è mai stanco di udire.
  9. Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c'è nulla di nuovo sotto il sole.
  10. C'è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questo è nuovo?» Quella cosa esisteva già nei secoli che ci hanno preceduto.
  11. Non rimane memoria delle cose d'altri tempi; così di quanto succederà in seguito non rimarrà memoria fra quelli che verranno più tardi.
  12. Io, l'Ecclesiaste, sono stato re d'Israele a Gerusalemme,
  13. e ho applicato il cuore a cercare e a investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo: occupazione penosa, che Dio ha data ai figli degli uomini perché vi si affatichino.
  14. Io ho visto tutto ciò che si fa sotto il sole: ed ecco tutto è vanità, è un correre dietro al vento.
  15. Ciò che è storto non può essere raddrizzato, ciò che manca non può essere contato.
  16. Io ho detto, parlando in cuor mio: «Ecco io ho acquistato maggiore saggezza di tutti quelli che hanno regnato prima di me a Gerusalemme; sì, il mio cuore ha posseduto molta saggezza e molta scienza».
  17. Ho applicato il cuore a conoscere la saggezza, e a conoscere la follia e la stoltezza; ho riconosciuto che anche questo è un correre dietro al vento.
  18. Infatti, dov'è molta saggezza c'è molto affanno, e chi accresce la sua scienza accresce il suo dolore.

ECCLESIASTE 2
  1. Io ho detto in cuor mio: «Andiamo! Ti voglio mettere alla prova con la gioia, e tu godrai il piacere!» Ed ecco che anche questo è vanità.
  2. Io ho detto del riso: «É una follia»; e della gioia: «A che giova?»
  1. Perciò ho odiato la vita, perché tutto quello che si fa sotto il sole mi è divenuto odioso, poiché tutto è vanità, un correre dietro al vento.

ECCLESIASTE 12
  1. Ascoltiamo dunque la conclusione di tutto il discorso: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo è il tutto dell'uomo.

1 PIETRO 1
  1. E se invocate come Padre colui che giudica senza favoritismi, secondo l'opera di ciascuno, comportatevi con timore durante il tempo del vostro soggiorno terreno;
  2. sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri,
  3. ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia.
  4. Già designato prima della creazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi;
  5. per mezzo di lui credete in Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria affinché la vostra fede e la vostra speranza fossero in Dio.
  6. Avendo purificato le anime vostre con l'ubbidienza alla verità per giungere a un sincero amor fraterno, amatevi intensamente a vicenda di vero cuore,
  7. perché siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè mediante la parola vivente e permanente di Dio.
  8. Infatti, «ogni carne è come l'erba, e ogni sua gloria come il fiore dell'erba. L'erba diventa secca e il fiore cade;
  9. ma la parola del Signore rimane in eterno». E questa è la parola della buona notizia che vi è stata annunziata.

1 CORINZI 15
  1. Quando poi questo corruttibile avrà rivestito incorruttibilità e questo mortale avrà rivestito immortalità, allora sarà adempiuta la parola che è scritta: «La morte è stata sommersa nella vittoria».
  2. «O morte, dov'è la tua vittoria? O morte, dov'è il tuo dardo?»
  3. Ora il dardo della morte è il peccato, e la forza del peccato è la legge;
  4. ma ringraziato sia Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo.
  5. Perciò, fratelli miei carissimi, state saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell'opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.
Marcello Cicchese
8 ottobre 2006

La prova della fede
La prova della fede

Dalla Sacra Scrittura

GIACOMO 1
  1. Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù che sono disperse nel mondo: salute.
  2. Fratelli miei, considerate una grande gioia quando venite a trovarvi in prove svariate,
  3. sapendo che la prova della vostra fede produce costanza.
  4. E la costanza compia pienamente l'opera sua in voi, perché siate perfetti e completi, di nulla mancanti.
  5. Se poi qualcuno di voi manca di saggezza, la chieda a Dio che dona a tutti generosamente senza rinfacciare, e gli sarà data.
  6. Ma la chieda con fede, senza dubitare; perché chi dubita rassomiglia a un'onda del mare, agitata dal vento e spinta qua e là.
  7. Un tale uomo non pensi di ricevere qualcosa dal Signore,
  8. perché è di animo doppio, instabile in tutte le sue vie.
  9. Il fratello di umile condizione sia fiero della sua elevazione;
  10. e il ricco, della sua umiliazione, perché passerà come il fiore dell'erba.
  11. Infatti il sole sorge con il suo calore ardente e fa seccare l'erba, e il suo fiore cade e la sua bella apparenza svanisce; anche il ricco appassirà così nelle sue imprese.
  12. Beato l'uomo che sopporta la prova; perché, dopo averla superata, riceverà la corona della vita, che il Signore ha promessa a quelli che lo amano.
Marcello Cicchese
1 ottobre 2006

L’enigma Gesù
L’enigma Gesù

Dalla Sacra Scrittura

MARCO 15
  1. E venuta l'ora sesta, si fecero tenebre per tutto il paese, fino all'ora nona.
  2. E all'ora nona, Gesù gridò con gran voce: Eloì, Eloì, lamà sabactanì? il che, interpretato, vuol dire: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
  3. E alcuni degli astanti, udito ciò, dicevano: Ecco, chiama Elia!
  4. E uno di loro corse, e inzuppata d'aceto una spugna, e postala in cima ad una canna, gli diè da bere dicendo: Aspettate, vediamo se Elia viene a trarlo giù.
  5. E Gesù, gettato un gran grido, rendé lo spirito.
  1. Ed essendo già sera (poiché era Preparazione, cioè la vigilia del sabato),
  2. venne Giuseppe d'Arimatea, consigliere onorato, il quale aspettava anch'egli il Regno di Dio; e, preso ardire, si presentò a Pilato e domandò il corpo di Gesù.
  3. Pilato si meravigliò ch'egli fosse già morto; e chiamato a sé il centurione, gli domandò se era morto da molto tempo;
  4. e saputolo dal centurione, donò il corpo a Giuseppe.
  5. E questi, comprato un panno lino e tratto Gesù giù di croce, l'involse nel panno e lo pose in una tomba scavata nella roccia, e rotolò una pietra contro l'apertura del sepolcro.
ATTI 1
  1. Nel mio primo libro, o Teofilo, parlai di tutto quel che Gesù prese e a fare e ad insegnare,
  2. fino al giorno che fu assunto in cielo, dopo aver dato per lo Spirito Santo dei comandamenti agli apostoli che avea scelto.
  3. Ai quali anche, dopo ch'ebbe sofferto, si presentò vivente con molte prove, facendosi veder da loro per quaranta giorni, e ragionando delle cose relative al regno di Dio.

  4. E trovandosi con essi, ordinò loro di non dipartirsi da Gerusalemme, ma di aspettarvi il compimento della promessa del Padre, la quale, egli disse, avete udita da me.
  5. Poiché Giovanni Battista battezzò sì con acqua, ma voi sarete battezzati con lo Spirito Santo tra non molti giorni.
  6. Quelli dunque che erano radunati, gli domandarono: Signore, è egli in questo tempo che ristabilirai il regno ad Israele?
  7. Egli rispose loro: Non sta a voi di sapere i tempi o i momenti che il Padre ha riserbato alla sua propria autorità.
  8. Ma voi riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su di voi, e mi sarete testimoni e in Gerusalemme, e in tutta la Giudea e Samaria, e fino all'estremità della terra.

  9. E dette queste cose, mentre essi guardavano, fu elevato; e una nuvola, accogliendolo, lo tolse d'innanzi agli occhi loro.
  10. E come essi aveano gli occhi fissi in cielo, mentr'egli se ne andava, ecco che due uomini in vesti bianche si presentarono loro e dissero:
  11. Uomini Galilei, perché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù che è stato tolto da voi ed assunto dal cielo, verrà nella medesima maniera che l'avete veduto andare in cielo.

  12. Allora essi tornarono a Gerusalemme dal monte chiamato dell'Uliveto, il quale è vicino a Gerusalemme, non distandone che un cammin di sabato.
  13. E come furono entrati, salirono nella sala di sopra ove solevano trattenersi Pietro e Giovanni e Giacomo e Andrea, Filippo e Toma, Bartolomeo e Matteo, Giacomo d'Alfeo, e Simone lo Zelota, e Giuda di Giacomo.
  14. Tutti costoro perseveravano di pari consentimento nella preghiera, con le donne, e con Maria, madre di Gesù, e coi fratelli di lui.
Marcello Cicchese
dicembre 2019

Salmi 124, 129
Salmo 124
  1. Se non fosse stato l'Eterno
    che fu per noi,
    lo dica pure ora Israele,
  2. se non fosse stato l'Eterno
    che fu per noi,
    quando gli uomini si levarono
    contro noi,
  3. allora ci avrebbero inghiottiti tutti vivi, quando l'ira loro
    ardeva contro noi;
  4. allora le acque ci avrebbero sommerso, il torrente sarebbe passato sull'anima nostra;
  5. allora le acque orgogliose sarebbero passate sull'anima nostra.
  6. Benedetto sia l'Eterno
    che non ci ha dato in preda ai loro denti!
  7. L'anima nostra è scampata,
    come un uccello dal laccio degli uccellatori;
    il laccio è stato rotto, e noi siamo scampati.
  8. Il nostro aiuto è nel nome dell'Eterno,
    che ha fatto il cielo e la terra.

Salmo 129
  1. Molte volte m'hanno oppresso dalla mia giovinezza!
    Lo dica pure Israele:
  2. Molte volte m'hanno oppresso dalla mia giovinezza;
    eppure, non hanno potuto vincermi.
  3. Degli aratori hanno arato sul mio dorso,
    v'hanno tracciato i loro lunghi solchi.
  4. L'Eterno è giusto;
    egli ha tagliato le funi degli empi.
  5. Siano confusi e voltin le spalle
    tutti quelli che odiano Sion!
  6. Siano come l'erba dei tetti,
    che secca prima di crescere!
  7. Non se n'empie la mano il mietitore,
    né le braccia chi lega i covoni;
  8. e i passanti non dicono:
    La benedizione dell'Eterno sia sopra voi;
    noi vi benediciamo nel nome dell'Eterno!
Marcello Cicchese
31 maggio 2015

Dio con gli uomini
Dio abiterà con gli uomini

Dalla Sacra Scrittura

Apocalisse 21:1-3
  1. Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c'era più.
  2. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere giù dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
  3. E udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo (skene) di Dio con gli uomini! Egli abiterà (skenao) con loro, ed essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà loro Dio."
Esodo 25
  1. E mi facciano un santuario perch'io abiti (shachan) in mezzo a loro.
  2. Me lo farete in tutto e per tutto secondo il modello del tabernacolo (mishchan) e secondo il modello di tutti i suoi arredi, che io sto per mostrarti.
Esodo 29
  1. Sarà un olocausto perpetuo offerto dai vostri discendenti, all'ingresso della tenda di convegno, davanti all'Eterno, dove io v'incontrerò per parlare qui con te.
  2. E là io mi troverò coi figli d'Israele; e la tenda sarà santificata dalla mia gloria.
  3. E santificherò la tenda di convegno e l'altare; anche Aaronne e i suoi figliuoli santificherò, perché mi esercitino l'ufficio di sacerdoti.
  4. E abiterò (shachan) in mezzo ai figli d'Israele e sarò il loro Dio.
  5. Ed essi conosceranno che io sono l'Eterno, l'Iddio loro, che li ho tratti dal paese d'Egitto per abitare (shachan) tra loro. Io sono l'Eterno, l'Iddio loro.
Giovanni 1
  1. E la Parola è stata fatta carne ed ha abitato (skenao) per un tempo fra noi, piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come quella dell'Unigenito venuto da presso al Padre.
Luca 17
  1. Il regno di Dio non viene in modo da attirare gli sguardi; né si dirà:
  2. "Eccolo qui", o "eccolo là"; perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi.
Giovanni 1
  1. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l'ha conosciuto.
  2. È venuto in casa sua, e i suoi non l'hanno ricevuto:
  3. ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio; a quelli, cioè, che credono nel suo nome.
Matteo 18
  1. Poiché dovunque due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.
1 Corinzi 3
  1. Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?
  2. Se uno guasta il tempio di Dio, Dio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi.
Giovanni 14
  1. Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me!
  2. Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che vado a prepararvi un luogo?
  3. Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi".
Marcello Cicchese
novembre 2016

Io vi darò riposo
  «Io vi darò riposo»

  Matteo 11:28-30
  Venite a me, voi tutti
  che siete travagliati ed aggravati,
  e io vi darò riposo.
  Prendete su voi il mio giogo
  ed imparate da me,
  perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
  e voi troverete riposo alle anime vostre;
  poiché il mio giogo è dolce
  e il mio carico è leggero.

Marcello Cicchese
ottobre 2015

Tempi difficili
Negli ultimi giorni
verranno tempi difficili


Seconda lettera di Paolo a Timoteo

Capitolo 3
  1. Or sappi questo: che negli ultimi giorni verranno dei tempi difficili;
  2. perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, disubbidienti ai genitori, ingrati, irreligiosi,
  3. senza affezione naturale, mancatori di fede, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene,
  4. traditori, temerari, gonfi, amanti del piacere anziché di Dio,
  5. avendo le forme della pietà, ma avendone rinnegata la potenza.
  6. Anche costoro schiva! Poiché del numero di costoro sono quelli che s'insinuano nelle case e cattivano donnicciuole cariche di peccati, e agitate da varie cupidigie,
  7. che imparano sempre e non possono mai pervenire alla conoscenza della verità.
  8. E come Jannè e Iambrè contrastarono a Mosè, così anche costoro contrastano alla verità: uomini corrotti di mente, riprovati quanto alla fede.
  9. Ma non andranno più oltre, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quegli uomini.
  10. Quanto a te, tu hai tenuto dietro al mio insegnamento, alla mia condotta, ai miei propositi, alla mia fede, alla mia pazienza, al mio amore, alla mia costanza,
  11. alle mie persecuzioni, alle mie sofferenze, a quel che mi avvenne ad Antiochia, ad Iconio ed a Listra. Sai quali persecuzioni ho sopportato; e il Signore mi ha liberato da tutte.
  12. E d'altronde tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati;
  13. mentre i malvagi e gli impostori andranno di male in peggio, seducendo ed essendo sedotti.
  14. Ma tu persevera nelle cose che hai imparate e delle quali sei stato accertato, sapendo da chi le hai imparate,
  15. e che fin da fanciullo hai avuto conoscenza degli Scritti sacri, i quali possono renderti savio a salute mediante la fede che è in Cristo Gesù.
  16. Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile ad insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia,
  17. affinché l'uomo di Dio sia compiuto, appieno fornito per ogni opera buona.

Capitolo 4
  1. Io te ne scongiuro nel cospetto di Dio e di Cristo Gesù che ha da giudicare i vivi e i morti, e per la sua apparizione e per il suo regno:
  2. Predica la Parola, insisti a tempo e fuor di tempo, riprendi, sgrida, esorta con grande pazienza e sempre istruendo.
  3. Perché verrà il tempo che non sopporteranno la sana dottrina; ma per prurito d'udire si accumuleranno dottori secondo le loro proprie voglie
  4. e distoglieranno le orecchie dalla verità e si volgeranno alle favole.
  5. Ma tu sii vigilante in ogni cosa, soffri afflizioni, fa' l'opera d'evangelista, compi tutti i doveri del tuo ministero.
Marcello Cicchese
luglio 2015

Il libro di Giobbe
Giobbe: una questione di giustizia

La figura di Giobbe viene di solito messa in relazione con il problema della sofferenza. Dallo studio del libro su cui si basa la seguente predicazione emerge invece che l’angoscioso tormento in cui si dibatte Giobbe non è dovuto all’inesplicabilità del problema della sofferenza, ma al crollo di un pilastro che aveva sostenuto fino a quel momento la sua vita: la fede nella giustizia di Dio. Le “buone parole” con cui i suoi amici cercano di metterlo sulla buona strada lo spingono sempre di più sul ciglio di un baratro in cui corre il rischio di cadere e perdersi definitivamente: il pensiero di essere più giusto di Dio.

Marcello Cicchese
novembre 2018

Testo delle letture

1.6 Or accadde un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.
   7 E l'Eterno disse a Satana: 'Da dove vieni?' E Satana rispose all'Eterno: 'Dal percorrere la terra e dal passeggiar per essa'.
   8 E l'Eterno disse a Satana: 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male'.
   9 E Satana rispose all'Eterno: 'È egli forse per nulla che Giobbe teme Iddio?
 10 Non l'hai tu circondato d'un riparo, lui, la sua casa, e tutto quello che possiede? Tu hai benedetto l'opera delle sue mani, e il suo bestiame ricopre tutto il paese.
 11 Ma stendi un po' la tua mano, tocca quanto egli possiede, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
 12 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene! tutto quello che possiede è in tuo potere; soltanto, non stender la mano sulla sua persona'. - E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno.


1.20 Allora Giobbe si alzò e si stracciò il mantello e si rase il capo e si prostrò a terra e adorò e disse:
   21 'Nudo sono uscito dal seno di mia madre, e nudo tornerò in seno della terra; l'Eterno ha dato, l'Eterno ha tolto; sia benedetto il nome dell'Eterno'.
   22 In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nulla di mal fatto.


2.E l'Eterno disse a Satana:
   3 'Hai tu notato il mio servo Giobbe? Non ce n'è un altro sulla terra che come lui sia integro, retto, tema Iddio e fugga il male. Egli si mantiene saldo nella sua integrità benché tu m'abbia incitato contro di lui per rovinarlo senza alcun motivo'.
   4 E Satana rispose all'Eterno: 'Pelle per pelle! L'uomo dà tutto quel che possiede per la sua vita;
   5 ma stendi un po' la tua mano, toccagli le ossa e la carne, e vedrai se non ti rinnega in faccia'.
   6 E l'Eterno disse a Satana: 'Ebbene esso è in tuo potere; soltanto, rispetta la sua vita'.
   7 E Satana si ritirò dalla presenza dell'Eterno e colpì Giobbe d'un'ulcera maligna dalla pianta de' piedi al sommo del capo; e Giobbe prese un còccio per grattarsi, e stava seduto nella cenere.
   8 E sua moglie gli disse: 'Ancora stai saldo nella tua integrità?
   9 Ma lascia stare Iddio, e muori!'
10 E Giobbe a lei: 'Tu parli da donna insensata! Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo d'accettare il male?' - In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.


3.1 Allora Giobbe aprì la bocca e maledisse il giorno della sua nascita.
   2 E prese a dire così:
   3 «Perisca il giorno ch'io nacqui e la notte che disse: 'È concepito un maschio!'
   4 Quel giorno si converta in tenebre, non se ne curi Iddio dall'alto, né splenda sovr'esso raggio di luce!
   5 Se lo riprendano le tenebre e l'ombra di morte, resti sovr'esso una fitta nuvola, le eclissi lo riempiano di paura!


3.11 Perché non morii nel seno di mia madre? Perché non spirai appena uscito dalle sue viscere?
   12 Perché trovai delle ginocchia per ricevermi e delle mammelle da poppare?
   20 Perché dar la luce all'infelice e la vita a chi ha l'anima nell'amarezza,
   23 Perché dar vita a un uomo la cui via è oscura, e che Dio ha stretto in un cerchio?


9.20 Fossi pur giusto, la mia bocca stessa mi condannerebbe; fossi pure integro, essa mi farebbe dichiarar perverso.
   21 Integro! Sì, lo sono! di me non mi preme, io disprezzo la vita!
   22 Per me è tutt'uno! perciò dico: 'Egli distrugge ugualmente l'integro ed il malvagio.
   23 Se un flagello, a un tratto, semina la morte, egli ride dello sgomento degli innocenti.
   24 La terra è data in balìa dei malvagi; egli vela gli occhi ai giudici di essa; se non è lui, chi è dunque'?


13.7 Volete dunque difendere Iddio parlando iniquamente?


19.5 Ma se proprio volete insuperbire contro di me e rimproverarmi la vergogna in cui mi trovo,
    6 allora sappiatelo: chi m'ha fatto torto e m'ha avvolto nelle sue reti è Dio.
    7 Ecco, io grido: 'Violenza!' e nessuno risponde; imploro aiuto, ma non c'è giustizia!


24.12 Sale dalle città il gemito dei morenti; l'anima de' feriti implora aiuto, e Dio non si cura di codeste infamie!

24.22 Iddio con la sua forza prolunga i giorni dei prepotenti, i quali risorgono, quand'ormai disperavano della vita.

24.25 Se così non è, chi mi smentirà, chi annienterà il mio dire?


27.5 Lungi da me l'idea di darvi ragione! Fino all'ultimo respiro non mi lascerò togliere la mia integrità.
    6 Ho preso a difendere la mia giustizia e non cederò; il cuore non mi rimprovera uno solo dei miei giorni.


31.35 Oh, avessi pure chi m'ascoltasse!... ecco qua la mia firma! l'Onnipotente mi risponda! Scriva l'avversario mio la sua querela,
    36 ed io la porterò attaccata alla mia spalla, me la cingerò come un diadema!
    37 Gli renderò conto di tutti i miei passi, a lui mi avvicinerò come un principe!


1.6 Or avvenne un giorno, che i figli di Dio vennero a presentarsi davanti all'Eterno, e Satana venne anch'egli in mezzo a loro.


16.19 Già fin d'ora, ecco, il mio Testimonio è in cielo, il mio Garante è nei luoghi altissimi.
    20 Gli amici mi deridono, ma a Dio si volgon piangenti gli occhi miei;
    21 sostenga egli le ragioni dell'uomo presso Dio, le ragioni del figlio dell'uomo contro i suoi compagni!


19.25 Ma io so che il mio Vendicatore vive, e che alla fine si leverà sulla polvere.
    26 E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Iddio.
    27 Io lo vedrò a me favorevole; lo contempleranno gli occhi miei, non quelli d'un altro... il cuore, dalla brama, mi si strugge in seno!


9.32 Dio non è un uomo come me, perch'io gli risponda e che possiam comparire in giudizio assieme.
  33 Non c'è fra noi un arbitro, che posi la mano su tutti e due!


42.7 Dopo che ebbe rivolto questi discorsi a Giobbe, l'Eterno disse a Elifaz di Teman: 'L'ira mia è accesa contro te e contro i tuoi due amici, perché non avete parlato di me secondo la verità, come ha fatto il mio servo Giobbe.


32.1 Quei tre uomini cessarono di rispondere a Giobbe perché egli si credeva giusto.
     2 Allora l'ira di Elihu, figliuolo di Barakeel il Buzita, della tribù di Ram, s'accese:
     3 s'accese contro Giobbe, perché riteneva giusto se stesso anziché Dio; s'accese anche contro i tre amici di lui perché non avean trovato che rispondere, sebbene condannassero Giobbe.


32.13 Non avete dunque ragione di dire: 'Abbiam trovato la sapienza! Dio soltanto lo farà cedere; non l'uomo!'
 14 Egli non ha diretto i suoi discorsi contro a me, ed io non gli risponderò colle vostre parole.


33.1 Ma pure, ascolta, o Giobbe, il mio dire, porgi orecchio a tutte le mie parole!
   2 Ecco, apro la bocca, la lingua parla sotto il mio palato.
   3 Nelle mie parole è la rettitudine del mio cuore; e le mie labbra diran sinceramente quello che so.
   4 Lo spirito di Dio mi ha creato, e il soffio dell'Onnipotente mi dà la vita.
   5 Se puoi, rispondimi; prepara le tue ragioni, fatti avanti!
   6 Ecco, io sono uguale a te davanti a Dio; anch'io, fui tratto dall'argilla.
   7 Spavento di me non potrà quindi sgomentarti, e il peso della mia autorità non ti potrà schiacciare.
   8 Davanti a me tu dunque hai detto (e ho bene udito il suono delle tue parole):
   9 'Io sono puro, senza peccato; sono innocente, non c'è iniquità in me;
 10 ma Dio trova contro me degli appigli ostili, mi tiene per suo nemico;
 11 mi mette i piedi nei ceppi, spia tutti i miei movimenti'.
 12 E io ti rispondo: In questo non hai ragione; giacché Dio è più grande dell'uomo.
 13 Perché contendi con lui? poich'egli non rende conto d'alcuno dei suoi atti.
 14 Iddio parla, bensì, una volta ed anche due, ma l'uomo non ci bada;
 15 parla per via di sogni, di visioni notturne, quando un sonno profondo cade sui mortali, quando sui loro letti essi giacciono assopiti;
 16 allora egli apre i loro orecchi e dà loro in segreto degli ammonimenti,
 17 per distoglier l'uomo dal suo modo d'agire e tener lungi da lui la superbia;
 18 per salvargli l'anima dalla fossa, la vita dal dardo mortale.
 19 L'uomo è anche ammonito sul suo letto, dal dolore, dall'agitazione incessante delle sue ossa;
 20 quand'egli ha in avversione il pane, e l'anima sua schifa i cibi più squisiti;
 21 la carne gli si consuma, e sparisce, mentre le ossa, prima invisibili, gli escon fuori,
 22 l'anima sua si avvicina alla fossa, e la sua vita a quelli che danno la morte.
 23 Ma se, presso a lui, v'è un angelo, un interprete, uno solo fra i mille, che mostri all'uomo il suo dovere,
 24 Iddio ha pietà di lui e dice: 'Risparmialo, che non scenda nella fossa! Ho trovato il suo riscatto'.
 25 Allora la sua carne divien fresca più di quella d'un bimbo; egli torna ai giorni della sua giovinezza;
 26 implora Dio, e Dio gli è propizio; gli dà di contemplare il suo volto con giubilo, e lo considera di nuovo come giusto.
 27 Ed egli va cantando fra la gente e dice: 'Avevo peccato, pervertito la giustizia, e non sono stato punito come meritavo.
 28 Iddio ha riscattato l'anima mia, onde non scendesse nella fossa e la mia vita si schiude alla luce!'
 29 Ecco, tutto questo Iddio lo fa due, tre volte, all'uomo,
 30 per ritrarre l'anima di lui dalla fossa, perché su di lei splenda la luce della vita.
 31 Sta' attento, Giobbe, dammi ascolto; taci, ed io parlerò.
 32 Se hai qualcosa da dire, rispondi, parla, ché io vorrei poterti dar ragione. 33 Se no, tu dammi ascolto, taci, e t'insegnerò la saviezza».


34.29 Quando Iddio dà requie chi lo condannerà? Chi potrà contemplarlo quando nasconde il suo volto a una nazione ovvero a un individuo,
 30 per impedire all'empio di regnare, per allontanar dal popolo le insidie?
 31 Quell'empio ha egli detto a Dio: 'Io porto la mia pena, non farò più il male,
 32 mostrami tu quel che non so vedere; se ho agito perversamente, non lo farò più'?
 33 Dovrà forse Iddio render la giustizia a modo tuo, che tu lo critichi? Ti dirà forse: 'Scegli tu, non io, quello che sai, dillo'?
 34 La gente assennata e ogni uomo savio che m'ascolta, mi diranno:
 35 'Giobbe parla senza giudizio, le sue parole sono senza intendimento'.
 36 Ebbene, sia Giobbe provato sino alla fine! poiché le sue risposte son quelle degli iniqui, 37 poiché aggiunge al peccato suo la ribellione, batte le mani in mezzo a noi, e moltiplica le sue parole contro Dio».


35.9 Si grida per le molte oppressioni, si levano lamenti per la violenza dei grandi;
 10 ma nessuno dice: 'Dov'è Dio, il mio creatore, che nella notte concede canti di gioia,
 11 che ci fa più intelligenti delle bestie de' campi e più savi degli uccelli del cielo?'
 12 Si grida, sì, ma egli non risponde, a motivo della superbia dei malvagi.
 13 Certo, Dio non dà ascolto a lamenti vani; l'Onnipotente non ne fa nessun conto.
 14 E tu, quando dici che non lo scorgi, la causa tua gli sta dinanzi; sappilo aspettare!
 15 Ma ora, perché la sua ira non punisce, perch'egli non prende rigorosa conoscenza delle trasgressioni,
 16 Giobbe apre vanamente le labbra e accumula parole senza conoscimento».


36.8 Se gli uomini son talora stretti da catene, se son presi nei legami dell'afflizione,
   9 Dio fa lor conoscere la lor condotta, le loro trasgressioni, giacché si sono insuperbiti;
 10 egli apre così i loro orecchi a' suoi ammonimenti, e li esorta ad abbandonare il male.
 11 Se l'ascoltano, se si sottomettono, finiscono i loro giorni nel benessere, e gli anni loro nella gioia;
 12 ma, se non l'ascoltano, periscono trafitti da' suoi dardi, muoiono per mancanza d'intendimento.
 13 Gli empi di cuore s'abbandonano alla collera, non implorano Iddio quand'egli li incatena;
 14 così muoiono nel fiore degli anni, e la loro vita finisce come quella dei dissoluti;
 15 ma Dio libera l'afflitto mediante l'afflizione, e gli apre gli orecchi mediante la sventura.
 16 Te pure ti vuole trarre dalle fauci della distretta, al largo, dove non è più angustia, e coprire la tua mensa tranquilla di cibi succulenti.
 17 Ma, se giudichi le vie di Dio come fanno gli empi, il giudizio e la sentenza di lui ti piomberanno addosso.
 18 Bada che la collera non ti trasporti alla bestemmia, e la grandezza del riscatto non t'induca a fuorviare!


37.1 A tale spettacolo il cuor mi trema e balza fuor del suo luogo.
   2 Udite, udite il fragore della sua voce, il rombo che esce dalla sua bocca!
   3 Egli lo lancia sotto tutti i cieli e il suo lampo guizza fino ai lembi della terra.
   4 Dopo il lampo, una voce rugge; egli tuona con la sua voce maestosa; e quando s'ode la voce, il fulmine non è già più nella sua mano.
   5 Iddio tuona con la sua voce maravigliosamente; grandi cose egli fa che noi non intendiamo.


38.1 Allora l'Eterno rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
   2 «Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?»


42.1 Allora Giobbe rispose all'Eterno e disse:
   2 «Io riconosco che tu puoi tutto, e che nulla può impedirti d'eseguire un tuo disegno.
   3 Chi è colui che senza intendimento offusca il tuo disegno?... Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo; son cose per me troppo maravigliose ed io non le conosco.
   4 Deh, ascoltami, io parlerò; io ti farò delle domande e tu insegnami!
   5 Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l'occhio mio t'ha veduto.
   6 Perciò mi ritratto, mi pento sulla polvere e sulla cenere».


42.12 E l'Eterno benedì gli ultimi anni di Giobbe più de' primi.


42.16 Giobbe, dopo questo, visse centoquarant'anni, e vide i suoi figli e i figli dei suoi figli, fino alla quarta generazione.
    17 Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni.

Il lebbroso purificato
Il lebbroso purificato
  1. Ed avvenne che, trovandosi egli in una di quelle città, ecco un uomo pieno di lebbra, il quale, veduto Gesù e gettatosi con la faccia a terra, lo pregò dicendo: Signore, se tu vuoi, tu puoi purificarmi.
  2. Ed egli, stesa la mano, lo toccò dicendo: Lo voglio, sii purificato. E in quell'istante la lebbra sparì da lui.
  3. E Gesù gli comandò di non dirlo a nessuno: Ma va', gli disse, mostrati al sacerdote ed offri per la tua purificazione quel che ha prescritto Mosè; e ciò serva loro di testimonianza.
  4. Però la fama di lui si spandeva sempre più; e molte turbe si adunavano per udirlo ed essere guarite delle loro infermità.
  5. Ma egli si ritirava nei luoghi deserti e pregava.
Marcello Cicchese
novembre 2015

Io vi lascio pace
Io vi lascio pace

Giovanni 14:27
  Io vi lascio pace; vi do la mia pace.
  Io non vi do come il mondo dà.
  Il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti.

Giovanni 16:33
  Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in me.
  Nel mondo avrete tribolazione;
  ma fatevi animo, io ho vinto il mondo.

Matteo 11:28-30
  Venite a me, voi tutti che siete travagliati ed aggravati,
  e io vi darò riposo.
  Prendete su voi il mio giogo ed imparate da me,
  perch'io sono mansueto ed umile di cuore;
  e voi troverete riposo alle anime vostre;
  poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero.

Marcello Cicchese
febbraio 2016

Salmo 62
Salmo 62
  1. Solo in Dio l'anima mia s'acqueta;
    da lui viene la mia salvezza.
  2. Egli solo è la mia rocca e la mia salvezza,
    il mio alto ricetto; io non sarò grandemente smosso.
  3. Fino a quando vi avventerete sopra un uomo
    e cercherete tutti insieme di abbatterlo
    come una parete che pende,
    come un muricciuolo che cede?
  4. Essi non pensano che a farlo cadere dalla sua altezza;
    prendono piacere nella menzogna;
    benedicono con la bocca,
    ma internamente maledicono. Sela.
  5. Anima mia, acquétati in Dio solo,
    poiché da lui viene la mia speranza.
  6. Egli solo è la mia ròcca e la mia salvezza;
    egli è il mio alto ricetto; io non sarò smosso.
  7. In Dio è la mia salvezza e la mia gloria;
    la mia forte ròcca e il mio rifugio sono in Dio.
  8. Confida in lui ogni tempo, o popolo;
    espandi il tuo cuore nel suo cospetto;
    Dio è il nostro rifugio. Sela.
  9. Gli uomini del volgo non sono che vanità,
    e i nobili non sono che menzogna;
    messi sulla bilancia vanno su,
    tutti assieme sono più leggeri della vanità.
  10. Non confidate nell'oppressione,
    e non mettete vane speranze nella rapina;
    se le ricchezze abbondano, non vi mettete il cuore.
  11. Dio ha parlato una volta,
    due volte ho udito questo:
    Che la potenza appartiene a Dio;
  12. e a te pure, o Signore, appartiene la misericordia;
    perché tu renderai a ciascuno secondo le sue opere.
Marcello Cicchese
agosto 2017

Salmo 22
Salmo 22
  1. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Perché te ne stai lontano, senza soccorrermi, senza dare ascolto alle parole del mio gemito?
  2. Dio mio, io grido di giorno, e tu non rispondi; di notte ancora, e non ho posa alcuna.
  3. Eppure tu sei il Santo, che siedi circondato dalle lodi d'Israele.
  4. I nostri padri confidarono in te; e tu li liberasti.
  5. Gridarono a te, e furono salvati; confidarono in te, e non furono confusi.
  6. Ma io sono un verme e non un uomo; il vituperio degli uomini, e lo sprezzato dal popolo.
  7. Chiunque mi vede si fa beffe di me; allunga il labbro, scuote il capo, dicendo:
  8. Ei si rimette nell'Eterno; lo liberi dunque; lo salvi, poiché lo gradisce!
  9. Sì, tu sei quello che m'hai tratto dal seno materno; m'hai fatto riposar fidente sulle mammelle di mia madre.
  10. A te fui affidato fin dalla mia nascita, tu sei il mio Dio fin dal seno di mia madre.
  11. Non t'allontanare da me, perché l'angoscia è vicina, e non v'è alcuno che m'aiuti.

  12. Grandi tori m'han circondato; potenti tori di Basan m'hanno attorniato;
  13. apron la loro gola contro a me, come un leone rapace e ruggente.
  14. Io son come acqua che si sparge, e tutte le mie ossa si sconnettono; il mio cuore è come la cera, si strugge in mezzo alle mie viscere.
  15. Il mio vigore s'inaridisce come terra cotta, e la lingua mi s'attacca al palato; tu m'hai posto nella polvere della morte.
  16. Poiché cani m'han circondato; uno stuolo di malfattori m'ha attorniato; m'hanno forato le mani e i piedi.
  17. Posso contare tutte le mie ossa. Essi mi guardano e m'osservano;
  18. spartiscon fra loro i miei vestimenti e tirano a sorte la mia veste.
  19. Tu dunque, o Eterno, non allontanarti, tu che sei la mia forza, t'affretta a soccorrermi.
  20. Libera l'anima mia dalla spada, l'unica mia, dalla zampa del cane;
  21. salvami dalla gola del leone. Tu mi risponderai liberandomi dalle corna dei bufali.

  22. Io annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all'assemblea.
  23. O voi che temete l'Eterno, lodatelo! Glorificatelo voi, tutta la progenie di Giacobbe, e voi tutta la progenie d'Israele, abbiate timor di lui!
  24. Poich'egli non ha sprezzata né disdegnata l'afflizione dell'afflitto, e non ha nascosta la sua faccia da lui; ma quand'ha gridato a lui, ei l'ha esaudito.
  25. Tu sei l'argomento della mia lode nella grande assemblea; io adempirò i miei voti in presenza di quelli che ti temono.
  26. Gli umili mangeranno e saranno saziati; quei che cercano l'Eterno lo loderanno; il loro cuore vivrà in perpetuo.
  27. Tutte le estremità della terra si ricorderan dell'Eterno e si convertiranno a lui; e tutte le famiglie delle nazioni adoreranno nel tuo cospetto.
  28. Poiché all'Eterno appartiene il regno, ed egli signoreggia sulle nazioni.
  29. Tutti gli opulenti della terra mangeranno e adoreranno; tutti quelli che scendon nella polvere e non posson mantenersi in vita s'inginocchieranno dinanzi a lui.
  30. La posterità lo servirà; si parlerà del Signore alla ventura generazione.
  31. 31 Essi verranno e proclameranno la sua giustizia, e al popolo che nascerà diranno come egli ha operato.
Marcello Cicchese
settembre 2016

L'intoppo
L’intoppo che fa cadere nell’iniquità

Ezechiele 7:1-4
  1. E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
  2. 'E tu, figlio d'uomo, così parla il Signore, l'Eterno, riguardo al paese d'Israele: La fine! la fine viene sulle quattro estremità del paese!
  3. Ora ti sovrasta la fine, e io manderò contro di te la mia ira, ti giudicherò secondo la tua condotta, e ti farò ricadere addosso tutte le tue abominazioni.
  4. E l'occhio mio non ti risparmierà, io sarò senza pietà, ti farò ricadere addosso tutta la tua condotta e le tue abominazioni saranno in mezzo a te; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.

Ezechiele 8:1-13
  1. E il sesto anno, il quinto giorno del sesto mese, avvenne che, come io stavo seduto in casa mia e gli anziani di Giuda erano seduti in mia presenza, la mano del Signore, dell'Eterno, cadde quivi su me.
  2. Io guardai, ed ecco una figura d'uomo, che aveva l'aspetto del fuoco; dai fianchi in giù pareva di fuoco; e dai fianchi in su aveva un aspetto risplendente, come di terso rame.
  3. Egli stese una forma di mano, e mi prese per una ciocca de' miei capelli; e lo spirito mi sollevò fra terra e cielo, e mi trasportò in visioni divine a Gerusalemme, all'ingresso della porta interna che guarda verso il settentrione, dov'era posto l'idolo della gelosia, che eccita a gelosia.
  4. Ed ecco che quivi era la gloria dell'Iddio d'Israele, come nella visione che avevo avuta nella valle.
  5. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, alza ora gli occhi verso il settentrione'. Ed io alzai gli occhi verso il settentrione, ed ecco che al settentrione della porta dell'altare, all'ingresso, stava quell'idolo della gelosia.
  6. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, vedi tu quello che costoro fanno? le grandi abominazioni che la casa d'Israele commette qui, perché io m'allontani dal mio santuario? Ma tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni'.
  7. Ed egli mi condusse all'ingresso del cortile. Io guardai, ed ecco un buco nel muro.
  8. Allora egli mi disse: 'Figlio d'uomo, adesso fora il muro'. E quand'io ebbi forato il muro, ecco una porta.
  9. Ed egli mi disse: 'Entra, e guarda le scellerate abominazioni che costoro commettono qui'.
  10. Io entrai, e guardai: ed ecco ogni sorta di figure di rettili e di bestie abominevoli, e tutti gl'idoli della casa d'Israele dipinti sul muro attorno;
  11. e settanta fra gli anziani della casa d'Israele, in mezzo ai quali era Jaazania, figlio di Shafan, stavano in piedi davanti a quelli, avendo ciascuno un turibolo in mano, dal quale saliva il profumo d'una nuvola d'incenso.
  12. Ed egli mi disse: 'Figlio d'uomo, hai tu visto quello che gli anziani della casa d'Israele fanno nelle tenebre, ciascuno nelle camere riservate alle sue immagini? poiché dicono: - L'Eterno non ci vede, l'Eterno ha abbandonato il paese'.
  13. Poi mi disse: 'Tu vedrai ancora altre più grandi abominazioni che costoro commettono'.

Ezechiele 14:1-11
  1. Or vennero a me alcuni degli anziani d'Israele, e si sedettero davanti a me.
  2. E la parola dell'Eterno mi fu rivolta in questi termini:
  3. 'Figlio d'uomo, questi uomini hanno innalzato i loro idoli nel loro cuore, e si sono messi davanti l'intoppo che li fa cadere nella loro iniquità; come potrei io esser consultato da costoro?
  4. Perciò parla e di' loro: Così dice il Signore, l'Eterno: Chiunque della casa d'Israele innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità, e poi viene al profeta, io, l'Eterno, gli risponderò come si merita per la moltitudine dei suoi idoli,
  5. affin di prendere per il loro cuore quelli della casa d'Israele che si sono alienati da me tutti quanti per i loro idoli.
  6. Perciò di' alla casa d'Israele: Così parla il Signore, l'Eterno: Tornate, ritraetevi dai vostri idoli, stornate le vostre facce da tutte le vostre abominazioni.
  7. Poiché, a chiunque della casa d'Israele o degli stranieri che soggiornano in Israele si separa da me, innalza i suoi idoli nel suo cuore e pone davanti a sé l'intoppo che lo fa cadere nella sua iniquità e poi viene al profeta per consultarmi per suo mezzo, risponderò io, l'Eterno, da me stesso.
  8. Io volgerò la mia faccia contro a quell'uomo, ne farò un segno e un proverbio, e lo sterminerò di mezzo al mio popolo; e voi conoscerete che io sono l'Eterno.
  9. E se il profeta si lascia sedurre e dice qualche parola, io, l'Eterno, sono quegli che avrò sedotto il profeta; e stenderò la mia mano contro di lui, e lo distruggerò di mezzo al mio popolo d'Israele.
  10. E ambedue porteranno la pena della loro iniquità: la pena del profeta sarà pari alla pena di colui che lo consulta,
  11. affinché quelli della casa d'Israele non vadano più errando lungi da me, e non si contaminino più con tutte le loro trasgressioni, e siano invece mio popolo, e io sia il loro Dio, dice il Signore, l'Eterno'.
Marcello Cicchese
ottobre 2016

Salmo 125
Salmo 125
    Canto dei pellegrinaggi.
  1. Quelli che confidano nell'Eterno
    sono come il monte di Sion, che non può essere smosso,
    ma dimora in perpetuo.
  2. Gerusalemme è circondata dai monti;
    e così l'Eterno circonda il suo popolo,
    da ora in perpetuo.
  3. Poiché lo scettro dell'empietà
    non rimarrà sulla eredità dei giusti,
    affinché i giusti non mettano mano all'iniquità.
  4. O Eterno, fa' del bene a quelli che sono buoni,
    e a quelli che sono retti nel loro cuore.
  5. Ma quanto a quelli che deviano per le loro vie tortuose,
    l'Eterno li farà andare con gli operatori d'iniquità.
    Pace sia sopra Israele.
Marcello Cicchese
luglio 2017

La pazienza dl Dio
La pazienza di Dio e la nostra speranza
Poiché siamo stati salvati in speranza. Or la speranza di ciò che si vede, non è speranza; difatti, quello che uno vede, perché lo spererebbe ancora? Ma se speriamo ciò che non vediamo, noi l'aspettiamo con pazienza (Romani 8.25).

Marcello Cicchese
settembre 2017

Salmo 23
Salmo 23
  1. L'Eterno è il mio pastore, nulla mi manca.
  2. Egli mi fa giacere in verdeggianti paschi, mi guida lungo le acque chete.
  3. Egli mi ristora l'anima, mi conduce per sentieri di giustizia, per amore del suo nome.
  4. Quand'anche camminassi nella valle dell'ombra della morte, io non temerei male alcuno, perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga sono quelli che mi consolano.
  5. Tu apparecchi davanti a me la mensa al cospetto dei miei nemici; tu ungi il mio capo con olio; la mia coppa trabocca.
  6. Certo, beni e benignità m'accompagneranno tutti i giorni della mia vita; ed io abiterò nella casa dell'Eterno per lunghi giorni.
Marcello Cicchese
settembre 2017

Il corpo dell'umiliazione
Il corpo della nostra umiliazione
Siate miei imitatori, fratelli, e riguardate a coloro che camminano secondo l'esempio che avete in noi. Perché molti camminano (ve l'ho detto spesso e ve lo dico anche ora piangendo), da nemici della croce di Cristo; la fine dei quali è la perdizione, il cui dio è il ventre, e la cui gloria è in quel che torna a loro vergogna; gente che ha l'animo alle cose della terra. Quanto a noi, la nostra cittadinanza è nei cieli, da dove anche aspettiamo come Salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, in virtù della potenza per la quale egli può anche sottoporsi ogni cosa.
Filippesi 3:17-21
Marcello Cicchese
giugno 2016

Una mente rinnovata
Il rinnovamento della mente
Vi esorto dunque, fratelli, per le compassioni di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, accettevole a Dio, il che è il vostro culto spirituale. e non vi conformate a questo secolo, ma siate trasformati mediante il rinnovamento della vostra mente, affinché conosciate per esperienza qual sia la volontà di Dio, la buona, accettevole e perfetta volontà.
Romani 12:1-2
Marcello Cicchese
gennaio 2017

Salmo 90
Salmo 90
  1. Preghiera di Mosè, uomo di Dio.
    O Signore, tu sei stato per noi un rifugio
    di generazione in generazione.
  2. Prima che i monti fossero nati
    e che tu avessi formato la terra e il mondo,
    da eternità a eternità tu sei Dio.
  3. Tu fai tornare i mortali in polvere
    e dici: Ritornate, o figli degli uomini.
  4. Perché mille anni, agli occhi tuoi,
    sono come il giorno d'ieri quand'è passato,
    e come una veglia nella notte.
  5. Tu li porti via come una piena; sono come un sogno.
    Son come l'erba che verdeggia la mattina;
  6. la mattina essa fiorisce e verdeggia,
    la sera è segata e si secca.
  7. Poiché noi siamo consumati dalla tua ira,
    e siamo atterriti per il tuo sdegno.
  8. Tu metti le nostre iniquità davanti a te,
    e i nostri peccati occulti, alla luce della tua faccia.
  9. Tutti i nostri giorni spariscono per il tuo sdegno;
    noi finiamo gli anni nostri come un soffio.
  10. I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni;
    o, per i più forti, a ottant'anni;
    e quel che ne fa l'orgoglio, non è che travaglio e vanità;
    perché passa presto, e noi ce ne voliamo via.
  11. Chi conosce la forza della tua ira
    e il tuo sdegno secondo il timore che t'è dovuto?
  12. Insegnaci dunque a così contare i nostri giorni,
    che acquistiamo un cuore saggio.
  13. Ritorna, o Eterno; fino a quando?
    e muoviti a pietà dei tuoi servitori.
  14. Saziaci al mattino della tua benignità,
    e noi giubileremo, ci rallegreremo tutti i giorni nostri.
  15. Rallegraci in proporzione dei giorni che ci hai afflitti,
    e degli anni che abbiamo sentito il male.
  16. Apparisca l'opera tua a pro dei tuoi servitori,
    e la tua gloria sui loro figli.
  17. La grazia del Signore Dio nostro sia sopra noi,
    e rendi stabile l'opera delle nostre mani;
    sì, l'opera delle nostre mani rendila stabile.

Marcello Cicchese
31 dicembre 2017

Dal Salmo 119
Salmo 119
  1. L'anima mia è attaccata alla polvere;
    vivificami secondo la tua parola.
  2. Io ti ho narrato le mie vie e tu m'hai risposto;
    insegnami i tuoi statuti.
  3. Fammi intendere la via dei tuoi precetti,
    ed io mediterò le tue meraviglie.
  4. L'anima mia, dal dolore, si strugge in lacrime;
    rialzami secondo la tua parola.
  5. Tieni lontana da me la via della menzogna,
    e, nella tua grazia, fammi intendere la tua legge,
  6. io ho scelto la via della fedeltà,
    mi son posto i tuoi giudizi dinanzi agli occhi.
  7. Io mi tengo attaccato alle tue testimonianze;
    o Eterno, non lasciare che io sia confuso.
  8. Io correrò per la via dei tuoi comandamenti,
    quando m'avrai allargato il cuore.

Marcello Cicchese
19 luglio 2018

Il giorno del riposo
Il giorno del riposo

Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa' in essi ogni opera tua; ma il settimo giorno è giorno di riposo, sacro all'Eterno, che è l'Iddio tuo; non fare in esso lavoro alcuno, né tu, né il tuo figlio, né la tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né il forestiero che è dentro alle tue porte; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; perciò l'Eterno ha benedetto il giorno del riposo e l'ha santificato.

Esodo 20:8-11

Marcello Cicchese
dicembre 2014

Perché siete così ansiosi?
«Perché siete così ansiosi?»

Dal Vangelo di Matteo

CAPITOLO 6
  1. Nessuno può servire a due padroni; perché o odierà l'uno ed amerà l'altro, o si atterrà all'uno e sprezzerà l'altro. Voi non potete servire a Dio ed a Mammona.
  2. Perciò vi dico: Non siate con ansiosi per la vita vostra di quel che mangerete o di quel che berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito?
  3. Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutrisce. Non siete voi assai più di loro?
  4. E chi di voi può con la sua sollecitudine aggiungere alla sua statura anche un cubito?
  5. E intorno al vestire, perché siete con ansietà solleciti? Considerate come crescono i gigli della campagna; essi non faticano e non filano;
  6. eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro.
  7. Or se Dio riveste in questa maniera l'erba de' campi che oggi è e domani è gettata nel forno, non vestirà Egli molto più voi, o gente di poca fede?
  8. Non siate dunque con ansiosi, dicendo: Che mangeremo? che berremo? o di che ci vestiremo?
  9. Poiché sono i pagani che ricercano tutte queste cose; e il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose.
  10. Ma cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte. 34 Non siate dunque con ansietà solleciti del domani; perché il domani sarà sollecito di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno.
Marcello Cicchese
dicembre 2015


I media statali israeliani ammettono: il vaccino contro il Covid non ne riduce la diffusione

di David Sidman

ISRAELE - Giovedì 26 settembre il rapporto sanitario di Kan 11 News, Nov Reuveny, ha rilasciato quella che molti definiscono una "bomba". Secondo il rapporto, i vaccinati possono diffondere e prendere il covid con lo stesso livello di rischio dei non vaccinati.
   Kan News è l'emittente pubblica israeliana, e questo rende la cosa ancora più sorprendente, perché il governo sta promuovendo una delle campagne di vaccinazione più aggressive del mondo.
   Secondo il rapporto, su 279 casi Covid di coloro che hanno 60 anni e oltre, 250 di loro erano completamente vaccinati o parzialmente vaccinati. Questo significa che il 90% era completamente vaccinato, mentre solo il 10% era non vaccinato o parzialmente vaccinato. La conclusione di Reuveny è che "non c'è stata praticamente alcuna differenza tra farsi vaccinare e non farsi vaccinare. In tutti i casi si hanno le stesse probabilità di contrarre il virus”.
   Reuveny ha anche citato un rapporto del Center for Disease Control (CDC) secondo il quale, per quanto riguarda la variante Delta, i vaccinati non sono stati più protetti dei non vaccinati.
   “In poche parole: coloro che sono stati vaccinati possono diffondere il virus allo stesso modo di coloro che non sono stati vaccinati”.
   Reuveny ha anche criticato la politica israeliana di esentare dalla quarantena coloro che hanno ricevuto la terza dose di richiamo, e l'ha definita "strana".
   Ha comunque detto che i tassi di vaccinazione dovrebbero rimanere alti perché riducono la gravità della carica virale, e ha chiesto di riesaminare l'autoquarantena.
   All'inizio di settembre, Israel365 News ha riferito che, nonostante i dati presentati dal Ministero della Salute israeliano, la FDA non ha appoggiato la raccomandazione di vaccinare tutti i bambini di 12 anni e oltre con il richiamo di Covid.

(Israel365 News, settembre 2021 - trad. www.ilvangelo-israele.it)


«L’obbligo ostacola noi carabinieri e aiuta i ladri: sicurezza a rischio»

Antonio Nicolosi, segretario del sindacato Unarma: «Con una lettera a Draghi e all'Ue chiediamo la revoca della carta verde e tamponi gratis. È una legge incostituzionale e molti potrebbero seguire l'esempio del vicequestore Schilirò». 

di Federico Novella

«Siamo usi a obbedir tacendo e tacendo morir, ma a tutto c'è un limite. Viviamo pur sempre in una democrazia». Antonio Nicolosi è il segretario generale dell'Unarma, la più antica associazione sindacale dei carabinieri. In anteprima rivela alla Verità i contenuti della lettera che in queste ore è stata spedita a Mario Draghi e alla Corte europea dei diritti dell'uomo. «Il green pass è un provvedimento discriminatorio, la sicurezza del Paese non è mai stata così a rischio». Nella lettera si chiedono tamponi gratuiti per i militari dell'Arma; si parla di vaccinazione come «scelta personale che in quanto tale va rispettata e tutelata», in mancanza di un obbligo vaccinale erga omnes. 

- Nicolosi, nei secoli fedeli ma non al green pass? 
  «Siamo e resteremo fedeli alla Costituzione, ma quella sul green pass è una legge inaccettabile e incostituzionale».

- Perché questa lettera? 
  «Chiediamo la revoca del provvedimento, o perlomeno un confronto. Siamo assolutamente favorevoli ai vaccini, che hanno ridotto i casi gravi e decongestionato gli ospedali, e questo sindacato ha sempre appoggiato fin dall'inizio la campagna vaccinale. Ma dal 15 ottobre il decreto sul pass causerà problemi enormi». 

- Parla del divieto di accedere al lavoro per chi non ha il lasciapassare? 
  «Ci saranno paradossi assurdi. Un esempio? Al carabiniere non vaccinato è vietato mangiare in mensa con i vaccinati, però può dormire nella stessa stanza in caserma, e condividere lo stesso bagno. Così com'è scritto, riteniamo che questo strumento, oltre che insensato, non sia in grado di garantire la sicurezza sanitaria dei cittadini. Prima di parlare abbiamo investito del tempo a informarci. Nella nostra lettera citiamo le evidenze scientifiche maturate con la sperimentazione: esse mostrano chiaramente e in maniera inoppugnabile che anche i vaccinati possono contrarre il virus e trasmetterlo». 

- Quanti sono i carabinieri non vaccinati? 
  «In base a quanto ci risulta sono 15.000, circa il 14% del totale. Considerando polizia, forze armate di pattuglia in città e vigili urbani, possiamo arrivare fino a 70.000 uomini e donne non vaccinati. Ma al ministero non vogliono fare uscire ufficialmente numeri chiari. Hanno paura. Quei numeri potrebbero alimentare dubbi e proteste». 

- Perché una parte delle forze dell'ordine non si vaccina? 
  «I più anziani, che spesso soffrono di patologie cardiache, non possono. Gli altri hanno liberamente deciso di non farlo, opzione consentita dalla legge». 

- C'è sempre la possibilità del tampone, o no? 
  «Non è così semplice. Ci sono compiti che non si possono interrompere per eseguire il tampone. Se faccio il servizio radiomobile per 48 ore no stop, non posso certo fermarmi. Come devo comportarmi se la validità del tampone è scaduta? Come posso interrompere il lavoro sul territorio? Nessuno ce lo ha spiegato. Anzi, spesso siamo percepiti come un fastidio. Ogni tanto arriva qualche circolare ministeriale che sollecita la vaccinazione, ma nulla più. E poi c'è il discorso del prezzo». 

- Il prezzo del tampone? 
  «Leggo che i parlamentari avranno accesso ai tamponi gratis. Bene, allora qualcuno dovrebbe spiegarmi perché uomini dello Stato che rischiano ogni giorno la vita debbano pagarsi il tampone di tasca propria, intaccando il loro stipendio». 

- Avrete problemi di organico? 
  «Sicuramente sì, visto che già siamo impegnati anche nel controllo dell'identità sul green pass. Ricordo a tutti che non siamo l'ufficio postale, dove alla peggio si forma un po' fila. Rischia di saltare l'intero sistema di sicurezza del Paese. Se in una stazione di provincia impediamo di lavorare a tre carabinieri su sei, come possiamo garantire il servizio? Il green pass rischia di essere un favore ai delinquenti, che sono gli unici a lavorare indisturbati anche senza lasciapassare. Ma le dirò di più». 

- Cioè? 
  «Se l'organico entra sotto pressione non possiamo neanche garantire il servizio vigilanza al vaccino. Le forze dell'ordine si occupano anche del trasporto, e del pattugliamento nei centri vaccinali. Ci rendiamo conto?», 

- Ci saranno episodi di disobbedienza civile, come nel caso della vicequestore Schilirò? 
  «Non posso escluderlo. Del resto siamo esasperati. Il green pass fa sì che si viva uno contro l'altro: vaccinati contro non vaccinati. Quel vicequestore ha ragione quando parla di green pass, e comunque ha il diritto di esprimere la sua opinione nel rispetto di tutti». 

- Il Viminale ha negato al sindacato di polizia Cosap di fare volantinaggio anti green pass davanti al ministero dell'Interno il prossimo 6 ottobre. I rappresentanti sindacali dei poliziotti dovranno spostarsi in un'altra piazza romana, e lamentano di non poter esprimere il loro dissenso davanti ai loro vertici. Solidale? 
  «Certamente, esprimo solidarietà. Bisognerà capire le motivazioni dietro al rifiuto della piazza, e mi auguro che siano ragionevoli. Spero non sia stata una lesione del diritto di manifestare, che spetta a tutti i cittadini, compresi i lavoratori della sicurezza». 

- Che strumenti avete per protestare? 
  «Oltre alla famosa moral suasion, intende? Continueremo a scrivere a tutti i livelli, alle istituzioni europee, al comando generale. Sulla direttiva del ministero della Salute riguardante le mense siamo pronti a sporgere denuncia all'autorità giudiziaria». 

- In quanto forze dell'ordine, non dovreste obbedire e basta? 
  «Qualcuno concepisce ancora i carabinieri come se esistessero solo i generali. Questo è un modo di vedere le cose di stampo napoleonico. Ma in realtà i generali sono pochi e la truppa è vasta. E ammetto che farsi ascoltare è più complicato quando quasi tutti i partiti sono al governo, e praticamente non c'è opposizione». 

(La Verità, 3 ottobre 2021)



Conseguenze dell'adulterio

Riflessioni sul libro dei Proverbi. Dal capitolo 6.
  1. Figlio mio, osserva i precetti di tuo padre,
    e non trascurare gli insegnamenti di tua madre;
  2. tienili sempre legati al cuore
    e attaccati al collo.
  3. Quando camminerai, ti guideranno;
    quando dormirai, ti proteggeranno;
    quando ti risveglierai, ti parleranno.
  4. Il precetto è infatti una lampada, l’insegnamento una luce,
    le correzioni della disciplina sono la via della vita,
  5. per guardarti dalla donna malvagia,
    dalle parole seducenti della straniera.
  6. Non desiderare in cuor tuo la sua bellezza,
    non ti lasciar prendere dalle sue palpebre;
  7. poiché per una donna corrotta uno si riduce a un pezzo di pane,
    e la donna adultera sta in agguato contro una vita preziosa.
  8. Uno si metterà forse del fuoco in petto
    senza che i suoi abiti si brucino?
  9. Camminerà forse sui carboni accesi
    senza scottarsi i piedi?
  10. Così è di chi va dalla moglie del prossimo;
    chi la tocca non rimarrà impunito.
  11. Non si disprezza il ladro che ruba
    per saziarsi quando ha fame;
  12. se viene sorpreso, restituirà anche il settuplo,
    darà tutti i beni della sua casa.
  13. Ma chi commette un adulterio è privo di senno;
    chi fa questo vuol rovinare sé stesso.
  14. Troverà ferite e disonore,
    la sua vergogna non sarà mai cancellata;
  15. perché la gelosia rende furioso il marito,
    il quale sarà senza pietà nel giorno della vendetta;
  16. non avrà riguardo a riscatto di nessun tipo,
    e anche se tu moltiplichi i regali, non sarà soddisfatto.
  1. Figlio mio, osserva i precetti di tuo padre,
    e non trascurare gli insegnamenti di tua madre;

    Il termine genitori non viene mai usato nei libri dell'Antico Testamento. Si parla invece, secondo lo stile pratico e concreto dell'ebraico, di padre e madre e, come in questo versetto, si usano termini diversi in relazione alle due figure: dal padre provengono precetti (lett. precetto), dalla madre insegnamenti (lett. insegnamento). Inoltre, come in 1.8, l'esortazione riferita al padre ha forma positiva (osserva), mentre quella riferita alla madre ha forma negativa (non trascurare). La molteplicità delle espressioni usate sottolinea la diversità dei ruoli dei due genitori e l'insostituibilità di ciascuno di essi. Il figlio saggio non si limiterà ad ascoltare le norme di vita trasmesse dal padre, ma si preoccuperà di metterle in pratica. E per quanto riguarda la madre, starà ben attento a non sottovalutare e trascurare le sue parole soltanto perché provengono dalla figura che, tra i due genitori, appare essere la più debole.

  2. tienili sempre legati al cuore
    e attaccati al collo.

    Tornano i riferimenti al cuore e al collo (cfr. 3.3). Non basta aver udito una volta gli insegnamenti giusti e averli anche approvati: è necessario che "non escano dal cuore" (Deuteronomio 4.9). Si deve dunque tenerli legati al cuore attraverso un continuo esercizio di memoria che viene facilitato dal portarli sempre attaccati al collo, cioè in bella vista e a portata di mano.

  3. Quando camminerai, ti guideranno;
    quando dormirai, ti proteggeranno;
    quando ti risveglierai, ti parleranno.

    Alle esortazioni seguono, come sempre, le promesse. Vengono considerati tre momenti della vita di tutti i giorni: il tempo del lavoro (quando camminerai), il tempo del riposo (quando dormirai), il momento del risveglio (quando ti risveglierai). Per ognuno di questi momenti le parole di saggezza del maestro hanno una precisa promessa da trasmettere: ti guideranno durante il giorno nelle scelte che continuamente devi fare; ti proteggeranno durante la notte, quando il sonno ti rende debole e indifeso; ti parleranno nel momento in cui riaprirai gli occhi e ricomincerai a pensare, correndo il rischio di lasciarti prendere da inutili preoccupazioni.

  4. Il precetto è infatti una lampada, l’insegnamento una luce,
    le correzioni della disciplina sono la via della vita,

    Al buio della notte segue la luce del giorno, e l'uomo riprende la sua vita attiva. Ma se la luce del sole serve a fugare le tenebre della notte fisica, per le tenebre morali è necessaria un'altra luce: quella della Parola di Dio (Salmo 119:105). La via della vita, della vera vita, quella che mantiene la creatura in comunione con il suo Creatore, è illuminata dal precetto e dall'insegnamento che provengono dalla sapienza di Dio. Le sue indicazioni possono anche essere correzioni che provengono da una severa disciplina, ma chi le osserva diligentemente non avrà mai da pentirsene. Leggere la Scrittura e pregare all'inizio della giornata significa permettere alla Parola di Dio di essere per la vita spirituale quello che il sole è per la vita fisica: una luce che fuga le tenebre.

  5. per guardarti dalla donna malvagia,
    dalle parole seducenti della straniera.

    La donna malvagia, la straniera che vuole invadere un focolare domestico non suo, per adescare la sua vittima non fa leva soltanto sull'attrazione sensuale del corpo, ma ricorre anche con maestria all'arma delle parole seducenti (cfr. 2.16, 5.3). A queste si può resistere soltanto se in precedenza si sono ascoltate le parole della sapienza di Dio. Come nel caso della salute corporale, le difese preventive sono le più efficaci, e in certi casi sono anche le uniche possibili.

  6. Non desiderare in cuor tuo la sua bellezza,
    non ti lasciar prendere dalle sue palpebre;

    L'originale del verbo desiderare è lo stesso compare nel decimo comandamento (Esodo 20.17, Deuteronomio 5.21). La donna straniera può essere veramente bella, come nel caso di Bat-Sceba (2 Samuele 11.2), e la bellezza è un dono di Dio. Ma davanti a questo fatto positivo, due cose sbagliate possono avvenire: 1) l'uomo può essere indotto a peccare desiderando in cuor suo un bene che non è destinato a lui (Matteo 5.28); 2) la donna può essere indotta a peccare usando maliziosamente il bene ricevuto attraverso l'uso accattivane delle palpebre (2 Re 9.30) per prendere, cioè legare a sé in modo illegittimo, un altro uomo. All'atteggiamento tipicamente maschile del desiderare corrisponde quello tipicamente femminile del farsi desiderare. Entrambi sono forme di peccato quando il desiderio, coltivato o sollecitato, è rivolto al di fuori del campo indicato dalla Parola di Dio.

  7. poiché per una donna corrotta uno si riduce a un pezzo di pane,
    e la donna adultera sta in agguato contro una vita preziosa.

    Qualcuno ha voluto mettere in risalto la differenza tra la donna corrotta (una prostituta) e la donna adultera (una donna sposata). Ma fare una differenza tra le conseguenze che si possono avere dal rapporto peccaminoso con due diverse persone, stabilendo addirittura una gerarchia di gravità, non sembra essere in armonia con l'intero insegnamento di questo libro, che pone continuamente il discepolo davanti ad una scelta tra la vita e la morte. Come nel versetto precedente, lo sguardo si posa una volta su di lui e una volta su di lei. Il maestro sembra dire al discepolo: "Sta attento perché lei è in agguato contro la tua vita preziosa, e tu, per la tua insipienza e debolezza, corri il rischio di sciupare la tua vita per una donna corrotta".

  8. Uno si metterà forse del fuoco in petto
    senza che i suoi abiti si brucino?

    Qualcuno potrebbe credere che chi ubbidisce al comandamento di Dio ottiene una medaglia e chi disubbidisce ottiene il piacere. Chi pensa così commette un errore mortale: non si tratta di scegliere tra l'onore e il piacere, ma tra la vita e la morte. E' vero, non sempre le conseguenze del peccato si avvertono immediatamente, ma proprio per questo è importante la parola d'avvertimento. Il fuoco potrebbe attrarre qualcuno e fargli credere che metterselo in petto gli procurerebbe piacere. Ma chi ha conoscenza avverte: "La realtà è un'altra: i tuoi abiti si bruceranno". Si tratta di fatti, non di opinioni.

  9. Camminerà forse sui carboni accesi
    senza scottarsi i piedi?

    L'avvertimento continua con un altro esempio dello stesso tipo. Anche in questo caso si fa riferimento alla realtà. Si può liberamente decidere di camminare sui carboni accesi, ma non si è liberi di scegliersi le conseguenze. La frase è in forma ironica di domanda: "E' possibile farlo senza scottarsi i piedi?" Evidentemente no. La conclusione segue immediatamente dopo.

  10. Così è di chi va dalla moglie del prossimo;
    chi la tocca non rimarrà impunito.

    Così è...": è importante sottolineare concretezza dell'espressione. La parola di Dio è una lampada (Salmo 119.105) che illumina la realtà. Si può decidere di chiudere gli occhi e credere che le cose stiano come si preferisce, ma è un'illusione mortale. L'avvertimento è questo: "Il matrimonio sia tenuto in onore da tutti e il letto coniugale non sia macchiato da infedeltà; poiché Dio giudicherà i fornicatori e gli adùlteri" (Ebrei 13.4). La punizione può cominciare già su questa terra attraverso l'ira del marito, ma certamente si compirà nel giorno del giudizio attraverso l'ira di Dio, su tutti coloro che non si saranno ravveduti.

  11. Non si disprezza il ladro che ruba
    per saziarsi quando ha fame;

    Nei versetti che seguono si pone un confronto fra il ladro e l'adultero, sottolineando la maggiore gravità delle negative conseguenze che si abbatteranno sul secondo. Chi ruba per placare la sua fame non viene per questo disprezzato, perché le sue motivazioni gli fanno trovare comprensione. L'adultero invece quando viene scoperto perde anzitutto il suo onore, perché "la sua vergogna non sarà mai cancellata" (v.32). Si noti tuttavia che qui si parla di disprezzo, non di condanna. Il ladro che ruba perché ha fame sarà compreso, ma non assolto.

  12. e viene sorpreso, restituirà anche il settuplo,
    darà tutti i beni della sua casa.

    Infatti in questo versetto si parla di una pena che il ladro dovrà subire. Per evitare contraddizione logiche, in alcune traduzioni compare un "ma" all'inizio della frase. Il senso potrebbe quindi essere questo: anche se il ladro affamato potrà trovare comprensione negli altri, dovrà tuttavia darsi da fare per un risarcimento del danno, arrivando fino al punto, se necessario, di vendere la sua casa. In questo modo, però, anche se a prezzo di grandi sacrifici, il danno potrà essere risarcito e la colpa rimossa. La stessa cosa non potrà avvenire per l'adultero, per il quale non sarà possibile nessuna forma di riscatto (v.35).

  13. Ma chi commette un adulterio è privo di senno;
    chi fa questo vuol rovinare sé stesso.

    Proprio per questo al discepolo viene detto chiaramente che chi commette un adulterio è privo di senno. Se il ladro può arrivare a perdere la casa, l'adultero finirà per rovinare sé stesso; e solo un pazzo può comportarsi in questo modo. L'adulterio ha degli elementi di irreversibilità che lo fanno avvicinare a un suicidio.

  14. Troverà ferite e disonore,
    la sua vergogna non sarà mai cancellata;

    La differenza tra il ladro e l'adultero sta soprattutto in questo: che il ladro sottrae al prossimo degli oggetti mentre l'adultero sottrae una persona. La punizione per l'adultero dovrà dunque arrivare a toccare la sua persona, sul piano corporale (le ferite) e su quello morale (il disonore). E mentre le ferite corporali dopo un certo tempo si rimarginano, la stessa cosa non accadrà per quelle morali. E' detto infatti che la sua vergogna non sarà mai cancellata.

  15. perché la gelosia rende furioso il marito,
    il quale sarà senza pietà nel giorno della vendetta;

    L'adulterio è un fatto che non riguarda mai soltanto due persone. Il peccato dell'adultero lo fa entrare in una relazione irreversibile con il coniuge tradito. La gelosia e l'ira del marito sono reazioni giuste (27.4): l'amore autentico è sempre suggellato da un patto, e chi con la sua azione fa sì che questo patto venga infranto non può pensare di rimanere impunito. L'adultero non deve sperare in sentimenti di pietà da parte del marito: il giorno della vendetta arriverà.

  16. non avrà riguardo a riscatto di nessun tipo,
    e anche se tu moltiplichi i regali, non sarà soddisfatto.

    In Israele il marito tradito non aveva l'autorità di perdonare l'adultero, perché l'adulterio compiuto introduceva un male nella società che doveva essere tolto con la morte dei colpevoli (Deuteronomio 22.22-24). Nessun riscatto materiale in forma di "risarcimento danni" poteva essere preso in considerazione; anche se avesse voluto, il marito non avrebbe dovuto accettare regali di nessun tipo. L'adulterio introduce la morte nella relazione vitale tra due coniugi, e ciò che distrugge la vita deve essere pagato con la vita. La severità della legge data da Dio al popolo di Israele deve quindi tanto più spingere gli uomini ad apprezzare la grandezza dell'opera compiuta dal Signore Gesù Cristo, che ha preso su di sé le conseguenze che spettano a chi trasgredisce la legge di Dio e ha offerto, anche per l'adultero pentito, una possibilità di riscatto che nessun altro uomo sulla terra avrebbe potuto offrire.

    M.C.

 

Expo Dubai 2020, Israele: “Un padiglione aperto in segno di speranza

Un simbolo di speranza verso un futuro unito e migliore. Questo è il Padiglione Israele a Expo Dubai 2020, raccontato da Menachim Gantz.

di  Andrea Eusebio

Expo Dubai 2020 ha aperto le sue porte ieri, venerdì 1 ottobre, con un anno di ritardo a causa della pandemia da Covid-19. Ad accogliere i visitatori giunti per l’Esposizione Universale c’è anche il Padiglione Israele. Un simbolo di “speranza”, come ha raccontato Menachim Gantz, portavoce del Padiglione di Israele a Expo Dubai 2020.
   “È un padiglione aperto: immaginavamo ci sarebbe stato scetticismo da parte dei visitatori arabi verso la nostra presenza. Per questo motivo non ci saranno file per l’accesso né porte. Saremo uniti su una distesa di sabbia, laddove entrambi i nostri popoli, Ebrei e Musulmani, derivano“.

• Expo Dubai 2020, il messaggio del Padiglione di Israele
   Ognuno, quindi, può entrare e sedersi, come in una tenda, simbolo del Medio Oriente. Un luogo dove tutti sono benvenuti e possono sentirsi al sicuro. “Il messaggio è proprio questo: insieme si può creare un domani migliore“. Le aziende israeliane, come ha spiegato Gantz, non pensano di cambiare solo una realtà locale. L’obiettivo è quello di “rispondere a necessità globali”. “Si va verso un domani, come scritto nell’orizzonte nel padiglione in diverse lingue, per sottolineare quanto siamo simili e uniti“.
   Come raccontato dal portavoce del Padiglione di Israle questo è un “simbolo di speranza“. In questo modo chi arriverà a Expo Dubai 2020 potrà dire: “Se le persone si mettono insieme e trovano ciò che le unisce, il futuro veramente può essere migliore. Non è uno slogan poetico, è una dimostrazione reale e concreta di come l’unione può far crescere i popoli“.

• Gantz: “Dati pazzeschi, nonostante il Covid”
   Nonostante il Covid, ha raccontato Gantz, i dati sono stati pazzeschi. “Nell’ultimo anno 300mila israeliani hanno visitato gli Emirati. Con il commercio abbiamo raggiunto un miliardo di dollari di scambi commerciali“. “Spero che l’Expo sia un’occasione per andare nella direzione dell’unione. La diversità non è una cosa che ci fa paura, ma è una forza. Ognuno deve essere diverso dall’altro, l’importante è rimanere uniti per creare cose straordinarie“.
   Per quanto riguarda la pandemia, a Expo Dubai 2020 sono comunque attese moltissime persone da tutto il mondo. “Le questioni di salute ed epidemia saranno il centro dell’umanità. L’uomo non dovrà fermarsi, ma cercare di capire come vivere al fianco di queste sfide. Ad Expo Dubai 2020 ci sarà spazio anche per questo, perché dovremo essere responsabili, intelligenti e creare opportunità per andare avanti“.

(Newsby, 2 ottobre 2021)


Gli ebrei non hanno inventato il capitalismo ma la leggenda ha creato l'antisemitismo 

Un'indagine sulla nascita dei due stereotipi - prestatori & mercanti - che hanno provocato danni immensi 

Dare denaro a pegno era vietato ai cristiani e le comunità ebraiche facevano gioco In due testi del '600 un passaggio cruciale nella percezione della minoranza in Europa

di Elena Loewenthal 

Che cosa potrà mai tenere insieme la piattaforma Rousseau (nel senso di Casaleggio & Co.), un naufragio di massa nel golfo di Biscaglia a metà gennaio del 1627 ( due mercantili portoghesi e cinque galeoni armati di scorta), l'invenzione delle lettere di cambio e la numerosa, per quanto sottotraccia, comunità di conversos a Bordeaux, fra il XVI e il XVII secolo? 
   Più che una domanda sembra un rompicapo, e forse lo è. Eppure Francesca Trivellato, Andrew W. Mellon Professor presso l'lnstitute for Advanced Studies di Princeton, docente e ricercatrice di storia economica in età moderna, allieva di Giovanni Levi, fondatore insieme a Carlo Ginzburg della microstoria nonché grande studioso di storia moderna, crea in questo suo libro, Ebrei e Capitalismo. Storia di una leggenda dimenticata, un tessuto perfettamente coerente di tutto questo e tanto altro. 
   E un saggio storico che si legge praticamente come un romanzo, che avvince e illumina - nel senso originario, quasi letterale della parola. L'obiettivo di questo saggio è, certo, quello di sfatare una leggenda tanto comune quanto scivolosa, che di fatto sta alla radice dell'antisemitismo moderno, secondo cui si attribuiscono ai figli d'Israele un uso morboso e malefico del denaro e l'invenzione del capitalismo più spregiudicato. 
   Sta di fatto che, attraverso i lunghi secoli del Medioevo - età per molti versi tutt'altro che buia - il prestito su pegno o a interesse era vietato ai cristiani per il semplice motivo che si fondava, e si fonda, su un uso «economico» del tempo, che è Dio e non può per questo diventare profitto. Per questa ragione le comunità ebraiche facevano gioco, e a loro fu imposto l'esercizio di questa professione tanto sgradita quanto necessaria. 
   Etienne Cleirac (1583-1657), autore di Us et coustumes de la mer, un trattato di diritto marittimo pubblicato a Bordeaux nel 164 7 che a suo tempo ebbe un gradissimo successo, offre a Trivellato lo specchio di un passaggio cruciale nella percezione della minoranza ebraica d'Europa, e dei danni immensi che questo passaggio provocò, pure a secoli di distanza. 
   L'indagine di Trivellato si sofferma anche su un altro testo, di pochissimo più tardo: il Parfait négociant di Jacques Savary che, uscito nel 1675, costituisce un vero e proprio «manifesto della società mercantile francese del Seicento». Ebbene, il Parfait négociant riprende l'associazione negativa, di lunga data, tra ebrei e credito e la variante introdotta da Cleirac: la figura dell'ebreo prestatore su pegno lasciava ora il passo a quella dell'ebreo mercante internazionale con tentacoli dappertutto e capacità superiori. Di primo acchito i due archetipi sembrano l'uno opposto all'altro, in quanto il primo è legato a un'economia di scarsità e al credito al consumo, mentre il secondo all'abbondanza e al credito commerciale. In realtà, sia nella cultura alta che nell'immaginario comune, il concetto di «usura» era connaturato a entrambi gli stereotipi. 
   Lungo un'indagine estremamente interessante che spazia sempre con grande acribia dalla filologia dei testi all'analisi dei dati, Trivellato conduce il lettore lungo la storia di questi due stereotipi, spiegandone per un verso l'eziologia, per l'altro le deleterie conseguenze sul piano sociale, culturale, materiale. In sostanza, non sono stati gli ebrei a inventare né l'usura né il credito, né tanto meno il capitalismo. Ma all'Europa ha fatto sempre molto comodo additare il «colpevole», tanto nefasto quanto necessario alle complesse dinamiche della storia. 
   Ne risulta un saggio storico interessante per molti versi. In primo luogo perché sfata un pregiudizio. Poi perché lo fa con un'analisi tanto ampia quanto minuziosa: il lettore può a tratti avere l'impressione che questa disamina si concentri essenzialmente su un periodo storico molto preciso (la metà del Seicento) e un particolare contesto geografico e politico (Francia), ma in realtà non è affatto così perché gli orizzonti entro cui spazia l'indagine sono ben più ampi, nel tempo e nello spazio. 
   E al di là di una doverosa «revisione» della storia europea in questo contesto, l'invito di Trivellato è anche quello di ripensare la vicenda ebraica per come è stata scritta e percepita dalla seconda metà del Novecento in poi. Tutto va insomma connesso con la disponibilità a rimettere in discussione i punti fermi, che per definizione stessa fanno molto in fretta a diventare luoghi comuni. Magari perniciosi. 

(Corriere della Sera, 2 ottobre 2021)


Antisemitismo nel calcio, tifosi dell’Union Berlino insultano quelli del Maccabi Haifa

Quando nel calcio non si parla del risultato, qualcosa è andato storto. Se a interessare di più sono i comportamenti vergognosi di alcuni tifosi, a sgonfiarsi non è solo la credibilità del pallone, ma dell’intera società.
   Perché se a decenni di distanza, la Germania continua a essere teatro dell’antisemitismo, la storia sembrerebbe aver insegnato molto poco.
   Talmente poco che la partita tra Union Berlino e Maccabi Haifa verrà ricordata per gli ignobili insulti antisemiti di alcuni supporters tedeschi rivolti contro quelli israeliani.
   E pensare che questo secondo incontro di Conference League era stato presentato come un evento storico, visto che per la prima volta una squadra israeliana avrebbe giocato all’Olympiastadion di Berlino, chiamato “stadio di Hitler” e impianto che ospitò i Giochi Olimpici nel 1936, davanti a un soddisfatto Führer.
   E, invece, l’idiozia umana mischiata all’odio antiebraico ha fatto sì che alcuni tifosi tedeschi alzassero il braccio destro verso il settore ospite a suon di slogan antisemiti.
   “Fottuti ebrei, vi cancelleremo tutti” e ingiurie nei confronti dello Stato d’Israele hanno raggiunto il proprio culmine dopo il doppio vantaggio della squadra di casa, in particolare nei confronti del Gruppo Giovanile della Società Germanico-Israeliana, la “Deutsch-Israelische Gesellschaft”.
   Un tifoso dell’Union Berlino ha addirittura tentato di bruciare una bandiera israeliana, prima di esser bloccato dagli steward.
   Il club tedesco si è prontamente scusato per quanto accaduto e ha annunciato piena collaborazione possibile per aiutare la polizia a identificare i responsabili.
   Una presa di posizione netta, quella dell’Unione Berlino, che però non ha incontrato altrettanta prontezza nelle stanze del potere dell’Uefa, che al momento non ha proliferato parola su quanto successo.
   Molto strano, visto che il massimo organo calcistico europeo è noto per sua la campagna contro il razzismo.
   In attesa che il mancato intervento dell’Uefa sia solo in ritardo, dobbiamo registrare la vittoria per 3-0 dell’Union Berlino contro il Maccabi Haifa. Sul campo, perché sugli spalti il risultato è stato ben diverso.

(Progetto Dreyfus, 1 ottobre 2021)


Bahrein: la comunità ebraica accoglie con favore la visita del ministro degli Esteri israeliano

ABU DHABI - La comunità ebraica del Bahrein ha incontrato ieri il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid, a un anno di distanza dalla sigla degli Accordi di Abramo che ha normalizzato i rapporti tra i due Paesi. I membri della comunità ebraica hanno partecipato anche all’inaugurazione dell’ambasciata israeliana nella capitale Manama. Al termine della cerimonia, fa sapere l’emittente televisiva emiratina “Al Arabiya”, la comunità ha donato al ministro israeliano una mezuzah, una pergamena su cui sono riportati passi della Torah, che è stata poi posizionata all’entrata dell’ambasciata dello Stato ebraico. “Oggi è un giorno storico per il Bahrein e Israele e un momento importante per la nostra comunità ebraica”, ha dichiarato Ebrahim Daoud Nonoo, capo della comunità ebraica del Bahrein. La comunità ebraica bahreinita è l’unica autoctona nella regione e la sua presenza nel Paese risale al 1880.

(Agenzia Nova, 1 ottobre 2021)


Bennett, Herzog e partito Ra’am: le scelte “distensive” di Israele

A un anno dagli accordi di Abramo prosegue la normalizzazione dei rapporti di Israele con i paesi arabi. Ci sono segnali positivi anche rispetto ai palestinesi.

di Caleb J. Wulff

Il 15 settembre dell’anno scorso venivano firmati gli Accordi di Abramo, il trattato promosso da Donald Trump che normalizzava le relazioni di Israele con gli Emirati Arabi Uniti e Bahrein.
  I risvolti positivi di questi accordi si cominciano a notare anche sotto gli aspetti economici, in particolare con gli Eau. Come riporta The Jerusalem Post, questi accordi stanno portando a un forte sviluppo delle relazioni commerciali tra i due Paesi, delineando anche una strategia di più ampio respiro. Per Israele, gli Emirati rappresentano una rilevante porta di ingresso verso gli altri Paesi del Golfo e i mercati dell’Asia del Sud e dell’Africa Orientale; per gli Emirati, Israele rappresenta un utile canale per raggiungere più efficacemente l’esteso mercato statunitense.
  Il nuovo governo israeliano, succeduto nello scorso giugno ai dodici anni di Benjamin Netanyahu, sta cercando di ampliare ad altri Paesi arabi la stabilizzazione dei rapporti diplomatici e commerciali. Gli Accordi sono stati firmati anche dal Sudan, con sviluppi limitati anche per la critica situazione interna del Paese, e con il Marocco. Le buone relazioni instaurate con Rabat hanno però comportato la rottura con l’Algeria, che ha accusato Israele di appoggiare il Marocco nella controversia per la sovranità sul Sahara Occidentale, regione contesa anche dal Fronte Polisario che ne ha proclamato l’indipendenza. Yair Lapid, ministro degli Esteri israeliano, durante la sua recente visita in Marocco, ha a sua volta accusato l’Algeria di essersi sempre più avvicinata all’Iran.
  La situazione non semplice del Medio Oriente e del Nord Africa pone quindi all’allargamento degli Accordi di Abramo diversi problemi, e uno dei maggiori rimane la irrisolta questione palestinese. Non a caso, i palestinesi hanno accettato piuttosto male gli Accordi , ritenendoli un tradimento della loro causa. La questione palestinese rimane tuttora un problema anche per la politica interna israeliana, particolarmente per un governo complesso come l’attuale, esito di quattro elezioni generali in poco più di due anni, e costituito da 8 partiti che vanno dalla destra alla sinistra. L’inclusione nel governo, per la prima volta nella storia di Israele, anche di un partito degli arabi-israeliani, il Ra’am, ha portato in un certo senso la questione palestinese all’interno del governo stesso.
  Gli arabi rappresentano più del 20% della popolazione israeliana e si sentono messi da parte dalla politica del Paese, invisi alle destre e loro stessi divisi nei confronti della questione palestinese. L’inclusione di uno dei loro partiti nel governo è un segnale di distensione, ma ha provocato ulteriori opposizioni nella destra e tra gli elettori di Yamina, il partito del primo ministro Naftali Bennett. La perdita di consenso di cui sta soffrendo Bennett è probabilmente una concausa della sua rigida posizione, che lo ha portato a rifiutare la soluzione dei due Stati. Bennett ha affermato che uno Stato palestinese rischierebbe di trasformare anche la Cisgiordania in una nuova Gaza, rendendo impossibile la vita in Israele. Si è anche rifiutato di parlare con il presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, accusandolo di fiancheggiare i terroristi, ma ha offerto aiuto economico per sollevare le condizioni di vita dei palestinesi.
  Isaac Herzog, il laburista capo dello Stato da questo giugno, ha tenuto invece un atteggiamento completamente diverso, con un paio di cordiali colloqui telefonici con Abbas. Anche Benny Gantz, ministro della Difesa, ha incontrato Abbas alla fine di agosto a Ramallah, promettendo le misure di aiuto economico poi fatte proprie anche da Bennett. Da notare che in queste proposte economiche è compresa anche Gaza. Non è da escludere che si tratti di una politica tesa a portare avanti una comune strategia di stabilizzazione dei rapporti interni ed esterni, cercando di “tener buoni”, per così dire, i rispettivi elettorati. D’altra parte, se cade questo governo diventano molto probabili nuove elezioni, per la quinta volta dall’aprile del 2019.
  Tutti e tre gli autorevoli politici, Herzog, Bennett e Gantz, hanno invece avuto contatti diretti con il re di Giordania, Abdullah, pur avvolti in un certo alone di segretezza. Appare comunque chiaro l’intento di ristabilire relazioni positive con un Paese molto importante nella questione palestinese e con il quale esistono rapporti diplomatici dal 1994. Le relazioni con Amman si erano deteriorate con il governo di Netanyahu e la situazione era precipitata all’inizio di quest’anno con gli ostacoli posti da Netanyahu alla visita del principe ereditario di Giordania alla moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme.
  Per quanto riguarda invece l’Egitto, primo firmatario di un trattato di pace con Israele nel 1979, i rapporti sempre costanti con Israele hanno avuto un rafforzamento nel recente incontro di Bennett con Al Sisi. I due Paesi collaborano nella lotta alle organizzazioni islamiste nel Sinai e hanno un comune interesse a normalizzare la situazione nella Striscia di Gaza, combattendone le fazioni più estremiste. Sotto il profilo economico, importanti sono le esportazioni di gas da Israele verso l’Egitto e, per quest’ultimo, è rilevante l’afflusso di turisti  israeliani.
  Rimane quindi confermato che, piaccia o meno, Israele rimane un punto centrale per ogni sviluppo nella regione e che la sua stabilità interna e la normalizzazione dei rapporti con gli Stati vicini sono nell’interesse di tutti.

(ilsussidiario.net, 1 ottobre 2021)


Razzismo e insulti antisemiti a Berlino e Praga

Nella serata di Conference League e Europa League

Il razzismo non è un problema esclusivamente italiano. L’ennesima dimostrazione è arrivata dalla seconda giornata di Conference League e di Europa League, competizioni macchiate da inquietantissimi episodi sugli spalti. A dimostrazione di quanto lavoro ancora ci sia da fare per non cadere in gravissimi e tragici errori del passato.
  Il più clamoroso, almeno mediaticamente parlando, è quello accaduto nel corso del match di Conference tra Union Berlino e Maccabi Haifa. Una gara che già alla vigilia era stata presentata come storica, essendo la prima di una squadra dello Stato d’Israele all’interno dell’Olympiastadion, da molti ritenuto lo ‘stadio di Hitler’, quello che ospitò gli storici giochi olimpici del 1936, diventati leggenda grazie a Jesse Owen.
  Sul terreno di gioco la partita non è stata equilibrata. I padroni di casa si sono imposti con un nettissimo 3-0. Ma a fare tantissimo rumore non è quanto accaduto in campo, bensì quanto successo sugli spalti. I tifosi dell’Union hanno infatti salutato i rivali del Maccabi con il braccio teso, ricoprendoli d’insulti da brividi.
  Dopo la seconda rete, in particolare, sarebbero volati diversi oggetti verso gli appartenenti al Gruppo Giovanile della Società Germanico-Israeliana, accompagnati da questi cori: “Fottuti ebrei, vi cancelleremo tutti“. Un tifoso dell’Union avrebbe tentato anche di bruciare una bandiera israeliana, prima di essere bloccato dagli steward. Episodi gravissimi, che potrebbero portare a un intervento da parte dell’Uefa. Che intanto, però, deve osservare anche quanto accaduto in un altro stadio…
  Non meno grave quanto avvenuto durante il confronto di Europa League tra Sparta Praga e Glasgow Rangers. Qui non si è trattato d’insulti antisemiti, ma di un altro episodio di razzismo preoccupante. Vittima nell’occasione Glen Kamara, nazionale finlandese originario della Sierra Leone, insultato con ululati per buona parte del match.
  Purtroppo una triste abitudine da parte di alcune tifoserie. Ma qui c’è un’aggravante. Il settore che ha lanciato gli ululati era infatti occupato da 10mila bambini e adolescenti di massimo 14 anni, in quanto chiuso ai tifosi abituali per precedenti episodi di discriminazione durante una gara col Monaco. Deluso l’allenatore dei Rangers, Steven Gerrard: “Abbiamo giocato a porte apparentemente chiuse per una ragione. Non è la prima volta che succedono queste cose qui, ma non è stato fatto abbastanza“. Difficile dargli torto.

(Udinese Blog, 1 ottobre 2021)


Il caso del piccolo Eitan: a che punto siamo e cosa si dice in Israele

Il bambino di sei anni è l'unico sopravvissuto alla strage della funivia del Mottarone dello scorso 23 maggio. Circa tre settimane fa il nonno materno l'ha portato in Israele senza avvisare il resto della famiglia paterna che aveva in custodia il piccolo e da allora è iniziato un caso diplomatico e mediatico, soprattutto in Italia. Vediamo però come la storia viene raccontata in Israele.

• La situazione attuale
  C'è stata una prima udienza in Israele per decidere sulla custodia del bambino e giudicare il nonno materno Shmuel Peleg accusato di aver rapito Eitan. Durante questa udienza, hanno comunicato i legali delle parti, è stata raggiunta un'intesa provvisoria per la gestione condivisa del piccolo che resterà in Israele almeno fino alla seconda udienza, prevista per l'8 ottobre.
   Secondo quanto stabilito Eitan starà tre giorni con una parte della famiglia e tre giorni con l'altra.

• La narrativa in Israele è diversa, dice il Times of Israel
  Una ''tragedia straziante'' che più di altre ''sembra aver toccato una corda particolarmente profonda''. E che allo stesso tempo ''mette in evidenza questioni che sono al centro delle interpretazioni nazionali di Israele e dell'Italia''. Perché ''è difficile far capire agli italiani'' che la ''casa è l'unico luogo a cui appartieni veramente e dove puoi essere certo di mantenere una piena identità ebraica''. Così il Times of Israel torna sul caso del piccolo Eitan Biran, il bambino di sei anni unico sopravvissuto alla tragedia del Mottarone del maggio scorso dove perse i genitori, il fratellino e i bisnonni. Con doppia cittadinanza italiana e israeliana, dopo la tragedia del maggio scorso il piccolo è stato accolto da una ''maternità nazionale'' in Italia e riconosciuto pubblicamente come ''il piccolo Eitan'', scrive il giornale israeliano. Dal giorno dello schianto della funivia allo stato di salute in ospedale, fino al suo ritorno a casa, la vicenda di Eitan è stata una notizia da prima pagina nei giornali italiani. Vicenda alla quale si è poi aggiunta la battaglia legale tra due famiglie per la sua custodia e che, ''con le sue profonde basi emotive, ha affascinato l'opinione pubblica in entrambi i paesi''.
   Il Times of Israel afferma quindi che si è ''creata una sorta di soap opera nella vita reale'' con ''l'opinione pubblica italiana che chiaramente ha simpatie per la zia che vive in Italia'' e che ''è stata in grado di comunicare la sua posizione in un italiano fluente'' e senza usare toni accusatori nei confronti delle autorità locali. ''L'indignazione pubblica è aumentata'' in Italia con il trasferimento in Israele di Eitan per opera del nonno materno, Shmuel Peleg, ''vista come un rapimento'' scrive il giornale, ma anche come un affronto alla ''sovranità legale italiana''. La vicenda ha tenuto banco ''nei talk show e in apertura dei telegiornali'', ma ''qui in Israele la narrativa è molto diversa'', spiega.

• "Difficile far capire in Italia il senso di identità ebraica"
  Citando il messaggio inviato dal nonno alla zia paterna Aya in Italia all'arrivo a Tel Aviv, ''Eitan è a casa'', il Times of Israel afferma che ''quella nozione di patria ebraica, e il senso di sicurezza che offre, è infatti difficile da afferrare per molti italiani'' perché ''casa è intesa non solo come il luogo in cui risiedi, ma anche come l'unico luogo a cui appartieni veramente e dove puoi essere certo di mantenere una piena identità ebraica''. Anche sulla stampa ebraica sono state espresse posizioni diverse, ma ''molti israeliani possono quantomeno simpatizzare con il nonno, che in Italia è visto in gran parte con occhio critico. Dopotutto, la paura dell'assimilazione è reale, e Peleg ha sottolineato più volte che Eitan avrebbe frequentato una scuola cattolica a Pavia''.
   Con il progredire della saga, il Times of Israel spiega che sono stati invocati riferimenti al racconto biblico del 'Giudizio di Salomone' ''in cui il saggio re d'Israele discerneva quale delle due donne che gli stavano davanti fosse la vera madre di un bambino suggerendo che il ragazzo venga tagliato a metà. A differenza di quella storia qui non c'è nessun impostore'', ma ''due parti afflitte, con eguali pretese familiari su Eitan'', ma che partono da ''principi diversi che li portano a concezioni diametralmente opposte di ciò che è nel suo migliore interesse''.

(News UK, 1 ottobre 2021)


No comment.


Vaccino Covid. Perché i media italiani hanno nascosto il venerdì nero di Big Pharma?
   Articolo OTTIMO!

Negli Usa c’è stato un duro braccio di ferro sui vaccini tra lobby farmaceutiche e agenzie federali taciuto dai media nostrani, puntualmente allineati.

di Alberto Contri

Se gettiamo lo sguardo di là dall’oceano, scopriamo che in questi ultimi giorni sul fronte dei vaccini stanno accadendo cose piuttosto interessanti. 
   Mentre in Italia giornalisti, conduttori tv, virologi, ministri, politici sembrano diventati tutti rappresentanti di un’unica azienda farmaceutica, negli Stati Uniti si stanno raccogliendo venti che potrebbero alimentare un tifone. Ho letto questo post sul social network Linkedin: “È un segnale: una brezza da ovest può diventare una tempesta se si incontra con correnti del nord”.

- A cosa si riferisce?
  Al “venerdì nero” (il 15 scorso, per i superstiziosi) che ha sconvolto le aspettative di Biden e di Big Pharma. Per rispondere alla richiesta del presidente americano di fare una terza dose di vaccino a tutta la popolazione, la Fda ha convocato la Commissione consultiva, come da prassi per decisioni così importanti. A differenza delle misteriose riunioni delle istituzioni sanitarie italiane, la riunione era pubblica.

- In sintesi, cosa è successo? 
  Che durante il dibattito sono emersi molti elementi in grado di avallare l’ipotesi che l’aumento degli effetti indesiderati sia dose-dipendente: per cui un soggetto esposto a ulteriori inoculazioni rispetto alle due previste, può vedere aumentare significativamente gli effetti collaterali
   Sicché alla fine, dopo ore di accesa discussione, la Commissione ha votato “no” alla richiesta di Biden con 16 voti contro 2, consentendo la terza dose solo agli ultra 65enni e agli individui ad alto rischio di contrarre l’infezione.
   Scatenando il panico nelle istituzioni, per il diniego a dare seguito alle richieste di Biden, mentre la bocciatura ha provocato cali in borsa delle aziende coinvolte, ma non così forti come si poteva immaginare, semplicemente perché i contratti di vendita erano già stati firmati da tempo.
   Ma la pressione di Big Pharma non ha mollato, e venerdì 24, fatto davvero inconsueto, il Cdc, l’agenzia federale gemella della Fda, ne ha sovvertito le decisioni con uno stratagemma: ha deciso che potranno ricevere la terza dose le persone sopra i 18 anni a rischio di infettarsi per motivi di lavoro. Il che significa tutti coloro che sono a contatto con il pubblico o con i clienti; quindi quasi tutta la popolazione che lavora.
   Mentre si svolge il braccio di ferro tra lobby e agenzie federali, la comunità scientifica seria ha preso in grande considerazione le affermazioni di alcuni esperti convocati.
   Durante l’udienza della Commissione consultiva, il prof. Steve Kirsch, direttore del Covid-19 Early Treatment Fund, ha affermato che le iniezioni stanno uccidendo più persone di quante ne stiano salvando: “Oggi concentrerò le mie osservazioni sull’elefante nella stanza che nessuno vuole vedere: parliamo sempre di vite salvate e di efficacia dei vaccini perché abbiamo voluto credere che i vaccini fossero completamente sicuri, e questo non è vero per niente … il Vaers (il sistema di rilevazione passiva di effetti collaterali, nda) mostra che gli attacchi di cuore si sono verificati 71 volte più spesso a seguito di questi vaccini rispetto a qualsiasi altro vaccino. Più in generale possiamo dire che abbiamo ucciso due persone per salvare una vita”.
   Ora, si tratta indubbiamente di affermazioni molto gravi, che però circolano già da tempo nella comunità scientifica non solo americana. Con una sola differenza rispetto all’Italia: una simile presa di posizione negli States viene discussa, e i suoi sostenitori invitati a partecipare alla Commissione consultiva dell’Fda. Da noi i medici che osano esporsi pubblicamente con dubbi sui vaccini molto meno gravi di questi, vengono sospesi o addirittura radiati. Mentre i medici delle terapie domiciliari stanno aspettando da un anno di essere ricevuti dal ministro Speranza, che ha fatto ricorso al Consiglio di Stato per far confermare il suo assurdo protocollo “Paracetamolo e vigile attesa”, unanimemente stroncato dalla letteratura scientifica internazionale, dai medici sul campo, e in Italia messo fortemente in dubbio anche dal prof. Giuseppe Remuzzi, direttore scientifico dell’Istituto Mario Negri. A proposito del Mario Negri, con un commento che ha fatto molto rumore, il suo presidente, il prof. Silvio Garattini, in una trasmissione televisiva ha dichiarato che al momento l’unico vantaggio della terza dose è per i fatturati delle aziende farmaceutiche.
   Tornando alla riunione della Commissione consultiva della Fda, l’immunologa e biologa Jessica Rose ha osservato che, sulla base dei dati Vaers, “i rischi del vaccino superano i benefici nei giovani, e in particolare nei bambini, a causa di un aumento di mille volte delle reazioni avverse all’iniezione nel 2021 rispetto agli ultimi decenni. C’è un aumento di oltre il 1000% nel numero totale di eventi avversi per il 2021 (nei bambini per i vaccini nel loro complesso) e il 2021 non è ancora finito”, ha detto Rose.
   Chi avesse voglia e tempo, e conosce bene l’inglese, può guardarsi l’intera registrazione di 8 ore dell’evento
   Personalmente suggerirei in primis al ministro della Salute, ai vertici del Cts, ai giornalisti scientifici e a quelli generalisti che scrivono di virus senza adeguato background, ai virologi televisivi e ai conduttori di talk show così fermamente convinti dell’efficacia e sicurezza di questi vaccini, a guardarsi almeno tre volte di fila questo video. Perché ci impongono da mesi l’ascolto del loro disco rotto, che contiene delle vere e proprie falsità: “questi vaccini non sono più sperimentali perché sono già stati sperimentati su due miliardi e mezzo di persone. E sono efficaci e sicuri”. Ma se vengono “sperimentati” significa che sono sperimentali: o no? I documenti ufficiali parlano di autorizzazione condizionata fino alla fine della sperimentazione sul campo prevista per il 2023. Come si può affermare che non sono sperimentali?
   Sulla sicurezza, vedi sopra. Sull’efficacia, la stessa Pfizer ha dichiarato che essa già dopo 4-6 mesi può diminuire fortemente, fino a quasi scomparire dopo 7 o 8 mesi, mentre il green pass dura 12 mesi; ma allora, come la mettiamo? Ad un certo punto diventa una licenza di infettare? Senza dimenticare che oramai è accertato che i vaccinati possono anch’essi ammalarsi e contagiare.
   In particolare, i vertici delle istituzioni della salute dovrebbero mandare a memoria l’appello del dott. Robert Malone, lo scienziato che ha rivestito un ruolo chiave nella scoperta e nella realizzazione dei farmaci a Rna messaggero: “I medici sono sempre più scoraggiati dall’impegnarsi in un discorso professionale aperto e nello scambio di idee su malattie nuove ed emergenti, non solo mettendo in pericolo l’essenza della professione medica, ma soprattutto, più tragicamente, le vite dei pazienti. I medici e le persone di coscienza di tutto il mondo devono agire con una sola voce per fermare il comportamento autoritario diretto verso la professione medica”.
   Naturalmente di tutto questo in Italia i media non ci hanno fatto sapere quasi nulla, o al massimo qualche mezza verità, che è pure peggio. Il che dimostra che nel Belpaese vige un clima sempre più asfissiante, in quanto a una sorta di dogmatismo scientifico spinto più che altro dal marketing dei produttori, si aggiunge il dogmatismo mediatico favorito dai diffusi investimenti in pubbliche relazioni (è un eufemismo) messi in campo sempre dagli stessi produttori. Altro grave problema che riguarda gli onnipresenti virologi è che nessuno chiede mai loro di dichiarare eventuali conflitti di interesse, cosa che un tempo si faceva abitualmente. 
   Il fondo lo si tocca poi con i cosiddetti siti di debunking, che guarda caso molto raramente entrano nel merito, preferendo concentrarsi sulla delegittimazione di chi sostiene tesi ritenute “pericolose”. Nel caso di Kirsch, uno di questi siti si è dilungato nel sostenere che non è affatto un membro dell’Fda. È vero, ma che importanza ha? È stato invitato a presentare le sue tesi alla Commissione consultiva dell’Fda. Pare poco? 
   Mala tempora currunt. Perché il dogmatismo scientifico e mediatico ha convinto pure presidenti del Consiglio e della Repubblica a fare affermazioni talmente improponibili da essere imbarazzanti, oltre che a firmare decreti come quello che adotta o estende il green pass che non hanno decenti basi scientifiche. Nessuno si stupisce del fatto che la certificazione verde, oltre a Francia e Italia, non sia stata introdotta in nessun altro paese civile.
   Intanto, nonostante le dichiarazioni trionfalistiche, le vaccinazioni hanno di fatto cominciato a rallentare (lo dimostra il traguardo da raggiungere spostato sempre più avanti), probabilmente perché la gente comincia a rendersi conto che i vaccini “leaky” (imperfetti) come li ha definiti il presidente della Fondazione Hume, il sociologo Luca Ricolfi, rendono impossibile il raggiungimento di quell’immunità di gregge che sir Andrew Pollard (Head of Oxford Vaccine Group) ritiene semplicemente “un mito”. 
   Mito con cui virologi, conduttori e giornalisti ci hanno riempito i tubi da molto tempo, come se fosse l’unica meta da raggiungere ad ogni costo.
   Ogni giorno sempre più autorevoli personalità del mondo scientifico internazionale esprimono dubbi sia su efficacia e sicurezza, sia sull’interpretazione delle statistiche sui morti. Qualche giorno fa Norman Fenton, matematico britannico, professore di gestione delle informazioni sui rischi presso la Queen Mary, Università di Londra, e, Martin Neil, docente in Informatica e Statistica presso la stessa Università, hanno affermato che i dati del governo del Regno Unito non supportano le affermazioni fatte riguardo all’efficacia e alla sicurezza del vaccino. E che facendo e rifacendo i calcoli, il tasso di mortalità risulta attualmente più alto tra i vaccinati rispetto ai non vaccinati, come sta succedendo anche in Israele.
   C’è anche il fatto che sempre più medici, sia pure sottovoce, parlano di crescenti effetti collaterali non ufficialmente dichiarati per il troppo lavoro burocratico ad essi correlato e per una assai sgradevole “moral dissuasion”.
   In tutta questa faccenda, è sempre più vero ciò che disse l’eroe di Chernobyl Valerij Alekseevič Legasov: “Ogni volta che si dice una menzogna, si contrae un debito con la verità. Prima o poi quel debito va saldato”.

(ilsussidiario.net, 1 ottobre 2021)


L'aspetto più evidente dell'asfissiante campagna di spinta alla vaccinazione universale è proprio la menzogna. Una menzogna presente in tutte le gradazioni, dalla più sfacciata alla più sfumata, ma soprattutto estesa, tenace, martellante, al punto da indurti a credere che se la metti in dubbio sei uno fuori di testa. E in qualche modo te lo suggeriscono. C'è qualcosa di diabolico in questo clima. Il primo obiettivo ad essere preso di mira è la mente. La Scrittura invita a rimanere attenti "affinché non siamo raggirati da Satana, perché non ignoriamo le sue macchinazioni" (2 Corinzi, 2:11). M.C.


Il ministro degli Esteri israeliano Lapid in Bahrain per inaugurare l'ambasciata

Dopo la firma degli Accordi di Abramo lo scorso anno. La compagnia Gulf Air inuagura il volo diretto tra Manama e Tel Aviv. Nei dintorni della capitale proteste e copertoni bruciati: "No ai sionisti".

di Sharon Nizza

GERUSALEMME - Dopo gli Emirati Arabi Uniti e il Marocco, oggi è il Bahrein a ospitare per la prima volta una visita ufficiale di un membro di governo israeliano, a un anno dalla firma degli Accordi di Abramo che hanno segnato la normalizzazione delle relazioni tra questi Paesi Arabi e lo Stato ebraico. Il ministro degli Esteri Yair Lapid è atterrato oggi a Manama per una fitta agenda di incontri nel corso di un’unica giornata. Lapid è stato ricevuto dall’omologo Abdullatif bin Rashid Al Zayani e ha incontrato il reggente del Regno del Bahrein, Hamad bin Isa Al Khalifa, nonché il principe ereditario e primo ministro Salman bin Hamad Al Khalifa. “Israele e Bahrein hanno tanti aspetti in comune: una storia antica e la capacità di adattarsi alla modernità con tecnologie all’avanguardia. Entrambi abbiamo fatto fiorire la vita nel cuore del deserto”, ha detto Lapid nel suo discorso davanti al monarca, che ha ringraziato per la sua “leadership e visione senza le quali non saremmo qui oggi”. Il piccolo e strategico arcipelago che si affaccia sul Golfo persico, ha aderito nell’agosto 2020 agli Accordi di Abramo, poco dopo l’annuncio fatto dall’allora presidente americano Donald Trump sull’avvio delle relazioni diplomatiche tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti. In agenda per Lapid anche l’inaugurazione dell’Ambasciata israeliana in Bahrein – operativa già da novembre – e un incontro con la comunità ebraica locale con radici centenarie nell’isola: oggi conta solo una quarantina di esponenti, ma dall’avvio relazioni con Israele sta vivendo un significativo revival.
   In parallelo, si è svolta all’aeroporto israeliano Ben Gurion una cerimonia ufficiale per l’inaugurazione della linea aerea diretta tra Manama e Tel Aviv, con il primo volo commerciale della Gulf Air atterrato oggi, che si aggiunge alle nuove rotte che nell’ultimo anno hanno creato nuovi collegamenti da Tel Aviv a Abu Dhabi, Dubai, Casablanca, Marrakesh e Rabat.
   L’arrivo del ministro israeliano ha suscitato alcune proteste a Manama: dei manifestanti hanno dato alle fiamme delle gomme e respinto la nuova alleanza sotto lo slogan “il Bahrein respinge i sionisti”, diventato anche un hashtag su Twitter. “Sono voci marginali che non riflettono l’opinione pubblica”, dice a Repubblica la giornalista Ahdeya Ahmed al-Sayed, già presidente dell’ordine dei giornalisti del Bahrein. “Il dibattito sui social media riflette invece la positività con cui è stata accolta la normalizzazione. È un percorso, ma è evidente da quanto abbiamo potuto vedere nell’ultimo anno che c’è sempre più consapevolezza che non si possa più ignorare la presenza di Israele, un Paese forte di questa regione e un legittimo membro delle Nazioni Unite”. 
   Lapid ha siglato diversi accordi di cooperazione nei settori finanziario, turistico, agricolo. “Abbiamo opportunità in comune, così come minacce congiunte, non lontano da qui”, ha aggiunto il capo della diplomazia israeliana durante l’incontro con il Re Hamad bin Isa Al Khalifa - con un chiaro riferimento al dirimpettaio iraniano dall’altra parte del Golfo. Per Israele – e per l’area intera – il Bahrein ha una rilevanza strategica di primo piano per tutti gli attori in campo. Con una maggioranza della popolazione musulmana sciita, ma la casa reggente sunnita, è visto da Teheran come un Paese ribelle appartenente alla sua orbita, la “quattordicesima provincia”, come spesso vi si riferiscono i Pasdaran iraniani. “Il Bahrein è un altro snodo della battaglia tra estremisti e moderati”, dice a Repubblica Dore Gold, già ambasciatore israeliano all’Onu, presidente del think tank Jerusalem Center for Public Affairs, che di recente ha ospitato in Israele il centro studi Derasat del Bahrein con cui ha avviato una cooperazione accademica. Le mire dell’Iran su Manama sono chiare, spiega Gold, solo nel 2018 è stata sventata una cellula affiliata a Hezbollah che tentava di consolidarsi nel Paese. D’altro canto, dal 1995, Manama ospita il quartier generale della Quinta Flotta della marina militare Usa, che ha competenze strategiche che spaziano dall’Oceano indiano al Corno d’Africa, passando per l’intera arena mediorientale. Uno dei risultati più significativi degli Accordi di Abramo è stata l’inclusione d’Israele nell’area di competenza del CentCom, il comando centrale dell’esercito statunitense che opera dall’Egitto all’Afghanistan e di cui Manama costituisce una base di primo piano, soprattutto nella difesa delle rotte marittime che negli ultimi mesi sono state protagoniste di numerosi sabotaggi, uno dei fronti della guerra delle ombre tra Israele e Iran.
   “Il ritiro degli Usa dall’Afghanistan e il progressivo abbandono del Medioriente avranno conseguenze critiche per l’area”, continua Gold. “Ci sono voci negli Stati Uniti che chiedono il ritiro anche dal Bahrein e se questo dovesse accadere, sarebbe un regalo per le mire espansionistiche dell’Iran”.
   Anche rispetto all’opposizione al rientro degli Stati Uniti nell’accordo sul nucleare iraniano Jcpoa Israele e Bahrein sono in sintonia, così come gli altri Paesi del Golfo. “Il Gcc (Consiglio di cooperazione del Golfo, ndr) ha espresso agli Usa la propria preoccupazione per il fatto che allo stato attuale il Jcpoa non faccia riferimento al programma balistico iraniano o altre condotte maligne nella regione”, ha detto al Jerusalem Post il sottosegretario agli Esteri del Bahrein, Abdullah bin Ahmed Al Khalifa, durante la sua missione in Israele ad agosto. “L’Iran ha superato tutte le linee rosse”, ha detto lunedì il premier israeliano Naftali Bennett nella sua prima apparizione di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. “Le parole non fermano le centrifughe. Israele non permetterà all’Iran di acquisire l’arma nucleare”.  Fino a dove si spinge l’alleanza di Israele con i nuovi partner regionali è una domanda che rimane ancora aperta.

(la Repubblica, 1 ottobre 2021)


Ad 80 anni dal massacro di Babi Yar riemergono le immagini sconvolgenti

di Michelle Zarfati

Una serie di scatti inediti è riemersa prima dell'80° anniversario del massacro di Babi Yar. Immagini forti, che mostrano i primi sforzi degli attivisti negli anni '60 di identificare ossa e resti umani nel sito in cui quasi 35.000 ebrei furono assassinati in soli due giorni.
  Tra il 29 e il 30 settembre 1941, i nazisti e i loro collaboratori uccisero decine di migliaia di ebrei nel burrone di Babi Yar, appena fuori Kiev. Nonostante l’evento rappresenti uno dei più grandi massacri della Shoah, il sito e la vicenda storica sono stati in gran parte ignorati per decenni. Durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale, più di 100.000 persone furono infine uccise nella fossa.
  Nel 1966, nel 25° anniversario del massacro, un gruppo di attivisti iniziò a lavorare per identificare le decine di migliaia di resti umani lasciati a Babi Yar, e per commemorare ufficialmente tutti coloro che furono uccisi lì. Spiega in una nota la Biblioteca Nazionale di Israele.
  Gli sforzi di quei primi attivisti sono stati documentati da Joseph Schneider, un sopravvissuto alla Shoah e dissidente antisovietico. Le fotografie scattate da Schneider nel 1966 sono state trovate nell'Archivio Emmanuel (Amik) Diamant. Il materiale è stato a sua volta consegnato all'Archivio centrale della Biblioteca Nazionale di Israele e le foto sono così state pubblicate ora per la prima volta.
  Negli ultimi decenni, gli attivisti hanno lavorato per portare in primo piano la storia di Babi Yar e per stabilire un ampio ed educativo centro commemorativo nel sito. L'ultima iniziativa, chiamata Babi Yar Holocaust Memorial Center, è guidata dal “Refusnik” e dall'ex politico israeliano Natan Sharansky.
  Mercoledì, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha visitato il luogo del massacro di Babi Yar per celebrare il suo 80° anniversario. “La tragedia di Babi Yar non dovrebbe mai ripetersi", ha detto Zelensky - anch’esso ebreo - alla cerimonia di deposizione dei fiori. “Non in Ucraina. Non altrove in Europa. Da nessuna parte nel mondo", ha aggiunto.
  Il presidente Isaac Herzog dovrebbe recarsi a Kiev la prossima settimana, nella sua prima visita di stato da quando è entrato in carica quest'estate, per prendere parte a una cerimonia di commemorazione che segna gli 80 anni dal massacro di quasi 35.000 ebrei
  "È imperativo continuare a parlare di questo orribile evento e impararne le lezioni", ha condiviso Herzog in una dichiarazione martedì- Il Babi Yar Holocaust Memorial Center è un luogo importante per la commemorazione di questo doloroso ricordo e per dimostrare che dobbiamo continuare a lavorare insieme affinché non avvenga mai più”.

(Shalom, 1 ottobre 2021)


Le avventure di Moishe, il pirata ebreo

di Nathan Greppi

Tutti noi, da piccoli, abbiamo sognato almeno una volta di lasciare il luogo dove siamo cresciuti per vivere un’avventura che vada oltre la nostra immaginazione. Oggi magari sogniamo più di andare un giorno nello spazio, mentre secoli fa la massima aspirazione era quella di scoprire terre e mari inesplorati in quello che veniva chiamato il “Nuovo Mondo”. Questo sogno è alla base del romanzo Yiddish for Pirates, scritto dall’autore canadese Gary Barwin e pubblicato nel 2016 dalla Random House.
   La storia è ambientata intorno al 1492; mentre Cristoforo Colombo scopre l’America, la corona spagnola dà inizio alla cacciata e alla persecuzione degli ebrei nei suoi territori. Moishe è un giovane ebreo che un giorno decide di lasciare il suo shtetl nell’Europa orientale per diventare un marinaio; da qui, accompagnato dal vivace pappagallo Aaron, inizierà tutta una serie di avventure che lo porteranno a darsi alla pirateria, a innamorarsi della bella Sarah, e a cercare la leggendaria Fonte della giovinezza.
   La storia è narrata in prima persona proprio da Aaron, il cui racconto mescola un inglese gergale con parole tratte dallo yiddish: lo sentiamo così incitare a dare calci nei beizim (“uova” in ebraico e yiddish, un modo per dire i genitali), gridare oyvey come esclamazione di stupore, o chiamare il suo giovane amico boychik, come vezzeggiativo.
   Sebbene Barwin, nato a Belfast da genitori ashkenaziti e canadese d’adozione, si prenda molte libertà nel narrare il periodo storico in questione, vi è un fondo di verità nel suo racconto: come spiegava nel 2008 il saggio di Edward Kritzler Jewish Pirates of the Caribbean, nei secoli successivi alla cacciata degli ebrei dalla Spagna alcuni di questi, rifugiatisi nei regni musulmani e nelle colonie nel Nuovo Mondo, si diedero alla pirateria attaccando principalmente le navi spagnole, sia per il semplice desiderio di arricchirsi che per difendere la propria libertà. Non a caso, al termine del romanzo Barwin cita il libro di Kritzler tra le opere che lo hanno ispirato.
   Sebbene fuori dal suo paese sia poco conosciuto, in Canada Yiddish for Pirates è stato acclamato dalla critica e ha ricevuto numerosi premi, compreso il Canadian Jewish Book Award per la Narrativa.
    

(Bet Magazine Mosaico, 1 ottobre 2021)


La fuga in taxi (a 96 anni) della ex segretaria nazista 

Amburgo, voleva evitare il processo per complicità nella morte di 11mila persone  In aula ad attenderla anche 50 giornalisti. Arrestata dalla polizia dopo poche ore 

di Flaminia Bussotti 

BERLINO L'ex segretaria di un campo di concentramento nazista, imputata in uno degli ultimi processi sul nazismo in Germania, è stata protagonista di un colpo di scena spettacolare al tribunale regionale di Itzehoe, nello Schleswig-Holstein, vicino Amburgo, dove avrebbe dovuto rispondere ieri dell'accusa di complicità in oltre 11.000 omicidi nel Lager di Stutthof presso Danzica, in Polonia. La donna, Irmgard Furchner, ex dattilografa e segretaria del comando del campo di concentramento, che ha oggi 96 anni, non si è presentata all'udienza ed è fuggita con un taxi in direzione di Amburgo. Qualche ora dopo la polizia l'ha rintracciata e fermata, secondo quanto reso noto dalla portavoce del tribunale, Frederike Milhoffer. In giornata sarebbe stata portata davanti alla sezione penale del tribunale che dovrà decidere se procedere all'arresto o soprassedere data la sua età. Un medico dovrà accertare se le sue condizioni sono compatibili con la detenzione. 

• IL RINVIO 
  Il processo è stato aggiornato al 19 ottobre. «Posso confermare che l'imputata è stata ritrovata, un medico stabilirà se può essere detenuta e la corte deciderà se il mandato di arresto può essere eseguito o le sarà risparmiato», ha detto la portavoce dopo la fuga rocambolesca e il ritrovamento della donna. Ha precisato inoltre che la donna, che vive in una casa per anziani, ha lasciato ieri fra le 06:00 e le 07:20 la sua residenza e ha preso un taxi diretto a una stazione della metropolitana di Norderstedt, alla periferia di Amburgo. Secondo Bild online, verso l'ora di pranzo, la polizia ha visto la donna che camminava lungo la Langenhorner Strasse ad Amburgo, si è insospettita e l'ha fermata. L'imputata deve rispondere dell'accusa di complicità nell'uccisione di oltre 11.000 prigionieri del campo di concentramento di Stutthof. In qualità di segretaria e dattilografa del comando del Lager, fra giugno 1943 e l'aprile 1945, avrebbe fornito aiuto ai responsabili del campo nelle operazioni di eliminazione sistematica dei detenuti. Secondo l'Ufficio Centrale di Ludwigsburg che indaga dall'inizio degli anni '60, con competenza per tutti i Lander, sui crimini nazisti, nel campo di concentramento di Stutthof, negli altri circostanti e nelle cosiddette marce della morte ordinate dai nazisti verso la fine della guerra sono morte circa 65.000 persone. All'inizio della guerra venivano internati a Stutthof civili polacchi. Dal 1942.vi arrivavano anche i trasporti dagli altri territori occupati dai nazisti e dal giugno 1944 dìvenne parte della macchina di stermino della "soluzione finale". 

• LE DONNE EBREE 
  Secondo il memoriale israeliano di Yad Vashem vi venivano deportate in prevalenza donne ebree dai Lager di lavoro nel Baltico e da Auschwitz. Le condizioni di detenzione erano terribili e simili a quelle dei campi di sterminio: i detenuti morivano di malattie, maltrattamenti, ma anche tramite fucilazioni, impiccagioni, camera a gas e iniezioni di fenolo al cuore. Trattandosi di uno degli ultimi a ex responsabili e complici dei crimini nazisti, il processo ha catalizzato molta attenzione di media e opinione pubblica e all'udienza di ieri nell'aula del tribunale ubicato nella sede dell'Industria c'erano oltre 50 fra giornalisti e pubblico, più 12 rappresentanti dei 30 avvocati di parte civile, della difesa, e collaboratori vari. Nel primo giorno del processo sarebbe stata data solo lettura dei capi di accusa. 

• LA CONFERMA 
  La portavoce Milhoffer ha confermato che prima dell'inizio del processo la 96/enne aveva indirizzato al tribunale una lettera in cui annunciava che non si sarebbe presentata in aula. Il giudice competente le aveva risposto informandola delle misure che sarebbero state prese in caso di non comparizione. «Contro una imputata assente non può notoriamente svolgersi un'udienza», ha detto il presidente del collegio dei giudici, Dominik Grofs, una ventina di minuti prima dell'inizio dell'udienza: «L'imputata è fuggita, nei suoi confronti è stato emesso un mandato di arresto». Processo rinviato. L'avvocato della difesa, Wolf Molkentin, era in aula ma non ha rilasciato dichiarazioni.

(Il Messaggero, 1 ottobre 2021)


Green Pass: da domenica 1 milione di israeliani a rischio di perderlo

Green Pass: molti non saranno in grado di accedere a determinati luoghi e raduni pubblici senza un test del virus negativo dopo il cambiamento di politica che richiede una vaccinazione di richiamo sei mesi dopo il secondo vaccino COVID19.

Da domenica, più di un milione di israeliani perderanno il loro Green Pass dopo che un cambiamento di politica ha dettato che è necessario un richiamo del vaccino contro il COVID19 sei mesi dopo aver ricevuto le prime due dosi.
   I dati del Ministero della Salute di lunedì hanno mostrato che a 4.710.716 israeliani sono stati vaccinati con due dosi sei mesi fa, ma solo a 3.243.641 è stata somministrata la dose di richiamo. Anche sottraendo le centinaia di migliaia di contagiati da COVID19 negli ultimi sei mesi, il che significa che non avrebbero bisogno della terza dose di vaccino, il numero di persone che non avranno più un cosiddetto Green Pass rimane superiore a un milione.
   Il Green Pass è valido solo da una settimana dopo aver ricevuto l’ultima dose richiesta e per sei mesi dopo. Il documento, in possesso di coloro che sono vaccinati o guariti dal COVID19, consente l’accesso a molti luoghi ed eventi pubblici, inclusi ristoranti e musei. Un Green Pass temporaneo può essere ottenuto attraverso un test del virus negativo, che deve essere pagato a meno che l’individuo non sia idoneo alla vaccinazione. Separatamente, il ministero ha annunciato questa settimana che i pazienti guariti da COVID19 dovranno ricevere una singola dose di vaccino contro il COVID19 dopo essere stati diagnosticati, al fine di rimanere idonei a ricevere un Green Pass.  Inoltre, a partire dalla prossima domenica, le persone infette dopo aver ricevuto un vaccino manterranno il loro pass solo per altri sei mesi. Quindi, il ministero riesaminerà successivamente, di volta in volta, quei casi.
   Israele, il primo paese a offrire ufficialmente una terza dose, ha iniziato la sua campagna di richiamo COVID19 il 1° agosto, inizialmente estendendola a chi aveva più di 60 anni. Ha poi gradualmente abbassato l’età di ammissibilità, estendendola infine a tutti coloro che hanno un’età superiore ai 12 anni. e su chi ha ricevuto il secondo vaccino almeno cinque mesi fa.
   Dall’ultima riunione del gabinetto del coronavirus, oltre 600 israeliani sono morti di COVID19. Il numero di casi complessivi gravi è leggermente inferiore rispetto a allora, con 760 registrati il 30 agosto, rispetto ai 641 dello scorso lunedì.
   Lunedì, i dati del governo hanno posizionato il tasso di riproduzione di base del virus, che misura la trasmissione, a 0,78. Qualsiasi numero superiore a 1 indica che le infezioni sono in aumento, mentre una cifra inferiore segnala che un focolaio sta diminuendo. Mentre la quarta ondata di infezioni in Israele ha registrato un numero record di casi giornalieri, il numero di pazienti che necessitano di ricovero in ospedale è rimasto inferiore rispetto ai precedenti, che gli esperti attribuiscono agli alti tassi di vaccinazione del paese. Il bilancio delle vittime dall’inizio della pandemia è salito lunedì a 7.684. Settembre è il secondo mese consecutivo in cui Israele ha registrato almeno 500 morti, dopo che agosto ha visto 609 decessi attribuiti al COVID19.

(israel360.com, 28 settembre 2021)


Documentario da Israele : tutti i fantasmi del vaccino. Morti e danneggiati invisibili

Riceviamo oggi per email il link di un sito creato in Israele contenente video di israeliani che in ebraico, con sottotitoli in inglese, raccontano le esperienze che hanno fatto dopo l'inoculazione del vaccino. Naturalmente non è possibile valutare da qui la corrispondenza al vero dei singoli fatti raccontati, né se dietro questa iniziativa ci sia il desiderio di danneggiare lo Stato d'Israele. Non è comunque moralmente lecito cercare di nascondere i fatti. NsI

Una realtà straziante e tenuta nascosta dai principali media e canali di informazione.
Il dramma di persone gravemente danneggiate dopo la somministrazione del vaccino Covid o che hanno perso i loro cari a causa di questa.
Queste persone vengono messe a tacere, nascoste dai media, sono i nuovi fantasmi, un esercito invisibile.
Nasce in Israele, uno dei Paesi maggiormente coinvolti nella campagna vaccinale di massa e dove le libertà personali sono ormai quasi totalmente subordinate all'inoculazione del vaccino, questo progetto: The testimonies project

(Wix.com, 30 settembre 2021)


"Verso il domani": c’è anche il padiglione di Israele

Dopo gli "Accordi di Abramo"

di Benedetta Paravia

DUBAI — Sono tre i grandi ingressi pronti ad accogliere i visitatori dell’Expo di Dubai: "Sostenibilità", "Opportunità" e "Mobilità". Sono le porte con un’architettura di chiaro richiamo alla civiltà islamica che accoglieranno si pensa fino a 25 milioni di visitatori in sei mesi. Ed è proprio nel distretto dell’Opportunità che sorge l’assoluta novità di questa Expo: il Padiglione Israele. Un progetto che si avvera grazie alla partnership di Israele con gli Emirati Arabi Uniti. «Stiamo vivendo la storia: chi avrebbe pensato solo qualche tempo fa che Israele avrebbe potuto partecipare ad un evento universale in un paese arabo », dice Menachem Gantz, portavoce del Padiglione, «e ciò è stato possibile grazie agli Emirati e alla apertura di relazioni diplomatiche fra i nostri due paesi».
   Il padiglione è una tenda aperta, simbolo di ospitalità e crocevia di culture millenarie, in alto si staglia la frase in Aravrit, crasi tra arabo ed ebraico, "Verso il domani". Sul pavimento c’è sabbia, «perché la sabbia, il deserto sono parte del destino comune dei popoli della nostra regione», dice Gantz, «e poco alla volta torneremo a dialogare e a riconoscerci gli uni con gli altri. È la prima volta che un Expo universale viene organizzata in Medio Oriente, ed è la prima volta che Israele partecipa a un evento del genere nel mondo arabo».
   La partecipazione di Israele è la tangibile conseguenza degli "Accordi di Abramo", che hanno segnato la pace tra Israele, gli Emirati, Bahrain e più tardi Marocco. Un’intesa che ha aperto le porte a nuovi scenari geopolitici e nuove strategiche alleanze in Medio Oriente. Gli accordi vennero firmati dal ministro degli Esteri degli Emirati Abdullah bin Zayed Al Nahyan, dal ministro degli Esteri del Bahrain Abdullatif bin Rashid Al Zayani, dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump il 15 settembre 2020, alla Casa Bianca a Washington. La notizia fece in breve il giro del mondo e lasciò sorpresi molti conservatori ed integralisti. Ma il "domani" non può essere fermato.

(la Repubblica, 30 settembre 2021)


Israele e il nuovo governo: Bennett alla prova del fuoco

Quella di Naftali Bennett è una premiership all’insegna del pragmatismo, che punta sulla strategia del “fare squadra”, molto diversa da quella accentratrice di Bibi Netanyahu. Benny Gantz e Yair Lapid lo affiancano negli impegni diplomatici internazionali.

di Avi Shalom

A meno di 50 anni, Naftali Bennett si trova per circostanze fortuite – dovute a sorprendenti sommovimenti nella politica interna – a ricoprire la carica di Primo ministro di Israele. Guida un partito (Yemina) forte di soli sei deputati sui 120 della Knesset. La sua coalizione è composta da otto liste politiche: di destra, di centro e di sinistra, fra cui quella del Movimento islamico. Ma anche così la sua maggioranza in Parlamento, nei giorni favorevoli, è di 61 deputati. Per completare i quattro anni di legislatura dovrà non solo beneficiare di una dose notevole di fortuna, ma anche dimostrare grande maestria.
   Dalla sua parte c’è una biografia di tutto rispetto: dagli studi a San Francisco alla guida di una unità di elite nell’esercito israeliano, da una avventura nel mondo del High tech che gli ha fruttato 145 milioni di dollari, alla guida idealista del movimento dei coloni. Poi ancora l’apprendistato nell’ufficio di Netanyahu, la conquista dell’invecchiato Partito-Nazional religioso e la sua trasformazione in una forza politica militante e ambiziosa. Quindi incarichi di Ministro dell’Istruzione e poi Ministro della Difesa. Ed infine, in prima linea nella lotta al Covid, con la pubblicazione di una sorta di “manuale” sul contenimento della pandemia.
   Ciononostante, per lui gli inizi sono stati tutti in salita: perché il suo predecessore Benyamin Netanyahu ha cercato di mettergli i bastoni fra le ruote (fra cui una marcia di ebrei nazionalisti a Gerusalemme est e un avamposto illegale in Cisgiordania), nella speranza di vederlo cadere al più presto, e perché i nemici di Israele hanno approfittato della sua inesperienza internazionale per lanciare continui attacchi da Gaza, dal Libano, in Cisgiordania. Inoltre navi israeliane si sono trovate sotto attacco in acque internazionali, su iniziativa dell’Iran. Bennett, insomma, non ha certo beneficiato dei tradizionali cento giorni di grazia. Nemmeno di una misera manciata di giorni per ambientarsi.
   Dalla metà di giugno, da quando è entrato in carica, non ha avuto un solo momento di respiro. Le crisi si sono presentate sul suo tavolo in rapida successione, i momenti di soddisfazione sono stati molto rari. Eppure Bennett ostenta una calma interiore. è il primo ebreo osservante a essere diventato Premier di Israele: ricarica le batterie nei week-end che trascorre lontano dai media e dalla rissa politica, assieme alla moglie e ai quattro figli, nella casa privata di Raanana. Per il momento non ha alcuna intenzione di trasferirsi nella residenza ufficiale dei Premier d’Israele, nella celebre Rehov Balfour di Gerusalemme, in quello che era diventato il simbolo del potere della famiglia Netanyahu.
   Costretto a continui compromessi con i compagni di strada della coalizione, in questi mesi Bennett ha perso buona parte del sostegno della lista di destra-religiosa Yemina. Sulla carta, sembrerebbe un colpo severo alle sue ambizioni politiche. In realtà è la liberazione da una “zavorra” di impegni elettorali divenuti nel frattempo ingombranti. «Per lui un vero miracolo», sostiene l’analista politico di Maariv Ben Caspit. Era già accaduto, all’inizio degli anni Duemila, ad Ariel Sharon con la spaccatura del Likud, il ritiro da Gaza e la formazione del partito centrista Kadima. Finalmente – prosegue Caspit – Sharon era libero di fare quello di cui il Paese aveva bisogno senza dover rispondere ai quadri di partito. Ma per Sharon quell’interludio durò poco, perché fu stroncato da un ictus. Bennett conta di mantenere una linea fondamentale di pragmatismo per almeno i prossimi due anni, nella fiducia di sapersi costruire, gradualmente, consensi sempre maggiori. Al suo fianco ha il leader centrista Yair Lapid, Ministro degli Esteri e fra due anni Premier “alternato”. Per il momento il binomio ha funzionato, senza scricchiolare.
   Da luglio, molto attivamente assiste ai loro sforzi, dall’esterno, anche il nuovo Capo di Stato Isaac Herzog, ex leader del Partito Laburista.
   Sul piano internazionale il nuovo governo ha agito a tutto campo. Bennett – in piena crisi afghana – è stato ricevuto a Washington con grandi onori dal presidente Joe Biden. È stato accolto ad Amman da re Abdallah (che di fatto aveva troncato i rapporti con Netanyahu) e nel Sinai dal presidente Abdel Fatah al-Sisi (prima visita pubblica di un premier israeliano in terra egiziana dal 2011). Il suo Ministro della Difesa, Benny Gantz, ha intanto riattivato il dialogo e la cooperazione di sicurezza con Abu Mazen e con l’Autorità Nazionale Palestinese. Lapid ha compiuto visite ufficiali negli Emirati e in Marocco, oltre che in Russia e alla Nato. Ovunque il nuovo governo ha raccolto espressioni preliminari di fiducia.
   Sui contenuti tuttavia non c’è grande divergenza dalla politica di Netanyahu: Israele continua a opporsi alla formula dei due Stati e continua a sostenere il massiccio progetto di insediamento ebraico in Cisgiordania. Ai palestinesi non offre prospettive d’indipendenza, ma prospetta investimenti economici (anche internazionali) e un miglioramento delle condizioni di vita a Gaza e in Cisgiordania.

• La Questione Iraniana
 In primo piano – per Bennett come per Netanyahu – è la questione Iran. Teheran ha compiuto sensibili progressi nei suoi programmi nucleari e fra breve potrebbe disporre della quantità di uranio arricchito necessaria alla confezione di una prima atomica. Prosegue inoltre la sua sistematica penetrazione fra i vicini di Israele (fra cui Siria, Libano, Gaza) e il suo sostegno alla produzione di missili precisi con cui tenere sotto costante minaccia le retrovie di Israele. Da Biden, Bennett ha ottenuto l’impegno che gli Stati Uniti non consentiranno all’Iran di dotarsi di un’atomica, ma ancora le posizioni dei due Paesi non sono identiche. Israele vorrebbe vedere negli Usa una chiara disponibilità al ricorso alla forza, in caso di necessità. Ma finora Bennett non l’ha ricevuta. Anche con Hamas a Gaza Bennett prosegue di fatto la politica di Netanyahu. Si sintetizza nella formula: “La calma in cambio della calma”. E se da Gaza partono razzi, nelle ore successive l’aviazione di Israele colpisce postazioni deserte di Hamas.
   Nei mesi passati i maggiori successi (peraltro parziali) registrati dal governo Bennett si sono avuti nella programmazione economica (affidata a Avigdor Lieberman) e nella lotta al Covid (sotto la direzione del Ministro di sinistra Nitzan Horowitz). Negli ultimi tre anni, per ragioni di convenienza politica di breve termine, Netanyahu si era astenuto dal far votare alla Knesset la Legge Finanziaria, ossia il bilancio per l’anno venturo. I ministeri hanno dovuto barcamenarsi con bilanci definiti nel 2018 e da allora rinnovati ad hoc, anno per anno, anche di fronte a una situazione economica molto alterata dalle profonde conseguenze del Covid sul mercato. La finanziaria per gli anni 2021-22 è stato il primo obiettivo che Bennett ha scelto per il suo governo ed è riuscito a raggiungerlo, almeno in prima lettura. Il voto definitivo sarà a novembre.
   Il secondo fronte su cui il governo ha agito con grande determinazione è stato la lotta al Covid. A luglio, fra molte titubanze degli stessi esperti di sanità, Bennett ha deciso che Israele sarebbe stato il primo Paese al mondo nella somministrazione di massa della terza dose di vaccino Pfizer, in quanto in 5-6 mesi l’effetto delle prime due si era molto affievolito. La campagna ha avuto un successo insperato: in un mese e mezzo quasi tre milioni di israeliani di età superiore ai 12 anni si sono immunizzati. Ma nel frattempo, nel Paese dilagava la aggressiva variante Delta, con tassi di contagio fino al 7-8 per cento al giorno. La distribuzione massiccia della terza dose è servita ad assorbire in parte e ad allentare la pandemia. Ma anche così nel mese di agosto si sono avuti quasi 1000 decessi. Gli appelli martellanti di Bennett a due milioni di israeliani non vaccinati di andare a ricevere le loro iniezioni sono rimasti inascoltati. Ma in diversi Paesi “l’esperimento Israele” sulla terza dose è stato un punto di riferimento importante per le decisioni nazionali da adottare.
   Sul piano interno, infine, l’effetto del governo Bennett-Lapid si è fatto sentire nettamente nelle reti sociali e nei media. Il tono costantemente aggressivo mantenuto da Netanyahu e dai suoi collaboratori contro chiunque dissentisse dalla sua linea (fossero essi singoli o istituzioni) è stato sostituito da Bennett con messaggi dai toni concilianti. A differenza di Netanyahu (che amava presentarsi come l’artefice unico di ogni successo), Bennett appare invece come uomo di squadra e non esita a elargire complimenti, nel caso, ad altri membri del governo. La sensazione maturata fra molti israeliani è dunque che Bennett stia radicalmente invertendo la marcia intrapresa da Netanyahu verso una premiership accentratrice e autoritaria. Se così fosse, sarebbe forse questo l’aspetto più significativo del governo Bennett-Lapid.

(Bet Magazine Mosaico, 30 settembre 2021)


Da “Shtisel” a “I nostri fantasmi” – l’attrice Hadas Yaron si racconta

di Nicola Roumeliotis

Arriva nelle sale, dopo la presentazione all’ultimo festival di Venezia, il film di Alessandro Capitani “I nostri fantasmi”. E su Netflix potete trovare la terza stagione di “Shtisel”, serie israeliana di grande successo. Denominatore comune? La presenza dell’attrice Hadas Yaron. La Yaron non è nuova nei contesti cinematografici del nostro paese. Già nel 2012 aveva vinto la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile con lo straordinario “La sposa promessa” della regista israeliana Rama Burshtein. Ha fatto parte della giuria al Torino Film Festival e proprio in quel contest ha vinto anche un premio per il suo film “Felix et Meira”. E dopo l’internazionale “Maria Maddalena” dell’australiano Garth Davis, ecco ben quattro titoli tutti italiani, tra cui il film di Capitani è l’ultimo in ordine cronologico. Di tutto questo e di molto Shalom ha parlato (via zoom) con la giovane attrice israeliana. In un italiano, ormai, diremmo perfetto.

- Hadas, ci racconta come è iniziata questa sua avventura italiana?
  In un modo strano. Dopo che ho vinto la Coppa Volpi a Venezia mi ha scritto un’attrice israeliana, un’amica, che mi ha detto “Devi imparare l’italiano e devi  lasciare Israele alle spalle. Qui succede poco, anzi niente. Non ci sono soldi per il cinema e devi approfittare di questo Premio e cercare di crescere altrove!”. Io non sapevo cosa pensare ma quando un anno dopo mi ha scritto Gianni Zanasi per propormi una parte nel suo film “La felicità è un sistema complesso” ho capito che cosa dovevo fare!

- Cosa?
  Beh, mi sono applicata. Ho imparato la lingua ed ho cominciato a leggere in italiano. Devo dire che il mio rapporto con l’Italia è come una storia d’amore. Ogni volta che vengo qui respiro un’aria familiare. Mi trovo benissimo.

- Ma anche se in Israele non succede niente (o quasi) da un punto di vista cinematografico come ha detto la sua amica attrice, “La sposa promessa” è un film bellissimo ed ha avuto un grande successo un po’ ovunque.
  Certo. Quel film è un film speciale, e non solo per me. Ma se devo essere sincera la situazione dell’industria cinematografica israeliana non è tra le migliori. Il paese è piccolo, i soldi non sono tanti e anche se le opportunità non mancano non ti permettono di vivere in modo soddisfacente. In altre parole, non c’è tanto futuro.

- Eppure la terza stagione della serie “Shtisel”su Netflix, e una sfilza di altre serie tv israeliane che hanno avuto dei remake internazionali, più o meno di successo, raccontano un’ altra storia.
  “Shtisel” racconta da un punto di vista non politico ma quotidiano una comunità ebraica ortodossa, ed è molto innovativo. Ci sono situazioni piene di ironia, dove di solito troviamo anche tristezza e conflitti, e personaggi ben approfonditi. Personaggi con cui, nonostante la loro rigidità, è difficile non riconoscerci. Tra me e il protagonista Akiva, interpretato da Michael Aloni, si è instaurato un bellissimo rapporto. C’erano molte scene di tensione ma dopo tutto dalla tensione nasce la verità. È Libbi, il mio personaggio, che lo spinge a continuare la sua arte. Un’esperienza molto bella attraverso cui ho scoperto quanto l’intolleranza sia pericolosa e nociva.

- Allora per lei “Shtisel” è stato, è, fondamentale….
  È stato grandioso. La gente ha cominciato a riconoscermi per strada. Libbi, il mio carattere, questa giovane ebrea ortodossa, è diventato quasi un simbolo per molte donne ebree. E’  la cosa più strana, e allo stesso momento meravigliosa, che mi sia successa!

- Ma il suo personaggio non c'è in questa terza stagione ….
  No, no, c'è, anche se in una maniera un po’ particolare! (ride)

- Tornando per un momento al “suo” film “I nostri fantasmi” di Alessandro Capitani, che cosa l'ha convinto a prenderne parte?
  Quando ho letto la sceneggiatura ho subito pensato “Macché, mi hanno mandato un horror?”. Ma poi è stato questo mix singolare tra realismo e fantastico che mi ha convinto che fosse qualcosa di diverso.  Il mio personaggio non doveva essere una israeliana ma poi il regista lo ha adattato per me!

- Grazie!
  È stato un piacere….

(Shalom, 30 settembre 2021)


Cresce il fronte dei lavoratori contro il pass

Grande soddisfazione del gruppo «CoScienze critiche» per l’adesione dei prof: «Faremo sentire ancora la voce a difesa dei principi costituzionali» Il fermento è in tutto il mondo accademico. Gli studenti di Venezia, Firenze e Bergamo contrari al foglio verde si sono mobilitati scrivendo ai rettori

di Mauro Bazzucchi

Anche i portuali di Trieste si oppongono all'obbligo di certificato, chiedono test gratuiti e sono pronti allo sciopero dal 15 ottobre. Intanto, l'appello dei docenti universitari anti discriminazioni ha raggiunto il migliaio di firme. Proteste pure tra i camionisti.
   Più l'ora x dell'obbligo generalizzato del green pass si avvicina, più la protesta contro questa misura monta e assume contorni che solo uno sprovveduto o un tendenzioso potrebbe definire folkloristici.
   Come è noto, dal 15 ottobre dovranno esibire la certificazione anche i lavoratori del settore pubblico e privato, che si aggiungeranno alle categorie per cui l'obbligo è già cosa fatta, come ad esempio quanti sono impiegati nei settori sanitario e scolastico. Ma è proprio da quest'ultimo ambito, e più precisamente dal mondo universitario, che continua ad arrivare la spinta più autorevole e più significativa (anche in termini di impatto sull'opinione pubblica) contro le nuove norme e l'obbligo surrettizio di vaccinazione.
   Se infatti l'appello di un gran numero di docenti universitari e intellettuali, tra i quali spiccava il «mostro sacro» Alessandro Barbero, storico e divulgatore tra i più cari all'intellighenzia di sinistra, non a caso uscita letteralmente sconvolta e stizzita da questa presa di posizione, aveva colto nel segno, l'impatto di tale appello è andato anche oltre.
   Sono arrivate infatti a 1.000 le firme dei sottoscrittori del documento, che insiste sia sulla illegittimità delle nuove norme, sia sul regime di discriminazione che hanno introdotto in un ambiente che per vocazione dovrebbe essere inclusivo fino alla fine, evitando ogni possibilità di discriminazione all'accesso. Un risultato riguardevole, se si considera il clima da «caccia alle streghe» per i critici dell'obbligo e il fatto che l'appello abbia fatto proseliti in un contesto che inizialmente veniva dato come impermeabile a questo tipo di argomenti.
   E invece, la cosa è andata oltre le aspettative più rosee, come rivendicato dai promotori, che sono tornati sulla questione ribadendo di voler «lanciare un chiaro segnale al governo e all'opinione pubblica: basta divisioni, basta dibattito inquinato». «Si torni - hanno aggiunto gli accademici autori del documento - a norme sensate e a guardare all'estero, dove in nessun altro paese democratico per studiare e lavorare si deve presentare un pass sanitario i cui limiti sono evidenti a tutti. Esso comporta rischi e discriminazioni intollerabili e gravissime, che già molti dei nostri studenti, colleghi e personale tecnico stanno vivendo sulla propria pelle .. Non è questione di vaccino o non vaccino - hanno proseguito - le misure che oggi colpiscono chi ha deciso in piena libertà e coscienza di non vaccinarsi, domani colpiranno chi ha già completato il ciclo vaccinale. Occorre - concludono - subito cancellare il green pass: ne va della nostra libertà presente e futura».
   Grande la soddisfazione anche dal gruppo universitari «CoScienze critiche», che nei mesi scorsi avevano sottolineato più volte - anche sul nostro giornale - le sofferenze costituzionali della nuova normativa: «Continueremo a far sentire la nostra voce - hanno affermato in un duro comunicato stampa - contro l'inaccettabile strumento ideologico del green pass, che non ha alcun fondamento scientifico, mentre è moralmente e socialmente dannoso, tanto più che ora viene esteso a nuove categorie di cittadini».
   «Uno strumento - viene definito il green pass - vessatorio contrario ai principi stessi della scienza e della conoscenza, principi che le nostre istituzioni dovrebbero promuovere e difendere invece che mortificare, sanciti nella Costituzione italiana e nei Trattati e Carte di valore internazionale».
   Le iniziative contro l'obbligo del green pass non sono giunte solo dagli Accademici: nelle scorse settimane molti sono stati gli studenti che hanno contestato la misura e hanno chiesto a presidi o rettori di non accettarla supinamente. In particolare. a Firenze, con una lettera aperta gli «studenti uniti contro il green pass» hanno chiesto alla rettrice di non applicare le norme entrate in vigore a metà settembre, per non rendersi «complice della prevaricazione dell'etica e del declino della civiltà». Anche dagli studenti bergamaschi e veneziani sono state firmate missive simili indirizzate ai rettori.
   Al di fuori dell'ambiente scolastico e universitario spicca quanto accaduto a Trieste, dove i lavoratori portuali, al termine di un'accesa assemblea, hanno espresso la propria netta contrarietà all'obbligo del green pass per poter lavorare. Non solo: per far pesare il proprio punto di vista, i lavoratori del capoluogo giuliano hanno aderito al corteo di protesta previsto per domani e, come estrema ratio, valutano di indire il blocco del lavoro.
   Una misura che fa il paio con quello che avevano deciso alcuni gruppi di camionisti contrari al green pass, che però non hanno potuto contare sull'appoggio dei sindacati di categoria, a differenza di quanto accaduto nell'assemblea di Trieste. Tutto lascia pensare, però, che la protesta di lunedì scorso sia solamente il preludio a quanto potrebbe accadere a partire dal 15 ottobre.

(La Verità, 30 settembre 2021)


Il processo alla verità

Intervista a Georges Bensoussan, il grande storico trascinato in tribunale per aver detto che l’antisemitismo permea i “Territori perduti della Repubblica”. “Instaurato un clima di paura e censura”.

"In Francia gran parte della vita intellettuale si riduce a rintracciare gli 'scivoloni' degli avversari" "In 500 quartieri una popolazione di cinque milioni di persone subisce oggi la pressione islamista"
"Dopo le stragi del 2015 abbiamo detto: 'Non avrete il nostro odio'. Ma questa debolezza incita al jihad" "La Francia è sconvolta da uno shock demografico le cui conseguenze politiche supereranno la Rivoluzione"

di Giulio Meotti

La vita di Georges Bensoussan cambia il 10 ottobre 2015. Il celebre storico francese, direttore editoriale del Mémorial de la Shoah di Parigi e fra i massimi studiosi di antisemitismo e medio oriente (i suoi libri sono pubblicati in Italia da Einaudi), è ospite della trasmissione radiofonica Répliques, su France 2. Si parla di fallimento dell’integrazione nelle periferie francesi, su cui Bensoussan ha curato il famoso libro Les Territoires perdus de la République: “Non ci sarà alcuna integrazione fino a quando non ci saremo liberati di questo antisemitismo atavico”, dice Bensoussan. “Il sociologo algerino Smaïn Laacher, con grande coraggio, ha detto che nelle famiglie arabe in Francia è risaputo – ma nessuno vuole dirlo – che l’antisemitismo arriva con il latte materno”. La vita e la carriera di Bensoussan subiscono una traumatica battuta d’arresto.
  Saranno anni di tormento. Il Movimento contro il razzismo e per l’amicizia fra i popoli, che aveva già fatto processare Oriana Fallaci per La rabbia e l’orgoglio, annuncia che trascinerà Bensoussan in tribunale per “istigazione all’odio”. Sarebbe nato anche un libro attorno al suo caso, Autopsie d’un déni d’antisémitisme, con le testimonianze di storici come Pierre Nora e scrittori come Boualem Sansal. Il Memoriale, che non lo ha mai difeso in due anni, gli ha dato poche ore per liberare l’ufficio. “Mi hanno trattato come un delinquente”. Al primo piano del Palais de Justice a Parigi, fra gli accusatori dello storico c’è anche la Lega dei diritti dell’uomo, creata nel 1898 per difendere il capitano ebreo ingiustamente accusato di tradimento Dreyfus. L’avvocato Noëlle Lenoir, ex giudice costituzionale, dichiara: “Esprimo la mia ribellione e la mia costernazione nello scoprire che nella Francia del XXI secolo un intellettuale può essere portato davanti a un tribunale penale per una citazione sociologica. Questo processo è un altro passo in una strategia di intimidazione rivolta a tutti coloro che denunciano l’ascesa più allarmante di una nuova forma di antisemitismo in Francia e di orribili crimini commessi nel suo nome”. Di fronte al giudice c’è anche il Collettivo contro l’islamofobia, emanazione della Fratellanza musulmana.
  A distanza di quattro anni dalla fine dei processi, Bensoussan ripercorre la vicenda in un libro, Un exil français. Un historien face à la justice (L’Artilleur). Per riparare a un’ingiustizia? “Riparare un’ingiustizia? Ciò che è fatto è fatto”, dice Bensoussan al Foglio. “Volevo capire come si poteva mettere in atto una procedura così lunga, quasi quattro anni, e tre gradi di giudizio, che hanno tutti confermato la sconfitta dei miei avversari. E sulla base di cosa? Da una frase estrapolata dal contesto, quella di un programma radiofonico, un dibattito in cui ho citato un sociologo francese di origine algerina che ha detto la stessa cosa ma usando una metafora diversa. A proposito dell’antisemitismo familiare nelle famiglie arabe lui parlava dell’‘aria che respiriamo’ mentre io del ‘latte materno’. In entrambi i casi, la metafora si riferiva all’impregnazione culturale attraverso l’educazione, non alla trasmissione attraverso il sangue. Tuttavia, i miei accusatori, e per un certo periodo almeno lo stesso sociologo, hanno trasformato il latte in sangue al solo scopo di stabilire l’accusa di razzismo. Da quel momento, parte una denuncia sotto forma di petizione, poiché in Francia, oggi, gran parte della vita intellettuale si riduce, per alcuni, a rintracciare gli ‘scivoloni’ dei loro avversari, contribuendo così all’installazione di un clima di paura e autocensura. Il mio processo per il reato di opinione è stato reso possibile dalle leggi che hanno creato il reato di ‘incitamento all’odio razziale’. Io denuncio l’antisemitismo di una parte dell’immigrazione magrebina, quindi sono accusato di razzismo contro questa stessa immigrazione. Se denunciare un pericolo è un ‘incitamento all’odio’, nessun avvertimento è possibile. Paradossalmente, l’aggressore si troverà confortato nella sua stessa violenza. Originariamente destinata a proteggere le vittime, la legge diventa lo scudo dei colpevoli che possono affermare di essere vittime di ‘incitamento all’odio’”.
  Parlando di esilio, ha mai pensato di trasferirsi in Israele, come molti altri ebrei francesi? “Nel gennaio 2017, alla fine del processo, ho parlato del sentimento di esilio che ho provato dopo aver sentito le sciocchezze delle parti civili, impantanate nella malafede o, nel caso di alcuni, nella stupidità. Sì, ero tentato di andare in esilio nonostante il mio attaccamento carnale alla Francia. Dal 2000, quasi 60 mila ebrei hanno lasciato la Francia per Israele e altri per il Canada, gli Stati Uniti e altrove. L’antisemitismo in Francia è diventato un luogo comune. Quelli che erano percepiti quasi venti anni fa come preoccupanti segni clinici, al momento della pubblicazione dei Territoires perdus de la République sono diventati un ‘antisemitismo atmosferico’, soprattutto in quei quartieri difficili (500, ci dicono), dove la legge repubblicana non significa più molto. Come minimo, una popolazione di cinque milioni di persone, la prima a subire la spinta islamista e l’iper-violenza dei banditi. La ragione profonda di questa deriva antisemita in un paese dove l’antisemitismo tendeva a regredire dalla Seconda guerra mondiale è dovuta essenzialmente a due fenomeni. Da un lato, una crisi politica che mostra una società senza presa sul suo destino e che si sente espropriata del suo futuro. Una democrazia che si è spezzata, dove le elezioni sono segnate da tassi di astensione record. Una democrazia in cui gran parte delle decisioni sono prese da organismi tecnocratici non eletti e che influiranno sulla vita di milioni di persone, ma probabilmente non sui decisori che sono pochi, immagino, a vivere in queste città difficili dove tanti abitanti sono agli arresti domiciliari per mancanza di mezzi finanziari per lasciarle. Parte della classe politica, così come la parte più rilevante dei media, ignorano ciò che vive questa gente comune, che abbiamo visto uscire dal silenzio nel novembre 2018 con i gilet gialli. E’ su questa muta disperazione che prospera il pensiero cospirativo, che porta inevitabilmente all’incriminazione della figura dell’‘ebreo’ demonizzata per tanto tempo dalla cultura occidentale. Nelle società che non vedono più alcun futuro per se stesse, abitate dalla sensazione che la loro civiltà stia affondando, le menti poco allenate alla razionalità cominciano a cercare i colpevoli”.
  La seconda ragione è il cambiamento demografico che la Francia ha subìto negli ultimi cinquant’anni. “Se l’immigrazione africana rappresenta oggi più della metà dell’immigrazione legale (tra 200 mila e 240 mila persone ogni anno), gran parte di questo flusso proviene dal Maghreb, da paesi che sono ormai senza ebrei, nonostante i tremila che vivono ancora in Marocco e meno di mille in Tunisia (mentre alla fine della Seconda guerra mondiale, il Maghreb aveva quasi 500 mila ebrei). L’antigiudaismo era presente nella cultura popolare prima della comparsa del movimento sionista. Nel migliore dei casi il disprezzo, nel peggiore la violenza, erano spesso la sorte comune di questi ebrei nordafricani, specialmente dei più poveri. I numerosi immigrati maghrebini portarono in Francia questa cultura del disprezzo, che a volte si trasformò in cultura dell’odio quando l’antigiudaismo tradizionale fu aggravato dallo shock dell’immigrazione e dell’acculturazione nonché dalle sfide che la modernità lanciava a un mondo tradizionale in rovina. Lo scontro tra due civiltà ha portato alcuni di questi immigrati a rifiutare il mondo occidentale. Questo rifiuto era spesso accompagnato da una reislamizzazione, sinonimo di un’esacerbazione dell’antigiudaismo tradizionale. Gli ebrei sono stati resi responsabili delle difficoltà di integrazione in Francia, a volte visti come un ostacolo all’integrazione. E’ la convergenza tra una crisi politica e la sfida migratoria”.
  Cosa è cambiato sul terreno da quando hai scritto sui “territori perduti della Repubblica”? Gli islamisti stanno vincendo in molte aree? Scuole, periferie, proliferazione di moschee… “Gli islamisti stanno effettivamente guadagnando territorio per ragioni principalmente (ma non solo) demografiche. Se prima la Francia poteva integrare piccoli numeri di una popolazione straniera con la quale il divario culturale era immenso, ora non può più farlo visto che si tratta di milioni di persone provenienti da un mondo governato dall’islam, che non ha una storia di minoranze. Nel 1965, la Francia aveva cinque moschee, oggi ne ha più di 2.500. A questo si aggiunge il caso particolare dell’immigrazione algerina, spesso caratterizzata da un potente risentimento contro la Francia, ma mescolato all’ammirazione e in equilibrio tra il desiderio di integrazione e quello di prenderne le distanze. In una società scristianizzata come questa, la ricerca di senso che è propria di ognuno di noi trova nell’islam una risposta all’angoscia del mondo moderno. Tanto più tra le popolazioni musulmane sradicate, raggruppate in periferie remote che favoriscono i fenomeni di comunitarizzazione, o addirittura di secessione. Le condizioni sono mature perché gli ex ‘territori perduti della Repubblica’ diventino, come scrive Bernard Rougier, i ‘territori conquistati dell’islamismo’”.
  Appare evidente una sproporzione tra la sfida che stiamo affrontando e i mezzi e la volontà dimostrata dalle nostre élite. “La sproporzione tra il conflitto di civiltà che stiamo affrontando e i mezzi e la volontà per affrontarlo è lampante. I mezzi esistono, ma la legge deve essere ripensata; è inadatta a un’immigrazione di questa portata. Ciò che manca soprattutto, però, è la volontà di difendere un modello di società libera da una colpa che indebolisce l’occidente di fronte a giovani nazioni. Giovani nazioni, alcune delle quali convinte di avere una vendetta da compiere sull’ex colonizzatore. Una debolezza francese che si può riassumere in tre parole: il rifiuto di combattere. Dopo i 130 morti della notte del 13 novembre 2015, abbiamo visto fiorire nelle strade di Parigi questo cartello: ‘Non avrete il mio odio’. Era un’ammissione di debolezza di fronte a coloro che ci designavano come il nemico, un’ammissione di ignoranza anche in termini di antropologia culturale dell’islam. Perché, lungi dal calmare l’avversario, questo atteggiamento lo spinge verso il jihad, addirittura lo costringe al jihad quando è in una posizione di forza”.
  Paralizzati dal “senso di colpa” e dalla “cattiva coscienza”? “Quello che è certo è che questa debolezza alimenta la disperazione popolare”, continua Bensoussan. “Le grandi guerre civili europee del XX secolo, che sembrano aver esaurito il Vecchio continente, hanno fatto precipitare un rifiuto della guerra e del nazionalismo. Combinate con l’edonismo, l’individualismo e il consumismo, le società occidentali, frammentate e atomizzate – la Francia in particolare, minata dalla negazione della realtà – appaiono come un ventre molle indifeso”.
  Da Boualem Sansal a Pierre Manent, molti hanno lanciato l’allarme sul futuro della Francia. Una balcanizzazione della società? Una “libanizzazione”? “Alcuni hanno parlato di una guerra civile tra immigrati e ‘nativi francesi’”, ci dice Bensoussan. “Ha senso? Non credo. La scissione è ideologica, divide tra loro sia i ‘francesi nativi’ sia i discendenti degli immigrati che sono diventati francesi. Questa prima linea oppone due visioni del mondo e due visioni della Francia che sembrano inconciliabili. Data la lentezza della società francese e la depressione collettiva che ammanta il paese di un’atmosfera di insoddisfazione e tristezza, credo che si vada verso una balcanizzazione della società, che si tradurrà in una sorta di divisione geografica. Le comunità di origine straniera vivranno sempre più ai margini della nazione. La nozione di ‘arcipelago francese’ divulgata da Jérôme Fourquet mi sembra pertinente. Si va verso un ‘arcipelago’ della società francese con zone in cui le leggi della Repubblica sono solo vagamente rispettate: convivono con la legge islamica da una parte e la legge dei briganti dall’altra, prosperando sui traffici di ogni tipo. La frammentazione del territorio e la frammentazione del corpo sociale sono già realtà. In un grande paese d’immigrazione questa configurazione è forse sostenibile. Questo non è il caso della Francia, una vecchia nazione costruita dallo stato fin dall’XI secolo. A questo proposito, chi può escludere definitivamente un’eruzione di violenza da una parte della società? O anche l’esercito? L’unico punto d’accordo oggi è una consapevolezza generale della grave crisi che sta affrontando una nazione che è stata sconvolta da uno shock demografico le cui conseguenze politiche, secondo alcuni, sono forse più importanti della rivoluzione francese di più di due secoli fa”.
  Il prossimo anno la comunità ebraica di Tolosa ricorderà i dieci anni dalla strage alla scuola ebraica. La comunità al tempo contava 20 mila persone. Oggi sono rimasti in 10 mila e il vicesindaco di Tolosa, Aviv Zonabend, ha detto che “il futuro del popolo ebraico in Europa è senza speranza”. Nel 1977 in Francia c’erano 700 mila ebrei. Si sono dimezzati. Questo il calo delle famiglie ebraiche in molti distretti negli ultimi cinque anni: Stains da 250 a 50, Saint-Denis da 350 a 100, La Courneuve da 300 a 80, Le Blanc-Mesnil da 300 a 100, Pantin da 1200 a 700, Rosny-sous-Bois da 300 a 200, Bondy da 300 a 100, Livry-Gargan da 200 a 130, Aulnay sous-Bois da 600 a 100, Clichy da 400 a 80, Neuilly-sur-Marne da 275 a 100… Intanto venivano uccisi sacerdoti (Jacques Hamel), fedeli cattolici (basilica di Nizza) e ogni giorno una media di due chiese francesi venivano profanate.
  Ai benpensanti non piace, ma la barbarie multiculturale prende molto sul serio l’espressione “giudeo-cristianesimo”.

Il Foglio, 29 settembre 2021)


"Odiare Israele non rende woke"

Così il premier Bennett all'Onu. Avviso all'Iran: "Non avrai l'atomica"

Israele è un faro di luce e libertà e sostenerlo è una scelta morale. Attaccare Israele non rende moralmente superiori. Combattere l'unica democrazia in medio oriente non fa diventare woke". Lo ha detto il primo ministro israeliano Naftali Bennett all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, tre giorni dopo la conclusione della conferenza di Durban boicottata dalle democrazie. Perché in democrazia oggi fa "woke" aggredire moralmente e politicamente lo stato ebraico. Parlando proprio di Durban, Bennett ha detto: "Quella conferenza era originariamente pensata contro il razzismo, ma si è trasformata negli anni in una conferenza razzista contro Israele e il popolo ebraico. E il mondo ne ha avuto abbastanza. Ringrazio i 38 paesi che hanno preferito la verità alle bugie e hanno evitato la conferenza". Bennett ha ringraziato specificatamente gli Stati Uniti come "un amico fidato di lunga data".
   Il premier israeliano ha parlato poi di Iran: "Sta violando gli accordi di salvaguardia dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica e la fa franca". Arricchisce l'uranio al 60 per cento, cioè a un passo dall'uso militare. "Le parole non impediscono alle centrifughe di girare. Alcuni leader mondiali considerano ormai inevitabile l'acquisizione di armi nucleari da parte dell'Iran, ma Israele non può permettersi questo privilegio". Poi Bennett ha citato tutti i paesi dove Teheran ha messo piede: Iraq, Siria, Libano, Yemen, Gaza... "Come il tocco di re Mida della mitologia greca - ha ironizzato - il regime iraniano ha il `tocco dei mullah': ogni luogo toccato dall'Iran va in rovina". Ha detto molto, il premier israeliano. Che il "woke", da cui promana la "cancel culture", è una minaccia culturale per Israele, ma in generale per la cultura occidentale. E che l'Iran, che minaccia Gerusalemme direttamente, è fonte di caos per tutti.

Il Foglio, 29 settembre 2021)


Marocco - Normalizzando i rapporti con Israele il re potrà avere i suoi droni kamikaze

Pugno duro contro il dissenso a Rabat. E spesa militare cresciuta del 56% negli ultimi 6 anni

di Roberto Persia

Il 10 dicembre 2020 il Marocco, per volontà di Mohammed VI, è entrato a far parte degli accordi di Abramo, con buona pace della causa palestinese. In un tweet Donald Trump definì l'accordo «un grandissimo passo in avanti per la pace in Medio Oriente». Una ragione in più per non sorprendersi se dietro l'accordo si celassero importanti accordi di natura militare.
   Israele sarebbe pronto a fornire al paese amico brevetti e un supporto tecnico per la realizzazione di droni kamikaze. Si tratterebbe dei Loitering Munition Harop prodotti dalla Israel Aerospace Industries (lai). L'Harop è un loitering munition, cioè è in grado di sorvolare una zona alla ricerca di un bersaglio e una volta individuato lo attacca scendendo in picchiata e "sacrificandosi". I droni kamikaze sono un nuovo tipo di arma, veicoli aerei senza equipaggio che funzionano come bombe, senza bisogno di attentatori suicidi alla guida.
   Due aspetti hanno fortemente condizionato la reggenza di Mohammed VI, soprattutto nell'ultimo decennio: la percezione oltre i suoi confini del Paese e la creazione di un solido comparto militare. Secondo il Sipri (Stockholm International Peace Research Institute), la spesa militare del Marocco è cresciuta del 56% negli ultimi 6 anni e del 29% negli ultimi due. Per la cura della propria immagine invece il re si è affidato al controllo delle fonti di informazione e a un pugno duro sempre pronto a colpire i dissidenti. Oggi con l'uscita di scena del partito islamista del Pjd e l'arrivo di Akhennouch, il tycoon liberale che ha vinto a valanga le recenti elezioni, le relazioni e la loro normalizzazione potrebbero ricevere una netta accelerazione. Dopo un primo ordine di 13 droni da poter armare con bombe anticarro diretto alla Turchia, con l'aiuto di Israele il Marocco potrebbe realizzare finalmente il sogno di Mohammed VI e prodursi in casa i suoi droni da guerra.
   Proprio con un accordo per armi informatiche con la società israeliana Nso, il re permetteva ai servizi segreti del regno, attraverso lo spyware Pegasus, di spiare politici, giornalisti e attivisti per i diritti umani dentro e fuori il paese. Oggi però tutte le attenzioni di "M6" sembrano concentrate sui droni da guerra, e anche qui in suo soccorso potrebbe arrivare Israele. Se da una parte è confermata la dotazione dell'esercito del regno di droni di sorveglianza, non si conosce la reale dotazione di quelli armati. Quello che si sa con certezza è che ad aprile del 2021 Addah Al-Ben dir capo di stato maggiore della gendarmeria del Fronte Polisario, è stato ucciso da un attacco di droni marocchini a Tifariti.
   Secondo Hicham Mansouri, giornalista investigativo e membro della Moroccan Association for Investigative Journalism (Arnji), «il Marocco ha bisogno di sviluppare rapidamente la sua normalizzazione con Israele mostrandone i benefici economici. Per questo, Rabat ha proposto il rapporto culturale e storico attraverso gli ebrei marocchini. La normalizzazione può essere anche fatta attraverso l'agricoltura, il turismo ma anche l'industria, compresi gli armamenti».

(il manifesto, 29 settembre 2021)


Il XX settembre di Ernesto Rossi

di Tommaso Todaro

Anche quest’anno il XX settembre è scivolato via in silenzio. Unica manifestazione, il 68° Raduno Nazionale dei Bersaglieri a Roma, domenica 26 settembre, con la solita deposizione della corona all’Altare della Patria e – novità – nella sfilata, lo sfoggio del cannone che sparò il primo dei colpi che aprirono la breccia di Porta Pia.
Alla cerimonia hanno preso parte anche il Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Ruth Dureghello, e il Rabbino Capo Di Segni.
Non solo per i romani, ma anche per gli ebrei di Roma il XX settembre ha rappresentato la liberazione e il riscatto dal servaggio dal governo papalino.
Un sistema di governo caratterizzato da persecuzioni, galere, pubbliche esecuzioni (mannaia, forca, ghigliottina, mazzolata), la vita regolata dal codice canonico, educazione dei giovani riservata ai preti e alle monache, nepotismo, corruzione e ruberie in tutti gli uffici, censura severissima, finanze pubbliche perennemente dissestate, dovunque preti, feste, processioni, miracoli, spionaggio, ignoranza e superstizione....

(Nuovo Monitore Napoletano, 28 settembre 2021)


Israele è entrato nell’era post-Netanyahu

di Anna Maria Bagaini, Università di Nottingham

Israele si affaccia su questo ultimo trimestre del 2021 cercando di lasciarsi alle spalle una crisi multidimensionale: sanitaria, economica, sociale e governativa. La formazione di un nuovo governo a giugno scorso, fa sperare in un superamento dell’impasse politica degli ultimi due anni che permetta di affrontare tematiche importanti per la sicurezza e la stabilità dello stato. I nodi che il nuovo esecutivo dovrà tentare di sciogliere non riguardano solo la gestione della quarta ondata di coronavirus o i rinnovati negoziati sul nucleare tra Iran e Stati Uniti, ma anche il bisogno interno di rafforzare istituzioni e il tessuto sociale, affiancato alla necessità di riconsolidare alleanze cruciali con Washington, Amman e Il Cairo.

• QUADRO INTERNO
  Gli ultimi tre mesi sono stati intensi per la vita politica israeliana, caratterizzati dall’elezione del nuovo presidente Isaac Herzog e dalla formazione del nuovo governo, guidato da Naftali Bennett (in rotazione con Yair Lapid).
  Il governo Bennett-Lapid è sostenuto da otto dei tredici partiti che hanno vinto seggi alle elezioni del 23 marzo, per un totale previsto di 61 voti nella Knesset (composta da 120 membri): C’è Futuro (17 seggi), Blu e Bianco (8), Yisrael Beytenu (7), Partito Laburista (7), Destra (6 dei suoi 7 parlamentari), Nuova Speranza (6), Meretz (6) e Lista Araba Unita (4).[1]
  La coalizione rappresenta un mix di partiti senza precedenti, da destra (Destra, Nuova Speranza e Yisrael Beytenu) a centro (C’è Futuro e Blu e Bianco), a sinistra (Partito Laburista e Meretz), oltre al partito islamico conservatore Lista Araba Unita. I loro leader, che si sono uniti in opposizione a Benyamin Netanyahu, hanno promesso di lavorare attraverso il consenso per sanare le spaccature nella società israeliana, senza superare però le proprie linee rosse ideologiche.
  Nel frattempo, il bipartitismo ha vinto anche nelle elezioni presidenziali israeliane: Isaac Herzog, ex presidente dell'Agenzia ebraica, moderato di centro-sinistra, è riuscito a raccogliere il sostegno di 87 su 120 deputati. Il nuovo presidente succede all’uscente Reuven Rivlin che è stato una importante figura unificante in questi anni e che si è sempre espresso a favore dell’inclusione di tutte le parti della società israeliana. A sua volta Isaac Herzog potrebbe diventare una figura chiave per l'opinione pubblica israeliana nei prossimi anni. Tradizionalmente, il presidente cerca di rimanere politicamente neutrale ed evita di favorire una parte o l'altra, ma alla luce della crisi politica di lunga durata in corso, Herzog può permettersi di prendere iniziative nel tentativo di impedire la caduta del governo e di favorire il compromesso tra i membri del governo di coalizione.
  La prima tempesta per il nuovo governo è subito arrivata a luglio, quando Israele ha nominato un team interministeriale per valutare i rapporti pubblicati da un'indagine condotta da Forbidden Stories e Amnesty International[2], secondo cui il software Pegasus dell’Nso Group sarebbe stato acquisito da governi autoritari come arma spyware per hackerare smartphone appartenenti a giornalisti, oppositori politici e attivisti per i diritti umani in tutto il mondo (circa 180 casi). La correlazione tra l'elenco dei clienti di Nso e lo sviluppo delle relazioni diplomatiche di Israele con questi paesi è al centro della bufera e sembra che lo stato israeliano abbia lavorato in modo proattivo per far sì che le aziende israeliane di armi cibernetiche, in primis Nso, operassero in questi paesi, nonostante i loro record problematici in materia di democrazia e diritti umani. Israele sta ora indagando sulle accuse di un massiccio uso improprio della tecnologia spyware e le ricadute del caso Pegasus sono state un test importante per il ministro della Difesa Benny Gantz che ha dovuto gestire le crisi diplomatiche che ne sono scaturite. Intanto, il sottocomitato per l'intelligence della commissione per gli Affari esteri e la Difesa della Knesset, dovrebbe ritrovarsi per discutere la politica israeliana sulle esportazioni cibernetiche.
  Sul fronte dei successi del nuovo establishment invece vi è l’approvazione tanto attesa del bilancio statale 2021-22 nella sua prima lettura. Il 2 settembre la Knesset ha infatti concordato i quattro disegni di legge separati che compongono il pacchetto legislativo che regola il bilancio statale; si tratta di un obiettivo importante per la coalizione perché, non solo pone fine all’assenza di un budget per Israele, ma anche perché ha scongiurato la caduta del governo stesso (la mancata approvazione del bilancio era infatti una clausola per lo scioglimento della coalizione).
  Il bilancio statale biennale include riforme radicali delle certificazioni kosher[3], dell'industria agricola[4] e cambiamenti considerevoli alle politiche di importazione; questi sono interventi che sono stati attesi per anni, ma che non hanno mai potuto prendere forma a causa della resistenza di gruppi industriali o varie fazioni politiche.
  Il budget prevede di allocare 432,3 miliardi di shekel (Nis) per quest'anno e altri 452,5 miliardi di shekel per il 2022, insieme a un tetto del debito del 3% che dovrebbe salire al 3,5% l'anno prossimo. Il budget più consistente va al ministero della Difesa, con 73,3 miliardi di shekel, insieme a 70 miliardi di shekel per l'istruzione. La salute rimarrà a 44,8 miliardi di shekel.
  In sottofondo permane la gestione della pandemia da Covid-19, infatti Israele si trova ad affrontare una quarta ondata di coronavirus nella sua variante delta. Le statistiche diffuse dal ministero della Salute in agosto sono state motivo di particolare preoccupazione e hanno richiesto misure di controllo da parte del governo sulla diffusione del virus; prima tra tutte, la ripresa della campagna vaccinale che ha iniziato la somministrazione di una terza dose di vaccino.
  Anche in questo caso la gestione della pandemia diventa teatro principale dello scontro politico: nella scorsa campagna elettorale, Bennett aveva presentato la principale opposizione alla gestione di Benjamin Netanyahu della crisi del coronavirus, guadagnando grande popolarità (ha persino creato un governo ombra sulla gestione del Covid-19 e ha scritto un opuscolo, "Come battere una pandemia”). Ora Netanyahu ha colto l’occasione per restituire il favore al primo ministro, chiamando il Ceo di Pfizer Albert Bourla di nascosto a Bennett, per discutere appunto della terza dose, e mettendo in imbarazzo il premier pubblicizzando la chiamata effettuata.

• RELAZIONI ESTERNE
  In politica estera il governo Bennett-Lapid sta costruendo la sua agenda diplomatica e il tema più sfidante è senza dubbio il tentativo statunitense di riaprire i colloqui sull’accordo nucleare con l’Iran (si veda Focus paese Iran). La posizione ufficiale del nuovo esecutivo non sembra si stia discostando dalla linea tenuta dall'ex primo ministro Benjamin Netanyahu, ma c’è una differenza fondamentale: mentre Netanyahu aveva combattuto pubblicamente contro l'accordo formulato dal presidente Barack Obama, il governo Bennett-Lapid vorrebbe lavorare con l'amministrazione Biden per migliorare la posizione di Israele, soprattutto alla luce di alcuni cambiamenti avvenuti sul campo che hanno sollevato molteplici domande, quali: Israele è in grado di influenzare la politica degli Stati Uniti sul programma nucleare iraniano? È ancora fattibile un’opzione militare israeliana indipendente nei confronti del programma nucleare iraniano? Gli Stati Uniti e Israele possono concordare un piano d'azione congiunto nel caso in cui l'Iran violi i termini del suo rinnovato accordo nucleare con le potenze mondiali? Ma soprattutto, come sottolineato da Lapid e Gantz, Israele deve evitare a tutti i costi gli errori commessi a suo tempo da Netanyahu entrando in uno scontro pubblico con gli americani sulla questione nucleare iraniana; Israele può esprimere critiche su un ritorno all’accordo e persino una forte opposizione, ma una campagna frontale contro Biden sarebbe un errore fatale. Anche nello scenario peggiore di un ritorno allo stesso identico accordo che il presidente Barack Obama aveva firmato con l’Iran, Israele farebbe meglio a cercare di raggiungere un accordo separato con l’amministrazione americana che lo risarcisca e stabilisca corsi d’azione futuri.
  Questo è stato uno dei temi discussi il 27 di agosto scorso durante il primo incontro tra il presidente Biden e il primo ministro Bennett, nel quale si è parlato non solo dell’Iran, ma anche della questione palestinese, della pandemia e dell’inclusione di Israele nel Visa Waiver Program. Nonostante le loro differenze politiche, entrambi i leader hanno mostrato la volontà di ripristinare e rafforzare un legame bilaterale che ha mostrato segni di tensione.[5]
  Ma, nonostante questo avvicinamento tra le due posizioni, è emersa un’altra possibile minaccia per le relazioni israelo-americane, ovvero la Cina. Israele ha individuato questo paese come un potenziale mercato di riferimento per le vendite di sistemi d'arma avanzati ma, negli anni, due importanti accordi sono stati bloccati dalle preoccupazioni e dalle obiezioni americane.[6] Per quanto riguarda gli investimenti cinesi in Israele, si sono concentrati sulle infrastrutture, come per esempio l’impianto di desalinizzazione dell'acqua a Soreq, il porto di Haifa e il sistema di metropolitana leggera di Tel Aviv. Il contratto di desalinizzazione è stato infine vinto da una società israeliana, sulla società cinese, dopo che gli Stati Uniti hanno espresso il proprio disappunto.
  Nell'ultimo anno le relazioni sino-israeliane si sono gradualmente raffreddate: prima è arrivata la partnership strategica di 25 anni e 400 miliardi di dollari che la Cina ha stretto con l'Iran, poi è arrivata la recente presa di posizione su Gaza in sede al Consiglio di sicurezza dell'Onu. Se si collegano questi episodi con la tangibile pressione degli Stati Uniti su Israele per ridimensionare le relazioni economiche con la Cina e i legami in espansione di Israele con l'India (rivale della Cina), emerge il quadro di una relazione che si sta contraendo. Il dilemma per Israele consiste nel non essere costretto a fare una scelta tra Stati Uniti e Cina che, in termini di importanza per Israele sono essenzialmente asimmetrici: la Cina è una superpotenza in ascesa, gli Stati Uniti sono un pilastro della sicurezza di Israele. Ma più la rivalità tra Stati Uniti e Cina diventa radicata e diffusa, più aumentano le probabilità che Israele si possa trovare a dover scegliere quale relazione favorire.
  Nel loro colloquio il presidente Biden e il primo ministro Bennet hanno ribadito l’importanza delle partnership di Israele con Egitto e Giordania, cruciali per la stabilità regionale. Non è quindi un caso se il nuovo governo Bennett-Lapid si sia mosso per ristabilire i rapporti con questi due attori non appena insediato, in particolare sul fronte giordano. Il primo ministro ha incontrato il re Abdullah all'inizio, aggiornando l’accordo per la fornitura di acqua tra i due paesi.[7] Secondo fonti diplomatiche, Israele sta pianificando una lunga lista di incontri con il regno hashemita per riabilitare i rapporti e ripristinare diversi aspetti della cooperazione. Questi gesti arrivano dopo anni di scarsa comunicazione tra il primo ministro israeliano e il re giordano. Per entrambi gli stati è di vitale importanza la solidità dell'accordo di pace del 1994: per Israele dal punto di vista della sicurezza nazionale, per la Giordania perché dipende da Israele in molti aspetti significativi, come per esempio l’approvvigionamento di acqua e la cooperazione militare. Alcuni analisti hanno a lungo sostenuto come sia il potere israeliano l'unico deterrente ai tentativi di forze radicali come lo Stato islamico (IS) o altri elementi sovversivi di spodestare ed espellere la famiglia hashemita dalla Giordania.[8]
  Per quanto riguarda l’Egitto, il 13 settembre si è tenuto al Cairo il primo incontro tra Bennett e il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Si tratta della prima visita di un primo ministro israeliano in Egitto da oltre un decennio. Durante il vertice, ritenuto positivo da entrambe le parti, si è discusso di una lunga lista di argomenti cruciali per i due paesi e per la stabilità della regione, tra cui hanno spiccato la mediazione israeliana nella crisi tra Egitto ed Etiopia per la diga sul fiume Nilo e l’assistenza egiziana per raggiungere un accordo a lungo termine con la Striscia di Gaza. A fare da volano alle relazioni israelo-egiziane, vi sarebbe anche la preoccupazione del Cairo di rinsaldare i propri legami con Washington; in tale senso, la collaborazione con Israele su più fronti si spera possa essere accolta positivamente dagli americani e invertire così il trend attuale. Il sito web Politico[9] ha riferito infatti che il governo americano congelerà il 10% dei suoi aiuti militari annuali all’Egitto alla luce delle preoccupazioni sui diritti umani. Resta da vedere se la delusione egiziana influenzerà la buona volontà che al-Sisi dimostrerà negli sforzi verso un accordo con Gaza, il problema più spinoso per Israele.
  Sul versante palestinese, infatti, Bennett ha mantenuto la sua promessa a Biden di migliorare le condizioni dei palestinesi e ridurre le tensioni politiche. Il 29 agosto il ministro della Difesa israeliano Gantz ha incontrato il presidente palestinese Mahmoud Abbas a Ramallah; questo è il primo incontro di alto livello tra le due parti in oltre un decennio e riflette appunto la linea che Bennett ha presentato alla Casa Bianca: gesti di buona volontà verso i palestinesi e manovre economiche per rafforzare l’Autorità palestinese. L’interesse del nuovo governo a rafforzare l’Autorità palestinese serve a prevenire lo scoppio di violenze in Cisgiordania e a indebolire Hamas. Ciò spiega perché è stato il ministro della Difesa a essere inviato a Ramallah, mentre Bennett e il ministro degli Esteri Yair Lapid non hanno in programma di incontrare Abbas. In realtà però questo incontro è stato fonte di tensioni tra Bennett e Gantz, accusato di aver richiamato l’attenzione sull’incontro, cercando di creare l'impressione che oltre a questioni economiche e di sicurezza, lui e Abbas avessero discusso di questioni diplomatiche e politiche. Il governo vuole assicurarsi che il presidente palestinese mantenga il controllo dell'apparato di sicurezza in Cisgiordania e, come parte della sua strategia in corso di “contenimento del conflitto” è interessato ad aiutare finanziariamente l’Autorità palestinese.
  L'obiettivo principale di Gantz, quindi, è stato stabilire il meccanismo con cui il Qatar trasferirà gli aiuti alla Striscia di Gaza per garantire che il denaro raggiunga i beneficiari palestinesi bisognosi piuttosto che Hamas, come successo in passato.  Nella speranza di coinvolgere Abbas nel piano, Gantz ha portato con sé un impressionante pacchetto di benefit, tra cui: prestiti da 500 milioni di shekel (155 milioni di dollari) e permessi di costruzione nell’area C. Inoltre, Israele ha annunciato una serie di quelli che ha definito "passi civili" per alleviare le condizioni dei palestinesi, inclusa l'espansione della zona di pesca vicino a Gaza; permettendo ad altri 5.000 commercianti palestinesi di operare in Israele; e consentendo l’ingresso di più materiali da costruzione e altri 1,3 miliardi di galloni d’acqua a Gaza.
  Questi colloqui non sembrano però aver migliorato la situazione politica del presidente palestinese, la cui popolarità e legittimità sono in declino in Cisgiordania a seguito del rinvio delle elezioni del maggio scorso e dell'uccisione da parte dei servizi di sicurezza del critico dell’Autorità palestinese Nizar Banat a giugno. Sul fronte gazawi, rimane in vigore il cessate-il-fuoco tra Israele e Hamas, iniziato il 21 maggio a seguito di 11 giorni di combattimenti. Tuttavia, Hamas è tornata a organizzare manifestazioni violente e a lanciare palloni incendiari dal confine; Yahya Sinwar, il leader dell'organizzazione a Gaza, vuole imporre concessioni a Israele senza pagare un prezzo pesante. Funzionari di Hamas e della Jihad islamica hanno affermato che le richieste delle fazioni si concentrano su questioni sia politiche sia umanitarie. Questa conclusione rivela quindi come l’operazione di maggio condotta dall’esercito israeliano non abbia raggiunto alcun obiettivo specifico. Vi è quindi il rischio di una ripresa dei combattimenti e Bennett deve essere consapevole della possibilità che l’audacia di Hamas possa trascinarlo in un’altra operazione militare in un momento in cui il suo governo non è ancora stabile.

  [1] The Knesset, (https://main.knesset.gov.il/EN/mk/government/Pages/governments.aspx?govId=36)
  [2] Amnesty International, (https://www.amnesty.org/en/latest/research/2021/07/forensic-methodology-report-how-to-catch-nso-groups-pegasus/)
  [3] Il sistema statale di certificazioni kosher è stato un monopolio chiuso a lungo protetto dai partiti haredi Shas ed Ebraismo Unito della Torah, diventando così un terreno fertile per la corruzione e una fonte di frustrazione infinita per le industrie alimentari e dell'ospitalità israeliane. La certificazione garantisce che la struttura offre un servizio che rispetta le regole alimentari e non della kashrut.
  [4] La nuova riforma indebolirebbe costantemente le restrizioni sulle quote di importazione sui prodotti agricoli e semplificherebbe i processi tramite l’adozione di standard europei per molte categorie di prodotti.
  [5] Readout of President Joseph R. Biden, Jr.’s Meeting with Prime Minister Naftali Bennett of Israel, 27 agosto 2021, The White House, Statements and Releases, ( https://www.whitehouse.gov/briefing-room/statements-releases/2021/08/27/readout-of-president-joseph-r-biden-jr-s-meeting-with-prime-minister-naftali-bennett-of-israel/)
  [6] La vendita dei radar Phalcon di allerta aerea nel 2000 e l'accordo sui droni armati Harpy del 2005 sono stati appunto annullati.
  [7] Bennett ha comunicato al re che Israele venderà al regno hashemita più acqua della quota prevista dall'accordo di pace bilaterale del 1994. La Giordania ha bisogno dell'accordo per far fronte a una consistente carenza d'acqua.
  [8] B. Caspit, “New Israeli government on mission to rehabilitate ties with Jordan”, Al-Monitor, 20 luglio 2021.
  [9] N. Toosi, “Biden to withhold, restrict some military aid to Egypt”, Politico, 13 settembre 2021.

(ISPIonline, 28 settembre 2021)


Direttrice Musei Civici Venezia: "Si torna alla normalità ma i frutti si vedranno nel 2021"

"Siamo molto soddisfatti, è un bel segnale di ritorno alla normalità, anche se devo dire che i nostri musei a Venezia già a settembre avevano fatto registrare un deciso aumento di affluenza di pubblico". Così all'Adnkronos la direttrice dei Musei Civici di Venezia, Gabriella Belli commenta la decisione di liberalizzazione agli ingressi nei musei da parte del Cts.
   Perché, spiega, "per molti mesi abbiamo viaggiato al 50% di pubblico rispetto al 2019, a settembre stiamo registrando un aumento al 60% , ora la flessibilità che ci permette di arrivare all'80% di visitatori ci porta vicino alla normalità., soprattutto per le prenotazioni dei gruppi: nei mesi addietro abbiamo infatti dovuto limitare molto il numero dei componenti dei gruppi a 5-10 persone, un vero ostacolo dato che molto spesso sono più numerosi. Ora possiamo allentare queste limitazioni, e quindi questa ultima misura del Cts è molto importante, siamo più che soddisfatti", ribadisce la direttrice dei Musei Civici di Venezia.
   "Un segno di ritorno alla normalità, che però darà i suoi frutti solo l'anno prossimo, e per Venezia, il primo appuntamento importante sarà quello del Carnevale a febbraio 2021- sottolinea Gabriella Belli - e comunque già oggi Venezia è ben frequentata dal turismo europeo, sono tornati i turisti da tutti i paesi europei, ma si vedono anche russi e cinesi e stanno tornando anche gli americani, provenienti spesso da Spagna e Francia". E la cosa importante sottolinea ancora la direttrice dei Musei Veneziani è che "sono spariti la paura e il timore che si vedevano nei loro occhi all'inizio della pandemia: oggi, grazie al Green Pass e ai vaccini siamo tutti molto più sicuri e tranquilli, noi e loro, pur mantenendo sempre le misure di prevenzione, come l'uso della mascherina e l'igienizzazione delle mani".

(Yahoo Notizie, 28 settembre 2021)


La crisi del Libano al centro delle faglie regionali

di Marina Calculli, Università di Leiden

Il Libano è oggi un paese incastrato in molteplici crisi: economico-finanziaria, politica, sociale, umanitaria e infrastrutturale. Queste crisi sono intrecciate tra di loro e difficili da districare e risolvere per ragioni interne ed esterne al paese: da una parte, il forte scollamento tra classe politica e società al livello domestico richiederebbe una riforma radicale del sistema politico e, più in generale, del patto sociale che regge lo stato libanese che tuttavia non è all’orizzonte. Dall’altra, potenze esterne – regionali e internazionali – stanno strumentalizzando la crisi libanese per estendere la propria influenza sul paese, esacerbando così gli effetti dell’impasse.

• QUADRO INTERNO
  La crisi attuale non è solo il risultato di sviluppi recenti, ma il culmine di politiche economiche, fiscali e sociali che hanno strutturalmente favorito una crescita trainata dal debito pubblico e sistematicamente favorito gli interessi dell’élite che ha dominato il paese nel periodo postbellico [i.e. successivo alla fine della guerra civile (1975-90)]. Tuttavia, negli ultimi anni queste due storture del sistema economico e finanziario libanese sono state messe a nudo al punto da provocare una vera e propria rottura del patto sociale. Il 2019, in particolare, ha marcato un punto di non ritorno. In quell’anno il debito pubblico raggiunse un livello critico senza precedenti (circa 170% del Pil), facendo precipitare la crisi finanziaria sull’economia reale, ovvero provocando un aumento dell'inflazione e della disoccupazione e, dunque, abbattendosi principalmente sulle fasce medie e basse della popolazione libanese. La crisi del debito si è poi formalizzata nel marzo 2020, quando il Libano ha dichiarato bancarotta, non riuscendo a ripagare la prima tranche di debito su un eurobond emesso nel 2010.
  La conseguenza immediata di questa crisi finanziaria è stata la svalutazione della lira libanese rispetto al dollaro, con effetti sociali devastanti. Dal punto di vista formale, si è rotto il regime di cambio fisso ‘1500 lire=1 dollaro’ fissato nel 1997 da Rafik Hariri, che aveva garantito per oltre due decenni una parvenza di stabilità finanziaria volta ad attrarre capitali e investimenti esteri: la parità di cambio artificiale ha infatti contribuito in modo cruciale a far lievitare il debito pubblico. Il regime di cambio è passato così dalle 6.000 lire per un dollaro nel 2020, alle 10.000 lire nella primavera del 2021, fino all’inimmaginabile 20.000 lire nell’estate del 2021. L’aspetto più violento di questa svalutazione è duplice: da una parte, i beni importati sono diventati estremamente cari; dall’altra i salari reali sono stati svalutati nel giro di pochissimi mesi.
  L’aumento incontrollato dell’inflazione dipendente da diversi fattori. In primo luogo, c’è la decisione di Riad Salameh, governatore della Banca Centrale libanese (accusato, tra l’altro, di aver dirottato capitali pubblici nei suoi conti esteri) che, tra giugno e luglio del 2021, ha deciso – senza preavviso – di rimuovere i sussidi sul carburante, sui medicinali e su alcuni beni alimentari, provocando così un aumento incontrollato dei prezzi. A questo si aggiunge la speculazione delle compagnie che si occupano di importazione e distribuzione di medicinali e combustibili (fondamentali sia per la mobilità, sia per alimentare i generatori di corrente che suppliscono all’assenza strutturale di fornitura dell’elettricità da parte dello stato) unita al contrabbando verso la Siria, soprattutto dopo l’imposizione delle nuove sanzioni americane nel 2020, che ha significativamente fatto aumentare i prezzi. Per esempio, il combustibile per i generatori di corrente (mazout) è passato da 0,75 lire al litro prima del 2019 alle attuali 5/6 lire al litro.
  Oltre a questo, la penuria di medicinali (da quelli di uso corrente come il paracetamolo a quelli vitali come i chemioterapici) e carburante sul mercato non ha solo messo a rischio il funzionamento di alcuni servizi essenziali, come la sanità (messa a dura prova negli ospedali senza medicine ed elettricità) ma si è anche comprensibilmente tradotta in una generalizzata isteria sociale: le file fuori dalle farmacie e ai distributori di benzina hanno marcato la primavera e l’estate del 2021 in modo drammatico, scatenando una serie di incidenti e scontri (anche armati) in una popolazione esasperata. Basti pensare che il potere d’acquisto medio si è ridotto fino al 90% e che circa il 74% della popolazione vive oggi al limite della soglia o già sotto la soglia di povertà.
  Il perno di queste crisi stagnanti e intrecciate tra loro resta tuttavia l’immobilismo politico. È infatti evidente che, abbattendosi sull’economia reale, la crisi finanziaria si è tradotta in una catastrofe sociale, ma quest’ultima si è solo aggravata dal 2019 ad oggi soprattutto per via dell’impasse politica che ha reso lo stato immobile sia nel prendere misure di protezione sociale sia nell’arginare l’azione degli speculatori che continuano ad approfittare della crisi per arricchirsi ulteriormente. Occorre a questo proposito ricordare che il Libano è sprofondato in un (apparente) vuoto di potere, marcato dall’incapacità di formare un governo, per 13 mesi: dall’esplosione del 4 agosto 2020 fino a settembre 2021 quando l’uomo d’affari sunnita Najib Mikati, già primo ministro in passato, è riuscito a mettere in piedi un esecutivo.
  La crisi politica, tuttavia, non è tanto da ricercarsi nell’impasse di questi mesi. Quest’ultima è semmai il sintomo di una assai più profonda delegittimazione del sistema politico, cui il nuovo governo difficilmente potrà fornire una cura efficace. Il crollo di legittimità del sistema politico confessionale libanese, fondato sulla spartizione del potere tra gruppi religiosi che detengono quote in parlamento e nelle istituzioni, si è plasticamente rivelato in tutta la sua magnitudine nell’ottobre 2019, quando la popolazione è scesa in piazza per protestare contro la vetusta élite al potere, ma soprattutto per chiedere un nuovo sistema. Sotto il segno dello slogan “killon yane killon” (‘tutti vuol dire tutti’), da interpretarsi come la richiesta rivolta a tutti i componenti della classe dominante – senza esclusioni – di farsi da parte per lasciare spazio alla rifondazione del sistema politico, la protesta del 2019 ha scosso le fondamenta dello stato libanese. La protesta ha vissuto varie ondate dal 2019 a oggi, con una forte ripresa nell’agosto 2020 a seguito dell’esplosione di 270 tonnellate di ammonio nitrato al porto di Beirut che ha provocato oltre 200 vittime e centinaia di feriti e ha sfidato i divieti governativi durante la pandemia di Covid-19. Tuttavia, la carica potenzialmente ‘rivoluzionaria’, ovvero foriera di un vero rovesciamento del sistema politico, si è spenta per vari fattori: in primo luogo, la protesta spontanea non è riuscita a mobilitare risorse tali da poter sostenere una leadership in grado di confrontare l’élite in carica. In essa convergono il potere economico e il potere politico dello stato libanese. Questo binomio, che regge al contempo il sistema capitalista predatorio e la struttura di potere del paese, dota l’élite di una enorme capacità di ricatto e rende la loro capacità di autoconservazione estremamente difficile da scalfire.
  Non a caso, nonostante le richieste di dimissioni e la sete di giustizia espresse dalla protesta sociale, nessun concreto cambiamento politico si è realizzato dal 2019 al 2021. Il primo ministro Mikati, nominato dal presidente della Repubblica a settembre 2021, è infatti espressione di quel sistema di potere economico-politico responsabile della débâcle sociale del paese. Di conseguenza, la protesta si è quasi del tutto spenta, lasciando spazio a manifestazioni di rabbia sociale come l’organizzazione di blocchi stradali in cui simbolicamente si bruciano copertoni, che se creano disagio generale non articolano tuttavia alcuna domanda politica. Oltre alla dissipazione interna della protesta organizzata, c’è poi un altro fenomeno sociale preoccupante: una nuova ondata di diaspora, possibile per coloro che hanno legami con la diaspora libanese di vecchia generazione (del periodo della guerra civile) o hanno già un passaporto straniero e, soprattutto, i mezzi per emigrare. Questo fenomeno non solo sancisce per molti versi il fallimento della protesta ma sta trasformando e infragilendo rapidamente il tessuto sociale del paese.

• RELAZIONI ESTERNE
  Come è avvenuto già in passato nella storia dello stato libanese, la crisi interna attuale è stata presto internazionalizzata, ovvero strumentalizzata da potenze esterne per perseguire contrastanti fini politici sia in Libano sia nella regione. Le due potenze che maggiormente interferiscono dall’esterno della gestione interna della crisi sono la Francia e gli Stati Uniti, cui si aggiungono le principali potenze regionali: Israele, l’Iran e l’Arabia Saudita.
  La Francia ha cercato sin dall’estate del 2020 di avere un ruolo di primo piano in Libano, proponendo un piano di transizione politica, sponsorizzando un prestito del Fondo monetario internazionale (Fmi) che permetterebbe al Libano di pagare i suoi debiti, seppur indebitandosi ulteriormente. La cosiddetta “iniziativa francese” si è però arenata per le divergenze tra i vari partiti libanesi, ma anche per una certa interferenza degli Stati Uniti che, prima con l’amministrazione Trump e poi con l’amministrazione Biden, hanno reclamato il loro ‘primato imperiale’ in Medio Oriente rispetto alle ambizioni francesi, entrando sia nelle negoziazioni tra l’élite libanese e il Fmi sia ponendo nuove condizioni al paese. In sintesi, l’approccio francese si è presentato sin dall’inizio più inclusivo di tutti gli attori politici interni, in particolare del partito e movimento armato sciita Hezbollah, a differenza degli Stati Uniti che hanno posto il veto sulla formazione di un nuovo governo che includesse Hezbollah. L’approccio statunitense, da questo punto di vista, è da ritenersi co-responsabile della lunga impasse politica che ha bloccato il paese per oltre un anno, dato che Hezbollah – nonostante venga considerato un gruppo terrorista dagli Stati Uniti e alcuni dei suoi alleati – resta tuttavia un attore chiave degli equilibri sociali e politici interni.
  L’approccio americano, in particolare, si è materializzato nell’imposizione di sanzioni ad alcuni politici e businessmen libanesi che potessero indebolire Hezbollah e i suoi alleati, sia per costringerlo a farsi da parte sia per invogliare i suoi alleati storici a isolare il ‘Partito di Dio’. Gli Stati Uniti hanno fatto pressione anche sull’Unione europea perché adottasse a sua volta – come poi è avvenuto – un quadro di misure restrittive e sanzioni per indirizzare, attraverso la coercizione economica, una transizione politica favorevole agli interessi occidentali nella regione – ovvero volto a isolare l’Iran e favorire gli interessi di Israele e dell’Arabia Saudita nel Levante.
  Israele ha in realtà favorito l’impasse politica in Libano per diverse ragioni. In primo luogo, Israele, in linea con la narrazione saudita, ritiene il Libano uno “stato soggiogato da Hezbollah”. Dal momento che la delegittimazione del sistema politico libanese dopo il 2019 ha intaccato la forza e l’immagine del ‘Partito di Dio’ (di fatto, suo arbitro principale), la stagnazione politica libanese – e soprattutto le implicazioni morali di quest’ultima per la popolazione – si sono ben sposate con l’interesse israeliano di vedere Hezbollah debole in un Libano debole. Il deterioramento morale del potere libanese ha avuto dei risvolti materiali importanti nell’ottica dell’interesse israeliano. Israele ha particolarmente beneficiato dell’assenza di un governo a Beirut per portare avanti il suo piano di sfruttamento dei giacimenti di gas nelle acque contese tra i due stati, senza che sia ancora avvenuta una risoluzione della disputa sul confine marittimo. A corollario di questo approccio verso il Libano, Israele ha anche incrementato le violazioni israeliane dello spazio aereo libanese, spingendo lo stato libanese a presentare un ennesimo rapporto alle Nazioni Unite ad agosto 2021.
  Dal suo canto, l’Arabia Saudita – pur essendosi fortemente disimpegnata dal Libano negli ultimi anni, a seguito del fallimento di Riyadh di marginalizzare Hezbollah in Libano e, più in generale, l’Iran nel Levante arabo – resta tacitamente interessata agli sviluppi politici che avvengono a Beirut. Questo sia perché l’Arabia Saudita è ora interessata a raggiungere una parziale e tacita riconciliazione con l’Iran, sia per non lasciare che la Turchia soppianti la sua influenza perduta sulla fascia sunnita della popolazione libanese, in particolare nel nord del paese dove la Turchia è sempre più presente con associazioni caritatevoli confessionali.
  Di fronte a una generale ostilità internazionale e regionale, tuttavia, Hezbollah si è rivelato ancora una volta particolarmente resiliente. Da un lato, Hezbollah non ha mai del tutto perso il favore della sua tradizionale base sciita interna. Dall’altro, il partito ha beneficiato particolarmente del sostegno esterno iraniano nel contrastare in particolare gli effetti della svalutazione della lira libanese: Hezbollah ha infatti continuato a pagare la maggior parte degli stipendi in dollari, grazie alla fornitura di questa valuta da parte dell’alleato iraniano. Inoltre, Hezbollah ha comprato carburante dall’Iran nel momento di picco della penuria di benzina nel paese, presentandolo come un regalo a tutta la popolazione libanese e non solo alla base sciita del partito. Sebbene il carburante iraniano non sia servito a soddisfare la domanda interna, esso ha certamente dato a Hezbollah la possibilità di contrastare il discorso occidentale ma anche di mostrare i limiti del regime di sanzioni americano ed europeo. Il cargo di benzina iraniana è stato infatti bollato come “illegale” da gran parte della comunità internazionale e da alcuni attori interni libanesi, ma la capacità di Hezbollah di importare benzina nel paese sotto sanzioni in un momento così critico per il paese, ha semmai confermato che la sua forza all’interno dello stato libanese ha retto il colpo della crisi domestica post-2019. 
  Lo sblocco (per lo meno momentaneo) dell’impasse politica con la formazione del governo Mikati, è d’altronde, il risultato del fallimento di escludere Hezbollah dal governo e, dunque, della decisione di congelare le divergenze interne tra i partiti politici. Najib Mikati si è rivelato, come aveva già fatto in passato, un trait d’union tra l’establishment tradizionale sunnita e Hezbollah, ma anche tra diversi interessi esterni al paese. La formazione del governo attuale ha senza dubbio una matrice “internazionale”. Sullo sfondo, c’è innanzitutto un accordo tacito tra l’Iran e la Francia, come ha rivelato il quotidiano francofono libanese l’Orient Le Jour. Nel contesto di una crisi fortemente internazionalizzata, si deve inoltre presumere che gli Stati Uniti abbiano dato il loro consenso implicito al governo Mikati, nonostante Hezbollah sia stato uno dei suoi principali promotori.
  Per quanto le dichiarazioni di Washington siano state fortemente critiche verso Hezbollah e le cisterne di benzina iraniana giunte nel paese in concomitanza con l’insediamento del nuovo esecutivo, gli Stati Uniti hanno interesse perché si concretizzi presto un accordo tra il Libano e il Fmi, cosa che non può accadere senza un governo che abbia ottenuto l’approvazione del parlamento libanese. Dal suo canto, Hezbollah – seppure sempre critico verso il Fmi – non si è mai del tutto opposto all’ipotesi della rinegoziazione del debito. Questo sia perché l’accordo con il Fmi è l’oggetto centrale della negoziazione tra Hezbollah e i suoi rivali (e dunque il leverage che il Partito di Dio ha utilizzato per ottenere a sua volta concessioni) sia perché Hezbollah non ha mai proposto un’alternativa percorribile.
  Il nuovo equilibrio politico in Libano in nessun modo pone fine alla crisi che il paese sta attraversando dal 2019. Soprattutto perché questa crisi ha un’origine strutturale e non è il prodotto di circostanze contingenti e, dunque, superabili con un mero cambiamento del contesto. Essa richiederebbe una riforma del sistema politico che la protesta sociale organizzata nel 2019 aveva con forza domandato, ma che non si è mai materializzata. Quello che tuttavia va rilevato, nella dialettica tra società ed élite politica, è una sostanziale sconfitta della prima a vantaggio della seconda. Nel frattempo, il collasso finanziario dello stato libanese ha riaperto una dialettica internazionale e regionale, i cui principali referenti restano gli Stati Uniti da una parte e l’Iran dall’altra, rendendo visibile un’altra caratteristica tradizionale dello stato libanese: la sua natura coloniale, che rende il paese subordinato cronicamente agli interessi esterni.

(ISPIonline, 28 settembre 2021)


Gran Bretagna, i laburisti approvano una mozione a sostegno delle sanzioni contro Israele

La risoluzione condannando gli attacchi israeliani ai palestinesi, chiede la fine dell'occupazione della Cisgiordania e del blocco di Gaza...

Gran Bretagna, i laburisti approvano una mozione a sostegno delle sanzioni contro Israele In Gran Bretagna, il partito Laburista ha approvato una mozione a sostegno dell'imposizione di sanzioni contro Israele.
Il partito Laburista dell'opposizione britannica, ha approvato la mozione secondo cu Israele sta imponendo un regime di discriminazione razziale contro il popolo palestinese, definito come apartheid.
La risoluzione sostiene le sanzioni contro Israele e invita la Gran Bretagna a porre fine al commercio di armi con quel Paese.
La risoluzione condannando gli attacchi israeliani ai palestinesi, chiede la fine dell'occupazione della Cisgiordania e del blocco di Gaza.
Inoltre, la risoluzione chiede anche la fine del commercio con gli insediamenti illegali nei territori palestinesi occupati.
La risoluzione non è vincolante per la leadership del partito Laburista.

(TRT, 28 settembre 2021)


Al Palazzo di Vetro Bennett copia Netanyahu e minaccia la guerra all'Iran

L'opzione militare prende il posto della carta diplomatica scelta da Biden.

di Michele Giorgio

All'Assemblea generale dell'Onu Naftali Bennett ieri non ha portato disegni di bombe sul punto di scoppiare come fece qualche anno fa il suo predecessore Benyamin Netanyahu per denunciare il programma nucleare iraniano.
   Ma il tono da guerra che il premier israeliano ha usato per gran parte del suo discorso non lascia dubbi sulle sue intenzioni. Il programma nucleare iraniano, secondo Bennett, «è a un punto critico. L'Iran sta violando gli accordi di salvaguardia dell'Aiea e se la cava. Gli iraniani maltrattano gli ispettori, sabotano le loro indagini e la fanno franca. Arricchiscono l'uranio al 60% e la passano liscia». A suo dire Teheran vorrebbe controllare la regione con l'arma nucleare ma, ha avvertito, «se pensate che possa toccare Israele vi sbagliate. Non permetteremo all'Iran di acquisire l'arma nucleare».
   All'Onu Bennett non ha solo voluto ribadire che il suo governo non esiterà ad attaccare l'Iran se e quando lo riterrà necessario, anche senza la partecipazione degli Usa, ma che questa opzione si è fatta più concreta e vicina. Il «Piano B», l'attacco militare, discusso qualche settimana fa con Joe Biden alla Casa bianca, giorno dopo giorno prende il posto del «Piano A», la diplomazia, sulla quale l'amministrazione Usa ha detto di voler puntare per rilanciare il Jcpoa, l'accordo sul programma nucleare iraniano da cui gli Usa sono usciti nel 2018 per decisione di Donald Trump. Ma il negoziato stenta a dare risultati, la distanza tra Stati uniti e Iran resta ampia e, secondo Bennett, le possibilità di arrivare a nuovo accordo si sono assottigliate. E questo lascia sul tavolo solo l'opzione militare, anche se l'Iran nega di volersi dotare di ordigni nucleari e non ci sono prove che lo stia facendo in segreto come denuncia Tel Aviv. Piuttosto sarebbe Israele a possedere in segreto, lo dicono fonti internazionali, tra cento e duecento bombe atomiche.
   Bennett ha pronunciato 23 volte la parola Iran e non ha mai fatto riferimento ai palestinesi sotto occupazione militare israeliana da 54 anni. E, come nelle previsioni della vigilia, non ha speso una parola per replicare al presidente palestinese Abu Mazen che la scorsa settimana, nel suo discorso all'Onu, aveva intimato a Israele di ritirarsi entro in anno dai Territori palestinesi occupati. Bennett ha preferito elogiare il suo paese, descritto come un «faro in un mare in tempesta, un faro di democrazia» e parlato degli israeliani come di un popolo «che vuole condurre una buona vita» e contribuire a un «mondo migliore». Significa, ha aggiunto, che di «tanto in tanto (gli israeliani) potrebbero aver bisogno di lasciare il loro lavoro e dire addio alle famiglie per correre sul campo di battaglia».
   Un tono assolutorio scelto a poche ore dall'avvio della campagna repressiva nella Cisgiordania occupata dopo l'uccisione di cinque palestinesi, descritti dall'esercito israeliano e dallo stesso Bennett come militanti di Hamas sul punto di compiere un grave attentato. E l'escalation più significativa da maggio, quando le proteste nelle città palestinesi all'interno di Israele, in Cisgiordania e Gerusalemme Est sono sfociate in un nuovo conflitto armato tra lo Stato ebraico e Hamas.
   Ieri sono stati arrestati cinque palestinesi a Biddu, nove a Jenin, Arrabe e altre località cisgiordane. Ha lasciato il carcere invece la deputata palestinese e dirigente del Fronte popolare (sinistra) Khalida Jarrar, detenuta per circa due anni.

(il manifesto, 28 settembre 2021)


Le violazioni comparate dello Stato di diritto per il Covid-19

di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno

Dopo le ripetute restrizioni governative, con l’ennesima decretazione di urgenza degli aggiornamenti sul Green pass, non possiamo esimerci dal fare un raffronto con ciò che accade, con i relativi provvedimenti legislativi statuiti, nelle altre nazioni, per fronteggiare la pandemia del Covid-19. Nelle altre nazioni europee i provvedimenti presi sono stati decisamente meno stringenti e meno duri, in quanto il Green pass non è un certificato obbligatorio in tutta Europa. L’Unione europea ha scelto di non prendere una decisione univoca e di conseguenza ogni Stato ha stabilito delle proprie regole e norme interne. Tra i diversi Stati che hanno scelto di intraprendere una politica che non prevedesse l’istituzione del certificato verde, oltre al Regno Unito, ormai estraneo all’Unione europea, si possono annoverare gli stati europei come la Danimarca e la Spagna. Infatti nel Regno Unito, mentre il governo di Boris Johnson ha deciso di non rendere obbligatorio il certificato verde in Inghilterra, in Scozia, invece, a partire dal 1° ottobre 2021, entrerà in vigore l’obbligo di possedere il Green pass per frequentare i locali e le discoteche e per partecipare ad eventi sportivi, spettacoli e concerti.
  In Danimarca hanno preso la decisione drastica di abolire tutte le misure relative al contrasto della pandemia del Covid-19, compresa l’abolizione dell’obbligo del Green pass. In Svezia, verranno abolite quasi tutte le restrizioni per fronteggiare il Covid-19 entro il 29 settembre, riservando l’obbligo di possedere il certificato verde solo a coloro che provengono dall’estero. In Svizzera, a partire dal 13 settembre, è obbligatorio mostrare il Green pass, fin dai 16 anni di età, per frequentare i luoghi chiusi, gli alberghi e gli esercizi di ristorazione in generale, oltre a musei, teatri, concerti, piscine, sale da gioco e zoo e tutti quegli eventi siano svolti in locali pubblici.
  I datori di lavoro possono obbligare i propri dipendenti ad avere il Green pass, come personale obbligo di tutela. La Francia ha imposto il Green pass ovunque, con relative sospensioni senza stipendio per i dipendenti che non si vaccineranno, ma ha ritirato l’obbligo della mascherina. La Germania ha non ha imposto l’obbligo vaccinale, prevedendo l’obbligo del Green pass per accedere agli ospedali, alle case di cura, alle palestre, piscine e ristoranti al chiuso e per gli alberghi, ma ciascun lander può decidere autonomamente sulle restrizioni riguardanti la scuola.
  In Austria è previsto l’obbligo del Green pass per accedere ai musei, ristoranti, alberghi e locali notturni, ma non c’è l’obbligo di indossare la mascherina, mentre i turisti devono mostrare un tampone negativo o il Green pass. In Estonia, Lituania e Lettonia, vige l’obbligo del Green pass per la frequentazione di palestre, cinema, teatri e ristoranti. In Portogallo è obbligatorio mostrare il Green pass in ogni luogo con più di mille persone all’aperto e con oltre 500 persone al chiuso e alle feste e battesimi con più di 10 persone. In Grecia vige l’obbligo di utilizzo del Green pass per fruire dei treni a lunga percorrenza e per frequentare i teatri e tutti i luoghi pubblici (dal 13 settembre) e non basta mostrare la certificazione di un tampone negativo. Per i lavoratori pubblici o privati vige l’obbligo della vaccinazione o del doppio tampone settimanale e l’obbligo vaccinale per il personale delle Rsa e per tutti gli operatori sanitari.
  In Spagna non vige alcun obbligo del Green pass, prevedendo solo l’utilizzo delle mascherine al chiuso e lasciando alle singole regioni il potere decisionale sull’obbligo del Green Pass per frequentare bar, ristoranti e i locali notturni. Infine, dulcis in fundo, in Italia vige il sistema più restrittivo e illegittimo di tutta Europa e non solo, il presidente del Consiglio Mario Draghi, ha esteso l’obbligo del Green pass a tutte le categorie e in ogni dove, con poche eccezioni, dimostrando tutta la sua indifferenza nei confronti del rispetto dei principi costituzionali e dell’articolo 32 della Costituzione italiana, riguardo in particolare all’ultimo comma in cui si afferma che “La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
  Dopo più di un anno di reiterata violazione della Costituzione con il Governo Conte che ha legiferato norme riguardanti principi inviolabili come la libertà di circolazione e la libertà economica con degli atti amministrativi, come sono i Dpcm, che hanno esautorato completamente il Parlamento e quindi la sovranità popolare, che esso, per la stessa Costituzione, rappresenta, perché eletto direttamente dal popolo, assistiamo all’invereconda reiterata violazione delle nostre libertà inviolabili e anche alla violazione del diritto alla salute, cercando di imporre la somministrazione di un farmaco, chiamato impropriamente vaccino, che è ancora sperimentale almeno fino al 2023 ( secondo quanto stabilisce l’Ema) e la cui efficacia nel tempo ed i suoi effetti collaterali nel medio e lungo termine sono sconosciuti, come afferma lo stesso protocollo consegnato all’Aifa dalla Pfizer, riguardo al suo farmaco a mRna. La situazione è tanto surreale quanto preoccupante, la progressiva deriva impositiva che viola ogni conquista costituzionale dei principi inviolabili si sta dimostrando senza limiti, tanto quanto la pusillanime accettazione di tutto ciò, da parte di una popolazione terrorizzata e disinformata da una stampa e dai mas media in generale, complici e acritici e pronti a silenziare o ghettizzare qualsiasi voce autorevole scientifica o intellettuale che pone dei dubbi a tutta questa macchina da guerra di certezze, che tutto sono tranne che scientifiche, ma semmai esclusivamente politiche.
  L’Italia è una nazione ormai commissariata da un potere non rappresentativo di nessun interesse e volontà popolare, ma esecutore e rappresentativo di interessi che appartengono a lobby sovranazionali, è ormai una nazione negletta senza neanche più quella tutela costituzionale che avrebbe dovuto svolgere l’Organo costituzionale della presidenza della Repubblica, (il maggiore garante del rispetto della Costituzione), una nazione progressivamente sempre più indebitata e impoverita con il Pil che cade a picco e il numero di poveri che cresce in modo esponenziale, mentre ogni giorno viene raggiunta illegalmente da centinaia di clandestini, a cui non viene imposta nessuna restrizione e nessun vaccino o Green pass, pur trovandosi l’Italia in un forzato stato di emergenza, prorogato dall’attuale Governo fino al 31 dicembre del 2021.
  L’Italia, che è un Paese in cui è sempre più difficile ricorrere al voto popolare, quando cade un Governo, perché viene sempre procrastinato dai “giochi di palazzo”, ormai è una nazione stanca, depressa, con un tasso di natalità quasi inesistente e inversamente proporzionale al tasso di senilità, che cresce sempre maggiormente, con in relativi costi, che il nostro sistema pensionistico contributivo non può sostenere. Il nostro Paese vive una situazione sociale ed economica tanto stagnante quanto drammatica, che le politiche governative illegittime e le sue altrettante restrizioni incostituzionali hanno peggiorato, portando sul lastrico milioni di italiani e le loro rispettive famiglie, mentre l’atavico strumento del “Panem et circenses” (più circenses che panem), come quello dei Campionati di calcio e delle Olimpiadi, viene utilizzato per assuefare e distrarre la massa dalla consapevolezza del proprio progressivo “de profundis”.

(l'Opinione, 28 settembre 2021)


Con il progetto "Mustaqbaluna" 791 palestinesi hanno avviato un'attività imprenditoriale

Giunge a conclusione Mustaqbaluna, il progetto triennale nato con l’obiettivo di accrescere le opportunità lavorative delle fasce più deboli della popolazione, tramite iniziative di innovazione sociale e imprenditorialità inclusiva. Iniziato nel 2018, il progetto è stato finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS), con il supporto del Ministero del Lavoro palestinese, e implementato dall’ong AVSI e BASR (Bethlehem Arab Society for Rehabilitation), in partenariato con la Regione Emilia Romagna (RER), la Cooperativa Nazareno, la Young Women’s Christian Association (YWCA), il Palestinians Shippers’ Council (PSC), la Palestinian Fund for Employment and Social Protection (PFESP) e l’Arab Center for Agricultural Development (ACAD).
  Diversi i punti di forza del progetto: la creazione di attività proprie da parte di 108 persone con disabilità; l’aumento delle vendite e l’acquisizione di nuove competenze grazie al conseguimento del diploma di Supply Chain Management da parte di 9 cooperative di donne su 12 totali; la partecipazione a corsi di formazione da parte di 12 artigiani per sviluppare competenze commerciali, creando ricadute economiche positive anche per le loro famiglie; la formazione di 21 persone portatrici di handicap con l’assunzione a fine corso da parte di imprese locali; l’apertura del negozio "Hamed Helo"; gestito dalle 12 cooperative di donne coinvolte nel progetto, un luogo a Gerico dove vendere i loro prodotti per diventare più indipendenti finanziariamente; il sostegno grazie a un workshop, la ristrutturazione dei laboratori e un programma di formazione a 12 artigiani del legno d’ulivo nella zona di Betlemme che hanno sofferto la riduzione del flusso turistico dovuto alla pandemia.
  La conclusione del progetto sarà celebrata con l’evento finale che si svolgerà presso la Scuola di Terra Santa di Gerico, in Palestina. Saranno presenti Giuseppe Fedele, console generale d’Italia a Gerusalemme, Guglielmo Giordano, direttore di AICS Gerusalemme e Mirella Orlandi, direttrice del dipartimento cooperazione e aiuto umanitario della Regione Emilia-Romagna.
  L’evento finale del progetto Mustqbaluna è stato selezionato dall’Agenzia Italiana di Cooperazione allo Sviluppo per far parte della programmazione del Festival dello Sviluppo Sostenibile 2021, organizzato da ASviS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile) al fine di sensibilizzare e mobilitare cittadini, giovani generazioni, imprese, associazioni e istituzioni sui temi della sostenibilità economica, sociale e ambientale.
  “Da questo progetto abbiamo imparato una lezione fondamentale, – rileva Giampaolo Silvestri, segretario generale di Fondazione AVSI – che è l'impegno di tutti noi insieme, beneficiari, istituzioni, partner locali e istituzionali, il motore del vero cambiamento. Senza la costante dedizione di ciascun partner sarebbe stato impossibile raggiungere i risultati ottenuti”.

(Vita, 28 settembre 2021)


Memoria dell’Aliyah Bet, l'associazione Italia-Israele organizza una cerimonia a Vado Ligure

L'appuntamento è fissato per martedì 5 ottobre, alle ore 10.30, presso i Giardini Marinai d'Italia

Martedì 5 ottobre 2021, alle ore 10.30, presso i Giardini Marinai d’Italia, a Vado Ligure, si celebrerà la Memoria dell’Aliyah Bet, cerimonia organizzata dall’Associazione Italia-Israele di Savona, con il patrocinio della Regione Liguria, della Provincia di Savona e del comune di Vado Ligure.
  "L’Aliyah Bet fu il grande piano di immigrazione clandestina di migliaia di Ebrei, in prevalenza dell’Est Europa, ex internati dei campi di sterminio nazisti, che, all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, tra il 1945 e il 1948, dopo essere stati raccolti per mesi in campi anche nel Nord Italia, partirono clandestini per raggiungere la Terra d’Israele" spiega il presidente dell'associazione Cristina Franco.
  "Sopravvissuti privati della famiglia, strappati ai propri affetti, spogliati della casa e dei loro beni, del lavoro, delle proprie anime, da quella macchina folle e omicida nazista, che vedevano ora in Israele una meta da raggiungere per cominciare una nuova vita. Un popolo in fuga, reduce dalla sua più grande tragedia e disposto a tutto pur di ritornare a Eretz Israel. Migliaia di loro partirono dall’Italia, e fu grazie all’aiuto di tantissimi valorosi cittadini italiani insieme alla Brigata Ebraica, se 34 imbarcazioni – spesso meri pescherecci di fortuna – con a bordo oltre 20 mila persone, poterono partire dai nostri porti, come Vado Ligure, con la collaborazione della popolazione locale e dei gruppi partigiani, sfuggendo al controllo dei britannici che consentivano ingressi limitati nei territori medio orientali sotto il loro mandato".
  "Da qui nasce la volontà dell’Associazione Italia – Israele di Savona, nel solco del ricordo dei 100 anni di Israele in Liguria, di riportare alla Memoria questa pagina della storia del ponente ligure, mai ricordata in 75 anni. Mentre si conosce la storia delle partenze da La Spezia, chiamata appunto la Porta di Sion, pochi ricordano o conoscono la storia drammatica e insieme piena di speranza delle partenze da Vado Ligure. La memoria di quegli eventi, che testimoniano un profondo messaggio di solidarietà e umana compassione dopo decenni di barbarie, segna un passo importante nella costante lotta all’antisemitismo portata avanti dalla nostra Associazione e contribuisce a contrastare l’odio e la discriminazione di qualsivoglia natura. Quegli eventi sono una parte importante della nostra storia e una testimonianza del profondo legame che unisce la nostra Regione allo Stato di Israele: un legame iniziato oltre un secolo fa, nel 1920 con la Conferenza di Sanremo, in cui si posero le fondamenta giuridico internazionali del futuro Stato di Israele, del diritto del popolo ebraico, in forza della sua connessione storica con quella terra, di ricostruivi un proprio stato nazionale".
  "L’Associazione Italia Israele di Savona ha iniziato con un evento a Savona nel febbraio del 2020 a celebrare i “100 anni di Israele in Liguria” ripercorrendo il fil rouge della storia, dalla Conferenza di Sanremo del 1920, all’Alyiah Bet dai nostri porti ed infine alla adozione da parte della Regione, nel gennaio 2020, prima istituzione della Repubblica Italiana, della definizione operativa di antisemitismo deliberata dall’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto. Ad aprile, lo Stato di Israele, tramite la sua Ambasciata in Italia, ha donato al nostro ospedale savonese due sofisticati dispositivi sanitari".
  "Durante la cerimonia del 5 ottobre, che vedrà la presenza di S.E. l’Ambasciatore di Israele in Italia e tutte le Autorità regionali, civili, politiche, militari e religiose, verrà installata una targa memoriale dedicata alle migliaia di Ebrei sopravvissuti che partirono dal porto di Vado Ligure e per ricordare l’aiuto della popolazione locale e il coraggio dei capitani, come Giovanni Battista Mezzano, e degli equipaggi liguri che li condussero per mare sino all’arrivo, a volte drammatico, in Terra d’Israele. L’evento sarà accompagnato da canti che segnano il passaggio dal dramma della Shoah, le partenze verso la nuova vita e l’arrivo in Israele - conclude - Si lavora anche per l’installazione di due monumenti alla Memoria".

(SavonaNews.it, 28 settembre 2021)


Caccia ad Hamas, blitz in Cisgiordania. Bennet: preparavano attacchi terroristici

Almeno cinque palestinesi sono rimasti uccisi ieri mattina in una serie di scontri a fuoco con le forze di sicurezza israeliane nel corso di arresti di elementi di una cellula di Hamas in varie parti della Cisgiordania. Nell'operazione anche due soldati israeliani sono rimasti feriti in modo grave. Gli scontri a fuoco sono avvenuti a Burgin, Jenin, Qabatiya, Kafr Dan e a Kafr Bidu, vicino Ramallah, mentre le forze di sicurezza erano a caccia di elementi della cellula.
   L'ondata di arresti - che ha portato agli scontri a fuoco - aveva come obiettivo una cellula di Hamas sulle cui tracce erano da giorni le forze di sicurezza israeliane, secondo le quali stava preparando attentati terroristici. E ora non si può escludere che dalla Striscia non parta un nuovo lancio di razzi in rappresaglia. Il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha ribadito che le forze di sicurezza israeliane in Cisgiordania si sono mosse contro gli agenti di Hamas «che stavano per eseguire attacchi terroristici, e che i soldati sul campo «hanno agito come ci si aspettava che agissero» e che il suo governo ha dato loro pieno sostegno.

(La Stampa, 27 settembre 2021)


Israele rilascia una deputata palestinese, condannata a due anni di reclusione

Dopo aver trascorso circa tre anni in prigioni israeliane, la deputata palestinese donna è considerata tra le figure di spicco del Fronte popolare di liberazione della Palestina (FPLP), un’organizzazione palestinese di estrema sinistra classificata da alcuni Paesi, tra cui Stati Uniti e Israele, come terroristica.
  Jarrar, deputata palestinese di 58 anni, era stata arrestata dalle forze israeliane il 31 ottobre 2019, mentre si trovava nella sua abitazione a Ramallah, in Cisgiordania. L’arresto era avvenuto nel corso di un’operazione che aveva portato alla detenzione di decine di membri della FPLP, accusati di essere responsabili di un attacco “terroristico” perpetrato nel medesimo mese, che aveva causato la morte di una ragazza israeliana di 17 anni, Rina Shnerb. Prima di essere condannata, a marzo 2021, a due anni di reclusione, Jarrar era stata trattenuta in carcere più volte sotto detenzione amministrativa senza processo, da luglio 2017 a febbraio 2019. Tale procedura, spesso impiegata con i palestinesi, consente alle forze di sicurezza israeliane di detenere i sospetti per periodi rinnovabili di sei mesi senza accuse. Seppur condannata da organizzazioni per i diritti umani, per i funzionari israeliani la misura mira a prevenire ulteriori crimini e a impedire la diffusione di informazioni di sicurezza “sensibili” mentre le indagini sono ancora in corso.
  Per Jarrar l’accusa principale è stata di affiliazione alla FPLP, una “organizzazione illegale”, mentre l’esercito israeliano non è riuscito a trovare prove che dimostrino il coinvolgimento della deputata in atti violenti. L’appartenenza al FPLP ha portato a periodi di detenzione a più riprese, da aprile 2015 a giugno 2016, a seguito dei quali la deputata si è dichiarata colpevole per evitare una condanna più lunga. In tal caso, Jarrar era stata accusata di aver tenuto un discorso, nel 2012, durante una manifestazione per prigionieri palestinesi in cui avrebbe chiesto il rapimento di soldati israeliani.
  Dal 2006, la donna è stata membro del Consiglio legislativo palestinese, il Parlamento dell’Autorità palestinese, come esponente del Fronte popolare di liberazione della Palestina, dove ha spesso portato avanti cause riguardanti i diritti delle donne e la sicurezza dei prigionieri nelle carceri israeliane. È stato proprio il FPLP ad accogliere con favore il rilascio di Jarrar, il 26 settembre, definendo la donna una “compagna d’armi”, nota per la sua pazienza e tenacia. Anche il capo del Palestinian Prisoners Club, Qadura Faris, la governatrice di Ramallah e al-Bireh, Leila Ghannam, e decine di giornalisti palestinesi hanno accolto Jarrar al cimitero di Ramallah, dove la deputata si è recata per rendere un omaggio alla figlia defunta, Suha. Quest’ultima è morta nel mese di luglio scorso per un improvviso attacco cardiaco, ma a Jarrar non era stato consentito di partecipare ai funerali. “Ho sempre sognato di correre alla tomba di Suha per abbracciarla dopo che mi avevano impedito di dirle addio”, ha dichiarato Jarrar, aggiungendo: “Molti prigionieri vivono in condizioni difficili, a causa della perdita dei loro cari. Ciò che chiedono è libertà. Sono esseri umani, ma l’occupazione criminale non conosce l’umanità”.
  Dal 1967, il Ministero della Difesa israeliano ha bandito più di 411 organizzazioni, tra cui i principali partiti politici palestinesi, incluso il partito Fatah legato al presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas. Secondo Human Rights Watch, l’esercito israeliano ha privato generazioni di palestinesi in Cisgiordania dei diritti civili fondamentali, compresa la libertà di assembramento, associazione ed espressione, facendo leva su ordini militari emessi per preservare l’ordine e la sicurezza. Ad essere applicati sono anche i regolamenti di difesa del 1945, emanati dalle autorità del mandato britannico per sedare i crescenti disordini. Tali regolamenti autorizzano le autorità, tra le altre cose, a dichiarare come “associazione illecita” gruppi che porterebbero “odio, disprezzo o disaffezione” contro le autorità israeliane e criminalizzano l’appartenenza a tali gruppi così come il possesso di materiale legato ad essi, anche indirettamente.

(Sicurezza Internazionale, 27 settembre 2021)


La passione di Hamas, Al Qaeda e Isis per le criptomonete

Le transazioni con criptovalute stanno diventando un meccanismo di finanziamento molto accessibile per i terroristi. Un’analisi di Chainalysis indica che nel 2020 sono stati registrati movimenti per fini illegali per circa 10 miliardi di dollari, l’1% delle attività totali di criptomonete.

L’organizzazione terroristica palestinese Hamas ha raccolto circa un milione di dollari in criptomonete, grazie ad un appello lanciato sul loro sito web e i canali Telegram. Si tratta della raccolta più grande in monete digitali, secondo un report di Coinbase, una piattaforma di commercio di criptomonete con sede a San Francisco, che segue i movimenti finanziari di gruppi come Al Qaeda e Stato Islamico attraverso i blockchains.
  “Hamas chiede attivamente donazioni principalmente in Bitcoin sul loro sito e sui canali Telegram”, si legge nel report di Coinbase. Gli esperti considerano gli sforzi di Hamas per la raccolta fondi come “sorprendenti”, in comparazione con altre organizzazioni. Coinbase conclude il rapporto spiegando le strategie di prevenzione per evitare le campagne di raccolte-fondi da parte degli estremisti, tra cui ci sono il blocco di indirizzi associati al finanziamento terrorista e un maggior controllo digitale da parte delle autorità.
  L’impegno per la crescita economica di Hamas è cominciato nel 2018, ma la maggior parte delle donazioni sono arrivate a maggio del 2021, dopo gli scontri tra Israele e Hamas. Solo quel mese, le organizzazioni terroristiche palestinesi hanno ricevuto 500.000 dollari. In un messaggio pubblicato in rete, e identificato dal Middle East Media Research Institute, un gruppo siriano legato ad Al Qaeda chiede donazioni in Bitcoin Dark Wallet. Per il Middle East Media Research Institute l’uso di criptomonete da parte dei jihadisti è il “fenomeno recente più significativo e pericoloso del terrorismo globale”.
  Gli analisti avvertono che le transazioni con criptovalute stanno diventando un meccanismo di finanziamento molto accessibile per i terroristi. Un’analisi di Chainalysis di febbraio indica che nel 2020 sono stati registrati movimenti per fini illegali per circa 10 miliardi di dollari, l’1% delle attività totali di criptomonete l’anno scorso. L’Interpol invece ha individuato transazioni in monete virtuali da parte di terroristi per circa 1 miliardo di dollari nel 2020.
  Il Dipartimento del Tesoro americano ha cominciato ad applicare sanzioni per combattere le transazioni illegali in criptomonete, limitando piattaforme probabilmente coinvolte in cyber-attacchi.
  Yaya Fanusie, ex analista della Cia, ha spiegato a Infobae che “le criptomonete non sono state create per finanziare il terrorismo, ma fanno questa funzione […] Da sei anni i terroristi islamici fanno questi investimenti. E stanno diventando, sempre di più, transazioni sofisticate e difficili di identificare”.

(Formiche.net, 27 settembre 2021)


Palestinesi stop a rivendicazioni. Meglio i soldi che una nazione

La "teoria Goodman". Il consigliere del premier israeliano Bennett suggerisce di "ridurre l'intensità del conflitto piuttosto che risolverlo". Il vecchio leader Abu Mazen vede una possibilità per migliorare l'economia dei Territori.

di René Backmann

Autorità palestinese concederà a Joe Biden e a Naftali Bennett ciò che ha sempre rifiutato a Donald Trump e a Benjamin Netanyahu: di abbandonare cioè il progetto di Stato nazionale in cambio di promesse di uno sviluppo economico? In effetti non si è parlato mai così poco della creazione di uno Stato palestinese e della fine dell'occupazione, obiettivi storici dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), come da quando Biden è alla Casa Bianca e Naftali Bennett è primo ministro di Israele. Mahmoud Abbas (Abu Mazen), presidente dell'Autorità, sembra pronto a cambiare strategia ora che si prospettano dei piani di sviluppo economico per la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.
  I palestinesi sono sempre più isolati. Dalle rivolte arabe, poi con la guerra civile in Siria, il conflitto in Yemen, la destabilizzazione dell'Iraq, le guerre contro Al-Qaeda prima e l'Isis poi, le tensioni tra l'Iran e il suo vicini, la questione della Palestina è stata oscurata da crisi più spettacolari e urgenti. Come era successo negli anni 60, prima che Yasser Arafat prendesse il controllo dell'Olp nel 1969, i dirigenti attuali degli Stati Arabi e del Golfo hanno preso in mano la questione palestinese, senza consultare i diretti interessati. All'incontro del Cairo di gennaio, per rilanciare i negoziati di pace tra israeliani e palestinesi, in presenza dei ministri degli Esteri egiziano, giordano, francese e tedesco, nessun rappresentante palestinese era stato invitato. Inoltre, dagli accordi conclusi tra Israele e Sudan, Marocco, Emirati Arabi Uniti e Bahrain, su iniziativa di Trump, e sui quali Biden non è mai tornato, lo Stato ebraico appartiene ormai al blocco degli alleati locali degli Stati Uniti contro l'Iran. Nel suo primo incontro col nuovo premier israeliano, Biden si è limitato a chiedere a Bennett di agevolare la vita dei palestinesi, dicendosi pronto a contribuire finanziariamente. Malgrado la presenza nel governo di Bennett di personalità del centro-sinistra, della sinistra sionista e anche di un ministro islamista, le radici ideologiche del nuovo potere israeliano non sono diverse da quello precedente di Netanyahu. L'influenza della destra nazionalista e religiosa e dei coloni resta dominante. Bennett è ostile quanto il suo predecessore alla creazione di uno Stato palestinese. La continuità è confermata dai dati dell'Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA): in Cisgiordania, 57 palestinesi, tra cui 12 bambini, sono stati uccisi dall'esercito israeliano dall'inizio dell'anno, e 31 edifici di proprietà di palestinesi sono stati demoliti a Gerusalemme Est. Questo porta il totale degli edifici palestinesi distrutti da gennaio a più di 650. In nove mesi, le Nazioni Unite hanno anche registrato più di 300 attacchi di coloni contro palestinesi. Una differenza tra il governo di Bennett e quello di Netanyahu però c'è. Influenzato da un suo consigliere, il filosofo Micah Goodman, sembra che Bennett abbia deciso di impegnarsi a "ridurre l'intensità del conflitto con i palestinesi piuttosto che di risolverlo". Non si tratta di porre fine all'occupazione. Goodman, che risiede lui stesso in una colonia, Kfar Adumim, spiega, in un'intervista a Haaretz, che ''la maggior parte degli israeliani, anche di destra, non vuole dominare i palestinesi, ma teme che un ritiro israeliano dai territori occupati permetta ai palestinesi di minacciarli". Per risolvere questo problema, Goodman consiglia di combinare "incentivi economici" nei territori occupati a meccanismi di "autogoverno" palestinese. Si ipotizza, in particolare, la creazione di "corridoi" per collegare i diversi territori e che permettano l'accesso a un posto di frontiera con la Giordania. "In questo modo - spiega Goodman - i palestinesi avrebbero la sensazione di autogestirsi, ma non sarebbero in grado di minacciare Israele".
  È alla luce di questa strategia di "riduzione del conflitto" che vanno interpretate alcune "misure" sorprendenti avanzate da Bennett in favore dei palestinesi: un prestito di 156 milioni di dollari, a titolo di anticipo sulle tasse doganali raccolte da Israele, la regolarizzazione di migliaia di palestinesi che vivono illegalmente in Cisgiordania, il rilascio di 15.000 permessi di lavoro, mille permessi di costruzione in Cisgiordania in "Zona C" e 5.000 permessi per i commercianti palestinesi per lavorare in Israele. A Gaza, governata dal movimento islamista Hamas, dovrebbero essere ripristinate le linee elettriche e la distribuzione del gas.
  Dovrebbe inoltre essere costruito un impianto di desalinizzazione dell'acqua di mare e, a termine, un nuovo collegamento con la Cisgiordania. In cambio, le autorità palestinesi, compreso dunque Hamas, si devono impegnare a mantenere una "calma di lunga durata". Ciò significa, per Hamas smettere di lanciare razzi su Israele e per l'Autorità di Ramallah accettare l'occupazione e rinunciare alla sua lotta storica.Non sappiamo cosa ne pensi davvero Mahmoud Abbas. "Perché non approfittare delle buone disposizioni degli israeliani, sostenuti da Washington, per risollevare la nostra economia?" avrebbe detto uno dei suoi consiglieri. "Questa rassegnazione è spregevole - osserva un docente universitario di Ramallah, ex consigliere di Yasser Arafat-. Perché toccherebbe a noi, che viviamo sotto occupazione, accettare delle misure per rassicurare l'occupante?" Come ha fatto l'Autorità palestinese ad arrivare a questo punto? Forse perché la sua situazione politica non è mai stata così disastrosa. Alla testa dell'Autorità c'è un uomo di 86 anni, dalla salute precaria e senza più alcuna legittimità democratica. Giovani e intellettuali lo denunciano nelle strade, al prezzo di una repressione degna delle peggiori dittature. Alla fine di agosto, 30 attivisti sono stati arrestati in 48 ore per aver manifestato contro il regime. A Hebron, due mesi prima, è morto un dissidente di 40 anni, Nizar Banat, padre di cinque figli, colpevole di aver "denunciato sui social network la corruzione del regime". Eletto nel 2005, per un mandato di quattro anni, Mahmoud Abbas non ha mai lasciato il potere.
  Le divisioni interne agli stessi palestinesi, tra Fatah a Ramallah e Hamas a Gaza, non hanno mai permesso di organizzare elezioni credibili. Annullando il voto dello scorso luglio, per timore di essere battuto dal candidato di Hamas, Mahmoud Abbas ha distrutto l'ultima occasione di una riconciliazione inter-palestinese.
  È dunque per tentare di risanare la loro situazione politica, rivendicando i meriti di un eventuale miglioramento economico, alimentato dai dollari israeliani e statunitensi, che i due più stretti consiglieri di Mahmoud Abbas - e possibili successori del presidente palestinese - hanno scommesso sulla "strategia Goodman"? Hussein al-Sheikh, 61 anni, è responsabile dal 2007 degli ''Affari Civili" dell'Autorità, ovvero dei rapporti con il governo israeliano. Majed Faraj, 58 anni, capo dei servizi segreti dell'Autorità dal 2007, è membro della delegazione che gestisce i negoziati di riconciliazione con Hamas. Sembra che sia Faraj che al-Sheikh svolgano un ruolo molto attivo nella politica di "riduzione del conflitto" adottata da Bennett e accettata, almeno tacitamente, da Mahmoud Abbas. Come se i futuri dirigenti dell'Autorità, che ancora non si rivendicano tali, fossero convinti che uno Stato palestinese non potrà mai esistere, così come non esisterà mai uno Stato democratico binazionale, e che, allo stesso tempo, date le tensioni geopolitiche regionali e la posizione statunitense, anche l'ipotesi dell'espulsione dei palestinesi, cioè di una nuova Nakba, sia almeno provvisoriamente esclusa. Non ci sarebbe quindi altra via d'uscita che accettare il vecchio schema coloniale, con i territori occupati trasformati in serbatoio di mano d'opera per l'occupante? Imporre la nuova governance implica di mettere a tacere le critiche e le resistenze. Questo spiegherebbe la violenza utilizzata contro le opposizioni e l'allontanamento di alti funzionari, noti per la loro competenza, ma anche per loro libertà di parola.

(il Fatto Quotidiano, 27 settembre 2021)


Hosh’anà Rabbà, Sheminì Atzeret e Simchà Torah: usi e costumi degli ebrei di Roma 

Intervista Sandro Di Castro

di David Di Segni

L’ultimo giorno della festa di Sukkot è detto Hosh’anà Rabbà, che rappresenta la chiusura di un ciclo iniziato con Rosh Ha Shanà: in questa occasione viene posto il sigillo al giudizio divino. Per questo, è detto anche “piccolo Kippur” e, per tutta la notte che lo precede, è usanza rimanere svegli e leggere il libro di Devarìm. 
  Una fonte storico-religiosa ci fornisce però informazioni diverse riguardo questa usanza. Infatti “Tzetkià Ben Avraham, rabbino romano vissuto nel 1240 - spiega Sandro Di Castro, responsabile del Tempio dei Giovani - scriveva nello Shibolè HaLechet:” C’è chi usa, nella notte del giorno del salice, rimanere sveglio ad occuparsi di Torah, iniziando da Bereshìt fino a Vezòt HaBerachà, l’ultima Parashà”. Siccome oggi sono pochi coloro che passano la notte a leggere per intero la Torah, si fa solamente il libro di Devarìm fino alla prima Parashà di Bereshìt”.
  La notte di Hosh’anà Rabbà si legge anche il Tiqqun, un testo kabbalistico che conclude l’opera di pentimento, la Teshuvà. Attualmente, a Roma, questo brano si legge nei templi, ma prima “si faceva solamente in alcune case. Una ventina di anni fa lo si leggeva in quella di “Zio” Angelino Della Torre, dove partecipavano tutti i Rabbanim. È un momento di incontro, che nelle Sinagoghe viene accompagnato dall’usanza di suonare lo Shofar sette volte, con inni e canti che ricordano anche le Selichòt”. Come da tradizione, a Roma si intona anche lo “Yedid Nefesh”, un canto suggestivo e profondamente tradizionale, tramandato dai rabbini Morè Della Rocca e Morè Nello.
  La mattina di Hosh’anà Rabbà è la rappresentazione della gioia, le Sinagoghe si popolano “come al momento di Neilà nel giorno di Kippur” all’insegna dell’armonia e della profonda ritualità. “Mi capitò una volta, mentre giravo dietro ai Sefarìm con altri rabbini, sentire degli israeliani dire ‘sembra come il Bet HaMikdash’. Infatti, nel Santuario di Gerusalemme, era il giorno della felicità per eccellenza. È scritto che ‘chi non ha visto la gioia dello Yom HaAravà nel Bet HaAmikdash, non ha visto la vera gioia’ “. Un sentimento che, grazie al forte collegamento con Gerusalemme, viene in parte rievocato.
  Su un libro di Halakà romana, scritto da un rabbino-medico della famiglia degli “Anav” tra il 13° ed il 14° secolo, sono riportati usi e divieti sull’utilizzo della Aravà, del salice. È proibito, infatti “prenderne i rami dopo averlo sbattuto, poiché le foglie cadute simboleggiano i peccati, e godere della pianta: non si può bruciare o utilizzarla per farci degli “shippudìn”, spiedini, da mangiare con la carne. All’epoca c’era questa tradizione. Non si può nemmeno godere del Cedro, ed al termine della festa si dovrebbe poggiare la Aravà nel capo del letto”.  
  A Sheminì Atzeret non ci sono tradizioni o Mitzvòt rilevanti. È detta “ottavo di chiusura, ed è paragonata al giorno seguente delle grandi feste o matrimoni, in cui padrone di casa desidera rimanere con gli amici più stretti: allo stesso modo il Signore si riserva uno spazio per restare solamente con il popolo ebraico”. Per l’occasione, a Roma, nella preghiera serale di Arvìt, si recita il canto di “Kol HaBechor”.
  Infine, dopo Sheminì Atzeret, c’è Simchà Torah: la festa in cui si conclude e si inizia nuovamente la lettura della Torah. “Il Sefer HaTadir, il testo di un rabbino romano vissuto tra il 1373 – 1390, dice che un’altra usanza di questo giorno era quella di prendere i cedri e mangiarli col miele o cose dolci per celebrare la dolcezza della Mitzvah”. 
  La sera della festa si fanno le Haqqafòt, i sette giri coi Sefarìm attorno all’altare. Nel momento in cui si estraggono i rotoli della Torah, tra i vari canti si intona anche lo Yafuzu Oyevecha, il cui attuale testo “è stato riproposto dal maestro Claudio Di Segni per il Limud del Morè Eliseo”. Composto proprio in occasione di Simchà Torah, lo Yafuzu è stato poi usato anche per Kippur “grazie a Rav Della Rocca, che lo propose come canto aggiunto poiché in anticipo nell’itinerario delle preghiere rispetto al suono dello Shofar”. 
  Feste ricche di tradizioni ed usanze antiche, che gli ebrei di Roma conservano con molto affetto, attenzione e rispetto. L’obiettivo è di tramandarle, come accaduto finora, affinché non vadano perdute. Un lungo filo che dura da millenni, e che non è intenzionato a finire.

(Shalom, 27 settembre 2021)


LG acquisisce Cybellum, l’azienda israeliana di soluzioni per la valutazione del rischio di cybersecurity dei veicoli

di Maria Mosca

Il consiglio di amministrazione di LG Electronics (LG) ha approvato l’acquisizione di Cybellum, società leader nelle soluzioni per la valutazione del rischio di cybersecurity dei veicoli. L’accordo permette a LG di assumere una partecipazione di circa il 64% nella società, per un valore di 140 milioni di dollari, una mossa strategica che migliorerà le capacità di cybersecurity di LG e accelererà i suoi sforzi per diventare un Innovation Partner per la Mobilità Futura.
  Le azioni rimanenti saranno acquisite prossimamente a seguito della valutazione finale e l’importo totale dell’investimento sarà confermato di conseguenza. Oltre a questo investimento iniziale, LG si è impegnata per un SAFE (Simple Agreement for Future Equity) per l’investimento di altri 20 milioni di dollari in Cybellum alla conclusione del processo di trading nel quarto trimestre.
  Fondata nel 2016 a Tel Aviv, Cybellum è un’azienda leader nella cybersecurity dei veicoli, con circa 50 dipendenti e sta attualmente collaborando con i principali attori del settore, offrendo con successo le proprie soluzioni a produttori e fornitori di veicoli in tutto il mondo. Oltre a Israele, Cybellum opera in Giappone, Germania e Nord America. Cybellum rimarrà un’entità e un marchio indipendente, continuando a crescere e a sostenere i propri clienti e partner con lo stesso livello di impegno e gli stessi standard a cui questi sono abituati.
  Con l’aumento del numero e della tipologia di minacce alla sicurezza informatica e con l’industria automobilistica globale che sta passando all’era dell’auto connessa, in cui è essenziale poter contare su una connettività sicura, la necessità di una maggiore sicurezza informatica del veicolo che soddisfi gli standard internazionali non è mai stata così elevata. Inoltre, la cybersecurity dei veicoli diventerà sempre più importante nel tempo, dato che le auto si stanno evolvendo in sistemi organicamente connessi con complesse interrelazioni tra i loro vari componenti. Cybellum consentirà a LG di essere tra i primi ad entrare all’interno di un settore in rapida crescita come quello della cybersecurity automobilistica e di fornire più valore in aree chiave come la progettazione, lo sviluppo e il funzionamento dei componenti, ottimizzando la sicurezza del software.
  Una delle soluzioni più avanzate di Cybellum per proteggere i veicoli dalle minacce alla sicurezza informatica è la piattaforma Cyber Digital Twins, capace di creare una rappresentazione dettagliata dei componenti software di un veicolo, senza accedere al codice sorgente, esponendone quindi automaticamente tutti i rischi potenziali. La piattaforma si basa sul rilevamento delle minacce in tempo reale per verificare le vulnerabilità e offrirne una valutazione completa, oltre a indicare le soluzioni raccomandate.
  Prima acquisizione per LG in Israele e nel settore della cybersecurity, questo investimento svela l’importanza di questa categoria in crescita ed è una parte fondamentale della strategia di LG per rafforzare il proprio business portfolio attraverso acquisizioni strategiche, alleanze e partnership, con una forte attenzione al business dei componenti per veicoli. Nell’agosto 2018, LG ha acquisito l’austriaca ZKW Group, attore leader nel mercato dei sistemi di illuminazione automobilistica. A luglio, LG ha lanciato una joint venture con Magna International, il terzo fornitore mondiale di auto, per creare LG Magna e-Powertrain, aumentando la competitività e il potenziale di crescita futuro di entrambi i partner.
  “Siamo entusiasti di questa partnership con LG e del grande vantaggio che siamo stati in grado di offrire ai nostri stakeholder”, ha detto Slava Bronfman, CEO di Cybellum. “Cybellum ha sviluppato l’offerta di cybersecurity più completa del settore e unire le forze con LG ci permetterà di accelerare ulteriormente la realizzazione della nostra visione. Ci aspettiamo di crescere significativamente nel prossimo futuro”.
  “Non è un segreto che il software giochi un ruolo critico nell’industria automobilistica e, con esso, lo gioca anche la necessità di soluzioni efficaci di cybersecurity,” ha detto il Dr. Kim Jin-yong, presidente di LG Electronics Vehicle component Solutions Company. “Questo accordo rafforzerà ulteriormente la solida base di LG nella cybersecurity, permettendoci di essere ancora più preparati per l’era delle auto connesse”.
  Fondata nel 2013, la Vehicle Solution Company di LG ha registrato un fatturato di 5,18 miliardi di dollari nel 2020, con un aumento del 6,1% rispetto al 2019. Attraverso il suo investimento nella cybersecurity dei veicoli, LG si sta impegnando ad aumentare la competitività dei suoi sistemi di infotainment, dei propulsori per veicoli elettrici e delle soluzioni per l’illuminazione dei veicoli, i tre pilastri dell’industria dei componenti automobilistici.

(AndroidStyleHD, 27 settembre 2021)


Quattro palestinesi uccisi dalle forze israeliane in Cisgiordania

Almeno 4 palestinesi sono stati uccisi dall’esercito israeliano durante un’operazione condotta in Cisgiordania all’alba di domenica 26 settembre. Le incursioni dei militari di Tel Aviv sono finite in scontri a fuoco nelle aree di Jenin e Gerusalemme. Secondo quanto riferito dalle Forze di difesa israeliane (Idf), l’obiettivo dell’operazione era quello di catturare membri di Hamas.
  Il Ministero della Sanità dell’Autorità nazionale palestinese ha confermato il bilancio delle vittime. Mohammad Hleil, portavoce del Ministero, ha specificato che 3 sono stati uccisi nel villaggio di Biddu, a Nord-Ovest di Gerusalemme, e sono stati identificati dalle loro famiglie come Ahmad Zahran, Mahmoud Hmaidan e Zakariya Badwan. Il quarto era un residente del villaggio di Burqin, a Sud-Ovest della città di Jenin, ed è stato identificato come Osama Soboh, di 22 anni. Hleil ha aggiunto che ci sarebbero notizie di un quinto palestinese rimasto ucciso, ma ha dichiarato che non si hanno ancora conferme. Il portavoce del Ministero della Sanità dell’Autorità palestinese ha specificato che i corpi delle vittime di Biddu sono in custodia dell’esercito israeliano. Osama Soboh è invece morto nell’ospedale Ibn Sina di Jenin. Secondo l’agenzia di stampa ufficiale palestinese Wafa, quest’ultimo sarebbe stato ucciso dopo che le forze israeliane hanno fatto irruzione a Burqin e circondato una delle case, provocando un pesante scontro a fuoco. Anche Zahran, Hmeidan e Badwan sarebbero stati uccisi durante un confronto armato con l’esercito israeliano a Biddu.
  In una dichiarazione pubblica, il primo ministro dell’Autorità palestinese, Mohammad Shtayyeh, ha espresso il suo cordoglio per i quattro palestinesi uccisi. “Pazienza e conforto per le loro famiglie e i loro cari, e libertà per il nostro popolo da questa occupazione criminale e dalle sue continue violazioni”, ha affermato la dichiarazione. Il Museo Palestinese nella città di Birzeit, vicino a Ramallah, ha confermato ad Al Jazeera che Zakariya Badwan lavorava da loro come dipendente a tempo pieno. Il museo ha riferito in un post sui social media di aver “ricevuto la notizia con totale shock e immensa tristezza”. “Ricordiamo il nostro caro Zakariya per il suo carattere amabile, la sua cordialità e il suo volto sempre sorridente e allegro”, si legge nel messaggio, in cui si specifica altresì che il museo sarebbe rimasto chiuso oggi, domenica 26 settembre, “in lutto per il martire Zakariya e i martiri della Palestina che sono stati uccisi all’alba”.
  Secondo i media israeliani, anche due soldati sono rimasti “gravemente feriti” negli scontri armati esplosi durante l’operazione dell’esercito e sarebbero attualmente ricoverati in ospedale. Raid e arresti sono stati segnalati anche nei villaggi di Kufrdan e Yaabad. Le catture e gli scontri a fuoco sono stati condotti in tutta la Cisgiordania, principalmente dall’unità antiterrorismo d’élite militare Duvdevan e dalle unità antiterrorismo della polizia israeliana e della polizia di frontiera, insieme al servizio di sicurezza Shin Bet. Mentre le operazioni militari di Tel Aviv nelle città e nei villaggi della Cisgiordania sono una realtà quasi quotidiana, negli ultimi mesi, i raid dell’esercito nell’area di Jenin sono stati contrastati con la resistenza e gli scontri armati dai residenti palestinesi.
  Il 16 agosto, a Jenin, 4 giovani palestinesi avevano perso la vita a seguito di scontri con le forze israeliane, le quali avevano condotto un’operazione presumibilmente volta ad arrestare un individuo coinvolto in attività “terroristiche”. A detta delle fonti palestinesi, le “forze di occupazione” avevano preso d’assalto il campo profughi, alimentando scontri con i giovani locali. Gli agenti israeliani avrebbero aperto il fuoco contro i palestinesi, i quali, a loro volta, avrebbero lanciato pietre contro i militari.

(Sicurezza Internazionale, 26 settembre 2021)


Abbas duro su Israele. Ma nessuno gli crede

"Il discorso della resurrezione"

di Michele Giorgio

GERUSALEMME - Il discorso della resurrezione, così come lo avevano presentato i media dell'Anp, non ha scosso le masse palestinesi. E da Israele, almeno sino a ieri sera, non è arrivata alcuna reazione all'ultimatum che il presidente dell'Anp Abu Mazen ha lanciato venerdì in un discorso registrato per l'Assemblea generale delle Nazioni Unite.
   «Israele ha un anno di tempo per ritirarsi dai Territori palestinesi occupati nel 1967», ha intimato Abu Mazen, minacciando di rivolgersi alla Corte penale internazionale e di revocare il riconoscimento di Israele da parte dell'Olp avvenuto dopo la firma degli Accordi di Oslo. L'occupazione israeliana «impedisce il raggiungimento di una soluzione a Due Stati», ha spiegato Abu Mazen aggiungendo che, se non ci saranno cambiamenti, la comunità internazionale e le circostanze sul campo «imporranno diritti politici uguali per tutti sulla terra della Palestina storica, all'interno di un unico Stato». Quindi si è detto pronto a negoziare, durante i prossimi 12 mesi e sulla base delle risoluzioni internazionali, i confini dello Stato palestinese che dovrà sorgere accanto a Israele. Il risveglio ieri mattina non ha portato i risultati che il presidente dell 'Anp e il suo entourage (forse) si attendevano. A parte gli applausi scontati del premier Mohammed Shtayyeh - che ha definito il discorso all'Onu la «road map» della fine dell'occupazione israeliana - e del gruppo dirigente del partito Fatah, l'ultimatum non ha generato interesse in Cisgiordania e Gaza.
   Anzi i toni insolitamente bellicosi di Abu Mazen sono stati accolti da molti palestinesi con scetticismo e qualche sorriso. Sui social con sarcasmo alcuni hanno scritto che il presidente dell'Anp ora è pronto alla lotta armata. Nessun palestinese crede che Israele prenda in considerazione l'ultimatum e accetti di ritirare i suoi soldati e centinaia di migliaia di coloni in appena 12 mesi. «Gli israeliani sono stati presi dal panico dopo l'ultimatum del presidente» ha ironizzato su Twitter Akram Maslamanì, uno studente.
   La popolazione palestinese è abituata ai proclami altisonanti dell'Anp mai seguiti da azioni concrete. Ne è una testimonianza l'annuncio fatto più volte in questi ultimi anni della interruzione di ogni rapporto dell'Anp con Israele che non è mai sfociato nella sospensione del coordinamento tra i servizi di intelligence delle due parti che pure è chiesta da tutti i palestinesi. Abu Mazen, lo pensano in tanti, ha scelto l'approccio battagliero nel tentativo di recuperare consensi. La sua popolarità è ai livelli più bassi e secondo un sondaggio l'80% dei palestinesi vuole le sue dimissioni. Un dato su cui pesa la dura repressione delle proteste di migliaia di palestinesi per l'omicidio compiuto dai servizi di sicurezza dell'Anp di Nizar Banat, un oppositore del presidente.
   Ma Abu Mazen ha forse voluto lanciare anche un messaggio a Joe Biden che, proprio all'Onu a inizio settimana, ha da un lato ribadito il sostegno alla soluzione a Due Stati e dall'altro ha detto ai palestinesi di aspettare, schierandosi di fatto sulle posizioni del premier israeliano Naftali Bennett secondo il quale al conflitto non c'è soluzione nei prossimi anni.
   Il governo israeliano per ora non commenta e non è detto che Bennett risponda all'ultimatum di Abu Mazen quando domani interverrà a sua volta alle Nazioni Unite.

(il manifesto, 26 settembre 2021)


In occasione del 150° anniversario della breccia di Porta Pia - 68° raduno nazionale dei bersaglieri

di Michelle Zarfati

Questa domenica, in occasione del 68° Raduno Nazionale dei Bersaglieri a Roma, si è svolta la cerimonia di deposizione della corona all’Altare della Patria a cui è seguita una sfilata dei bersaglieri. L’itinerario è partito dalle Terme di Caracalla, per giungere a via dei Fori Imperiali, terminando in piazza Venezia. Durante la cerimonia, accanto ai bersaglieri ha sfilato anche il cannone che sparò il primo colpo aprendo la breccia di Porta Pia nel 1870.
   "Le Fiamme Cremisi si sono sempre distinte, al servizio del Paese e della comunità internazionale, in Italia e nelle aree di crisi, riscuotendo ammirazione e riconoscenza in particolare nelle realtà più disagiate. Sono certo che l’incontro rappresenterà un’opportunità per rinnovare, tra i Bersaglieri in servizio e in congedo, la memoria del passato e per stimolare una riflessione sul futuro dell’Associazione”. Ha detto il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella al Presidente dell’associazione Nazionale Bersaglieri, Generale di Brigata, Ottavio Renzi- in un messaggio.
   I Bersaglieri rappresentano anche oggi, una delle componenti portanti dei contingenti militari italiani impegnati nelle missioni internazionali di sicurezza.
   Hanno preso parte alla cerimonia anche il Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Ruth Dureghello, e il Rabbino Capo Di Segni.

(Shalom, 26 settembre 2021)


Ocasie-Cortez piange

Dem americani spaccati sui soldi per il sistema israeliano Iron Dome (quello che para i razzi) .

di Daniele Raineri

ROMA - Questa settimana c'è stata una crisi dentro al Partito democratico americano che riguarda Israele. Martedì era prevista l'approvazione di un pacchetto di spese del governo americano da parte della Camera dei rappresentanti, ma tra le varie voci c'era anche un miliardo di dollari di finanziamento per il sistema antimissilistico Iron Dome di Israele. Spaccatura istantanea: la Squad, il gruppo di deputati democratiche considerate l'ala radicale del partito e capeggiate da Alexandria Ocasio-Cortez, ha ottenuto lo scorporo del finanziamento a favore di Iron Dome dal resto del pacchetto "altrimenti non lo votiamo e fermiamo tutto". I vertici del partito, che invece appartengono al blocco moderato, hanno accettato l'insurrezione senza fare troppo rumore e hanno spostato il finanziamento di Iron Dome all'approvazione di un altro pacchetto di spese - che è considerato blindato, nel senso che passerà di sicuro, ma sarà votato soltanto fra qualche mese.
   Poi i vertici si sono resi conto che così la polemica si sarebbe trascinata per molto tempo, ci hanno ripensato e hanno calendarizzato l'approvazione del finanziamento per giovedì, con un singolo voto speciale dedicato al sistema Iron Dome. Il finanziamento è passato con una maggioranza fortissima, più di quattrocento voti a favore e soltanto nove voti contro, e la Squad si è spaccata. Rashida Tlaib, Ayanna Pressley e Ilhan Omar hanno votato contro. Jamaal Bowman, il solo uomo della Squad, ha votato a favore. Ocasio-Cortez ha votato "present", che non è un "no" e poi ha pianto consolata da una collega. Lei stessa, in altre occasioni, aveva detto in polemica con altri politici che votare "present" è un espediente ipocrita "perché siamo alla Camera per essere decisivi". La crisi fra l'ala radicale del Partito democratico e i vertici moderati che riguarda la politica estera è rientrata, ma lo spettacolo è una novità. Ocasio-Cortez potrebbe avere calcolato che votare no avrebbe danneggiato le sue ambizioni politiche sul lungo termine.
   Chi è a favore del finanziamento sostiene che gli Stati Uniti spendono molto denaro in aiuti militari internazionali e quello per Iron Dome è speso meglio di altro: il sistema tecnologico, diventato famoso durante le periodiche guerre tra Israele e il gruppo Hamas nella Striscia di Gaza, riesce a intercettare una percentuale altissima dei razzi sparati contro le città israeliane e contribuisce a tenere basso il numero delle vittime. Non lo fa soltanto in modo diretto - distruggendo in aria i razzi di Hamas- ma anche in modo indiretto, perché grazie alla protezione di lron Dome il governo israeliano reagisce in modo differente durante i conflitti. Chi non è a favore del finanziamento sostiene che Israele dovrebbe pagarsi Iron Dome con i suoi soldi oppure, come dice Rashida Tlaib, perché non vuole "aiutare lo sforzo per rendere possibili crimini di guerra e abusi umanitari" - ma Iron Dome è un sistema puramente difensivo.

Il Foglio, 25-26 settembre 2021)


Spettri alla ricerca di un senso di sé 

Una antologia datata dal 1901 al 1915 fa emergere gli aspetti religiosi di una comunità tutta letteraria, in quella alternanza di effetti comici e drammatici che è tipica di Sholem Aleichem: da Bollati Boringhieri. 

di Roberta Ascarew 

Al centro dell'opera di Sholem Aleichem c'è uno shtetl mitico e comico, Kasrilevke, luogo immaginario in cui si moltiplicano le piccole storie di una inattuale, tenera e spesso tragica vita ebraica.Anche se non figura nelle carte geografiche dell'0stjudentum, Kasrilevke è una cittadina come tante altre, popolata da poveri diavoli dignitosi e allegri che sanno preservare il rispetto di sé e il senso della loro comunità. 
   In fondo, rassomiglia molto a Voronkov, il luogo in cui lo scrittore (registrato negli archivi rabbinici come Salomon Rabinovitz) trascorse i primi, «splendidi e pazzi anni» dell'infanzia e da cui si allontana con malinconia: «Non esisteva - scrive in terza persona - un villaggio al mondo che avesse altrettanto fascino. Era un luogo indimenticabile, un luogo che avrebbe ricordato per sempre». 
   A lungo incerto tra la professione di letterato e quella di rabbino, Salomon cominciò a scrivere in ebraico e in russo, del tutto insensibile al fascino dello jiddisch, requisito ancora dalla religiosità magica ed esoterica dei chassidim e dalla istruzione dei più umili. La conversione verso il nuovo nome e la 'vecchia' lingua dei suoi capolavori - da Tewje il Iattivendo!o a Menachem Mendel - nasce da suggestioni diverse: l'ammirazione per l'opera pioneristica di Mendele Moicher Sforim e la lettura di un testo rivoluzionario, Autoemancipazione di Leon Pinsker pubblicato dopo il pogrom di Odessa del 1881 e destinato a diventare il breviario di un radicale rinnovamento dell'ebraismo orientale. 

 • ECHI DAL VASTO MONDO
  Erano spettri secondo Pinsker gli ebrei dispersi tra le terre d'Europa, inquietanti tra i popoli e indefiniti a se stessi. Per muoverli verso la conquista di una patria e della libertà era necessario che vedessero in modo più problematico e realistico la loro vita. 
  Pio, 'illuminato' e sionista quanto basta, Salomon si mette al servizio di questo progetto. Sceglie per nome una formula di saluto (in ebraico Sholem Aleichem significa «la pace sia con voi) così falsa da tracciare un progetto esistenziale e letterario: lo scrittore entra benedicente in un contesto che solo in parte gli appartiene e vi porta, insieme all'eco del vasto mondo, una nuova consapevolezza della condizione ebraica, tesa tra la critica dell'immobilismo e il sospetto 'nietzschiano' per gli inganni della modernità e del progresso (America compresa). Per questo Kasrilevke, popolata da un manipolo di uomini semplici, i Meyer, gli Schneidel, i Seidel, con santi rabbini, qualche donna sbiadita e neanche un chassid, ha ben poco dell'idillio «amabile e struggente» (così Magris) del buon mondo antico, e si configura invece come eccezionale laboratorio di scrittura e di pedagogia letteraria. 
   Dell'immensa saga, Panico nello shtetl, Bollati Boringhieri (a cura e per la traduzione dal tedesco di Giulio Schiavoni, pp. 28, €19,00) propone una ampia antologia di racconti scritti tra il 1901 e il 1915 e scelti in modo che emergano le tante modulazioni di un affresco infinito. Solo tre, irrinunciabili novelle ricalcano quelle pubblicate nelle meritorie edizioni di Bompiani del 1962 e del 1982; per il resto, Schiavoni pubblica frammenti della vita di Kasrilevke 'inediti' in Italia, attento soprattutto agli aspetti religiosi di quella comunità tutta letteraria e a dosare gli effetti comici e drammatici che tanto caratterizzano la scrittura di Sholem Aleichem. 
   Intrecciando da raffinato modernista centri e periferie, realtà e affabulazione, tempo e eternità, Sholem Aleichem racconta in tutte le lingue dell'ebraismo mitteleuropeo le vicende di questo shtetl con affettuosa e ironica distanza. Le descrive come i protagonisti o anche dei semplici osservatori avrebbero potuto narrarle, facendo attenzione alle pause, all'ammiccare furbesco, alle modulazioni della voce, ma sempre molto attento a non sostituirsi al narratore. 

• MOLTI E CONFUSI SPUNTI DI ATTUALITÀ 
  In questa distanza c'è spazio per la risata, complice e liberatoria e per la storia, quella ebraica come anche quella del vasto mondo, considerate senza i fremiti rivoluzionari di altri scrittori dello shtetl, da Isaac Meir Weissenberg a Semën An-ski. 
   Sono molti e un po' confusi i frammenti di attualità che giungono fino a Kasrilevke: la guerra dei Boeri, le vicende della Cina, l'assassinio di Obrenovic, le idee rivoluzionarie, le sconvolgenti notizie sui pogrom. Gli abitanti ne parlano con eccitata partecipazione perché «per quanto piccola, povera, misera e dimenticata da Dio possa essere, Kasrilevke è legata al resto del mondo come da un filo invisibile: se lo si tira da un'estremità, lo si può sentire immediatamente anche dall'altra». Anche l'affaire Dreyfus Semën An-ski- in «Dreyfus a Kasrilevke » - ha una eco tutta particolare: il piccolo e il grande si confrontano, i giudizi morali si sovrappongono ai fatti e i cittadini dello shtetl dimostrano di condividere le emozioni degli «occidentali», mentre l'idea di un riscatto sembra impossessarsi infine di questa comunità bizzarra e moderatamente arroccata. 

(il manifesto, 26 settembre 2021)



L'uomo doppio, iniquo e bugiardo

Riflessioni sul libro dei Proverbi. Dal capitolo 6.
  1. L’uomo da nulla, l’uomo iniquo,
    cammina con la falsità sulla bocca;
  2. ammicca con gli occhi, parla con i piedi,
    fa segni con le dita;
  3. ha la perversità nel cuore,
    trama del male in ogni tempo,
    semina discordie;
  4. perciò la sua rovina verrà all’improvviso,
    in un attimo sarà distrutto, senza rimedio.
  5. Sei cose odia Signore,
    anzi sette gli sono in abominio:
  6. gli occhi alteri, la lingua bugiarda,
    le mani che spargono sangue innocente,
  7. il cuore che medita disegni iniqui,
    i piedi che corrono frettolosi al male,
  8. il falso testimone che proferisce menzogne,
    e chi semina discordie tra fratelli.
  1. L’uomo da nulla, l’uomo iniquo,
    cammina con la falsità sulla bocca;

    L'uomo da nulla (lett. "l'uomo di Belial") è molto di più che un poco di buono. La figura che qui si ha in mente è quella di una persona che non solo fa il male ma prende gusto a pervertire il bene con parole false e atteggiamenti ambigui e fraudolenti. Il suo desiderio principale sembra essere quello di riuscire a far cadere i giusti e a dimostrare così di essere non il più malvagio, ma il più furbo. E' un tipo particolarmente pericoloso, perché ama mimetizzarsi e inserirsi anche negli ambienti migliori. A lui fare il male non basta: il suo maggior piacere è riuscire a corrompere il bene. In questo senso, la dicitura "uomo di Belial" (2 Corinzi 6.15) gli si addice perfettamente.

  2. ammicca con gli occhi, parla con i piedi,
    fa segni con le dita;

    Le parole che escono dalla bocca dell'uomo da nulla possono essere belle e suonare bene, ma sono false. Il suo modo di comunicare autentico passa attraverso altri organi del corpo, creati per scopi ben diversi: occhi, piedi, dita. Si tratta in sostanza di un linguaggio cifrato che può servire a inviare messaggi a un complice o a intimorire un avversario. In ogni caso manifesta l'esistenza di un animo doppio, che usa il linguaggio delle parole per nascondere le sue vere intenzioni e il linguaggio dei segni per eseguire i suoi propositi malvagi.

  3. ha la perversità nel cuore,
    trama del male in ogni tempo,
    semina discordie;

    Ogni uomo nasce nel peccato e il suo cuore è "insanabilmente maligno" (Geremia 17.9). Ma la perversità nel cuore è qualcosa di più grave: è la volontà determinata di compiere il male e di diffonderlo (cfr. 2.14); è l'odio per tutto ciò che è giusto, onesto e buono; è desiderio di corrompere il bene e farlo diventare male. L'uomo da nulla non compie azioni malvagie soltanto quando vuol perseguire, sia pure illegittimamente, particolari interessi, ma trama del male  in ogni tempo, al solo scopo di compiere il male. Non contende con il prossimo solo quando vuole ottenere qualcosa a cui anche altri sono interessati, ma gode della lite in sé, al punto che si compiace quando riesce ad aizzare l'uno contro l'altro. L'uomo da nulla non è soltanto una persona spiritualmente malata: è una malattia spirituale, da cui bisogna guardarsi come dalla peste.

  4. perciò la sua rovina verrà all’improvviso,
    in un attimo sarà distrutto, senza rimedio.

    All'improvviso ... senza rimedio: il giudizio di Dio sull'uomo che non solo fa il male ma anche si compiace in esso e lo diffonde, arriverà senza preavviso e senza possibilità di appello. Quando Dio interverrà, non ci sarà spazio per un ripensamento, né prima né dopo. L'aspetto subitaneo e irrevocabile del giudizio di Dio compare diverse volte nella Scrittura (1.27, 29.1; Salmi  73.19; 1 Tessalonicesi 5.3). L'uomo deve saper riconoscere che il tempo  della misericordia di Dio è proprio quello in cui gli viene concesso di peccare senza che la sentenza su di lui si esegua immediatamente (Ecclesiaste 8.11). Una volta che il tempo è scaduto, alla misericordia segue il giudizio. Inesorabilmente. La sapienza di Dio avverte, affinché chi ha ancora la grazia di poter ascoltare ne tenga conto.

  5. Sei cose odia Signore,
    anzi sette gli sono in abominio:

    Non è chiaro il motivo per cui nei cosiddetti "proverbi numerici" (presenti soprattutto nel capitolo 30) vengano usati due numeri successivi (2/3, 3/4, 6/7). Il fatto che siano state date diverse spiegazioni fa capire che non ne esiste una che si sia imposta con certezza. Potrebbe trattarsi di una forma letteraria che facilita all'allievo l'apprendimento e lascia aperta la lista delle cose elencate. Particolarmente importanti sono le parole che precedono l'elenco, perché esprimono il giudizio chiaro e netto di Dio sugli oggetti enumerati. In questo caso l'attenzione del discepolo viene attirata sul fatto che ci sono cose che il Signore odia e sono per Lui un abominio. Sorge spontanea la domanda: quali sono queste cose? L'elenco fornisce la risposta.

  6. gli occhi alteri, la lingua bugiarda,
    le mani che spargono sangue innocente,

    Varie parti del corpo vengono nominate e messe in relazione con atteggiamenti spirituali: agli occhi viene collegata la superbia, alla lingua il parlare menzognero, alle mani le azioni violente. Troppo spesso l'attenzione sul male viene risvegliata soltanto dal fatto violento, e non si pensa che per arrivare a colpire fisicamente bisogna partire da adeguati atteggiamenti interni. Con arrogante alterigia si comincia ad avere una considerazione sprezzante del prossimo; si passa poi a diffondere calunnie sul suo conto per rovinarne la reputazione e indurre anche altri ad esprimere disprezzo; e si finisce con l'azione violenta con cui si vuole uccidere, far sparire definitivamente la persona odiata. Dio ha in abominio queste cose perché sono caratteristiche del suo Avversario, colui che nel principio si è ribellato al Creatore e alla fine comunicherà i suoi abominevoli atteggiamenti all'anticristo, "colui che s’innalza sopra tutto ciò che è chiamato Dio od oggetto di culto; fino al punto da porsi a sedere nel tempio di Dio, mostrando sé stesso e proclamandosi Dio" (2 Tessalonicesi 2.4).

  7. il cuore che medita disegni iniqui,
    i piedi che corrono frettolosi al male,

    L'uomo saggio si propone obiettivi di giustizia, e al fine di ottenerli medita con calma sulla situazione che gli sta davanti, e dopo aver fatto le dovute scelte passa senza indugio all'azione. Qui viene descritto l'atteggiamento diametralmente opposto. L'uomo intimamente malvagio comincia con il meditare nel suo cuore progetti iniqui ; dopo di che non si lascia arrestare da scrupoli di coscienza, ma con sicura decisione si affretta a mettere in atto i suoi scellerati propositi (cfr. 1.16). Dio odia una volontà di male così fermamente espressa e mantenuta nel tempo.

  8. il falso testimone che proferisce menzogne,
    e chi semina discordie tra fratelli.

    La falsa testimonianza è una precisa infrazione di un comandamento di Dio (Esodo 20.16). Il falso testimone colpisce il prossimo, ma non apertamente e con le sue proprie mani, come il violento omicida: con l'uso  della menzogna induce la società a colpirlo per mezzo di tribunali e magistrati (1 Re 21.1-16). Commette dunque ingiustizia servendosi di strumenti stabiliti per fare giustizia, e quindi non solo fa  il male, ma anche perverte la giustizia. E poiché è Dio stesso Colui che ha "stabilito il diritto" ed esercita "il giudizio e la giustizia" (Salmi  99.4), il falso testimone offende Dio, direttamente e personalmente. E per questo Dio lo odia.
    La falsa testimonianza, nella forma solo apparentemente meno grave della calunnia e della maldicenza, è anche uno strumento efficacissimo nelle mani di chi semina discordie tra fratelli. Sta scritto che "l’uomo perverso semina contese, il maldicente disunisce gli amici migliori" (16.28). L'esperienza di tutti i giorni conferma continuamente la verità di queste parole.


    M.C.

 

Sudan filo sionista: sequestrati tutti i beni di Hamas

KHARTOUM – Le autorità sudanesi hanno sequestrato i beni redditizi in possesso del movimetno di resistenza islamico palestinese o delle societa' che secondo Khartoum sarebbero collegate a Hamas.
   L’acquisizione di almeno 12 società mira a contribuire ad accelerare il riallineamento del Sudan con l’Occidente (cioe' gli Usa). Una mossa con cui Khartoum intende accontentare il nemico non solo del popolo palestinese che delle popolazioni arabo-islamiche, ovvero il regime sionista. E a dare la notizia per prima e' infatti l'emittente israeliana Kan.
   Da quando Bashir è stato rovesciato (2019) il Sudan e' riuscito a "vincere" la rimozione dall’elenco dei paesi sponsor del terrorismo (SST) degli Stati Uniti. Poi il regime sudanese ha visto la cancellazione di un suo debito pari a oltre 50 miliardi di dollari.
   I sequestri, ha spiegato un funzionario della task force sudanese preposta all'operazione, sono citati in un rapporto interno, nel quale si precisa che i beni confiscati includono società immobiliari, hotel a Khartum, un'emittente televisiva e oltre 1 milione di acri di terreni agricoli. Secondo quanto dichiarato da funzionari della task force che lavora su queste confische, le persone arrestate hanno ottenuto un trattamento preferenziale nelle gare d'appalto e condoni fiscali, oltre ad essere stati autorizzati a trasferirsi ad Hamas e a Gaza. Un membro del Consiglio sovrano sudanese ha a sua volta confermato l'operazione, aggiungendo che le autorità di Khartoum intendono smantellare altre attività di questo genere.

(Pars Today, 25 settembre 2021)


Truppe italiane ed ebrei nella Francia occupata

Lettera a "il Giornale"

A seguito dello sbarco in Marocco degli americani nei primi giorni di novembre 1942, i tedeschi occuparono anche la Francia meridionale, quella del governo di Vichy, assegnando all'Italia tutta la zona a est del fiume Rodano, dall'alta Savoia fino a Nizza e Montecarlo. Migliaia di ebrei, essendo a conoscenza del trattamento umanitario ricevuto dai loro correligionari in altre aree d'Europa occupate dagli italiani, si riversarono nella zona italiana. Per fare un esempio, quando la polizia di Vichy, su ordine dei tedeschi, effettuò una serie di retate davanti alla Sinagoga di Nizza arrestando degli ebrei da portare in alcuni campi di concentramento, il comandante dei Carabinieri di zona, colonnello Mario Bodo, e i suoi capitani Salvi e Tosto, piantonarono i luoghi con l'ordine di arrestare, se fosse stato il caso, i membri della polizia di Vichy. E la polizia francese dovette cedere.
Il ministero degli Esteri italiano a tal proposito scriveva in un telegramma: «Riteniamo di precisare che non è possibile permettere che nella zona occupata dalle truppe italiane, le autorità francesi costringano gli ebrei a spostarsi nelle zone occupate dalle truppe tedesche. Le misure di protezione degli ebrei sono di competenza dei nostri organi». Il ministro degli Esteri tedesco, Von Ribbentrop, in visita a Roma, sollevò con Mussolino la questione, parlando di intesa fra militari italiani ed ebrei. Mussolini sembrava quasi dare ragione ai tedeschi e nominò una Commissione per la questione ebraica con a capo l'ispettore generale Lospinoso e il suo vice, questore Luceri. Ma questi due, invece di collaborare con i tedeschi, preferivano la compagnia del signor Donati, un ebreo italiano che viveva in Francia, ma che aveva mantenuto preziosi rapporti con le autorità italiane. Riuscirono a far trasferire più di mille ebrei in alcuni alberghi della Savoia, ove essi poterono organizzare anche una certa vita sociale.
Tutto precipitò con l'8 settembre 1943. Quando le truppe italiane, ovviamente, dovettero abbandonare precipitosamente tutta la zona di loro competenza, i tedeschi entrarono tranquillamente in Nizza e per gli ebrei fu la fine. Si dice che la caccia all'ebreo sulla Costa Azzurra sorpassò in orrore e ferocia tutto ciò che, in quel momento, era noto nell'Europa occidentale. È possibile pensare che le autorità militari italiane agissero in quel modo senza il consenso del governo di Roma, in sostanza di Benito Mussolini? Credo che sarebbe stato impossibile.

Giovanni Cattani Creazzo (Vicenza)

(il Giornale, 25 settembre 2021)


Il movimento di Hamas scomunica definitivamente gli arabi al governo in Israele

di Irene Agovino

È notizia di ieri da parte di Hamas di una sorta di fatwah contro i leader di Raam, movimento islamista nella coalizione del governo israeliano per le dichiarazioni di Walid Taha di non aver nulla a che vedere con il movimento di Gaza, considerato terrorista. Nel comunicato ufficiale Walid viene definito “sionista” e responsabile delle ultimi aggressioni a Gaza. Il leader di Raam, Abbas, ha dichiarato che affermare cio’ significa essere menzogneri e che comunque il movimento Raam potrebbe far cadere il governo in caso di ulteriori strette contro Gaza.

(DailyMuslim, 24 settembre 2021)


L’incontro tra Bennett e Al-Sisi ha smarcato il nuovo corso delle relazioni tra Israele ed Egitto

di Francesco Paolo La Bionda

Lo scorso 13 settembre, il Primo Ministro israeliano Bennett si è recato in Egitto per un incontro con il Presidente egiziano Al-Sisi, nella prima visita ufficiale di un capo dello stato ebraico nel paese arabo da oltre un decennio.
   L’ultimo precedente risaliva al 2010, prima che le Primavere arabe sconvolgessero il Medio Oriente, quando l’allora presidente egiziano Mubarak ospitò per un vertice Netanyahu a inizio premierato, l’ancora oggi leader palestinese Abbas e Hillary Clinton, al tempo Segretario di Stato americano. 
   Bennett e Al-Sisi hanno inaugurato il nuovo capitolo delle relazioni tra i due paesi a Sharm el-Sheikh, dove per motivi di sicurezza le autorità egiziane preferiscono tenere tutti gli incontri diplomatici. I due si sono fatti immortalare dai fotografi seduti uno accanto all’altro sotto le rispettive bandiere nazionali e il colloquio è stato incentrato sulla sicurezza regionale, a partire dalla gestione di Gaza, e sulla cooperazione bilaterale.
   Il Cairo negli ultimi mesi ha pubblicizzato il proprio ruolo di mediatore tra Israele e Hamas, che pur classifica come organizzazione terrorista, e dopo il conflitto di questa primavera tra lo stato ebraico e gli islamisti ha promesso un sostanzioso aiuto di 500 milioni di dollari per la ricostruzione della Striscia, finalizzato anche a far riconciliare le diverse fazioni palestinesi. 
   Se quest’ultimo proposito lo vede in opposizione alla volontà del premier israeliano, il primo è invece allineato con la strategia di Bennett, che alcune settimane fa ha proposto un contributo israeliano al ripristino delle infrastrutture di Gaza se dall’enclave palestinese le armi continueranno a tacere.

• GLI OBIETTIVI DELL’EGITTO 
  Secondo i commentatori, l’interesse egiziano per giocare un ruolo da protagonista nel tentativo di risoluzione del conflitto tra le due parti è mossa anche da un duplice fine di politica internazionale. In primo luogo, Il Cairo è preoccupato di venire scalzato dal proprio ruolo di interlocutore privilegiato di Israele per il mondo arabo a seguito degli Accordi di Abramo. Poiché gli Emirati Arabi Uniti restano uno dei grandi finanziatori del governo egiziano, quest’ultimo deve tuttavia adottare un approccio morbido, attraverso una cooperazione intensificata con Israele, per controbilanciare la normalizzazione delle relazioni israelo-emiratine. 
   Il Cairo inoltre, mostrandosi ben disposto con Gerusalemme, vuole ingraziarsi l’amministrazione americana guidata da Joe Biden, ben più critico del suo predecessore verso le indiscutibili gravi violazioni dei diritti umani perpetrate dagli uomini di Al-Sisi e il cui interesse verso gli alleati mediorientali, quali quello egiziano, è calante in virtù del focus sullo scontro tra America e Cina nell’Indo-Pacifico.

• IRAN E TURCHIA, AVVERSARI COMUNI
  La fiducia reciproca tra governo israeliano e controparte egiziana è comunque cresciuta in modo sincero nel corso dell’ultimo decennio. Israele ha accolto con favore nel 2013 la deposizione da parte di Al-Sisi del suo predecessore Morsi, appartenente ai Fratelli Musulmani a cui è legata Hamas, mentre l’egiziano ha apprezzato il sostegno continuato nel corso degli anni a fronte dell’opposizione al suo mandato di molti paesi sia musulmani sia occidentali. 
   Nel rinnovato scacchiere regionale inoltre sia Egitto sia Israele si trovano oggi ad avere un nemico e un avversario comuni. Il primo è l’Iran, elemento destabilizzante la cui influenza è cresciuta in modo preoccupante negli anni grazie alle milizie dislocate in Iraq e in Siria, oltreché all’alleanza storica con gli Hezbollah libanesi.  Il secondo è la Turchia, che sotto l’influenza panislamista del suo presidente Erdoğan si scontra con Israele sulla questione palestinese e con l’Egitto su quella libica. Ankara lo scorso anno ha infatti offerto un sostegno decisivo per la vittoria, tramite accordo di pace, del governo libico guidato da Al-Sarraj contro quello del generale Haftar, sostenuto dal Cairo. 
   Un’influenza del modello tracciato dagli Accordi di Abramo è riscontrabile anche nel nuovo interesse di Israele ed Egitto per la cooperazione economica, relegata in secondo piano dalla pace “fredda” dei decenni precedenti. Tra gli sviluppi più significativi degli ultimi tempi: l’accordo pluriennale da 15 miliardi di dollari in base al quale dallo scorso anno il gas naturale israeliano viene importato nei terminali egiziani per essere ri-esportato verso l’Europa; la riapertura del valico di Taba ai turisti israeliani e l’avvio, previsto per ottobre, di voli di linea diretti tra Il Cairo e Tel Aviv; la decisione di ampliare la Qualifying Industrial Zone (QIZ) in Egitto (si tratta di aree industriali speciali presenti anche in Giordania, legate ad accordi tariffari agevolati con Israele).

• ALCUNE OMBRE
  Restano naturalmente alcune incognite che gravano sul rapporto tra i due paesi. Israele resta nettamente impopolare presso l’opinione pubblica egiziana, nella quale è largamente diffuso e accettato anche l’antisemitismo; solo l’efficacia degli apparati governativi nello stroncare dissenso e opposizione mantiene per ora sedato il malcontento per i rapporti con lo stato ebraico. Sul versante israeliano, il governo capeggiato da Bennett guida una maggioranza risicata ed è inoltre frutto dell’accordo con Yair Lapid, che si avvicenderà nel ruolo di premier tra due anni e la cui visione geopolitica non è del tutto coincidente con quella del collega.
   Al netto di questi fattori, resta però indubbio che le relazioni tra Israele ed Egitto abbiano raggiunto un punto di svolta radicale, che qualsiasi sviluppo futuro non potrà riportare nel passato.

(Bet Magazine Mosaico, 24 settembre 2021)


Nasce l’Associazione degli Accademici e Scienziati italiani in Israele (AISSI)

Su impulso dell’Ambasciatore d’Italia in Israele, Gianluigi Benedetti e grazie all’iniziativa di due docenti della Ben Gurion University, Cristina Bettin e Aaron Fait, un gruppo di professori, ricercatori e dottorandi italiani ha dato vita alla “Association of Italian Scholars and Scientists in Israel” (AISSI).
  La neonata Associazione, che ha carattere no-profit, persegue la finalità di dare maggiore visibilità e rilievo alla qualificatissima presenza scientifica italiana nel panorama accademico israeliano, sia nel settore umanistico sia in quello della scienza e tecnologia, rappresentandone unitariamente gli interessi. AISSI promuoverà le relazioni con la comunità accademica israeliana, sosterrà i giovani ricercatori e studenti italiani al loro arrivo in Israele e contribuirà, in stretto raccordo con l’Ambasciata, all’intensificazione e ampliamento delle relazioni tra le Istituzioni accademiche e di ricerca dei due Paesi. Al riguardo, il Comitato scientifico di AISSI costituirà un punto di riferimento per l’Ambasciata nelle attività di elaborazione delle priorità italiane nel settore della collaborazione bilaterale accademica, scientifica e tecnologica.
  L’Ambasciatore Gianluigi Benedetti, che rivestirà la carica di Presidente onorario dell’Associazione, ha sottolineato che “la creazione di AISSI assicurerà ai tanti eccellenti studiosi e ricercatori italiani in Israele una maggiore visibilità, valorizzandone il ruolo di ‘ponte’ a sostegno delle relazioni accademiche e scientifiche fra i due Paesi.

(Ambasciata d'Italia a Tel Aviv, 24 settembre 2021)


La rinascita degli ebrei in Sardegna

di Nathan Greppi

“Ogni sardo ha del sangue ebreo che scorre nelle sue vene”: con queste parole si apriva nel luglio 2015 un articolo del giornale sardo Vulcano Notizie, che raccontava la storia degli ebrei in Sardegna: dopo che sin dai tempi dei romani ospitò una comunità numerosa, tutto finì con la cacciata nel 1492 voluta dalla corona spagnola, che all’epoca dominava anche l’isola. La maggior parte degli ebrei rimasti si sono totalmente assimilati, e da allora non ci sono più state comunità ebraiche.
Questo fino a poco tempo fa: negli ultimi anni, ha iniziato a ricostituirsi una presenza ebraica organizzata a Cagliari, sotto la guida dell’associazione Chenabura – Sardos pro Israele (Chenabura significa “venerdì” in sardo), che organizza molte attività per riportare alla luce un passato rimasto sepolto troppo a lungo (se si eccettuano alcuni saggi storici sul tema, ad esempio dell’artista Elio Moncelsi e della storica Cecilia Tasca).
Ne parla a Mosaico il presidente dell’associazione, Mario Carboni.

• Come è nata l’associazione?
  È stato circa 10 anni fa; in origine era solo un gruppo su Facebook, per chi si interessa di ebraismo e Israele, ma l’accoglienza ricevuta era talmente favorevole che dopo un po’ abbiamo registrato legalmente l’associazione, che oggi conta circa 1.000 soci tutti sardi. Organizzando varie attività, siamo entrati in contatto con un gruppo di amici a Cagliari che festeggiavano lo Shabbat: era composto da 3 israeliani e da 4 o 5 sardi che stavano facendo la conversione. A poco a poco il gruppo si è ampliato, e abbiamo conosciuto ebrei da ogni parte del mondo: italiani, israeliani, francesi, americani, e anche un tunisino, che si trovavano a Cagliari per motivi di studio o lavoro. C’erano anche coppie miste, di ebrei fidanzati o sposati con sardi. Infine, 5 anni fa è avvenuta la prima accensione all’aperto delle candele di Chanukkah, nel Quartiere Castello di Cagliari. Pensavamo che saremmo stati in pochi, e invece vennero circa 300 persone.

• Quanti sono gli ebrei in Sardegna oggi?
  Non ci sono censimenti, ma di quelli attivi nelle nostre attività ce ne sono almeno 20 a Cagliari, e una quarantina in tutta la Sardegna. Siamo entrati in contatto con ebrei residenti in varie località, tra cui Oristano, Alghero, Sassari, Nuoro e Siniscola. Non c’è una comunità ebraica vera e propria, ma c’è un nucleo ebraico che sta tornando dopo oltre 500 anni dalla cacciata. Inoltre, nell’ultimo periodo ci sono diversi ebrei francesi che si stanno trasferendo qui, perché in Francia non si trovano più bene.

• In che rapporti siete con le istituzioni, ebraiche e non?
  Siamo in contatto con l’UCEI e con la Comunità Ebraica di Roma, tanto che per 5 anni di fila abbiamo organizzato a Cagliari la Giornata Europea della Cultura Ebraica. Le istituzioni locali ci trattano con rispetto: oggi abbiamo una sede dentro il Quartiere Castello anche grazie ad un contributo della Regione Sardegna. Di recente abbiamo allestito, in collaborazione con il Comune di Cagliari, una mostra sulla pittrice Eva Fischer. Inoltre, sempre il Comune ci sta aiutando a realizzare un piccolo museo di cultura ebraica.
Tra le nostre attività, a volte organizziamo visite guidate nel vecchio quartiere ebraico, per raccontare la vita che vi si faceva prima del 1492. Un altro nostro progetto è il Juharia Karalitana, una piattaforma digitale che documenta i nomi e le città d’origine degli ebrei vissuti a Cagliari tra il ‘300 e il ‘400.

• La Sardegna è tra le regioni italiane con più affiliati al BDS. Avete mai subito discriminazioni?
  Antisemitismo non ne abbiamo mai subito. All’Università di Cagliari ci sono un po’ di esaltati, oltre all’associazione Sardegna-Palestina che ha molti soldi, ma sono corpi estranei al sentimento popolare. La cultura ebraica riceve molta simpatia da parte dei sardi, che si sentono molto vicini ad essa. Va aggiunto che l’Università ha un rapporto stretto con atenei israeliani in termini di collaborazioni, e ci sono anche diverse aziende israeliane che operano qui, soprattutto nei campi dell’informatica e dell’agricoltura.

(Bet Magazine Mosaico, 24 settembre 2021)


Aya oggi potrà abbracciare Eitan: Pronta la casa del fratello a Zikhron

Lo zio paterno vive in una cittadina a 80 chilometri a nord di Tel Aviv. Le due famiglie hanno concordato il silenzio.

di Sandro Barberis

La zia paterna Aya Biran potrà riabbracciare già oggi il nipotino Eitan. Sarà la 41enne medico di Travacò ad avere per prima a disposizione i giorni di custodia (inizialmente 5 per lei, poi tre a testa tra le due famiglie) in Israele del nipotino di 6 anni ed unico superstite della strage del Mottarone. Tra le due famiglie in lotta c’è un accordo di non belligeranza. Quindi niente interviste, niente dichiarazioni. «Per il bene del bambino» fanno sapere. Da Israele filtrano però notizie. Un caso diventato troppo mediatico per poter sparire con un colpo di spugna.

• L’appoggio dal fratello di Aya
  Aya Biran ha un punto d'appoggio, un porto sicuro, ad 80 chilometri a nord di Tel Aviv. Si tratta della cittadina di Zikhron Ya'aqov, dove vive il fratello Hagai Biran. Un luogo dove Eitan potrebbe quindi passare delle giornate in compagnia dei due zii paterni, fratelli del padre e medico Amit morto il 23 maggio nella strage del Mottarone. A breve Aya potrebbe essere raggiunta dal marito Or Nirko, ieri ancora nella casa di famiglia a Travacò Siccomario. Eitan passerà tre giorni con il ramo paterno della famiglia, e poi di nuovo tre giorni con il ramo materno dei Peleg che vivono in un sobborgo elegante di Tel Aviv. Un'alternanza che durerà fino all'8 ottobre quando è prevista la ripresa delle udienze sulla richiesta di Aya di rimpatriare il bambino. Un'imposizione al silenzio rispettata subito dalle due famiglie. Aya Biran, la zia pavese, ieri all'uscita del tribunale di Tel Aviv è stata bombardata di domande dai cronisti. Nessuna risposta. Così come non hanno risposto nemmeno Shmuel Peleg, il nonno accusato del rapimento in Italia, e la figlia e zia di Eitan Gali Peleg. Entrambi sono stati intercettati dai media israeliani, con cui hanno interloquito spesso nelle ultime due settimane, ma hanno rispettato la consegna del silenzio stampa. Accordo valido anche in Italia. Or Nirko, marito di Aya, ieri era ancora a Travacò con le sue due figliolette. «C’è un accordo tra le famiglie per mantenere da questo momento il silenzio stampa. Non so fino a quando durerà» ha spiegato proprio lo zio di Travacò davanti alla villetta di famiglia. La casa è quella alla frazione Rotta dove ha vissuto anche Eitan dallo scorso 10 giugno, quando è stato dimesso dall'ospedale pediatrico Regina Margherita di Torino, fino all'11 settembre quando è stato portato via dal nonno materno Shmuel Peleg. Eitan avrebbe dovuto iniziare la scuola entrando in prima elementare all’istituto delle Canossiane di Pavia il lunedì seguente, continuando un percorso dato che aveva già frequentato la materna dalla suore di corso Garibaldi.

• «Eitan ora è al centro»
   Gli unici commenti per ora sono arrivati dall'Italia dove gli avvocati dei Peleg li hanno descritti «contenti» della decisione scaturita da Tel Aviv. Una conclusione - ha detto l' avvocato Sara Carsaniga, legale sul fronte civile di Shmuel Peleg - che «va in un senso molto positivo, perché il giudice ha posto l'interesse del minore al centro, per un rapporto paritario con entrambi i rami familiari, rapporto che al ramo materno è stato sempre negato». Il bambino, ha proseguito il legale, «ha una famiglia composta da due rami e tutti hanno diritto di capire assieme cosa è meglio per il minore». «Noi ora - ha sottolineato - accogliamo con gioia il fatto che il giudice in Israele sta applicando la Convenzione dell'Aja nell'interesse del minore», ha aggiunto. Nelle «due ore di udienza» a Tel Aviv - ha spiegato - «si è posto al centro il bambino ed è stata data una rappresentazione della situazione e del suo interesse». Da parte dei Biran, appare intatta la speranza che nelle udienze di ottobre sia stabilito che il bambino torni in Italia in base alla Convenzione dell'Aja sulle sottrazioni internazionali di minori.
   Ieri in aula comunque il confronto tra i due rami della famiglia di Eitan sarebbe durato due ore e mezza, il bambino non c’era. «Al centro di tutto c’è finalmente il bene del bambino, le due famiglie ora ce l’hanno ben chiaro» hanno riferito i legali israeliani di entrambe le famiglie.

(La Provincia Pavese, 24 settembre 2021)


Da Washington un miliardo in più per l'lron Dome

Israele avrà il miliardo di dollari che ha chiesto agli Usa per rifornire di missili intercettori le sue batterie Iron Dome impiegate massicciamente lo scorso maggio nell'escalation con Hamas a Gaza. La presidente della commissione per gli stanziamenti della Camera, Rosa DeLauro, mercoledì ha presentato un progetto di legge ad hoc per il finanziamento straordinario. Si aggiunge al miliardo e 600 milioni di dollari già stanziati dagli Usa per Iron Dome e ai tre miliardi di dollari di aiuti annuali.
   Ma Israele non canta vittoria: la corrente più progressista dei Democratici, guidata dalla deputata Alexandria Ocasio-Cortes, si è opposta con forza e per giorni, ricordando le vittime palestinesi degli attacchi aerei israeliani su Gaza. «la maggioranza dei Dem sostiene Israele ma il gruppo radicale si sta facendo più forte», ha commentato il ministro della Diaspora, Nacham Shai.

(il manifesto, 24 settembre 2021)


Eitan, intesa in tribunale: - metà settimana con i Peleg, l'altra metà con la zia Aya

Il bimbo per ora resta in Israele. Nuova udienza l’8 ottobre

TEL AVIV - Shmuel, Etty, Gali. I Peleg arrivano per primi ed entrano insieme nell'aula. Aya Biran è accompagnata dall'avvocato - il marito Or è ancora in Italia - e dice solo poche parole: «Sono preoccupata per Eitan, voglio che ritorni a casa il più presto possibile».
   E per questa definizione di «casa» che le famiglie si sono presentate ieri mattina davanti alla giudice Iris Ilotovich Segal, che ricopre la carica nella corte di Tel Aviv per la famiglia dal 2017. Dopo due ore e mezza le porte si riaprono con quello che i legali di tutte e due le parti definiscono un compromesso per il bene del bambino sopravvissuto all'incidente sul Mottarone: «Passerà metà della settimana con Aya (oggi sarà con lei, ndr) e l'altra metà con i Peleg», non specificano dove, di sicuro non in una struttura protetta. Fino all'8 di ottobre quando è prevista l'udienza - già estesa ai due giorni successivi - sull'istanza presentata dalla zia materna ( e nominata tutrice legale dal tribunale italiano) che chiede il rientro del piccolo a Travacò Siccomario (Pavia) sulla base della convenzione dell'Aia e di quello che prevede per il sequestro internazionale di minori.
   È su questo punto - spiega Yuval Sasson al quotidiano Haaretz da ex capo dell'ufficio questioni internazionali per il procuratore dello Stato - che ruotano tutti gli elementi legali. «L'affidamento è complicato. I genitori erano israeliani, Eitan è vissuto in Italia da quando aveva un mese. Ma l'8 ottobre il tribunale dovrà affrontare e poi decidere dove debba essere discussa la custodia. Se c'è stata un'azione come un rapimento, di solito l'approccio è che il bambino venga rimandato nel Paese da dove è stato portato via e lì venga definito a chi affidarlo. In generale Israele vuole rispettare la sovranità dell'Italia e del suo sistema legale perché si aspetta lo stesso trattamento».
   Aya e Shmuel - indagato dalla Procura di Pavia per sequestro di persona e che è stato interrogato dalla polizia israeliana - sono stati i due parenti ammessi all'udienza a porte chiuse. Non hanno dovuto rispondere a domande della giudice - laureata all'università Bar-Ilan, è stata anche docente - che si è basata sugli interventi e i documenti presentati dai legali. Gli avvocati chiedono ai media di rispettare in queste due settimane la privacy delle famiglie, che si impegnano «al silenzio stampa» dopo un periodo di presenza costante sui media internazionali.
   Lo stratega della comunicazione assunto dai Peleg è andato all'offensiva da quando il nonno lo ha portato a Tel Aviv sabato 11 settembre con un volo privato via Lugano: interviste nei programmi televisivi più seguiti a lui, alla nonna Etty e a Gali, sorella di Tal, la madre di Eitan morta sul Mottarone. È Gali - uscita dall'udienza tremando e con lo sguardo fisso a terra - ad aver iniziato la pratica di adozione in Israele. Assieme ai genitori (divorziati) ha ripetuto che «Eitan non è stato rapito, è ritornato a casa, deve crescere in questo Paese». I Peleg si sono opposti alla decisione di iscriverlo a una scuola cattolica, la scelta era però già stata fatta dal padre e dalla madre prima della strage sulla funivia. Fino ad ora i Biran avevano potuto vedere il bambino di 6 anni, che è cittadino italiano, solo una volta una settimana fa. Haggai - fratello di Aya e Amit, morto nell'incidente - lo aveva incontrato a casa di Shmuel. Aveva riconosciuto che fosse «in buone condizioni di salute» ma i legali avevano espresso la sua preoccupazione che fosse in atto «un lavaggio del cervello» con idee «inculcate nella testa del piccolo».

(Corriere della Sera, 24 settembre 2021)


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Caso Eitan, l'intesa è a tempo. Ora il caso agita (anche) Israele

di Fiammetta Martegani

Rimandata all'8 ottobre la prossima udienza sull'affidamento del piccolo Eitan Biran, sei anni, unico sopravvissuto alla tragedia del Mottarone. Fino ad allora, come stipulato dal giudice Iris Ilotovich Segal nel corso della prima udienza - tenutasi ieri mattina, a porte chiuse, presso il tribunale di Tel Aviv - il bambino resterà in Israele, sotto la supervisione dell'equipe medica dell'ospedale Tel Hashomer e in doppio affidamento - alternato - tra le due famiglie che hanno, provvisoriamente, dato il mutuo consenso. Non sono mancate le tensioni in aula tra le due parti, rappresentate dalla zia paterna Aya Biran - la prima a cui è cui stata affidata la custodia temporanea - e il nonno materno Shmuel Peleg accusato di sequestro di persona per aver portato in Israele il nipote, senza il consenso di Biran, sua tutrice legale per decisione del tribunale di Torino.
    Proprio su questo verte il caso, poiché Peleg avendo sottratto il nipote all'insaputa della tutrici stando alla Convenzione internazionale dell'Aia avrebbe compiuto "sottrazione di minore", ragion per cui, tornato in patria, è stato immediatamente interrogato dall'unità antifrode che lo ha rilasciato a condizione che rispettasse gli arresti domiciliari. In sua difesa, l'avvocato Yuval Sasson sostiene che l'imputato, mentre era in Italia per occuparsi del funerale della propria figlia, sia stato messo di fronte al fatto compiuto dell'affidamento paterno senza che gli venisse permesso di consultare alcun legale. Il caso è particolarmente complesso in quanto nessuna delle famiglie ne ha la custodia "naturale"e le precedenti sentenze, in merito alla Convenzione dell'Aia, solitamente affrontano dispute tra genitori in vita. Alla luce di tutte le prove che verranno fornite ed esaminate nelle prossime settimane, i giudici israeliani decideranno, definitivamente, le sorti del piccolo. Nel frattempo i legali delle due famiglie stanno cercando di fare il possibile per portare le parti a un compromesso e porre fine a questo conflitto ai danni del bimbo.
   In attesa del verdetto finale il Paese è già diviso in due. Da una parte c'è chi vede nella figura della zia e della famiglia rimasta in Italia - in cui il bambino vive da quando ha un mese - una casa accogliente e sicura, dove potrà finalmente trovare protezione e conforto, e continuare la prima elementare; iniziata una settimana prima che avvenisse il sequestro. Dall'altra chi reputa Israele, "madrepatria" di Eitan e dei suoi genitori, l'unico luogo possibile in cui ricostruire le proprie origini e la propria identità di cittadino ebreo israeliano.
   Su questo punto, in particolare, non sono mancati dibattiti tra i media locali, anche questi divisi su due fronti. Nei giorni scorsi i due principali canali televisivi (Chanel 12 e 13) hanno intervistato a lungo i membri della famiglia materna per mostrare il loro punto di vista che insiste nell'appartenenza del piccolo allo Stato ebraico e vede nell'Italia solo una breve tappa - seppur accogliente - della sua vita.
   Tuttavia Shany Littmaan, editorialista del quotidiano Haaretz, ha dichiarato che la retorica dei due programmi - e della stessa famiglia Peleg - ha strumentalizzato il legame unico tra Israele e l'ebraismo, per legittimare il rapimento del bimbo, sperando, attraverso quest'operazione retorica, di fare breccia sull'opinione pubblica e, soprattutto, sui giudici israeliani: «Questo non è affatto il giudizio di Salomone - ha commentato la giornalista - È il terribile abuso di un bambino sfortunato». Qualunque sarà il verdetto, infatti, che si decida per il rientro in Italia o si stabilisca di farlo rimanere in Israele, questo processo potrebbe causare - e su questo concordano tutti i media locali - un ulteriore trauma per il piccolo Eitan, dopo tutto quello che ha già subito.

(Avvenire, 24 settembre 2021)


Come funzionano i servizi segreti israeliani

di Andrea Muratore

Israele è per antonomasia la nazione associata al mondo delle operazioni coperte, dell’intelligence e dello spionaggio. Fin dalla sua nascita, nel 1948, lo Stato ebraico si è costituito come “caserma” del Medio Oriente e come nazione fortemente pronta a respingere sfide e minacce sfruttando gli strumenti di hard power a sua disposizione. L’intelligence ha più volte svolto il ruolo di punta di lancia della sua proiezione.

• UNA STRUTTURA TRIPARTITA
  L’intelligence di Israele ha una struttura tripartita, che differenzia in forma chiara tra sistemi legati allo spionaggio interno ed estero e apparati militari. Sul primo fronte si collocano l’intelligence per l’estero, il celebre Mossad, e la sua controparte interna, lo Shin Bet, mentre l’Aman è il corpo di intelligence militare dell’Israel Defence Force.
   L’intelligence agisce al servizio del governo di Tel Aviv e su sua iniziativa promuove le proprie operazioni, ma al contempo è strettamente guardata a vista da una serie di contropoteri che non solo garantiscono il diritto delle opposizioni a essere informate sui fatti, come accade negli Usa e in Italia, ma permettono anche che la Knesset, il parlamento israeliano, possa avere voce in capitolo.
   Di fatto il Mossad e gli altri apparati dell’intelligence dello Stato ebraico, nonostante una nomea che spesso li paragona a corpi autonomi dotati di proieizione pressoché indipendente e sregolata, non agiscono mai senza il beneplacito degli apparati politici e securitari di Tel Aviv. E proprio la loro pervasività d’azione segnala quanto il loro apporto sia fondamentale per la strategia nazionale del Paese.

• LO SHIN BET, PRESIDIO CONTRO IL TERRORISMO
  La proiezione parte dalla garanzia della sicurezza interna. E Israele non potrebbe essere la vera e propria fortezza che è diventata negli anni senza il ruolo di scrutinio del servizio interno di difesa e controspionaggio. Esso è lo Shabak, meglio conosciuto come Shin Bet (abbreviazione di “Servizio di sicurezza”).
   Lo Shin Bet opera nell’analisi previsionale, nella controinsorgenza, del monitoraggio contro criminalità organizzata e, soprattutto, terrorismo in Israele e nei territori occupati del West Bank.
   Il cuore della sua attività sta nel “dipartimento arabo” impegnato nell’antiterrorismo e il controspionaggio sia interno al Paese che nei territori della West Bank come di Gaza. Esso rappresenta il pivot di un sistema a cui si aggiunge un dipartimento chiamato a monitorare i movimenti radicali ed estremisti della politica israeliana per vegliare sulle minacce all’ordinamento del sistema-Paese e un raggruppamento dedicato alla difesa di infrastrutture critiche, luoghi di aggregazione, palazzi istituzionali, figure di vertice degli apparati di potere.
   A queste sezioni di Intelligence si va ad aggiungere un’unità operativa, la Yamas, una forza di manovra formalmente inserita nell’organico della polizia di frontiera che è di fatto sottoposta alla direzione operativa dello stesso Shin Bet. I suoi agenti operano prevalentemente in borghese, sfruttando la loro professionalità per agire laddove situazioni di pericolo e minaccia rischino di verificarsi.

• IL BRACCIO ARMATO DELL'INTELLIGENCE
  L’Aman e il Mossad sono il vero e proprio asset operativo su cui si basa la proiezione di Israele come grande potenza dell’intelligence globale. Lo Stato ebraico conta apertamente sul servizio militare e su quello estero per compiere operazioni al limite, spericolate e spesso “corsare” e facilitare la sua azione negli scenari caldi del Medio Oriente.
   L’Aman, forse il meno noto tra i gruppi di intelligence, ha però un ruolo fondamentale come raccoglitore e elaboratore di dati e informazioni sfruttate appieno dalle Idf nel progettare campagne militari e operazioni coperte. Negli ultimi anni ha aumentato la sua capacità operativa anche e soprattutto nel campo della cyberintelligence. Spicca in tal senso l’Unità 8200, dedicata alle operazioni nel dominio cyber, definita da John Reed del Royal United Service Institute come la migliore agenzia tecnica di signal intelligence al mondo, protagonista sia della definizione della cyber-difesa degli asset israeliani sia di vere e proprie operazioni offensive come il raid di Stuxnet destinato contro il nucleare iraniano del 2010.

• COS'È E COME FUNZIONA IL MOSSAD
  Il Mossad è il vero e proprio sovrano dei servizi segreti israeliani. Nella sua storia di oltre settant’anni ha promosso operazioni coperte, omicidi mirati, sommovimenti e infiltrazioni per realizzare sul terreno gli obiettivi di Israele. Il Mossad opera su iniziativa del primo ministro di Israele e ha al suo interno dipartimenti per le operazioni sul terreno, centri di raccolta informativa e unità che si dedicano alla destrutturazione delle reti economiche e finanziarie dei terroristi (operazione Harpoon) e perfino un fondo di venture capital che nella massima segretezza promuove e finanzia start-up tecnologiche per acquisirne le competenze.
   Dall’infiltrazione della super-spia Eli Cohen ai vertici del regime siriano negli Anni Sessanta alla guerra “ombra” condotta negli ultimi anni contro l’Iran e il suo programma nucleare, il Mossad ha registrato una serie di colpi importanti: la collaborazione coi servizi segreti francesi ha permesso la conquista di segreti nucleari, lo stanziamento di agenti in Europa la vendetta dopo la strage alle Olimpiadi di Monaco 1972 e la caccia all’uomo contro i membri del gruppo palestinese Settembre Nero, le azioni dalla Tunisia al Libano la caccia all’uomo contro i membri di Hamas e Hezbollah.
   Una sequela notevole di azioni a cui si sono aggiunti fallimenti, come l’incapacità di prevedere spesso la capacità di reazione delle truppe dei gruppi libanesi e palestinesi, e che hanno avuto il loro compimento negli ultimi anni con la costruzione di un rapporto diretto e di scambio di informazioni tra Tel Aviv e le monarchie del Golfo. Vera e propria consacrazione della dottrina della difesa in profondità della sua integrità e dei suoi interessi che Israele persegue grazie ai suoi strumenti di hard power. Impossibili da sdoganare senza la proiezione e le informazioni garantite dai suoi servizi.

(Inside Over, 24 settembre 2021)


I tunnel che attraversano l’Israele di Rutu Modan

di Emilio Cirri

Se si dovessero elencare gli autori contemporanei che più sono stati in grado di narrare la recente storia di Israele e il suo rapporto con le tragedie del popolo ebraico, Rutu Modan dovrebbe avere sicuramente un posto di rilievo. Con il suo mix unico di umorismo caustico e sensibilità emotiva, un tratto impregnato di ligne claire, una straordinaria capacità di costruzione della tavola e di storytelling, l’autrice israeliana ha raccontato il dramma e le contradizioni delle infinite guerre che coinvolgono il suo paese e stravolgono la vita del suo popolo (con Exit Wounds, tradotto per Coconino col titolo Unknown/Sconosciuto, premio Eisner come miglior graphicnovel e nominato Les Essentiels d’Angoulême nel 2008) e la complessa eredità lasciata dalle persecuzioni naziste e dalla diaspora (ne La Proprietà, premio Gran Guinigi nel 2013). In questa produzione, Tunnel si inserisce come nuovo capitolo di un ideale percorso socio-politico che, partendo da Israele, racconta gli stravolgimenti del Medio Oriente, sconvolto dalla guerra di conquista dell’Isis, e di come i rapporti di forza in questa parte di mondo (e ben oltre) siano più intrecciati e complessi di quanto si pensi.
  Partendo dal ruolo che il commercio (illegale) di reperti archeologici e la connivenza di esperti, studiosi e mercanti d’arte, hanno avuto nel finanziamento dello Stato Islamico, Modan costruisce una commedia degli equivoci con tinte di noir e di avventura che attraverso l’ironia restituisce l’immagine, unica e controversa, del proprio paese. Come nei lavori precedenti, le vicende famigliari hanno un ruolo centrale: è la voglia di rivalsa a spingere Nili Broshi, figlia del famoso professor Israel Broshi, a cercare nuovamente quell’Arca dell’Alleanza che il padre stava per scoprire. Il fatto che le coordinate di questo Sacro Cimelio lo collochino al di là del muro antiterrorismo eretto da Israele per sancire il confine con Gaza mette in moto eventi incontrollabili, che coinvolgono mercanti d’antichità senza scrupoli, ebrei ultraortodossi, goffi terroristi islamici, nonché il fratello Nimrod, accademico succube dell’influenza del direttore del dipartimento Rafi Sarid, ex collaboratore del padre dei due e segnato da un infantile complesso di inferiorità nei confronti di Israel.
  La struttura del racconto è quella tipica del genere, ricca di misteri e colpi di scena, alternando momenti divertenti ad altri di azione ad altri ancora di commozione. Rispetto alle opere precedenti, Modan decide di puntare tutto su una comicità che va dallo slapstick al satirico e corrosivo, lasciando da parte le punte di grande emotività toccate ne La Proprietà: una lente narrativa che non risparmia nessuna delle parti e che, attraverso la risata, lancia messaggi di denuncia forti e chiari.
  Ogni personaggio appare inizialmente con un ruolo ben definito, quasi stereotipato e pensato come bersaglio per la critica a un ben preciso modello umano (l’arrivista frustrato, l’avido mercante, il radicale ultraortodosso, il capriccioso compratore occidentale, i jihadisti ottusi); nel corso dell’opera tuttavia ognuno di loro segue un percorso di crescita, di realizzazione, anche di rovina. Un elemento dinamico che sicuramente giova al racconto e che contrasta con una trama, che in alcuni punti sembra arenarsi e non trovare appigli per procede in maniera più spedita.
  A dare spessore e fluidità alla storia ci pensa una regia chiara e certosina, realizzata (come da prassi per l’autrice) con l’aiuto di veri attori, che vengono rappresentati grazie a uno stile più stilizzato rispetto ai precedenti lavori, in cui la linea chiara appresa da Hergè e Jacobs viene contaminata dall’espressionismo dell’underground USA. Questa scelta, se da una parte riduce l’eleganza e la tenerezza raggiunte in La proprietà, dall’altra esalta in chiave comica le reazioni esagerate dei protagonisti (occhi spalancati come in un cartoon, lacrime che si fanno dense come melassa).
  Se confrontato con altri lavori, Tunnel appare certamente fin troppo denso e carico di tematiche: i mille rivoli che si disperdono dalla trama principale vengono spesso lasciati inespressi, e questo dà all’opera un senso di minor coesione, quasi di incompiutezza. Anche il climax finale e la risoluzione appaiono eccessivamente forzati, quasi a voler raccogliere quanto più possibile di quello che è stato seminato, non riuscendoci. 
  Però forse anche questi difetti possono offrirci una chiave di lettura possibile, un’immagine frammentata di una realtà particolare molto complessa e a noi non pienamente chiara come quella israeliana, che si interfaccia con una macrorealtà (regionale, ma anche mondiale) a sua volta percorsa da mille tensioni e profondi cambiamenti.
  Solo una grande autrice come Rutu Modan, quando anche non al suo meglio, può riuscire a farci ridere, a farci riflettere e a farci discutere.

(Lo Spazio Bianco, 24 settembre 2021)


Covid, il 25% delle famiglie israeliane a rischio insicurezza alimentare

Uno studio della organizzazione Leket mostra che due milioni di persone non raggiungono livelli “sufficienti” sul piano nutritivo. Pandemia e prezzi elevati fra i fattori determinanti. Attesi nuovi sostegni dal governo. Mons. Marcuzzo: fondamentale rispondere al problema occupazionale, turismo e pellegrinaggi ancora fermi. E la situazione in Palestina e Gaza è ancora peggiore.

GERUSALEMME - Il 25% circa delle famiglie israeliane con figli a carico sperimenta condizioni di insicurezza alimentare, per un totale di circa due milioni di persone che non raggiungono livelli ritenuti “sufficienti” sul piano nutritivo. È quanto emerge dal rapporto annuale elaborato dagli esperti di Leket, la più autorevole ong anti-povertà del Paese per servizi assistenziali in materia di cibo. Secondo l'organizzazione, 774mila bisognosi sono bambini, pari a un terzo dei minori in tutto Israele. Almeno 663mila famiglie non dispongono poi di risorse sufficienti per soddisfare le esigenze quotidiane in tema di dieta.
  “Un dato che stupisce” sottolinea ad AsiaNews l’ex vicario patriarcale di Gerusalemme dei Latini mons. Giacinto-Boulos Marcuzzo, secondo cui “la situazione in Israele è comunque migliore rispetto alla Palestina o Gaza”, dove i tassi d'indigenza e povertà sono “drammatici”. Sul livello di benessere delle famiglie “ha influito l’emergenza sanitaria innescata dal coronavirus”, soprattutto a livello lavorativo per quanti operano “nel settore del turismo o dei pellegrinaggi in Terra Santa. In questo periodo critico, il governo è intervenuto per quanto possibile nel tentativo di rispondere ai bisogni”.
  Secondo lo studio, il costo elevato della vita e la crisi economica, acuita dalla pandemia di Covid-19 con le restrizioni agli spostamenti e alle attività economiche, sono i fattori che hanno contribuito ad accrescere l’insicurezza alimentare. Il coronavirus avrebbe spinto 155mila individui in una condizione d'indigenza, quasi al limite di una soglia di povertà mai sperimentata prima. Eran Weintrob, amministratore delegato di Leket, spiega che i nuclei familiari più colpiti sono quelli “a basso reddito, già in sofferenza prima della pandemia”.
  “Sebbene il governo abbia stanziato 100 milioni di Nis (circa 26 milioni di euro), il denaro necessario per risolvere questa situazione critica - avverte - è di un miliardo”. Intanto il ministero israeliano del Welfare ha promesso di distribuire ulteriori fondi per venire incontro alle esigenze dei più bisognosi, ma sinora si parla solo di promesse sulla carta.
  Un rapporto del Centro di ricerca e informazione della Knesset (il Parlamento israeliano) di agosto afferma che alla fine del 2020 solo 200mila famiglie soffrivano di carenza di cibo. Un dato che è, in realtà, tre volte inferiore alla cifra reale come controbatte un’inchiesta dettagliata pubblicata dal Times of Israel. “Vi sono 200 enti di beneficienza - prosegue Weintrob - che sostengono ogni giorno 80mila famiglie in condizioni di insicurezza alimentare. Queste associazioni sono in attesa dei finanziamenti governativi, per far fronte ai crescenti bisogni”.
  All’insicurezza alimentare si lega infine il problema disoccupazione, che ha visto oltre un milione di persone escluse dal mercato del lavoro durante il periodo più buio della pandemia e, ancora oggi, a dispetto di una timida ripresa centinaia di migliaia di persone sono in cerca di lavoro. “Dal turismo religioso, alle guide, i trasporti, gli addetti ai luoghi santi - conferma mons. Marcuzzo - sono tantissime le famiglie che hanno sofferto in quest’ultimo periodo. Qualcosa è ripartito a livello di turismo, ma stiamo parlando di viaggi individuali o spostamenti interni mentre i pellegrinaggi restano ancora bloccati". La pandemia ha inferto un colpo durissimo, conclude il religioso, "e ora stiamo cercando per quanto possibile di ripartire”.

(AsiaNews.it, 24 settembre 2021)


Israele: i primi 100 giorni di bugie e fallimenti del Governo Bennet

Se un giornale importante e notoriamente ostile a Netanyahu come Yedioth Ahronoth sbatte in prima pagine un articolo del genere, un motivo ci sarà.

di Franco Londei

Questa mattina su Yedioth Ahronoth, notoriamente progressista e non certo amico di Benjamin Netanyahu, è apparso un articolo a firma Arye Erlich che non ti aspetteresti mai da tale testata.
  Parla dei primi 100 giorni del Governo di Naftali Bennet che descrive, udite udite, come un «governo costruito su bugie e inganni».
  Intendiamoci, non che si possa fare diversamente considerando che, come ci racconta l’autore giusto per dirne una, «il partito politico del primo ministro Naftali Bennett ha speso decine di migliaia di shekel in spese legali nel tentativo di impedire al partito islamista Ra’am di partecipare alle ultime elezioni parlamentari, ma ora Ra’am è un membro stimato della coalizione».
  Scrive ancora Arye Erlich: «i politici mentono, è nella loro natura. Molti primi ministri in passato hanno attuato politiche diverse dalle loro promesse elettorali. Ma mai un primo ministro si è spianato la strada al potere con bugie [come ha fatto Bennet n.d.r.]».
  Erlich ricorda anche che un “periodo di grazia” si concede ad ogni governo, quei primi 100 giorni nei quali si aspetta di vedere la linea che imporrà alla sua politica.
  Ebbene, scaduti i primi 100 giorni «i fallimenti di questo governo sono evidenti, e sono ancora più spettacolari di quanto alcuni temessero».
  Scrive ancora Arye Erlich: «in una democrazia, la maggioranza degli elettori determina il proprio governo. Milioni di israeliani hanno votato quattro volte negli ultimi due anni e Bennett non è mai emerso come vincitore né si è nemmeno avvicinato ad esso. In uno di questi scrutini il suo partito Yamina non è riuscito nemmeno a raggiungere la soglia minima richiesta per entrare alla Knesset».
  E poi ci va giù durissimo quando afferma che: «il voto dei milioni di sostenitori del Likud e dei partiti ultraortodossi è stato messo da parte come se le loro voci non avessero peso».
  E ancora: «il ministro delle finanze Avigdor Liberman ha promesso di caricare gli haredim sui carri e di buttarli via come spazzatura. Ora il governo sta portando a compimento questo impegno contro coloro che vivono una vita di fede e di culto».
  E infine dice quello che tutti realmente pensano e cioè che «il governo non promuove nessuno dei valori che gli elettori hanno chiesto loro. La coalizione è venuta al mondo per non fare altro che rimuovere Benjamin Netanyahu dall’incarico».
  Perché ho raccontato tutto questo? Perché se una testata importante come Yedioth Ahronoth che non ha mai dimostrato simpatia per Netanyahu, sbatte in prima pagina un articolo del genere vuol dire che la situazione è davvero al limite e anche dalle parti della sinistra se ne sono accorti.
  La chiusura dell’articolo poi è senza appello: «questa è l’antitesi di una coalizione unitaria, priva di ogni valore di verità e responsabilità. Deve essere sciolta e prima è, meglio è».

(Rights Reporter, 23 settembre 2021)


Il congresso americano rifiuta il finanziamento di Iron Dome: un voto che apre prospettive allarmanti

di Ugo Volli

Gli Stati Uniti non vogliono più finanziare Iron Dome, il sistema d’arma difensivo che ha garantito la sicurezza di Israele nell’ultimo decennio. Lo ha deciso la Camera dei rappresentanti, subendo il ricatto della “squadretta” dell’estrema sinistra del partito democratico composta da deputati come Ilhan Omar, Alexandria Ocasio-Cortez, Mark Pocan, Rashida Tlaib, Ayanna Pressley, tutti sotto l’ala protettiva dell’ex candidato alla presidenza Bernie Sanders. Martedì scorso si trattava di votare un provvedimento economico di grande importanza per il rilancio dell’economia dopo il Covid. In questo provvedimento era contenuto il budget per rifornire Israele dei razzi antimissile Tamir che sono lo strumento con cui Iron Dome concretamente abbatte i missili diretti contro le città israeliane. Il costo stimato di ognuno di questi razzi è intorno ai 20 mila dollari; ma a causa della necessità di mirare a ogni missile nemico con almeno due Tamir per sicurezza e anche dei colpi a vuoto o inutili, si stima che ogni abbattimento costi circa 100 mila dollari. Ne vale la pena, visto che si tratta di vite umane, di case, di scuole; ma è un costo enorme per Israele. Bisogna aggiungere inoltre che in seguito agli accordi con gli Stati Uniti i Tamir si producono solo in Usa, non in Israele.
  Dunque il finanziamento previsto nel progetto di legge era molto consistente, circa un miliardo di dollari, che dovrebbe consentire ai costi attuali circa diecimila abbattimenti: sembrano tanti ma sono decisamente pochi in proporzione ai 20.000 razzi in mano a Hamas e ai 130 mila che si dice stiano nei depositi di Hezbollah. Vale la pena di aggiungere che questi soldi avrebbero sì garantito la sicurezza di Israele, ma sarebbero stati spesi in Usa, dando lavoro all’industria aeronautica americana. L’ultima considerazione, ma forse la più importante è che i Tamir e tutto il sistema Iron Dome sono solo armi difensive, che servono a salvare vite umane, non a distruggerle. E non si tratta solo di vite israeliane: senza l’antimissile Israele sarebbe costretto a contrattaccare le basi degli aggressori in maniera molto più energica per limitare le stragi che farebbero i terroristi se non fossero fermati dall’antimissile, trascurando tutte le procedure che oggi servono a proteggere i non combattenti a Gaza. Il risultato sarebbe una guerra senza limiti, con costi umani terribili da entrambe le parti.
  La squadretta di estrema sinistra non si è fatta impressionare da queste considerazioni e ha minacciato di far bocciare l’intero progetto di legge, con gravi conseguenze economiche, se non fosse stato eliminato il capitolo su Iron Dome. E la leadership democratica, volente o nolente, ha piegato la testa e ha obbedito. E’ probabile che, come ha rassicurato il ministro degli esteri israeliano e uomo forte della coalizione di governo a Gerusalemme Yair Lapid, prima o poi il Congresso troverà il modo di restituire questi fondi a Iron Dome. Dopotutto la cifra del miliardo di dollari era stata promessa personalmente da Biden dopo la fine dei combattimenti a Gaza a primavera, e ci sono anche forti interessi economici americani in gioco. Ma il colpo è comunque molto grave. Perché innanzitutto il voto della Camera americana dimostra che non è affatto vero che l’appoggio a Israele sia tornato bipartisan, dopo la chiusura dell’epoca di Netanyahu e Trump, come sosteneva lo stesso Lapid. Esattamente come un anno fa, per Israele si battono i repubblicani, contro Israele l’ala più combattiva del partito democratico; gli altri democratici sono quantomeno tiepidi o incapaci di imporsi. In secondo luogo si vede che l’opposizione a Israele non è umanitaria o pacifista, perché se c’è un sistema d’arma civile e pacifico questo è proprio Iron Dome. Il voto mostra un pregiudizio ideologico, un odio feroce che non si ferma neppure davanti alla prospettiva di vittime civili indifese: per dirla tutta, nel Partito Democratico prevale oggi un antisemitismo bello e buono.
  Infine, bisogna ricordare che la realizzazione dell’armamento atomico iraniano è lontana appena qualche settimana, secondo le valutazioni condivise dagli esperti. E’ chiaro che l’America non ha il tempo e la determinazione per fermarlo con mezzi diplomatici, ammesso che ciò sia possibile, e che dunque un ricorso alle armi è probabilmente la sola possibilità. Ma gli Stati Uniti - tutto il suo sistema politico, non solo l’amministrazione balbettante ma anche gli estremisti che comandano al Congresso - non sono affatto disposti a prendersi questa responsabilità. Anzi mostrano l’intenzione chiara di impedire a Israele di provarci. Lo stato ebraico d’altro canto ha un governo debole, confuso, con la presenza di estremisti di sinistra non poi troppo diversi dalla squadretta di Washington. Bennett ha promesso a Biden di informarlo in anticipo di ogni iniziativa militare rilevante.
  È probabile dunque che fra un mese o due, quando Teheran farà capire di avere la bomba atomica, nessuno avrà fatto niente per impedirlo e sarà troppo tardi per provarci, Israele si troverà di fronte un nemico mortale, fornito di deterrenza nucleare, e non sarà affatto sostenuto dagli Stati Uniti, anzi sarà oggetto a tentativi di boicottaggio militari come quello di questi giorni. E’ una prospettiva difficilissima. Possiamo solo sperare che sia decisiva la grande capacità di resistenza di Israele e del popolo ebraico, che certo non ha intenzione di subire la sorte dei filo-occidentali dell’Afghanistan. Certamente si preparano tempi difficilissimi.

(Shalom, 23 settembre 2021)


Bahrain, Israele, Emirati Arabi Uniti e Marocco guidano una dichiarazione congiunta al Consiglio per i diritti umani su donne, pace, diplomazia

GINEVRA, 22 set 2021 - Durante la 48a sessione del Consiglio dei diritti umani di mercoledì, l'ambasciatore Yusuf Abdulkarim Bucheeri del Bahrain ha rilasciato una dichiarazione congiunta a nome del Regno del Bahrain, degli Emirati Arabi Uniti, di Israele e del Regno del Marocco, l'Università della Pace e oltre 50 paesi, sul ruolo delle donne nella pace e nella diplomazia.
  La "Dichiarazione congiunta su donne, pace e diplomazia" ha riaffermato il ruolo fondamentale delle donne nei processi di pace e nella prevenzione dei conflitti e ha invitato tutti gli Stati a impegnarsi con forza per garantire il progresso delle donne nella diplomazia preventiva e nella costruzione della pace.
  L'Ambasciatore Yusuf Abdulkarim Bucheeri, rappresentante Permanente del Bahrain, ha commentato: "Questa dichiarazione congiunta è coerente con la distinta esperienza del Bahrein in termini di responsabilizzazione delle donne del Bahrein e di rafforzamento del loro ruolo guida nel gettare le basi per la pace e la sicurezza internazionali attraverso la loro notevole e rinomata presenza diplomatica nelle sedi internazionali. Inoltre, trasmette un importante messaggio di pace derivante dai valori profondamente radicati della società del Bahrein, dalla visione della sua saggia leadership e dalla sua esperienza pionieristica nel campo della convivenza pacifica e della tolleranza religiosa".
  L'ambasciatore Meirav Eilon Shahar, rappresentante permanente di Israele presso le Nazioni Unite a Ginevra, ha dichiarato: "Questa dichiarazione congiunta è la prima iniziativa formale nell'arena multilaterale tra Israele, Bahrain, Emirati Arabi Uniti e Marocco. Sono particolarmente lieta che l'importante questione delle donne nei processi di pace sia al centro di questa dichiarazione e credo che sia una testimonianza della nuova dinamica che vogliamo promuovere nella nostra regione e oltre".
  L'Ambasciatore Omar Zniber, rappresentante permanente del Marocco, ha dichiarato: "L'iniziativa è in linea con la volontà e la necessità di lavorare comunitariamente e attivamente per costruire pace e sicurezza, basate sui rapporti tra le persone e sulle opportunità, mettendo le donne al centro della azione per la costruzione della pace e la risoluzione dei conflitti. Molto lieto come delegazione marocchina di promuovere tale azione."
  L'ambasciatore Ahmed Aljarman, rappresentante permanente degli Emirati Arabi Uniti, ha osservato: "In linea con la politica nazionale degli Emirati Arabi Uniti sull'emancipazione femminile, abbiamo compiuto notevoli progressi per far avanzare l'agenda delle donne, della pace e della sicurezza, incluso il lancio dell'Iniziativa di Sceicca Fatima per le Donne, la Pace e la Sicurezza e lancio del primo piano d'azione nazionale degli Emirati Arabi Uniti in risposta all'UNSCR 1325 nel marzo 2021. La Missione degli Emirati Arabi Uniti presso le Nazioni Unite continua a lavorare con tutte le missioni su questa importante agenda".
  L'ambasciatore David Fernandez Puyana, osservatore permanente dell'Università per la pace, ha commentato: "Divenendo parte di questa innovativa iniziativa interregionale, UPEACE adempie al suo mandato" con la chiara determinazione di fornire all'umanità un'istituzione internazionale di istruzione superiore per la pace e con l'obiettivo di promuovere tra tutti gli esseri umani lo spirito di comprensione, tolleranza e pacifica convivenza, di stimolare la cooperazione tra i popoli e di contribuire ad attenuare gli ostacoli e le minacce alla pace e al progresso mondiali, secondo le nobili aspirazioni proclamate nella carta delle Nazioni Unite". (Carta dell'UPEACE, Risoluzione 35/55 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 5 dicembre 1980) La Dichiarazione Congiunta è stata consegnata nell'ambito del Dibattito Generale del Punto 3: Promozione e protezione di tutti i diritti umani, civili, politici, economici, sociali e culturali diritti, compreso il diritto allo sviluppo, durante la 48a sessione regolare del Consiglio dei diritti umani.

(WAM Italian, 23 settembre 2021 - trad. Hussein Abuel Ela)


Eitan: intesa tra le famiglie: resta in Israele fino all'8 ottobre, tre giorni con il nonno e tre con la zia

di Sharon Nizza

La decisione del giudice israeliano dopo la prima udienza a porte chiuse a Tel Aviv. Shmuel Peleg, il nonno materno di Eitan Biran, e la zia paterna Aya Biran, che si contendono il bambino, hanno chiesto il silenzio stampa fino alla ripresa del processo in tre sedute: 8, 9 e 10 ottobre
   C'è un'intesa tra la famiglia Biran e la famiglia Peleg per "gestire" la routine di Eitan da oggi all'8 ottobre. Lo hanno annunciato gli avvocati della famiglia Biran al termine della prima udienza al tribunale di Tel Aviv. Al tempo stesso il giudice ha stabilito la ripresa delle udienze a partire dall'8 ottobre per 3 giorni consecutivi. Nel frattempo - hanno aggiunto gli avvocati - le famiglie hanno chiesto il totale silenzio stampa per proteggere il bambino. Allo stato attuale, quindi, Eitan resta in Israele, almeno fino alla ripresa delle udienze.
   Al termine dell'udienza durata due ore, gli avvocati Ronen Dlayhau per la famiglia Peleg e Shmuel Moran per la famiglia Biran hanno rilasciato una "dichiarazione congiunta e concordata da entrambe le parti, come suggerito dalla giudice": "La nostra priorità è il bene del bambino, la sua sicurezza e stabilità mentale. La corte ha fissato l'udienza a partire dall'8 ottobre, per tre giorni. Fino ad allora abbiamo raggiunto un accordo sulle disposizioni di visita temporanee del bambino, i cui dettagli non verranno diffusi, per raccomandazione del giudice. Abbiamo concordato anche che non verrà trasmesso nessun dettaglio sulle condizioni del bambino. Ci rivolgiamo alla stampa, in Israele, in Italia e nel mondo perché rispetti la privacy del bambino, e non diffonda informazioni sulle sue condizioni fisiche e mentali. Vi preghiamo di non pubblicare foto del bambino, che ha solo bisogno di silenzio ora. Quello che è stato fatto finora è sufficiente. Dimostrate la sensibilità umana richiesta dal caso. Diffonderemo informazioni al termine delle procedure, ora chiediamo di rispettare il piccolo e le famiglie che stanno già vivendo una situazione tragica. In questa fase tutte le decisioni prese sono concordate tra le parti".
   Secondo persone informate dell'accordo, il bambino trascorrerà metà settimana con i Peleg e metà con i Biran. Aya Biran, che aveva ricevuto per oggi una deroga eccezionale, si trova in quarantena fino a sabato. Dopodiché il bambino trascorrerà con lei tre giorni. Eitan potrà alloggiare anche a casa del nonno Shmuel Peleg, indagato sia in Italia che in Israele per il suo sequestro. La Corte in sostanza oggi non ha affrontato la questione del rientro del bambino secondo la Convenzione dell'Aia, ma si è concentrata sul nodo del diritto di visita tra le parti rimandando all'8 ottobre la delibera sul rientro del bambino, che potrebbe essere risolta in tre udienze serrate, secondo quanto affermato dagli avvocati al termine della seduta.
   E' una donna, Iris Ilotovich Segal, il giudice incaricato a esprimersi sulla vicenda del piccolo Eitan. Nel luglio 2017 è stata nominata giudice del tribunale della famiglia del distretto di Tel Aviv.

(la Repubblica, 23 settembre 2021)

Eitan, anche Haaretz sta con gli italiani

di Luisa Perri 

I presunti sequestratori di Eitan Biran "non meritano la nostra compassione". Così s'intitola un commento pubblicato dal sito di Haaretz che attacca le interviste televisive "piene di empatia" fatte questo week end ai Peleg, i nonni materni del bambino, "persone che non meritano una briciola di comprensione". L'articolo si scaglia contro le domande "ridicole" o "irrilevanti" poste ai due nonni. Sia l'emittente Channel 12 che Channel 13 hanno chiesto se i Peleg non temevano che un giorno il bambino avrebbe scoperto, digitando su Google, i dettagli della battaglia sulla sua custodia. "Ma la domanda - scrive Haaretz- doveva essere un'altra. Dove avete trovato il fegato di sconvolgere la fragile vita di questo bambino che sua zia e la sua famiglia erano riusciti a ricreare, dopo un tale trauma?".
   Pubblicato in ebraico e in inglese, il giornale di Tel Aviv è un importante riferimento per politici e intellettuali ed è considerato il quotidiano più autorevole in Israele. "I Peleg, che appaiono totalmente laici, sono veramente preoccupati che Eitan si allontani dal giudaismo o da Israele, o stanno usando questa contorta scusa per volgere a loro favore l'opinione pubblica e, ancora più importante, quella dei giudici?", si chiede Haaretz. L'avvocato Zion Amir ha usato il cliché del giudizio di Salomone. Ma questo non è un giudizio di Salomone. È un terribile abuso di un bambino sfortunato". 

(Il Secolo d'Italia, 23 settembre 2021)


La voce della Torah: "Chi rapisce un uomo, sia che lo venda, sia che gli si trovi ancora fra le mani, sarà messo a morte" (Esodo 21:16).


Israele rimanderà Eitan in Italia. Un avvocato spiega perché

di Cecilia Scaldaferri

"Eitan verrà rimandato in Italia. Lì, un giudice dovrà decidere, sulla base dell'interesse del bambino, con chi vivrà". È la convinzione di Abraham Dviri, avvocato israeliano specializzato in diritto di famiglia.
   Parlando all'AGI, il legale non lascia margini: "La Convenzione dell'Aja sostiene che portare via un bambino dal luogo dove vive è rapimento e il minore deve tornare lì. Non permette di farsi giustizia da soli e richiede che il bambino torni dove vive e lì un giudice è chiamato a decidere".
   "Pertanto, io ritengo che Eitan verrà rimandato in Italia e sarà un giudice italiano, con un processo in Italia, a decidere" tra le due famiglie che se lo contendono.
   Un parere che l'avvocato Dviri basa sulla sua esperienza, un caso in particolare: "Alcuni anni fa rappresentai un americano di New York, che viveva nella Grande Mela con la moglie israeliana e il figlio. La moglie decise di andare in Israele per le vacanze di Pesach e portare con sé il bimbo, ottenendo il permesso dal marito di stare via tre settimane. Ma trascorso questo tempo, la donna non rientrò negli Stati Uniti e rimase con il figlio in Israele. Ebbene, il giudice israeliano ordinò il rientro del bimbo negli Usa, nel luogo dove viveva".
   Cruciale è la tempistica, proprio per il bene del bambino: nel caso di Eitan, non si può sapere quando arriverà la decisione, ma "non ci vorrà molto", ha assicurato Dviri. "La Convenzione dell'Aja dice che la sentenza deve essere emessa molto velocemente" per evitare che la situazione pesi sempre di più sul bambino via via che il tempo passa.

(AGI, 22 settembre 2021)


Rapito” o “Finalmente a casa”? Ora il destino del piccolo Eitan si decide in tribunale

C’è attesa per l'udienza di giovedì 23 a Tel Aviv, fissata dopo l'istanza della zia tutrice che ha chiesto l'immediato rientro in Italia del bambino di 6 anni. In aula le posizioni delle due famiglie.

Quale sarà il destino di Eitan Biran, al momento, non si sa. Il piccolo di sei anni, unico sopravvissuto alla tragedia del Mottarone, resta conteso tra i nonni materni e gli zii paterni. I primi, che vivono in Israele, lo vogliono tenere con loro, gli altri, invece, residenti in provincia di Pavia, ne chiedono il rientro immediato in Italia.
   Da settimane le due famiglie si lanciano accuse, rilasciano dichiarazioni alla stampa o interviste in tv, chiedendo «giustizia» e rivendicandone «l’adozione». Una vicenda intricata, troppo complicata per un bambino che nella vita ha già pagato un prezzo troppo alto per la sua età. Perché Eitan una famiglia ce l’aveva: un padre, una madre e un fratellino. Ha vissuto con loro fino al 23 maggio scorso, giorno in cui il destino, in pochi secondi, gli ha tolto tutto, quando la funivia Stresa-Mottarone è precipitata. Un impatto violento, costato la vita a 14 persone, tra loro anche il papà Amit Biran, la mamma Tal Peleg Biran, il fratellino Tom, e i bisnonni Itshak e Barbara Cohen. Lui è stato l’unico a sopravvivere allo schianto sulla montagna ai piedi del Lago Maggiore. Non senza conseguenze.

• Cosa è successo dopo la tragedia del Mottarone
  Il bimbo è stato ricoverato all'ospedale Regina Margherita di Torino, e tenuto in coma farmacologico per giorni. Poi, dopo il risveglio, ha iniziato un difficile percorso di riabilitazione, sia fisica che psicologica. La zia paterna, Aya Biran, sposata e con due figlie, poco dopo la tragedia è stata nominata tutrice pro tempore di Eitan. A deciderlo, prima il Tribunale di Torino, poi quello di Pavia. Diversi i motivi: la vicinanza con la casa dei genitori dove il piccolo aveva vissuto fino ad allora, gli zii vivono a Travacò Siccomario, a poca distanza da dove il piccolo abitava, e l'ottimo rapporto che Eitan ha con loro. Il piccolo è praticamente cresciuto con le cugine e quindi la soluzione individuata dal giudice tutelare di Pavia è sembrata la più naturale. 

• Il nonno porta via Eitan senza il consenso della zia tutrice 
  Ma il nonno materno, Shmuel Peleg, nove giorni fa ha portato Eitan in auto a Lugano e poi messo su un volo privato diretto in Israele. Per questo è indagato a Pavia per sequestro di persona assieme all'ex moglie e nonna materna Etty, e ad un autista israeliano che guidava la macchina. L’inchiesta punta anche su altre complicità e su chi ha consentito che il piccolo viaggiasse malgrado il divieto di espatrio, e il passaporto (del bimbo) che doveva essere riconsegnato dal nonno, su ordine del giudice di Pavia. 

• Le rivendicazioni delle due famiglie
  La zia paterna Aya, tutrice legale, chiede che i giudici israeliani affrontino la questione del «rapimento del bambino» sulla base della Convenzione dell'Aja, e facciano tornare al più presto Eitan in Italia. Ha anche richiesto che il bimbo le venga temporaneamente affidato in Israele prima della decisione definitiva sul ritorno a Pavia. Il ramo materno, invece, ribadisce le sue richieste, tanto che la zia Gali, che vive a Tel Aviv, ha presentato un'istanza in Israele per chiedere l'adozione del bimbo. Non si abbassa, dunque, ma pare aumentare lo scontro tra le due famiglie che passerà per le decisioni del Tribunale di Tel Aviv.

• Al via la causa presso il Tribunale di Tel Aviv 
  Giovedì 23 settembre, alle 9 (ora locale), presso il Tribunale di Tel Aviv è prevista la prima udienza sul caso del piccolo Eitan. Il dibattimento, secondo fonti informate, «avverrà a porte chiuse» presieduto «da una giudice donna». La causa è stata aperta dalla zia affidataria Aya Biran-Nirko, dopo che il piccolo è stato portato in Israele dal nonno materno Shmuel Peleg senza alcun avvertimento. La zia paterna del piccolo è arrivata in Israele domenica scorsa e attualmente si trova - in base alle disposizioni israeliane sul covid - in quarantena. Dovrebbe, comunque prendere parte al dibattimento, stando a quanto riferito da Cristina Pagni, uno dei suoi avvocati. Mentre un portavoce della famiglia Peleg, in Israele, ha dichiarato che «Shmuel sarà in aula». «Siamo ottimisti sull'andamento della vicenda giudiziaria. Abbiamo fiducia nella giustizia israeliana», ha sottolineato.

• Le accuse
  In un’intervista al Corriere della Sera, la nonna materna Esther (Etty) Peleg Cohen ha dichiarato che Eitan «ripete di voler restare in Israele, nessuno lo ha convinto. Aya gli ha chiesto in una telefonata se non gli mancassero le sue cugine, ha risposto di sì ma che può vederle qui». «Andiamo in giro tutto il giorno - racconta la nonna - e ogni sera dorme con mia figlia Gali», la sorella della madre Tal che ha iniziato in Israele le procedure di adozione per il bambino. Per Etty «il sistema giudiziario italiano ha ignorato la nostra esistenza», dice a Repubblica aggiungendo: «ho potuto vedere per la prima volta Eitan il 29 giugno». «Sono ottimista. Eitan è qui con noi – aggiunge – è circondato dall'affetto della nostra famiglia». La donna respinge le accuse di «lavaggio del cervello» mosse dalla famiglia paterna del bambino: «Eitan ha 6 anni, ma sembra un 13enne. Dice quello che pensa» ha affermato. 
   Etty Peleg Cohen ha ancora raccontato «di aver potuto vedere per la prima volta Eitan solo il 29 giugno scorso», ma secondo gli zii paterni, in realtà, la donna è rimasta in Israele per sua «scelta», mentre il nonno Shmuel, che era in Italia, andava a trovare il piccolo nella loro casa tre volte a settimana, e loro hanno sempre concesso le visite, fino all'ultima, quella di sabato 11 settembre, quando il 58enne lo ha preso e portato in Israele con un volo privato da Lugano.

• Le dichiarazioni dello zio paterno dall’abitazione nel Pavese
  Intanto, dalla sua abitazione di Travacò Siccomario, nel Pavese, Or, zio paterno del bimbo e marito della sua tutrice legale Aya, in vista dell'udienza davanti al Tribunale di Tel Aviv, rincara le accuse, dichiarando che il ramo materno della famiglia di Eitan, sta facendo una «guerra sulla pelle di un bambino che ha subito gravissimi traumi», perché ha perso padre, madre, fratellino e bisnonni; è stato in ospedale ed è stato «rapito» e portato in Israele dal nonno Shmuel. Per Or la famiglia materna, nelle dichiarazioni che sta rilasciando, sta mettendo in fila una serie di «affermazioni false», attribuendole a volte anche al minore, se non ai suoi genitori che sono morti nella tragedia. Il tutto per cercare di dimostrare che il piccolo «deve restare in Israele, mentre la sua casa, i suoi amici, la sua vita sono a Pavia, da quando aveva poco più di un anno». Ha poi ribadito che «non è vero che i genitori di Eitan avessero in progetto di tornare nell'immediato in Israele. Amit aveva almeno due anni per laurearsi e poi voleva fare la scuola di specializzazione in psicologia a Milano. Con la moglie Tal progettavano di acquistare una casa in questa città».

• Come finirà?
  Le fonti legali riferiscono che solo un'intesa tra le due famiglie, favorita da canali diplomatici, potrebbe risolvere il caso in tempi rapidi. Lo zio paterno ha anche ribadito: «In Israele devono decidere sulla Convenzione dell'Aja. Sul profilo dell'adozione è competente il Tribunale italiano. Noi rispettiamo la legge - ha detto - e più di questo non possiamo fare, mentre gli altri non lo fanno». E ha chiarito che qualcuno «dovrà anche controllare» perché «la zia materna non è idonea all'adozione, per motivi che non posso dire per ragioni di privacy».

• In Italia 22 ottobre il processo reclamato dai nonni materni contro la tutela
  Sul fronte del procedimento italiano è fissata, davanti al Tribunale per i minorenni di Milano, un'udienza per il 22 ottobre per discutere il reclamo della famiglia materna contro la nomina di Aya come tutrice.

(La Stampa, 22 settembre 2021)


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Di qua i diritti, di là la tradizione. E Israele si scopre divisa sul nuovo giudizio di Salomone

di Meir Ouziel

TEL AVIV - Ci sono tragedie in cui il cuore si spezza e, quando per un attimo si intravede uno spiraglio di luce, si spezza ancora di più. È il caso della terribile vicenda che vede coinvolto, a suo scapito, Eitan Biran, 6 anni, l’unico superstite della tragedia del Mottarone, in cui ha perso i genitori, il fratellino e i bisnonni. Il disastro quel 23 maggio è stato immenso, ma poi è emerso, come in un giudizio di Salomone dei nostri tempi, che la contesa tra i due rami della famiglia del bambino si è trasformata in un’ulteriore tragedia che ha portato a un atto indicibile, il rapimento di Eitan dall’Italia verso Israele. Dove dovrebbe crescere il bambino? È la domanda sulla bocca di tutti. Con i nonni e gli zii materni in Israele, che hanno presentato domanda di adozione in Israele e sostengono che questo è il futuro che avrebbero voluto per lui i suoi genitori, o con il ramo paterno della famiglia in Italia, il luogo in cui è cresciuto quasi dalla nascita?
   In questi giorni Israele è immersa dall’atmosfera speciale di Sukkot, la festa delle Capanne, che il piccolo di certo non avrebbe potuto vivere in Italia come in Israele. Per una settimana si mangia all’interno di queste capanne colorate che la maggior parte delle famiglie costruisce, arreda, decora e sono sparse un po’ ovunque in tutte le città. È importante che Eitan cresca in un ambiente ebraico? La risposta a questa domanda si inquadra nell’ambito delle spaccature congenite della società israeliana.
   Divisioni che Fanya Oz, la figlia dello scrittore Amos Oz, ha sintetizzato su Twitter in poche parole, un po’ generalizzanti e forse non del tutto fondate, ma di certo molto incisive: «Fate attenzione al ruolo della politica: con poche eccezioni, la sinistra sta con i Biran, la destra con i Peleg. Lo Stato di diritto con i Biran, il nazionalismo ebraico con i Peleg».
   Parole che sono di per sé politiche. Ma descrivono in pieno la realtà? In Israele, la questione non occupa le prime pagine e finora nessun politico si è espresso in merito, nemmeno quelli più provocatori che non attendono altro che situazioni del genere per guadagnarsi un po’ di facile sostegno da tifoseria da stadio. L’opinione generale è che la risposta sia nelle mani del Tribunale della famiglia di Tel Aviv. Ma uno sguardo ai social dà il polso di quanta sensibilità vi sia per l’aspetto ebraico della vicenda.
   «È semplicemente scioccante e illogico volere che il bambino rimanga in Italia, e per giunta studi in una scuola cattolica»; «Solo un cuore crudele può pensare di impedire a un bambino ebreo orfano di crescere da ebreo» sono alcune delle reazioni tipiche che si leggono sui siti più vicini alla destra.
   Per molti ebrei basta il connubio delle parole "scuola" e "cattolica" a sollevare grande preoccupazione per il futuro identitario di questo bambino.
   D’altra parte, in molti difendono il ramo della famiglia che vive in Italia, spiegando che la scuola dove è iscritto Eitan non impone necessariamente i dettami della fede cattolica. Il rabbino Benny Lau, una delle figure più prominenti dell’ebraismo israeliano, condivide il suo punto di vista con Repubblica :«In questa fase, è una questione umana, non di ebraismo. Ciò che va tenuto presente è solo il bene del minore. Dove riceverà maggiore sicurezza e protezione? Questa è la domanda principale, così è stato nel corso della nostra storia di ebrei per secoli. Le voci che esprimono preoccupazione per il fatto che il bambino verrà cresciuto in Italia invece che in Israele tentano di mettere in secondo piano il benessere del piccolo rispetto a valori assoluti, identitari. Ma io lo dico senza remore: il bene del bambino è la nostra tradizione più antica».
   Parlando con lo scrittore Abraham Yehoshua della scissione automatica tra destra e sinistra, mi ha detto senza mezze parole: «Su questo argomento, c’è solo una cosa da dire: si tratta di rapimento. Il bambino è cresciuto in Italia e lì deve rimanere. Dove sta il dibattito qui? Il nonno avrebbe potuto convincere con le sue argomentazioni, ma agire con la forza? È sconvolgente».
   Il futuro di Eitan va stabilito dalla legge e l’afflato emotivo sui social, in Israele come in Italia, non ha spazio in questa diatriba. Eitan non appartiene a Israele né all’Italia.
   Eitan non è l’incarnazione della legge civile, religiosa o del diritto internazionale, non è parte della frattura tra laici e religiosi in Israele.
   È solo un bambino di sei anni su cui si riversa ora un groviglio legale, umano, religioso e nazionalistico.

(la Repubblica, 22 settembre 2021)


«Su questo argomento, c’è solo una cosa da dire: si tratta di rapimento. Il bambino è cresciuto in Italia e lì deve rimanere. Dove sta il dibattito qui? Il nonno avrebbe potuto convincere con le sue argomentazioni, ma agire con la forza? È sconvolgente». Queste parole di Abraham Yehoshua confermano che questa volta la sinistra ha ragione. M.C.


Israele: calano i casi, ma aumentano i ricoveri gravi

Il paradosso del paese più vaccinato al mondo

di Guido da Landriano

Come riporta il media israeliano Arutz Sheva il numero di contagi da covid-19 in Israele cala, ma aumentano i ricoveri per casi gravi.
   Un totale di 4.800 nuovi casi di coronavirus sono stati diagnosticati in Israele martedì, secondo i dati diffusi mercoledì mattina dal Ministero della Salute, in calo rispetto agli 8.782 nuovi casi segnalati lunedì scorso.
   La percentuale di positività ai test è scesa dal 5,11% di lunedì al 4,70% di martedì. Ora ci sono 74.898 casi attivi noti del virus in Israele, inclusi 1.123 pazienti ospedalizzati con COVID. Dall’inizio della pandemia, sono stati segnalati 1.244.580 casi confermati del virus, circa il 13% della popolazione del paese, cioè numeri importanti.
   Tutte buone notizie? No, ce ne sono anche di cattive. Il numero di pazienti gravemente malati è salito mercoledì a 723, rispetto ai 708 di martedì. Di questi, 251 sono in condizioni critiche, con 172 sui respiratori.
   Finora, in Israele sono stati registrati un totale di 7.582 decessi correlati al coronavirus, inclusi nove decessi martedì e cinque mercoledì mattina.
   Questo appare molto strano nel paese che si presenta con i più alti tassi di vaccinazioni al mondo. Su 9 milioni di abitanti, con i dati di mercoledì mattina, 6.073.103 israeliani hanno ricevuto almeno una dose del vaccino Pfizer-BioNTech, o il 65,31% della popolazione, con 5.593.597, o il 61,15% della popolazione, che ha ricevuto due dosi, e 3.104.708, o il 33,39% della popolazione, avendo ricevuto tre dosi. Una fetta della popolazione molto elevata con già tre dosi cioè booster compreso. Eppure l’andamento delle infezioni sembra calare più per un andamento naturale, simile alle precedenti ondate:
   Dato che la copertura vaccinale dovrebbe aiutare specialmente dalle ospedalizzazione e che Israele viene a essere il paese al mondo che ha più insistito su questa terapia, dovremmo vedere un calo, non un aumento dei contagiati. Inoltre la mortalità non è poi molto diversa da quella italiana: 12 morti su 9 milioni di abitanti ieri, contro 67 su 60 milioni per noi. Pare che la super confidenza sul vaccino non dia esattamente i risultati attesi.

(Scenarieconomici, 22 settembre 2021)


Stati Uniti: i democratici bloccano il finanziamento per Iron Dome

Il Ministro Lapid minimizza, ma il problema per Israele potrebbe diventare molto serio

Gli Stati Uniti hanno bloccato il finanziamento di un miliardo di dollari destinato a rifornire l’importantissimo sistema di difesa israeliano Iron Dome.
  Anche se il Ministro degli Esteri israeliano, Yair Lapid, ha minimizzato sostenendo di aver parlato con il leader della maggioranza alla Camera degli Stati Uniti, Steny Hoyer, il quale gli avrebbe garantito che si tratterebbe di un “problema tecnico”, il blocco del finanziamento preoccupa moltissimo Israele.
  A chiedere il blocco per il finanziamento del sistema che difende i civili israeliani dagli attacchi terroristici, sono state le deputate Alexandria Ocasio-Cortez e Betty McCollum.
  A loro si sono aggiunte Rashida Tlaib, Ilhan Omar, Ayanna Pressley e Pramila Jayapal che hanno minacciato di votare contro il disegno di legge per aumentare il tetto del debito se il finanziamento all’Iron Dome fosse stato incluso.
  Il disegno di legge per aumentare il tetto del debito è cruciale per le sorti degli Stati Uniti e il presidente della Camera, Nancy Pelosi, aveva inserito il finanziamento per Iron Dome in quel disegno di legge per invogliare i repubblicani a votarlo. Purtroppo senza successo.
  Quindi possiamo affermare che il mancato finanziamento destinato al rifornimento del sistema Iron Dome è figlio di una lotta politica interna agli Stati Uniti di cui le deputate Dem hanno potuto approfittare mettendo nei guai Israele.
  Moltissime le voci repubblicane indignate per questa decisione. Il senatore Ted Cruz ha scritto: «Tragico. La leadership democratica si arrende alla sinistra antisemita. Odiano Israele così tanto che i Democratici stanno togliendo 1 MILIARDO di dollari in finanziamenti per Iron Dome, un sistema puramente difensivo che protegge innumerevoli civili innocenti dai razzi di Hamas. Qualche Dem avrà il coraggio di denunciare?»
  Il leader della minoranza alla Camera Kevin McCarthy ha twittato: «I democratici hanno appena ritirato i finanziamenti a Iron Dome, il sistema di difesa missilistico che ha salvato innumerevoli vite in Israele dagli attacchi missilistici di Hamas. Mentre i democratici capitolano di fronte all’influenza antisemita dei loro membri radicali, i repubblicani staranno sempre con Israele».

(Rights Reporter, 22 settembre 2021)


Addio allo storico Klaus Voigt Studiò l'esilio degli ebrei in Italia 

Ha insegnato a Bologna e Siena. Fra i suoi lavori più noti il libro sui ragazzi salvati a Villa Emma di Nonantola, di cui era cittadino onorario.

È morto a Berlino all'età di 83 anni lo storico Klaus Voigt, noto per i suoi studi su esuli e oppositori del nazismo. Molto legato all'Italia, Voigt ha insegnato nelle Università di Siena e Bologna e svolto ricerche pubblicate in numerosi volumi. Le sue opere più conosciute sono Il rifugio precario (La Nuova Italia, in due volumi), dedicato all'esilio ebraico in Italia dal 1933 al 1945, e Villa Emma. Ragazzi ebrei in fuga 1940-45 (La Nuova Italia), sulla vicenda dei giovani ebrei salvati a Nonantola, la cittadina in provincia di Modena di cui diventò cittadino onorario. Nel 2004 curò a Firenze la mostra Klaus Mann-Eduard Bargheer. Due esuli tedeschi nella Firenze liberata; faceva parte del Comitato scientifico del Museo della deportazione di Prato. 

(Nazione-Carlino-Giorno, 22 settembre 2021)


La pace apparente tra israeliani e palestinesi

di Futura D’Aprile

Nelle ultime settimane si è tornati ancora una volta a parlare di una riapertura del processo di pace tra israeliani e palestinesi dopo una serie di incontri tra i rappresentanti del governo di Tel Aviv, l’Autorità nazionale palestinese (ANP) ed Egitto, ma inutilmente. Il premier israeliano, Naftali Bennett, ha presto escluso ogni possibile ripresa del dialogo con i palestinesi, riducendo così la portata degli incontri succedutisi negli scorsi giorni ed arrivando anche a minacciare una nuova offensiva contro Gaza.
  In realtà la formula scelta dal governo di coalizione guidato da Bennett per affrontare la questione palestinese è quella degli aiuti economici in cambio di pace, sulla scia dell’Accordo del secolo sponsorizzato dall’ex presidente americano Donald Trump. Per il primo ministro, quindi, non c’è spazio per un accordo politico con i palestinesi, né per una discussione sul diritto al ritorno. Tutto ciò a cui i residenti di Gaza da una parte e l’ANP dall’altra possono aspirare sono ingenti aiuti economici, come dimostrano il piano del ministro degli Esteri, Yair Lapid, e l’incontro tra Abu Mazen e Benny Gantz, capo della Difesa.
  Il progetto di Lapid, non ancora in discussione a livello governativo, prevede degli investimenti pluriennali nella Striscia in cambio della cessazione delle ostilità da parte di Hamas, che secondo il ministro dovrebbe anche arrivare a deporre le armi. Nello specifico, l’idea di Lapid prevede in una prima fase la riparazione delle linee elettriche e del gas, la desalinizzazione dell’acqua per aumentare l’approvvigionamento idrico della Striscia, miglioramenti significativi al sistema sanitario e la ricostruzione di case e della rete stradale. Tutte infrastrutture che sono state distrutte o danneggiate durante gli scontri tra Hamas e Israele ed impossibili da ricostruire a causa dell’embargo imposto da Tel Aviv sulla Striscia. «Se la prima fase dovesse procedere senza intoppi», ha specificato Lapid, «Gaza assisterebbe alla costruzione di un’isola artificiale al largo delle coste che consentirebbe la creazione di un porto» e potrebbe ottenere anche un «collegamento di trasporto» con la Cisgiordania. Nelle parole del ministro degli Esteri, quindi, tutto dipende da Hamas, la cui posizione anti-israeliana rappresenta il vero motivo per cui i gazawi sono costretti a vivere «in povertà, miseria, violenza, disoccupazione, senza alcuna speranza». Con questo piano, Lapid spera di mettere Hamas alle corde e di convincere la popolazione della Striscia a ribellarsi contro il Movimento, costringendolo ad accettare gli aiuti israeliani in cambio della fine delle ostilità.
  Ma Hamas non è l’unico a cui Israele è disposto ad offrire soldi per avere maggiore tranquillità. A fine agosto si è tenuto uno storico incontro tra Abu Mazen e il ministro Gantz, il primo dopo dieci anni tra un rappresentante del governo israeliano e il capo dell’ANP. I due hanno discusso di sicurezza ed economia, raggiungendo un primo accordo per la concessione di 15.000 permessi di lavoro per manovali palestinesi e di altri 1.000 per i dipendenti dell’industria turistica, oltre ad aver trovato un’intesa per riconoscere i diritti di residenza di centinaia di persone straniere sposate con palestinesi e che si trovano in un limbo giuridico. In ultimo, Israele è anche pronta a versare all’ANP 500 milioni di shekel come anticipo sulle tasse che riscuote per conto dei palestinesi per ridurre i problemi economici dell’Autorità. Così facendo, Bennett spera di rafforzare anche la debole leadership di Abbas, con l’obiettivo ultimo di evitare cambi di potere nell’ANP e minare ulteriormente Hamas. Sempre in quest’ottica rientra anche il tentativo del premier israeliano di trovare un’alternativa all’invio di denaro contante dal Qatar alla Striscia per evitare che i fondi finiscano nelle mani del Movimento.
  I rapporti tra Hamas e Israele quindi restano tesi, come affermato chiaramente dallo stesso Bennett. Il premier infatti non ha escluso la possibilità di lanciare una nuova operazione contro la Striscia, assicurando che l’uso della forza resta sempre un’opzione per Israele in caso di aumento della tensione con il Movimento. In realtà una nuova escalation sarebbe controproducente per il governo di coalizione non solo per la presenza al suo interno di un partito arabo, ma soprattutto perché in questi giorni il Parlamento è alle prese con la legge di bilancio. Dopo tre anni di attesa, le forze politiche hanno finalmente trovato un primo accordo sulla manovra economica e la sua definitiva approvazione rafforzerebbe la tenuta di un governo particolarmente variegato. Un nuovo scontro con Hamas in un momento tanto delicato è uno scenario che Bennett deve cercare di scongiurare il più possibile, se non vuole fare la fine del suo predecessore.  

(Treccani, 21 settembre 2021)


Presi gli ultimi due evasi palestinesi ma la «Grande Fuga» resta un mito

La cattura domenica di Iham Kamamji e Munadil Enfayat non ha scalfito il mito dell'impresa compiuta dai prigionieri politici in carcere in Israele. Ma c'è anche delusione per la facilità con cui le forze israeliane hanno catturato i fuggitivi.

di Michele Giorgio

Per tanti palestinesi non è facile digerire la cattura di Iham Kamamji e Munadil Enfayat, avvenuta domenica a Jenin poco prima dell’alba, dopo una caccia all’uomo durata 13 giorni. Era diffusa la speranza, non solo nei Territori occupati, che i due, a differenza degli altri quattro evasi dal carcere di Gilboa ripresi quasi subito, fossero nelle condizioni di sottrarsi a polizia ed esercito di Israele, proprio perché nascosti nella loro città, Jenin, ben nota roccaforte della resistenza armata palestinese. Ad ogni modo i sei protagonisti della «Grande Fuga» restano un mito e la loro cattura non offusca agli occhi dei palestinesi l’impresa della fuga, scavando un tunnel come nei film, da una prigione israeliana di massima sicurezza. Peraltro, la questione dei prigionieri politici resta centrale per la società palestinese che già segue con partecipazione i 62 giorni di sciopero della fame in carcere di Meqdad Qawasmeh che protesta contro la «detenzione amministrativa», senza processo. Altri cinque prigionieri politici attuano il digiuno: Kayed Fasfus, Alaa al Araj, Hisham Abu Hawash, Rayeq Bisharat e Shadi Abu Aker.
   Non mancano gli interrogativi. Gli abitanti di Jenin si attendevano un raid militare di Israele, con centinaia di uomini e con mezzi corazzati, per stanare Kamamji ed Enfayat. Poliziotti e soldati invece hanno circondato il nascondiglio dei due che si sono arresi senza resistere alla cattura. «I due terroristi sono usciti senza aprire il fuoco. L’arresto è stato condotto senza intoppi», ha commentato visibilmente soddisfatto Alon Hanoni, l’ufficiale responsabile per l’esercito israeliano dell’area di Jenin. Dove erano domenica, si domandano molti, i militanti delle organizzazioni armate, a cominciare dal Jihad islami a cui appartenevano i due fuggitivi, che appena qualche giorno fa avevano annunciato la difesa all’ultimo sangue degli «eroi di Gilboa»?
   Israele sostiene di aver attirato i palestinesi armati inviando truppe in un’altra zona di Jenin e di aver impiegato un piccolo commando quando Kamamji ed Enfayat sono rimasti soli, senza protezione. Scontri con le forze israeliane sono avvenuti solo dopo il diffondersi della notizia della cattura e hanno visto in strada soprattutto civili e pochi militanti armati. Altri ancora si domandano quanto sia ampia la rete di collaborazionisti a Jenin e in Cisgiordania visto che il rifugio dei due evasi è stato individuato subito dall’intelligence israeliana. E non pochi puntano il dito verso l’Autorità nazionale palestinese, legata ad accordi di sicurezza con Israele, che però sin dal giorno della fuga da Gilboa ha escluso categoricamente di poter cooperare con Israele nella cattura degli evasi.
   Ben diverso è lo stato d’animo degli israeliani che ritengono di aver rapidamente ricucito la lacerazione causata all’orgoglio nazionale dall’evasione del 6 settembre. Il premier Bennett ha parlato in un’operazione «impressionante, sofisticata e rapida da parte dell’agenzia di intelligence, della polizia e dell’esercito».

(il manifesto, 21 settembre 2021)


Il capo Covid di Israele chiede che inizino i preparativi per la quarta dose di vaccino

Il coordinatore nazionale della pandemia, Salman Zarka, ha affermato sabato che Israele dovrebbe iniziare i preparativi per l’eventuale lancio della quarta dose di vaccino contro il coronavirus, senza specificare quando ciò avverrà.

Sabato lo zar nazionale del coronavirus israeliano ha chiesto al Paese di iniziare a pianificare la possibile somministrazione della quarta dose di vaccino contro il coronavirus.

• LA QUARTA DOSE DI VACCINO IN ISRAELE
  Il professor Salman Zarka, che è stato nominato direttore del Covid-19 in Israele a luglio, ha parlato alla radio pubblica israeliana Kan della necessità di una seconda iniezione di richiamo, ma non ha proposto un calendario per questo.
   «Poiché il virus è qui e continuerà ad esserci, dobbiamo anche prepararci per la quarta iniezione», ha detto Salman Zarka alla radio pubblica di Kan.
   Zarka ha anche affermato che la futura iniezione di richiamo potrebbe essere modificata per proteggere meglio dalle nuove varianti del virus SARS-CoV-2, che causa il COVID-19, come il ceppo Delta altamente infettivo. «Questa è la nostra vita d’ora in poi, a ondate», ha detto.
   «Sembra che se impariamo le lezioni della quarta ondata, dobbiamo tenerne conto [possibility of subsequent] va con le nuove varianti, come quella nuova in Sud America», ha detto in precedenza, riporta Times of Israel.
   «E considerando questo e il calo dei vaccini e degli anticorpi, sembra che ogni pochi mesi, potrebbe essere una volta all’anno o cinque o sei mesi, avremo bisogno di un’altra iniezione».
   Zarka ha previsto che entro la fine del 2021 o l’inizio del 2022 Israele somministrerà vaccini specificamente progettati per far fronte alle varianti.
   Israele, il primo paese a offrire una terza dose, ha iniziato la sua campagna di richiamo COVID il 1 agosto, estendendola a tutte le persone di età superiore ai 60 anni. Poi l’età di ammissibilità è diminuita gradualmente, fino a scendere a chiunque abbia più di 12 anni a cui hanno sparato almeno cinque mesi fa la scorsa settimana.
   Più di 2,5 milioni di israeliani hanno ricevuto la loro terza dose da venerdì.

• SISTEMA DI ATTRAVERSAMENTO VERDE
  Il Ministero della Salute ha anche annunciato la scorsa settimana che il sistema del «Green Pass» – un documento che consente l’ingresso in determinati incontri sociali e luoghi pubblici per coloro che sono stati vaccinati o guariti dal coronavirus – scadrà sei mesi dopo che il titolare ha ricevuto la seconda o la terza dose, che comporta la somministrazione di una quarta dose in sei mesi.
   Venerdì scorso il ministero della Salute ha segnalato 11.269 nuovi contagi da coronavirus. La cifra di giovedì è stata leggermente inferiore al record giornaliero di 11.274 infezioni confermate mercoledì.
   Nonostante l’aumento dei tassi di infezione, i casi gravi hanno iniziato a diminuire da un picco di 753 di domenica e il Ministero della Salute ha riferito che 654 persone erano in condizioni critiche a partire da venerdì pomeriggio a causa di complicazioni.
   Giovedì, il tasso di positività al test è stato dell’8,43 percento, il più alto durante l’attuale ondata di morbilità. Il bilancio delle vittime è stato di 7.129.

(wikitechnews.net, 21 settembre 2021)


Covid, Pfizer chiede l’ok per il vaccino ai bambini dai 5 agli 11 anni

Gli Stati Uniti aprono ai viaggiatori dall’Unione Europea. Da inizio ottobre Green Pass obbligatorio per entrare in Vaticano

Pfizer e Biontech chiederanno a Fda e Ema di approvare il vaccino per i bambini nella fascia di età tra i 5 e gli 11 anni. Secondo gli studi clinici presentati dalle sue società il siero a Rna messaggero, a dosaggio inferiore rispetto a quello somministrato agli adolescenti, sarebbe «sicuro e ben tollerato», con una risposta «robusta» contro l’infezione da coronavirus. La notizia di un vaccino per i bambini era attesa da tempo. Ma non tutte le reazioni sono positive. Roberto Burioni su Facebook esulta per la notizia, ma avverte: «I dati si riferiscono a uno studio su 2200 bambini. Pochi». E sembra mettere le mani avanti anche la presidente della Società italiana di pediatria. «La valutazione va confermata dalle agenzie regolatorie preposte», dice Annamaria Staiano confermando che i bambini vanno immunizzati «a fronte di un vaccino autorizzato». A breve anche Moderna potrebbe chiedere l’autorizzazione per il siero per i bambini.
   Intanto il Vaticano introduce il Green Pass dal primo ottobre per cittadini, residenti, personale e visitatori, unica eccezione chi partecipa alla messa. Novità anche negli Stati Uniti: da novembre i viaggiatori vaccinati potranno entrare nel Paese. Via libera a chi arriva da Europa, Gran Bretagna, Cina, Iran e Brasile. Oltre alla documentazione, prima dell’imbarco bisognerà presentare un test negativo effettuato nei tre giorni precedenti.
   Intanto in Italia contagi sono in calo. Il bollettino di ieri registrava 2.407 casi, a fronte di un numero più basso di tamponi, 122.441. Il tasso di positività sale al 2% con ancora 44 decessi. Sono già oltre tremila le terze dosi somministrate ai pazienti fragili. E per il commissario Francesco Figliuolo non si dovrà attendere molto per i richiami anche per gli ottantenni e i sanitari, i primi ad essere stati immunizzati.

(La Stampa, 21 settembre 2021)


Dunque le multinazionali. farmaceutiche Pfizer e Biontech, seguite presto da Maderna, chiedono alle autorità sanitarie internazionali Fda e Ema di autorizzare la vaccinazione dei bambini tra i 5 e gli 11 anni usando naturalmente i loro prodotti, che devono pur essere venduti, se hanno investito tanti capitali per produrli, no? Lo fanno per il bene dell'umanità? M.C.


Lo zio paterno a Tel Aviv: «Eitan torni in Italia». Giovedì l'udienza

Se la zia paterna Aya, tutrice legale, chiede che i giudici israeliani affrontino una sola questione, il «rapimento» sulla base della Convenzione deII'Aja, e facciano tornare al più presto Eitan in Italia, il ramo materno rilancia nelle sue richieste. La zia Gali, infatti, ha presentato un'istanza in Israele per chiedere l'adozione del bambino. E non si abbassa, dunque, ma pare aumentare lo scontro - con al centro il piccolo, unico a salvarsi nella tragedia del Mottarone in cui morirono padre, madre, fratello e bisnonni - tra le due famiglie e che passerà per le decisioni del Tribunale di Tel Aviv. I «giudici israeliani devono toglierlo dalle mani dei suoi rapitori e riconsegnarlo alla tutrice e poi sull'adozione si deciderà in Italia», ha spiegato Or, zio paterno di Eitan e marito di Aya, che ha la tutela del bambino e che è già in Israele in vista dell'udienza fissata per giovedì sulla base dell'istanza con cui ha chiesto l'immediato rientro in Italia. La nonna Etty respinge le accuse dei familiari paterni di «un lavaggio del cervello» al bimbo e sostiene che hanno il «permesso del Comune per iscriverlo a scuola».

(Nazione-Carlino-Giorno, 21 settembre 2021)


Oltremare – Sinestesia

di Daniela Fubini

Delle molte cose di cui non smetto di stupirmi in Israele, una è sicuramente quella che definirei l’estrema sinestesia del Kippur, che si esprime in tre modi distinti e indipendenti.
  La sua prima espressione è quella della narrativa del Yom Kippur prima della ricorrenza. Lo si chiami tutto meno che “festa”, per cortesia, visto che ogni anno preghiamo per uscirne vivi, letteralmente, fino alla chiusura delle porte celesti verso l’ora di Neilà. In Israele, da 48 anni a questa parte non è possibile separare il Kippur religioso (ma anche molto laico, come vedremo dopo), vissuto vestendo di bianco in sinagoga, o in giardini e terrazze oggigiorno, in tempi di pandemia, da quello specifico del 1973, quando tutto il paese si è trovato all’improvviso in guerra, e il numero altissimo dei caduti da quel giorno fino alla fine di quella guerra serve a tutt’oggi per misurare i peggiori disastri. Non esiste un Kippur prima del quale non vengano rese pubbliche nuove testimonianze, nuovi documenti, vecchie e nuove teorie sulla prevedibilità del conflitto, tutto accompagnato dalla riproposizione di una intera colonna sonora datata 1973/74 per giorni e giorni da ben prima di Rosh HaShana.
  Quando poi bene o male si arriva al giorno di Kippur, e il cessare di tutta questa informazione supplementare è quasi una liberazione, a questa prima sinestesia di sentimenti e storie se ne sovrappongono altre due legate ai costumi. Prima di tutto, già dalla sera Israele è invasa da bambini in bicicletta, o su qualunque mezzo a due o più ruote. Mentre gli adulti, o almeno una parte di essi, eleva il “Kol Nidre” in piena concentrazione, subito fuori dalle sinagoghe le strade sono già diventate piste ciclistiche a decine di corsie, nella totale assenza di alcuna regola del traffico, anche visto che i bambini di solito non hanno ancora la patente. Suoni, grida di bambini e canti dalle sinagoghe si mescolano in una sinfonia surreale, che riempie la totale assenza dei normali rumori della città.
  E quando infine volge al termine la giornata stessa del Kippur, e contrariamente a quello del 1973 si è riusciti a pregare senza che scoppiasse una guerra a metà pomeriggio, tutti si raccolgono brevemente per ascoltare lo shofar e poi via, ciascuno al proprio livello di osservanza o non osservanza dei precetti. In quell’ora di Neilà, alla chiusura dei cieli sopra a noi, ebrei dentro la sinagoga pregano con trasporto, ebrei fuori dalla sinagoga chiacchierano origliando in attesa dello shofar, bambini continuano a scalmanarsi liberamente, e all’apparenza non sono scesi dalle biciclette ancora dalla sera prima, e si fermano senza darlo troppo a vedere anche adulti in tenuta sportiva che hanno passato la giornata facendo sport, appunto, ma che con l’avvicinarsi dell’ora dello shofar arrivano anche loro a posizionarsi abbastanza vicino ad una sinagoga per sentirlo. Questi ultimi sono gli unici che non fanno rumore, ma la loro presenza timida si sente tanto quanto tutte le voci intorno.

(moked, 20 settembre 2021)


Eitan, i parenti israeliani chiedono di adottarlo

La mossa della zia materna, quella paterna è arrivata a Tel Aviv.

di Davide Frattini

TEL AVIV - Gli agenti della sicurezza l'hanno scortata fuori dall'aeroporto Ben Gurion perché il caso del piccolo Eitan sta diventando in Israele anche disputa politica e, a parole, anche violenta. Aya - dice il marito Or Nirko dall'Italia - «ha avuto bisogno della protezione per le minacce e gli insulti scritti contro di lei sui social media» da quelli convinti che un bambino ebreo debba crescere solo qui.
   Adesso la zia paterna - il fratello Amit è morto nell'incidente sul Mottarone - deve rispettare la quarantena di almeno una settimana prevista per chi arriva dall'estero. Potrà però essere presente alla prima udienza per discutere l'affidamento, un'eccezione concessa in situazioni speciali. Al suo fianco l'altro fratello Haggai. I legali della famiglia Biran sono riusciti ad anticipare l'udienza a giovedì, mentre prima era prevista per il 29. A questo incontro preliminare chiederanno che il bambino di sei anni venga subito riunito ad Aya - il tribunale italiano le ha dato la tutela legale - in attesa delle prossime sedute: chiedono il rientro in Italia sulla base della Convenzione dell'Aja e di quello che prevede per «il sequestro internazionale di minori», su questo punto si sono rivolti ad Avichai Mandelblit, il procuratore generale dello Stato, di fatto il consulente legale del governo e il rappresentante delle autorità israeliane in tribunale.
   «Chiediamo il rientro non per domani o dopodomani ma per oggi» dice l'avvocato Avi Chimi alla radio 103FM. «Da quando è nato ha vissuto là, è il suo luogo naturale». Spiegano che «Aya è molto preoccupata per la salute psicologica del bimbo, per quello che gli è stato fatto in questo periodo». Haggai ha potuto vederlo per un'ora sabato mattina e dopo la visita i legali hanno accusato la famiglia materna di «lavaggio del cervello e di inculcare messaggi nella sua testa».
   Per ora Eitan resta a casa del nonno materno Shmuel Peleg che dieci giorni fa lo ha prelevato e portato in Israele su un jet privato, per questo è indagato dalla Procura di Pavia (sequestro di persona) ed è stato interrogato dalla polizia israeliana. Dopo l'intervista al nonno trasmessa in prima serata venerdì scorso, continua l'offensiva decisa dagli strateghi della comunicazione assunti dai Peleg. Gal - sorella di Tal, anche lei morta sul Mottarone-è stata ascoltata dal quotidiano Israel Hayom, sostenitore della destra .e dell'ex premier Benjamin Netanyahu. Annuncia di aver presentato la pratica per l'adozione di Eìtan ( «io e mio marito non abbiamo ancora figli, con noi crescerà circondato dall'amore») e in qualche modo rivela che uno degli obiettivi - quando Shmuel lo ha portato qui - era trasferire le decisioni legali in Israele: «Vogliamo che il dibattito avvenga in una lingua che tutte e due le parti comprendono allo stesso modo».
   Sa di parlare agli stessi lettori-commentatori che in questi giorni stanno infiammando il dibattito digitale attorno alla vicenda. «Eitan è nato ebreo ed è importante per noi che resti ebreo. Ci accusano di averlo tolto dal suo ambiente naturale, ma non è vero: il fatto che mia sorella e suo marito Amit vivessero vicino ad Aya non significa che fossero legati. Le famiglie erano profondamente divise sulle questioni religiose. I Biran guardavano Tal dall'alto in basso per ragioni etniche tra ashkenaziti e sefarditi. Aya lo ha mandato a una scuola cattolica, siamo rimasti sconvolti». In realtà - spiegano amici dei Biran - Tal e Amit avevano già iscritto il bambino nell'istituto «perché lo consideravano il migliore da quelle parti».
   Che lo scontro stia diventando ideologico è chiaro a Pania Oz-Salzberger, figlia del romanziere Amos Oz: «Stiamo ricadendo nelle solite spaccature - scrive su Twitter -. La sinistra con i Biran, la destra con i Peleg, il diritto e il rispetto della legge con i Biran, il nazionalismo ebraico con i Peleg. Stiamo sprofondando nell'abisso sulle spalle di un orfano».

(Corriere della Sera, 20 settembre 2021)


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La frase choc di zio Ron: «Un sostegno segreto dietro la fuga con Eitan»

Post pubblicato dal cognato di nonno Peleg ma subito cancellato su consiglio dei legali. 

di Nino Materi 

Troppo «suggestiva» per essere abbandonata. È la pista dei «servizi segreti israeliani» che - un giorno sì e l'altro pure - torna in campo nella partita, sicuramente truccata, del sequestro di Eitan. Lui, 6 anni, l'«orfano del Mottarone» (nella strage del 23 maggio scorso ha perso genitori, fratellino e bisnonni) rimane al centro di una faida familiare che finora non gli ha risparmiato nulla: compreso il trauma (non bastasse lo choc patito su quella maledetta funivia) di un rapimento dai contorni di una spy story alla Tom Clacy. 
   Protagonista Shmuel Peleg, 58 anni, il nonno materno ex - presunto - «collaboratore del Mossad» che, con un blitz «dalla tecnica militare» tanto perfetto da non escludere «aiuti e supporti esterni», in una manciata di ore è riuscito sabato 11 settembre a trasferire in Israele il nipotino, portandolo via dall'Italia dove viveva con la zia patema sua tutrice legale. Un raid che è costato a Peleg (e anche alla sua ex moglie) l'imputazione di «sequestro di persona aggravato» da parte della Procura di Pavia che, proprio ieri, ha iscritto nell'elenco degli indagati anche l'autista dell'auto su cui «nonno Shmuel» ha trasportato Eitan dalla frazione Rotta di Travacò (Pavia) all'aeroporto di Lugano dove ad attenderli c'era il jet privato con destinazione Tel Aviv. 
   Ora si scopre che anche questo misterioso autista israeliano, proprio come il Shmuel Peleg, sarebbe «vicino ai servizi segreti». Se entrambe queste «vicinanze» in odore di 007 con la Stella di David fossero vere, si rafforzerebbe l'ipotesi delle possibili «complicità» in «alto loco» su cui i Peleg avrebbero contato per realizzare il loro piano di kidnapping of child. Uno scenario, al momento più cinematografico che reale, rilanciato però da uno strano post ( subito cancellato) pubblicato l'altro giorno da zio Ron Gali appartenente al ramo materno di Eitan (contrapposto a quello paterno) in risposta a una donna che sui sodai criticava aspramente l'operano dei Peleg. Ecco il messaggio firmato Ron Gali: «Aspetta di sapere chi ha dato un sostegno e un aiuto al sequestro di Eitan. E poi vedrai che starai zitta». Parole criptiche che possono significare tutto e nulla. Resta la domanda chiave: chi, come, dove e quando ha garantito a nonno Shmuel «supporto» e «aiuto»? 
   Da oggi a Tel Aviv è arrivata dall'Italia zia Aya Biran (la sorella del papà defunto di Eitan) cui i Peleg hanno «scippato», con l'inganno, il nipotino che era stato affidato in custodia alla donna dopo la sciagura del Mottarone. 
   Aya Biran è decisa a riprendersi il bambino per riportarlo a casa nel Pavese dove da mesi viveva serenamente con i suoi due cuginetti; lì, se non fosse stato rapito, avrebbe dovuto iniziare anche a frequentare la scuola cattolica dove era stato iscritto: circostanza motivo di dissidio con l'altra componente ebraica della famiglia, intenzionata invece a far studiare e crescere il nipote in una scuola ebraica di Tel Aviv secondo i dettami più tradizionali della propria dottrina religiosa e culturale. 
   Poi c'è lo spinoso tema del ricco patrimonio di Eitan, al quale tutti dicono di non essere interessati. Ma sarà vero? 
   Intanto le accuse reciproche continuano. I Biran vanno giù duro: «I Peleg gli stanno facendo il lavaggio del cervello. Eitan va salvato al più presto». I Peleg rispondono a tono: «Noi Eitan lo abbiamo salvato. Con i Biran le sue condizioni di salute fisica e mentale erano pessime». 
   L'udienza al tribunale di Tel Aviv per l'affido del piccolo è fissata per il 29 settembre. Fino ad allora, i colpi bassi saranno tutt'altro che proibiti.

(il Giornale, 20 settembre 2021)


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La ragione non sta sempre nel mezzo

Ci sono oggi in Israele due famiglie in lotta, due contendenti "l'un contro l'altro armati", e la gente intorno che fa il tifo. "La sinistra sta con i Biran, la destra con i Peleg", dice con amarezza Pania Oz-Salzberger, figlia del romanziere Amos Oz. E Pania per chi sta? si chiederanno in Israele. La figlia del romanziere non si pronuncia; si limita a rammaricarsi che il tutto avvenga "sulle spalle di un orfano". E' vero, ma questo non esime dal dire qualcosa che possa aiutare altri a pensare ed eventualmente a intervenire là dove è possibile. Molti amano dire che le ragioni non stanno mai tutte da una parte sola, ma devono essere suddivise opportunamente tra i due contendenti. Sostengo invece che in quasi tutti i conflitti umani in un dato momento c'è una parte che ha ragione e l'altra che ha torto. Questo non significa che chi ha ragione non abbia anche dei torti, e che chi ha torto non abbia anche delle ragioni. Tuttavia, uno dei due ha ragione (al singolare, in senso primario), pur avendo probabilmente anche dei torti (al plurale, in senso secondario), e l'altro ha torto (in senso primario), pur avendo probabilmente anche delle ragioni (in senso secondario). Se per mancanza di conoscenze si pensa di non avere motivi per dire chi ha ragione e chi ha torto, è meglio riconoscerlo e astenersi dal fare giudizi, piuttosto che mettersi col bilancino a misurare la percentuale di ragioni e torti che competono all'una e all'altra delle due parti ("I faziosi di centro" ).
   Quando Ariel Sharon ordinò lo sgombero di Gaza, era sorto in Israele un conflitto di opinioni tra la sinistra (che appoggiava lo sgombero) e la destra (che non lo voleva). Senza esitazioni feci a quel tempo la mia personale valutazione esterna: la destra ha ragione e la sinistra ha torto.
   Esprimo ora la mia personale valutazione anche nel caso di Eitan: allo stato attuale delle mie conoscenze, la sinistra ha ragione e la destra ha torto.
   Ho espresso ieri i motivi giuridici per cui il sequestro di Eitan ha messo il nonno Shmuel Peleg in una grave posizione di torto, rimediabile soltanto con il ritorno alla situazione precedente e la punizione di chi ha tentato in quella maniera di modificarla.
   Aggiungo oggi un riferimento al tanto invocato "bene del bambino". Qualunque sia il destino che gli adulti possano desiderare per lui, è da criminali assoggettare un bambino che ha già avuto il trauma tremendo della perdita in quel modo dei genitori ad un altro trauma della portata di quello che ora si comincia soltanto a vedere, adducendo come motivo che si desidera "il suo bene" futuro nel momento stesso in cui gli si fa del male nel presente.
   Dispiace poi sapere che in Israele ci sono molti che parteggiano per i sequestratori invocando la difesa dell'ebraicità e la necessità inderogabile di far crescere il bambino ebreo in Israele. Mi chiedo che cosa ne pensino gli ebrei della diaspora.
   Purtroppo questo fraudolento colpo di mano non gioverà né al bene del piccolo Eitan né al buon nome di Israele. M.C.

(Notizie su Israele, 20 settembre 2021)


Cosa farà il Marocco sui droni per Israele

Israele vuole produrre droni in Marocco in grandi quantità e ad un prezzo molto più basso, e posizionarsi nei mercati di esportazione. 

di Giuseppe Gagliano

Il Marocco svilupperà l’industria dei droni kamikaze per Israele.
   A luglio, il National Cyber Directorate israeliano ha annunciato che il suo CEO, Yigal Unna, aveva firmato un accordo di cooperazione con le autorità marocchine che avrebbe aiutato le aziende israeliane a vendere conoscenza e tecnologia, secondo i media israeliani.
   È stato il primo accordo di difesa informatica tra i due Paesi dalla ripresa delle relazioni diplomatiche tra Marocco e Israele.
   Lo scorso mercoledì, la pubblicazione francese Africa Intelligence, specializzata in informazioni politiche, diplomatiche ed economiche sui paesi africani, ha rivelato che entrambi i paesi stanno attualmente lavorando per sviluppare un progetto per produrre droni kamikaze in Marocco.
   In questo modo gli israeliani potranno produrre droni in Marocco in grandi quantità e ad un prezzo molto più basso, e posizionarsi nei mercati di esportazione. Sebbene non vengano offerti dettagli sul tipo e sul prezzo, a parte il fatto che sono “dispositivi relativamente semplici da costruire e con conseguenze devastanti”.
   La testata francese spiega che il lancio di questo settore in Marocco arriva dopo diversi mesi di trattative con il gruppo Israel Aerospace Industries (IAI). Precisamente, BlueBird Aero Systems è la filiale del gruppo specializzato nella produzione di questi droni.
   I droni Kamikaze sono un nuovo tipo di arma, veicoli aerei senza equipaggio che funzionano come bombe, senza la necessità di avere attentatori suicidi davanti.
   Possono viaggiare a circa 150 chilometri all’ora, rimanere in aria per un’ora e contenere una testata esplosiva che esplode da sola quando si scontra con il suo bersaglio, che è stato precedentemente identificato attraverso una telecamera di ricognizione. Gli Stati Uniti guidano l’industria dei droni kamikaze, che Israele, Turchia e Iran hanno già testato sui campi di battaglia e alla quale si è unita anche la Cina.
   Possono essere utilizzati per operazioni di sorveglianza, sebbene il loro obiettivo principale sia l’attacco. E quindi costituiscono un nuovo modo di fare la guerra. In effetti, si sono già affermati nel Nagorno-Karabakh.
   La maggior parte della cooperazione in materia di sicurezza tra Marocco e Israele avviene in segreto e riguarda principalmente lo scambio di informazioni di intelligence. Inoltre, nel 2013, Rabat ha acquisito tre droni Heron che sono stati consegnati via Francia nel 2020.
   I media internazionali hanno anche ripreso l’arrivo di una stazione di trasporto aereo C-130 alla base aerea di Hatzor a luglio, alla vigilia dell’esercitazione militare internazionale Bandiera blu. Era la prima volta nella storia delle relazioni tra i due Paesi che un aereo militare marocchino atterrava sul suolo israeliano.
   Questa forma di cooperazione nel campo dell’industria militare è possibile grazie all’evoluzione della legislazione marocchina. Il 28 giugno il Consiglio dei ministri ha adottato il decreto attuativo della legge sui materiali e gli equipaggiamenti, le armi e le munizioni per la difesa e la sicurezza.
   Il testo tratta della nascita di un’industria militare e della difesa in Marocco e stabilisce le modalità di fabbricazione, commercio, importazione, esportazione, trasporto e transito di materiali e attrezzature militari.
   Questa unione tra Marocco e Israele è guidata dallo stesso re Mohamed VI, che ha inviato anche una lettera al presidente Isaac Herzog, in cui ha espresso la speranza che il rinnovo dei legami tra i paesi favorisca la pace regionale, secondo le informazioni diffuse dall'Ufficio del presidente israeliano.

(Startmag Web magazine, 20 settembre 2021)


Aldous Huxley: le nuove democrazie, i totalitarismi mascherati

"Con Mario Draghi al comando, i partiti non hanno più voce in capitolo".

di Luca Crisci

In tutte le democrazie del mondo i cittadini stanno accettando quasi inconsciamente che gli uomini al potere non li rappresentino veramente. Spesso bisogna scegliere il meno peggio, è successo con l’ultima elezione del presidente degli Usa e accade in quasi tutti i Paesi, sviluppati e non. In questo secolo, dobbiamo seriamente affrontare un problema di democrazia, perché è evidente a tutti che non è questo che intendevamo con l’istituzione di un ordinamento democratico. A tal proposito è interessante leggere le parole di Aldous Huxley ne Il Ritorno al mondo nuovo (1958): “Le Costituzioni non si abrogheranno e le buone leggi resteranno nel codice; ma tali forme liberali serviranno solo a mascherare e ad abbellire una sostanza profondamente illiberale. Sotto la spinta continua della sovrappopolazione e della super-organizzazione, crescendo l’efficacia dei mezzi per la manipolazione dei cervelli, le democrazie muteranno natura; le antiche forme ormai strane rimarranno: elezioni, Parlamenti, Corti Supreme, eccetera. Ma la sostanza, dietro di esse, sarà un nuovo tipo di totalitarismo non violento. Tutti i nomi tradizionali, tutti i vecchi slogan resteranno esattamente com’erano ai bei tempi andati. Intanto l’oligarchia al potere, con la sua addestratissima élite di soldati, poliziotti, fabbricanti del pensiero e manipolatori del cervello, manderà avanti lo spettacolo a suo piacere”.
   Dalle parole di Huxley possiamo capire molto e renderci conto che la piega che stanno prendendo le nostre società non è per nulla incoraggiante. Molte persone pensano che i tiranni siano sempre degli esseri spregevoli e crudeli, con perversioni pericolose e instabili mentalmente. Persone, in breve, che si riconoscono immediatamente. Purtroppo non è così. Per difendere le nostre democrazie, inoltre, dobbiamo capire che non bisogna difendersi soltanto dai tiranni, ma anche da uomini che con il loro modo di fare ostacolano il processo democratico pur stando nel pieno rispetto delle leggi. Ad esempio, non è accettabile che da anni in Italia non ci sia un premier veramente scelto dagli italiani, e non è accettabile neanche se tutto ciò avviene nel completo rispetto delle leggi. Oramai in Italia puoi votare chi vuoi ma poi i partiti con quei voti fanno praticamente quello che vogliono, facendo venire meno il rapporto tra eletti ed elettori. Giuseppe Conte era stato messo come intermezzo tra Lega e Cinque Stelle, poi è diventato lui stesso il padrone della nave senza che nessun italiano gli abbia dato la fiducia. Con Mario Draghi la situazione è peggiorata, perché con lui al comando i partiti non hanno davvero più voce in capitolo.
   Difendere la democrazia è quindi un compito più arduo di quanto si possa pensare ed è complicato capire dove veramente essa risieda. Quello che dobbiamo fare è stare attenti, prima che un sistema ampiamente antidemocratico ci entri nelle ossa e sia impossibile liberarsene.

(l'Opinione, 20 settembre 2021)


Il "sistema ampiamente antidemocratico" ci sta già entrando nelle ossa. Proprio a questo si dedica ogni giorno con tenacia il nostro attuale premier, emissario di spicco di quell'elite finanziaria europea che considera tutto l'armamentario democratico di partiti, elezioni, parlamenti, corte supreme e altri annessi come un intralcio di cui liberarsi o da rendere semplicemente innocuo. In questo senso il nostro premier sta lavorando in modo egregio. E' probabile che stia assumendo un ruolo di apripista nella cerchia dei super-democratici. M.C.


Israele: catturati tutti i palestinesi evasi dal carcere di Gilboa

Gli ultimi due prigionieri palestinesi evasi dalla prigione di Gilboa sono stati arrestati a Jenin nella notte di sabato. L’arresto di Munadil Nafayat e Iham Kahamji mette così fine ad una caccia all’uomo durata quasi due settimane, in cui i primi quattro evasi erano stati arrestati nei giorni scorsi.
   L’operazione di sabato notte è stata portata a termine dall'IDF, dallo Shin Bet e dalle forze speciali della polizia. Dopo aver circondato la casa dove erano nascosti, le forze in campo hanno spinto i palestinesi evasi ad arrendersi: i due sono usciti disarmati, arrendendosi.
   “I due terroristi si sono arresi e sono usciti senza aprire il fuoco. L'arresto è stato condotto senza intoppi”, ha detto dopo l'operazione il tenente colonnello Alon Hanoni, vice comandante del comando regionale dell'IDF, responsabile dell'area di Jenin. Anche due palestinesi coinvolti nella fuga, sono stati arrestati dall’IDF.
   Gli ultimi due evasi arrestati, Ayham Kamamji (35 anni) e Munadel Infeiat (26 anni) sono terroristi della Jihad islamica. Kamamji era stato arrestato nel 2006 e condannato all'ergastolo per il rapimento e l'omicidio del giovane israeliano Eliahou Asheri. Infeiat era stato arrestato nel 2020 per le sue attività all'interno della Jihad islamica.
   “Tutti e sei i terroristi sono stati catturati e riportati in prigione, in un'operazione impressionante, sofisticata e rapida da parte del Gss, della polizia e dell'IDF. – ha detto il Premier Naftali Bennett - Ringrazio le forze dell'ordine che hanno lavorato, giorno e notte, anche sabato e festivi, per portare a termine l'operazione. Ciò che è andato male può essere riparato".

(Shalom, 19 settembre 2021)


«A Eitan stanno lavando il cervello»

Lo zio paterno in Israele lo ha incontrato per un'ora: è convinto di essere qui per una vacanza.

LA DENUNCIA
Il legale: il bambino ha pronunciato frasi fuori contesto, gli sono state inculcate
LA MOSSA
Il nonno in tv adesso prova a mediare: sediamoci a parlare, dovevamo farlo prima

di Davide Frattini

TEL AVIV - «Lavaggio del cervello». «Incitamento». A questo punto per la famiglia Biran le «condizioni di buona salute» non sono più l'unica preoccupazione. Che il bambino stia bene «d'aspetto» lo riconosce subito lo zio Haggai - fratello di Aya, tutrice legale, e del padre Amit, morto nell'incidente sul Mottarone. Lo ha incontrato ieri mattina per la prima volta da quando è stato portato in Israele - dove Haggai vive - dal nonno materno Shmuel Peleg. Un'ora per giocare insieme, lasciati soli, senza la presenza dell'altra famiglia coinvolta nella battaglia legale e diplomatica.
   Quello che viene presentato dai Peleg come un gesto distensivo - «gli abbiamo anche offerto di chiamare Aya» - è stato visto dall'avvocato che assiste qui la zia come un'altra mossa «di una famiglia che diffonde comunicati sulla vita del bambino come se partecipasse a un reality show». Così la reazione: «A tratti Eitan ha pronunciato frasi fuori contesto, messaggi che gli sono stati chiaramente inculcati. È in atto un lavaggio del cervello che sta creando dei danni», spiega il legale Shmuel Moran. Haggai - che è andato con la moglie - avrebbe rifiutato l'offerta di contattare Aya e i nonni paterni che vivono in Israele per non pesare troppo sull'emotività del piccolo.
   La famiglia Biran è infuriata per l'intervista concessa da Shmuel Peleg al Canale 12 e trasmessa in prima serata venerdì in uno dei programmi di attualità più seguiti in Israele. Come ha spiegato dall'Italia lo zio Or Nirko, marito di Aya: «Eitan non capisce che cosa stia succedendo, è convinto che il nonno lo abbia portato in Israele per una vacanza. Quando scoprirà la verità, ci saranno conseguenze psicologiche». Shmuel - che è agli arresti domiciliari fino a oggi, dopo essere stato interrogato dalla polizia israeliana mentre in Italia è indagato per sequestro di persona aggravato - ribadisce «un giorno mio nipote mi dirà: nonno mi hai salvato».
   Oggi Aya dovrebbe atterrare a Tel Aviv, prima di poter partire ha dovuto rinnovare il passaporto israeliano e aspettare che il Paese ritornasse alle attività normali dopo Yom Kippur e lo Shabbat. L'avvocato Moran ha già annunciato di voler chiedere ai giudici israeliani di affidare Eitan alla zia in attesa dell'udienza prevista il 29 settembre: i Biran hanno invocato la Convenzione dell'Ala e quello che prevede sulla «sottrazione internazionale di minori», sperano di ottenere il via libera dal tribunale per rientrare in Italia con il bambino di sei anni.
   Eitan sta in questi giorni nell'appartamento del nonno a Petah Tikva, cittadina non lontana da Tel Aviv, e la famiglia di Tal (la madre morta sul Mottarone) ha fatto circolare foto del piccolo sul balcone, in braccio a Shmuel, sorridente. È per contrastare queste mosse piazzate dalla squadra di Ronen Tzur, lo stratega delle pubbliche relazioni assunto dai Peleg, che i legali dei Biran hanno deciso di rendere pubbliche le paure dello zio Haggai. I Peleg ripetono «di averlo riportato a casa, non è stato un rapimento», durante la lunga intervista Shmuel invita Aya «a sedersi e parlare, avremmo dovuto farlo fin dall'inizio».

(Corriere della Sera, 19 settembre 2021)


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«Stanno plagiando Eitan». Le nuove accuse al nonno

I parenti di Pavia stanno per partire; cresce l'attesa per la prima udienza fissata il 29 settembre

Lo zio paterno vede il bimbo a Tel Aviv: «Sta subendo un lavaggio del cervello» Sospetti su Peleg, ex generale del Mossad «In Italia gli appoggi per rapire il piccolo»

di Cristiana Mangani

• LO SCONTRO
  ROMA - Da una parte il nonno paterno e la sua famiglia, dall'altra i parenti della mamma. Una guerra familiare che difficilmente troverà una soluzione "pacifica". La storia del piccolo Eitan Biran, unico sopravvissuto della tragedia del Mottarone, sembra complicarsi ogni giorno di più. Il bambino che ha sei anni e fatica ancora a muoversi per i postumi dell'incidente, ieri ha incontrato lo zio paterno, Hagai Biran. «Anche se Eitan appare in condizioni fisiche buone, è preoccupante notare nel piccolo chiari segni di istigazione e di lavaggio del cervello - è l'allarme lanciato dal parente che lo ha visitato nella casa del nonno Shmuel Peleg a Petah Tikva, a pochi chilometri da Tel Aviv. Lo stanno plagiando, il suo ritorno in Italia appare più urgente che mai», ha affermato. Per gli zii, Eitan ha parlato usando frasi fuori dal contesto e messaggi che - a loro dire - gli sono stati inculcati perché istigato. «Si tratta di un danno vero e proprio», hanno spiegato gli avvocati della famiglia Biran in Israele, Shmuel Moran e Avi Chini. Contrariamente alla famiglia dei rapitori che riferiscono in tempo reale della vita del minore come se partecipasse a un reality, noi e la famiglia Biran pensiamo che in questo momento la cosa più opportuna e necessaria sia di proteggere la privacy e l'intimità di Eitan».

• LA STRATEGIA
  L'intervento dei legali e della famiglia Biran è seguito a una nota che era stata diffusa da Gadi Solomon, portavoce della famiglia Peleg in Israele, nella quale si dava notizia della visita. «Questa mattina - ha detto Solomon - Hagai e sua moglie hanno visitato il piccolo nella casa di Shmuel Peleg. I due sono stati con Eitan in privato e hanno giocato con lui un po' più di un'ora. Durante la visita è stato proposto loro di telefonare ad Aya in Italia o ai genitori di Amit (che vivono in Israele,ndr) ma loro hanno preferito non gravare oltre Eitan».
   Il nonno materno, dunque, non sembra proprio voler mollare. E mostra una strategia molto accurata: ha aperto la porta della sua casa a chiunque - della famiglia e dell'ambasciata italiana-, volesse vedere il piccolo. E poi, ha fatto dare dal portavoce un puntuale resoconto delle visite alla stampa, con la precisa volontà di mostrare quanto il nipote stia bene e quanto sia contento di rimanere con i parenti della mamma. Chiunque lo ha visto, infatti, ammette che Eitan non ha la percezione di essere stato sequestrato. Nonostante abbia espresso il desiderio di rivedere la zia Aya, alla quale i giudici italiani hanno affidato la tutela, non sembra mostrare sofferenza. Una carta questa che il nonno Shmuel giocherà certamente davanti al tribunale israeliano già il 29 settembre, data fissata per la prima udienza. Quando saranno presenti anche gli zii paterni, Aya Biran e Or Nirko, in partenza per Tel Aviv.

• EX 007 DEL MOSSAD
  Del resto, chi sia Shmuel Peleg si è capito sin dal giorno del rapimento, quando per portare via il nipote dall'Italia ha messo in atto una vera e propria operazione militare. Ex generale del Mossad, il servizio segreto israeliano, ha pianificato nel dettaglio il sequestro del bambino, grazie anche a una rete di complici sui quali stanno indagando la procura di Pavia e la Polizia. Gli inquirenti stanno ricostruendo la rete di appoggi su cui il nonno ha potuto contare. La Polo sulla quale hanno viaggiato è stata parcheggiata in una strada laterale quando Peleg è sceso per andare a prendere il nipote. Inoltre, l'ex 007 deve essere stato ospitato da qualcuno mentre organizzava l'operazione: in Italia dal 4 settembre, ha dormito solo un paio di notti in albergo. E ieri, sul profilo Facebook di Ron, zio materno di Eitan, in un messaggio rivolto a una donna che polemizzava con lui, scriveva: «Aspetta di sapere chi ha dato un supporto e un aiuto al sequestro e starai zitta». Il messaggio è stato poi cancellato. Lo zio Ron è marito di Gali, zia materna di Eitan, che vive in Israele, e che già da mesi aveva lanciato appelli per chiedere che il bambino tornasse a vivere lì.

(Il Mattino, 19 settembre 2021)


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«Eitan sequestrato? Le "radici ebraiche" non c'entrano»

Lettera al Corriere della Sera

Leggo gli interventi sulla vicenda di Eitan Biran, unico sopravvìssuto alla tragedia del Mottarone (avvenuta il 23 maggio scorso), e sento di dover reagire. Si tratta di un bambino di sei anni che ha subito il trauma della perdita dei genitori e del fratello e che è stato sequestrato dal nonno materno, ex militare, con un volo privato e sottratto alla zia paterna, suo tutore legale.
   Questo «signore» è indagato dal Tribunale di Pavia per sequestro di persona ed è agli arresti domiciliari in Israele, dove il bambino è stato portato. L'atteggiamento indulgente verso il nonno che ha riportato Eitan nel luogo delle sue «radici ebraiche» è inaccettabile e, tra l'altro, nega secoli di storia e teoria della Diaspora.
   E' necessarìo convincersi che essere ebrei è cosa molto diversa, per natura, dall'essere Israeliani. Senza questo passaggio ogni discussione su Israele diventa ideologica; la vicenda di Eitan ci parla, invece, di leggi e reati che devono lasciare poco spazio all'interpretazione.
   Se il gesto dell'uomo fosse motivato dalla disperazione di un padre che ha perso il figlio e che cerca di trattenere il suo ricordo, dovrebbe suscitare compassione ma se, come alcuni sostengono, fosse un surreale ritorno alle radici ebraiche, sarebbe da condannare senza se e senza ma,
   Il fatto che Eitan si trovi ora in un altro Paese democratico non deve far ragionare, né ebrei né non ebrei, diversamente da come si farebbe se ad essere rapito fosse stato un bambino zoroastriano portato in Iran o musulmano portato nel Maghreb.
Sylvia Bartyan 

(Corriere della Sera, 19 settembre 2021)


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L'imbarazzo di un amico di Israele

di Marcello Cicchese

Il caso Eitan mette a disagio molti, ma forse non tutti si decidono a esprimerlo apertamente, soprattutto fra gli ebrei italiani e gli amici di Israele. Da almeno vent'anni mi presento pubblicamente come amico di Israele, e anch'io ho esitato prima di esprimere chiaramente la mia posizione. Perché? per non favorire troppo quelli che cercano ragioni per dare contro a Israele, ben sapendo che in questo caso possono trovarle. L'ho fatto in privato, con una cara amica ebrea israeliana propensa a giustificare "ideologicamente" l'operato del nonno rapitore. Non ho avuto risposta, quindi la ripresento pubblicamente nella parte che riguarda il fatto di Eitan:
    «E' chiaro che la maggior parte dei giornali cerca di insistere su quello che può mettere in cattiva luce Israele, come lo stupido riferimento al fatto che quel nonno è un ex-soldato, ma questo lo si sa, e non può essere sottolineato ogni volta per difendere qualsiasi cosa faccia Israele. Ha fatto bene il governo israeliano a dare il parere dei suoi legali, anche se non ha valore operativo, ma al di là di quello che giudicheranno i tribunali, questa è la posizione giusta che doveva tenere il governo israeliano nei confronti di un'altra nazione come l'Italia. Non basta condannare genericamente "il comportamento estremo del nonno" sostenendolo con generici riferimenti al mantenimento dell'ebraicità del piccolo. Quel nonno, insieme alla sua famiglia, e non si sa chi altro, ha commesso atti gravi sotto molteplici aspetti, facendo sorgere sospetti (che non si possono dire campati in aria) di interessi economici e di rapporti oscuri con poteri forti in Israele. Quindi come prima cosa bisogna condannare apertamente e dettagliatamente tutti i fatti che hanno permesso quella riprovevole azione, poi si possono fare altri discorsi sulla giustizia che funziona male o altro.»
I sospetti sopra accennati sono tutt'altro che scomparsi con il passare dei giorni e ad essi si è aggiunta un'inaccettabile dichiarazione del nonno rapitore: "non mi fido della giustizia italiana". A questo punto le persone in imbarazzo potrebbero essere molte di più, a cominciare dall'ambasciatore di Israele in Italia, per continuare con le autorità israeliane che dovranno pronunciarsi sul caso, per finire con tutti gli ebrei israeliani che per vari motivi di studio o di lavoro sono ospiti in terra italiana. Fare tra amici al bar una dichiarazione come "non mi fido della giustizia italiana", è una cosa; altra cosa è presentarla come plausibile spiegazione di un reato commesso in terra italiana da uno straniero. In questo modo viene fuori un'inaccettabile arroganza che poi può essere facilmente estesa a tutto Israele da quelli che non hanno in simpatia gli ebrei. Che purtroppo sono molti. Ed è proprio per questo che gli amici di Israele dovrebbero prendere chiaramente le distanze dal riprovevole comportamento di quel nonno. Proprio perché sono amici di Israele.

(Notizie su Israele, 19 settembre 2021)


"Un robot killer in Iran così Israele ha ucciso il super scienziato"

Il New York Times: il capo del programma nucleare Fakhrizadeh colpito da un cecchino distante migliaia di chilometri da Teheran.

di Anna Lombardi

NEW YORK — Una mitragliatrice telecomandata capace di sparare 600 colpi al minuto, montata su un camioncino e azionata da remoto: Mohsen Fakhrizadeh, il fisico considerato la mente del programma nucleare iraniano, fu ucciso così il pomeriggio del 27 novembre 2020 nei pressi della sua casa di campagna di Absard, villaggio a est di Teheran dove usava trascorrere il fine settimana come buona parte dell’élite iraniana. Con un’arma-robot, raffinata e precisa – capace di risparmiare la moglie che viaggiava con lui – azionata quasi certamente da uomini del Mossad grazie a un collegamento satellitare. Lo dice una mega inchiesta pubblicata ieri dalNew York Times e basata sì sulle dichiarazioni rilasciate ai media dalla donna superstite e dal figlio, ma anche su colloqui con agenti americani e israeliani.
   Certo, nessuno dei due governi ha mai confermato pubblicamente l’uso di un’arma guidata da intelligenza artificiale per portare a termine l’agguato. E il camioncino su cui era caricata la micidiale arma è stato fatto esplodere subito dopo nel tentativo di cancellare ogni prova. Ma l’esplosione ha distrutto solo in parte la mitragliatrice prodotta in Belgio – unica pecca del piano – e, sopravvissuta al rogo, ha permesso di puntare il dito su agenti israeliani. Una squadra che di sicuro, al momento dell’attacco, era già lontana migliaia di chilometri. Il grilletto premuto, sì: ma dallo schermo di un computer oltre confine.
   L’intelligence iraniana, in realtà, aveva avvertito più volte Fakhrizadeh: a Gerusalemme lo volevano morto da almeno 14 anni, certi che fosse proprio lui a guidare gli sforzi iraniani per realizzare l’atomica. Ma lo scienziato «voleva una vita normale» come dicono le fonti del quotidiano. E, dopo essere stato per anni al centro di minacce e complotti «non vi prestava più molta attenzione». Insistendo per guidare la sua auto da solo, invece di girare circondato da guardie del corpo su un veicolo blindato. Era scortato, è vero: ma da uomini che viaggiavano su un’auto al seguito. Eppure a partire dal 2007 già cinque suoi collaboratori erano stati uccisi (e un altro ferito), con l’intento evidente di bloccare ad ogni costo il programma segreto di costruire una testata nucleare, sfidando il problema tecnico di realizzarne una abbastanza piccola da stare in cima ai missili a lungo raggio dell’Iran. E nel 2011 era stato ucciso anche il generale Hassan Tehrani Moghaddam, insieme a 16 uomini della sua squadra, responsabile del programma di sviluppo missilistico.
   In realtà dopo la morte di Fakhrizadeh si sono sovrapposte testimonianze confuse e contraddittorie di soccorritori e vicini: tanto che, quando i giornali locali hanno iniziato a parlare di robot, molti sui social hanno deriso la storia, ritenendola una sorta di diversivo per coprire la brutta figura dei servizi segreti incapaci di proteggere il suo scienziato più utile e illustre. E invece, scrive ancora il New York Times , «l’arma robot esisteva davvero». E «l’uccisione pianificata a Washington durante una serie di incontri a inizio 2020 tra il direttore del Mossad, Yossi Cohen, e alti funzionari americani: compreso l’allora presidente Donald Trump, il segretario di Stato Mike Pompeo e l’allora capo della Cia Gina Haspel».
   Un piano poi affrettato, dopo la sconfitta elettorale del repubblicano: «Per uccidere un alto funzionario iraniano, atto potenziale di guerra, serviva l’assenso degli Stati Uniti» scrive ancora il giornale. «Ciò significava agire prima che Biden entrasse alla Casa Bianca. Nella speranza di far così anche fallire ogni possibilità di resuscitare l’accordo nucleare».

(la Repubblica, 19 settembre 2021)


Khamenei: gli atleti non diano la mano agli israeliani

«Gli atleti iraniani non possono stringere la mano agli atleti del regime criminale sionista e riconoscerli ufficialmente in questo modo solo per l'interesse di una medaglia»: lo ha detto la Guida spirituale Ali Khamenei in un incontro con i vincitori di medaglia olimpica e paralimpica iraniana ai Giochi di Tokyo 2020, ricordando ancora una volta il divieto di competizione per gli atleti iraniani con gli israeliani, in vigore dalla Rivoluzione islamica del 1979. Per anni, gli sportivi dell'Iran hanno fatto in modo di evitare di incontrare i colleghi di Israele facendosi squalificare. li leader ha anche criticato le atlete iraniane emigrate per protestare contro i divieti e che hanno preso parte ai Giochi sotto la squadra dei rifugiati.

(Avvenire, 19 settembre 2021)


La sfida "cool" di Soho House all'ombra degli scontri

di Fabiana Magrì

La classe creativa di Tel Aviv ha una nuova casa. Soho House, la catena globale di club esclusivi che a luglio ha debuttato alla Borsa di New York, ha scelto di stabilirsi a Giaffa, in un edificio costruito verso la fine del XIX secolo e rimasto vuoto per molti anni. La filosofia del brand punta sull'armonia - difficile da azzeccare - tra freschezza ed esclusività, diversità e inclusione. La città di Tel Aviv ha molto da offrire, ma il suo tessuto sociale rappresenta anche una sfida. Che si è presentata subito a ritardare l'inaugurazione del club, lo scorso maggio, durante gli scontri violenti tra estremisti arabi ed ebrei che infuocarono Giaffa nel contesto dell'ultimo round di conflitto tra Israele e Hamas. I disordini e i posti di blocco della polizia erano proprio alle porte dell'ex convento D su Yefet Street, mentre all'interno, nel cantiere della Soho House già rallentato dalla pandemia, si completavano le rifiniture in vista del soft opening. A distanza di quattro mesi, mentre i primi soci iniziano a frequentare la piscina, il bar e il giardino di ulivi centenari portati dalla Galilea, la sfida sembra lasciata alle spalle. Ma resta da vedere se la composizione mista di Giaffa, troverà espressione nella comunità degli iscritti oltre che nelle opere d'arte alle pareti e nella carta del ristorante. In tutto il mondo le Soho House sono una trentina e l'autunno riserva nuove inaugurazioni per Roma e Parigi.
   Per il marchio di Nick Jones, Tel Aviv è la seconda apertura in Medio Oriente, dopo Istanbul nel 2015. Ma la vibrante città sul Mediterraneo era già nota agli inquilini globali del club, fin da quando - prima città a prendere parte al programma - entrò nella rete delle "Cities Without Houses", un format che è una sorta di preliminare per quelle località senza una sede ufficiale, ma in cui c'è una comunità attiva che organizza eventi in stile "Soho". Il successo della Casa di Giaffa è dato per scontato, e si inserisce in un trend post pandemia che ha fatto crescere l'attesa per altre aperture (e ri-aperture) chic, dal dirimpettaio "The Jaffa al Six Senses Shaharut", vera e propria cattedrale del lusso nel profondo deserto del Negev.

(Specchio, 19 settembre 2021)



Il comandamento del riposo

--> PREDICAZIONE   
Marcello Cicchese
maggio 2017

Dalla Sacra Scrittura

ESODO 31
  1. L'Eterno parlò ancora a Mosè, dicendo:
  2. 'Quanto a te, parla ai figli d'Israele e di' loro: Badate bene d'osservare i miei sabati, perché il sabato è un segno fra me e voi per tutte le vostre generazioni, affinché conosciate che io sono l'Eterno che vi santifica.
  3. Osserverete dunque il sabato, perché è per voi un giorno santo; chi lo profanerà dovrà essere messo a morte; chiunque farà in esso qualche lavoro sarà sterminato di fra il suo popolo.
  4. Si lavorerà sei giorni; ma il settimo giorno è un sabato di solenne riposo, sacro all'Eterno; chiunque farà qualche lavoro nel giorno del sabato dovrà esser messo a morte.
  5. I figli d'Israele quindi osserveranno il sabato, celebrandolo di generazione in generazione come un patto perpetuo.
  6. Esso è un segno perpetuo fra me e i figli d'Israele; poiché in sei giorni l'Eterno fece i cieli e la terra, e il settimo giorno cessò di lavorare, e si riposò'.
  7. Quando l'Eterno ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli dette le due tavole della testimonianza, tavole di pietra, scritte col dito di Dio.

 

Eitan, accuse incrociate. La guerra per l’affido a colpi di interviste tivù

Il nonno che l’ha rapito "Non mi fidavo della giustizia italiana" Revocati i domiciliari

di Paolo Berizzi, Pavia
e Sharon Nizza, Tel Aviv

La battaglia legale sul destino del piccolo Eitan si riverbera sugli schermi televisivi. Due versioni contrastanti, due lunghe interviste ai canali concorrenti: a parlare sono il nonno materno Shmuel Peleg — indagato per sequestro di minore e ieri rilasciato dai domiciliari dopo quattro giorni — e Aya Biran, la zia paterna, tutrice legale del bambino unico superstite della tragedia del Mottarone. «È uscito di casa in maglietta e pantaloncini, pensava di andare a comprare dei giochi, ma è stato strappato al nucleo familiare con cui vive da quando ha subito il trauma », dice Aya nell’intervista al Channel 13. «Siamo decollati in via del tutto legale per Israele» sostiene il nonno che una settimana fa ha prelevato Eitan da casa della zia per la visita di routine, salvo condurlo in Israele con un aereo privato da Lugano. Ma se è così sicuro della legalità dell’atto, perché non prendere un volo di linea, chiede la giornalista di Channel 12? «Lo volevo portare qui quanto prima, senza esporlo alla gente». E la convenzione dell’Aja? «Non mi intendo di convenzioni. Io sono il nonno. Il bene del bambino viene prima del mio interesse personale ». E il suo bene è in Israele, dice, dove Amit e Tal, nella ricostruzione dei Peleg, avrebbero voluto fare rientro a breve.
   «Per guarire completamente Eitan deve tornare alla routine che conosce da quando ha un mese di vita ed è arrivato a vivere in Italia — dice Aya — Eitan è un bambino. Non un monumento alla memoria".
   Sulla sentenza definitiva che lo ha condannato a 15 mesi con la condizionale nel 2006 per maltrattamenti verso l’ex moglie Esther Cohen (anche lei indagata in Italia per sequestro), Peleg dice che «sono fatti di 20 anni fa avvenuti durante il divorzio e non hanno impedito che ricevessi la custodia congiunta dei figli ». Le voci secondo cui la guerra tra le famiglie sarebbe motivata da interessi economici (l’eredità del bisnonno, il risarcimento dell’assicurazione) fanno capolino anche a Tel Aviv. «Abbiamo chiesto di congelare i beni di Eitan fino ai 18 anni, gli avvocati di Aya si sono opposti. Perché? ». Dal canto suo, Aya che domani partirà per Tel Aviv, respinge le insinuazioni: «Non è affatto una questione di soldi, non ricevo uno stipendio dallo Stato come tutrice, o Eitan un sussidio da orfano».
   «Quando Eitan crescerà un giorno mi dirà "Nonno, hai fatto tutto il possibile per me, mi hai salvato" —non ha dubbi Shmulik, che afferma di aver «perso la fiducia nel sistema giudiziario italiano». «E mia figlia — dice con la voce interrotta dal pianto — quando un giorno ci incontreremo in cielo, sarà fiera di me perché l’ho riportato a casa». Un’affermazione a cui reagisce Or Nirko, marito di Aya: «Ora Eitan non si rende conto di quello che è successo, crede che il nonno lo abbia portato in vacanza in Israele, ma più avanti capirà e ci saranno conseguenze psicologiche ». Nella casa di nonno Peleg, a Petah Tikva, Eitan sta bene, continuano a dire i familiari materni. Lo conferma anche l’ambasciata d’Italia in Israele dopo una visita del console avvenuta ieri, alla presenza del nonno: «Il piccolo Eitan è apparso in buone condizioni di salute». In vista dell’inasprirsi delle tensioni nei prossimi giorni, quando i Biran arriveranno in Israele e chiederanno attraverso i loro legali che la custodia di Eitan passi a loro anche durante il processo che si aprirà il 29 settembre, la famiglia Peleg offre gesti distensivi. Ieri si è svolta una terza telefonata tra Eitan, gli zii e le cuginette di Pavia, e oggi il fratello di Aya che vive in Israele, Hagai Biran, incontrerà per la prima volta il bambino.

(la Repubblica, 18 settembre 2021)


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Il nonno di Eitan e la fuga in auto. A Lugano fu fermato per un controllo 

Si indaga su possibili coperture e complicità. Alla guida della Golf un misterioso autista israeliano. In aeroporto Nessun controllo pur non avendo alcun documento valido per portare con sé il nipote.

di Giuseppe Guastella

Nessun ostacolo al confine con la Svizzera, tutto liscio all'aeroporto di Lugano,. ora si scopre che Shmuel Peleg ha superato indenne perfino il controllo di una pattuglia della polizia elvetica che lo ha fermato mentre fuggiva su un'auto guidata da un misterioso autista israeliano e sulla quale c'era il nipotino che aveva rapito nel Pavese e nei cui confronti era stato diramato l'allerta internazionale per impedire che lasciasse l’Italia. 
   Man mano che le indagini sul rapimento di Eitan Biran vanno avanti, si addensano sempre più i sospetti che Peleg abbia potuto contare su una rete di complicità per portare a termine il rapimento del nipotino di 6 anni, unico sopravvissuto della tragedia della funivia del Mottarone, per il quale la Procura di Pavia lo accusa di sequestro di persona aggravato insieme con la ex moglie, Bsther Athen Coen, 57 anni. 
   Tenente colonnello dell'esercito israeliano in pensione dopo 25 anni di servizio nei reparti delle telecomunicazioni, consulente di un'importante azienda elettronica nel suo Paese, 58 anni, Peleg preleva Eitan alle 11,30 di sabato scorso dall'abitazione di Travacò Siccomario (Pavia) in cui il piccolo vive con la famiglia della zia Aya, alla quale è stato affidato dal giudice tutelare dopo l'incidente in cui ha perso il padre, la madre Tal (figlia di Peleg), il fratellino di 2 anni e due bisnonni. 
   Se le cose non prendessero poi una piega del tutto diversa, dovrebbe trattarsi di uno degli incontri periodici autorizzati dal giudice Michela Fenucci per garantire al bambino, che è stato investito da un trauma enorme, l'affetto di tutti i suoi parenti. Come il nonno materno che dal 23 maggio, giorno dell'incidente del Mottarone, ha trascorso lunghi periodi in Italia per stargli accanto anche nell'ospedale di Torino, dove per più di un mese è stato ricoverato per le fratture che aveva riportato nello schianto della cabina della funivia. L'uomo è stato registrato per brevi permanenze, uno o due giorni, il 24 e il 30 maggio in due alberghi di Torino e il 3 luglio in un hotel nei pressi della stazione Termini di Roma. Non c'è alcuna registrazione, invece, per i lunghi periodi che ha trascorso a Milano, sembra in un albergo vicino alla stazione centrale che si dice sia frequentato da personaggi legati ai servizi segreti, e in un bed&breakfast. 
   Invece di riportare il bambino dalla zia entro le 18,30 come previsto, l'incontro di sabato si trasforma in un ritorno in patria Gli investigatori, diretti dal procuratore facente funzioni Mario Venditti, stanno acquisendo i tabulati del cellulare di Shmuel Peleg, le immagini delle telecamere di sorveglianza e i dati dei passaggi autostradali per ricostruire i contatti dell'ex ufficiale prima del rapimento e i movimenti del veicolo nei 150 chilometri che separano Travacò Siccomario da Lugano. 
   L'auto è una Volkswagen Golf blu noleggiata il giorno prima all'ufficio della Europcar dell'aeroporto di Malpensa Peleg risulta entrato in Italia l'ultima volta il 2 settembre scorso, quando è stato identificato agli «Arrivi» di Malpensa. Se non è tornato in aeroporto il 10 ottobre, la Golf potrebbe essere stata affittata da un'altra persona che rischierebbe l'accusa di complicità nel sequestro. Già dalla metà di agosto la Procura di Pavia, su indicazione del giudice tutelare, aveva segnalato alla Polizia e alla Prefettura il rischio che Peleg, che contesta energicamente l'affidamento di Eitan alla zia Aya, potesse abbandonare l'Italia portandosi dietro il nipote. 
   Nonostante un preventivo comunicato diramato in area Schengen e in Svizzera, intorno alle 13,30 la Golf varca senza alcuna difficoltà il confine italo-svizzero, forse alla dogana di Chiasso; Dopo una trentina di chilometri, viene fermata dalla Polizia svizzera nei pressi dell'aeroporto di Lugano-Agno per quello che sembra essere un normale controllo. Vengono identificati Peleg, Eitan e il conducente, G. A. A., 50 anni, cittadino israeliano su cui non risultano annotazioni nelle banche dati in uso alle forze dell'ordine italiane. Sono le 14,10, Peleg ha fretta. È in ritardo sull'orario d'imbarco del costoso volo privato per Tel Aviv fissato per le 13,45. Oltre al suo passaporto israeliano, esibisce quello del nipotino, lo stesso del quale la zia paterna aveva denunciato la scomparsa. Quando disse che il documento lo aveva lui, il giudice lo invitò a consegnarlo ad Aya Biran entro il 30 agosto. Non l'ha mai fatto. Nessuna verifica neppure ai controlli all'imbarco, dove Peleg si presenta con un minorenne senza un documento che gli consenta di portarlo con sé. Alle 18,25 il Cessna 680 atterra a Tel Aviv. 

(Corriere della Sera, 18 settembre 2021)


Sputi sulla targa e danni all'auto. «Soffiano venti di antisemitismo»

La denuncia alla Digos: due vandalismi ravvicinati ma probabilmente non collegati fra loro La macchina era parcheggiata sotto la stazione. Gli investigatori passano al setaccio le telecamere

di Stefano Brogioni

FIRENZE - Un vilipendio e ripetuti atti vandalici contro il consolato d'Israele a Firenze e il suo rappresentante, Marco Carrai. La targa posta all'ingresso della sede, nella centralissima via della Spada, è stata presa a sputi. Alla macchina di servizio, parcheggiata alla stazione di Santa Maria Novella sono stati infranti i finestrini, probabilmente con lo scopo di mettere a segno un furto, anche se chi voleva rubare, quando l'allarme ha cominciato a suonare, si è dileguato. Probabilmente, questo secondo episodio, non è attribuibile a qualcuno che voleva colpire direttamente la rappresentanza in città dello Stato ebraico, ma il primo sì, senza alcun dubbio. I due episodi insieme, poi, destano una certa preoccupazione.
   «Il consolato di Israele a Firenze condanna fortemente questi atti antisemiti e anti israeliani che nuovamente soffiano anche nel nostro territorio», dice una nota. La prefettura, ieri, ha assicurato che sono stati disposti «immediati e puntuali accertamenti da parte delle forze di polizia e che sono stati intensificati i servizi di vigilanza dedicati.
   Il sindaco Dario Nardella ha subito preso le distanze e condannato il gesto, al momento opera di ignoti. «Esprimo a nome mio personale e della città di Firenze la più ferma condanna per gli episodi di vandalismo contro la sede del consolato di Israele a Firenze e l'auto consolare», ha detto, rivolgendo anche «all'ambasciatore israeliano a Roma Dror Eydar la mia totale solidarietà e vicinanza per questi gesti vigliacchi - ha continuato Nardella -. Sono fatti che non avrei mai voluto vedere in una città civile, aperta e universale come Firenze. Mi auguro che gli inquirenti individuino al più presto i responsabili di questi gesti e rispondano di quanto commesso».
   La Digos, diretta da Domenico Messina, è al lavoro. Fondamentali sono le immagini di alcune telecamere che sono state subito acquisite. Meno apprensione, come detto, suscita l'episodio avvenuto nel parcheggio sotterraneo della stazione di Santa Maria Novella. L'Audi di rappresentanza era parcheggiata lì sotto. I filmati documentano l'avvicinarsi di alcuni soggetti, che hanno infranto il finestrino ma così facendo hanno innescato la sirena dell'antifurto e se la sono dati a gambe. Probabilmente volevano cercare qualcosa di valore a bordo, visto che la macchina non porta alcun segno che riconduce al consolato di Israele.
   Sempre la settimana scorsa, ma non in contemporanea, qualcuno ha però sputato all'indirizzo della targa posta sull'edificio che ospita la sede. Sono al vaglio le telecamere della zona per verificare se l'autore del gesto è rimasto intrappolato in qualche frame. E stavolta, il caso non c'entra.

(La Nazione - Firenze, 18 settembre 2021)


Europei di Baseball - L'Italia si arrende a Israele in semifinale

Gli azzurri perdono 11-5 e sfideranno la Spagna per il bronzo

Una partenza a suon di fuoricampo, tre nei primi due attacchi, non basta all'Italia per superare Israele nella semifinale dell'Europeo. Gli azzurri devono arrendersi nettamente (11-5) contro una squadra cinica, che ha sfruttato molto bene anche i problemi di controllo dei lanciatori che si sono alternati sulla collinetta e che hanno messo in base per ball qualcosa come tredici battitori. Un bottino troppo pesante, anche se il line-up avversario è stato bravo a capitalizzare i corridori in corsia: tutti gli uomini hanno battuto almeno una hit, con due doppi di Lowengart e Glasse da tre punti ciascuno che alla fine hanno fatto la differenza.

(Rai Sport, 18 settembre 2021)


Nessuno risponde ai miei interrogativi. Ma mi sospendono dall'Ordine dei medici

"Ho rifiutato di essere sottoposta all'inoculazione di farmaci sperimentali con effetti collaterali soltanto in parte conosciuti".

di Silvana De Mari 

Sono stata sospesa dall'Ordine dei medici di Torino. Potrei essere di nuovo integrata se accettassi l'inoculazione di farmaci che, come il premio Nobel Luc Montagnier e innumerevoli altri, considero discutibili. Assolutamente sbagliata è la costrizione. Ho rifiutato di essere sottoposta all'inoculazione di farmaci sperimentali con effetti collaterali solo in parte conosciuti, che in molti casi hanno causato la morte, che non impediscono la trasmissione della malattia, che hanno un'efficacia molto dubbia e che dovrebbero servire a contrastare una malattia che curo con successo da mesi con l'uso di farmaci di basso costo che maneggiamo da decenni. Essendo in pensione la cosa non mi crea nessun problema dal punto di vista economico. Dal punto di vista etico è invece un vantaggio, perché trovo imbarazzante essere iscritta all'Ordine dei medici, essendo gli Ordini diventati carrozzoni politico-burocratici, braccia armate del potere statale, mentre erano nati proprio per contrastare ogni potere che si abbattesse sui medici e sul loro diritto dovere di curare al meglio propri pazienti. Per me è irrilevante, ma per un medico nell'esercizio delle sue funzioni questo è catastrofico.
   Riporto il testo delle domande che avevo posto nella mail inviata all'Ordine e al quale nessuno si è degnato di rispondere. Chiedo ancora delucidazioni.

Il vaccino non blocca la trasmissione della malattia. Ne diminuisce solo l'intensità dei sintomi e non nelle vantate percentuali.
Qual è l'esatto meccanismo di funzionamento del trattamento sanitario in oggetto? Che rischi di complicazioni future a breve, medio e lungo termine ci sono? Come è stato affermato addirittura in Senato si tratta di farmaci in fasi completamente sperimentali che possono essere inoculati solamente dove non esistano terapie alternative. Le centinaia di migliaia di pazienti guariti brillantemente con le terapie domiciliari a base di vit D, vit C zitromicina, idrossiclorochina, cortisone ed eparina, per quale motivo non sono stati considerati una prova? 
   Dato che nessuno ha verificato se ho già avuto la malattia, e che gli anticorpi alti non sono considerati un motivo di esenzione, chi si assume la responsabilità penale e civile casomai io sviluppi una sindrome Ade dopo l'inoculazione? 
    Dato che questo trattamento è ritenuto a questo punto obbligatorio per la mia categoria lavorativa, il farlo senza specificare a chi rivolgersi per la domanda di risarcimenti è un ulteriore passo verso una incredibile illegalità. Se dovessi sperimentare una grave reazione avversa, con effetti a lungo termine (ancora sconosciuti) che portano anche alla morte, derivanti dalla vaccinazione io (o la mia famiglia) saremo risarciti? 
   Posso avere nome, cognome e numero di polizza della persona che potrò denunciare e sapere fino a che cifra copre la sua polizza? 
   Quale sarebbe il motivo per cui sono obbligata a farmi iniettare un siero tenendo presente che l'inoculazione di questi farmaci non blocca la trasmissione della malattia? 
   Secondo l'articolo articolo di Peter Doshi pubblicato il 4 gennaio sul British medicai journal «i cosiddetti sieri Pfizer e Moderna non intervengono sull'infezione ma solo sulla malattia, diminuendone l'intensità dei sintomi non del 95% come millantato ma di un banalissimo e squallido 25 %» (shorturl.at/iwEXZ). 
Ho chiesto che mi venisse comunicato per scritto, con firma leggibile e numero di polizza assicurativa, su chi potersi rivalere in caso di eventi avversi. Silenzio...
Per inciso sono in grado di diminuire quei sintomi del 99% mediante la prescrizione di zitromicina, idrossiclorochina, cortisone ed eparina, la stessa formula con cui ho guarito innumerevoli pazienti mentre altri colleghi si limitavano alla prescrizione disastrosa di tachipirina e vigile attesa. I sieri che definite vaccini mi risulta non prevengano la malattia, non risulta nemmeno a Peter Doshi, purtroppo non risulta nemmeno ai molto vaccinati popoli della Gran Bretagna e di Israele, che hanno dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio che aver subito entrambe le dosi quando con tre non diminuisce il contagio e non risulta nemmeno alla Public health England, che ha appena condotto una ricerca che ha evidenziato in un rapporto di 40 pagine che ha dimostrato una carica virale uguale tra vaccinati e non vaccinati. I sieri attualmente in uso quindi non prevengono l'infezione come la legge prescrive (dl.44 Conv L 76/2021) dunque non vi è alcun obbligo di ricevere quel siero, perché non fa ciò che la legge richiede, e chiedo, anzi pretendo, in quanto cittadino di uno Stato democratico che mi garantisce una libertà pagata lacrime e sangue, che qualcuno mi spieghi dove è la logica, o che si scusi per la mancanza di logica. 
   Potete certificarmi che nessuna delle sostanze che volete inocularmi sia stata preparata usando cellule umane di feti abortiti? 
   Esercito a tutti gli effetti piena obiezione di coscienza. Ci risulta che i farmaci Astrazenica e Jonshon & Jonshon sono ufficialmente coltivati su cellule di feto abortito, in realtà neonato molto prematuro vivisezionato, mentre i sieri Pfizer e Moderna sono testati su cellule della stessa origine. Nel caso possiate contestare questa affermazione potrei avere una dichiarazione con una firma leggibile sotto che dimostri su quali tipi di cellule sono stati testati gli Rna Pfizer e Moderna? 
   Esigo mi certifichiate che non c'è rischio di reazioni iatrogene, che per nessun motivo potrei avere una paralisi di Belle, una sindrome di Guillain Barré, una trombosi; il foglietto illustrativo scrive che «non sono stati effettuati studi di genotossicità né di cancerogenicità». Se non sono stati effettuati studi, come sapete che non è cancerogeno? Mi obbligate a un farmaco che potrebbe essere cancerogeno per quanto ne sapete voi? 
   Pretendo che mi certifichiate inequivocabilmente e in buona fede, in conformità con l'articolo 13 della Convenzione di Oviedo, che questa tecnologia non ha il potenziale di modificare il Dna umano attraverso la cosiddetta trascrittasi inversa o la polimerasi delta. Da dove deducete con certezza assoluta che io non abbia in nessuna delle mie cellule trascrittasi inversa o polimerasi delta che permette esplicitamente il trasferimento di informazioni dall'mRna al Dna? Se non lo sapete con certezza come vi viene in mente di iniettarmi dell'Rna? 
   Chiedo che mi certifichiate che il siero non contiene una qualsiasi forma di nanotecnologia. 
   Chiedo che mi certifichiate che tutti i parametri medici per i test e gli studi richiesti sono stati rispettati inclusi i tempi di osservazione di almeno 3 anni indispensabili per mettere a fuoco le reazioni a distanza. 
   Esigo di sapere se dopo la vaccinazione posso smettere di usare la mascherina, posso evitare il distanziamento, sono immune, ho la certezza che non posso più morire o essere ospedalizzata per Sars 2 Covìd-19 e, soprattutto, se mi vaccino, sarò contagioso/a per gli altri? 
   Vorrei risposte per scritto e con firma leggibile e numero di polizza per il risarcimento se, Dio non voglia, qualcuno ha raccontato cose che non si sono avverate, qualcuno cioè ha spacciato opinioni discutibili per scienza inoppugnabile. 

(La Verità, 17 settembre 2021)


Naturalmente anche articoli come questo possono essere presi di mira da chi si dedica alla caccia dei no-vax segnalando pericoli di sollevazioni di scatenati no-green pass, o facendo comparire articoli che titolano «Tutte le risposte a chi nutre dubbi sui vaccini anti-Covid». Ciascuno decida il valore da dare a questi articoli, ma in ogni caso non si può non vedere che l'attuale situazione sanitaria non giustifica affatto tutto lo zelo che si mette per spingere la popolazione a vaccinarsi e a farlo subito. Per spiegare questa singolarità non è necessario immaginare misteriosi "complotti" di oscuri personaggi che lavorano nell'ombra, è sufficiente tener presente che le multinazionali farmaceutiche hanno la possibilità di comprarsi persone di tutti i tipi: politici, virologi, medici e giornalisti. E di questo ci sono numerose documentazioni, tra cui articoli che non compaiono sui grandi media e libri che non vengono reclamizzati. I soldi, da che mondo è mondo, hanno una forza reale: decidere di non tenerlo presente è da ingenui o da mistificatori. E' Mammona oggi il Grande Medico che si preoccupa della salute di noi tutti, uomini bisognosi incapaci di prendersi cura della propria salute e di quella degli altri. Chi pensa, pur non essendo convinto, di dover cedere alla pressione vaccinale per validi motivi, lo faccia, e nessuno lo biasimi. Riprovevoli sono invece quelli che per soldi o per paura spingono gli altri a farlo e denigrano chi non lo fa. M.C.


Israele - Il direttore del Ministero della Sanità: la diffusione del coronavirus raggiunge livelli record

Poiché vengono diagnosticati oltre 10.000 nuovi casi, Nachman Ash dice ai legislatori che aveva sperato che la recente tendenza al ribasso continuasse.

di Stuart Winer

 
Il direttore generale del Ministero della Sanità, Nachman Ash, martedì ha dichiarato che l'attuale ondata di infezioni da coronavirus sta superando qualsiasi livello visto nei precedenti focolai e che è deluso dal fatto che una recente tendenza al ribasso sembra essersi invertita.
   Le osservazioni di Ash tramite videochiamata al comitato della Knesset Costituzione, Legge e Giustizia sono arrivate quando i dati del Ministero della Sanità hanno mostrato che il giorno prima sono stati diagnosticati oltre 10.000 nuovi casi di COVID-19 e che il tasso di positività ai test stava aumentando.
   Sottolineando che c'è una media di 8.000 nuove infezioni ogni giorno, con picchi occasionali superiori a 10.000, ha detto: "Questo è un record che non esisteva nelle ondate precedenti", inclusa la massiccia terza ondata alla fine dello scorso anno.
   Ash ha espresso un certo pessimismo, anche se ha osservato che, smentendo i timori, non c'è stato un grande picco di infezioni dopo la festa di Rosh Hashanah della scorsa settimana - il capodanno ebraico - o l'apertura dell'anno scolastico all'inizio del mese.
   Dopo aver ridotto le infezioni giornaliere a poco più di una dozzina a giugno, Israele ha combattuto per controllare una rinascita di COVID-19 in quella che è stata la sua quarta ondata di infezioni dall'inizio della pandemia globale.
   “Una settimana fa eravamo in una chiara tendenza al ribasso; negli ultimi giorni abbiamo assistito a un arresto del declino e il numero di riproduzione del virus è [di nuovo] superiore a 1", ha detto Ash sul cosiddetto numero R, che indica quante persone infetterà ciascun portatore di virus. I valori sopra 1 mostrano che l'epidemia è in crescita, sotto 1 che si sta riducendo.
   "Speravo di vedere un calo più netto, ma ancora non lo vediamo", ha detto.
   Ash ha anche detto che il numero di malati gravi oscilla tra 670 e 700. Ogni giorno 70-80 nuovi pazienti si ammalano gravemente, leggermente meno rispetto alle ultime settimane.
   Il numero di pazienti sui ventilatori è aumentato negli ultimi dieci giorni da 150 a 190, mentre il numero di quelli sulle macchine ECMO più critiche è passato da 23 a 31, ha affermato.
   Nonostante i numeri, Ash ha affermato che la cosiddetta restrizione del Green Pass sarebbe stata rimossa dalle piscine all'aperto, in parte per aiutare i genitori a cercare attività per i propri figli durante il periodo delle vacanze quando le scuole sono chiuse. Il periodo delle vacanze, compreso il festival di Sukkot, che dura una settimana e termina il 28 settembre.

(The Times of Israel, 14 settembre 2021)


Vaccinatevi, vaccinatevi, e presto raggiungeremo il contagio di gregge. M.C.



Come rendere schiave le persone

Al processo di Norimberga fu chiesto al gerarca nazista Hermann Göring: "Come avete fatto a convincere il popolo tedesco ad accettare tutto questo?"
Risposta: "E' stato facile e non ha nulla a che fare con il nazismo, ha a che fare con la natura umana. Si può fare in un regime nazista, comunista, socialista, in una monarchia o in una democrazia. L’unica cosa che devi fare per rendere schiave le persone è impaurirle. Se riesci a trovare un modo per impaurire le persone, puoi fargli fare quello che vuoi".
  

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impauriti, ingannati, sedotti e schiavizzati
il diavolo sta preparando il mondo
ad accogliere l'anticristo


 

Le fazioni palestinesi unite per difendere i due terroristi ancora in fuga

Per la prima volta nella loro storia Hamas, Fatah e Jihad Islamica formano una unica fazione contro Israele.

di Franco Londei

Le fazioni palestinesi hanno annunciato ieri la formazione di “una sala operativa congiunta” a Jenin. Le ali militari di Fatah, Hamas e Jihad islamica sono tutte coinvolte, è la prima volta che i tre movimenti uniscono le forze in una simile azione congiunta.
  Alcune fonti hanno citato un combattente delle Brigate dei martiri di Al-Aqsa, un gruppo affiliato a Fatah, che ha affermato: “non c’è spazio per parlare [con Israele] se non con i proiettili. Siamo pronti a combattere e non ci ritireremo”.
  La fonte ha precisato che erano presenti anche uomini armati mascherati che indossavano le insegne delle Brigate Izz Al-Din Al-Qassam, il braccio armato di Hamas.
  Secondo un combattente delle Brigate Al-Quds della Jihad islamica, “Nel campo è stata annunciata una mobilitazione generale e tutte le fazioni sono pronte a combattere. L’esercito israeliano vedrà quello che non si aspetta se pensa di entrare nel campo”. Ha spiegato che “combattenti della resistenza” da diverse parti della Cisgiordania sono arrivati ​​nel campo di Jenin “in preparazione di qualsiasi battaglia”.
  La sala delle operazioni congiunte sembra essere una risposta al fatto che si ritiene che due dei fuggitivi dalla prigione di Gilboa in Israele stiano cercando di raggiungere il campo profughi di Jenin. Il capo di stato maggiore israeliano, Aviv Kochavi, ha detto mercoledì che se i due raggiungeranno davvero Jenin, l’esercito israeliano attaccherà la città in forze per arrestarli, anche se l’operazione colpisce il resto della Cisgiordania.
  “Il campo spera che i prigionieri fuggitivi, Mujahid Yaqoub Nafi’at e Ayham Fouad Kammaji, arrivino qui”, ha detto il combattente delle Brigate Al-Quds. “Li proteggeremo con i nostri corpi e tutto ciò che abbiamo”.

(Rights Reporter, 17 settembre 2021)


Germania, volevano colpire la sinagoga

La polizia: "Matrice islamica". Fermati quattro uomini, grazie a una soffiata dall’estero Due sono siriani

di Tonia Mastrobuoni

BERLINO — La strage era prevista durante le celebrazioni dello Yom Kippur. Di nuovo un terrorista avrebbe voluto macchiare di sangue la più sacra festa degli ebrei. Non un neonazista, come due anni fa a Halle: stavolta è stato un fondamentalista islamico ad aver tolto il sonno alla Germania nella notte di mercoledì. E la tragedia è stata sventata per un pelo. L’altro ieri sera la città renana di Hagen si è tinta per ore delle sirene della polizia: gli agenti hanno perquisito l’appartamento di un sedicenne siriano - arrestato insieme ad altri tre sospetti - che viveva dal padre e si era fatto notare per alcuni messaggi su una chat. Ieri sera la polizia ha fatto sapere di non aver ancora trovato esplosivi e l’analisi dei dispositivi elettronici e dei computer sequestrati durante la perquisizione è ancora in corso.
   La Procura generale non sa ancora, insomma, se riuscirà a trovare prove sufficienti per tenere dietro le sbarre il ragazzo, sospettato di aver programmato l’attacco alla sinagoga. L’aspirante stragista è stato interrogato a lungo dalla polizia. Nelle conversazioni intercettate da agenti segreti stranieri, parlava di esplosivi e aveva espresso l’intenzione di piazzare una bomba. Secondo la soffiata dell’intelligence, il giovanissimo fondamentalista pianificava di far saltare per aria il tempio. E i commentatori tedeschi si sono già scatenati ieri contro i servizi segreti che sarebbero stati salvati – e non è la prima volta – da un’indagine partita all’estero e dal fatto che i colleghi dell’intelligence straniera sarebbero riusciti a comunicare l’esatta identità dell’attentatore, il luogo e l’ora dell’attacco. Ai colleghi tedeschi non era mai saltato agli occhi. ß“‘“ Il ministro dell’Interno del Nordreno- Westfalia Herbert Reul (Cdu) ha parlato di una «seria minaccia estremista» e del «pericolo di un attentato alla sinagoga di Hagen». Il sedicenne sarebbe arrivato nel 2015 dalla Siria via Beirut, grazie ai ricongiungimenti. Da allora viveva in un appartamento con il padre e due fratelli al centro di Hagen. I vicini, interrogati da alcuni giornali tedeschi, parlano di una famiglia «molto povera » ma che non avrebbe mai dato segni di fanatismo. Il sospetto è che il sedicenne si sia radicalizzato in rete.

(la Repubblica, 17 settembre 2021)


«Il nostro Eitan tornerà in Israele. Il nonno sui social prima del blitz

Ma il giudice confermò la zia tutore del bimbo: «È bene che resti in Italia»

di Giuseppe Guastella

Si può quasi pesare con mano il profondo dolore che dal giorno della tragedia della funivia del Mottarone devasta la famiglia allargata dei Biran, sfogliando le carte del procedimento che ha rigettato la richiesta dei nonni di Eitan di revocare la nomina della zia paterna a suo tutore. Quattro udienze sofferte da fine maggio a inizio agosto di fronte al giudice tutelare di Pavia Michela Finucci che alla fine inviterà il nonno materno Shmuel Peleg, 58 anni, a riconsegnare il passaporto del bambino dopo che l'ufficiale in pensione dell'esercito israeliano prima del 6 agosto aveva già annunciato sui social che Eitan «sarebbe tornato in Israele», cosa che ha organizzato lui stesso con il rapimento di sabato scorso per il quale ora è bloccato in casa a Tel Aviv dalla Polizia israeliana e indagato dalla Procura di Pavia con la ex moglie per sequestro di persona.
   Affiorano sensibilità diverse: i nonni che vivono in Israele, i quali vogliono caparbiamente che il piccolo cresca e maturi nella religione e nella cultura del Paese d'origine; la zia per la quale un trasferimento sarebbe un ulteriore choc (idea condivisa dal giudice). Peleg si è trasferito in Italia il 24 maggio, giorno dopo l'incidente in cui sono deceduti la figlia, il genero, un altro nipotino e gli ex suoceri. Eitan è l'unico superstite tra 14 morti. L'uomo si trova in un Paese straniero di cui non comprende lingua e cultura, cova rancore perché si è «sentito ingannato» quando, dopo aver riconosciuto i corpi dei suoi cari morti, ha accettato senza opporsi, e senza comprenderla fino in fondo, la nomina a tutrice di Aya Biran, la sorella del genero. Come la ex moglie Esther Athen Cohen, accusa Aya di limitare i rapporti con il nipote. E anche questo che lo spingerà a rapirlo. «Questa tragedia accomuna due famiglie. In una volta sola abbiamo perduto tre generazioni», dichiara a verbale. Sottolinea quanto (lo farà ripetutamente anche l'ex moglie) ha sempre aiutato economicamente sua figlia e il marito Amit Bìran quando sei anni fa si trasferirono in Italia per studiare ed afferma che dal 2020 la coppia progettava, anzi, «sognava» di tornare in Israele dove «crescere i figli». Volere da rispettare.
   Esther Athen Cohen, 57 anni, ingegnere alla guida una società di consulenza, nell'incidente ha anche perso il padre: «Il mio mondo è andato in pezzi. Quando ti succede, non sai neanche come ricominciare a riprenderti», dice in uno dei lunghi interventi che con comprensione le concede il giudice. Anche per lei è fuori discussione che il bimbo resti in Italia. «Mìa figlia lo ha cresciuto come io ho cresciuto lei» in un «mondo ebraico ed israeliano». Deve tornare in Israele anche perché, sostiene, i genitori avevano scarsissimi rapporti con la cognata la quale, addirittura, «si vergognerebbe di essere ebrea».Aya, invece, dovrebbe vergognarsi per il padre che lei, Esther, ha visto «travestito da Babbo Natale». Ripete che il bimbo deve crescere avvolto dal loro «calore e affetto» nel «suo popolo tra israeliani e tra ebrei e non, come sta crescendo adesso, come cattolico».
   I toni di Aya Biran, psicologa al carcere di Pavia, appaiono più pacati mentre descrive come la famiglia del fratello fosse perfettamente inserita nella comunità pavese tra italiani e israeliani, così come il bambino che parla italiano, ha frequentato le materne e lunedì avrebbe affrontato il suo primo giorno alle elementari. Rivendica di seguire con il marito i precetti più importanti della religione ebraica e di aver tentato di affrontare il dopo-tragedia includendo i nonni, nell'interesse del nipotino. Il 9 agosto il giudice Fenucci rigetta le richieste dei nonni che, però, vuole siano sempre presenti nella vita di Eitan, il quale deve continuare a stare a Travacò Siccomario (Pavia) con Aya, lo zio e le due cuginette, anche perché non ci sono elementi per dire che i Biran volessero tornare in Israele. I nonni non possono fare i tutori perché non parlano italiano, non risiedono in Italia, ed Eitan deve essere curato qui, e non vivono insieme. Per lui è più adeguata una famiglia, quella degli zii. La nonna, per di più, focalizza la sua attenzione «sulla necessità di trasmettere la cultura, la religione ebraica e israeliana» che è solo «uno degli interessi» del minore. «Ciò che sorprende in senso negativo è come questa esigenza sia valutata in modo assoluto, senza considerare il complesso dei bisogni e interessi del piccolo». Invece, tutti insieme dovrebbero essere, o meglio, avrebbero dovuto essere per Eitan, afferma il giudice, «dei salvagenti, delle boe, ognuna con le sue peculiarità e caratteristiche che lo aiutino a stare a galla».

(Corriere della Sera, 17 settembre 2021)


L’auto cambiata in corsa così il nonno di Eitan ha beffato la polizia

Una vettura affrancata dai controlli satellitari, complici a Lugano e Tel Aviv Il piano di Peleg per il blitz: sfruttato un buco nel database europeo sui minori.

di Paolo Berizzi

PAVIA — Una Volkswagen Polo "affrancata" dal controllo satellitare e un jet Cessna 680 Citation Sovereign. Sono i due mezzi — entrambi a noleggio — con cui Shmuel Peleg ha prelevato il nipotino Eitan trasportandolo dalla casa di Rotta di Travacò, in provincia Pavia, a Tel Aviv. Due come i "jolly" — chiamiamoli così — che hanno permesso al nonno sequestratore di mettere a segno il suo blitz internazionale. Il primo: un decisivo cambio di auto. Il secondo: un presunto "buco" nel database europeo (SIS) dove vengono inseriti i dati delle persone segnalate dalle autorità di polizia e alle quali i doganieri —in questo caso dell’aeroporto di Lugano — possono impedire di lasciare un paese Schengen (la Svizzera). Andiamo con ordine. Le indagini condotte dalla Squadra mobile di Pavia e dallo Sco — coordinati dal procuratore Mario Venditti e dal sostituto Valentina De Stefano — stanno facendo luce su quelli che gli investigatori ritengono essere stati i passaggi cruciali del piano di Peleg. Da una parte le "sponde", e dunque gli eventuali complici che quasi certamente ci sono stati (l’altra indagata per sequestro di persona è l’ex moglie di Peleg, Esther Cohen); dall’altra, le "falle". Un combinato disposto che ha spianato la strada al nonno di Eitan. Prima via terra, poi nei cieli.
   Ricostruiamo. Si sa ora che l’uomo era tenuto d’occhio dalla polizia da molto prima dello scorso 11 settembre, giorno in cui si concretizza quello che per la Procura è un rapimento aggravato. Nel suo primo periodo italiano — dopo la strage del Mottarone — Peleg noleggia un auto. Noleggio a lungo termine. La usa per spostarsi tra Milano, dove alloggia, Torino, dove Eitan è ricoverato fino al 10 giugno all’ospedale Regina Margherita, e Rotta di Travacò, dove andrà a far visita al nipotino a casa della zia Aya Biran. Sull’auto a noleggio di Peleg la polizia ha installato un Gps. Serve a tenere l’uomo, cautelativamente, sotto controllo. Il motivo: le continue tensioni tra le due famiglie di Eitan: gli "italiani" Biran, e i Peleg israeliani. Al centro, ovviamente, la contesa per la tutela del bambino. Una situazione borderline dietro la quale il giudice tutelare di Pavia, Michela Fenucci, aveva intravisto il rischio di un colpo di mano (che poi c’è stato).
   Dopo l’ennesimo scambio di accuse, il 6 agosto, la procura decide di monitorare ancor più da vicino Shmuel Peleg: oltre al Gps sull’auto, passaggi di pattuglie. Succede però che verso fine agosto Peleg rientra qualche giorno in Israele. Prima di imbarcarsi all’aeroporto di Malpensa consegna l’auto a noleggio. Addio Gps. L’ex militare specializzato in telecomunicazioni rientra poi in Italia. E noleggia un’altra auto: una VW Polo. Non si sa come né perché, il "pedinamento" finisce qui. Una beffa? Più o meno. Gli itinerari lombardi del nonno materno — che non alloggia più nell’hotel in zona stazione Centrale a Milano —, non sono più tracciabili. È a bordo della Polo che sabato 11 settembre Peleg passa a prendere Eitan a Pavia. Ha in mano illecitamente il passaporto israeliano del bambino che avrebbe dovuto consegnare entro il 30 agosto.
   Alla dogana di Ponte Chiasso passano lisci: primo ostacolo superato. A Lugano, ad attenderli, l’aereo privato. C’è anche una donna con loro? Non è ancora escluso (e non può essere la nonna materna, rientrata il giorno prima in Israele). Ma il punto cruciale sono i controlli. «Per i minori è previsto il controllo minimo: il solo passaporto», spiegano dall’Amministrazione federale delle dogane. Già. Ma il nome di Eitan Biran doveva essere inserito nel SIS. Il bambino non poteva espatriare: ordine del giudice. Perché ha potuto salire sull’aereo?

(la Repubblica, 17 settembre 2021)


«Tutta l'Italia con il Green Pass»

E' arrivata la bufera, è arrivato il temporale...

"Via libera al decreto. Certificato obbligatorio per i lavoratori pubblici e privati, comprese colf e baby sitter. I No Vax sospesi dallo stipendio. Draghi: non mi fermo, è quello che serve al Paese". Questi alcuni dei sottotitoli all'articolo di Repubblica di cui abbiamo riportato il titolo, comparso sul giornale con caratteri che una volta si usavano per annunciare la discesa in guerra della nazione. E la cosa si addice, perché quel titolo può assumere il senso di una dichiarazione di guerra. Draghi sta acquistando giorno dopo giorno sempre più sicurezza e spavalderia. Ha assunto ormai il cipiglio del condottiero. "Il premier  tira diritto: «Le cose vanno fatte perché si devono fare non per tornaconto immediato»", si leggeva giorni fa nel  sottotitolo di un altro giornale. Notevole anche un titolo di ieri su Repubblica: "Green Pass, lite sui tamponi il no di Draghi ai sindacati. “Non possono essere gratis”. Vale la pena di riportare un brano dell'articolo:

    "A questo punto la discussione vira sul tampone. «Non siamo disposti a far pagare ai lavoratori i costi della sicurezza sul lavoro», attacca Pierpaolo Bombardieri (Uil). «I costi del tampone sono tutt’altro che calmierati: per venire qui ho speso 22 euro in farmacia ». Anche Angelo Colombini (Cisl) incalza: «I prezzi sono troppo alti, perché non sperimentiamo una gratuità finché dura l’emergenza, fino al 31 dicembre?». La reazione di Draghi è netta: «La vostra proposta è inopportuna, non è questo il momento di sperimentare, ma di spingere la vaccinazione."

La vostra proposta è inopportuna", così risponde il capo del governo ai sindacati. Che è come dire: "Come vi siete permessi di fare una simile domanda? Non sono io che devo dare risposte a voi, siete voi che non dovete osare fare certe domande a me". Reagire in questa forma ad una motivata richiesta sindacale, una volta sarebbe stato non solo inaccettabile, ma neppure concepibile. E venire a sapere che il segretario di quello che una volta fu il partito dei lavoratori, il PD, è uno dei più accesi sostenitori di questo governo, fa capire quanto sia grande e radicale il cambiamento che sta avvenendo oggi nella nostra società. Ormai dovrebbe essere chiaro: la spinta ricattatoria alla vaccinazione fatta con l'arma minacciosa del Green Pass non ha motivazioni sanitarie, ma puramente politiche. Ed è una politica che ha come scopo ultimo non la vittoria sulla pandemia, ma la sua strumentalizzazione fino ai limiti del possibile. Cosa che Draghi mostra di saper fare alla perfezione. E' guerra. Guerra dell'Europa finanziaria, che nell'ex Presidente della Banca Centrale Europea ha un esponente di spicco, contro la Nazione Italia. Si era detto e temuto che le imposizioni sanitarie avrebbero potuto portare ad un regime totalitario. Bene, non ci siamo ancora del tutto, ma siamo ben avviati. Passo dopo passo, il condottiero salito in sella sa come si devono addomesticare i cavalli riottosi: è già riuscito a mettere le briglie al cavallo e adesso le sta aggiustando. Il resto arriverà in seguito. Aspettiamocelo.



Quando scende in ciel la sera
Ed infuria la bufera
Più non canta capinera,
è finita primavera,
vi saluta e se ne va...
L'acqua scende e bagna tutti,
siano belli siano brutti,
siano grandi oppur piccini,
metà prezzo ai militar...
Con l'acqua che scende, che scroscia e che va,
pierino in angosce calosce non ha...
È arrivata la bufera,
è arrivato il temporale,
chi sta bene e chi sta male,
e chi sta come gli par...


Nella notte profonda,
sembra che uno glielo avesse detto, e invece non glielo aveva detto
che poi anche se glielo avesse detto quello lì non ci sentiva
sai come succede in queste cose qua...
È arrivata la bufera
È arrivato il temporale
Senza pepe senza sale
La minestra non si fa...


SECONDA STROFA
Nel suo morbido lettino,
dorme placido pierino
e suo zio ch'è di Voghera
sta danzando l'habanera mentre infuria il temporal
il suo babbo è minatore
e ogni dì gli batte il cuore
ma se un dì non batterà
quasi certamente, forse chi sa, può darsi che morirà...
È arrivata la bufera
È arrivato il temporale
Chi sta bene e chi sta male
E chi sta come gli par...


Un uomo si scuote,
fa un salto mortale
Il padre lo bacia,
lo bacia suo padre,
gli dà un altro bacio
e una scarpa sul naso
e poi un altro bacio,
poi ci ripensa e gli dà un'altra scarpa sul naso
e poi se ne va...
È arrivata la bufera
È arrivato il temporale
Chi sta bene e chi sta male,
e chi sta come gli par....

E' arrivata la bufera
La vecchiaia ha molti svantaggi, ma anche qualche vantaggio: un'enciclopedia di esperienze e ricordi che non si possono acquistare in commercio, neanche via amazon. Ricordo allora una trasmissione televisiva degli anni '50 in cui Renato Rascel presentava ed eseguiva una sua canzone scritta nel 1939: "E' arrivata la bufera". Rascel ha spiegato di aver tratto spunto da una sua conversazione con il gerarca fascista Italo Balbo che in quel tempo era Governatore  della Libia, dove era stato mandato perché non era allineato con le intenzioni di Mussolini. Gli aveva chiesto, interpretando le preoccupazioni di tutti gli italiani in quel momento: "Eccellenza, ma allora andremo in guerra anche noi?" Balbo rispose con il suo tipico accento emiliano: "Mo senta mo bene Rassel, come vuole che entriamo in guerra se non abbiamo nemmeno... " e lì si mise ad elencare quello che mancava all'esercito italiano per poter entrare in guerra". Rascel ne fu rincuorato: "Certo, se lo dice Lei, Eccellenza... grazie!" Quando pochi mesi dopo sentì che Mussolini aveva dichiarato guerra a Gran Bretagna e Francia, capì che una bufera si stava addensando sulla sua nazione. E non potendo esternare pubblicamente i suoi timori, scelse la via che gli era congeniale: una canzone che si presentava come spiritosa, ma aveva anche un senso velato che qualcuno avrebbe potuto capire. La cantò anche in un teatro di Roma nel periodo in cui c'erano i nazisti. Il pubblico rimase quasi in silenzio. Poiché la canzone si presentava come allegra e spiritosa, dopo lo spettacolo un militare tedesco presente in sala gli chiese: "Come mai non hanno riso". "Beh, forse non l'hanno capita", fu la risposta di Rascel. E invece evidentemente l'avevano capita.
Ci vorrebbe anche oggi un Rascel che annunci, anche se solo in forma artistica, che la bufera si sta avvicinando. Ma se lo facesse, quanti lo capirebbero? M.C.

(Notizie su Israele, 17 settembre 2021)


Nove aziende israeliane aiutano a combattere la crisi climatica

di Michelle Zarfati

Il mondo si trova da tempo a fronteggiare l’emergenza climatica e l’impatto che questa ha sul nostro pianeta.  Queste 9 aziende israeliane stanno contribuendo a rendere il mondo un posto migliore, concentrando i loro sforzi su nuove tecnologie e servizi progettati per combattere la crisi climatica. Lo riporta la rivista israeliana Calcalistech. Aziende pronte a combattere per il pianeta, spesso nate da idee diverse, o con scopi differenti ma che contribuiscono sinergicamente ad affrontare una delle sfide più ardue dei nostri tempi.
  Didi Horn, CEO di SkyX, , ha deciso di fondare l'azienda nel 2016, dopo essere aver assistito a molti disastri ecologici in tutto il mondo. Quando si è reso conto che non c'era una soluzione tangibile alle fuoriuscite di petrolio, ha deciso che avrebbe potuto sviluppare un prodotto in grado di aiutare a risolvere il problema e prevenire ulteriori disastri ecologici. La soluzione di SkyX, si basa su droni che rilevano problemi con oleodotti in luoghi non raggiungibili in tutto il mondo, e grazie alla loro capacità di rimanere in aria per diverse ore, a differenza di altri droni, sono in grado di affrontare i problemi in modo efficace e ottimale. Un drone dotato di una tecnologia unica nel campo dell'elaborazione delle immagini e dell'analisi dei dati.
  Tomorrow.io è un’azienda che aiuta paesi, aziende e individui ad affrontare le sfide della sicurezza climatica e aiuta a prendere decisioni relative a eventi meteorologici estremi. L'azienda fornisce ai propri clienti informazioni e consigli che aiuteranno le aziende a evitare danni e interruzioni, risparmiando milioni di dollari grazie alla loro tecnologia. Tra i suoi clienti troviamo artisti del calibro di Uber, Delta, Ford, Via, Facebook e altri. I fondatori: Shimon Elkabetz, Rei Goffer, e Itai Zlotnik hanno attualmente più di 160 dipendenti.
  Razor Labs (TASE: RZR) è ormai leader del settore per quanto riguarda l’intelligenza artificiale. Il suo prodotto di punta, DataMind AI, è un prodotto basato su dati SaaS che trasforma macchinari industriali pesanti in macchine intelligenti.  DataMind AI ottimizza i processi di produzione, prevede in anticipo i malfunzionamenti e segnala le esigenze di manutenzione. Razor Labs è una società quotata alla Borsa di Tel Aviv.
  La tecnologia di SeeTree ha sviluppato una rete di droni, algoritmi di apprendimento automatico e una tecnologia sensoriale per fornire agli agricoltori informazioni utili per aiutarli nel loro lavoro, specialmente per quanto riguarda i raccolti. La piattaforma di SeeTree consente agli agricoltori di prendere decisioni basate su piccoli e grandi dati che collegano le loro azioni a risultati reali ottenuti sul campo. Così SeeTree aiuta a risparmiare acqua, tempo, denaro ed energia. 
  La piattaforma IoT di Augury monitora lo stato meccanico delle macchine industriali tramite una rete di sensori che misurano vibrazioni, temperature e altro. I dati vengono continuamente raccolti e caricati su un cloud dove vengono analizzati con algoritmi che combinano modelli meccanici e operativi. L'analisi sul cloud confronta i dati attuali con quanto precedentemente raccolto dalle stesse macchine, oltre a decine di migliaia di macchine simili, e riconosce schemi di comportamento irregolari che potrebbero indicare un malfunzionamento. Il sistema consiglia inoltre il modo migliore per risolvere il problema.
  Grid4C utilizza l'intelligenza artificiale e l'apprendimento automatico per fornire analisi predittive. Ciò significa che l'azienda analizza i dati di milioni di contatori intelligenti insieme ai dati dei clienti, ai dati meteorologici e altro ancora, per assicurarsi che gli utenti e i fornitori di energia possano beneficiare di approfondimenti e previsioni.
  Simpliigood si occupa invece di raccogliere spirulina fresca nell'arida regione desertica di Arava all'interno di serre appositamente attrezzate. La Spirulina aiuta a regolare i livelli di colesterolo, aiuta il sistema immunitario ed è antinfiammatoria. Simpliigood non utilizza pesticidi e i suoi prodotti assorbono l'anidride carbonica dall'aria, sono trattati con il 98% di acqua riciclata e hanno zero sottoprodotti di scarto. "Ciò che mi spinge ogni mattina a fare ciò che faccio in Simpliigood è l'idea di lasciare il mondo un posto migliore per i miei figli e per le generazioni future. Coltiviamo la spirulina, che è in realtà la proteina più efficiente che si trova oggi in natura, e stiamo essenzialmente trasformando i raggi del sole in una proteina completa", ha spiegato Lior Shalev, CEO di Simpliigood. 
  Windward è un'azienda che si occupa di intelligence predittiva, che fonde AI e big data per digitalizzare l'industria marittima globale e consentire alle organizzazioni di raggiungere la prontezza aziendale e operativa. La soluzione, basata sull'intelligenza artificiale di Windward, consente alle parti interessate (incluse banche, commercianti di materie prime, assicuratori e le principali compagnie energetiche e di navigazione) di prendere decisioni e previsioni basate sull'intelligence in tempo reale. Questa infrastruttura intelligente offre una visione a 360° dell'ecosistema marittimo e del suo più ampio impatto su sicurezza, protezione, finanza e affari.
  Fondata nel 2013 e precedentemente nota come Utilis, ASTERRA è leader mondiale nell'intelligence dell'infrastruttura basata su satellite SAR. Il metodo brevettato dell'azienda per il rilevamento dei tipi di umidità del suolo sottoterra porta sul mercato un prodotto unico nel suo genere, risparmiando miliardi di litri di acqua in tutto il mondo. Utilizzando le immagini SAR, ASTERRA rileva i "punti di interesse" - potenziali fonti di perdite d'acqua, nonché accumuli di acqua che potrebbero causare danni a infrastrutture come ferrovie e dighe.

(Shalom, 15 settembre 2021)


Yom Kippur e Sukkòt, il mondo ebraico in festa e preghiera

Oggi è il giorno più sacro e solenne del calendario ebraico, mentre da lunedì 20 inizierà la festa delle capanne

«Il calendario ebraico è luni-solare: le feste, i giorni, i mesi e gli anni si basano sul tempo impiegato dalla luna per la sua rivoluzione attorno alla Terra, le stagioni sul tempo impiegato dalla Terra per la sua orbita intorno al Sole. Anno lunare e solare differiscono di circa dieci giorni. Per recuperarli, furono creati alcuni anni embolistici, con 13 e non 12 mesi», ricorda il sito itinerariebraici.it.
Oggi 16 settembre, il dieci del mese di Tishrì viene celebrato lo Yom Kippur, il giorno più sacro e solenne del calendario ebraico.
Un giorno interamente dedicato alla preghiera e alla penitenza e che «vuole l’ebreo, consapevole dei propri peccati, chiedere perdono al Signore». È il giorno in cui secondo la tradizione: «Dio suggella il suo giudizio verso il singolo». « […] Prima di Kippur devono essere stati saldati i debiti morali e materiali che si hanno verso gli altri uomini. Si deve chiedere personalmente perdono a coloro che si è offesi: a Dio per le trasgressioni compiute verso di Lui, mentre quelle compiute verso gli altri uomini vanno personalmente risarcite e sanate», si legge sul sito dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei).
A partire dal 20 settembre sarà invece la Festa di Sukkòt, detta anche «Festa delle capanne».
Sono appunto le capanne a caratterizzare questa ricorrenza gioiosa che ricorda la permanenza degli ebrei nel deserto dopo la liberazione dalla schiavitù dall’Egitto: quaranta anni in cui abitarono in dimore precarie, accompagnati però, secondo la tradizione, da «nubi di gloria».
  «Nella Torà – sempre sul sito dell’Ucei –  (Levitico, 23, 41-43) infatti troviamo scritto: “E celebrerete questa ricorrenza come festa in onore del Signore per sette giorni all’anno; legge per tutti i tempi, per tutte le vostre generazioni: la festeggerete nel settimo mese. Nelle capanne risiederete per sette giorni; ogni cittadino in Israele risieda nelle capanne, affinché sappiano le vostre generazioni che in capanne ho fatto stare i figli di Israele quando li ho tratti dalla terra d’Egitto”. La festa delle capanne è una delle tre feste di pellegrinaggio prescritte nella Torà, feste durante le quali gli ebrei dovevano recarsi al Santuario a Gerusalemme, fino a quando esso non fu distrutto dalle armate di Tito nel II secolo e.v. Altri nomi della festa sono “Festa del raccolto” e anche “Festa della nostra gioia”, poiché cade proprio in coincidenza con la fine del raccolto quando si svolgevano grandi manifestazioni di gioia. Questa festa è detta anche “festa dei tabernacoli” e il precetto che la caratterizza è proprio quello di abitare in capanne durante tutti i giorni della festa. Se a causa del clima o di altri motivi non si può dimorare nelle capanne, vi si devono almeno consumare i pasti principali.
  La capanna deve avere delle dimensioni particolari e come tetto del fogliame piuttosto rado, in modo che ci sia più ombra che luce e dal quale si possano vedere le stelle. Si usa adornare la sukkà con frutta, fiori, disegni. La capanna dev’essere costruita sotto il cielo così che chi vi risiede possa avere la mente e lo spirito rivolti verso l’alto. Una giornata vissuta e condivisa nello spazio pubblico grazie alla realizzazione e alla costruzione di capanne nei quartieri maggiormente abitati dalle comunità ebraiche. Gli eventi principali si tengono davanti alle sinagoghe delle piccole e grandi città.
  E si costruirà una capanna particolare nel giardino del Museo di Ferrara  che a cielo aperto vedrà decine di ospiti prestigiosi (dal 23 al 26 settembre) alternarsi per omaggiare la cultura ebraica: dallo scrittore israeliano Eshkol Nevo, al professore emerito Luciano Canfora, dal politico ed economista Romano Prodi, agli scrittori Igiaba Scego e Alessandro Piperno e Edith Bruck e Elena Loewenthal. Torna infatti (inaugurata dalla presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche Noemi Di Segni), la XII edizione della Festa del Libro Ebraico, uno dei principali eventi culturali ideato e organizzato dal Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-Meis di Ferrara.

(Riforma.it, 16 settembre 2021)


Minacce alla sinagoga di Hagen. Arrestate quattro persone, tra cui un 16enne siriano

La polizia di Hannover ha reso noto che i fermi sono avvenuti nell'ambito delle indagini sulla preparazione di un attentato con esplosivo alla sinagoga di Hagen, nel Land tedesco del Nordreno-Vestfalia

La polizia tedesca è intervenuta in maniera massiccia per fronteggiare la minaccia contro la sinagoga della città di Hagen, nel Nord Reno Westfalia. Tutto si è consumato a ridosso della cerimonia per la festività ebraica dello Yom Kippur, celebrazione sospesa per precauzione.
  La polizia di Hannover ha reso noto su Twitter che "complessivamente sono quattro i fermi "avvenuti finora nell'ambito delle indagini sulla preparazione di un attentato con esplosivo alla sinagoga.  Fra questi anche un giovane siriano.
  Gli inquirenti parlano anche di perquisizioni in corso. In base a indizi su una"possibile situazione di pericolo", ieri sera era stata disdetta la preghiera dello Yom Kippur e le forze dell'ordine si erano mobilitate attorno all'edificio in un'operazione durata fino a tarda notte. 
  Dopo una serie di indiscrezioni che facevano trapelare un nulla di fatto, è stato il Ministro dell'Interno del Land - secondo quanto riferiscono Dpa (Deutsche Presse-Agentur) e Der Spiegel - ad annunciare l'arresto di un 16enne siriano sospettato di voler attaccare la sinagoga con dell'esplosivo.
  La polizia nella città tedesca di Hagen ha "presumibilmente sventato" un attacco contro la sinagoga. Ad annunciarlo è stato il ministro dell'Interno del Land, Herbert Reul.
  Le operazioni di controllo si sono concluse in mattinata, con la presenza delle forze dell'ordine ridotta e con le autorità che hanno mantenuto il massimo riserbo - per motivi di sicurezza - sulla perquisizione del complesso e di un ambulatorio di un medico nelle vicinanze. Diversi agenti armati sono comunque rimasti sul posto: il quotidiano 'Westfalenpost' ha riferito che al culmine dell'operazione centinaia di poliziotti erano presenti nella zona. 
  Il sindaco di Hagen, Erik Schulz, ha assicurato alla comunità ebraica la sua solidarietà di fronte alla minaccia. "Per quanto poco sappiamo della situazione esatta, i nostri pensieri sono con la comunità ebraica di Hagen", ha detto al Westfalenpost. Due anni fa un estremista di destra tentò di irrompere con la forza in una sinagoga ad Halle, in Sassonia-Anhalt dove si stava per celebrare una cerimonia per lo Yom Kippur. Non riuscendo a sfondare il portone di ingresso e compiere la strage che aveva programmato, uccise due passanti e ne ferì altri due. È stato condannato all'ergastolo.

(RaiNews, 16 settembre 2021)


Lo zio di Eitan: «Vado a riprenderlo»

Lo scontro tra Italia e Israele per il superstite del Mottarone. I parenti pronti a partire e a «trattare» col nonno che lo ha rapito. L'ambasciatore: «L'evento più difficile che ho vissuto».

Andremo in Israele ma non vi dico la data», anche se la partenza della famiglia Biran per Tel Aviv sembra imminente. A parlare è Or Nirko, determinato più che mai a riportare a casa suo nipote Eitan - 6 anni, unico superstite della strage del Mottarone e sottratto alla sua tutrice dal nonno materno, che sabato scorso lo ha portato con sé a Tel Aviv a insaputa dei parenti paterni.
   «C'è la possibilità - ha dichiarato Nirko ieri - che Aya (sua moglie, zia paterna di Eitan, nda) possa vedere il bambino. Abbiamo fatto richiesta, tramite i legali israeliani, per arrivare a interloquire anche con i politici».
   È un punto di svolta nell'intricata vicenda che vede contrapposti i due rami della famiglia è arrivato martedì sera, quando la polizia israeliana ha posto agli arresti domiciliari Shmuel Peleg (nonno materno di Eitan), dopo averlo interrogato in merito al presunto rapimento del nipote.
   La linea dei Biran - Nirko, legali affidatari del piccolo, è chiara: in occasione dell'udienza del 29 settembre presso il Tribunale di Tel Aviv il ramo paterno della famiglia chiederà «l'immediata restituzione di Eitan. Questo - ha dichiarato ieri Shmuel Moran, legale in Israele dei Biran - è un sequestro, un rapimento dall'Italia, contro la legge italiana, contro la legge civile, contro le decisioni del tribunale italiano, contro la legge criminale. Il bambino deve essere restituito all'Italia il prima possibile».

• TRIBUNALE ITALIANO
  Ciononostante, a detta del ramo paterno della famiglia la decisione deve spettare al Tribunale italiano «perché il centro della sua vita è l'Italia. Eitan - ha dichiarato lo zio paterno - parla molto meglio l'italiano dell'ebraico e i suoi ricordi di Israele sono quelli relativi alle vacanze».
   Un altro passo in avanti potrebbe arrivare dalle autorità israeliane: secondo quanto riportato ieri dall'agenzia Ansa, il governo Bennett avrebbe risposto a una nota verbale inviata dal ministero degli Esteri italiano giorni fa, confermando che Eitan Biran è arrivato nel loro paese l'11 settembre e che «Israele agirà in cooperazione con l'Italia, per il bene del minore». Le autorità italiane starebbero «seguendo il caso e gestiranno qualunque richiesta, pervenuta attraverso i canali appropriati, in conformità della legge e dei trattati internazionali pertinenti».
   Nella serata di martedì, inoltre, gli zii paterni hanno potuto parlare al telefono con il bambino: un breve colloquio che preferiscono tenere riservato. A dispetto di quanto dichiarato nei giorni precedenti, i Biran si sono persino detti disposti a dialogare con i Peleg, per arrivare a un accordo che preveda il rientro in Italia di Eitan.

• I PERMESSI
  Entrando nel merito dell'operazione che ha portato al trasferimento del bambino da Pavia a Tel Aviv, secondo Or Nirko «il ruolo della nonna materna (anch'essa indagata per sequestro di persona aggravato come l'ex marito Shmuel Peleg, nda) è importante», ma i due «hanno avuto tanti complici che gli hanno dato una mano», anche perché «partire dall'aeroporto di Lugano non è semplice, richiede permessi specifici occorre essere dei vip».
   Sul fronte opposto, i legali di Shmuel Peleg (che secondo alcune indiscrezioni potrebbe essere liberato su cauzione prima di domani) hanno fatto riferimento a un presunto errore giudiziario, sostenendo che ai Peleg non siano mai stati notificati né il divieto di espatrio né tutti i provvedimenti relativi alla vicenda dal 10 agosto in poi.
   Intervenuto nel corso della puntata di Porta a Porta di ieri sera, l'ambasciatore di Israele a Roma Dror Eydar ha dichiarato che la vicenda legata al piccolo Eitan è «l'evento più difficile che ho vissuto da ambasciatore, e lo porterò con me per tutta la vita. Seguiamo e assistiamo per quanto possibile le autorità competenti in Israele e in Italia, in conformità con la legge e le convenzioni internazionali, inclusa la Convenzione dell' Aja, per il bene del bambino».

Libero, 16 settembre 2021)


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Hotel, spostamenti, appoggi. I mesi del nonno in Italia prima del sequestro di Eitan

L'inchiesta di Pavia. La Farnesina: contiamo che Israele collabori. È in corso l'acquisizione dei tabulati dei telefoni di Shmuel Peleg e della ex moglie.

di Giuseppe Guastella

MILANO - Come si è mosso Shmuel Peleg dal 24 maggio, quando si precipitò in Italia per lo strazio di riconoscere i corpi dei suoi familiari morti il giorno prima nella tragedia del Mottarone, fino a sabato scorso, quando ha rapito il nipotino di 6 anni per portarlo con sé in Israele? Accertarlo è l'obiettivo delle indagini della Procura di Pavia, assieme a quello di scoprire le complicità che potrebbero avergli consentito di arrivare indisturbato fino all'aereo privato decollato dalla pista dell'aeroporto di Lugano per Tel Aviv. I risultati degli accertamenti potrebbero presto dare una svolta decisiva all'inchiesta diretta dal procuratore facente funzioni Mario Venditti e dal sostituto Valentina De Stefano.
   Da quel tremendo giorno, Peleg, tenente colonnello in pensione dell'esercito israeliano, è stato sempre in Italia, tranne alcuni giorni intorno al 27 e 28 maggio quando è dovuto tornare in patria per i funerali della figlia Tal, del genero Amit Biran (genitori di Eitan), del nipotino Mosche Tom di appena due anni (l'altro figlio della coppia) e degli ex suoceri, tutti morti nello schianto della funivia costò la vita a 14 persone e nel quale Eitan si salvò grazie al padre che gli fece scudo con il proprio corpo. La polizia sta acquisendo la documentazione sulla presenza del 58enne in un albergo nei pressi della Stazione Centrale di Milano pare frequentato da personaggi legati ai servizi segreti e nel quale Shmuel Peleg ha soggiornato per circa un mese prima di trasferirsi in un bed&breakfast. Sono in corso le acquisizioni anche dei tabulati dei telefonini dell'uomo e della ex moglie Esther Athen Coen, 57 anni, che più volte è stata in Italia dopo la tragedia ed è indagata con Peleg per sequestro di persona aggravato. E' sospettata di aver partecipato all'organizzazione del rapimento, ma i pm stanno accertando se abbia viaggiato anche lei fino in Svizzera con Peleg e il nipotino da Travacò Siccomario (Pavia) dove, alle 11 e 30 di sabato mattina, il bambino è stato prelevato dal nonno per uno dei consueti incontri autorizzati dal giudice tutelare. Ci sono poi da esaminare le immagini delle telecamere di sorveglianza dei tratti autostradali fino al confine con la Svizzera e i dati dei passaggi ai caselli.
   Sono due, però, le questioni cruciali alle quali l'inchiesta vuole trovare una spiegazione definitiva. Shmuel Peleg aveva il passaporto israeliano di Eitan che non aveva riconsegnato alla zia Aya, tutrice del piccolo, nonostante l'invito che gli aveva fatto formalmente il giudice tutelare di Pavia Michela Fenucci. Con quel documento, prima questione, è riuscito a varcare senza problemi la dogana assieme al nipote, probabilmente quella di Chiasso, e ad imbarcarsi sul volo per Tel Aviv senza che nessuno lo bloccasse, come sarebbe dovuto avvenire (oltretutto il solo passaporto non basta a far espatriare un minore in mancanza di un documento che attesti che il maggiorenne che lo accompagna è espressamente autorizzato a portarlo con sé). Ma soprattutto, seconda questione, come ci è riuscito visto che era in vigore uno specifico divieto di espatrio per Eitan Biran diramato in tutti i Paesi del trattato di Schengen e in Svizzera dopo che la Procura aveva allertato Questura e Prefettura di Pavia temendo che Shmuel Peleg e l'ex moglie potessero tentare di trasferire il bambino in Israele, visto che nelle tumultuose udienze di fronte al giudice tutelare avevano espresso il desiderio che il nipote crescesse con loro in patria.
   Martedì scorso la Polizia israeliana ha ordinato a Peleg di non lasciare l'abitazione in attesa di chiarire la sua posizione. Intanto, in una nota all'ambasciata a Roma, il ministero degli Esteri scrive di contare «sulla collaborazione di Israele per una soluzione concordata della vicenda, nell'interesse superiore del minore». Immediata la risposta israeliana: «Agiremo in cooperazione con l'Italia».

(Corriere della Sera, 16 settembre 2021)


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"Questione di eredità". Il pesantissimo sospetto: cosa c'è dietro la "guerra d'Israele" tra i familiari?

Dietro alla lotta senza esclusione di colpi tra i familiari di Eitan Biran ci sarebbe una squallida questione di soldi, una guerra per mettere le mani sull'eredità che spetta al bimbo di 6 anni rimasto orfano di entrambi i genitori nel tragico incidente della funivia Stresa-Mottarone, lo scorso maggio. Una sciagura in cui perse la vita anche il fratellino del bimbo, di soli 2 anni, e i bisnonni. Oggi Eitan è in Israele, dopo essere stato "rapito" con un autentico blitz a Pavia dal nonno materno Shmuel Peleg, indagato ufficialmente per sequestro di persona e intenzionato a far crescere il nipote in Israele, secondo le tradizioni ebraiche, "come desiderato dalla mamma". Il ramo paterno, con la zia Aya Biran riconosciuta come tutrice legale del piccolo, sta facendo di tutto per riportarlo in Italia, dov'è nato e cresciuto.
  "Andremo in Israele e sarebbe bello poter tornare con Eitan", ha spiegato Or Nirko, zio paterno di Eitan, che avrebbe già fissato  un volo per Tel Aviv. Il 29 settembre è stata fissata un'udienza per l'affidamento del bambino. "Speriamo di poter vedere il bambino in Israele - ha sottolineato lo zio al Quotidiano nazionale -, noi lo abbiamo chiesto tramite i legali, per arrivare a interloquire anche con politici". Il caso da privato è diventato velocemente diplomatico. L'Italia, secondo quanto riportato da una nota verbale inviata dal nostro Ministero degli Esteri all'ambasciata israeliana a Roma, "conta sulla collaborazione di Israele per una soluzione concordata della vicenda, nell'interesse superiore del minore".
  Aya ha visto Eitan in videochiamata, i nonni materni  l'hanno invitata in Israele per un confronto. Ma nei rapporti tra i due rami della famiglia, scrive sempre il Quotidiano nazionale, "si insinuano anche precedenti dissidi tra i Peleg e i Cohen". Secondo la zia Aya, "sia il nonno materno Shmuel Peleg, che la ex moglie Esther Cohen, entrambi indagati dalla procura di Pavia per il presunto sequestro aggravato dalla minore età della vittima, non sarebbero mai venuti in Italia a trovare la figlia Tal Peleg e il nipotino Eitan prima della tragedia del Mottarone", dov'è morto anche il bisnonno materno Itshak Cohen, "particolarmente legato" alla nipote. "E forse proprio a lei potrebbe aver lasciato in eredità una parte prevalente del suo ingente patrimonio, per il quale l'orfano Eitan sarebbe il primo in discendenza diretta per l'eredità", conclude il Quotidiano nazionale alimentando un nuovo, tristissimo dubbio in una storia già di per sé terribile. 

Libero, 16 settembre 2021)


La soluzione a due stati è praticabile? No, risponde chi odia Israele

Quelli che non credono più alla soluzione a due stati sono coloro che probabilmente non l’hanno mai voluta (perché non tollerano che esista uno stato ebraico).

Alla fine di agosto la rivista Foreign Affairs ha pubblicato un sondaggio tra 64 “esperti”, interpellati circa la loro opinione sulla possibilità che una soluzione a due stati per Israele e Palestina sia ancora praticabile. Agli esperti è stato chiesto di scegliere tra cinque possibili risposte (molto d’accordo, d’accordo, neutrale, in disaccordo, molto in disaccordo) rispetto alla seguente affermazione: “La soluzione a due stati al conflitto israelo-palestinese non è più praticabile”. Venticinque intervistati si sono detti d’accordo o molto d’accordo, mentre 32 si sono dichiarati in disaccordo o molto in disaccordo. Sette si sono definiti neutrali....

(israele.net, 15 settembre 2021)


Gerusalemme, rinvenuto peso usato 2700 anni fa per frodare nel commercio

di Ilaria Ester Ramazzotti

Non avere due pesi diversi nella tua borsa: uno pesante e uno leggero – recita il versetto 25: 13-16 del Deuteronomio -. Non avere in casa due misure diverse, una grande e una piccola. Devi avere pesi e misure precisi e onesti, affinché tu possa vivere a lungo nel paese che il Signore tuo D-o ti dà. Poiché il Signore tuo D-o detesta chi fa queste cose, chi agisce in modo disonesto”. Un’altra citazione tratta da Proverbi 20:23 dice: “Il Signore detesta i pesi diversi e le bilance disoneste non gli piacciono”. Sono solo due delle citazioni bibliche che riguardano il reato di truffa attraverso misure e pesi falsati. 
   “La Bibbia indica che il problema dell’inganno legato al peso non è una novità. [Taluni] commercianti imbrogliavano e tenevano separati pesi [da bilancia] pesanti e leggeri, usandoli quando acquistavano o vendevano”. A spiegarlo sono gli archeologi Eli Shukron e Hagai Cohen Kolonimus dell’Università Ebraica di Gerusalemme, riportati da JewishPress.com. L’occasione è stata data dal raro ritrovamento archeologico di un antico peso da bilancia, risalente al periodo del Primo Tempio (589 a.C.), avvenuto nella Città di Davide nella Città Vecchia di Gerusalemme. Shukron, che ha condotto lo scavo, ha comunicato che si tratta di un peso falsato, utilizzato per frodare nel commercio
   L’antico peso calcareo, secondo una unità di misura dell’epoca, dovrebbe infatti pesare due gerah, pari a 0,944 grammi. Lo dichiarano due segni lineari e paralleli incisi sulla sua superficie tondeggiante, ancora ben visibili. Ma i ricercatori, strumenti alla mano, hanno scoperto che il suo peso reale ammonta a più di tre volte tanto: 3,61 grammi.
   A rendere ancora più prezioso il ritrovamento del peso, è la circostanza che si tratta solo del secondo pezzo del suo genere rinvenuto in Israele.

(Bet Magazine Mosaico, 15 settembre 2021)


Eitan, si muove Israele il nonno ai domiciliari. L’ex moglie indagata in Italia

Shmuel Peleg interrogato, poi scatta il ritiro del passaporto e l’obbligo di dimora L’istanza della zia da Pavia per attivare la convenzione dell’Aja

di Sharon Nizza

TEL AVIV — Al quarto giorno in cui il piccolo Eitan si trova in Israele — "rapito" o "salvato" a seconda delle versioni dei due rami familiari che se lo contendono — le autorità giudiziarie cominciano ad attivarsi. Il nonno Shmuel Peleg, che sabato ha sfruttato la visita di routine per condurre il nipotino in Israele, prelevandolo alla custodia della zia paterna Aya Biran, è stato interrogato ieri dalla polizia di Tel Aviv in seguito alla denuncia per sequestro di minore presentata domenica in Israele dal fratello di Aya, Hagai Biran. Rilasciato con "misure restrittive" fino a venerdì, passaporto trattenuto e obbligo di dimora nella sua abitazione di Petah Tikva, potrà uscire per andare in sinagoga (stasera inizia il giorno del Kippur, una delle date più solenni del calendario ebraico). Non è stato emesso un ordine restrittivo nei confronti di Eitan, «che può stare con il nonno», specifica Gadi Solomon, un portavoce della famiglia, che aggiunge: «il trasferimento di Eitan in Israele è avvenuto in maniera legale e dopo consultazioni con esperti di diritto». Non risulta invece iscritta nel registro degli indagati la nonna Etty Cohen (ex moglie di Peleg), diversamente da quanto stabilito dalla procura di Pavia che la reputa complice del sequestro di minore. Cohen era in Italia sicuramente fino a venerdì e in un’intervista rilasciata lunedì mattina alla radio israeliana 103 ha affermato «di essere appena rientrata dall’estero» e di non conoscere i dettagli della vicenda. Sempre sul fronte italiano delle indagini, emerge che a metà agosto la giudice tutelare Michela Fenucci ha sporto denuncia alla procura perché aveva chiesto al nonno materno il passaporto del piccolo, che non l’aveva restituito: in seguito alla denuncia la procura aveva chiesto alla polizia di tenere d’occhio Shmuel.
   La polizia israeliana, secondo l’emittente israeliana Kan 11,è orientata a considerare il caso «una vicenda civile più che penale», che verrà gestita dal Tribunale per le questioni familiari di Tel Aviv. È in questo foro che ieri mattina l’avvocato Shmuel Moran ha intentato, a nome di Aya, la causa per la restituzione del minore rapito ai sensi della Convenzione dell’Aja. Causa presentata in parallelo anche presso il tribunale di Pavia, che attiverà i canali istituzionali tramite i ministeri della Giustizia dei due Paesi. «Aya è in procinto di arrivare in Israele per assistere alle udienze — che dovrebbero iniziare entro 15 giorni — e chiederemo che le venga affidata la custodia del bambino anche durante il processo », dice l’avvocato Moran a Repubblica.
   Resta l’incognita su dove alloggi Eitan, che avrebbe dovuto iniziare la prima elementare in questi giorni. La famiglia Peleg continua a tenersi lontana dai riflettori, un silenzio stampa imposto in questi giorni dai due assi assoldati dalla famiglia: Ronen Tzur, stratega politico che ha gestito tra l’altro le campagne elettorali dell’attuale ministro della Difesa Benny Gantz, e l’avvocato Boaz Ben Tzur, tra i cui clienti compare anche l’ex premier Benjamin Netanyahu.
   Con un’unica breccia finora: in una breve intervista concessa al canale Kan 11, lo zio materno, Guy Peleg, continua a sostenere che «Eitan è stato salvato, portato a casa come avrebbero voluto i suoi genitori che programmavano di tornare a vivere in Israele». Una foto lo ritrae mentre si fa un selfie con il nipotino sorridente durante i controlli medici all’Ospedale Sheba domenica. «Eitan qui è felice. Vado a dormire con lui tutte le notti e si addormenta con il sorriso», dice lo zio, che sostiene che la famiglia Biran «è invitata a venire a trovarlo». Eppure, una semplice telefonata tra Eitan e Aya che si sarebbe dovuta svolgere ieri, su proposta della stessa famiglia Peleg, non è mai avvenuta.

(la Repubblica, 15 settembre 2021)


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Gli zii pronti a partire per Israele. ''Adesso andiamo a riprendercelo"

La famiglia paterna che vive a Pavia presenta istanza alla Corte di Tel Aviv denunciando il rapimento del minore "Non ci fermeremo fino a quando il bambino tornerà a casa in Italia e i responsabili del gesto verranno condannati".

I parenti affidatari "Non abbiamo notizie forse lo tengono nascosto in un buco" "Ci hanno scritto pochi messaggi, alle nostre domande non hanno più risposto"

di Niccolò Zancan

PAVIA - «E' solo un inizio. Ma è un buon inizio». La notizia arriva all'ora dei telegiornali della sera. Il nonno che ha rapito Eitan Biran, il signor Shmuel Peleg, è agli arresti domiciliari nella sua casa di Tel Aviv. Nel pomeriggio è stato interrogato dalla polizia israeliana. Quello che aveva cercato di descrivere come un viaggio «fatto d'impulso per il bene del bambino» è stato invece ritenuto un comportamento criminale. Lo stesso tipo di reato ipotizzato dagli investigatori italiani: rapimento di minore. Nelle campagne intorno a Pavia, dentro a una villetta nel piccolo comune di Travacò Siccomario, la famiglia affidataria riceve una telefonata dietro l'altra. Gli zii Aya Biran e Or Nirko rispondono a tutti con gentilezza, anche se sono stravolti. E il primo momento buono dopo quattro giorni da incubo.
   «E un buon inizio. Ma la fine di questa storia sarà soltanto quando Eitan tornerà a casa in Italia e quando tutti i responsabili del rapimento verranno condannati». Voi sapete dove si trova adesso il bambino? «No, ma il nostro avvocato in Israele, Smhuel Moran, sta cercando di ottenere questa informazione». Siete riusciti a parlare con Eitan? «Mai, nemmeno una volta. La zia materna ci ha scritto qualche messaggio non molto chiaro in cui alludeva al fatto che ci avrebbero concesso di sentirlo. Ma alle nostre domande, loro non hanno più risposto. Si rifiutano di dirci dove lo tengono, lo hanno nascosto, forse in un buco».
   È un giorno importante. Eitan Biran, 6 anni, l'unico sopravvissuto nello schianto della funivia del Mottarone, non è più solo nelle mani dell'uomo che gli aveva promesso dei giocattoli e invece lo aveva portato via: in auto verso la Svizzera, passando attraverso la frontiera di Chiasso. E poi su un volo privato, dall'aeroporto di Lugano a Tel Aviv, un viaggio probabilmente pagato con i 140 mila euro raccolti grazie a una campagna di sostegno indetta proprio nel nome di Eitan. Il nonno materno Shmuel Peleg è agli arresti domiciliari in Israele. Qui in Italia è iscritto nel registro degli indagati assieme all'ex moglie Ester Cohen, che potrebbe avere avuto un ruolo nel rapimento. Quello che sta emergendo con sempre maggiore chiarezza è che si è trattato di tutto, tranne che di «un piano improvvisato».
   Gli zii affidatari avevano spiegato i loro timori: avevano paura di quello che poi è successo. La giudice tutelare Michela Fenucci aveva chiesto formalmente al signor Shmuel Pleg di restituire il passaporto israeliano del bambino entro il 30 di agosto. Era stato emesso un divieto di espatrio. Tutte le polizie di frontiera sapevano che Eitan Biran non poteva lasciare l'Italia. Inoltre una segnalazione sul caso era stata mandata in procura a Pavia, procura che a sua volta aveva chiesto alla polizia di controllare gli spostamenti del nonno di Eitan Biran. Era un sequestro a tal punto annunciato e temuto, che i movimenti del signor Shmuel Peleg erano stati - come dicono in gergo - «attenzionati». L'hotel a Milano. Spostamenti per pranzo e per cena. Il rientro in Israele alla fine di luglio, il ritorno in Italia a fine agosto. Ma quell'ordine di restituire il passaporto di Eitan Biran entro il 30 del mese era stato disatteso. E i controlli che avrebbero dovuto intensificarsi, si erano invece fatti meno stringenti. Martedì 7 settembre il nonno è andato a prendere il nipote a scuola, per poi riportarlo a casa. Nella seconda visita concordata con il giudice, sabato 11 settembre, ha parcheggiato lontano da casa. Nessuno ha visto se a bordo ci fosse qualcun altro. Nessuno ha seguito il viaggio di quell'auto presa a noleggio. E il bambino che non poteva passare la frontiera, l'ha passata. E con il passaporto che non avrebbe dovuto avere, il nonno lo ha fatto salire su un Cesna C680 noleggiato forse in Germania e fatto atterrare in Svizzera: 3 ore e 20 minuti di volo per Tel Aviv. Eitan Biran è cresciuto qui a Pavia. La sua prima casa italiana è sulle sponde del Ticino, davanti al Ponte Coperto. La sua seconda casa era accanto a quella degli zii, che l'hanno avuto in affidamento. «Andremo presto in Israele. Ci stiamo organizzando per partire. Vogliamo riportare a casa Eitan». -

(La Stampa, 15 settembre 2021)


Israele verso la 4a dose e nuovo record di casi Lancet dice no alla 3a 

Per la rivista non ci sono ancora evidenze dell'utilità del nuovo richiamo. Nuovo studio Usa: più rischi che benefici tra i 12 e 17 anni 

di Peter D'Angelo 

Sono 2,9 milioni gli israeliani vaccinati con tre dosi, 5,5 milioni con due dosi, e oltre 6 milioni con una. Sono 10.774 i nuovi casi in Israele ieri, un dato trai più alti finora registrati, con un tasso di positività del 6,09%, su 189 mila tamponi. I pazienti in condizioni critiche sono 673 (e oltre 82 mila attualmente positivi). I decessi registrati dal 6 al 13 settembre sono stati 31 con tre dosi, 56 con due dosi, e 95 non-vaccinati. Israele ha tassi di vaccinazione tra i più alti al mondo: tra gli 80-89 anni l'87,2% è vaccinato con due dosi, il 75,3% con 3 dosi; tra i 70-79 anni 1'87,5% ha fatto due dosi, il 77,9% tre; tra i 60-69 anni la media si alza a 87,5% con due dosi, mentre sono il 69,5% con tre dosi; per i 50-59 anni siamo a 83,5% due dosi, 55,9% tre dosi; nella fascia40-49 anni 1'81,4% con due dosi, il 45% tre dosi; tra30-39 il 78,3% ha fatto due dosi, il 37,1% tre dosi; 20-29 anni, 72,6% con due dosi, 24,6% con tre dosi; tra i 16-19 anni, ben il 70,8% ha già fatto due dosi, e il 16,1% ne ha fatte tre.
  E si parla già di quarta dose, a esporsi per primo è stato Salman Zarka, capo dell'Israel Shield, programma ufficiale del ministero della Salute su Covid-19. Israele corre, anche se i dati attuali sono parziali, tant'è che Rochelle Walensky, direttrice dei Centersfor Disease Control and Prevention degli Stati Uniti, ha ribadito in diverse occasioni che non ci sono ancora dati che dimostrino che un terzo richiamo dei vaccini - Moderna o Pfizer - aumenti la protezione contro l'infezione. Ha sottolineato, invece, la speranza che una terza dose riduca la trasmissione, e quindi anche le infezioni. In un recente view point pubblicato su The Lancet, il vicedirettore dell'ufficio responsabile della Ricerca e revisione sui vaccini della Fda, Philip Krause, ha espresso un punto di vista diverso rispetto alle istituzioni israeliane. "Sebbene l'idea di ridurre ulteriormente il numero di casi di Covid- 19 migliorando l'immunità nelle persone vaccinate sia allettante, qualsiasi decisione in tal senso dovrebbe essere basata sull'evidenza e considerare i benefici e i rischi per gli individui e la società: l'evidenza attuale, non sembra mostrare la necessità di una terza dose nella popolazione generale". Una delle motivazioni principali è che potrebbe persistere ''la memoria immunitaria, l'immunità cellulo-mediata, che generalmente sono di durata più lunga", ovvero le cellule Be T Killer che non vengono però attualmente "misurate" né nei guariti né nei vaccinati. Inoltre, "potrebbero esserci dei rischi se i richiami vengono ampiamente introdotti troppo presto o troppo frequentemente, specialmente con vaccini che possono avere effetti collaterali immuno-mediati (come la miocardite, che è più comune dopo la seconda dose di alcuni vaccini mRna, o la sindrome di Guillain-Barre, che è stata associata a vaccini con vettore di adenovirus). Se un potenziamento non necessario provoca reazioni avverse significative, potrebbero esserci implicazioni per l'accettazione del vaccino che vanno oltre i vaccini anti-Covid. Pertanto, un rafforzamento vaccinale dovrebbe essere intrapreso solo se vi sono prove evidenti che sia appropriato". Infine, il viewpoint si conclude con una considerazione inusuale, "sarà necessario un esame attento e pubblico dei dati in evoluzione per garantire che le decisioni sul potenziamento siano informate da una scienza affidabile più che dalla politica". La chiusa è una critica diretta all'ingerenza della politica. Pochi giorni prima della pubblicazione su TheLancet, sia il vicedirettore, Philip Krause, che la direttrice, Marion Gruber - dell'ufficio più importante della Fda in questa fase pandemica - hanno deciso di lasciare l'agenzia il prossimo mese, con una lettera congiunta. Ufficialmente i motivi sono la pensione (la direttrice) e non precisato (il vicedirettore). Tutto questo, proprio mentre si stavano analizzando i dati sulla terza dose e le vaccinazioni pediatriche, stando a alla ricostruzione di Cnn Healt. È stato pubblicato uno studio dell'Università della California, ripreso dal Guardian, in cui si arriva alla conclusione che i ragazzi tra i 12 e i 17 anni sono più a rischio di effetti collaterali dopo il vaccino rispetto al Covid. 

(il Fatto Quotidiano, 15 settembre 2021)


Vaccinatevi, vaccinatevi! Prima o poi qualcosa si capirà! Nel frattempo si faranno pubblicazioni su riviste scientifiche sovvenzionate da case farmaceutiche, con dati che forse riporteranno anche i danni prodotti dai vaccini. E la  "scienza" progredirà. Insieme ai controlli sulla popolazione. M.C.


Come la scienza si è trasformata in propaganda
Articolo OTTIMO!

di Gerardo Coco

L’essenza di ogni regime è la politicizzazione di tutto, poiché il tutto deve sostenere lo status quo altrimenti ogni parte non politicizzata, quindi libera di dissentire, sarebbe una minaccia. In un regime autoritario non c’è via di mezzo e quindi tutto, letteralmente tutto, deve essere politicizzato per essere trasformato in propaganda e ciò che non può essere politicizzato deve cessare di esistere o essere relegato in una zona oscura, poiché il semplice atto di tentare di riconoscere un’esperienza non politicizzata è di per sé una minaccia allo status quo. In questa zona oscura è ormai discesa anche la scienza della salute pubblica.
  L’essenza di qualsiasi scienza è il dibattito. Uno scienziato propone un’ipotesi che viene poi testata con la sperimentazione. Se i dati empirici tendono a confutare l’ipotesi, può essere abbandonata a favore di una nuova ipotesi. Allo stesso tempo, altri professionisti possono mettere in discussione l’ipotesi o proporre la propria. Il dibattito va avanti fino a quando non si raggiunge un consenso. Ma, anche allora, il consenso può durare solo fino a quando non arriva un’ipotesi ancora migliore e così via. La vera scienza non è mai definitiva, si evolve.
  Questo non è il caso della “scienza” che circonda la pandemia di Covid che, politicizzandosi, è diventata propaganda di regime al punto che molti cittadini non ne hanno più fiducia. Negli ultimi due mesi abbiamo assistito a un completo fallimento dei vaccini che invece di frenare la diffusione del Covid-19 sembrano facilitarla. In diversi Paesi con tassi di vaccinazione molto elevati, come Israele, Gran Bretagna e Seychelles, ad esempio, stanno registrando tassi di infezione più alti in presenza di più varianti del Covid. Eppure, la risposta della “scienza” è sempre la stessa: dobbiamo indossare maschere, essere vaccinati, distanziarci socialmente e magari… rinchiuderci ancora. Ma anche un neofita capisce che il vaccino di oggi non darà necessariamente la stessa immunità né per la variante di oggi né per quella di domani.
  La “scienza” invece spinge per la vaccinazione universale, mentre l’efficacia dei vaccini sta calando. Non volendo accettare la responsabilità di queste contraddizioni, la “scienza” ha cambiato la sua narrativa. Ora ci sta dicendo che, anche se i suoi vaccini non ci proteggono dalle infezioni, sono comunque efficaci nel proteggerci da malattie gravi e dalla morte. Questo nuovo mantra dell’establishment scientifico viene ripetuto in ogni singolo notiziario. “Se sei vaccinato”, ci dicono, “puoi ancora essere infettato, ma non ti ammalerai gravemente o morirai perché i vaccini sono ancora efficaci”.
  L’affermazione che i vaccini proteggano dal Covid e dalla morte, tuttavia, è propaganda che si basa sulla stessa metodologia fraudolenta utilizzata per sostenere le prime false affermazioni sulla loro efficacia e che è oggi è confutata da dati empirici. I numeri ci stanno infatti dicendo che la maggior parte dei casi gravi di Covid e morte sta avvenendo nelle nazioni con programmi di vaccinazione avanzati e tra i vaccinati. Ma la soluzione al problema del “vaccino” (che non è un vaccino) è… ancora più vaccino. Sono necessari richiami, si dice, ogni 5/8 mesi per tenere a bada il Covid. Qual è dunque l’ordine del giorno? Chiaramente, non la salute del pubblico ma i profitti eterni per le case farmaceutiche.
  E così si arriva a capire come la scienza nella salute pubblica sia stata politicizzata, diventando propaganda al fine di spingere e mobilitare il maggior numero verso obiettivi che non riguardano affatto la salute pubblica. In primis, la Comunità della ricerca è stata avvelenata dall’influenza dei finanziamenti. Ciò che guida la scienza oggi sono le sovvenzioni dei governi e delle fondazioni e non più la motivazione e la genialità di studiosi indipendenti come gli Edward Jenner o i Louis Pasteur. Il finanziamento pubblico ha reso ormai la scienza dipendente dallo Stato, cioè dalla politica. Le Università e gli scienziati fanno pressioni affinché i governi diano loro denaro per i loro programmi di ricerca allo stesso modo di come le lobby industriali premono per sussidi. Gli scienziati ottengono i soldi dal Governo ma in cambio devono seguirne le indicazioni.
  Ma c’è di più. Come per la crisi climatica, anche per il Covid il dibattito di politica pubblica ha dimostrato che i cosiddetti scienziati non sono sempre parti disinteressate. Sembrano essere diventati politici e partigiani quanto i politici, utilizzando selettivamente le “prove” scientifiche per giustificare il loro punto di vista ideologico. I modelli di comportamento che promuovono il finanziamento pubblico sono stati sorprendentemente simili a quelli del clima: uso selettivo dei dati, manipolazione del processo di revisione tra pari, censura, persecuzione e demonizzazione dei colleghi dissenzienti per arrivare, alla fine a un falso “consensoscientifico da propagandare a fini politici.
  L’attuale approccio standardizzato alle vaccinazioni di massa, che tratta tutti i riceventi come se fossero organismi identici da processare su una catena di montaggio medica, è tipico dei peggiori regimi totalitari. L’inoculazione universale viene portata avanti senza nemmeno un’adesione rudimentale alla necessità di screening medico e consultazione caso per caso. Ci si è dimenticati di come venivano affrontate le epidemie influenzali molto più gravi della fine degli anni Sessanta e della fine degli anni Cinquanta? Nel grande schema delle cose queste epidemie erano “non eventi” non essendoci a quell’epoca le condizioni per sfruttarle, come si sta facendo oggi, a scopo politico. La questione allora riguardava il rapporto paziente/medico. Ma medici privati hanno cessato di esistere da quando il regime li ha costretti a diventare semplici dipendenti di massicce organizzazioni di “assistenza sanitaria” che si proteggono dalla responsabilità seguendo i protocolli stabiliti dai vari ministeri della salute in combutta con le case farmaceutiche, cosicché i medici finiscono per eseguire essenzialmente gli ordini delle aziende farmaceutiche. I medici indipendenti possono ancora utilizzare la loro formazione e abilità per aiutare i loro pazienti, ma con grande cautela: il regime, dove tutto deve essere politicizzato, potrebbe comprometterne la carriera.
  L’universalizzazione delle vaccinazioni in corso per iniettare e etichettare il bestiame viene ovviamente propagandata, appellandosi al “bene o interesse comune”. Ma solo i grulli dimenticano che sotto questa bandiera sono stati commessi, nel corso della storia, i crimini più spregevoli.

(l'Opinione, 14 settembre 2021)


Egitto-Israele: pragmatismo al vertice

Il premier israeliano Naftali Bennett e il presidente egiziano Al Sisi si incontrano a Sharm el Sheikh. Un vertice che riflette il rapido cambiamento nelle prospettive bilaterali e regionali.

 
Per la prima volta in un decennio, un premier israeliano si reca in Egitto per una visita ufficiale. A interrompere dieci anni di ‘assenza’ è stato il nuovo primo ministro israeliano Naftali Bennett, che ha incontrato il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi a Sharm el-Sheikh, sul Mar Rosso. Sul tavolo, le numerose questioni che agitano il Medio Oriente e che preoccupano il Cairo come Tel Aviv: la stabilità dell'area, la “minaccia” iraniana, il tracollo del Libano e il nodo di Gaza. L’enclave palestinese – isolata da Israele ed Egitto da quasi 15 anni, da quando è governata da Hamas – resta per Israele un problema costante. E che affonda sul nascere ogni speranza di un rilancio del processo di pace con i palestinesi, fermo dal 2014. Ma la spinta per ricucire un filo esile ma inevitabile di rapporti poggia anche sui comuni interessi: dal contenimento del radicalismo ed estremismo islamico, alle rotte del gas e dell’energia. Ieri alle spalle dei due leader svettavano, allineate, le bandiere dei rispettivi paesi. Un passo avanti nel processo di ‘normalizzazione’ in corso da qualche anno tra lo stato ebraico e i paesi della regione. Nelle scorse settimane era stata la volta di altri incontri di livello tra il ministro della Difesa Benny Gantz e il sovrano Abdallah di Giordania e lo stesso Gantz e il premier palestinese Mahmud Abbas. Qualcosa, forse poco, sembra muoversi davvero.

• Un decennio di alti e bassi?
  L'ultimo premier israeliano a visitare l'Egitto nel gennaio 2011 era stato Benjamin Netanyahu. All'epoca, ricorda Radio France Internationale (Rfi), “le televisioni egiziane coprirono l’evento con un servizio breve, fatto di immagini quasi subliminali di due uomini tesi”. Pochi giorni dopo, le proteste di piazza avrebbero rovesciato il trentennale regno di Hosni Mubarak, e inaugurato un decennio turbolento, durante il quale i rapporti tra i due paesi hanno visto alti e bassi. In mezzo c’è stata l’ascesa dei Fratelli Musulmani al Cairo, il golpe militare di Al Sisi, l’Intifada del 2015, innumerevoli violazioni di cessate-il-fuoco e ben due guerre contro Gaza, quella del 2014 e quella del maggio scorso. Anche se in definitiva le relazioni degli ultimi anni sono state segnate soprattutto dalla cooperazione in materia di sicurezza, e in particolare dalla lotta ai gruppi terroristici nel Sinai. L’Egitto – primo paese con cui Israele ha stipulato accordi di pace nel 1979 – e Israele hanno collaborato anche nel settore energetico: dal 2020 lo stato ebraico esporta in Egitto il proprio gas. Inoltre, l’Egitto ha svolto un ruolo chiave nel mediare diverse tregue tra Tel Aviv e il movimento islamico di Hamas a Gaza. 

• Qualcosa è cambiato?
  Se fin qui si sono limitati alla cooperazione su temi di comune interesse, ora la volontà è quella di far fare ai rapporti bilaterali un salto di qualità come dimostrato dalla riapertura del valico di Taba attraverso cui turisti israeliani passano per trascorrere le loro vacanze sul versante egiziano, e l’inaugurazione, da ottobre, di voli diretti Egyptair tra Il Cairo e Tel Aviv. E se la cornice dell’incontro di Sharm el-Sheik è la stessa di dieci anni fa – da anni gli eventi politici di peso in Egitto si tengono a Sharm anziché al Cairo, per questioni di sicurezza – tutto il resto o quasi sembra cambiato. “Israele si sta aprendo ai paesi della regione”, ha detto Bennett con riferimento agli accordi di Abramo inaugurati durante l’amministrazione Trump. Il fatto che dal 2020 quattro paesi arabi – Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Marocco e Sudan – abbiano normalizzato i legami con lo stato ebraico è stato un punto di svolta. E soprattutto, come osserva il politologo Mostafa Kamel al-Sayed, a differenza dell'era Mubarak, “il regime di Al Sisi è riuscito ad addomesticare l'opposizione” dopo una capillare campagna di repressione: oggi, dopo 19 mesi passati in carcere, lo studente egiziano iscritto all’università di Bologna, Patrick Zaki, è comparso davanti ai giudici di Mansura, cittadina a nord del Cairo. Rischia una condanna a cinque anni per reati minori.

• Pragmatismo vs Pace?
  “L'Egitto sostiene tutti gli sforzi volti a raggiungere una pace globale in Medio Oriente, sulla base della soluzione dei due stati e della legittimità internazionale” ha detto il portavoce della presidenza egiziana al termine dell'incontro. Ma nonostante le aspettative, le speranze di una ripresa del processo di pace restano lontane. Poche settimane fa Bennett aveva riaffermato la sua netta opposizione alla creazione di uno stato palestinese e ha detto di non vedere all’orizzonte alcuna svolta politica” con i palestinesi. Per il premier israeliano, leader del partito della destra ebraica Yamina, se il conflitto non può essere risolto, comunque si può “ridurne la portata dell’attrito”: il suo governo ha già approvato permessi di lavoro per i palestinesi in Israele, autorizzazioni edilizie per i palestinesi in Cisgiordania e permessi di residenza per migliaia di persone. Su questo, i due governi si intendono: il deterioramento della situazione economica a Gaza preoccupa molto l'Egitto, che teme un’esplosione della rabbia palestinese vicino ai suoi confini. Il Cairo ha cercato di realizzare un piano di ricostruzione che ha incontrato molti ostacoli da parte del movimento di Hamas che controlla la Striscia. Il vertice di Sharm emana dunque barlumi di pragmatismo, forse, ma non di pace. E di ‘successi’ personali: per Bennett, che forgia il suo profilo di ‘statista’; e per Al sisi, che vede l’incontro come un modo per ritornare a svolgere il ruolo di mediatore e accreditarsi con Washington. “L'Egitto vede le relazioni con Israele e gli sforzi per ricostruire Gaza come un percorso verso la Casa Bianca”, osserva un funzionario israeliano ad Haaretz, aggiungendo che il Cairo “ne ha bisogno” per deviare la pressione internazionale sui suoi diritti umani.

(ISPI Online Publications, 14 settembre 2021)


Caso Eitan, i media israeliani: il nonno è agli arresti domiciliari

L’accusa è di aver rapito Eitan e di averlo portato in Israele. Indagata anche la nonna materna Ester Cohen Peleg per sequestro di persona.

La polizia israeliana ha messo agli arresti domiciliari Schmulik Peleg, il nonno del piccolo Eitan Biran, 6 anni, unico sopravvissuto alla strage del Mottarone dello scorso 23 maggio. L’accusa contestata è quella di aver rapito Eitan e di averlo portato in Israele, secondo quanto riporta Times of Israel.  «A me risulta che gli sia stato richiesto di restare a disposizione della polizia», spiega invece l’avvocato Paolo Sevesi, che assiste il nonno di Eitan.
  Secondo i media israeliani, l’uomo è stato interrogato oggi dagli inquirenti israeliani. Il nonno era in visita in Italia e presumibilmente avrebbe trasportato in Israele Eitan su un aereo privato. Una volta in Israele ha scritto ai familiari in Italia che Eitan era «tornato a casa» e i familiari tutori del piccolo hanno sporto denuncia sia in Italia che in Israele. A seguito della denuncia, Peleg è stato convocato per essere interrogato. Secondo «Israel Hayom», il nonno del minore ha affermato di non averlo rapito e che i suoi genitori volevano che crescesse in Israele. Al termine dell’interrogatorio è stato inviato agli arresti domiciliari per cinque giorni.
  Intanto procedono le indagini sul caso: oltre al nonno, anche la nonna materna Ester Cohen Peleg è ora indagata nell’inchiesta sul sequestro. Per il resto, silenzio serrato da parte degli inquirenti su un caso che assume sempre più i contorni di una vicenda internazionale, e non solo per questioni meramente geografiche. Tante le risposte che dovranno dare gli investigatori su quanto accaduto sabato, quando una tranquilla giornata nonni-nipote si è trasformata in una fuga all’estero. La vicenda è delicata, non solo perché riguarda un minore, che ha perso mamma, papà, fratello e bisnonni nella gita a Stresa. Di mezzo ci sono due famiglie, entrambe colpite dalla perdita di loro cari, che si contendono il piccolo.
  La zia tutrice Aya affida ai legali il ricorso al Tribunale della famiglia di Tel Aviv per attivare la procedura prevista dalla Convenzione dell’Aja, la via giudiziaria per riportare Eitan in Italia. L’Ambasciata israeliana sembra orientata a questa soluzione e fa sapere che se ne occuperà in collaborazione con l’Italia, a beneficio del minore e in conformità con la legge e le convenzioni internazionali. Lo zio manifesta altre idee, che annuncia ai cronisti davanti alla villetta di Travacò Siccomario: «Serve una soluzione politica, quella legale è troppo lunga, non siamo di fronte a una battaglia tra avvocati, ma a un crimine serio. Le autorità israeliane dovrebbero sapere che è stato rapito». Il suo appello: «Per il benessere e la salute di Eitan fatelo tornare subito in Italia».
  «Le autorità israeliane stanno seguendo questo triste caso e se ne occuperanno in collaborazione con l’Italia, a beneficio del minore e in conformità con la legge e le convenzioni internazionali pertinenti», fa sapere l’ambasciata israeliana in una nota in cui si precisa che si seguiranno «la legge e le convenzioni internazionali pertinenti», con un richiamo chiaro alla Convenzione dell’Aja.
  Lo zio invece attacca il nonno che venerdì scorso ha preso il bambino e l’ha portato in Israele con un aereo privato, tirando in ballo anche un misterioso uomo coi baffi della cui presenza il piccolo avrebbe riferito agli zii. «Nel corso di una visita Eitan è stato tenuto due ore e mezza dentro la macchina da Ester Cohen e interrogato da una persona sconosciuta che non si è mai identificata e che ha detto che il suo lavoro è quello di cambiare i baffi. Gli ha fatto un sacco di domande, Eitan era sconvolto quando è tornato a casa, aveva gli incubi». Il bambino sarebbe stato «in agitazione tutte le volte che incontrava il nonno» che poi l’ha rapito. Dalla parte dell’uomo che l’ha sequestrato, l’avvocato Sara Carsaniga punta alla volontà del bimbo: «Andrebbe chiesto a lui con chi vuole vivere ma il Tribunale ha rigettato la nostra richiesta di sentirlo. Il bambino aveva il diritto a vivere sia in Israele sia in Italia. Tutte e due le famiglie hanno gli stessi diritti di rappresentare le proprie ragioni, la questione andava risolta prima ma il contraddittorio del Tribunale è sempre stato a favore di una persona sola».

(Il Dubbio, 14 settembre 2021)


La leadership ebraica tedesca contro Israele

di Daniel Pipes

Di certo, i partiti politici tedeschi hanno le loro divergenze. Ma sono tutti d’accordo su una cosa: che il nuovo partito civilizzazionista chiamato Alternativa per la Germania, Alternative für Deutschland, (AfD), non dovrebbe avere alcuna rappresentanza nel Bundestag (Parlamento).
Non è difficile capirne il motivo, poiché la sfacciata schiettezza dell’AfD a favore della civiltà occidentale, degli Stati Uniti e di Israele li irrita profondamente. Quindi, mentre le elezioni incombono, gli altri partiti si stanno unendo per screditare Alternativa per la Germania.  E visto che si tratta della Germania, l’unico metodo più potente è quello di marchiarla di antisemitismo. E per farlo nel modo più efficace, gli ebrei devono guidare la carica.
Questo spiega perché il Consiglio Centrale degli Ebrei Tedeschi (Zentralrat der Juden, ZdJ) ha promosso un documento approvato da non meno di altre 68 organizzazioni ebraiche. Intitolato “Gli ebrei contro l’AfD”, il testo invita i tedeschi a votare per qualsiasi partito che non sia l’AfD. Il suo messaggio non è sottile: “Il 26 settembre 2021, votate per un partito indiscutibilmente democratico [zweifelsfrei demokratische Partei] e contribuirete a bandire l’AfD dal Bundestag tedesco”.
Il documento, pubblicato il 9 settembre, accusa l’AfD di “scatenare” il Parlamento e lo definisce una dimora di “antisemiti e di estremisti di destra” che praticano forme di “razzismo e misantropia”. Come se non bastasse, i firmatari dichiarano addirittura di essere “convinti che l’AfD sia un (…) partito antireligioso [religionesfeindliche]”.
Queste organizzazioni includono anche alcuni nomi internazionali importanti e consolidati, tra cui l’ American Jewish Committee, il B’nai B’rith, la Claims Conference, l’European Jewish Congress, il Jewish National Fund, Limmud, i Maccabi Games, la Ronald S. Lauder Foundation, l’Unione degli ebrei progressisti e il Congresso ebraico mondiale.
Innanzitutto, vale la pena notare che tutte le organizzazioni  tedesche e  americane esentasse che appoggiano questo documento violano apertamente la legge affermando come dovrebbero essere espressi i voti elettorali. Il titolo del documento include una grafica infantile di una freccia verso il basso, opposta alla direzione di quella verso l’alto dell’AfD. Stranamente, il Consiglio Centrale degli Ebrei Tedeschi non menziona una sola volta in questo documento il nome del partito, utilizza il suo acronimo “AfD”, come se citare il nome completo lo marchiasse.
Il giorno dopo, l’organizzazione Ebrei nell’AfD (Juden in der AfD, JAfD) ha risposto a questa sferzata. Ha cominciato con l’osservare che il ZdJ ottiene quasi l’intero budget annuale di 13 milioni di euro dal governo, pertanto, ovviamente, si attiene alla linea di governo. Ha inoltre rilevato che “solo le organizzazioni ebraiche [tedesche] finanziate dallo Stato hanno aderito a questo appello. Organi ebraici indipendenti, come il mensile Jüdische Rundschau, e associazioni ebraiche conservatrici, come Chabad Germany, non sono rappresentati”.
E c’è di peggio. Il Consiglio Centrale degli Ebrei, osserva Chaim Noll, un  autore tedesco-israeliano, “è un’istituzione unica che non esiste in altri Paesi ed è sconosciuta anche nell’ebraismo. È una delle istituzioni statali finanziate dal governo federale, e gestisce gli ebrei del Paese. (…) Che gli ebrei siano soggetti alla volontà del governo è la tragedia specifica degli ebrei in Germania; in altri Paesi, le comunità ebraiche sono autonome”.
Quanto alla sostanza, l’organizzazione JAfD sostiene accuratamente che “l’AfD ha fatto di più per proteggere la vita ebraica di qualsiasi altro partito del Bundestag tedesco”. Nello specifico, ha promosso con successo un divieto contro Hezbollah e il movimento BDS, e sta lavorando per finanziare l’UNRWA e abolire i requisiti di etichettatura per i prodotti ebraici dalla Cisgiordania.
Ho assistito personalmente a questo mentre ero seduto in una poltrona del Bundestag il 14 marzo 2019, quando è stata approvata una risoluzione per indure il governo tedesco a  votare a favore di Israele in senso alle Nazioni Unite. L’89 per cento dei membri dell’AfD ha votato per questa mozione, circa 350 volte di più di un quarto dell’1 per cento dei partiti al governo che vi hanno aderito.
Questo screzio mostra una profonda verità sui patetici leader ebrei europei: legati all’establishment, sacrificano la maggior parte delle loro inclinazioni sioniste per rimanere nelle sue grazie. (Per maggiori dettagli su questo schema, si veda il mio articolo “Gli ebrei d’Europa contro Israele”.) S’inchinano così avidamente davanti al governo e hanno persino convinto l’attuale ambasciatore di Israele in Germania,  Jeremy Issacharoff, a infrangere il protocollo diplomatico, ad attaccare apertamente l’AfD e difendere i partiti anti-israeliani tedeschi.
Alla fine, tuttavia, l’indolente leadership ebraica dell’Europa si ritroverà isolata dai suoi stessi elettori e osteggiata dalla   popolazione e dal governo di Israele, i quali finalmente riconosceranno tutti i loro veri amici nella politica tedesca. L’ AfD è tutt’altro che perfetto, ma si adatta meglio a questa descrizione.

(L'informale, 14 settembre 2021 - trad. Angelita La Spada)


Fa riflettere la presentazione che fa Daniel Pipes di questi "patetici leader ebrei europei: legati all’establishment", che per rimanere nelle sue grazie "sacrificano la maggior parte delle loro inclinazioni sioniste". Ma ancor più forte è la frase che segue: "s’inchinano avidamente davanti al governo". E' quello che accade oggi in Italia. E' stupefacente vedere l'"avido consenso" con cui la leadership ebraica italiana esprime a Draghi la sua approvazione. Più che altro fa a gara con altri, come il PD, nello screditare e colpire chiunque sollevi serie obiezioni sull'operato del governo. Si direbbe che una sorta di "libidine di asservimento" abbia colto oggi la cittadinanza italiana. E la leadership ebraica sembra che ci si trovi bene. M.C.


“L'Onu discrimina Israele”: anche il Pd sottoscrive l’appello

Un gruppo di oltre 300 parlamentari punta il dito contro le 17 risoluzioni unilaterali adottate nel 2020 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite

Le tante risoluzioni delle Nazioni Unite contro Israele rappresentano una “discriminazione sistematica” che porta alla “condanna implacabile, sproporzionata e ricorrente dell’Onu nei confronti dell'unico stato ebraico esistente al mondo”. L’accusa arriva dai 312 membri del gruppo interparlamentare transatlantico “Friends of Israel” (Amici di Israele), al quale hanno aderito anche 26 personalità del mondo politico italiano. 
   La gran parte dei firmatari dell’appello - che chiede ai Paesi dell’Ue di “votare contro l'eccessivo numero di risoluzioni anti-Israele” - proviene dalle fila della Lega e di Forza Italia. Ma la lista degli aderenti italiani include anche tre esponenti del Partito democratico, tra i quali spicca il nome Lia Quartapelle, capogruppo del Pd in commissione Esteri.
   “Nel 2020 - si legge nell’appello - l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato 17 risoluzioni unilaterali contro Israele e solo sei risoluzioni relative a sei degli altri 192 Stati membri per violazioni dei diritti umani”. I firmatari se la prendono soprattutto con “il Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu” accusato di essere ossessionato dal Paese del Medio-Oriente. L’organismo “prende di mira un solo stato - Israele - prevedendo in agenda un punto all'ordine del giorno separato e a sé stante, (n. 7), mentre le violazioni dei diritti umani in tutti gli altri paesi sono considerate sotto un unico punto all'ordine del giorno (n. 4)”, si precisa nella dichiarazione. Inoltre, “lo scorso settembre, il Consiglio Economico e Sociale dell'Onu ha condannato solo Israele tra tutte le nazioni per presunte violazioni dei diritti delle donne”.
   Per contrastare quella che secondo i firmatari è una “discriminazione sistematica” nei confronti di Israele si chiede “agli Stati membri dell'Ue e a tutte le altre democrazie” di “votare contro l'eccessivo numero di risoluzioni anti-Israele”, ma anche di “agire per riformare il Consiglio per i Diritti Umani dell'Onu e abolirne il punto 7 dell’Agenda” e “mettere fine ai Comitati e ai Programmi discriminatori delle Nazioni Unite, creati al solo scopo di promuovere un'agenda anti-israeliana e che minano la pace e la prospettiva della soluzione negoziata dei due stati”. 

(EuropaToday, 14 settembre 2021)


Eitan, in campo la diplomazia. Tel Aviv non si schiera e Roma prende tempo

La zia paterna ha presentato in procura un’istanza di rientro

La vicenda familiare che ha coinvolto il piccolo Eitan Biran si è allargata a tal punto da lambire il rapporto bilaterale tra Italia e Israele, tanto che pur mancando – al momento – gli estremi per eventuali interventi da parte dei governi, le autorità sono state chiamate a rilasciare dichiarazioni ufficiali su quanto intendono fare. «Stiamo accertando l’accaduto per poi intervenire», ha detto il ministro degli esteri Luigi Di Maio rispondendo ieri alle domande dei giornalisti. Fonti diplomatiche israeliane fanno sapere che al momento «la vicenda viene seguita da vicino, ma non esiste una posizione ufficiale, non c’è una linea».
   L’ambasciatore israeliano a Roma Drod Eydar preferisce non rilasciare dichiarazioni sull’accaduto, limitandosi ad osservare che al momento si tratta di una questione tra due famiglie, che la vicenda è seguita dai canali giudiziari e che occorre attendere prima di pronunciarsi in un senso o nell’altro.
   Ogni azione israeliana, del resto, non può che essere successiva a quella dell’Italia, che al momento, tramite il Ministero di Giustizia, sta attivando le procedure.
   Quali, precisamente? Ad oggi “il caso Eitan” è gestito solo da un punto di vista giudiziario, su due binari paralleli, quello civile e quello penale. Il procedimento civile è stato avviato nel momento in cui la tutrice legale del bambino, Aya Biran-Nirko, la sorella residente in Italia del defunto padre di Eitan ha presentato alla procura un’istanza di rientro in base alla Convenzione dell’Aja del 1980, che si occupa delle procedure inerenti gli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori e che ha come obiettivo quello di «assicurare l’immediato rientro dei minori illecitamente trasferiti o trattenuti in qualsiasi Stato contraente» e «assicurare che i diritti di affidamento e di visita previsti in uno Stato contraente siano effettivamente rispettati negli altri Stati contraenti». Essendo Italia e Israele entrambi Stati contraenti, la Convenzione rappresenta in definitiva la piattaforma internazionale più corretta per cercare di risolvere questa disputa. Una volta che Israele avrà ricevuto dal ministero della Giustizia italiano tutta la documentazione, sarà a quel punto la magistratura israeliana a doversi pronunciare su un eventuale rientro di Eitan in Italia.
   Secondo quanto rivelato dall’emittente televisiva israeliana Channel 12, un documento di alcuni esperti del ministero degli Esteri di Tel Aviv avrebbe già dato un parere positivo al rientro di Eitan, considerando la sottrazione ad opera del nonno materno un sequestro a tutti gli effetti. Ma si tratta di valutazioni che non sono ancora passate al vaglio della magistratura competente, e che dovranno essere confermate prima di diventare esecutive. C’è poi il procedimento penale, avviato sempre dalla zia paterna presso la procura di Pavia, che denuncia il sequestro del bambino per mano del nonno materno. Se un giudice italiano dovesse ravvisare gli estremi per un sequestro, viste le violazioni sull’orario di visite e la mancata restituzione del passaporto del minore da parte del nonno, potrebbe a quel punto chiedere alle autorità israeliane il rientro di Eitan, da effettuare tramite l’Interpol.
   Malgrado dunque sia piuttosto chiaro che la vicenda sia soprattutto giudiziaria, la politica si sente sotto pressione, perché la storia di Eitan ha tutti gli ingredienti per coagulare su di sé sentimenti ed emozioni dell’opinione pubblica: c’è la questione identitaria – la scuola cattolica a cui Eitan era stato iscritto in Italia e quella ebraica che lo aspetta in Israele – ci sono due Paesi e un bambino conteso, e c’è la realtà di una famiglia dalla doppia radice, che dopo la tragedia del Mottarone si è trovata scissa, spezzata in due, incapace di ricomporre quell’unità che il papà e la mamma di Eitan, morti nell’incidente, avevano immaginato per la vita dei loro figli.
   In questa fase, la politica non può fare altro che vigilare affinché la macchina giudiziaria non si impantani e promuovere una corretta relazione operativa con Israele. Si tratta di Stati amici, non dovrebbe essere difficile.

(La Stampa, 14 settembre 2021)


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Indagato il nonno del piccolo Eìtan. Caccia ai complici del sequestro

Per gli inquirenti qualcuno ha aiutato Shmuel Peleg a fuggire con il nipotino. « Un piano organizzato». I sospetti puntano anche a personaggi legati ai servizi segreti israeliani.

di Giuseppe Guastella

È caccia ai complici, a chi può aver aiutato Shmuel Peleg a fuggire dall'Italia portando con sé il nipotino di sei anni fino in Svizzera e lì imbarcarsi senza che nessuno lo ostacolasse su un aereo privato che qualche ora dopo è atterrato in Israele. Per farlo, il 58enne israeliano, da ieri indagato per sequestro di persona aggravato dalla minore età della vittima, ha eluso il divieto di espatrio che avrebbe dovuto impedire che il bambino lasciasse il suolo italiano nel pieno di una vicenda che assume sempre più i contorni di un intrigo internazionale. 

• Le tracce in Svizzera 
  L'inchiesta della Procura di Pavia guidata da Mario Venditti ha già fatto importanti passi nella ricostruzione di come Peleg si è mosso sabato mattina e presto potrebbe dare luce a nuovi sviluppi. La Polizia sta seguendo le tracce lasciate dall'uomo da Travacò Siccomario fino a Lugano, a 151 chilometri di distanza dal paese in provincia di Pavia dove Eitan stava trascorrendo questo momento difficile della sua breve ma già drammatica esistenza. Non va dimenticato che tutti i protagonisti di questa storia sono vittime dirette o indirette della tragedia della funivia del Mottarone che il 23 maggio scorso è costata la vita di 14 persone che, dopo i lunghi divieti legati alla pandemia, volevano solo trascorrere in montagna la bella domenica di primavera. Nello schianto della cabina, dovuto alla rottura della fune traente e ai freni di emergenza criminalmente disattivati, sono morti i genitori, il fratellino di appena due anni e anche i bisnonni paterni di Eitan, l'unico miracolosamente rimasto solo ferito grazie al padre che gli ha fatto scudo con il proprio corpo. 

• Una famiglia divisa 
  Il dramma ha spezzato in due ciò che è rimasto della famiglia di Eitan. Da una parte i parenti materni che vivono in Israele, dall'altra quelli paterni che, sommando strazio a strazio, si stanno consumando in una battaglia legale sull'affidamento del bambino. Anche se c'è chi intravede maliziosamente dietro la faida l'interesse per i cospicui risarcimenti che otterrà il piccolo e le generose donazioni che ha già ricevuto da tutto il mondo. Sospetti che tutti respingono sdegnosamente. In questo scenario va inquadrata l'azione di Shmuel Peleg che ha perso una figlia, il genero e un nipotino. L'uomo, militare dell'esercito israeliano in pensione e consulente di un'azienda di elettronica, si è presentato poco dopo le n.30 alla porta dell'abitazione della zia patema di Eitan, Aya Biran, dove il bimbo ha vissuto da quando è uscito dall'ospedale, per uno dei consueti incontri autorizzati dal giudice tutelare. E l'ultima volta che la zia ha visto Eitan. 

• «Ha agito d'impulso» 
  Peleg e il nipotino si sono allontanati a bordo dell'auto presa a noleggio da Peleg all'aeroporto di Malpensa al suo arrivo in Italia. Ai suoi legali, gli avvocati Sara Carsaniga, Paolo Polizzi e Palo Sevesi, ha detto che appena si è convinto che il bambino era in «cattive condizioni mentali e fisiche», ha deciso di sottrarlo a quel procedimento giudiziario sulla sua tutela che ritiene zeppo di irregolarità e portarlo in un ospedale di Tel Aviv.
   Le azioni di prepotenza sono sempre sbagliate», affermano i suoi legali, secondo i quali il loro assistito ha agito «d'impulso» dopo «aver tentato invano per mesi di portare la voce della famiglia materna nel procedimento civile di nomina del tutore», ma sono convinti che possa ritornare «ad avere fiducia nelle istituzioni Italiane». In un paio d'ore, Peleg ha percorso l'autostrada varcando il confine con la Svizzera quasi certamente a Chiasso. Evidentemente senza alcun controllo, nonostante il Tribunale di Pavia avesse diramato in Svizzera e in tutta l'area Shengen un divieto di espatrio che riguardava il bambino. Nessun problema nemmeno all'aeroporto di Lugano dove nonno e nipote hanno preso il costoso volo decollato nel pomeriggio. 

• Complicità 
  Gli inquirenti sono convinti che una fuga del genere non possa essere pianificata ed organizzata all'ultimo momento da un nonno disperato e, sostiene Or Niko, marito di Aya, con l'aiuto della ex moglie Esther Choen, che al Mottarone ha perso i genitori ma che sarebbe tornata in Israele prima di sabato. I sospetti puntano anche a personaggi legati ai servizi segreti israeliani in rapporti diretti o indiretti con l'uomo. Per fare chiarezza, il procuratore Venditti e il sostituto Valentina De-Stefano potrebbero avviare una rogatoria in Svizzera. 

(Corriere della Sera, 14 settembre 2021)


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Eitan e la sottrazione di minori

Si è parlato molto di Eitan, il bambino sopravvissuto dell'incidente del Mottarone, rapito dal nonno israeliano. Ma sono comuni i casi di figli portati all'estero da uno dei genitori senza consenso dell'altro

di Eleonora Lorusso

Il piccolo Eitan è stato sottratto dal nonno paterno agli zii materni. A questi familiari, israeliani residenti in Italia il bambino era stato affidato dopo aver perso i genitori (anch'essi israeliani residenti in Italia) nell'incidente della funivia del Mottarone. Il suo caso ha attirato l'attenzione per via della storia drammatica vissuta appena pochi mesi fa. Ma come Eitan, ogni anno, sono decine e decine di bambini “contesi” dai familiari che vengono portati fuori dall’Italia, nella maggior parte dei casi da uno dei due genitori. Il problema esplode di solito dopo la fine di un matrimonio misto, cioè dove madre e padre hanno nazionalità differenti.
   Risolvere i casi è estremamente difficile, le leggi ci sono, ma il problema è sempre farle applicare. È ancora più complicato quando il Paese in cui viene portato il minore non ha sottoscritto una convenzione con l’Italia.

• Ci vuol un ordine di rimpatrio
  «Nel caso di Eitan, le autorità israeliane si sono già pronunciate favorevolmente e ci sono i presupposti per il rimpatrio in Italia del bambino. Ma gli organismi che si occupano di questi casi hanno funzione amministrativa: per un ordine di rimpatrio occorre invece un pronunciamento giudiziario, cioè bisogna passare da un giudice che potrebbe non essere d’accordo, non ravvedendo motivi validi, il che complicherebbe di molto la situazione» spiega l’avvocato Lorenzo Puglisi, fondatore di Family Legal, specializzata nel diritto di famiglia.

• Il caso di Eitan e la convenzione dell’Aja
  Eitan viveva a Pavia insieme alla zia paterna a cui era stato affidato temporaneamente dopo la morte dei genitori nella tragedia del Mottarone, il 23 maggio scorso. Sabato scorso aveva ricevuto la visita del nonno materno, Shmuel Peleg, che però non lo ha più riportato a casa, ma si è diretto in auto a Lugano, in Svizzera, e da qui si è imbarcato su un volo privato alla volta di Israele, paese d’origine della famiglia. Così facendo ha violando la Convenzione dell’Aja: «Nel caso di Eitan va fatta una distinzione: esiste un aspetto penale e uno civile del caso. Da un punto di vista penale, il nonno ha violato le norme del nostro codice penale, infatti è stato aperto un fascicolo per sequestro aggravato di minore. Significa che, se dovesse tornare, scatterebbe l’arresto. Ma in questi casi ciò che più conta è l’aspetto civile, cioè la violazione della convenzione dell’Aja del 1980, sottoscritta da diversi Paesi tra i quali Italia e Israele nel 1980» chiarisce Puglisi.

• Come interviene lo Stato
  La Convenzione dell’Aja prevede che in ciascun Paese firmatario si attivi l’organo di riferimento, chiamato Autorità centrale, che per l’Italia è a Roma. Questa si mette in contatto con il corrispondente del Paese in cui è stato trasferito il minore, per avere informazioni: per esempio, dove si trova esattamente, con chi vive o se sono rispettati quelli che sono considerati gli standard minimi. Poi si attiva la negoziazione per il rientro spontaneo – spiega Puglisi – Quando, invece, manca una convenzione o un accordo bilaterale, tutto è rimesso all’attività diplomatica, che è molto più difficile, soprattutto nel caso di Stati del nord Africa. In pratica si avvia un lavoro di intelligence per localizzare i bambini o i ragazzi, poi un’azione diplomatica per ottenere un provvedimento di rimpatrio da parte dell’autorità giudiziaria. Ma il problema è soprattutto farlo eseguire, specie in realtà dove non c’è piena democrazia» spiega l’avvocato.

• Quali sono i problemi più frequenti
  Nel caso specifico di Eitan occorrerà vedere se, come annunciato dai media israeliani, al parere favorevole al rimpatrio di Eitan da parte degli esperti del ministero degli Esteri e della Giustizia di Tel Aviv seguirà un provvedimento in tempi brevi. Ma per tanti altri casi – e sono molti – le cose non sono così semplici: «Tra Paesi europei di solito è più semplice risolvere le controversie a livello internazionale, anche se con alcuni non mancano le problematiche, per esempio con la Germania: lì spesso si ritiene che la scolarizzazione tedesca sia al disopra degli standard di altri Paesi, dunque c’è la tendenza a negare il rimpatrio e non mancano casi si genitori che non riescono più a vedere i figli, di madri o padri ai quali è persino negato vederli – spiega l’esperto - Il problema è che si tratta di una materia molto scivolosa, dove non ci sono automatismi e ogni caso è a sé»

• Troppi casi di “rapimenti” in Italia e in Europa
  La storia di Eitan è unica, anche per il fatto che si tratta di un bambino di appena 6 anni che ha perso entrambi i genitori (oltre al fratello e ai bisnonni) nell’incidente a Stresa. Ma nella maggior parte dei casi, i minori sottratti all’estero sono figli di genitori separati e sono molti: «Sono circa 100 all’anno e la maggior parte sono figli di unioni miste, tra madri e padri di nazionalità differenti. Il fenomeno è diffuso anche in Europa, dove sono circa 1.000 i casi ogni anno» racconta Puglisi. «Ci sono padri che rischiano di non rivedere i figli, ma anche moltissime madri. Io stesso mi sono occupato del caso di Sandra Fardella» racconta il legale. Il padre della piccola Sara Ammar era partito dalla volta del suo Paese d’origine, l’Egitto, con la figlia, rifiutandosi di riportarla in Italia. La bambina all’epoca, nel 2010, aveva 4 anni e risultava irreperibile. La madre si era recata in Egitto per cercarla. Dopo una battaglia legale e diplomatica durata cinque anni Sara e la madre erano tornate in Italia. «Di casi analoghi ce ne sono moltissimi, soprattutto quando i padri, di origine siriana, egiziana o tunisina, decidono di tornare in Patria portando con sé i figli» spiega Puglisi.

• Il passaporto per l’espatrio
  Uno dei nodi, che è emerso col caso di Eitan ma che riguarda potenzialmente tutti i genitori, è quello del passaporto. Perché un minore possa lasciare il Paese d’origine occorre questo documento, firmato da entrambi i genitori. «È chiaro che per Eitan le cose sono diverse perché i genitori sono mancati e il passaporto era in mano al nonno materno, anche se esisteva un provvedimento di affido temporaneo alla zia paterna. Quando la donna ha sporto denuncia, però, era troppo tardi, perché il bambino era già oltre confine e le autorità non hanno potuto far nulla per fermarlo. Tra l’altro, il giudice aveva chiesto la riconsegna del passaporto da parte del nonno, che era stata disattesa – spiega Puglisi – Nella normalità dei casi, invece, non solo serve il passaporto firmato da entrambi i genitori, ma anche un’autorizzazione all’espatrio, di volta in volta, senza la quale né madre né padre possono condurre il figlio all’estero».
   Se però uno dei due ha motivo di temere che l’altro genitore possa allontanarsi senza autorizzazione, può rivolgersi all’autorità giudiziaria: «Si può chiedere che l’altro genitore sia espunto dal passaporto: in pratica, il nome dell’altro viene tolto dal passaporto e, in sostituzione viene rilasciato un altro documento non valido per l’espatrio» avverte Puglisi.

• Tempi troppo lunghi
  Infine c’è il problema delle tempistiche, sempre troppo lunghe: «Quando va tutto bene, quindi ci sono accordi internazionali e pareri favorevoli al rimpatrio, possono bastare poche settimane, ma nella realtà i tempi sono molto più lunghi e variano a seconda dei casi. Dipende molto dall’esito delle discussioni tramite l’autorità centrale, nel caso in cui sia stata sottoscritta la convenzione dell’Aja, ma di rado ci vogliono meno di 6 mesi. Spesso, poi, i giudici vogliono entrare nel merito e capire se il minore possa andare incontro a pregiudizi psicofisici in caso di rimpatrio e per questo occorre un’istruttoria. Insomma i mesi volano» conclude l’esperto di Family Legal.

(Donna Moderna, 14 settembre 2021)


Tokyo 2020, judo: atleta si ritira per non affrontare israeliano, sospeso per dieci anni

di Sofia Cioli

La Federazione internazionale del Judo (Ijf) ha disposto una sospensione di dieci anni nei confronti del judoka algerino Fethi Nourine (categoria -73kg) e del suo allenatore, Amar Benikhlef, in seguito alla decisione presa lo scorso 23 luglio ai Giochi Olimpici di Tokyo 2020 di ritirarsi per non affrontare un atleta israeliano. Nourine aveva affermato che il suo sostegno politico alla causa palestinese gli aveva reso impossibile competere con Tohar Butbul.
   Dopo una prima estromissione temporanea dalle competizioni per atleta e allenatore, il 24 luglio scorso l’Ijf aveva formato una commissione d’inchiesta che ora ha concluso il suo lavoro: “è evidente che i due hanno utilizzato i Giochi Olimpici come piattaforma di protesta e promozione della propaganda politica e religiosa– si legge in un comunicato della stessa federazione –, che è una chiara e grave violazione degli statuti Ijf, del Codice etico Ijf e della Carta Olimpica. Pertanto, in questo caso non può essere imposta altra sanzione se non una sospensione severa”. Il provvedimento è valido fino al 23 luglio 2031, ed è impugnabile presso il Tribunale arbitrale dello sport.

(Sportface.it, 14 settembre 2021)


Roma, museo della Shoah: retromarcia del Campidoglio, Raggi blocca tutto

Annullata la cerimonia della prima pietra a Villa Torlonia giudicata solo una mossa elettorale

di Lorenzo D'Albergo

Il primo "no", piuttosto secco, non è bastato. Per convincere Virginia Raggi a cancellare la cerimonia per l'avvio dei lavori del Museo della Shoah ne è servito un secondo. Sì, perché dopo la Comunità ebraica di Roma anche l'Unione delle comunità ebraiche italiane si è sfilata dall'appuntamento per la posa della prima pietra del museo della Shoah.
   L'evento originariamente previsto per martedì mattina a villa Torlonia è stato subito bollato come "uno spot elettorale" dai discendenti di chi ha vissuto l'Olocausto. Non a caso, la scorsa settimana, era stata la Cer guidata da Ruth Dureghello a rispedire al mittente l'invito senza troppi ringraziamenti.
   Ora il nuovo strappo. Nella nota diramata dal Campidoglio grillino ieri sera, a poche ore dall'evento, era prevista la partecipazione dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, che ovviamente ricomprende quella romana. Una presenza che Noemi Di Segni, la presidente dell'Ucei, ha subito smentito categoricamente: "Non è vero, non ci sarò. Deve essere un errore del Comune. Abbiamo chiesto al Campidoglio di spostare l'iniziativa per ragioni di opportunità".
   Una risposta che la sindaca Virginia Raggi poteva ampiamente pronosticare. Di Segni, infatti, era già stata contattata nelle ultime ore da palazzo Senatorio. Al telefono aveva ribadito la sua assenza, sempre per motivi di opportunità. Le urne sono troppo vicine per presentarsi alla passerella allestita dalla sindaca uscente.
   Una posizione in linea con quella espressa dall'Unione delle comunità ebraiche italiane durante l'ultimo consiglio di amministrazione della Fondazione Museo della Shoah: "L'avvio dei lavori va rinviato a dopo le elezioni".
   E così sarà. Nella tarda serata di ieri è arrivato il dietrofront di Raggi. I lavori partiranno, ma senza alcun taglio del nastro. Ad annunciarlo ieri sera è stata la stessa sindaca sui social: "Come ho detto giorni fa, non voglio che questo tema diventi terreno di polemiche ingiustificate. Per questo ho deciso che non ci sarà una cerimonia pubblica per l'apertura del cantiere. La Comunità ebraica di Roma ha deciso di non essere presente. Rispetto la decisione, pur non condividendola. Come ho dimostrato in questi anni, non voglio alimentare contrapposizioni che farebbero male alla città e ai romani".
   Soprattutto su un'opera attesa ormai da 24 anni. L'inizio dei cantieri per il museo è stato annunciato per la prima volta nel 1997. La seconda nel 2005, quando in Campidoglio c'era Walter Veltroni. I lavori avrebbero dovuto prendere 18 mesi. Previsioni più che ottimistiche.
   Tornando alla cronistoria dell'opera, nel 2006 vengono almeno individuati gli spazi: il Comune acquista per 15 milioni un'area di villa Torlonia, a ridosso della residenza di Benito Mussolini. Da quel momento in poi, il progetto entra nel vortice dei bandi e dei ricorsi. Invecchia. Per il via libera degli uffici del Comune bisogna attendere il 2020. Quindi l'ultima bagarre. Gerusalemme, Washington, Berlino, Londra e Parigi hanno già un Museo della Shoah. Roma? Tra le polemiche, è ancora alla posa della prima pietra.

(la Repubblica, 14 settembre 2021)


Appello di 300 parlamentari perché le democrazie pongano fine alla discriminazione Onu contro Israele

Nel 2020, su 23 risoluzioni per violazione dei diritti umani 17 erano contro Israele, l’unico paese al mondo condannato dal Consiglio economico-sociale per presunte violazioni dei diritti delle donne.

Più di 300 parlamentari di paesi europei e nord-americani hanno sottoscritto un documento in cui si esortano le democrazie a porre fine al pregiudizio delle Nazioni Unite contro Israele. Nella petizione, pubblicata lunedì dall’AJC Transatlantic Institute, i 312 firmatari, appartenenti a diversi partiti dell’arco politico, chiedono agli stati membri dell’Unione Europea e alle altre democrazie di “aiutare a porre fine alla discriminazione sistematica dell’Onu contro Israele”....

(israele.net, 13 settembre 2021)


Tentato accoltellamento a Gerusalemme Ovest: feriti due civili israeliani e un palestinese

Due israeliani hanno riportato lievi ferite dopo essere stati attaccati da quello che Israele ha definito un “sospetto terrorista” armato di coltello, nei pressi della stazione centrale degli autobus a Gerusalemme, lunedì 13 settembre. L’attentatore, un giovane palestinese, è stato sparato dagli agenti di polizia giunti sul posto, rimanendo anch’egli ferito.
  Le vittime israeliane sono state attaccate mentre si trovavano in un negozio di Gerusalemme, il che ha spinto le forze di polizia di frontiera a precipitarsi sul luogo, dove hanno sparato contro l’attentatore. Il servizio di ambulanza Magen David Adom ha riferito che i due civili israeliani, di circa 20 anni, sono stati sottoposti a cure da parte di paramedici, che li hanno successivamente trasferiti al Shaare Zedek Medical Center. Stando a quanto riportato da fonti mediche, i due uomini, che hanno riportato ferite nella parte superiore, sono in condizioni stabili. L’attentatore, invece, un palestinese di 17 anni proveniente dalla zona di Hebron, versa in gravi condizioni, secondo quanto affermato dal comandante della polizia del distretto di Gerusalemme, Doron Turgeman. Quest’ultimo ha aggiunto che i propri agenti hanno altresì arrestato due uomini che si aggiravano nei pressi della stazione, sospettati di aver aiutato l’assalitore, mentre sono alla ricerca di altri 3 individui, anch’essi presumibilmente coinvolti nell’accaduto.
  “Vi è senza dubbio un’escalation” ha affermato il capo della polizia di Gerusalemme, facendo riferimento a una serie di altri attacchi simili perpetrati di recente. A tal proposito, nella medesima giornata del 12 settembre, un giovane palestinese è stato accusato di un tentato accoltellamento a Gush Etzion, un insediamento posto a Sud di Gerusalemme e Betlemme. Anche in tal caso, i soldati israeliani hanno sparato contro l’assalitore, che, a detta di fonti israeliane, stava correndo contro i militari agitando un coltello e urlando “Allah Akbar”. Nel pomeriggio del 10 settembre, un altro aggressore è stato colpito da colpi di arma da fuoco mentre tentava di accoltellare agenti di polizia nella Città Vecchia di Gerusalemme, alla porta del Consiglio della Città Vecchia. L’attentatore ha poi perso la vita per le ferite riportate.
  Il ministro della Difesa di Israele, Benny Gantz, il 13 settembre, ha elogiato l’ufficiale della polizia di frontiera che ha sparato al “terrorista”, così come i soldati israeliani che hanno sventato l’attacco all’incrocio di Gush Etzion. “Continueremo ad agire con risolutezza contro qualsiasi azione a danno dei cittadini israeliani”, ha dichiarato Gantz. Il gruppo palestinese Hamas, da parte sua, ha affermato: “L’escalation di accoltellamenti nella Gerusalemme occupata, le sparatorie, i crescenti scontri con la popolazione in Cisgiordania e le manifestazioni a Gaza rientrano nel quadro dell’intifada per la libertà lanciata dal popolo palestinese, in solidarietà con gli eroici prigionieri”. “Intensificare il ritmo delle operazioni con vari mezzi e strumenti è l’opzione migliore per affrontare l’occupazione sionista e costringerla a fermare i suoi crimini contro il nostro popolo e i nostri prigionieri”, ha aggiunto Hamas. Anche un portavoce del Jihad islamico palestinese, Daoud Shehab, ha dichiarato che quanto accade in Cigiordania e a Gerusalemme riflette la portata della crescente rabbia della popolazione, che si ribella contro le “politiche di aggressione” condotte da Israele.
  Le tensioni sembrano essersi intensificate in tutta la Cisgiordania a seguito della fuga di sei prigionieri palestinesi fuggiti, nella notte tra il 5 e il 6 settembre, da Gilboa, una delle strutture di detenzione di massima sicurezza di Israele. Quattro dei sei prigionieri sono stati catturati dalla polizia israeliana, il 10 settembre, ma altri due sono ancora latitanti e i funzionari della sicurezza di Israele ritengono che possano nascondersi in Cisgiordania e ricevere assistenza dalla popolazione palestinese. A tal proposito, il 12 settembre, sono stati uditi colpi di arma da fuoco nella regione di Jenin, nel Nord della Cisgiordania. Secondo quanto riferito da fonti di sicurezza israeliane, questi sono stati sparati nel corso delle operazioni volte a rintracciare i due palestinesi evasi.
  Tra i fuggitivi catturati vi è Zakaria Zubeidi, 46 anni, un leader della Brigata dei martiri di al-Aqsa, affiliata al movimento Fatah. Egli era detenuto dal 2019, dopo essere stato accusato di “diversi attacchi letali”. Zubeidi ha rappresentato una figura di spicco durante la Seconda Intifada e nel 2007 aveva ottenuto l’amnistia da Israele, poi revocata nel 2011, il che ha costretto il leader alla fuga, fino al 2019. In totale, cinque fuggitivi, Munadil Nafayat, Mahmoud e Mohammad al-Arida, Iham Kahamji, e Yaqoub Qadiri appartengono al Movimento per il Jihad Islamico.
  Il carcere di Gilboa si trova a circa 4 chilometri dal confine con la Cisgiordania e ospita i palestinesi accusati o sospettati di aver commesso operazioni a danno di Israele, attacchi letali inclusi. Secondo un’organizzazione non governativa palestinese, Addameer for Prisoner Care and Human Rights, la prigione, istituita sotto la supervisione di esperti irlandesi e aperta nel 2004, è tra le più sorvegliate e gode di un livello di sicurezza “molto elevato”. L’evasione, considerata “estremamente insolita”, è avvenuta tramite un tunnel, di “decine di metri”, scavato dai detenuti stessi, e si pensa che questi abbiano ricevuto anche aiuto dall’esterno, comunicando con presunti alleati tramite cellulari ritrovati all’interno della cella.

(Sicurezza Internazionale, 13 settembre 2021)


Caso Eitan, ministero Esteri Israele: "Non è di nostra competenza"

Smentite le notizie sul parere legale favorevole alla 'restituzione' del piccolo. L'ex ambasciatore: "Israele rispetta le leggi internazionali".

Tragedia della funivia del Mottarone, le autorità israeliane prendono le distanze dalla vicenda del piccolo Eitan, smentendo la ricostruzione dell'emittente Channel 12, secondo la quale il ministero degli Esteri e quello della Giustizia avevano espresso il parere legale che il bambino venisse riportato in Italia e restituito al tutore legale. Lo riporta il Jerusalem Post, riferendo che entrambi i ministeri negano la circostanza. Un portavoce del ministero degli Esteri ha invece riferito al Jerusalem Post che, pur essendo le autorità israeliane informate della vicenda, il caso non riveste aspetti diplomatici o politici e quindi non rientra tra le loro competenze.

• L'ex ambasciatore: "Israele rispetta leggi internazionali"
  "Non so quale sarà la decisione, ma Israele rispetta sempre le leggi internazionali. E' quello che posso dire". Lo afferma ad Aki-Adnkronos International l'ex ambasciatore d'Israele in Italia, Avi Pazner, a proposito dell'attivazione della Convenzione dell'Aja sul caso del piccolo Eitan. La Convezione, datata 1980, prevede - nei casi di sottrazione internazionale - di assicurare il ritorno del minore presso il suo tutore legale e il Paese di residenza.
   "Israele fa sempre bene a rispettare la legge internazionale. Non sono un esperto e non voglio esprimere opinioni personali", aggiunge Pazner.

(Adnkronos, 13 settembre 2021)


Cosa sappiamo del rapimento di Eitan Biran, portato in Israele

È il bambino sopravvissuto all'incidente del Mottarone, affidato ai parenti paterni in Italia e portato via dal nonno materno

La vicenda che vede coinvolto Eitan Biran, il bambino di sei anni unico sopravvissuto dell’incidente della funivia del Mottarone, è complessa e dolorosa e viene raccontata dalla famiglia materna e da quella paterna in due maniere del tutto opposte. Sabato 11 settembre Eitan, che dopo essere sopravvissuto all’incidente aveva vissuto in provincia di Pavia con la zia paterna, è stato portato in Israele dal nonno materno, Shmuel Peleg, che, senza il consenso dell’altro ramo familiare, l’ha condotto fuori dall’Italia prima in auto fino alla Svizzera e poi con un volo privato da Lugano a Tel Aviv. Il ramo familiare paterno parla esplicitamente di «rapimento». Quello materno replica: «Abbiamo rispettato la volontà dei genitori che non ci sono più. Loro volevano far crescere i loro bambini in Israele».
  Il 23 maggio, alle 12.30, la funivia che da Stresa conduce alla vetta del monte Mottarone, sulla sponda piemontese del Lago Maggiore, precipitò per la rottura di una fune (l’inchiesta della magistratura per accertare le responsabilità è in corso). A bordo c’erano 15 persone, morirono in 14. Si salvò Eitan Biran, che perse il fratello Tom, di due anni, il padre Amit Biran, la madre Tal Peleg Biran e i bisnonni Itshak e Barbara Cohen. Eitan è nato in Israele ma è cresciuto in Italia, a Pavia. Il padre, Amit, lavorava alla scuola ebraica di Milano, la madre aveva studiato psicologia a Pavia e stava per iniziare un tirocinio alla clinica Maugeri.
  Dopo l’incidente e dopo aver trascorso parecchie settimane in ospedale, Eitan, che ancora oggi si muove con l’aiuto di un girello a causa dei traumi subiti alle gambe, era andato a vivere con la famiglia della zia paterna Aya Biran, a Trivocò Siccomario, nel pavese, non lontano da dove abitava con i genitori. La zia era stata indicata dal tribunale di Pavia come tutrice legale del bambino.
  Nelle intenzioni della famiglia Biran, Eitan dovrebbe continuare a vivere in Italia: il bambino era stato iscritto a scuola e a Pavia continuava a seguire sedute di fisioterapia e di psicoterapia. Questa settimana avrebbe dovuto fare un controllo in ospedale. La decisione del tribunale italiano era stata contestata duramente dalla famiglia Peleg, cioè il ramo materno: secondo i nonni e le zie, più volte i genitori del bambino avevano espresso la volontà di tornare a vivere in Israele. I Peleg avevano anche detto che Tal e Amit si rivolgevano a Eitan in ebraico, che parlavano in continuazione di Israele e di ebraismo. E a sostegno delle loro affermazioni citavano anche il fatto che Tal e Amit fossero stati sepolti in Israele.
  Il tribunale di Pavia aveva sempre respinto i loro ricorsi e aveva anche intimato al nonno Shmuel Peleg di restituire il passaporto israeliano del bambino (Eitan ha doppio passaporto, israeliano e italiano). Shmuel avrebbe dovuto farlo entro il 30 agosto ma la decisione del tribunale non era stata rispettata. L’11 agosto le sorelle della mamma di Eitan, Gali e Aviv, e il fratello Guy, avevano tenuto una conferenza stampa accusando la zia paterna Aya Biran di non dare loro notizie del bambino e di tenerlo segregato in Italia.
  Sabato mattina Shmuel Peleg ha preso Eitan, l’ha fatto salire su un aereo privato e i due sono volati fino a Tel Aviv. Il nonno si era presentato due ore prima davanti alla villetta dove vive Eitan per una delle due visite settimanali concordate in tribunale. Secondo quanto raccontato dalla zia paterna ai giornali, Shmuel ha detto che sarebbe andato a comprare giocattoli con Eitan e poi non ha dato notizie fino alle 18.30.
  A quel punto sul telefono cellulare di Aya è arrivato un messaggio da parte della zia materna Gali Peleg: «Eitan è a casa», ha scritto. Ora Eitan sarebbe, secondo quanto detto sempre dalla zia materna, a fare dei controlli all’ospedale Tel HaShomer di Tel Aviv.
  A Pavia è stata aperta un’inchiesta: il reato ipotizzato è sequestro aggravato di persona. Secondo l’avvocata Cristina Pagni, che assiste civilmente Aya Biran, Eitan non poteva espatriare, se non accompagnato dalla zia paterna.
  Non è probabilmente casuale che Eitan sia stato portato via proprio il sabato precedente all’inizio della scuola. Il bambino era stato iscritto a una scuola cattolica, una decisione molto contestata dalla famiglia Peleg: «Deve frequentare una scuola ebraica», avevano detto durante la conferenza stampa dell’11 agosto. Alla base dell’astio tra i due gruppi ci sarebbe anche altre questioni, almeno a quanto sostiene Etty Peleg, la nonna di Eitan da parte di madre, secondo cui la sua famiglia, sefardita (cioè originaria della penisola iberica o di altri paesi mediterranei), sarebbe disprezzata dai Biran, di origine invece ashkenazita (cioè originaria dell’Europa orientale): «La loro», aveva dichiarato Etty al giornale isrealiano Israel Hayom, «è la tipica alterigia europea».
  In più ci sarebbero anche ragioni politiche. Sempre Etty aveva detto: «Non ho mai nascosto che noi siamo di destra», alludendo al fatto che invece la famiglia Biran avrebbe simpatie più di sinistra. Etty Peleg nell’intervista ha detto che sua nipote e il marito avevano già comprato un appartamento nella città di Ramat HaSharon, vicino a Tel Aviv, segno evidente della loro volontà di tornare a vivere in Israele.
  La famiglia Peleg non sembra affatto preoccupata di aver violato delle disposizioni di un tribunale italiano. Aya Biran, che non aveva mai replicato prima alle accuse provenienti da Israele, ora chiede l’immediato ritorno del bambino in Italia secondo quanto disposto dalla legge italiana e dalla convenzione dell’Aia in materia di tutela dei minori. La convenzione, a cui aderisce anche Israele, stabilisce che in caso di sottrazione internazionale di minore si faccia ricorso ai giudici dello stato dove è stato condotto il bambino. Se viene riscontrata una sottrazione illecita il giudice deve ordinare il rimpatrio nel paese di residenza. A quel punto le decisioni spettano di nuovo ai tribunali italiani. Per gli avvocati della famiglia Biran non c’è alcun dubbio che si debba seguire quanto stabilito dalla convenzione dell’Aia: l’aver portato Eitan in Israele è una sottrazione illecita perché chi lo ha portato via non aveva la sua custodia.
  Le due famiglie, tra Italia e Israele, si lanciano ora accuse pesanti. Dice Gali Peleg: «Prima il bambino era in condizioni mentali non buone. Al termine delle nostre visite piangeva, chiedeva se aveva fatto qualcosa di male. Quando è sbarcato l’altro giorno a Tel Aviv ha detto: finalmente sono a casa». Ai giornalisti che le chiedevano di replicare, Aya Biran ha detto: «Io, mio fratello e sua moglie abbiamo condiviso la crescita dei bambini, li abbiamo allattati insieme. Sono stati anni di gite con i passeggini, di pomeriggi passati nella piscinetta in giardino. Sono gli scatti dei nostri momenti insieme, tra dubbi, studi, lavoro, le nostre festività, i Shabbat insieme».
  La zia tutrice ha anche detto che Shmuel Peleg è stato condannato in via definitiva in Israele per maltrattamenti all’ex moglie (non c’è però ancora riscontro ufficiale a questa notizia). In una dichiarazione riportata da La Stampa, Aya Biran ha detto: «Siamo molto preoccupati. È un’altra tragedia per Eitan. Un’altra separazione. Io gli lasciavo i miei occhiali quando andavo in bagno per fargli carpire che sarei tornata». Da Isreaele replicano: «Siamo stati obbligati ad agire così, non avevamo notizie sulle sue condizioni mentali e di salute. Potevamo solo vederlo per breve tempo. Lo abbiamo riportato a casa, così come i genitori volevano per lui. Eitan ha urlato di emozione quando ci ha visto, era felice».
  Dopo quella a Pavia, è stata presentata una denuncia contro Shmuel Peleg per sottrazione di minore anche in Israele, per fare in modo che venga aperta un’inchiesta della magistratura di Tel Aviv. Il prossimo passo probabilmente sarà la richiesta, da parte della magistratura italiana, di una rogatoria internazionale. I tempi, però, non saranno brevi.

(il Post, 13 settembre 2021)


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La guerra delle famiglie "Soffre, fatelo tornare" "No, la sua casa è qui"

AYA BIRAN, sorella di Amit, padre di Eitan
È stato portato via con l’inganno. Da noi era felice, giocava con le mie due figlie
GALI PELEG sorella di Tal, madre di Eitan
Non è un rapimento Abbiamo agito per il suo bene attuando la volontà dei genitori

di Paolo Berizzi, Pavia
e Sharon Nizza, Tel Aviv

«Sembra un film di Hollywood scritto male». Dice così, a metà pomeriggio, la zia paterna Aya Biran. «Siamo sconvolti, l’hanno rapito». Replica della zia materna Gali Peleg, che ad agosto ha annunciato di aver avviato le pratiche per l’adozione del nipotino: «No, non l’abbiamo rapito: l’abbiamo portato a casa. Siamo stati obbligati, non abbiamo più saputo quali fossero le condizioni mentali e di salute del bambino». Ancora Aya, la tutrice: «Eitan stava facendo un percorso di recupero: adesso questo percorso è stato interrotto ». No, ribatte Gali Pelag in un’intervista alla radio israeliana: «Il nostro amato Eitan è tornato in Israele dopo aver perso tutta la sua famiglia, così come volevano i suoi genitori. Dal momento in cui è arrivato qui, è in cura presso l’ospedale Sheba Tel Hashomer dove è trattato da uno staff medico di primo livello, a causa delle condizioni complesse e delicate in cui si trova».
   Due famiglie: quella del papà e quella della mamma di Eitan Biran. Due famiglie e in particolare due zie che, da più di un mese, si contendono il nipotino rimasto orfano. Avvocati, denunce, ricorsi, tribunali: una guerra che pare surreale: un supplemento di pena per Eitan. «Prima il bambino era in condizioni mentali non buone. Al termine delle nostre visite piangeva, chiedeva se aveva fatto qualcosa di male», ha attaccato Gali Peleg. «Eitan stava benissimo qui con noi, giocava con le sue cuginette ed era pronto ad andare a scuola», ribatte Aya. Che le due famiglie avessero idee diverse sul futuro di Eitan si era capito già durante i 19 giorni del ricovero in ospedale a Torino. Nonni e zii materni ipotizzavano il trasferimento a Tel Aviv; zia Aya aveva ribattuto: «Abbiamo condiviso la crescita dei bambini, li abbiamo allattati insieme. Sono stati anni di gite con i passeggini, di pomeriggi passati nella piscinetta in giardino. Sono gli scatti dei nostri momenti insieme, tra dubbi, studi, lavoro, le nostre festività, i Shabbat insieme». Poi i rapporti sono degradati. Quando le hanno domandato della tutela del bambino data dal giudice italiano a Aya, Gali Peleg ha risposto: «A noi il lato legale non interessa. Non ci interessa la convenzione dell’Aja. A noi interessa solo il bene di Eitan. Abbiamo agito solo per il suo bene. Cosa avremmo potuto mai dirgli se, da grande, ci avesse rinfacciato di non averlo riportato in Israele?». Tra un botta e riposta e l’altro, si è aperta un’inchiesta per sequestro di persona. Dice lo zio Or Nirko, marito di Aya: «Io me lo sentivo dall’inizio che quella famiglia avrebbe fatto qualcosa di sporco per aggirare la legge italiana. Ma arrivare al punto di organizzare un sequestro… ». Adesso è battaglia legale. Alla denuncia per sequestro di minorenne presentata sabato da Aya alla polizia italiana, ieri mattina se ne è aggiunta una seconda, sporta in Israele contro Shmuel Peleg, il nonno materno di Eytan che l’ha prelevato da casa di Aya senza farvi più ritorno. La denuncia sul suolo israeliano accelererà l’apertura di un’inchiesta locale, che fino a ieri non era stata avviata in quanto non ancora giunta la richiesta di rogatoria internazionale. Se non interverrà prima l’autorità giudiziaria, il primo confronto tra le parti potrebbe svolgersi il 22 ottobre, quando è convocata al Tribunale per i Minorenni di Milano l’udienza richiesta dalla famiglia Peleg per reclamare la nomina della zia paterna come tutrice del bambino.

(la Repubblica, 13 settembre 2021)


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«L’identità non c'entra: si cresce anche nel deserto» 

Intervista a Mila Hasbani, presidente della Comunità ebraica milanese.

di Fabrizio Guglielmini 

«Il tema dell'identità ebraica non c'entra niente con questo caso, purtroppo molto tormentato, siamo davanti a una dimensione tutta privata e familiare con una svolta che non ci aspettavamo». Il presidente della Comunità ebraica milanese Milo Hasbani prende una posizione netta sulla vicenda del piccolo Eitan. 

- Come giudicate questo atto che coinvolge l’Italia e Israele? 
  «Condanniamo e giudichiamo gravissimo il sequestro di Eitan e ci sembra quasi assurdo dover dire che un buon ebreo può crescere ovunque, anche nel deserto, e spero che la sua vicenda non venga strumentalizzata per fini politici». 

- Sui social si sono susseguiti commenti anche negativi su Israele 
  «Ho letto diversi commenti, alcuni molto poco piacevoli. Le critiche si possono accettare ma stiamo andando fuori contesto: viene messo di mezzo Israele in modo non pertinente». 

- Quale valutazione sulla decisione dell'affido? 
  «Noi viviamo qui e ci sottoponiamo ovviamente alle autorità italiane e alla loro scelta di affido del bambino». 

- Nei mesi scorsi avete aiutato i parenti delle vittime? 
  «Subito dopo il disastro del Mottarone ci siamo attivati su ogni fronte possibile - da quello ospedaliero a quello legale - per dare assistenza a tutti i parenti delle vittime israeliane». 

- Come si è arrivati a un gesto così estremo? 
  «Il tribunale dei minori di Torino ha dato parere positivo per l'affido del piccolo alla zia patema Aya ma questo giudizio è sempre stato contestato dalla famiglia Peleg ed ora assistiamo alle conseguenze di questo scontro». 

(Corriere della Sera, 13 settembre 2021)


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Il caso Eitan e il rabbino capo: «Ospitammo quella famiglia, ora siamo davvero sgomenti»

Il piccolo, sopravvissuto alla tragedia della funivia, rapito dal nonno materno. Ariel Di Porto: «Mai avremmo immaginato questa situazione»

di Massimo Massenzio

«Siamo sgomenti, non pensavamo si potesse arrivare a tanto». Ariel Di Porto, rabbino capo di Torino, ha commentato così il rapimento del piccolo Eitan Moshe Biran da parte del nonno materno Shmuel Peleg. Il bambino israeliano di sei anni, che nel crollo della funivia sul Mottarone ha perso i genitori, il fratellino e i bisnonni, era stato ricoverato per 19 giorni nell’ospedale infantile Regina Margherita.
   Sin dalla sera della tragedia, avvenuta lo scorso 23 maggio, al suo fianco c’è stata la zia Aya Biran Nirko sorella di papà Amit. Il padre di Eitan aveva scelto di trasferirsi a Pavia proprio per seguire le sue orme e iscriversi alla facoltà di medicina. Da molti anni, infatti, Aya lavora in Lombardia ed è medico del carcere di Vigevano. Il Tribunale di Torino l’ha poi nominata tutrice legale di Eitan, con una decisione che è stata confermata anche dal giudice tutelare di Pavia, ma mai stata accettata dalla famiglia Peleg.
   Sin dai tempi del ricovero al Regina Margherita i genitori e la sorella di Tal Peleg, la mamma di Eitan, hanno sostenuto che i genitori del piccolo avessero intenzione di tornare in Israele.
   A Torino sono stati ospitati in una casa di via Madama Cristina, grazie all’aiuto di una famiglia vicina alla comunità ebraica: «Abbiamo avuto rapporti con entrambe le famiglie e, per quanto fosse nelle nostre possibilità, abbiamo cercato di dare loro il nostro supporto – ricorda Di Porto –. Certe reazioni, a caldo, subito dopo una tragedia enorme, potevano essere anche comprensibili. Ci aspettavamo però che la situazione migliorasse dopo il miglioramento e le dimissioni del bambino. E soprattutto nel suo interesse».
   E invece, dopo le prime schermaglie, un mese fa i legali della famiglia Biran hanno accusato la zia paterna di «tenere in ostaggio in Italia» il piccolo. Annunciando anche la richiesta di adozione del bimbo. Gali Peleg, sorella di Tal, aveva motivato la decisione sostenendo che «Eitan ha diritto di avere una casa nella quale i suoi genitori avrebbero voluto che crescesse. Come ebreo in una scuola ebraica, e non in una scuola cattolica in Italia».
   Con quelle affermazioni i rapporti si sono definitivamente incrinati, ma nessuno si aspettava un epilogo del genere: «Dopo il trasferimento di Eitan da Torino a Pavia la nostra comunità ha mantenuto solo rapporti di cortesia con le famiglie – aggiunge il rabbino -. Saluti, auguri, cose così. Quindi non abbiamo mai avuto informazioni di prima mano, ma i sentori di quello che stava succedendo ci sono arrivati. Non avremmo però mai immaginato una cosa del genere».
   Sabato mattina nonno Shmuel si è presentato nella villetta di Travacò Siccomario, in provincia di Pavia, dove Eitan vive assieme agli zii paterni e alle cuginette. Era in programma un incontro concordato fra i legali e il bimbo avrebbe dovuto fare ritorno a casa nel pomeriggio. Ma la zia Aya non l’ha più visto. Il nonno materno l’ha portato in Israele, forse con un volo privato. Gali ha dichiarato a una radio israeliana di «aver agito per il bene di Eitan», ma la Procura di Pavia ha aperto un’inchiesta per sequestro di persona. «Purtroppo a fare le spese di tutta questa vicenda è proprio Eitan – conclude Ariel Di Porto –, un bambino che sta già affrontando una grande sofferenza».

(Corriere della Sera - Torino, 13 settembre 2021)


Quarta dose Israele, prof. Ash: “Siamo pronti”. “Speriamo che la terza duri più di sei mesi”

In Israele sono già pronti a somministrare la quarta dose di vaccino: ecco il commento del professor Nachman Ash, direttore generale del ministero della Salute.

di Davide Giancristofaro Alberti

Israele è la prima nazione al mondo che ha fatto partire la campagna di vaccinazione anti covid, nonché quella che ha iniziato la somministrazione della terza dose e che ha già in programma una quarta inoculazione. Così come riferito dai media in questi ultimi giorni, Israele si sarebbe portata avanti, garantendosi una fornitura di vaccini sufficiente appunto a coprire un eventuale nuovo richiamo in più dopo la terza dose, così come affermato dal professor Nachman Ash, direttore generale del ministero della Salute, intervenendo nelle scorse ore ai microfoni dell’emittente radiofonica Radio 103FM: “Non sappiamo quando accadrà; spero davvero che non avvenga entro sei mesi, come questa volta, e che la terza dose duri più a lungo”.
   I dati che giungono da Israele sono preoccupanti in quanto il calo della copertura dei vaccini contro il covid è stato drastico, ma ciò, secondo gli esperti, è dovuto principalmente al fatto che il virus che circolava a dicembre 2020/gennaio 2021, era un virus completamente diverso rispetto a quello attuale, rimpiazzato di fatto dalla Variante Delta. “I vaccini svaniscono nel tempo – ha aggiunto ancora Nachman Ash parlando su maariv.co.il – e dopo sei mesi di calo significativo le persone si infettano anche dopo due vaccini”.

• QUARTA DOSE ISRAELE, ASH: «CI STIAMO PREPARANDO, SE NECESSARIO SAREMO PRONTI»
  Quindi sulla quarta dose ha ribadito: “Non sappiamo quando verrà approvato il vaccino, io spero vivamente che non sia entro sei mesi e che il terzo vaccino duri più a lungo. Stiamo iniziando a prepararci in modo da avere scorte di vaccini, se necessario”.
   Il professore ha parlato anche del vaccino anti covid per gli under-12: “Stiamo aspettando l’approvazione della FDA per quanto riguarda i vaccini per bambini, stimo che entro due o tre mesi arriverà”. Secondo il direttore generale del ministero della Salute si tratta di “Una questione delicata e vogliamo essere al sicuro”. Al momento, quindi, per la quarta dose regna l’incertezza, come è giusto che sia del resto.

(ilsussidiario.net, 13 settembre 2021)


"Israele si sarebbe portata avanti, garantendosi una fornitura di vaccini sufficiente a coprire un eventuale nuovo richiamo in più dopo la terza dose". Il richiamo in più arriverà, arriverà, se ne può star certi: lo richiede il mercato gestito dalle multinazionali farmaceutiche. E Israele deve dare al mondo il buon esempio . M.C.


"La casa di Eitan è in Italia". "No è in Israele"

Media israeliani preoccupati per l'evoluzione della vicenda

Toni preoccupati sui media israeliani per l'evoluzione della vicenda legata a Eitan Biran, il piccolo unico sopravvissuto alla strage del Mottarone. Il bambino di sei anni è da mesi al centro di una contesa tra la famiglia materna, che vive in Israele, e quella paterna, che vive a Pavia. Una contesa che ha avuto un'evoluzione drammatica nelle ultime 24 ore, con la decisione del nonno materno, Shmuel Peleg, di sottrarlo alla custodia della zia paterna Aya Biran, nominata sua tutrice legale, e portarlo in Israele. Qui la notizia è stata accolta con stupore e con molta preoccupazione per il benessere del piccolo. Tanti gli aspetti da chiarire in questa vicenda molto delicata e dolorosa, il cui ultimo capitolo è l'apertura di un'indagine per sequestro di persona da parte della procura di Pavia dopo la mossa della famiglia materna. Parte della famiglia che vorrebbe veder crescere e vivere Eitan in Israele. La zia paterna, a cui è stata data la tutela legale dal Tribunale di Torino, ha invece iscritto il bambino nella stessa scuola delle sue figlie nel pavese. La sua casa, ha dichiarato in queste ore Biran, è l'Italia. Eitan è “cittadino italiano, non solo israeliano. Pavia è la casa dove è cresciuto, noi lo aspettiamo qui, siamo molto preoccupati per la sua salute”, le sue dichiarazioni. Il fatto che sia stato portato via, prosegue, è una “mossa unilaterale e gravissima della famiglia Peleg” perché “il nonno materno Shmuel Peleg è stato condannato per maltrattamenti nei confronti della sua ex moglie, la nonna materna e tutti i suoi appelli sono stati respinti in tre gradi di giudizio”.
  In mattinata a parlare era stata invece Gali Peleg, intervistata dalla radio israeliana 103 Fm. “Non lo abbiamo rapito e non useremo quella parola, l'abbiamo portato a casa e abbiamo dovuto farlo perché non avevamo notizie sulla sua salute e la sua condizione mentale”. I due conduttori, Ynon Magal e Ben Caspit, le hanno chiesto con un certo allarme come sia stato portato in Israele il bambino, da chi e dove si trovi ora. Domande a cui Peleg non ha risposto. Secondo fonti dell'agenzia Agi, il trasferimento dall'Italia a Israele sarebbe avvenuto con un volo privato. Un passaggio da chiarire, sottolineano i media di entrambi i paesi, che spiegano come la famiglia materna avesse in custodia il passaporto del bambino, ma che il tribunale italiano ne aveva chiesto la restituzione. “Abbiamo portato a casa Eitan seguendo ciò che i suoi genitori volevano e speravano. - ha sostenuto Peleg alla radio, dichiarando che tra la sorella e Aya non ci fossero molti rapporti nonostante vivessero nella stessa città - Mia sorella e suo marito avevano programmato di tornare quest'anno in Israele, ma a causa della pandemia hanno posticipato un po'. Sei mesi fa abbiamo parlato del loro ritorno. Amit - la sua ricostruzione - si era anche iscritto qui per studiare all'Università di Ariel”. Alla domanda di Caspit - che non ha nascosto una certa perplessità pur evitando di puntare il dito contro nessuno - se non fosse preoccupata per eventuali violazioni della legge e delle stringenti regole della Convenzione de L'Aja (relativa alla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale), la zia materna ha risposto “a noi non interessa la Convenzione, non interessano i tribunali, ma il bene del bambino”.

(moked, 12 settembre 2021)


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"La decisione sul rientro di Eitan spetta ai giudici israeliani. I tempi saranno lunghi"

"Ci sono casi in cui il Paese in cui è stato condotto il minore può rifiutarsi di restituirlo"

di Alessandra Ziniti

ROMA -  Comunque vada la caccia al nonno rapitore, non sarà affatto facile far tornare Eitan in Italia in tempi brevi. Potrebbe passare un anno o forse anche di più. L’avvocato Lorenzo Puglisi del Foro di Milano, specializzato in diritto di famiglia, di sottrazioni di minori portati all’estero ne ha viste parecchie.

- Che succederà adesso ad Eitan?
  «Ci sono due strade che i familiari a cui il bambino è stato sottratto possono seguire: quella della denuncia penale perchè è stato commesso un reato che prevede e l’arresto e la condanna da 1 a 4 anni, e quella civile che passa per la Convenzione dell’Aia del 1980 che è stata firmata da Italia e Israele».

- Se il nonno del bambino venisse arrestato in Israele e l’Italia chiedesse la sua estradizione, Eitan rientrerebbe subito in Italia?
  «No, le due procedure sono slegate. Per il ritorno del bambino serve l’intervento delle Autorità centrali dei due Paesi o un ordine di rientro firmato dal giudice israeliano. E nulla di tutto ciò è semplice e breve».

- Cosa può fare dunque la famiglia italiana per riavere il bimbo?
  «La prima cosa da fare è rivolgersi all’Autorità centrale presso il dipartimento tutela dei minori che prenderà contatto con l’ Autorità centrale israeliana che dovrà cercare di localizzare il bambino e poi avviare un meccanismo di mediazione familiare per il rientro spontaneo del piccolo in Italia».

- Questo presuppone la volontà della famiglia israeliana di restituire Eitan che, viste le circostanze, sembra improbabile. E se non si raggiunge l’accordo?
  «Allora la decisione spetta al tribunale civile israeliano che dovrà aprire un procedimento giudiziario a cui spetta la decisione di un eventuale ordine di rimpatrio naturalmente dopo aver fatto un’istruttoria, sentiti psicologi, assistenti sociali, familiari e verificato l’interesse superiore del bambino».

- Significa che il giudice potrebbe anche decidere di far rimanere Eitan in Israele?
  «Ci sono dei casi in cui il Paese in cui è stato condotto il minore può rifiutarsi di consegnarlo. Ad esempio se i servizi sociali dicono che il bambino in Italia si ritroverebbe in una situazione di rischio o di maltrattamento, o comunque di sofferenza. Ma la famiglia italiana dalla sua ha un affidamento e dovrebbe essere quella israeliana a provare la sua inadeguatezza».

- Nel frattempo saranno passati mesi e il bambino si sarà integrato in un altro contesto.
  «E anche questo, in assenza di familiari di primo grado a cui ricongiungersi conta. Il vero problema è la tempestività, spesso i tempi si dilatano. E poi le modalità di questo rapimento lasciano pensare che il nonno possa avere un certo peso. È verosimile ipotizzare che il giudice emetterà un ordine di rientro ma poi anche per la semplice esecuzione potrebbero passare altri mesi».

(la Repubblica, 12 settembre 2021)


Ministro Gantz: base aerea iraniana usata per “addestrare gruppi terroristici”

GERUSALEMME - Il ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, ha rivelato la posizione di una base aerea iraniana che sarebbe utilizzata per “addestrare gruppi terroristici”. Lo ha affermato Gantz durante una conferenza sull’antiterrorismo. "L'Iran ha favorito la creazione di gruppi terroristici organizzati che lo aiutano a raggiungere i suoi obiettivi economici, diplomatici e militari", ha detto il ministro. “Uno degli strumenti che l'Iran ha sviluppato sono droni in grado di percorrere migliaia di chilometri situati in Yemen, Iraq, Siria e Libano”, ha proseguito Gantz, evidenziando che Teheran sta cercando di trasferire le sue conoscenze al movimento palestinese Hamas, situato nella Striscia di Gaza.

(Agenzia Nova, 12 settembre 2021)


La sinistra cieca con i terroristi

Forse Massimo D'Alema ignora che la lista dei terroristi del Consiglio di Sicurezza dell'Onu mette in testa il primo ministro talebano Mohammed Hassan Ahud e a seguire molti altri dei suoi.

di Fiamma Nirenstein

Forse Massimo D'Alema ignora che la lista dei terroristi del Consiglio di Sicurezza dell'Onu mette in testa il primo ministro talebano Mohammed Hassan Ahud e a seguire molti altri dei suoi. L'ex premier ed ex ministro degli Esteri italiano, schivando questo dato di fatto, snobba l'Onu - che pure dovrebbe essere un suo punto di riferimento - e fa dei talebani, nella sua intervista al Domani, un'organizzazione fondamentalista ma non terrorista, con cui si può, anzi, si deve trattare.
    È un punto di vista costruito sulla presuntuosa illusione etnocentrica che anche il jihadismo islamico più dichiarato si possa dribblare con l'appeasement. Un approccio praticato senza successo dall'Occidente sin dall'inizio del XX secolo, attraverso due guerre mondiali e una guerra fredda. È però molto pericoloso adottare l'idea cardine del pacifismo intransigente, secondo cui l'aiuto economico può tarpare ogni guerra, la legge internazionale è l'antidoto al genocidio e la negoziazione crea «processi di pace». Nasconde la paura di mostrarsi islamofobi e D'Alema - in modo tipico di certa sinistra - cancella la verità: ovvero che, anche se non tutto il mondo musulmano combatte per il Califfato, questa idea è comunque radicata nei testi religiosi e nel perseguimento della sharia. Ed è l'idea alla base non solo dell'Isis e di Al Qaida, ma di Hamas, di Hezbollah, dell'Iran che li nutre e ovviamente anche dei talebani. Tutte organizzazioni che D'Alema si illude non facciano parte della compagine terrorista. D'Alema crede che questi gruppi di assassini seriali di civili siano malleabili, e questa è una cieca perversione. Come quella di rimpiangere che la Fratellanza Musulmana non sieda alla guida dell'Egitto.
    È nella forza della jihad stessa, e non nei tentativi a volte goffi e sbagliati dell'Occidente di tamponarla, che risiede il rischio per tutti noi. La battaglia è contro la sofferenza inferta alla nostra civiltà dal terrorismo. Al contrario, D'Alema ha fornito un mattone alla cultura islamista, per cui il debole nemico in fuga e in confusione sarà sconfitto. Diceva lo storico Walter Laqueur che decenni di discussione sul terrorismo non hanno condotto a una definizione valida per tutti. È vero: il tuo terrorista può essere il mio freedom fighter, il liberatore.
    È un senso di perdita e di incertezza quello che si ricava dalle parole di D'Alema, pervase da un senso di colpa per cui è la nostra incapacità di pacificazione che crea il rischio. Non è così: il rischio consiste nell'utopia post moderna di poter giocare al «negoziato» con una cultura che legge il rapporto con noi solo in termini di vittoria o sconfitta, forza e debolezza.

(il Giornale, 12 settembre 2021)


In Israele aumentano contagi e casi gravi

Dopo alcuni giorni di calo, sono tornati a salire i positivi al coronavirus: una larga maggioranza di persone con sintomi severi non è vaccinata.
   Dopo alcuni giorni di calo, sono tornati a salire i casi di coronavirus in Israele: nelle ultime 24 ore sono stati segnalati 10.084 contagi, con un tasso del 6,6%, a fronte di 155’871 test, un numero alto visto che ieri era shabbat, il tradizionale giorno di riposo ebraico.
   Di nuovo in salita anche il numero dei malati gravi, arrivati a 697, e l’Rt che si attesta ora a 0,96 mentre nei giorni scorsi era sceso a 0,80.
   Continua intanto a crescere la quota di Israeliani che anno ricevuto la terza dose: ad oggi sono 2.800.000. Nei giorni scorsi Sharon Alroy-Preis, direttrice dei servizi di salute pubblica nel Ministero della sanità, ha detto che una larga maggioranza dei nuovi casi gravi si riferisce a «persone non vaccinate».

(Corriere del Ticino, 12 settembre 2021)


Eitan portato in Israele dal nonno. «Rapito usando un aereo privato»

Il bambino scampato al Mottarone. Il legale: «Siamo sconvolti». I pm di Pavia: è un sequestro .

di Giuseppe Guastella

MILANO - Quando hanno cominciato a cercarlo, Eitan probabilmente era già in Israele dove l'ha portato su un volo privato il nonno materno grazie a un colpo di mano che ricorda molto i blitz dei servizi segreti di cui sembra faccia o abbia fatto parte.
   Unico sopravvissuto alla tragedia della funivia del Mottarone in cui tra i quattordici morti c'erano i suoi genitori e il fratellino, a sei anni appena compiuti Eitan Biran, che i parenti in Israele hanno sempre sostenuto dovesse crescere nella loro terra, ora è costretto ad affrontare anche lo shock di un trasferimento sul quale la Procura di Pavia indaga per «sequestro di persona».
   Come permesso dal giudice tutelare di Pavia, ieri pomeriggio il nonno materno, Shmulik Peleg, 58 anni, che si era trasferito in Italia dopo la tragedia del Mottarone ha prelevato Eitan dall'abitazione di Pavia della zia paterna alla quale il piccolo è stato affidato dalla magistratura da quando è stato dimesso dall'ospedale dove è rimasto a lungo per le ferite riportate nell'incidente della funivia del 23 maggio. Il rientro era previsto per le 18,30, ma al termine dell'incontro Peleg ed Eitan non si sono ripresentati a casa dei parenti paterni i quali un'ora dopo hanno dato l'allarme. I primi accertamenti della Polizia di Pavia, coordinati dal procuratore facente funzioni Mario Venditti e dal sostituto Roberto Valli, hanno concluso che nonno e nipote si erano imbarcati su un volo privato a bordo del quale il bambino è potuto salire perché - non si sa come - Peleg era in possesso del passaporto del piccolo, che ha permesso l'espatrio.
   Una conferma dello sbarco in Israele è arrivata per vie diplomatiche ai magistrati pavesi i quali domani apriranno formalmente un fascicolo con l'ipotesi di reato di sequestro di persona. .
   Il bambino è finito al centro di una disputa aperta dalla zia materna da Tel Aviv che ha accusato la zia paterna di voler trattenere con sé Eitan in Italia. «Siamo determinati a circondarlo di calore e di affetto», aveva detto la signora da Tel Aviv, aggiungendo che per la sorella «erano importanti l'identità ebraica e quella israeliana» ma che questa sarebbe stata progressivamente «cancellata» da una permanenza del nipotino in Italia.
   «La notizia sconvolge tutti e ci crea grande preoccupazione», dichiara l'avvocato Armando Simbari che con Cristina Pagni e Massimo Saba assiste i familiari pavesi: «E stato strappato alla famiglia con cui è cresciuto, ai medici che lo stanno curando con un evento traumatico che può destabilizzarlo».

(Corriere della Sera, 12 settembre 2021)


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Il dolore della preside: «Per lui la zia Anya è un punto di riferimento fondamentale»

Madre Paola Canziani, superiora dell’Istituto Canossiane di Pavia: «Da una settimana era tornato nella nostra scuola sorridente, con il girello per camminare, era contento. La zia paterna gli è molto legata».

di Eleonora Lanzetti

Eitan stava bene ed era felice di aver incontrato di nuovo i suoi compagni che lo aspettavano con gioia dopo la tragedia che aveva colpito la sua famiglia. Domani, però, il piccolo, unico superstite della sciagura del Mottarone dello scorso 23 maggio, sui banchi di scuola non ci sarà. Il nonno Shmulik Peleg ha deciso di riportarlo in Israele perché possa «rafforzare le sue radici israeliane», togliendolo alla zia Aya, che ne è anche tutrice legale. Un fatto su cui la Procura di Pavia dovrà far luce: aperta un’inchiesta per sequestro di persona.

- La contesa tra le due famiglie
  La notizia ha scosso notevolmente la comunità pavese e la scuola che Eitan e i cuginetti (figli della zia paterna Ayna Biran Nirko, sua tutrice) frequentano, l’Istituto Canossiane di Pavia. Madre Paola Canziani, superiora dell’istituto, addolorata, fatica a commentare l’accaduto. Un colpo di scena, nella contesa tra le due famiglie del bimbo, che nessuno si aspettava. Il dolore è davvero enorme.

- Il ritorno a scuola
  «Da una settimana Eitan era tornato nella nostra scuola - ha spiegato Madre Paola -. Era contento di essere rientrato e di aver ritrovato gli altri bambini. Era sorridente e tenace, con il suo girello che lo aiuta a deambulare per recuperare dai problemi causati dall’incidente».

- Il legame con la zia paterna
  E poi quel legame con la zia paterna, definito come inesistente nel passato dalla zia materna del piccolo, Gali Peri. Di tutt’altro avviso Madre Paola, che ha sottolineato anzi il legame fortissimo tra la zia paterna e il nipotino: «Lei è davvero molto legata al bambino. Per lui la zia è diventata un punto di riferimento fondamentale. È davvero un grande dolore pensare che sia stato portato via così».

- La comunità ebraica
  Il presidente della comunità ebraica di Milano Milo Hasbani domenica mattina ha parlato con lo zio paterno del piccolo, Or Nirko, il marito di Aya, che gli ha spiegato come la famiglia si stia muovendo con le autorità italiane e anche con l’ambasciata italiana in Israele. L’accordo era che i nonni materni ogni tanto venissero dal piccolo. «Di tanto in tanto si vedevano» e per Israele questo è un periodo di feste, con il Capodanno ebraico dei giorni scorsi. Nulla di strano dunque, fino a che i nonni non hanno preso Eitan e invece di riportarlo dalla zia «hanno inviato un messaggio con scritto “il bambino è tornato a casa”. Hanno voluto forzare» ha commentato Hasbani, che a nome della comunità milanese «esprime una decisa condanna nei confronti di questo gravissimo atto che viola le leggi italiane ed internazionali». «L’augurio - ha aggiunto - è che la vicenda si risolva nel più breve tempo possibile nella direzione dell’ottemperanza della decisione del Tribunale dei minori».

(Corriere della Sera - Milano, 12 settembre 2021)


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Il piccolo Eitan portato dal nonno in Israele

Il piccolo Eitan Biran, unico superstite della tragedia del Mottarone, è stato portato in Israele dal nonno materno. Secondo la zia paterna Aya Biran Nirko, a cui il bambino è stato affidato e con cui vive a Pavia, Eitan sarebbe stato “rapito”. La donna avrebbe ricevuto un messaggio dal nonno paterno con su scritto “Eitan è tornato a casa”.
   Eitan è da mesi conteso tra la famiglia paterna, che vive a Pavia e ha il bambino sotto la sua tutela, e quella materna che vive in Israele. Il nonno materno, che si era momentaneamente trasferito a Pavia per stare vicino al nipote, non avrebbe riportato a casa Eitan “all'orario stabilito dopo un incontro con i famigliari della mamma" sostengono i legali di Aya Biran Nirko.
   La tv israeliana Kan ha ricostruito in un servizio l’accaduto: nella mattina di ieri il nonno sarebbe andato a prendere Eitan a casa della zia. Quando la zia non lo ha visto rientrare, come stabilito entro le 18.30, ha provato a chiamare più volte l’uomo, fino a quando non ha ricevuto da lui un messaggio con su scritto “Eitan è tornato a casa”, ovvero in Israele. Il bambino, malgrado la custodia, ha potuto viaggiare con il nonno perché lui era ancora in possesso del passaporto del minore. Aya Biran Nirko ha poi presentato denuncia alla polizia italiana sostenendo che “il bambino è stato rapito dal nonno”.
   Le autorità israeliane, il Ministero degli Esteri ha fatto sapere che sta verificando la fondatezza di tutte le informazioni, e la vicenda sembra ancora da chiarire. La zia materna di Eitan, Gali Peri, che vive in Israele, aveva nei mesi scorsi rivendicato l’affidamento del piccolo, secondo lei “in ostaggio” in una famiglia che non lo conosce, così avrebbe dovuto vivere in Israele “come avrebbe voluto sua madre”. I giudici tutelari avevano affidato Eitan a Aya Biran Nirko, e concesso alla famiglia materna di vedere il bambino due volte a settimana per due ore e mezzo.

(Shalom, 12 settembre 2021)



Il settimo comandamento: Dio protegge il matrimonio
    «Non commettere adulterio» (Esodo 20: 14). 

Per la nostra legislazione civile l'adulterio non costituisce un reato. La società organizzata non si sente chiamata in causa da questo tipo di comportamento sociale, perché ritiene che appartenga alla sfera delle relazioni private. 
   Non era così nel popolo d'Israele. In quella società l'adulterio era un reato «perseguibile d'ufficio» e punito con la massima condanna. 

    «Se uno commette adulterio con la moglie d'un altro, se commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l'adultero e l'adultera dovranno essere messi a morte» (Levitico 20:10). 
    «Quando si troverà un uomo a giacere con una. donna maritata, ambedue morranno: l'uomo che s'è giaciuto con la donna, e la donna. Così torrai via il male di mezzo ad Israele» (Deuteronomio 22:22). 

Prima di affrettarci a inorridire davanti a «simili barbarie», cerchiamo di capire. Il comandamento tiene conto di due realtà: la bontà di Dio e la malvagità degli uomini. Il matrimonio, come legame d'amore profondo tra un uomo e una donna, attraverso cui Dio continua la sua attività creatrice di altri esseri «a sua immagine e somiglianza», era certamente in origine qualcosa di «molto buono». Ma il peccato, che tutto ha deformato, non poteva certo risparmiare questo fondamentale istituto della creazione. Così, anche nel popolo che Dio si era scelto il matrimonio non corrispondeva più al progetto originario di Dio, e l'aspetto principale sotto cui era visto era quello del gruppo familiare a cui deve essere assicurata una discendenza. 
   Tuttavia, con le disposizioni mosaiche collegate al settimo comandamento Dio manifesta la sua volontà di difendere, anche in una società malvagia, l'istituzione originariamente buona del matrimonio. E per quanto la cosa possa suonarci male, dobbiamo dire che Dio «si adattò» alla durezza di cuore degli uomini e fissò dei codici di comportamento, con relative punizioni, che potessero costituire un argine contro il male che minacciava anche il matrimonio. 
   Condannando l'adulterio, Dio voleva dunque proteggere il matrimonio come ordinamento sociale. Il comandamento mosaico, infatti, puniva soltanto il rapporto di un uomo con una donna sposata ad un uomo libero, e non prendeva in considerazione i rapporti con le concubine, le prostitute, le schiave. La colpa dell'uomo adultero era quella di essersi intromesso nella sfera familiare di un altro uomo; la colpa della donna adultera era invece quella di aver tradito il proprio gruppo familiare permettendo l'intrusione di un estraneo. La parte lesa, quindi, era sempre il marito dell'adultera e non la moglie dell'adultero. 
   Ma anche questo non è del tutto esatto, perché in realtà tutta la società si sentiva parte lesa,. e Dio stesso si ergeva contro questo turbamento dell'ordinamento sociale. La questione, infatti, non poteva essere sbrigata in forma privata, mediante il pagamento di un indennizzo al marito ·offeso: la legge richiedeva che i colpevoli fossero messi a morte, perché «così torrai via il male di mezzo a Israele». 
   Con Gesù le cose cambiano. Da una parte Egli irrigidisce nettamente la legge di Mosè, abolendo ogni forma di ripudio e di divorzio (Matteo 18:8-9), tanto che ai discepoli maschi viene spontaneo di osservare che se le cose stanno così, allora «non conviene prender moglie» (Matteo 19:10). Dall'altra supera la legge rifiutandosi di consentire alla lapidazione della donna adultera (Giovanni 8:1-11) e concedendole, con il suo perdono, la possibilità di un nuovo inizio. Gesù si rifà all'opera di creazione per spiegare ai discepoli qual era il piano originario di Dio e per indicare quale modello di matrimonio dovessero tenere davanti agli occhi; e si rifà all'opera di redenzione avvenuta nella sua persona per far capire che Dio «è venuto per cercare e salvare ciò che era perito» (Luca 19:10), e quindi che anche coloro che sono caduti nel peccato di adulterio possono essere perdonati e salvati. 

    «Ma al principio della creazione Dio li fece maschio e femmina. Perciò l'uomo lascerà suo padre e sua madre, e saranno una sola carne. Così non sono più due, ma una stessa carne. L'uomo dunque, non separi quel che Dio ha unito» (Marco 10:6-9).
    «Donna, dove sono quei tuoi accusatori? Nessuno ti ha condannata? Ella rispose: Nessuno, Signore. E Gesù le disse: Neppure io ti condanno; va' e non peccare più» (Giovanni 8:10-11). 

Dobbiamo capire bene l'atteggiamento di Gesù. Qualcuno potrebbe credere che alle disposizioni restrittive, punitive e un po' terrificanti della legge di Mosè, Gesù abbia contrapposto un atteggiamento più comprensivo, più indulgente, più aperto. Sentiamo allora che cosa ha da dire «il buon Gesù»: 

    «Voi avete udito che fu detto: Non commettere adulterio. Ma io vi dico che chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Matteo 5:27-28). 

Neppure il più bacchettone dei moralisti oserebbe oggi sfidare il ridicolo andando a dire alla gente cose simili. E tanto meno aggiungerebbe, come fa Gesù: 

    «Se dunque il tuo occhio destro ti fa cadere in peccato, cavalo e gettalo via da te, poiché è meglio per te che uno dei tuoi membri perisca, e non sia gettato tutto il corpo nella geenna» (Matteo 5:29). 

Potremmo affrettarci a precisare che Gesù usa un linguaggio figurato e che non pretende che noi seguiamo alla lettera le sue parole. È vero, ma tuttavia l'insopportabile radicalizzazione che Gesù fa del comandamento e il linguaggio decisamente truculento che usa ci fanno capire che Egli non intendeva minimamente diminuire lo spavento che la legge di Dio ha il compito di operare sugli uomini. Chi ha veramente inteso e applicato a sé le parole di Gesù non ha certo il coraggio di pregare come il fariseo: «O Dio, ti ringrazio che io non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri» (Luca 18: 11). Lo spavento della legge che uccide viene tolto soltanto dalla fiducia riconoscente in Gesù Cristo, morto e risuscitato per noi, e non da una sorridente e illusoria visione della realtà. 
   Come adulteri perdonati, come persone a cui è stata fatta misericordia, possiamo allora riflettere sul proposito originario di Dio intorno al matrimonio, alla luce delle parole e dell’opera di Gesù. 
   Tre elementi sembrano emergere dal racconto della creazione dell'uomo e della donna: 

  1. la necessità di un altro essere, simile ma diverso, con cui avere comunione («non è bene che l'uomo sia solo», (Genesi 2: 18);
  2. la formazione di una nuova personalità di coppia attraverso l'unione totale, e quindi anche fisica, dei due («saranno una stessa carne», (Genesi 2:24); 
  3. la partecipazione della coppia all'opera creatrice di Dio attraverso la procreazione («crescete e moltiplicatevi», (Genesi 1:28). 

La formazione di una coppia è dunque un atto creativo di Dio. Prima ancora di far nascere altri esseri umani, Dio crea la nuova personalità uomo-donna che ha la sua espressione profonda nell'unione fisica. È Dio dunque che originariamente ha unito l'uomo e la donna. 
   Il peccato invece divide l'uomo dalla donna; e questa divisione si esprime nella disgregazione dei tre elementi indicati sopra. Si può quindi desiderare la compagnia di una persona e l'unione fisica con un'altra; oppure si può desiderare la compagnia e l'unione fisica ma non i figli; oppure si possono desiderare i figli, ma non volere la compagnia. 
   In questi e in altri simili casi manca sempre qualcosa rispetto al progetto originario di Dio. Questo progetto prevede un uomo e una donna che si uniscono per sempre a formare una nuova personalità di due esseri che non sono mai interamente riducibili l'uno all'altro, che nell'unione fisica manifestano la loro profonda comunione e nei figli vedono espressa in modo corporeo e visibile l'inscindibilità della loro personalità di coppia e la loro collaborazione all'opera creatrice di Dio. 
   La svalutazione della gravità dell'adulterio e, in generale, la bonaria comprensione con cui si guardano i rapporti sessuali al di fuori del matrimonio dipendono dalla disgregazione dei diversi elementi che costituiscono l'unione di una coppia e dalla svalutazione degli aspetti legati al corpo. Il sesso oggi non è più segno esterno di realtà profonde dell'animo umano, ma riguarda solo aspetti superficiali della persona: è soprattutto gioco, piacere condiviso; in secondo luogo è strumento tecnico di procreazione. E le due cose vengono accostate tra loro in modo abbastanza meccanico, tanto che il secondo aspetto viene spesso sperimentato come un'imprevista e spiacevole conseguenza del primo. Quanto alla compagnia stabile, cioè al matrimonio vero e proprio, se è possibile trovare anche l'accordo sessuale, tanto meglio, ma non è la fine del mondo se uno dei due o tutti e due hanno occasione di fare esperienze sessuali con altri, facendo naturalmente attenzione ad evitare i figli naturali, che sono sempre una seccatura. Insomma, gioco figli e compagnia sono visti come elementi ben distinti, che solo nei casi più fortunati si trovano tutti e tre insieme. Negli altri casi bisogna avere comprensione e cercare una «civile» soluzione di compromesso. 
   È sempre in questa svalutazione del corpo che trova spazio anche la rivalutazione dell'omosessualità. Nella diversità sessuale non si riconosce un elemento essenziale di diversità e di attrazione. La possibilità del gioco erotico tra persone dello stesso sesso è vista come un dato di fatto che va considerato come tale e non giudicato secondo superati «pregiudizi» moralistici. Se poi i due riescono a trovare un'intesa anche sul piano psicologico, chi dovrebbe avere qualcosa da ridire per il fatto che i loro corpi non si adattano l'uno all'altro e dal loro stare insieme non possono nascere figli?· I figli sono un'altra cosa; e la struttura fisica del corpo non è un fatto fondamentale per decidere se due persone possono mantenere un legame di coppia. 
   Non è il caso di scandalizzarsi troppo davanti a certe forme odierne di «moralità». La ribellione a Dio non è certo una caratteristica esclusiva dei nostri tempi, e le forme in cui l'uomo pecca non sono poi molto diverse rispetto al passato. I cambiamenti culturali hanno soltanto modificato gli argomenti che servono a giustificare la trasgressione ai comandamenti di Dio. 
   Quello che conta è restare ancorati alla parola di Dio, senza lasciarsi sedurre dalle varie proposte di «liberazione» sessuale che giungono da molte parti. Soprattutto, è necessario non permettere che si modifichi il linguaggio, perché con il linguaggio si modificano le cose. 
   I cristiani devono continuare a chiamare «adulterio» l'adulterio, e non «relazione extra-coniugale» o «avventura» o «scappatella». Simili denominazioni alternative del peccato contro il settimo comandamento manifestano bene la nostra tendenza a «comprenderci» e a giustificarci. Ma se ci usiamo misericordia da soli, non conosceremo la misericordia di Dio. 
   La misericordia· di Dio si esprime anche nelle parole con cui Gesù vieta il ripudio dell'altro coniuge (Marco 10: 11-12), mettendo in questo l'uomo e la donna sullo stesso piano. Poiché nel progetto di Dio un aspetto fondamentale del matrimonio è la fedeltà, intesa nel senso più ampio, i tre elementi indicati sopra possono essere tutti presenti solo là dove il rapporto è vissuto come totale, esclusivo e stabile. L'unione sessuale è, nelle intenzioni di Dio, un sì definitivo detto all'altro, un accettare che l'altro entri nella propria vita, e nello stesso tempo è un assumersi la responsabilità dell'altro. L'unione occasionale, provvisoria, sperimentale è un sì con riserva, quando non è un sì e no. Non si è disposti ad assumersi la responsabilità dell'altro e dei figli che potrebbero venire. Si prende e si dà qualcosa, ma non l'essenziale. Restano il dubbio e la paura, da cui non può certamente nascere quella fiducia e quell'abbandono che sono indispensabili per una vera unione. 
   La fedeltà reciproca dell'uomo e della donna deve essere un segno della fedeltà di Dio. Come Dio ha stabilito un patto con l'uomo, così il matrimonio costituisce un patto fra due persone, di cui Dio stesso è testimone e garante. 

    «Perché l'Eterno è testimonio fra te e la moglie della tua giovinezza, verso la quale ti conduci perfidamente, benché ella sia la tua compagna, la moglie alla quale sei legato da un patto» (Malachia 2:14). 

È nella natura di questo patto di essere stabile, duraturo. Ma ogni patto ha un inizio, un gesto simbolico iniziale che lo esprime e lo ratifica. Quale può essere questo gesto? La Bibbia non dice nulla di esplicito a questo riguardo, ma se è vero che il matrimonio non è un fatto puramente privato ma interessa la comunità umana, allora sembra naturale dire che il matrimonio ha inizio con l'impegno pubblico preso davanti agli uomini e, quindi, davanti a Dio. Per chi ha fiducia nel Signore, questo impegno pubblico non è una formalità superflua o un vincolo opprimente che sarebbe meglio non avere per potersi riservare la possibilità di una decorosa marcia-indietro in caso di difficoltà. Per chi crede nel Signore, questo impegno pubblico è una protezione. Come dice Dietrich Bonhoeffer, dopo la stipulazione del patto non è l'amore che sostiene il matrimonio, ma è il matrimonio che sostiene l'amore. Nei momenti difficili, il ricordo di quel patto stabilito davanti a Dio e davanti agli uomini, insieme con la promessa che Dio è il garante dell'unione matrimoniale, può essere un sostegno di importanza decisiva per evitare decisioni avventate e irreversibili. 
   Naturalmente, anche il discorso sul matrimonio non dovrebbe concludersi con la riflessione su quella che è la volontà di Dio, ma dovrebbe proseguire con l'esame di ciò che si può o si deve fare quando questa volontà non è fatta o non è stata fatta nel passato. Gesù stesso sembra accennare a questo quando usa la famosa espressione « salvo che per motivo di fornicazione» (Matteo 5:32) per indicare un'eccezione al divieto del divorzio. Si direbbe che con queste parole si alluda a quelle relazioni pervertite che dietro la forma esterna del matrimonio nascondono una realtà di fornicazione. In casi simili è necessario che il coniuge che vuol fare la volontà di Dio si separi dall'altro. 
   Va ripetuto, comunque, che anche l'adulterio può e deve essere perdonato quando viene riconosciuto come tale. Dalle parole e dall'atteggiamento di Gesù sappiamo che Dio offre sempre, a chi torna a Lui, la possibilità di un nuovo inizio, anche se le conseguenze del passato non possono certamente essere del tutto cancellate. 
   Per il resto, rientra nell'ambito della cura pastorale prendere in esame le varie situazioni anomale che si possono presentare. Tuttavia, la ricerca di soluzioni particolari a casi particolari deve avvenire nell'ambito di una riflessione su tutto il messaggio biblico, senza che per questo si pensi di dover rivedere la forma del comandamento. Ancora una volta, tutti i casi-limite, cioè tutti i casi in cui la realtà del peccato rende problematica l'obbedienza pura e semplice al comandamento di Dio, vanno considerati come casi unici, e le persone coinvolte se ne devono assumere la piena responsabilità davanti a Dio. Il desiderio di fissare casi generali può nascondere l'aspirazione a creare nuove tavole della legge, diverse da quelle date da Dio, e quindi può soltanto favorire la nostra continua tendenza a trasgredire in buona coscienza il comandamento di Dio. 

    «Il matrimonio sia tenuto in onore da tutti e il letto coniugale non sia macchiato da infedeltà; poiché Dio giudicherà i fornicatori e gli adulteri» (Ebrei 13:4). 

(da “Le dieci parole”, di Marcello Cicchese)


12 settembre 2021
Nel 57° anniversario del loro giorno di nozze,
Marcello e Lidia testimoniano con gioia:
«Dio protegge il matrimonio».


 

Israele, arrestati quattro dei sei palestinesi evasi

Nella notte bombardamenti alle postazioni di Hamas nella Striscia di Gaza dopo il lancio del razzo palestinese.

La polizia israeliana ha arrestato quattro dei sei palestinesi evasi da un carcere di massima sicurezza questa settimana, incluso un famoso leader militante le cui imprese nel corso degli anni lo hanno reso una figura ben nota in Israele.
   Stamane, la polizia ha detto di aver catturato due uomini, tra cui Zakaria Zubeidi, nella città araba di Umm al-Ghanam. Zubeidi era un leader militante durante la seconda rivolta palestinese nei primi anni 2000. Sebbene sia stato collegato ad attacchi contro gli israeliani, era anche noto per aver rilasciato frequenti interviste ai media e per l'amicizia che aveva avuto con una donna israeliana. Zubeidi nel corso degli anni aveva ricevuto l'amnistia e frequentato corsi universitari ed era attivo in un movimento teatrale in Cisgiordania prima di essere nuovamente arrestato nel 2019 con l'accusa di coinvolgimento in attacchi. Le foto rilasciate dalla polizia mostrano Zubeidi, ammanettato e con una benda bianca, portato via da due agenti di polizia. Tutti i prigionieri provengono dalla vicina città di Jenin, nella Cisgiordania occupata da Israele.
   Gli arresti hanno arginato una vicenda imbarazzante per Israele che ha messo in luce profonde falle nel suo sistema carcerario e ha trasformato i prigionieri fuggitivi in eroi palestinesi. Nella tarda serata di venerdì, militanti palestinesi nella Striscia di Gaza hanno lanciato un razzo su Israele in un apparente segno di solidarietà, attirando gli attacchi aerei israeliani in rappresaglia.
   Intanto nella notte Israele ha bombardato postazioni di Hamas nella Striscia di Gaza, in risposta al lancio di un razzo avvenuto proprio dopo l'arresto dei primi due dei sei palestinesi evasi da un carcere israeliano e intercettato dal sistema difensivo Iron Dome. Lo ha riferito l'esercito israeliano, spiegando che caccia ed elicotteri militari hanno attaccato una installazione utilizzata da Hamas per attacchi con mitragliatrici e un magazzino e un altro complesso militare, dove il gruppo ha «un impianto di produzione di cemento per costruire tunnel sotterranei». Gli obiettivi colpiti si trovavano «vicino a una scuola e a moschee» e «accanto a infrastrutture civili».

(La Stampa, 11 settembre 2021)


Haifa, inaugurato il porto commerciale Made in China che preoccupa gli Usa

Dal primo settembre è operativa la nuova struttura che punta a rilanciare la presenza israeliana nel commercio marittimo. Un investimento da 1,7 miliardi di dollari gestito dalla Shanghai International Port Group. L’obiettivo è quello di diventare un hub regionale, contando sui crescenti legami con le nazioni arabe. Washington contro l’asse Pechino-Gerusalemme.

HAIFA - Israele ha inaugurato un nuovo porto commerciale dedicato agli scambi nel Mediterraneo. Una mossa per rilanciare la competitività e rafforzare la propria presenza in un settore piagato da ritardi e mancate consegne anche a causa della pandemia da Covid-19. L’obiettivo è quello di acquisire sempre più spazi come hub regionale, in una struttura sorta nella baia di Haifa, che sarà gestita dal gigante cinese Shanghai International Port Group (Sipg), frutto di un rinnovato asse fra Gerusalemme e Pechino che è fonte di crescente preoccupazione per Washington.
   Il primo scalo commerciale privato dello Stato ebraico è costato 1,7 miliardi di dollari ed è operativo dal primo settembre scorso. Esso permetterà alle grandi navi cargo, da 18mila container e oltre, di attraccare sulle coste israeliane. Il governo ha avviato la vendita dei porti di proprietà statale, per favorirne la costruzione di nuovi con lo scopo di abbattere i costi e tagliare i tempi di attesa nelle operazioni di carico e scarico.
   Circa il 99% dei beni che entrano ed escono da Israele arrivano via mare e un potenziamento infrastrutturale è necessario e fondamentale al tempo stesso, per sostenere la crescita economica. Il miglioramento nelle relazioni con i Paesi arabi dell’area, dagli Emirati Arabi Uniti al Bahrain, darà luogo a ulteriori opportunità commerciali e Haifa dispone di tutte le caratteristiche necessarie per diventare un hub regionale. A questo si aggiunge la prevista apertura entro fine anno di un porto ad Ashdod, gestito dalla svizzera Terminal Investment Limited.
   Il controllo cinese del porto commerciale di Haifa e i crescenti investimenti di Pechino in Israele costituiscono un elemento di tensione con gli Stati Uniti, che osteggiano un legame che si è andato rafforzando nell’ultimo decennio. Washington teme che la Sesta flotta della marina Usa, che attracca di tanto in tanto al porto di Haifa, possa risultare vulnerabile ai sistemi di spionaggio e sorveglianza dell’intelligence del Dragone che acquisirebbe in questo caso una posizione di dominio nella guerra cibernetica planetaria.
   A dispetto dei legami con la Casa Bianca, negli ultimi anni il governo israeliano guidato dall’ex premier Benjamin Netanyahu ha rafforzato la partnership strategica e commerciale con la Cina. Lo stesso Netanyahu ha incontrato il presidente cinese XI Jinping a Pechino nel 2017 e ha ospitato il vice presidente Wang Qishan a Gerusalemme nel 2018.
   Doron Ella, esperta di questioni cinesi all’Institute for National Security Studies dell’università di Tel Aviv, spiega ad al-Monitor che gli investimenti di Pechino nello Stato ebraico raggiungono a malapena il 10%, di molto inferiori a quelli di Stati Uniti ed Europa. La preoccupazione Usa riguarda però gli investimenti cinesi nei settori tecnologici “sensibili”. Pronta la replica di Pechino attraverso il portavoce dell’ambasciata cinese in Israele, Wang Yongjun, il quale scrive in un articolo sul Jerusalem Post che lo Stato ebraico “non deve schierarsi” nella controversia. “La Cina - aggiunge - è contraria alla mentalità da guerra fredda” e rispetta “l’indipendenza” dei singoli stati “in tutti i campi” negando coinvolgimenti negli attacchi informatici.

(AsiaNews, 11 settembre 2021)


Israele, la "serra" dei terroristi suicidi che l'Occidente non ha voluto vedere

di Fiamma Nirenstein

Mentre gli jihadisti di al Qaeda sequestravano gli aerei che alle 7,59 dell'11 settembre 2001 avrebbero dato fuoco al mondo, Israele era già in un bagno di sangue terrorista che l'Occidente riduceva a mere questioni territoriali. A Gilo le giornate erano ritmate dagli scoppi dei missili che l'Intifada sparava da Betlemme su Gerusalemme. Nei due giorni precedenti, due poliziotti e una decina di civili si erano uniti alle circa 1500 vittime: più o meno la metà di quelle delle Twin Towers. Israele fu una sorta di serra sperimentale del terrorismo suicida, ma il fenomeno rimase incompreso. Oggi, dopo il penoso ritiro americano dall'Afghanistan, è evidente che questo rifiuto occidentale a capire sopravvive come un pericoloso fantasma, che potrebbe risultare mortale per il mondo intero.
   Tanti furono gli episodi ignorati in Medio Oriente, Europa e Usa che avevano segnalato la preparazione di un attentato storico; altrettanto, seguitano ad essere equivocate anche le conseguenze dell'attacco alle Torri, come la presa del potere dei Talebani. Si disse anche che era colpa degli americani; che era possibile parlare coi terroristi; che le loro aspirazioni religiose e sociali erano parte di una cultura diversa ma legittima. Lo si ripete oggi, come lo si è detto di Hamas. Israele aveva subito attentati a migliaia ed era già da tempo una lampada accesa sulla necessità di capire, studiare per combattere il terrorismo, pena la sicurezza del mondo intero. Nel '95 Bibi Netanyahu in un libro metteva in guardia gli Usa: se non vi accorgete di quello che sta accadendo, presto vi ritroverete il World Trade Center spianato. Una profezia? No, solo una visione chiara della natura ideologica, e non territoriale o sociale, del terrore.
   La storia di Israele fa piazza pulita dell'idea che si possa placare l'appettito della jihad proponendo scambi territoriali e miglioramenti sociali e che la democrazia, la libertà, siano l'obiettivo di ogni uomo. Al contrario, le culture fondamentaliste islamiche disprezzano ogni libertà. Esiste un bene superiore che viene realizzato tramite la sharia, e le leadership hanno il compito supremo di farla osservare. Il costante ritorno all'Intifada, al terrorismo capillare, al rifiuto di riconoscere Israele o di rispondere alle profferte di pace è una risposta ideologico-religiosa all'imperativo di cacciare gli infedeli da terre islamiche. La sharia, per affermarsi, ha necessità di combattere il nemico: l'Occidente delle Torri, Israele che occupa la Ummah, la comunità islamica. Non c'è trattativa che tenga. L'assassinio di Anwar Sadat, che aveva osato accettare Israele e stringerci una pace, fa parte di quella dinamica. Abdel Rahman, compagno di Ayman al Zawahiri, dal carcere stilò la fatwa di assassinio e vent' anni più tardi la stilò per l'attacco delle Twin Towers. Per questo Bin Laden, succedendogli, accumula su di sé la rabbia dei palestinesi anti-accordo di pace e quella degli afghani invasi dai sovietici. È la jihad «contro i sionisti e i crociati», l'attacco per riprendersi territori o per allargare la forza della sharia.
   Dopo quell'attacco, i palestinesi festeggiarono con mortaretti e dolci. Yasser Arafat, per salvaguardare i rapporti con gli Stati Uniti, in piena Intifada condannò disinvoltamente il terrorismo, continuando però a sostenerlo. Oggi Hamas è stata la prima a congratularsi con i Talebani per il riconquistato potere in Afghanistan, e i palestinesi, hanno festeggiato «il nuovo standard per la resistenza contro Israele». La loro guerra non ha niente a che fare con circostanze politiche, ma è figlia di un'aspirazione ideologica fondamentale e irrinunciabile. I palestinesi hanno potuto contare sul senso di colpa che ha impedito all'Europa e anche agli USA di identificare la componente jihadista nel conflitto israelo-palestinese, di vedere che Hamas e l'Autonomia Palestinese fanno parte dell'esercito jihadista. Per il quale solo la mukawama, o resistenza, può smantellare l'alleanza occidentale che domina il mondo e occupa le terre islamiche: «I Talebani - ha detto Musa Abu Marzuk della direzione di Hamas - hanno rifiutato le mezze soluzioni proposte dall'America. È una lezione per tutti i popoli oppressi» che va «assorbita» da Israele: «L'occupazione di terra palestinese non durerà e finirà».
   Quando Netanyahu descriveva come letale la spirale terroristica, aveva presente la carta geografica del Medio Oriente e del terrorismo che scaturiva sia dall'Iran sciita con gli hezbollah sia da vari gruppi sunniti. La scia di sangue è lunga, dagli attacchi suicidi in Libano alle baracche dei soldati americani (241 morti) a quello ai soldati francesi, 58 morti. Era il 23 ottobre dell'83. La scelta strategica era quella che proibisce all'infedele le terre islamiche. Prima e dopo, fino agli attacchi di Gerusalemme, di Londra, di Parigi, fino alle stragi antisemite in Francia e in America, gli attentati sono tutti illuminati dal lampo gelido dell'11 settembre. Il mondo cambiò, la «lunga guerra» al terrore formò una coalizione, i Talebani vennero cacciati, al Qaeda fu semidistrutta, e Bin Laden fu ucciso, Obama dichiarò vittoria. Ma l'Isis, gli attentati nel mondo, i Talebani, l'odio per l'Occidente e Israele non si sono modificati.
   La trama jihadista è paziente. Per smontarla va decrittata: un progetto ideologico-religioso mondiale. Israele combatte la sua battaglia, e cerca la sua via di pace con gli accordi di Abramo: un riconoscimento rispettoso delle altrui culture, sostenuto da prospettive vantaggiose. La via d'uscita è, almeno in parte, qui. Per il resto, la jihad iraniana sciita e quella sunnita lavorano sott' acqua e non impallidisce il loro sogno.

(il Giornale, 11 settembre 2021)


Chiusure a chi proviene da Israele

Sono già due i Paesi europei che vietano l’ingresso delle persone provenienti da Israele: si tratta di Portogallo e Svezia, che nei giorni scorsi hanno deciso di adottare questa misura dopo l’aumento di casi di Covid-19 nel Paese mediorientale. 
   Dopo la scelta del Portogallo, arrivata il 1 settembre, non si è fatta attendere neppure quella della Svezia: quattro giorni più tardi, anche il Paese nordeuropeo ha optato per la stessa precauzione.
   Una decisione “dovuta” e consigliata dalla stessa Unione Europea per evitare la diffusione dei contagi da Coronavirus. Sono sempre più, infatti, i contagi in Israele, nonostante la popolazione sia quasi completamente vaccinata di cui una buona parte con terza dose. 
   Nel frattempo, Israele ha comunque annunciato nel fine settimana che le persone che non hanno ricevuto una terza vaccinazione di richiamo non saranno in grado di utilizzare i loro passaporti vaccinali.
   Benché sia ormai risaputo che il vaccino non conferisce immunità (e quindi non impedisce il contagio) il ministro dell’Interno svedese Mikael Damberg ha giustificato la scelta di chiudere ai residenti israeliani affermando che il Paese – tra i principali al mondo per inoculazioni – è ancora sede di grandi gruppi di persone non vaccinate che secondo lui avrebbero “permesso la diffusione dell’epidemia” secondo un principio scientifico non meglio chiarito.

(Radio Radio, 11 settembre 2021)


Covid oggi Israele, Crisanti: "Situazione allarmante per varianti"

"La situazione di Israele è allarmante". Vaccini e varianti covid, con la Delta dominante e la Mu che si affaccia: il professor Andrea Crisanti accende i riflettori sull'evoluzione dell'epidemia in Israele. Il paese apripista per le vaccinazioni è alle prese con dati che non lasciano tranquilli. "La maggior parte delle persone è suscettibile, si infetta e trasmette.
Questo potrebbe essere legato al fatto che alcune varianti riescono ad infettare le persone vaccinate. La mortalità è più bassa, ma" in Israele "hanno 1000 casi per milione di abitanti, è il numero più alto del mondo e su questa base hanno iniziato la somministrazione della terza dose.
Se la terza dose risolve, bene. Altrimenti, significa che il problema è legato anche alle varianti. Quindi, terza dose sì ma con vaccino aggiornato", dice Crisanti ad Agorà. "I vaccini - spiega - apparentemente hanno una durata di protezione intorno ai 6-7 mesi. Noi abbiamo immunizzato circa 7 milioni a marzo: queste persone non sono protette come noi immaginiamo. Certo, la letalità è calata di cinque volte e questo è molto positivo. I vaccini sono la soluzione, ma devono essere accompagnati da altre misure. Guardiamo la situazione dell’Inghilterra, dove non vengono adottare altre misure di contrasto: ci sono 30-35.000 contagi e 160 morti".

Statistiche coronavirus in Israele

(Adnkronos, 10 settembre 2021)


La terza dose di vaccino non sarà l’ultima: si va verso quarta dose

Guardando a Israele

La terza dose di vaccino ha avuto il via libera anche dall'Aifa e in Italia si partirà da fine settembre seguendo uno specifico calendario. Si inizierà dagli immunodepressi e soggetti fragili, poi da dicembre toccherà agli over 80 e da gennaio-febbraio al personale sanitario.

- Terza dose vaccino per tutti
   Per tutto il resto della popolazione, non è ancora chiaro se e quando sarà dato il via libera alla terza dose, anche se prima della primavera 2022 non sembra plausibile guardando al calendario proposto dal Governo. A commentare la terza dose e la possibilità molto concreta della quarta dose, una sorta di richiamo stagionale, è stato Massimo Ciccozzi, epidemiologo del Campus Bio-medico di Roma, che ad Huffpost ha dichiarato che “La terza dose non sarà l’ultima. Il covid diventerà come l’influenza stagionale e saranno necessari richiami, ma solo per fragili e over 65”.
   Guardando al caso Israele, dove la terza dose ormai si sta somministrando anche ai giovani, le analisi sembrano confermare che il booster stimola il sistema immunitario, ma nella popolazione che ha più di 60 anni, la protezione non arriva a 6-7 mesi. Secondo Ciccozzi, è chiaro che la terza dose toccherà anche al resto della popolazione e quindi dopo i fragili si procederà per fasce d’età come già accaduto per le prime dosi.
   Possibile anche altri richiami, una sorta di quarta dose
   In tal senso, è facile ipotizzare che gli hub vaccinali non andranno in pensione e saranno ancora attivi nei prossimi mesi. In merito alla tempistica sulla terza dose, il professore, guardando ad Israele, ipotizza il terzo richiamo a sei mesi dalla seconda dose seguendo lo schema del vaccino contro l’epatite B.
   E qui arriva il punto sulla quarta dose: “Penso che per i soggetti fragili, faremo come con l’antinfluenzale, con richiami stagionali. Ma solo per loro e per gli over 65, finché non vedremo che il covid diventerà realmente endemico. Potremmo non vaccinare i giovani e chi è in salute. Ma bisognerà sperare che non si sviluppino varianti più contagiose”. Il coronavirus, infatti, non sarà sradicato, bisognerà imparare a conviverci ma sempre con un occhio a potenziali nuovi varianti che potrebbero nascere in quei paesi dove ci sono pochi vaccinati come l’Africa.

(Investire Oggi, 10 settembre 2021)


Israele. Lapid a Lavrov, ‘non restituiremo alla Siria le Alture del Golan’

Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha ricevuto a mosca il collega israeliano Yair Lapid, al quale ha manifestato preoccupazioni per i continui attacchi israeliani sul suolo siriano. Ormai da diversi anni raid israeliani colpiscono obiettivi iraniani in Siria, specialmente convogli sospettati di portare armi agli Hezbollah libanesi, e Lapid ha detto a Lavrov che “non staremo a guardare mentre l’Iran posiziona basi dei terroristi sul nostro confine settentrionale, o mentre fornisce armi alle organizzazioni terroristiche, che poi useranno contro di noi”. Per il ministro israeliano tali interventi rappresentano azioni preventive, ma incalzato dai giornalisti ha affermato che “Israele non considererà mai l’eventualità di restituire le Alture del Golan alla Siria”. Le montagne, strappate alla Siria in occasione della Guerra dei Sei Giorni (1967), rivestono un importante ruolo strategico nella mappatura locale, ma soprattutto rappresentano un importante approvvigionamento idrico in una zona desertica.

(Notizie Geopolitiche, 10 settembre 2021)


Israele teme una nuova intifada. I palestinesi sparano ai militari

Dopo le evasioni, le rivolte nelle carceri.

di David Zebuloni

GERUSALEMME - A differenza degli altri scontri avvenuti sul suolo israeliano, dopo i quali il Paese ha goduto di un periodo di quiete tanto breve e precario quanto efficace e necessario, lo Stato ebraico pare non aver mai realmente terminato la sua ultima battaglia: l'operazione Guardiano delle Mura. Dallo scorso maggio, infatti, quando l'allora governo Netanyahu aveva accettato il cessate il fuoco di Hamas, Israele non è mai più tornata alla normalità. I palloncini incendiari hanno continuato a tormentare i cittadini di Sderot e le tensioni sul confine riesplodono. Solo nell'ultimo mese, durante una dimostrazione violenta organizzata dai terroristi di Hamas e da altri gruppi jihadisti al confine di Gaza, Barel Shmueli, soldato israeliano di 21 anni, è stato colpito alla testa dal proiettile sparato da un palestinese. Subito ricoverato e operato, Barel si è spento una settimana dopo all'ospedale di Beer Sheva.
   Inoltre, anche all'interno del suolo israeliano.la fetta di popolazione araba pare in subbuglio. Centinaia di manifestanti sono scesi in piazza ieri, a Gerusalemme e in Cisgiordania, a sostegno dei sei detenuti palestinesi evasi questa settimana dal carcere israeliano di Gilboa. Il ministro della Sicurezza Interna, Omer Bar Lev, ha definito l'evasione un fallimento delle forze dell'ordine israeliane, ma ha garantito: «Gireremo ogni pietra per ritrovare i prigionieri». E mentre la caccia all'uomo continua, un incendio è stato appiccato dall’altra parte del paese, all'interno della cella numero 7 del carcere israeliano di Ramon. Un episodio non trascurabile poiché lascia presagire che l'evasione da Gilboa non rappresenti solo un singolo fenomeno di rivolta, bensì un vero e proprio risveglio collettivo da parte dei prigionieri palestinesi in Israele. Un risveglio che, secondo il peggiore degli scenari, potrebbe condurre lo Stato ebraico a una terza agognata Intifada.

Libero, 10 settembre 2021)


L'orologio ebraico

di Marcello Cicchese

Negli ambienti evangelici gira da diversi anni, non so quanto conosciuto e letto, un libro che è uscito per la prima volta in francese nel 1957: "Quelle heure est il à l'horloge d'Israël?" Nel 1961 ne è uscita una seconda edizione arricchita da nuovi documenti ricevuti dal "Centre Sioniste d'Informations de Paris", nella cui dedica l'autrice, A. Blocher-Saillens, scrive: "Dedicato alla memoria della mia cara mamma Mme Rubens Saillens, che ci ha dato, fin dall'infanzia, un grande amore per Israele e un profondo interesse per le profezie che lo concernono".
   Di questo libro esiste da tempo anche una traduzione italiana. Qui vorrei  sottolinearne soltanto il titolo, che in sostanza vuole dire due cose:

  1. Dio dirige la storia del mondo dalla sua creazione fino alla sua dissoluzione e ricostituzione;
  2. Dio scandisce temporalmente il suo agire nella storia con interventi che ogni volta, in modo spesso inaspettato, mettono in evidenza Israele.

Di qui la necessità di esaminare e valutare fatti storici di importanza mondiale mettendoli in relazione con quello che avviene in Israele, anche nei suoi rapporti col mondo esterno.
   Darò un esempio - che forse farà gridare allo scandalo - tratto dal mio libro "Dio ha scelto Israele":

    «Theodor Herzl non avrebbe certo potuto prevedere, e tanto meno auspicare, che per arrivare a costituire quello Stato ebraico da lui previsto e progettato, l’umanità avrebbe dovuto passare per due immani tragedie come le guerre mondiali, e il suo popolo subire l’orrore della Shoà.
    Gesù però aveva avvertito: “Voi udrete parlare di guerre e di rumori di guerre... ma tutto questo non sarà che principio di dolori” (Matteo 24:6-8).
    Il termine originale usato per dolori può essere tradotto anche con doglie, come in 1 Tessalonicesi 5:3. Non si tratta dunque di generiche sofferenze, ma di doglie che precedono un parto. Si potrebbe dire allora che le due guerre mondiali sono state  due tremende, dolorosissime spinte di un travaglio che ha prodotto il parto dello Stato d’Israele. Proprio questo è l’aspetto di gran lunga più importante di quelle due catastrofi mondiali: l’avanzamento del piano di Dio nel compimento dei  Suoi propositi verso Israele. E anche il cosiddetto Olocausto non deve essere considerato soltanto come una manifestazione particolarmente grave di malvagità umana, ma come il tentativo letteralmente diabolico, e naturalmente non riuscito, di opporsi al progetto di Dio. 
    Se si trascura la comprensione spirituale di questi fatti, e davanti all’avvenuto tentativo di sterminio degli ebrei si reagisce soltanto con umanistica indignazione, si rischia di essere strumentalizzati da quello stesso Satana che li ha istigati. E in parte questo sta già avvenendo. Le accuse di razzismo e di nazismo adesso sono rovesciate sugli ebrei, e il ricordo di quelle persecuzioni offre ai loro nemici una comoda motivazione per tentare di ripeterle, anche se in altra forma.»

L'attuale pandemia è indubbiamente un fatto storico di importanza mondiale, dunque è bene riflettere sull'impatto che ha con Israele. Si può fare a questo riguardo qualche riflessione comparativa su tre fatti che hanno interessato Israele negli ultimi anni:

  1. Gli accordi di Oslo (1993)
  2. Lo sgombero di Gaza (2005)
  3. La campagna vaccinale (2020-?)

Israele ha dovuto combattere diverse guerre e le ha vinte tutte, o quanto meno si può dire che non le ha perse. Questo è in linea col fatto che nazioni o popoli o gruppi religiosi con cui Israele ha combattuto rifiutano la sua presenza su quella terra, e alcuni vorrebbero ancor più che sparisse. Ma poiché Israele è il popolo di Dio, il tentativo diabolico di far sparire Israele da quella terra non è riuscito. E in questo periodo della storia non poteva riuscire.
   Tutto questo ricorda in un certo senso il tentativo di Balak, re di Moab, che cercò evocare le potenze diaboliche ingaggiando il mago Balaam affinché maledisse Israele, con tutte le conseguenze distruttive che ci si poteva aspettare (Numeri, capp. 22-24). La cosa però non funzionò. Però Balaam, servo di Satana, in un secondo tempo riuscì lo stesso ad attirare la maledizione su Israele, non  attraverso la spada, ma attraverso la seduzione di lascive donne madianite che trascinarono il popolo al culto idolatrico di divinità pagane (Numeri 25:1-18, 31:16). La cosa entrò nel ricordo come "il fatto di Baal Peor". 
   Per collegare i tre fatti con l'episodio biblico riportato, si potrebbe dire che:

  1. le guerre vinte di Israele si collegano al tentativo non riuscito del diabolico Balaam;
  2. i tre fatti sopra elencati si collegano al tentativo riuscito dello stesso diabolico Balaam.

Da notare una cosa singolare che hanno in comune i tre fatti: hanno riscosso tutti l'applauso delle nazioni. 

  1. Bravo Rabin a fare l'accordo con Arafat!
  2. Bravo Sharon a sgomberare Gaza!
  3. Bravo Netanyahu ad acquistare vaccini a vagonate dal colosso Pfizer!

Conseguenze:

  1. Arafat si è collocato a Ramallah e di lì ha organizzato la seconda intifada, una stagione di attentati terroristici e stragi suicide;
  2. Hamas si è collocato a Gaza e di lì fa piovere missili su Israele, con attacchi a scadenze indefinite da usare come spada di Damocle e merce di scambio;
  3. Pfizer si è collocato commercialmente in Israele e di lì detta il ritmo delle dosi di vaccino da inoculare a forza agli israeliani.
Il cittadino israeliano aveva creduto che dopo la prima o la seconda dose di vaccino, una volta raggiunto il numero necessario di vaccinati, avrebbe ottenuto lo stato di immunizzazione completa, così da poter riprendere la vita come prima, con la sola condizione di avere la patente verde in tasca da esibire in qualche caso come si fa con la patente automobilistica. "E così oggi Tel Aviv balla per le strade, va al ristorante e al teatro con la patente verde", scriveva Fiamma Nirenstein il 16 marzo scorso; per poi concludere: "Il giorno del mio vaccino, ho avvertito in modo molto diretto il senso di missione storica nell'ambulatorio, la comune costruzione della salvezza".
   No, non è così. Non può essere questa la missione storica di Israele per la comune costruzione della salvezza. Proprio l'altisonanza dei termini usati fa avvertire quanto grande sia l'inganno a cui è sottoposto oggi Israele. E con lui tutte le nazioni che seguono il suo esempio. 
   Nei tre fatti elencati sopra, Israele ha cercato ogni volta di risolvere il suo problema vitale dimenticando il Dio dei suoi padri e stringendo alleanza con il dio delle nazioni, che il Vangelo di Giovanni chiama il principe di questo mondo. Ed è per questo che ha ottenuto ogni volta l'approvazione delle nazioni. 
   Ma come membro di una di queste nazioni, non sono affatto contento di vedere che il principe di questo mondo, nella forma del dio Mammona, sia riuscito a mettere in soggezione lo Stato d'Israele, facendolo apparire come un modello da imitare per il raggiungimento della comune costruzione della salvezza. Seguendo il modello Israele si sta cercando di arrivare all'inoculazione illimitata nel tempo di dosi vaccinali, all'obbligo vaccinale per legge, al controllo coatto di ogni operazione sociale del cittadino. E tutto questo per tutelare la vita del cittadino e il bene della comunità, senza alcun riferimento agli interessi di chi fabbrica, produce e vende vaccini. Cioè al dio Mammona.
   L'ancora di salvezza che lanciano i colossi farmaceutici, raccolto con cura dai governanti delle nazioni e imposto con la forza ai cittadini, è quella radicale cura che si può chiamare "intubazione vaccinale". Con la prima dose si fa l'aggancio al tubo salvifico, dopo di che nessuno ha più il coraggio o l'autorità di staccarlo. No, grazie. 

(Notizie su Israele, 10 settembre 2021)


Israele è pronto a riaccogliere i turisti: da quando e le regole

A partire dal 19 settembre sarà possibile viaggiare in Israele anche per turismo

Il Ministero del Turismo israeliano ha fatto sapere che sta per riprendere il programma turistico indirizzato ai piccoli gruppi organizzati. Infatti, a partire dal 19 settembre, i gruppi turistici organizzati di 5-30 persone provenienti dai Paesi appartenenti alle fasce “verde, gialla e arancione”, potranno tornare a visitare Israele.
   Il programma non prevede un limite di numero di gruppi di turisti stranieri ammessi nel Paese. Tuttavia, per entrare in Israele sarà necessario seguire alcune regole.

VIAGGIO IN ISRAELE, QUALI SONO LE REGOLE
  I gruppi di viaggiatori organizzati dovranno disporre della certificazione che attesta la somministrazione della seconda dose del vaccino negli ultimi sei mesi o di aver ricevuto la terza dose. Chi viaggia dovrà inoltre presentare un test PCR negativo, effettuato fino a un massimo di 72 ore prima dell’arrivo e sarà sottoposto a un PCR e un test sierologico all’aeroporto di Ben Gurion.
   Una volta ricevuti i risultati del PCR e del test sierologico, i turisti potranno muoversi liberamente all’interno del Paese.
   Questo programma pilota, avviato a maggio 2021 con lo scopo di fornire un’opzione di viaggio sicura e controllata, ha riscosso ampio successo, con oltre 2.000 turisti arrivati in Israele, principalmente dagli Stati Uniti e dall’Europa, senza alcun caso di Covid presente.
   La speranza è che anche i turisti individuali possano presto entrare in Israele, fattore che dipenderà dai tassi di morbilità che verranno rilevati prossimamente in Israele e nel resto del mondo.
   Le normative vigenti riguardanti il turismo di gruppo saranno pubblicate quanto prima anche sul seguente sito.

COSA FARE AL RIENTRO IN ITALIA
  Secondo la normativa attuale (valida vino al 25 ottobre 2021) è consentito spostarsi in Israele anche per turismo. Tuttavia, la normativa prevede che all’ingresso in Italia sia obbligatorio:

  • compilare prima della partenza il  Passenger Locator form e mostrarlo a chiunque sia deputato ai controlli;
  • presentare la Certificazione verde COVID-19 in una delle seguenti lingue: italiana, inglese, francese o spagnola; la Certificazione deve attestare una delle seguenti condizioni:

    • aver completato il ciclo vaccinale prescritto anti-SARS-CoV-2, oppure
    • esser guariti da COVID-19 (la validità del certificato di guarigione è pari a 180 giorni dalla data del primo tampone positivo), oppure
    • essersi sottoposti a tampone molecolare o antigenico effettuato nelle 48 ore prima dell’ingresso in Italia con esito negativo. I minori al di sotto dei 6 anni sono esentati dall’effettuare il tampone pre-partenza.

I viaggiatori non in possesso del Green Pass e che abbiano soggiornato per almeno 14 giorni in uno stato dell’Elenco C (tra cui Israele), possono presentare copia cartacea o digitale del referto del tampone molecolare o antigenico effettuato nelle 48 ore prima dell’ingresso in Italia.
   La mancata presentazione anche solo di uno di questi documenti comporta che il soggetto sia sottoposto a isolamento fiduciario per 5 giorni, al termine dei quali verrà effettuato un tampone antigenico o molecolare.
   Si tenga inoltre presente che la certificazione relativamente al completamento del ciclo vaccinale deve riferirsi ad uno dei quattro vaccini approvati dall’Agenzia europea per i medicinali:

(Guida Viaggi, 10 settembre 2021)


Israele non può sempre essere ostaggio dei boss palestinesi

I leader di Hamas non possono più essere intoccabili per qualche sorta di legge non scritta ma devono rientrare tra gli obiettivi legittimi da colpire

di Franco Lonedei

L’esercito e la polizia israeliana sono stati messi in stato di massima allerta per i timori di gravi scontri con i palestinesi dopo che Hamas ha dichiarato oggi la “giornata della rabbia” in solidarietà con i sei terroristi palestinesi evasi all’inizio di questa settimana da un carcere di massima sicurezza israeliano.
   Già nella notte appena trascorsa in Giudea e Samaria (la c.d. Cisgiordania) ci sono stati scontri tra l’esercito israeliano e gruppi di rivoltosi palestinesi scesi a centinaia in strada.
   L’IDF ha annullato tutti i permessi dei militari di stanza in Giudea e Samaria in quanto secondo l’intelligence saranno in molti a rispondere all’appello lanciato da Hamas.
   Proprio Hamas si è detto «disposto a sacrificarsi per il bene dei terroristi evasi» tralasciando che come sempre Hamas fa sacrificare gli altri (spesso anche donne e bambini) piuttosto che i suoi leader, sempre pronti a fuggire quando le cose si mettono male.
   Ed è questo il punto. Israele non può continuare ad essere ostaggio di un manipolo di mafiosi palestinesi che a seconda dei propri interessi alza o abbassa la tensione con Gerusalemme.
   Una volta sono i soldi del Qatar, l’altra gli aiuti (che passano solo per Israele), l’altra ancora qualsiasi cosa sia di intralcio agli interessi dei boss di Hamas.
   Il problema è il senso di sicurezza che questi criminali sentono di avere. Sanno che male che vada non saranno loro a pagare o a “sacrificarsi” come amano dire parlando però degli altri.
   Ecco una cosa che Israele non può più permettere. I leader di Hamas non possono più essere intoccabili per qualche sorta di legge non scritta ma devono rientrare tra gli obiettivi legittimi da colpire. Ovunque essi siano, quindi anche in Qatar e in Turchia dove prontamente fuggono quando le cose si mettono male.
   Ormai sono anni che il sud di Israele è costantemente sotto ricatto dei missili o dei palloni incendiari di Hamas. Milioni di persone che ogni giorno non sanno se possono andare a lavorare o se possono mandare i bambini a scuola.
   Sono anni che la Giudea e Samaria sforna terroristi ed è ormai un bacino di martiri per Hamas, per l’Iran e per chiunque voglia nuocere a Israele.
   Chi istiga questa gente a compiere attentati, chi paga le famiglie dei terroristi, chiunque in qualche modo usi queste persone per nuocere a Israele deve essere un target legittimo. Ed è così che si deve sentire. Deve sapere che qualsiasi cosa faccia o dica porterà con se delle conseguenze.
   Non è più il tempo del politicamente corretto con i leader palestinesi. Questo lasciamolo fare a <a href="https://www.francolondei.it/dopo-ashton-e-mogherini-il-colpo-di-grazia-josep-borrell/">Josep Borrell e a quelli come lui.

(Rights Reporter, 10 settembre 2021)


La Raggi fa arrabbiare anche gli ebrei

La comunità israelita di Roma boicotta la posa della prima pietra del Museo della Shoah di Roma

di Enrico Paoli

Per il sindaco (sindaca nel lessico grillino) di Roma, Virginia Raggi, doveva essere il momento topico della sua campagna elettorale. «Roma avrà un Museo della Shoah, la prossima settimana metteremo la prima pietra e inizieranno i lavori a Villa Torlonia». Un annuncio importante, quello della pentastellata, trasformatosi, però, in una sonante sconfitta.
   La Comunità Ebraica di Roma, non solo non ha gradito lo spot elettorale, ma ha letteralmente scaricato il sindaco uscente. «La concomitanza con la campagna elettorale rende inopportuna una cerimonia per un progetto che sarebbe dovuto essere inaugurato già anni fa», spiega un portavoce della Comunità, senza curarsi troppo di celare il malcontento per questa iniziativa, presa durante la campagna elettorale. «La memoria è un valore imprescindibile che deve unire la città di Roma e non prestarsi a protagonismi elettorali. Per questa ragione la Comunità non parteciperà all' evento, come a qualsiasi altro evento pubblico di natura elettorale», sottolinea l'esponente della Comunità.
   «L’inopportunità» dell'intervento della sindaca è stato sottolineato anche da Matteo Salvini. «Un plauso alla Comunità Ebraica, ennesima figuraccia di una Raggi sempre più disperata», sottolinea il leader della Lega. Piccata la replica, via Twitter, dall'inquilina del Campidoglio. «Salvini puoi attaccarmi quanto vuoi. Non mi piego. E poi ricordati una cosa: Roma non voterà mai lega Nord, non voterà mai chi gridava 'Roma Ladrona' o quei fascisti e razzisti che vi mettete nelle liste». Dopo la scivolata con la Comunità ebraica, una bella caduta di stile, visti i toni via social.
   Duro anche il commento di Roberto Gualtieri, candidato del Pd. «Sembra che la Raggi, dopo 5 anni in cui di Museo della Shoah nelle stanze del Campidoglio si è parlato veramente poco, voglia prodursi in uno spot elettorale alquanto inopportuno».

Libero, 10 settembre 2021)


Oasi di Borgo Allegri, il giardino nel nome di Nirenstein-Lattes

di Maria Cristina Carratù

Sarà inaugurato lunedì 20 settembre il "nuovo" giardino di Borgo Allegri, piccola e sorprendete oasi verde nel cuore del centro storico, a due passi da Santa Croce. "Nuovo" perché sarà intitolato a due figure di spicco del paesaggio culturale fiorentino, i coniugi Alberto Nirenstein (1916-2007) e Wanda Lattes (1922-2018), di cui il Comune di Firenze ha deciso di «onorare la memoria e l'impegno per la libertà e la promozione della cultura». La cerimonia (ore 11) si terrà alla presenza delle figlie e dei nipoti, del sindaco Dario Nardella, di Daniel Vogelmann in rappresentanza della Comunità ebraica fiorentina, e di Ernesto Galli della Loggia, Paolo Ermini, Franco Camarlinghi, Maurizio degli Innocenti, presidente della Fondazione Turati (a cui gli eredi hanno consegnato le carte Nirenstein-Lattes).
   Giornalista, scrittore, nato nel villaggio polacco di Baranow da una famiglia ebraica, emigrato nel 1936 nella Palestina mandataria, sfuggito rocambolescamente dalla Polonia dove era tornato poco prima dell'occupazione nazista (molti suoi familiari sarebbero invece stati sterminati nel campo di concentramento di Sobibor), Alberto Nirenstein era arrivato in Italia durante la Seconda guerra mondiale come combattente della Brigata Ebraica, e aveva conosciuto la futura moglie a Firenze, sposandola nel 1945. Nel dopoguerra, come giornalista, scrittore e ricercatore impegnato nella raccolta di testimonianze sull'Olocausto, fu trattenuto dal governo comunista in Polonia, dove si trovava per una ricerca d'archivio, fino al 1953, anno della morte di Stalin. Wanda Lattes, fiorentina, partigiana combattente nella Resistenza, giornalista e scrittrice, è stata una delle prime giornaliste donne della storia italiana. Ha lavorato al Nuovo Corriere di Romano Bilenchi, al Giornale del Mattino, alla Nazione e dal 1990 al Corriere della sera. Insieme al marito e alle tre figlie, Fiamma, Simona e Susanna, ha firmato "Come le cinque dita di una mano. Storia di una famiglia di ebrei da Firenze a Gerusalemme" (1998), che ripercorre a cinque voci la storia familiare. La richiesta di intitolazione ai coniugi è stata promossa da un gruppo di amici, intellettuali e rappresentanti di alcune delle maggiori istituzioni culturali della città, con una raccolta di firme. Il Comune quindi ha fatto propria l'idea, proponendo il giardino di Borgo Allegri, sede «di vitali attività sociali e ricreative», e non lontano dalla Comunità ebraica di via Farini.

(la Repubblica, 10 settembre 2021)


L’Italia non parteciperà alla prossima Conferenza di Durban

di Paolo Castellano

L’Italia è il dodicesimo paese che non parteciperà alla prossima Conferenza mondiale contro il Razzismo programmata per il 22 settembre a New York, a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Lo hanno riportato fonti diplomatiche l’8 settembre.
    Quest’anno verranno celebrati i 20 anni dalla prima Conferenza organizzata a Durban in Sudafrica. Sin dalla prima edizione, l’evento internazionale si è caratterizzato per essersi trasformato in un vertice anti-israeliano e antisemita per la distribuzione di volantini e materiali come I protocolli dei Savi di Sion.
    Durante la Conferenza sul razzismo del 2001 lo Stato di Israele venne persino definito uno “stato razzista e di apartheid“.
    Per timore che il ventesimo anniversario della Conferenza di Durban possa di nuovo replicare gli atteggiamenti passati, anche l’Italia non parteciperà alle celebrazioni. Lo riporta Ansa.
    Stati Uniti, Canada, Australia, Regno Unito, Francia, Germania, Austria, Olanda, Ungheria, Repubblica Ceca e Israele hanno già comunicato che boicotteranno la Conferenza di Durban.
    Queste nazioni hanno già negato la loro partecipazione nel 2011 a New York, e alcune anche nel 2009 a Ginevra.
    Nel 2009, ci fu un vero e proprio comizio anti-israeliano quando sul palco della Conferenza salì l’allora presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. Durante il suo discorso, 23 ministri dell’Unione Europea lasciarono la sala.

(Bet Magazine Mosaico, 9 settembre 2021)


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L'assenza al summit antisemita? Grande vittoria

La decisione dell'Italia di non partecipare a quella che era stata inappropriatamente chiamata "Conferenza mondiale contro il razzismo" è molto importante.

di Fiamma Nirenstein

La decisione dell'Italia di non partecipare a quella che era stata inappropriatamente chiamata «Conferenza mondiale contro il razzismo» è molto importante. Il nostro giornale è felice e fiero che la sua richiesta sia stata accolta. Si tratta, come abbiamo scritto, della quarta edizione di una delle maggiori conferenze delle Nazioni Unite che si svolgerà il 22 settembre; gli Usa, il Canada, l'Inghilterra, la Germania, la Francia, la Repubblica Ceca, l'Olanda e altri che già avevano boicottato l'iniziativa nelle versioni precedenti sono partner dell'Italia nella decisione.
  Durban è stato un disastro morale per il mondo intero, la patente internazionale per consentire che la cultura, la mentalità vittimista e aggressiva che sta alla base della follia del 2001 rovesciasse i canoni stessi dei diritti umani, usasse come una scura rovesciata l'idea di perseguitati e persecutori, di oppressi e di oppressori. Durban alimenta fino al giorno d'oggi la cultura del vittimismo che rende nemico l'uomo all'uomo sulla base del concetto fantasticato, estremizzato, falsificato di cultura, di religione, di genere, di razza. I terroristi diventano combattenti della libertà, le folle infuriate parametri di giustizia, le accuse pregiudiziali prove provate, le regole pastoie.
  A Durban nel 2001, nel clima entusiasta post apartheid, per le Ong che avrebbero dovuto affiancare la conferenza contro il razzismo, cui io ero presente come corrispondente, gli ebrei diventarono oggetto di caccia addirittura fisica; si distribuivano «I protocolli dei savi di Sion»; folle «antirazziste» marciavano sotto i ritratti di Bin Laden pochi giorni prima del disastro delle Twin Towers; la sala risuonava dei discorsi in cui Arafat, che da poco aveva firmato gli accordi di Oslo, dichiarava Israele e gli ebrei «genocidi» e «colonialisti», dittatori o satrapi come Fidel Castro, Ahmadinejad, Mugabe, incitavano all'odio antisemita e li correlavano alla storia imperialista dell'Occidente, alla sua smania di dominio e di potere.
  Si fondava sotto l'egida dell'Onu una teoria rovesciata dei diritti umani per cui diventi un razzista se non ti metti in ginocchio ad esclamare la tua colpevolezza nei secoli. La conferenza fu programmata per trasferire su Israele i crimini dell'apartheid, con cui non aveva niente a che fare; il termine Olocausto fu usato a destra e a manca includendovi i palestinesi; la stessa impropria vittimizzazione viene usata dai novax che si travestono da prigionieri di Auschwitz. É la vittimizzazione che libera dalla responsabilità, ignora il contesto storico, vede le istituzioni come mezzi per realizzare i propri fini. Per esempio, il Consiglio per i Diritti Umani che si occupa quasi solo di Israele, fidando sull'ignoranza e l'indifferenza di fronte a terrorismo, dittatura, corruzione.
  Dopo l'ultima guerra di Hamas, in cui era chiarissimo chi fosse l'aggressore, e i missili grandinavano su Israele, si è invece avuto una ondata di odio antiebraico e antisraeliano: a Londra bastava avere una kippà in testa per essere aggrediti e così a Parigi, a Bruxelles. Degli ebrei si dice che sono parte del «suprematismo bianco», un altro modo di dichiararne il ruolo di oppressore. Ma anche gli italiani, gli inglesi e i francesi sono suprematisti bianchi, e colonialisti, e razzisti. É la logica della cultura di Durban: ottimo che non ci andiamo.

(il Giornale, 9 settembre 2021)


Ungheria: manoscritti ebraici salvati dall’asta

L'Hungarian Jewish Museum and Archives (HJMA) e la National Library of Israel (NLI) hanno acquistato sette documenti del XIX e XX secolo sulla vita ebraica nell’Ungheria di allora. Lo riportano vari media ebraici internazionali.
    Questi documenti includono atti di nascita, morte e matrimonio nelle comunità ebraiche locali, molti dei quali risalenti al periodo della Shoah e anche dopo la seconda guerra mondiale.
    Gli oggetti sono stati messi all'asta nell'agosto 2021 ma sono stati ritirati dopo varie proteste. L'HJMA e l'NLI adesso lavoreranno per rendere i documenti disponibili gratuitamente online e conservarli negli archivi.
    "Siamo convinti che i documenti, che rappresentano un patrimonio della comunità ebraica, di proprietà privata debbano essere acquisiti dagli archivi e dalle biblioteche pubbliche. – si legge in una nota dell’HJMA - La vendita o la donazione a tali istituzioni pubbliche è la soluzione permanente ideale. Solo archivi professionali con potenzialità digitale attiva, e una dedizione alla conservazione del patrimonio ebraico, possono occuparsi adeguatamente di questi documenti. Incoraggiamo tutti coloro che detengono tali manufatti ad avvicinarsi all'NLI, all'HJMA o ad altri archivi professionali per un accordo simile. Questi non sono il genere di documenti che possono essere tenuti da privati, inaccessibili al pubblico".
    Molti articoli simili sono stati rimossi dall'asta o sequestrati dalle forze dell'ordine nel 2021, e questo rende più difficile la loro adeguata conservazione negli archivi, ha dichiarato poi l'HJMA.

(Shalom, 8 settembre 2021)


La fine di un incubo?

"Ma finalmente è arrivata la fine di un incubo", sta scritto nel sottotitolo di un articolo di Fiamma Nirenstein del 19 aprile scorso in cui si annunciava che "Israele fa sparire le mascherine all'aperto". Era il segnale anticipatore della definitiva vittoria sul Covid.
  "Adesso in Israele per primi nel mondo torniamo a incontrarci, milioni sono vaccinati, un milione guarito su 9 di popolazione complessiva. I tassi di contagio e il numero dei morti bassissimo. E una vittoria meravigliosa, ma non invidiateci: imitateci", si dice nell'articolo.
  Segue un invito alla fede nel farmaco salvatore:
  "Prima di tutto, abbiate fiducia nel vaccino, è talmente evidente che in un ambiente con l'immunità di gregge subito la pandemia si ritira, si restringe, consente di nuovo di andare a scuola e prendere gli autobus."
  Si fa sapere che il prezzo (letteralmente, in senso di soldi) che si è dovuto pagare:
  "Il governo ha comprato i vaccini a prezzo elevato: certo, era meglio pagarli meno. Ma che importa rispetto al prezzo della vita."
  Si sottolinea poi che Israele ha battuto tutti nella corsa a chi riesce per primo a imporre ai cittadini il controllo sociale:
  "Adesso, al chiuso dobbiamo ancora indossare la maschera. Ma abbiamo una «carta verde» sul telefonino che certifica che siamo stati vaccinati. E’ una forma di controllo sociale? Beh, certo che sì."
  Se sottolineo tutto questo non è per schernire chi sinceramente ha sperato di vedere "la fine di un incubo", si è rallegrato nell'illusione di averla davvero vista, e adesso non può che rattristarsi nel prendere atto che invece l'incubo continua a regime più basso ma a tempo indefinito.
  Chi crede nella Bibbia sa che la storia è sempre "storia di Dio". Non c'è un'altra storia parallela. E poiché il volto con cui Dio ha mostrato agli uomini il suo modo di fare storia ha come elemento fondamentale Israele (in cui rientra l'apparire nella storia della persona di Gesù), è chiaro che quando appaiono fatti che scuotono l'intera struttura del vivere dei popoli, la prima cosa da fare è essere attenti a quello che si muove intorno a Israele. E così è stato anche questa volta. Il covid scuote la vita di popoli e nazioni, e manco a dirlo l'attenzione del mondo si rivolge ancora una volta verso un popolo che secondo umani calcoli avrebbe dovuto sparire qualche millennio fa. 
  Cercheremo di presentare in seguito qualche considerazione sul rapporto fra Israele e covid. Nel frattempo ripresentiamo alcuni articoli riportati in precedenza sul nostro sito. M.C.

(Notizie su Israele, 9 settembre 2021)


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5 FEBBRAIO - Israele si avvicina all'immunità di gregge. Col record di immunizzati (e di lockdown)

Ai 9 milioni di abitanti 5 milioni di dosi: fuori dalla crisi in tre fasi

di Fiamma Nirenstein

Israele non è soltanto il Paese che ha il maggiore numero di vaccinati al mondo e quello ha avuto il maggior numero di lockdown (tre): non sono due dati in contraddizione. È anche il Paese che ha avuto il coraggio e la severità di smontare qualsiasi pensiero ottimista, che ha intrapreso la battaglia contro il Covid come uno scontro fatale, per la vita: uno di quelli cui Israele è stato abituato sin dalla sua nascita. La crisi è costata 4.864 morti, tanti per un Paese di 9 milioni di persone, e 72mila infettati. I malati gravi sono circa 300, in diminuzione da quando le vaccinazione sono schizzate in alto, ma sempre troppi e le critiche al governo non mancano. Fa parte della vicenda del coronavirus: una pioggia di accuse alla classe dirigente.
   Ma non c'è dubbio: è stato a causa della durezza con cui il virus è stato affrontato da un Paese, da un popolo, da un primo ministro, Netanyahu, avvezzi a difendersi da pericoli mortali che Israele è diventato il numero uno nel mondo della lotta contro il Covid; è per questo che i miei amici dall'Italia chiedono se per caso c'è una norma per cui si possa venire a vaccinarsi a Gerusalemme o a Tel Aviv. Due giorni fa in Israele quasi 2 milioni di persone hanno ricevuto ambedue i vaccini, e più di 3 milioni la prima iniezione. Il 77% dei cittadini sopra i 50 anni sono vaccinati, e agli altri 400mila che restano in questa fascia d'età, il premier ha rivolto una supplica perché concludano il percorso: «La mutazione aleggia sul mondo intero - ha detto Bibi - la situazione è grave. in Israele l'80% dei nuovi casi sono dovuti alla variante inglese. Israele riesce a far fronte solo a causa della vastità delle sue vaccinazioni, ma dobbiamo andare avanti parecchio e veloce». E, spiega, fra le persone sopra i 50 anni c'è stata una discesa degli infettati del 26%, mentre il Covid oggi si manifesta di più fra i giovani. Ma alcune parti della società seguono leggi proprie e applicano una sorta di disobbedienza tecnica e morale: due giorni fa 20mila religiosi ammucchiati al funerale di un rabbino, ieri 10mila arabi alle esequie di un giovane. Gruppi sociali ribelli, profondamente convinti delle loro ragioni, che attaccano la polizia quando li blocca o li multa. Ma in tempi di elezioni (il 23 marzo) i politici non osano rompere.
   Ieri il gabinetto ha litigato senza tregua sulla decisione di continuare con il lockdown. Alla fine si chiuderà domenica, dopo un altro fine settimana. La riapertura sarà sperimentale e in tre fasi: subito via libera ad asili ed elementari, servizi alla persona e take-away.
   È una scelta innovativa, come lo è stata l'aggressività del governo nel procurarsi per tempo e contro lo scetticismo i vaccini di Pfizer e di Moderna pagandoli di più del prezzo del mercato: i racconti di Netanyahu che non lascia il telefono cercando i dirigenti delle società farmaceutiche, e discutendo a lungo i tempi di consegna e di pagamento sono ormai leggendari e ricordano un po' come Israele si procurò le armi dalla Cecoslovacchia per combattere l'attacco generalizzato del mondo arabo nel 1948.
   Il ministero della Sanità punta per domenica notte ad avere l'80% degli over 50 vaccinati, e vorrebbe far calare a 100 i malati gravi. La guerra continua.

(il Giornale, 5 febbraio 2021)


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16 MARZO - Israele festeggia la sconfitta del virus

di Fiamma Nirenstein

Il miracolo della vaccinazione, come nella storia ha eliminato il vaiolo, la difterite, il tetano, la polio, porterà alla liberazione dal Covid.
   Questo succede oggi in Israele, e deve essere di grande incoraggiamento per il mondo. Israele ha perso 6mila persone; da un picco di 79 perdite al giorno a gennaio adesso siamo a 16 morti al giorno. Non è finita, ma cala ogni giorno. Da dicembre, accolti dal primo ministro letteralmente trepidante, gli aerei di Pfizer e Moderna hanno portato i flaconi gelati all'aeroporto Ben Gurion e subito una macchina determinata, inventiva, si è messa in moto fra errori e stalli (le celebrazioni dei religiosi, il sospetto dei villaggi arabi). Ma come durante la guerra dei Sei Giorni, Israele ha colpito per primo e ha vinto l'esercito composito del terribile nemico: «Trenta volte mi ha chiamato, sì, letteralmente. Mi ha travolto il suo atteggiamento ossessivo», sorride il ceo Pfizer Albert Bourla. «Una volta gli ho detto Primo ministro sono le tre di notte. Mi ha spiegato - dice Bourla - perché Israele era il Paese più adatto per la missione del vaccino: né grande né piccolo, 9 milioni di abitanti, servizi sanitari capillari, organizzazione ferrea, deciso alla sopravvivenza». Gliel'ha spiegato Benjamin Netanyahu stesso, mentre dalla tv mostrava come si indossa la maschera, come ci si lava le mani, implorando di rimanere a casa per tre lockdown.
   Israele è stata ossessiva negli ordini e nelle multe anche se le manifestazioni si sono moltiplicate, il personale incaricato ha agito come una madre italiana, l'esercito ha mobilitato le reclute. Nel distribuire le dosi, dopo la scala per età, si rispondeva sempre «sì». E così oggi Tel Aviv balla per le strade, va al ristorante e al teatro con la patente verde. Esagera, anche se la prudenza è ancora indispensabile. Già si progetta l'eliminazione delle maschere ed è permesso, all'aperto, riunire cento persone. Al ristorante e al teatro si progetta la verifica rapida per chi non ha patente. Gli aeroporti sono ancora semichiusi, ma in Grecia, a Cipro e in Georgia si può andare in vacanza...
   Certo, non si assiste alla sparizione del virus per magia, ma allo storico evento della vittoria sul vaccino. Giorno dopo giorno, dal 20 di dicembre si è vaccinato il 90% degli ultra cinquantenni, il 51 fra i 16 e i 19 (gli allievi delle scuole), il 69 fra i 20 e i 29, il 46 fra i 30 e i 39 e l'81 fra i 40 e i 49. Sono 4,2 milioni che hanno ricevuto ambedue i vaccini, 5,1 milioni la prima dose. L'Rt è sceso allo 0,76 e il tasso di positività è caduto al 2,4%.
   Funzionerà? Dipende dal buon senso oltre che dalle varianti: il carattere israeliano ha più inventiva e chutzpa, la speciale impudenza per cui Netanyahu chiamava Bourla alle 3 di notte. Ma Israele ha un ruolo di leader mondiale nella vicenda: lo dimostra l'attenzione dei media; l'alleanza con vari stati europei per progettare una strategia futura; la distribuzioni dei propri vaccini in altri Paesi; i vaccini ai palestinesi. Il giorno del mio vaccino, ho avvertito in modo molto diretto il senso di missione storica nell'ambulatorio, la comune costruzione della salvezza. Che sia subito anche in Italia.

(il Giornale, 16 marzo 2021)


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16 MARZO - Israele è già ora il «rosh hagoim»?
  • Il miracolo della vaccinazione ... porterà alla liberazione dal Covid.
  • Questo succede oggi in Israele, e deve essere di grande incoraggiamento per il mondo.
  • Certo, non si assiste alla sparizione del virus per magia, ma allo storico evento della vittoria del vaccino.
  • Israele ha un ruolo di leader mondiale nella vicenda: lo dimostra l'attenzione dei media
  • Il giorno del mio vaccino, ho avvertito in modo molto diretto il senso di missione storica nell'ambulatorio, la comune costruzione della salvezza.
Dichiarazioni altisonanti, quasi di tono biblico, quelle di Fiamma Nirenstein nell'articolo che precede. E' un inno alla capacità dell'uomo di pervenire alla "comune costruzione della salvezza" accettando il ruolo di Israele come "leader mondiale nella vicenda" dopo che si è compiuto sulla sua terra "il miracolo della vaccinazione" che profeticamente "porterà alla liberazione dal Covid". Il senso della "missione storica" di Israele è stato "avvertito in modo molto diretto" dalla giornalista nell'ambulatorio il giorno del suo vaccino.
   Si proclama dunque, in un linguaggio profetico, la leadership di Israele nella guerra, dichiarata fin d'ora vittoriosa, che attualmente coinvolge l'intero pianeta.
   Trattandosi di profezia, sia pure in forma laica, si giustifica allora la domanda: Israele è già ora il «rosh hagoim»? Che significa? si chiederà qualcuno. L'autrice lo sa molto bene. Ma per tutti è bene chiarire che «rosh hagoim" è un'espressione che compare nella Bibbia e significa «capo delle nazioni». Dunque sta proprio scritto che Israele è il capo delle nazioni? si chiederà allarmato qualcuno. Sì, sta scritto. E dove? Nel libro del profeta Geremia. Ma in che contesto, a quale proposito? chiederà giustamente chi vuole fare verifiche testuali.
    כי כה אמר יהוה רנו ליעקב שמחה וצהלו בראש הגוים
    השמיעו הללו ואמרו הושע יהוה את עמך את שארית ישראל


    Così parla l'Eterno: «Innalzate canti di gioia per Giacobbe e mandate grida per il capo delle nazioni; proclamate, cantate lodi e dite: O Eterno, salva il tuo popolo, il residuo d'Israele (Geremia 31:7).
Ma a chi è rivolto questo invito? A tutti i popoli, alle "isole lontane" che rappresentano i gentili:
    O nazioni, ascoltate la parola dell'Eterno, e proclamatela alle isole lontane, e dite: 'Colui che ha disperso Israele lo raccoglie, e lo custodisce come un pastore il suo gregge' (Geremia 31:10).
Si tratta dunque di una parola profetica che annuncia per Israele un futuro di gloria a cui parteciperanno con gioia le altre nazioni, ma sarà Dio a far entrare nella storia questo futuro, non certo l'opera dell'uomo. E sarà Dio che stabilirà Israele come «capo delle nazioni», ma dopo che tutto il programma di salvezza e giudizio sarà compiuto, per Israele prima e per tutti gli altri dopo.
   Suona male dunque la presentazione di un Israele trionfante che si mette a capo di un programma di salvezza per tutto il mondo. Anticipare i tempi con le proprie forze e solo per i propri scopi è altamente rischioso per tutti, in primo luogo per Israele. "Io però non credo in Dio, quindi il discorso non m'interessa", dirà qualcuno. Il discorso comunque però non è chiuso, perché se la cosa interessa Dio, prima o poi interesserà anche quel qualcuno. M.C.

(Notizie su Israele, 16 marzo 2021)


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19 APRILE - Israele fa sparire le mascherine all’aperto. Sieri e riaperture: un modello da imitare

Come nel resto del mondo le vittime, le sofferenze dei tre lockdown e le ripartenze false. Ma finalmente è arrivata la fine di un incubo.

di Fiamma Nirenstein

Gli antidoti
Pagati a prezzo elevato, ma la vita vale di più. Non lasciatevi andare all'isteria
L'importanza di correre
Stadi, centri commerciali, tende montate per strada. Tutto per le iniezioni

Eccoci di nuovo esseri umani, una faccia, un nome, un sorriso, per la strada senza maschera. Non la chiamerò affettuosamente mascherina. E la fascia chiara che ha cancellato i lineamenti, il segnale di paura divenuto quotidiano e indispensabile: ha dato una mano di calce ai baci, al piacere dell'incontro, anche all'espressione della legittima frustrazione. Ha obliterato la bellezza persino dei bambini. Adesso in Israele per primi nel mondo torniamo a incontrarci, 5 milioni sono vaccinati, un milione guarito su 9 di popolazione complessiva. I tassi di contagio e il numero dei morti bassissimo. E' una vittoria meravigliosa, ma non invidiateci: imitateci.
   Prima di tutto, abbiate fiducia nel vaccino, è talmente evidente che in un ambiente con l'immunità di gregge subito la pandemia si ritira, si restringe, consente di nuovo di andare a scuola e prendere gli autobus. Dunque: aprite il vaccino a tutti, sia pure gradualmente qui si è andati dai più vecchi e quindi più fragili fino ai 16enni, e adesso si studia seriamente la possibilità del vaccino ai bambini. Si parla del vaccino senza spaccare il capello sui brevi sintomi delle reazioni, senza agitarci, senza accusare di maligne sperimentazioni Pfizer o Moderna o AstraZeneca. Come in tutte le complicate vicende di Israele la gente è stata la protagonista del processo di guarigione, la sua forza e la sua disciplina, mentre Netanyahu dava il suo meglio capendo che qui si giocava una partita di cui i libri di storia dovranno raccontare.
   Il governo ha comprato i vaccini a prezzo elevato: certo, era meglio pagarli meno. Ma che importa rispetto al prezzo della vita. Questo mentre l'Unione europea non si decideva a un accordo che mettesse in rapido movimento le case farmaceutiche. Appena ne ho avuto bisogno ho potuto ammirare personalmente la mobilitazione del sistema sanitario senza distinzione di mansioni: medici, infermieri, volontari, sia nella verifica delle malattia che nelle distribuzione del vaccino. Il criterio è sempre stato: velocizzare. Stadi, mall, tende montate per strada sono diventate centri per sperimentare modi velocissimi di vaccinare tutti. E stata dura, la sera del 73esimo anniversario della nascita dello Stato sono stati loro, i paramedici e i medici in camice bianco o verde, a cantare la canzone di apertura delle cerimonie nella genuina gratitudine generale.
   Abbiamo fatto tre lunghi periodi di chiusura totale, coi bambini a casa e le mamme e le nonne lontane; i vecchi, persino i sopravvissuti della Shoah, hanno languito in solitudine; abbiamo cercato di fissare l'attenzione dei bambini stanchi e tristi sugli schermi da cui le insegnanti inutilmente facevano del loro meglio; abbiamo intrapreso una battaglia contro schermi, lpad, televisori preservando qualche segno di vita intellettuale e artistica. Tutti hanno protestato contro il governo, l'economia adesso soffre come ovunque di un restringimento anche dovuto ai sussidi che sono stati distribuiti e che a volte invitano la gente a restare a casa invece che a lavorare con più lena, ora che si può. I tentativi di aprire via via in modo «intelligente» sono stati fatti più volte, fra le proteste popolari di chi soffriva i danni spaventosi del Covid, e spesso si è dovuto azzerare e ricominciare da capo. Ma abbiamo ritentato ogni volta di aprire dove era possibile senza tuttavia osare troppo, specie con le scuole e le istituzioni culturali.
   Soprattutto abbiamo inghiottito le lacrime di tanti lutti, abbiamo attraversato tragedie personali impensabili, è stata una guerra che certo porta con sé un grande post trauma anche per la mia stessa famiglia che ha avuto una perdita in Italia e una in Israele. Un importante studio certifica che un bambino su cinque soffre di ansia, e la società israeliana si sta impiegando ad affrontare il problema adesso. Così sarà per tutti. Adesso, al chiuso dobbiamo ancora indossare la maschera. Ma abbiamo una «carta verde» sul telefonino che certifica che siamo stati vaccinati. E’ una forma di controllo sociale? Beh, certo che sì. Ma una guerra, non è forse una forma di costrizione dell'essere umano a mettersi di fronte al proprio destino con un'arma in mano? Certo che sì. Ma è un'emergenza, una forma di lotta per la sopravvivenza.
   Mi si consenta una conclusione personale: chi proviene da Israele ed è vaccinato, non ha diritto a entrare come un europeo? E specialmente se è italiano? Se sì, non è l'ora di deciderlo come gesto di simpatia e di solidarietà per chi ha aperto la strada a tanto lavoro per battere il virus, tutti i virus, anche nel futuro?
   
(il Giornale, 19 aprile 2021)


Evviva! Il vaccino funziona, che altro c’è da dire? Israele su questo punto ormai è il primo della classe. Nessuno dubita che in molti casi la cosa principale sia il funzionamento, ma siamo sicuri che sia così anche in questo caso? “E’ una forma di controllo sociale? Beh, certo che sì”, riconosce l’autrice, ma, come diceva Nino Manfredi, “quanno c’è ‘a salute c’è tutto”, oppure, detto in altro modo, “è una forma di lotta per la sopravvivenza”. Timori per la libertà? Non è il caso di lasciarsi andare all’isteria: la libertà è un bene prezioso che per essere adeguatamente protetto deve essere consegnato e custodito in apposite cassette di sicurezza conservate e gestite a livello centrale. Liberi ma sorvegliati. Sorvegliati affinché si possa continuare ad essere liberi. Tutto torna, è sufficiente aggiornare il concetto di libertà e il gioco è fatto. M.C.


Il foro di Israele

Tutti gli errori che hanno permesso ai sei palestinesi di evadere dal carcere

di Micol Flammini

ROMA - Israele sta ancora cercando i sei uomini che lunedì mattina sono evasi dal carcere di Gilboa, che ha fama di essere uno dei più sicuri del paese. Si tratta di sei palestinesi, uno dei quali, Zakaria Zubeidi, è considerato un eroe della Seconda Intifada, gli altri sono tutti affiliati al jihad islamico, uno incriminato per omicidio, e la loro impresa ha suscitato un'ondata di festeggiamenti tra i palestinesi, che hanno esultato, sono andati in giro per le strade a distribuire caramelle e a celebrare lo smacco alla sicurezza israeliana. Mentre Gerusalemme interroga i parenti degli evasi e allarga il raggio della ricerca, i media israeliani si sono dati un gran da fare per capire come sia stata possibile una fuga del genere, così semplice per un carcere tanto sicuro. Hanno individuato una lunga serie di problemi e di inadempienze che hanno permesso l'evasione.
    Il progetto architettonico della prigione era su internet, disponibile sul sito dello studio che lo aveva progettato. I sei sono fuggiti attraverso un foro scavato nel terreno che partiva dal bagno attiguo alla cella di Zubeidi e arrivava fuori dai cancelli. Secondo Walla News i lavori di scavo sono durati un anno e il foro è stato per tutto il tempo coperto da un'asse, di cui a quante pare nessuno si era accorto. Poche ore prima della fuga gli uomini avevano ottenuto il permesso di ritrovarsi tutti nella cella di Zubeidi, da cui poi sono fuggiti, passando davanti a una torre di controllo, dove all'interno una recluta addormentata non si è accorta di nulla. Una volta fuori dai cancelli del penitenziario i detenuti hanno avuto il tempo di cambiarsi e poi si sono separati, probabilmente c'era una macchina ad attenderli.
    I detenuti hanno scavato sotto gli occhi della polizia - 14 agenti sono anche sospettati di aver collaborato - e questo racconto oltre a far male a Israele, sempre cauta nel preservare la propria sicurezza e fiera di mostrare l'infallibilità dei suoi apparati, ha anche rinvigorito i palestinesi, che sono stati molto contenti di poter vedere il lato debole degli israeliani. La fuga inoltre, secondo i media israeliani, avrebbe richiesto l'uso di cellulari che sono vietati e vengono spesso introdotti clandestinamente nelle prigioni. La sicurezza probabilmente sapeva, ma non ha fatto granché per requisirli per paura di proteste dentro al penitenziario. Uno dei fatti più gravi è che c'era già stato un precedente, nel 2014, quando alcuni detenuti hanno cercato di fuggire scavando un tunnel che passasse sotto al carcere. Tra questi detenuti c'erano anche alcuni dei sei uomini che lunedì invece ce l'hanno fatta e che in questi anni non sono stati sorvegliati, né loro né la possibilità che altri detenuti potessero scavare tunnel nel terreno.
    Il sistema penitenziario israeliano è emerso come un punto debole della sicurezza, di quei punti deboli che Israele, ancora meno di altri stati può permettersi. Ora la prima preoccupazione è che gli evasi cercheranno di organizzare degli attentati e più tempo passerà più sarà complesso ritrovarli. Per Israele è una macchia e una ferita, per i palestinesi un motivo di gioia che potrebbe tenere alto il morale dei gruppi terroristici.
    La fuga ha anche delle conseguenze politiche. Il primo ministro Naftali Bennett sa di doversi confrontare sempre con il suo predecessore Benjamin Netanyahu, che ha spesso posto l'accento sulla sicurezza che è riuscito a garantire nei suoi dodici anni di governo. Netanyahu ora è all'opposizione di un esecutivo nato con l'obiettivo di allontanarlo dalla premiership e Bennett si trova nel bel mezzo di due difficoltà: il contenimento della quarta ondata della pandemia e le minacce costanti che arrivano da ogni confine dello stato ebraico. Mostrare debolezza, fare errori: è proprio quello che lo stato ebraico evita da sempre. Le inadempienze del carcere di Gilboa si riflettono anche sul governo, che è formato da istinti diversi, anime contrapposte, e che rischia di venire giù da un momento all'altro.

Il Foglio, 8 settembre 2021)


Il Pentagono inserisce Israele e gli Stati arabi nel CentCom

Il passaggio di Israele dalla zona di Comando USA per l’Europa (EuCom) al Comando per l’area centrale (CentCom) era stato annunciato alla fine del mandato di Trump.
Ora è effettivo.
Il 6 settembre 2021 la marina statunitense e quella israeliana hanno iniziato manovre congiunte nel Mar Rosso.
Il CentCom gestisce già l’insieme del Medio Oriente Allargato, quindi anche tutti gli Stati arabi. D’ora in poi questi ultimi e Israele parteciperanno a esercitazioni congiunte.

(Réseau Voltaire, 8 settembre 2021)


Protezione giù dopo cinque mesi. Israele verso la quarta dose

Gerusalemme si conferma il laboratorio mondiale della lotta al Covid Il governo: «Con la terza iniezione over 60 coperti all'86% dal contagio».

di Aldo Baquis

TEL AVIV - Mentre la quarta ondata di pandemia colpisce il Paese e le cifre dei contagiati raggiungono livelli record, le autorità sanitarie israeliane sono impegnate in una somministrazione di massa della terza dose di vaccino Pfizer. Israele è in questo campo il primo al mondo e molti occhi sono puntati sulla sua esperienza. A monte vi è un'anteprima degli ultimi studi condotti dal Maccabi Healthcare Services e della Yale School of Public Healt che registrano un sensibile calo della protezione vaccinale cinque-sei mesi dopo la chiusura del ciclo d'immunizzazione. Da qui la corsa al secondo richiamo.
  Postazioni di vaccinazione vengono tenute aperte nelle principali città anche 24 ore al giorno e attorno si creano lunghe code. Concepita a fine luglio solo per gli oltre sessantenni, adesso l'immunizzazione viene offerta a tutti quanti abbiano oltre 12 anni, a condizione che siano trascorsi cinque mesi dalla seconda dose. Unità mobili sono incaricate di raggiungere località periferiche del Paese e localizzare anziani e quanti hanno difficoltà di spostamento.
  I numeri sono da capogiro: dal 1 agosto, quando è scattata l'operazione, 2, 7 milioni di Israeliani (su un totale di 9,2) hanno richiesto la terza dose. Sono 5,5 milioni quelli che per ora ne hanno solo due e 6 milioni quelli con una. Intanto all'orizzonte si profila la possibilità che all'inizio del 2022 occorrerà provvedere anche ad una quarta dose. La decisione di somministrare la terza dose è stata molto combattuta. Ancora il 23 luglio, in una drammatica consultazione fra decine di esperti del ministero della sanità, si erano opposte due diverse visioni del problema. Da un lato, vi erano quanti temevano per la incolumità degli anziani, dall'altro quanti invece in assenza di dati solidi suggerivano di non lanciarsi in avventure rischiose.
  Decisivo è stato l'intervento del premier Naftali Bennett che un anno fa ha pubblicato un libro intitolato: 'Come sconfiggere la pandemia'. Essa - sostiene - va contenuta, ma non al costo di bloccare la attività del mercato. Anche da qui la necessità di vaccinazioni a tappeto. In un documento del 19 agosto, il ministero della Sanità ha rilevato «un calo significativo nel tasso di contagio e di ricoveri degli aver 60 che hanno ricevuto la terza dose, rispetto ai loro coetanei che ne hanno ricevute solo due». Per quanto riguarda i contagi, la protezione fra i primi è di «quattro volte superiore» rispetto a quella dei secondi. Per le forme gravi di malattia o eventuali ricoveri, la loro difesa è «5-6 volte superiore».
  Di fronte alla particolare aggressività della variante Delta, anche quanti hanno ricevuto una terza dose di Pfizer rischiano un contagio: ma hanno probabilità molto migliori di uscirne senza gravi conseguenze. Dieci giorni dopo la somministrazione della terza dose, ha rilevato la cassa mutua Maccabi, fra gli aver 60 la difesa dal contagio sale a 86 per cento. Alla variante Delta (che la settimana scorsa ha provocato fino a 10mila contagi quotidiani) Israele oppone dunque una campagna martellante di vaccinazione di massa che è riuscita almeno a tenere sotto controllo il numero dei malati gravi (660- 700, negli ultimi giorni). Ma le incognite restano: la prima riguarda il possibile indebolimento della terza dose, così come già avvenuto per le prime due. Inoltre potrebbero entrare in campo nuove varianti.

(Nazione-Carlino-Giorno, 8 settembre 2021)


Il malaffare farmaceutico. Parla l'ex vicepresidente di Pfizer

Abbiamo trovato in rete un video del dr. Peter Rost, ex vicepresidente di Pfizer. E' datato 3 marzo 2017, dunque quando non c'erano ancora i "no-vax". Sotto il video compare un solo breve commento, segno che non è stato molto visitato, e forse è stato "dimenticato" in rete. Ha la sottoscritta in italiano, ma la riportiamo comunque per esteso. Dice cose che sono note o facilmente immaginabili, ma poiché è considerato immorale chi resiste ai vaccini, è bene che si sappia qual è la base morale che spinge le multinazionali farmaceutiche a promuovere il mercato dei vaccini: i soldi. Soltanto i soldi. Il dio Mammona.

«Le università, le istituzioni sanitarie e tutti coloro che ho incontrato quand'ero a capo di una casa farmaceutica, tutti vogliono soldi. Nessuno ha soldi e tutti ne hanno bisogno. Il governo non ha soldi e le università non ne hanno. Le uniche coi soldi sono le grandi multinazionali, e loro ne hanno tanto, e lo usano per esercitare influenza. Il modo in cui viene fatto è il seguente: dai a queste istituzioni e organizzazioni delle donazioni per ricerche contro il cancro, per fare insieme delle ricerche, sviluppi delle amicizie, ti assicuri che queste istituzioni siano in debito con te. Paghi i professori, i ricercatori e i dottori direttamente, oppure li fai andare in giro per il paese come speaker, per parlare in conferenze, e li paghi 1000, 2000 dollari al giorno, a volte di più... Dai dei soldi che vanno in programmi educativi dai quali queste istituzioni ricavano guadagni, e questi programmi dovrebbero essere indipendenti dall'organizzazione che li ha sponsorizzati. Ma noi sappiamo bene che chi lavora con un badget promozionale di una multinazionale, probabilmente darà quei soldi alle università che fanno programmi che sostengono l'uso del medicinale prodotto da quella multinazionale. E coloro che non lo fanno o che in qualche modo lo criticano non ricevono soldi. Sappiamo tutti che è così che funziona e questo significa che anche se ufficialmente diciamo: "Noi non influenziamo quello che fanno, noi abbiamo solo donato dei soldi, possono fare quello che vogliono", la realtà è che non continueranno a ricevere soldi a meno che non dicano quello che desideriamo. Loro lo sanno, tu lo sai e forse è solo il pubblico che non lo sa. Ed è così che si influenza la classe medica: coi soldi, semplicemente.»
   Si noti in particolare come opera una casa farmaceutica con le istituzioni a cui fa "donazioni": "... ti assicuri che queste istituzioni siano in debito con te". E' la tecnica dello strozzino: spendi pure i soldi che ti ho prestato, quando non sarai più in grado di restituirmeli, sarai costretto a fare quello che ti dico io. Tra le istituzioni a cui le multinazionali farmaceutiche fanno "donazioni" ci sono intere nazioni, che poi devono sottoporsi agli obblighi imposti dai creditori. Ma non è tirannia sanitaria, è soltanto mercato internazionale, così come è stato sempre inteso. Il mercato del dio Mammona. M.C.

(Notizie su Israele, 8 settembre 2021)


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Le industrie farmaceutiche «inventano le malattie», il vecchio documentario Rai diventa un caso

«Mi chiamo Peter Rost, sono un medico, e ho lavorato per circa vent’anni nel settore farmaceutico, in ultimo alla Pfizer come vicepresidente del settore marketing, e dopo essermene andato dalla Pfizer per aver denunciato pubblicamente alcune pratiche illegali, ho lavorato come scrittore, giornalista e consulente negli Stati Uniti. Ho definito il settore farmaceutico “una specie di mafia”.

Dopo il servizio sui coronavirus dei pipistrelli studiati in Cina, un altro vecchio servizio Rai – ora a quanto sembra non visionabile sul sito dell’azienda ma comunque presente nell’archivio – sta circolando sul web e, in piena pandemia, si può facilmente intuire il perché. Il titolo è «Inventori di malattie» ed è un’inchiesta del giornalista, scomparso di recente, Silvestro Montanaro. Il documentario contiene tra le altre un’intervista al medico ‘insider’ Peter Rost, che ha lavorato per anni ai vertici di importanti case farmaceutiche, in ultimo alla Pfizer (come noto, una delle aziende distributrici di vaccini per il Covid-19 o Virus del Pcc). Quest’ultima è con molta probabilità tra le ragioni ultime per cui il video è diventato virale, ma c’è dell’altro.
  Nell’inchiesta del 2009 del programma Rai "C’era una volta", condotto allora da Montanaro, veniva messo in luce infatti come l’industria farmaceutica sia in qualche modo costretta a ‘creare’ sempre nuove malattie per continuare a generare profitti sempre più grandi. In particolare verrebbero messe in atto strategie con cui si ‘inventano’ malattie già anni prima dell’uscita di un certo farmaco, così da assicurarsi poi i profitti delle vendite di quest’ultimo, dopo un periodo adeguato di marketing e pubblicità. Insomma, niente altro che «farmaci per gente sana». Questo quindi ha portato in molti, soprattutto chi nega l’esistenza del virus Covid-19 (o comunque chi mette in discussione la sua reale pericolosità o gravità, o chi critica le misure di lockdown), a ricollegare l’attuale pandemia alle dinamiche illustrate nel documentario.
  Il fenomeno viene descritto nel video come noto e diffuso e prende il nome di ‘disease mongering’, ovvero la commercializzazione delle malattie. In pratica significa che portando agli estremi la definizione di malattia, si possono produrre altre e nuove malattie, facendo rientrare tra i segnali di queste ultime dei sintomi molto confondibili e/o diverse sensazioni comuni e spesso normali che le persone hanno.
  Il punto sottolineato dal documentario ad ogni modo, non è che non esista alcuna patologia e che tutti i farmaci siano quindi inutili per tutti, ma che spesso e volentieri, in maniera scorretta o per esigenze di mercato, si tende a far leva sulle emozioni di panico e sulla paura per dei sintomi lievi o comunque sopportabili e forse destinati a passare da soli, al fine così di creare una domanda di farmaco più estesa per quella determinata malattia e vendere così più farmaci di quanti realmente ne servirebbero. E questa strategia sembra avere enormemente successo a volte, tanto da generare ingenti guadagni, ma allo stesso tempo anche molti danni. Quegli stessi farmaci potrebbero infatti generare a loro volta nuovi sintomi o effetti collaterali che richiedono nuove cure e quindi nuovi farmaci da poter vendere.
  Tuttavia oltre che a estendere notevolmente la domanda dei farmaci per le malattie già esistenti, si spiega nell’inchiesta, le case farmaceutiche riuscirebbero a creare persino malattie che non esistono pur di vendere un farmaco. Potrebbe sembrare che questo passaggio nel video avalli quindi le idee di quelli che sostengono che il Covid-19 non esista per nulla: ma nell’inchiesta, a tal riguardo, si prendono come riferimenti condizioni di partenza molto diverse dalle dinamiche dei virus, come timidezza, menopausa e invecchiamento, e non si fa riferimento ai virus. Ad ogni modo si dà comunque ampio spazio alla strategia della paura adottata dalle industrie farmaceutiche. Per tale ragione, inevitabilmente e di questi tempi, il video è diventato virale.
  Nell’inchiesta il medico ‘insider’ Peter Rost esordisce così, entrando a gamba tesa contro il settore farmaceutico: «Mi chiamo Peter Rost, sono un medico, e ho lavorato per circa vent’anni nel settore farmaceutico, in ultimo alla Pfizer come vicepresidente del settore marketing, e dopo essermene andato dalla Pfizer per aver denunciato pubblicamente alcune pratiche illegali, ho lavorato come scrittore, giornalista e consulente negli Stati Uniti. Ho definito il settore farmaceutico “una specie di mafia”. E intendevo dire che – esattamente come il crimine organizzato – il settore farmaceutico è stato dichiarato colpevole di reati molto grossi, e ha pagato multe di miliardi di dollari; è molto potente, e se qualcuno prova a parlare apertamente di quello che succede in quel mondo, viene letteralmente mandato via a calci. E quindi, il settore farmaceutico si comporta e ha un potere sulla politica molto simile alla mafia».
  Poi continua, rincarando la dose e mettendo in risalto la connessione tra case farmaceutiche, business e borsa a livello mondiale: «A Wall Street non importa quanti soldi fai o quali sono gli utili che riesci a ottenere, l’unica cosa che interessa a Wall Street è quanti utili in più farai l’anno successivo. Perciò si instaura una specie di circolo vizioso, per cui i tuoi successi passati, l’enorme successo ottenuto con un farmaco importante significano che devi fare ancora meglio con i nuovi farmaci anche se non hai niente in cantiere, e ciò spinge le aziende a fare cose illegali, cose che non dovrebbero fare».

(Epoch Times, 16 febbraio 2021)


Domanda: le affermazioni di Peter Rost sono tutte false e tendenziose? sono del tutto incredibili? sono espressioni "deliranti" di un incorreggibile no-vax? Se uno risponde Sì, è meglio lasciarlo stare: dorme sonni tranquilli e nel breve tempo non si può fare molto per recuperarlo. La maggioranza invece risponderà No, ma è proprio per questo che si fa di tutto per discreditare e mettere a tacere non solo chi presenta prove documentabili di "malaffare farmaceutico", ma anche chi soltanto osa fare di questo argomento oggetto di discussione. Non si deve discutere, si deve ubbidire. Punto e basta. Si deve innalzare il venerando motto dell'Arma dei Carabinieri: "Usi a ubbidir tacendo e tacendo morir". Anche se di prima dose. O di seconda, o di terza, o di quarta, che importanza ha? Purché mentre si resta in vita si possa girare il mondo col Green Pass in tasca. L'asservimento è bello. L'asservimento protegge. Viva la socioservitù! M.C.


L'Italia non va a Durban. No alla festa dell'antisemitismo

di Giulio Meotti

ROMA - L'Italia, in linea con altri paesi occidentali, non parteciperà alla prossima Conferenza mondiale contro il razzismo di Durban, che si svolgerà a settembre a New York. Nella Conferenza svoltasi nel 2001 in Sudafrica Israele venne definito uno "stato razzista e di apartheid". Dopo Stati Uniti, Canada e Australia, anche il Regno Unito a luglio aveva deciso di boicottare l'evento dell'Onu che si trasformò in una kermesse di pregiudizi anti-israeliani e antisemiti. Gli Stati Uniti hanno annunciato il mese scorso il loro boicottaggio dell'evento, fissato per il 22 settembre, a causa del "sentimento anti-israeliano del processo di Durban, utilizzato come forum di antisemitismo" e per "prendere di mira" Israele in modo unico e pregiudiziale. Poco dopo si sono aggiunti Canada e Australia, con motivazioni analoghe. Nella bozza finale della Conferenza mondiale contro il razzismo del 2001, nota come "Durban I" dal nome della città sudafricana dove si svolse, il caso palestinese era l'unico al mondo espressamente citato nella sezione "vittime di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e intolleranza". A Durban, il Forum delle ong approvò una risoluzione che definiva Israele uno "stato di apartheid razzista" accusandolo di genocidio. Durante l'evento vennero distribuiti materiali dichiaratamente antisemiti, come i "Protocolli dei Savi di Sion".
   La "strategia di Durban", che gioca sull'impalpabile confine fra critica e istigazione all'odio scavalcato dalle menzogne, si va diffondendo da più di un decennio in occidente in generale e in Europa in particolare. Ci sono i missili di Hamas e Hezbollah sotto l'ombrello pre-nucleare dell'Iran (ieri è evaso da Israele il leader delle Brigate dei martiri di al Aqsa). Poi c'è il campo di battaglia, non meno importante, delle idee, delle università, dei media. E qui è in corso qualcosa di agghiacciante, la facilità seduttiva con cui si dà credito a ogni accusa contro lo stato ebraico nell'insostenibile leggerezza con cui si trasforma l'unica democrazia del medio oriente in un mostro.

Il Foglio, 8 settembre 2021)


Un buco sotto al bagno. L’evasione da film di 6 detenuti palestinesi

Fuga dal penitenziario di massima sicurezza di Gilboa alla vigilia del Capodanno ebraico. Tra i latitanti anche un leader di Al Aqsa

di Sharon Nizza

GERUSALEMME — Alla vigilia di Rosh Hashanà, il Capodanno ebraico, Israele si è svegliato con la notizia di una delle falle di sicurezza più clamorose della sua storia: nella notte di lunedì, sei prigionieri palestinesi sono evasi dalla prigione Gilboa, nell’area del Lago di Tiberiade. Una fuga sensazionale, «precisa e meticolosa » a detta del ministro della Sicurezza Interna, Omer Bar-Lev, effettuata attraverso un tunnel che collega i sanitari della cella numero 5 e conduce, in una ventina di metri, fuori dalla cinta muraria, esattamente sotto la torretta di sorveglianza, dove i primi agenti arrivati hanno trovato divise abbandonate a coprire lo sbocco di uscita. Gli evasi sono cinque membri della Jihad Islamica condannati all’ergastolo per attentati. Con loro Zakaria Zubeidi, già comandante a Jenin per le Brigate dei Martiri di Al Aqsa affiliate a Fatah, icona palestinese della Seconda Intifada che negli anni aveva beneficiato di un’amnistia, fino a quando non è stato arrestato nel 2019 per aver programmato una serie di attentati.
  Il sospetto è che parte della cellula possa aver già varcato il confine con la Giordania, che a pochi chilometri dal carcere ha diverse brecce note da tempo. La caccia all’uomo continua in tutto il Paese: nelle strade congestionate dagli israeliani che si riuniscono per celebrare la festività, sono stati dispiegati 200 posti di blocco. Nonostante l’allerta rapimenti e attentati, le autorità invitano a proseguire la routine festiva, ma anche «a mantenere gli occhi aperti». E sono proprio gli occhi vigili di alcuni passanti — un tassista e dei contadini che si avviavano verso i campi nell’adiacente valle di Harod — che hanno fatto scattare l’allarme nel corso della notte: due telefonate alla polizia segnalavano «figure sospette» che correvano nei pressi di quello che è definito un carcere di massima sicurezza. Ma solo dopo due ore gli agenti hanno realizzato che all’appello mancavano i sei. Questo è solo uno degli incredibili errori che emergono man mano che le indagini proseguono: uno dei più clamorosi è che, la sera prima, Zubeida aveva chiesto e ottenuto di passare dalla cella 3 alla 5, una mossa considerata obsoleta perché la prassi vuole che i detenuti vengano tenuti separati in base all’affiliazione. Poi è emerso che la planimetria del carcere era reperibile sul sito Internet dello studio di architetti che l’ha progettato. Non solo, il penitenziario è costruito su palizzate che creano delle incanalature sotterranee che, secondo i primi elementi dell’inchiesta, costituirebbero buona parte del tunnel di fuga (scavato quindi solo in parte manualmente, forse con un cucchiaio arrugginito conservato dietro a un poster nella cella, secondo il Jerusalem Post ).La struttura obsoleta del carcere era questione nota almeno dal 2014, quando era stato sventato un tentativo di fuga con modalità simili. Infine, l’agente di turno nella torretta di sorveglianza ha ammesso di essersi addormentata.
  A Gaza e a Jenin sono in corso festeggiamenti per «l’azione eroica», mentre i leader di Hamas e della Jihad Islamica dichiarano che «è dovere morale di ogni palestinese difendere gli evasi» avvertendo che non ci sarà pietà per i delatori. Wafa , l’agenzia stampa dell’Anp, ha fornito un efficace montaggio delle scene del noto film Le ali della libertà sovrapposte alle immagini del tunnel di Gilboa. Ha poi reso noto che il presidente Abu Mazen ha chiamato l’omologo israeliano Herzog e il ministro della Difesa Benny Gantz per gli auguri di Capodanno, auspicando un «rafforzamento delle relazioni». Ecco un primo banco di prova alle porte del nuovo anno.

(la Repubblica, 7 settembre 2021)


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Zubeidi, una fuga eccellente che imbarazza Israele

Evasione da film per l'ex capo delle Brigate al Aqsa e altri cinque prigionieri politici. Per i palestinesi è un «eroe». Per le autorità di Tel Aviv che ora lo braccano un «terrorista». L'ex primula rossa della seconda Intifada, una vita tra lotta armata, teatro e carcere.

di Michele Giorgio 

GERUSALEMME - Non sono evasi calandosi giù con le lenzuola annodate ma la fuga dal carcere israeliano di massima sicurezza di Gilboa, messa in atto domenica notte da sei prigionieri politici palestinesi, tutti di Jenin, è stata ugualmente cinematografica. Per mesi, sfuggendo ai controlli delle guardie carcerarie, hanno scavato un tunnel sotterraneo dalla loro cella, la numero 5 nella sezione 2, fino all'esterno della prigione. E come in un film sono riemersi distanti dal muro esterno trovando ad attenderli, con ogni probabilità, uno o più complici. 
  Ieri sera erano ancora liberi nonostante la gigantesca caccia all'uomo avviata dalle autorità israeliane, con dozzine di posti di blocco allestiti ovunque, in Israele come in Cisgiordania. In particolare, intorno alla vicina città di Jenin e lungo il confine con la Giordania. Mobilitati, oltre alla polizia, anche l'esercito e lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno. 
  «Non si può tralasciare la possibilità che possano compiere un attentato. Da quando sono scappati è passato molto tempo e potrebbero essere in qualsiasi posto del territorio nazionale», ha detto ai giornalisti, provando a nascondere l'imbarazzo per l'accaduto, Avi Bitton, un comandante della polizia. Mentre l'ufficiale parlava, a Jenin, in vari centri della Cisgiordania, a Gaza e sui social, i palestinesi celebravano l'evasione, compresi diversi dirigenti del partito Fatah di Abu Mazen. Hamas e Jihad da Gaza hanno parlato di «azione coraggiosa ed eroica» ed elogiato i fuggitivi. La presidenza dell'Anp e il governo Shttayyeh invece non hanno commentato l'accaduto. 
  Non è la prima evasione di palestinesi da un carcere israeliano ma è la più clamorosa di questi ultimi anni. Per un paese che fa della sicurezza e della forza militare il suo totem e che vanta tecnologie di sorveglianza e controllo tra le più avanzate al mondo, la fuga dal carcere di Gilboa è un duro colpo a una immagine consolidata di efficienza. Invece i giornali e le stesse autorità hanno rivelato ieri che in quella prigione la sicurezza non era poi così «massima» e che i direttori che si sono succeduti in questi anni non hanno saputo risolvere i problemi più evidenti. Diversi i punti deboli e i sei palestinesi hanno saputo approfittarne. 
  Ma ad accrescere in queste ore rabbia e imbarazzo in Israele è anche un nome. Tra gli evasi, cinque sono militanti del Jihad islam. Il sesto è Zakaria Zubeidi, l'ex comandante delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa (Fatah) a Jenin, una delle figure più note - «famigerate» per Israele - della seconda Intifada palestinese (2000-2005) e personaggio singolare per storia politica e vicende personali. 
  Zubeidi, 45 anni, era stato uno dei piccoli attori del teatro aperto nel campo profughi di Jenin della regista ebrea israeliana Ama Mar, e appare di sfuggita in quel capolavoro che è il documentario I bambini di Ama girato da Juliano Mar, il figlio di Ama, assassinato a Jenin nel 2011 in circostanze mai chiarite. Bambini diventati giovani combattenti, «terroristi» per Israele, all'inizio della seconda Intifada. Di Zubeidi si parlò molto in quegli anni. Israele lo accusa di aver partecipato a un attacco armato palestinese in cui furono uccisi sei attivisti del partito Likud. 
  Per i palestinesi invece è stato per anni una «Primula Rossa», capace di sfuggire più volte alla cattura e a omicidi mirati che però sono costati la vita alla madre e al fratello. Fece parlare di sé fra il 2002 e il 2004 per la relazione che, in latitanza, ebbe con Tali Fahima, una giovane ebrea israeliana di destra convertita al pacifismo e alla sinistra che si innamorò di lui durante una visita al campo profughi di Jenin. Fahima, che si proclamava «uno scudo umano», fu condannata a tre anni di carcere per aver aiutato a decifrare, per conto delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, una fotografia aerea scattata dalle forze armate israeliane e perduta da un soldato, nella quale erano segnalate le abitazioni di alcuni palestinesi ricercati, permettendo così a questi ultimi di sfuggire all'arresto. Lei spiegò di averlo fatto per impedire che quelle persone venissero uccise vista la politica di Israele di eliminare fisicamente gli attivisti palestinesi. «Non mi pento di niente, rifarei di nuovo quello che ho fatto, ne valeva la pena», disse la giovane donna quando uscì dal carcere. Zubeidi dopo il 2005 ebbe una stagione della sua vita «non armata». Rinunciò al mitra approfittando di un accordo raggiunto da Abu Mazen con le autorità israeliane per i combattenti dell'Intifada e decise di dedicarsi al teatro. Fondò con Juliano Mar e altri il nuovo Teatro della Libertà a Jenin, erede in una certa misura, del teatro di Ama che frequentava da bambino. I giornalisti lo incontravano e intervistavano con facilità nelle strade del campo profughi di Jenin che nel frattempo era stato ricostruito (fu distrutto per metà dalle ruspe militari nel 2002 ). Ma forti dissapori con Fatah e l'Anp lo portarono ancora sulla strada della militanza armata. Infine, qualche tempo fa l'arresto da parte delle autorità israeliane. 
  Ora comincia un nuovo capitolo della sua esistenza di «eroe» per i palestinesi e di «terrorista» per Israele. L'ultimo prevedono alcuni. Pochi palestinesi credono che Zubeidi e gli altri evasi riusciranno a sfuggire alla cattura, forse all'uccisione, da parte delle forze armate israeliane intenzionate a rimediare in qualsiasi modo alla figuraccia fatta domenica notte. 

(il manifesto, 7 settembre 2021)


La Serbia acquista armi da Israele

A fine agosto la Serbia ha aperto un ufficio commerciale a Gerusalemme con l’obiettivo di rafforzare i legami economici con Israele. Pochi giorni dopo, l’azienda Rafael ha confermato le trattative per la vendita a Belgrado dei nuovi missili Spike.

di Marco Siragusa

ROMA – Meno di una settimana. Questo il tempo trascorso tra l’annuncio, da parte della Camera di Commercio e dell’Industria serba, dell’apertura di un ufficio commerciale a Gerusalemme e la conferma dell’azienda di stato israeliana Rafael delle trattative per la vendita a Belgrado dei missili anticarro di ultima generazione Spike.
  Anche se la cerimonia ufficiale per l’apertura dell’ufficio avverrà solo a novembre, le autorità serbe non hanno perso tempo nel dedicarsi a rafforzare le relazioni economiche nel campo degli armamenti con Israele. L’obiettivo principale dell’ufficio sarà quello di “creare le condizioni per un accordo di libero scambio tra i due paesi” comprendente diversi settori come quello immobiliare, delle energie rinnovabili, delle infrastrutture e del turismo. E, anche se non esplicitato nelle dichiarazioni ufficiali, quello del commercio di armi. I missili anticarro Spike, al centro della trattativa, sono considerati tra i più moderni e potenti in circolazione. Prodotti in Germania dalla Eurospike, sussidiaria di Rafael, i missili sono già in dotazione delle forze armate di Croazia e Slovenia. Questa nuova tecnologia verrà probabilmente esposta durante l’Adriatic Sea Defense and Aerospace (ASDA), che si svolgerà nella città croata di Spalato dal 29 settembre al 1 ottobre e che vedrà la partecipazione della Rafael ma non della Jugoimport, l’azienda serba coinvolta nella trattativa.
  Non è la prima volta che Serbia e Israele confermano di aver avviato trattative per il commercio di armi. Era già successo nel marzo del 2020 quando il presidente serbo Aleksandar Vučić, partecipando alla conferenza annuale dell’AIPAC, la più grande lobby filo-israeliana degli Stati Uniti, aveva annunciato l’arrivo di “una consegna non da poco” di armi israeliane. In quell’occasione Vučić aveva anche affermato che in Serbia non esiste nessuna campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) verso Israele e che il paese “non è un terreno fertile per messaggi antisemiti”.
  Pochi mesi dopo, nel settembre del 2020, lo stesso Vučić si recava negli Stati Uniti per firmare un accordo con il Kosovo che prevedeva, tra le altre cose, lo spostamento dell’ambasciata serba da Tel Aviv a Gerusalemme entro luglio 2021 e il reciproco riconoscimento tra Kosovo e Israele. Ma mentre Pristina ha dato seguito all’accordo aprendo nel marzo di quest’anno la propria ambasciata a Gerusalemme, la Serbia, dopo le numerose critiche ricevute dall’Unione Europea e dalla Turchia, ha rinunciato almeno momentaneamente allo spostamento della propria sede diplomatica.
  Il riconoscimento del Kosovo da parte di Israele, avvenuto nel febbraio di quest’anno, ha creato non poche tensioni con Belgrado. Il ministro degli Esteri Nikola Selaković aveva pubblicamente espresso il suo disappunto dichiarando di non essere per nulla contento di questa decisione che “influenzerà senza dubbio le relazioni tra i due paesi”. Evidentemente gli interessi economici e dell’industria militare si dimostrano più forti di quelli identitari, sbandierati in maniera strumentale dalle autorità politiche serbe ogniqualvolta si renda necessario compattare l’opinione pubblica attorno ai propri leader.
  Proprio quest’anno ricorrono i 30 anni dall’avvio delle relazioni diplomatiche tra Serbia e Israele. La prima visita ufficiale di un primo ministro serbo è avvenuta nel dicembre 2014 con l’incontro tra lo stesso Vučić, non ancora presidente della Repubblica, e il suo omologo Netanyahu a Gerusalemme. Quattro anni dopo, nel 2018, era toccato al presidente israeliano Rueven Rivlin recarsi in Serbia per la prima visita di un capo di stato israeliano in Serbia. Oggi, le relazioni tra i due paesi possono considerarsi più che ottime, proiettate verso un ulteriore sviluppo dei rapporti economici.

(NenaNews, 7 settembre 2021)


Israele riparte e conta sul trade

Le novità, dal deserto del Negev all’aeroporto di Eilat

Israele punta sul turismo organizzato vaccinato e a rafforzare il rapporto con il trade tra eventi e formazione. Il paese rilancia con l’ingresso a gruppi di turisti provenienti dall’Italia e da altri paesi selezionati, in vista delle prossime festività ebraiche e in considerazione della recente diminuzione dei casi di Covid-19. Inoltre prosegue la campagna promozionale verso i  luoghi meno noti della destinazione, lanciando anche il nuovo aeroporto di Eilat-Ramon. 
  “Non abbiamo mai smesso di lavorare per il turismo – conferma Kalanit Goren Perry, direttrice dell’Ufficio nazionale israeliano del Turismo in Italia, presentando a Roma  i progetti dell’ente – e ora siamo pronti  per accogliere nuovamente e al meglio i turisti italiani, che rappresentano un mercato importantissimo confermandosi al quinto posto. Abbiamo già ricevuto i primi gruppi per il turismo religioso dopo tempo ed è stata una prima prova di successo. Al momento è solo consentito il turismo organizzato e stiamo proponendo Israele come meta variegata, ampliando l’offerta puntando su zone ancora poco conosciute, come ad esempio il deserto del Negev, che offre anche l’accesso al mar Rosso e al mar Morto. L’area è facilmente raggiungibile proprio dall’aeroporto di Eilat-Ramon e per il quale è pronta una direttiva governativa che partirà a breve con gli incentivi per le compagnie aeree per operare voli su Eilat. Oltre alla cultura e alla storia stiamo valorizzando i prodotti  outdoor, l’enogastronomia e gli eventi, che abbiamo mantenuto in calendario rispettando tutte le norme di sicurezza”.
  Si conferma saldo il rapporto con le agenzie: “In questi mesi abbiamo collaborato molto con il trade organizzando webinar, incontri di formazione con oltre mille agenzie, notando anche richieste da parte di nuovi operatori interessati alla programmazione di Israele – conclude Goren Perry -. Attualmente in Israele è tutto aperto, non solo hotel e ristoranti, ma anche musei, teatri e le attrazioni  fruibili, esclusivamente per chi è vaccinato. Intendiamo ripartire in sicurezza e questi sono i primi passi”.

(Travel, 7 settembre 2021)


La corsa alle cattedre dopo le leggi razziali (e i due che dissero no) 

di Enrico Nistri 

Se la cultura della cancellazione non ha rispettato a Londra nemmeno Churchill, non c'è da scandalizzarsi se a Pisa prende d'assalto la targa stradale che ricorda Giovanni D'Achiardi, che fu è vero uno dei massimi studiosi italiani di mineralogia, ma su cui grava la colpa di aver applicato in quanto rettore dell'Ateneo le leggi razziali, togliendo la cattedra ai docenti ebrei. E poco importa che lo studioso non costruì le sue fortune accademiche sulla politica, anzi, nel 1927, fu rimosso dall'incarico di rettore perché privo della tessera del Pnf, salvo essere reintegrato nel 1935. O che, come si legge nel Dizionario biografico degli italiani, abbia ispirato «una profonda stima nei colleghi universitari e in tutti i cittadini di Pisa». 
  La repulsione nei confronti delle leggi razziali fa sì che, al di là dei meriti personali, la memoria di chi ha collaborato alla loro applicazione sia sottoposta a un processo senza prescrizione. E successo qualche anno fa ad Arrigo Serpieri, insigne agronomo, sottosegretario alla bonifica integrale, rettore dell'Ateneo fiorentino nel 1938, cui il capoluogo toscano ha intitolato una strada fra molte polemiche. Sta succedendo anche a D'Achiardi cui la storia, o meglio la politica, presenta tardivamente il conto. Eppure, se è corretto giudicare, anche tardivamente, chi per intima convinzione o automatismo burocratico privò della cattedra insigni maestri, è doveroso interrogarsi sul perché i posti lasciati vuoti dall'epurazione non rimasero scoperti ma furono subito occupati da studiosi che nelle leggi razziali scorsero non un obbrobrio giuridico, ma un provvidenziale acceleratore di carriere accademiche. Chi si figurasse gli occupanti delle cattedre lasciate vacanti come un manipolo di squallidi e incolti opportunisti si sbaglierebbe. Intanto perché non furono un manipolo, ma quasi un reggimento: ben 895. E poi perché fra loro vi furono, accanto ai cinici approfittatori di ogni regime, studiosi di altissimo livello, che ebbero la debolezza di non tirarsi indietro. Firenze ne conobbe almeno due. Uno fu Giuseppe De Robertis, che dal Conservatorio (la «scuoletta», come la chiamava lui) passò alla facoltà di Lettere prendendo il posto che era stato di Attilio Momigliano, dopo il rifiuto da parte di Massimo Bontempelli, e anche di Luigi Russo, che però l'aveva motivato con la riluttanza di entrare nel «nido di vipere» di piazza San Marco. Con la Voce bianca De Robertis era stato un protagonista della ventura delle riviste letterarie fiorentine e il suo Saggio sul Leopardi è forse quanto di più bello sia stato scritto sul poeta di Recanati. Ma il trapasso fu lo stesso doloroso e il Momigliano reintegrato dopo la guerra era l'ombra di se stesso, tanto che, come ricordava Giorgio Luti, gli studenti preferivano alle sue lezioni quelle di letteratura contemporanea di De Robertis, che aveva conservato la cattedra grazie alla protezione del suo ex allievo Leone Piccioni, figlio di Attilio, esponente di spicco della Dc. 
  Diverso il caso di Eugenio Garin. Quando fu epurato per le leggi razziali Ludovico Limentani, il docente di filosofia morale con cui si era laureato, accettò di sostituirlo con un incarico che senza sgravarlo del tutto dall'insegnamento liceale lo introduceva nell'università. Come ha scritto Luciano Mecacci nel suo saggio La ghirlanda fiorentina (Adelphi), pare che lo stesso Limentani fosse sollevato dal fatto che la sua cattedra andasse a colui che considerava il miglior discepolo. Ma Garin, che era, in senso buono, un delicato (nel 197 4 avrebbe Iasciato l'Università di Firenze per la Normale disgustato dalla contestazione), avvertì prima di morire l'esigenza di confessare pubblicamente quel peccato di gioventù. Il grande storico dell'umanesimo civile fiorentino, che Delio Cantimori paragonava a un nuovo Burckhardt, non si perdonò forse fino all'ultimo di avere approfittato di una legge incivile e inumana.

(Corriere Fiorentino, 7 settembre 2021)


Rosh Hashanah: il suono dello Shofar e la Cabbalà

di Michelle Zarfati

Tutti gli ebrei del mondo festeggiano uno dei momenti più speciali dell’anno: Rosh Hashanah, ovvero il Capodanno ebraico. Un momento spiritualmente importante, di bilancio, in cui si guarda indietro all’anno che è trascorso e si guarda al futuro con speranza. Il suono dello Shofar (corno di montone usato in alcune funzioni religiose) è di fatto uno dei momenti religiosamente più significativi di questo evento. All’interno del Museo Ebraico di Roma, nella teca che spiega al pubblico il gruppo delle festività di Tishrei (settembre) è esposto un libro di Toqea, ovvero la “guida” su cui studia e si esercita colui che possiede la responsabilità di suonare lo shofar. Questo manoscritto, originario di Ivrea e risalente al 1841-1842, possiede all’interno delle sue pagine ingiallite dal tempo riferimenti cabbalistici che lo rendono unico.
  Spiega a Shalom Rav David Sciunnach, Rabbino capo di Ancona, che “il manoscritto in questione, rappresenta un esempio singolare, in quanto si tratta di un libro ad uso esclusivo del Tokea, cioè colui che suona lo shofar. All’interno del libro, si ritrovano tra le pagine molti spunti legati alla Cabbalà Luriana, dunque attribuibile a Rabbi Itzkak Luria, vissuto nel 500 e noto per aver rivoluzionato la visione della mistica ebraica, portando alla luce il principio delle Cavanot, le intenzioni”
  “L’idea- prosegue- è quella di coinvolgere oltre all’azione delle Mitzvot, ovvero i precetti, forze spirituali, invisibili ai nostri occhi, ma presenti nel mondo e nei mondi superiori. Nei libri come questo, ci sono cose che colpiscono particolarmente, come ad esempio i nomi dei patriarchi e quelli di D., che se corredati da una certa punteggiatura, ci dicono a quale livello di spiritualità stiamo ascendendo per “pulire” i canali dei peccati commessi- Secondo la Cabbalà ogni lettera corrisponde ad un canale, in grado di far ascendere la Shefà, dunque l’energia vitale, dal nostro mondo al mondo superiore. Se si analizza attentamente questo manoscritto, si nota che, le lettere delle prime parole evocano nomi sacri, non a caso alcune sono scritte in grassetto” conclude.
  La Mitzvà (precetto) dello Shofar è considerata molto particolare, diversa da tutte le altre Mitzvot come benedire il pane, lavare le mani, o affiggere la Mezuzà.
  Questa Mitzvà esplicita l’obbligo di ascoltare il suono, non di costruirlo, nulla di questo, dunque si configura come non palpabile, quasi passiva. Solo chi suona riveste un ruolo più “attivo”.
  “L’obbligo è di ascoltare il suono, e riguarda anche colui che suona, ed è da qui che parte una spiegazione mistica e cabbalistica che vede lo Shofar come uno strumento dotato di una forza che riecheggia nei mondi superiori, e permette che le Kellipot, i “gusci”, si spezzino e il suono giunga diretto da D.” prosegue Rav David Sciunnach
  Il precetto del suono dello Shofar assume dunque un’importanza particolare, permettendo di abbattere le barriere, dunque i gusci, creati a causa dei nostri peccati, formatosi dai tempi del peccato originale. “I gusci ostacolano il suono, perché trattengono le scintille di santità, dotate della potenza di salire verso il cielo, attraverso le mitzvot, i precetti. Rosh Hashanah, è il giorno del Din, ovvero del giudizio in cu il satan, lo spirito malvagio, porta davanti a D. tutte le azioni negative che abbiamo compiuto, mettendo dunque il singolo alla prova. Tutte le preghiere contenute nel libro in questione sono preghiere che il Tokea, colui che suona, recita affinché il suo suono sortisca un effetto potente nei mondi superiori, riuscendo a far suonare contestualmente anche lo Shofar del mondo celeste” aggiunge Rav Sciunnach.
  Le preghiere contenute all’interno di questo libro, che accompagnano i nomi delle varie suonate dello Shofar, coinvolgono gli angeli, scritti quasi mai all’interno di libri di questo genere, che a loro volta aiutano a suonare lo Shofar correttamente. “C’è un angelo preposto ad ogni triade di suoni che ha il compito di portare il suono fino al trono divino senza che la Kelippá, cioè il guscio, possa arrestarlo. Questi manoscritti possiedono queste caratteristiche, contengono tante preghiere mistiche e cabbalistiche, che generano in chi legge uno stato d’animo molto elevato. I vari versi pronunciati, in queste preghiere, riescono a muovere delle forze sia in colui che suona, sia in colui che ascolta nei mondi superiori” prosegue.
  Sebbene In Italia non ci sia stato un vero e proprio polo di studio di Cabbalà, che in alcune comunità come Ferrara, e Livorno veniva studiata da piccole cerchie di persone, a Roma è rimasto questo retaggio della mistica ebraica, in cui durante talune pratiche religiose, si usa pronunciare i nomi degli angeli, o si usano preghiere con scritti nomi sacri, ma il rito italiano rimane quasi asciutto, senza misticismo.
  Lo Shofar, e chi lo suona, assume quindi un ruolo mistico e spiritualmente elevato, diventando quindi lo strumento attraverso cui riusciamo a superare le barriere spirituali, provando a liberarci dagli errori commessi, e cercando di innalzarci, per sentirci per quanto ci è possibile, vicini al mondo celeste di D.

(Shalom, 6 settembre 2021)


In Israele quarta ondata. «È tutta colpa dei bambini»

Sono i bambini i nuovi diffusori in Israele, alle prese con una quarta ondata di Covid. Nel Paese delle vaccinazioni record, a maggio e giugno non si erano registrati casi, era stato tolto l'obbligo di mascherina e rimosse la maggior parte delle restrizioni. Da qualche settimana, invece, i contagi hanno ripreso a salire, al punto da far temere nuove chiusure. Secondo gli analisti sono i bambini, in particolare i più piccoli, coloro che stanno diffondendo velocemente la variante Delta, che pur causando meno danni alla salute dei contagiati si trasmette più velocemente. L'apertura delle scuole (quelle ortodosse e internazionali sono ripartite ad agosto) ha favorito il diffondersi della malattia. Israele ha immunizzato oltre il 70% della popolazione vaccinabile, vale a dire i cittadini al si sopra dei 12 anni. Ma dal momento che il 25% della popolazione è rappresentata da under 12, il tasso di vaccinazione scende al 60%. Inoltre, poiché la campagna vaccinale è terminata a febbraio, i benefici della seconda dose si stanno esaurendo. Per questo, tra i nuovi contagiati, ci sono bambini e persone già vaccinate. Che, però, non si ammalano in forma grave. Da qui la decisione di provvedere ad una terza dose.

(il Giornale, 6 settembre 2021)


In Israele sono già alla quarta dose. Ci aspetta una vita a fare punture?

Il consulente sanitario del governo annuncia l'ennesima somministrazione. Mentre Crisanti e Rezza ammettono che non ci sono certezze sulla durata dell'immunizzazione. Mattarella spinge: «È un dovere».

di Patrizia Floder Reitter 

Il capo epidemiologo del governo israeliano, Salman Zarka, ha fatto il suo annuncio sabato alla radio pubblica Kan: «Dato che Sars-CoV-2 è qui con noi e continuerà ad esserci, dobbiamo prepararci alla quarta dose». Laconica l'aggiunta: «Questa sarà la nostra vita d'ora in avanti, a ondate». Per la diminuzione d'efficacia dei vaccini e il calo degli anticorpi «ogni pochi mesi, una o due volte l'anno avremmo bisogno di richiami contro il Covid», ha detto il professore, coordinatore della lotta alla pandemia in uno Stato leader mondiale nella vaccinazione contro il coronavirus. 
  Con oltre 6 milioni di israeliani, la stragrande maggioranza della popolazione, che hanno ricevuto almeno una dose del vaccino Pfìzer, mentre 5,5 milioni hanno completato il ciclo e a 2,5 milioni è già stato somministrato il terzo richiamo, il cosiddetto booster, il governo di Naftali Bennett fatica comunque a contenere la quarta ondata con la variante Delta che dilaga. Questa pare dunque la prospettiva: vaccinarsi contro il Covid a più riprese, dimenticando la normalità che era stata promessa dopo due dosi e una volta ottenuta l'immunità di gregge. Una situazione che sembra smontare la narrativa di una terza dose come quella che risolve i problemi e consentirà di rottamare green pass e divieti vari. Invece di risolvere dubbi, o perlomeno ammettere che nulla si conosce di certo su come agiscono nel medio e lungo periodo i vaccini in circolazione contro questo maledetto virus, in Italia si blindano i provvedimenti adottati classificando ogni perplessità come delirio no vax. 
  Ma per fortuna esistono le chiacchierate. Non tra amici al bar ma su un palco, trasmesse in streaming durante l'ultima giornata della festa del Fatto quotidiano. Ieri mattina, a parlare di «Green pass e vaccini: cosa ci attende» c'erano il direttore prevenzione del ministero della Salute, Gianni Bezza, e Andrea Crisanti, docente di microbiologia all'Università di Padova. Ne sono venute fuori delle belle. Per Rezza quello che sta accadendo in Israele «mostra che anche i vaccinati possono infettarsi, trasmettere l'infezione e alcuni di questi sviluppare una malattia grave». Però «non hanno ancora analizzato nel dettaglio il tasso di infezione e il rischio di morte dei vaccinati che si infettano rispetto ai non vaccinati. Questo rimane da capire». 
  Può sembrare banale, e il concetto lo è: ma è anche la prima volta che un pezzo grosso del ministero della Salute ammette che non ci sono dati certi e dichiara che «bisogna sempre esplicitare dubbi quando li abbiamo». Non è però questa la posizione corrente, caro professor Rezza: a fare domande si ricevono solo insulti. Invece il luminare ieri ha ammesso che, per quel che si sa, «il vaccino potrebbe bloccare l'infezione o semplicemente essere in grado di evitare la malattia grave», ma non ci sono certezze. A fronte di queste riconosciute incertezze, rendere obbligatori tali vaccini - anzi, averli già imposti al personale sanitario e a quello scolastico appare sproporzionato. Dall'incontro di fine estate sono emerse altre scomode verità, che meriterebbero di essere comunicate nelle sedi istituzionali, nelle conferenze stampa del governo, su tutti i giornali, e non confinate nella kermesse di un quotidiano, chiamandosi «Gianni» e «Andrea», mentre si parla di Covid. Crisanti ha detto che «i vaccini che abbiamo a disposizione non sono l'unica soluzione», e che quello che sta accadendo in Israele mostra che «l'ìmmunìtà indotta dalla vaccinazione con Pfizer Biontech dura intorno ai sei, sette mesi», ed è di grandissima importanza per capire che cosa succederà in Italia. Se saremo costretti pure noi a fare, quattro, infinite dosi «che poi non hanno questo grande effetto», secondo l'esperto. Crlsanti però si è chiesto come mai, visto che in Israele «le persone hanno iniziato a vaccinarsi a fine dicembre 2020, inizio gennaio scorso», Pfìzer, Moderna e Astrazeneca non erano a conoscenza già a maggio della ridotta durata dell'immunità. «Arrivare a scoprire sul campo che la vaccinazione dura sei mesi è un po' tardi», ha commentato il microbiologo, ricordando «quante volte abbiamo sentito dire che a settembre avremmo ottenuto l'immunità di gregge». Ha aggiunto che è importante sapere se questa ridotta efficacia «è dovuta al vaccino o alle varianti, anche per effettuare delle politiche di sanità pubblica efficaci». 
  Quante volte abbiamo posto questa domanda senza ottenere risposte? Il professor Rezza, ha poi tranquillamente spiegato agli astanti che Pfizer, Moderna, Astrazeneca e J&J «avranno dati di più lunga durata dai trial, dalle sperimentazioni condotte, però è un po' interesse dell'azienda quella di fare la terza dose, quindi non mi sorprende che si nascondano informazioni, diciamo che si ritardino a darle». Avete capito bene? È normale che «abbiano interesse a vendere più prodotti» (e ci mancherebbe altro), ma anche che trattengano dati. Almeno così ha dichiarato Rezza. Poi Crisanti conferma quanto più volte qui scritto: «I dati di Israele dicono una cosa chiara: il green pass non crea ambienti sicuri. Serve a indurre le persone a vaccinarsi». Stesso disco messo anche dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ieri durante l'inaugurazione dell'anno accademico all'Università di Pavia ha chiesto apertamente che «non si invochi la libertà per sottrarsi alla vaccinazione perché quell'invocazione» equivale a «mettere a rischio la salute altrui». Il capo dello Stato ha parlato di «responsabilità sociale», facendo riferimento «in questo periodo al dovere, morale e civico della vaccinazione. È lo strumento che in grande velocità la comunità scientifica ci ha consegnato per sconfiggere il virus e sta consentendo di superarne le conseguenze non solo di salute ma anche economiche e sociali». Pazienza se non è dato sapere quante dosi ne dovremo ricevere. 

(La Verità, 6 settembre 2021)


Obbligo, Rezza frena Pass, Crisanti a Draghi: "Non dà la sicurezza"

Il microbiologo: "Dire che il certificato crea zone senza rischi è una baggianata".
L'epidemiologo: "Terza dose? Vediamo che succede in Israele".


di Giacomo Salvini

''Vedremo tra un mese ma l'obbligo vaccinale deve essere l'ultima ratio: prima bisogna provare a convincere le persone, poi ne potremo discutere". Gianni Rezza, direttore generale della Prevenzione del ministero della Salute, non è pregiudizialmente contrario all'obbligo del vaccino annunciato giovedì in conferenza stampa dal presidente del Consiglio Mario Draghi ma pensa che debba essere solo l'ultima soluzione disponibile e che debba passare da un approfondito dibattito pubblico. Che tenga conto anche dei problemi pratici e costituzionali di questa scelta: "Come si applica? A chi, in che maniera, quante volte? - chiede Rezza - Ci sono delle questioni tecniche che andrebbero comunque discusse. Aspettiamo un mese". Più convinto Andrea Crisanti, microbiologo dell'Università di Padova: "Se mi si dicesse che abbiamo un vaccino che copre all'85-90o/o per dodici mesi, direi assolutamente di sì all'obbligo. L'importante è spiegare e comunicare bene le decisioni in modo da non sconcertare nessuno". I due esperti di epidemiologia si sono confrontati ieri mattina alla festa del Fatto intervistati dalla vicedirettrice Maddalena Oliva su tutti i temi fondamentali della lotta alla pandemia: non solo sull'obbligo vaccinale ma anche sull'utilizzo del Green pass, sull'ipotesi della terza dose e sulla situazione di Israele, primo Paese al mondo ad averla somministrata dopo la recrudescenza estiva dei contagi.
   Sull'uso del pass due esperti hanno idee piuttosto diverse. D'altronde, le contraddizioni sono tante: come coniugare il fatto che l'efficacia della copertura vaccinale vada scemando con l'estensione del certificato a dodici mesi? A cosa serve il Green pass se i vaccinati sono contagiosi e contagiabili? Crisanti ha ribadito la sua contrarietà all'utilizzo del certificato verde come strumento di "sanità pubblica" criticando anche l'espressione usata da Draghi nella conferenza stampa di fine luglio secondo cui il pass servirebbe anche per creare ambienti più sicuri. "Dire che il Green pass crea ambienti sicuri è una baggianata - ha spiegato il microbiologo di Padova - è solo uno strumento che incoraggia le persone a vaccinarsi. Per considerarla una misura sanitaria dovremmo misurarne l'impatto". Secondo Rezza, invece, il pass può essere considerato un surrogato dell'obbligo e serve a "convincere qualche indeciso che non vuole vaccinarsi" ma poi ha spiegato che, a suo avviso, si può considerare anche come una misura sanitaria: "Un certo grado di protezione lo dà - ha detto l'epidemiologo molto ascoltato dal ministro della Salute Roberto Speranza - se siamo convinti che con il Green pass si possa andare a fare baldoria senza rispettare le regole, stiamo sbagliando tutto. Se invece siamo tutti vaccinati, stiamo a distanza, abbiamo una certa probabilità in più di essere protetti. Se le alternative sono non prendere misure o mandare all'aria l'economia e i rapporti sociali, allora il Green pass può considerarsi una misura di sanità pubblica. In questo senso il certificato non ci dà la sicurezza al 100% ma in termini probabilistici è una misura utile".
   Per entrambi resta fondamentale completare la campagna vaccinale. Crisanti si appella direttamente a chi non è ancora immunizzato, a partire dai 3,5 milioni di over 50 che non si sono ancora vaccinati: "Con un R0 (il tasso di replicazione del virus, ndr) pari a 6 o 7, nel giro di un paio d'anni si infetteranno tutti i non vaccinati perché uno prima o poi un errore lo fa': Rezza ha aggiunto che, per chi ha più di cinquant'anni, "il rischio di finire in terapia intensiva c'è". Oltre alla "minoranza rumorosa" dei no-vax, l'epidemiologo però ha aggiunto che c'è anche "una larga fascia di persone indecise, influenzabili in qualche misura, che magari non ha la percezione del rischio molto elevato di contrarre la malattia". Poi c'è il caso di Israele dove, nonostante la massiccia copertura vaccinale, nelle ultime settimane i contagi sono risaliti e per questo si è deciso di iniettare la terza dose sulla popolazione. Ieri è stato toccato il tasso più basso di contagi da due settimane a questa parte e gli esperti ritengono che la quarta ondata sia superata ma la preoccupazione rimane. "In Israele - è la spiegazione di Rezza - c'è un aumento impressionante dei casi per un Paese che ha vaccinato tanto e bene. Il loro caso mostra che anche i vaccinati possono infettarsi e trasmettere il virus, e che alcuni sviluppano una malattia grave". Per questo, ha concluso, "è normale che si facciano più di due dosi". Più cauto Crisanti secondo cui ''bisognerà capire se la terza dose in Israele sarà efficace". Solo dopo si potrà iniziare a somministrarla.

(il Fatto Quotidiano, 6 settembre 2021)


"Dire che il Green pass crea ambienti sicuri è una baggianata - ha spiegato il microbiologo di Padova". No, quella del Presidente del Consiglio non è una baggianata, è una menzogna che il Premier ha detto sapendo di mentire. Mario Draghi è tutt'altro che un babbeo: sa quello che vuole e sa come si fa a ottenerlo. Un ministro pentastellare ha avvertito i suoi che scalpitavano contro il governo: chi si mette contro Draghi, perde. Ed è già una delle cose che Draghi è riuscito a ottenere sul piano dell'imbrigliamento del governo. Altre soddisfazioni le otterrà, e in parte le sta già ottenendo, sul piano dell'assopimento della piazza. E' ancora un po' indietro sul piano dell'annebbiamento degli intellettuali, ma ce ne sono già molti che sembrano pronti a mettersi ai suoi ordini. M.C.


Aggredisce turista perché è Israeliano

PISA - Aggredito con le statuette della Torre Pendente, perché israeliano, in un negozio di souvenir nel centro di Pisa. L'episodio, sul quale adesso indaga la Digos, è accaduto nei giorni scorsi ed è emerso solo ieri per la denuncia fatta su un giornale estero. Il giovane, in visita alla città universitaria toscana, era entrato in un negozio in centro. Il venditore gli ha chiesto da dove provenisse e alla sua risposta, il commerciante ha risposto che odiava Israele e gli ebrei. Ha poi cominciato a percuoterlo con la statuetta. Il giovane è finito in ospedale.

(Nazione Toscana, 6 settembre 2021)


Israele dà la caccia a 6 prigionieri palestinesi dopo una “rara evasione”

Le forze israeliane hanno dato il via, lunedì 6 settembre, alla caccia a 6 prigionieri palestinesi, fuggiti, durante la notte, da Gilboa, definita una delle strutture di detenzione più sicure di Israele, situata a Beit She’an, città del Distretto Settentrionale. Per il primo ministro israeliano, Naftali Bennett, quanto accaduto è un “grave incidente”.
   Il carcere si trova a circa 4 chilometri dal confine con la Cisgiordania e ospita i palestinesi accusati o sospettati di aver commesso operazioni a danno di Israele, attacchi letali inclusi. Dei sei detenuti, quattro stavano scontando l’ergastolo. L’evasione, considerata “estremamente insolita”, è avvenuta tramite un tunnel, di “decine di metri”, scavato dai detenuti stessi, e si pensa che questi abbiano ricevuto anche aiuto dall’esterno, comunicando con presunti alleati tramite cellulari ritrovati all’interno della cella. I fuggitivi sarebbero presumibilmente diretti a Jenin, territorio dove l’Autorità Palestinese eserciterebbe uno “scarso controllo” e dove, per settimane, le forze israeliane si sono spesso scontrate con i palestinesi locali. Motivo per cui, nella mattina del 6 settembre sono stati visti sorvolare aerei israeliani nella zona. Un’altra destinazione potrebbe essere il confine con la Giordania, a 14 chilometri a Est.
   Parallelamente, funzionari di Israele hanno riferito di aver istituito posti di blocco e condotto operazioni di pattugliamento nelle aree circostanti a Gilboa, mentre 400 prigionieri sono stati trasferiti altrove per prevenire ulteriori tentativi di fuga. In tale quadro, Bennett ha parlato di un “grave incidente” che ha richiesto grandi sforzi da parte dei diversi rami dell’apparato di sicurezza israeliano. A tal proposito, il ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, in coordinamento con i servizi di sicurezza di Shin Bet, ha ordinato l’invio di rinforzi alle frontiere e si è detto pronto a condurre qualsiasi azione necessaria a catturare i “terroristi”.
   La fuga è avvenuta in prossimità con i festeggiamenti per il Capodanno ebraico. Secondo un’organizzazione non governativa palestinese, Addameer for Prisoner Care and Human Rights, la prigione di Gilboa, istituita sotto la supervisione di esperti irlandesi e aperta nel 2004, è tra le più sorvegliate e gode di un livello di sicurezza “molto elevato”. Per le autorità israeliane, i detenuti potrebbero rappresentare una minaccia per l’ordine pubblico, sebbene non siano stati dati particolari ordini ai cittadini locali, invitati a condurre la propria routine. Tra i fuggitivi vi è Zakaria Zubeidi, 46 anni, un leader della Brigata dei martiri di al-Aqsa, affiliata al movimento Fatah. Egli era detenuto dal 2019, dopo essere stato accusato di “diversi attacchi letali”. Zubeidi ha rappresentato una figura di spicco durante la Seconda Intifada e nel 2007 aveva ottenuto l’amnistia da Israele, poi revocata nel 2011, il che ha costretto il leader alla fuga, fino al 2019. Gli altri cinque fuggitivi, Munadil Nafayat, Mahmoud e Mohammad al-Arida, Iham Kahamji, e Yaqoub Qadiri appartengono, invece, al Movimento per il Jihad Islamico.
   I gruppi palestinesi, da parte loro, hanno accolto con favore quanto accaduto a Gilboa. Il portavoce del Jihad islamico, Daoud Shehab, ha parlato di un “atto eroico” che, oltre ad essere uno “shock” per il sistema di sicurezza israeliano, rappresenta un duro colpo per l’esercito di Israele e l’intero apparato di sicurezza. Da parte sua, il portavoce di Hamas, Fawzi Barhoum, ha affermato che la fuga dei sei detenuti si inserisce nel quadro della perdurante “lotta per la libertà” contro “l’occupante”, estesa sia dentro sia fuori le carceri. Secondo istituzioni specializzate in affari carcerari, Israele detiene circa 4.850 prigionieri, tra cui 41 donne, 225 bambini e 540 detenuti amministrativi.
   Quanto accaduto nella notte del 4-5 settembre giunge mentre le forze israeliane e i palestinesi in Cisgiordania continuano a essere al centro di violente tensioni. Lo stesso campo profughi di Jenin è stato più volte teatro di scontri e, secondo quanto riportato dalle Nazioni Unite, nella regione è stata registrata la morte di almeno 57 palestinesi dall’inizio del 2021, deceduti durante gli episodi di tensione con soldati israeliani.
   La Cisgiordania è considerata un territorio sotto occupazione militare israeliana da parte delle Nazioni Unite, ed è soggetto alla Quarta Convenzione di Ginevra del 1949. Tale status è stato riconosciuto ai territori palestinesi dalla comunità internazionale nel 1967, in seguito alla Guerra dei Sei Giorni. I territori palestinesi sono regolati dagli Accordi di Oslo del 1993, secondo cui la Cisgiordania è divisa in tre settori amministrativi, denominate aree A, B e C. Nello specifico, l’area A, pari al 18% della Cisgiordania, è sotto il pieno controllo civile dell’Autorità Palestinese. L’area B viene amministrata in modo congiunto da Israele e Palestina e rappresenta circa il 22% del territorio palestinese. Infine, l’area C, pari al 61% della Cisgiordania, è controllata da Israele.

(Sicurezza Internazionale, 6 settembre 2021)


Giostra del goal contro l’Austria, Israele avvicina il sogno Mondiale

Ai Mondiali di calcio del 1970 succedevano molte cose, sempre intrecciate ai destini dell’Italia di Valcareggi: brillava in finale, per l’ultima volta, la stella di Edson Arantes do Nascimento detto Pelé; mentre l’emozionante sfida vinta contro la Germania in semifinale passava alla storia, per la sua particolare dinamica e per il suo carico di pathos, come “la partita del secolo”. Nel bene e nel male, sfide leggendarie che gli Azzurri avevano rischiato di non arrivare neppure a disputare a causa del travagliato percorso nel girone eliminatorio conclusosi con un pareggio a reti bianche contro la squadra “materasso” del torneo, alla sua prima partecipazione: Israele. Per l’Israele del pallone, assai poco avvezza ad imprese del genere, sembrava un promettente inizio. E invece, da allora, la nazionale non è stata più in grado di qualificarsi ad alcuna competizione internazionale.
   A oltre mezzo secolo da quel sorprendente Mondiale la speranza dei tifosi è tornata a ravvivarsi grazie al roboante 5 a 2 interno con il quale la squadra di casa si è sbarazzata dell’Austria nel match che ha visto contrapposte le due principali sfidanti per la seconda piazza del girone F (la Danimarca prima a punteggio pieno sembra irraggiungibile) che designerà una delle dodici squadre in lizza per gli spareggi. La classifica, con cinque dei dieci turni disputati, dice: Danimarca 15; Israele 10; Scozia 8; Austria 7; Far Oer 1; Moldavia 1.
   Sugli scudi Manor Solomon, giovane esterno d’attacco che ha già segnato in carriera al Real Madrid ed è sul taccuino di molti grandi club, che ieri ha aperto la giostra del goal. L’arabo-israeliano Moanes Dabour, anche lui a rete. Ed Eran Zahavi, autore di una doppietta, con un passato italiano al Palermo.
   Italia e Israele di nuovo insieme a un Mondiale. Magari è la volta buona.

(moked, 5 settembre 2021)


“Stiamo aggiornando la nostra definizione di cosa significa essere vaccinati”

Riportiamo questo articolo del 30 agosto che abbiamo trovato in rete soltanto oggi perché la questione vaccino-greenpass sta diventando davvero seria a tutti i livelli. E al suo centro si trova ancora una volta Israele, che verrebbe presa ad esempio da altre nazioni, a cominciare dalla nostra nazione Italia a trazione Draghi. Al seguito di questo articolo riportiamo un allarmato commento apparso su un altro quotidiano online. Si spera che i lettori non liquidino il tutto dicendo che è "il solito complottismo dei no-vax". A chi lo dice senza altri argomenti si potrebbe rispondere: "la solita dabbenaggine dei sì-vax". NsI

Il Commissario per il coronavirus, Salman Zarka, durante una conferenza stampa tenutasi domenica 29 agosto afferma, tra le altre cose, che in Israele si sta per aggiornare la “definizione di cosa significa essere vaccinati”.
   La terza dose di siero Covid è disponibile per chiunque sia stato completamente inoculato per almeno cinque mesi. Lo fa sapere direttamente il ministro della sanità, Nitzan Horowitz.
   Il ministro aveva già chiarito a Channel 13 che si stava valutando di non rilasciare il green pass a chi non avesse ricevuto la terza dose.
   Nel frattempo due milioni di israeliani hanno già ricevuto il richiamo.
   Nella conferenza stampa di domenica – come riporta The Jerusalem post – che ha visto la partecipazione anche del direttore generale del ministero della Salute, Nachman Ash, del commissario per il coronavirus, Salman Zarka e della dottoressa Sharon Alroy-Preis, Responsabile dei Servizi Sanitari Pubblici del Ministero, si è detto che le persone alle quali è stata somministrata la terza dose o che sono state recentemente vaccinate, saranno esentate dall’isolamento quando arriveranno dall’estero.
   Mentre invece per quanto riguarda il rilascio del green pass – afferma il Commissario israeliano per il coronavirus, Zarka – verrà dato, a partire dal 1 ottobre:

  • solo a coloro che hanno ricevuto la seconda dose negli ultimi cinque mesi,
  • a coloro che hanno ricevuto una terza dose di richiamo,
  • a quelle persone che sono guarite negli ultimi sei mesi o che sono guarite e hanno ricevuto un’iniezione.

La Zarka ha anche detto: “Stiamo aggiornando la nostra definizione di cosa significa essere vaccinati”.
   Coloro che hanno ricevuto un richiamo – afferma Sharon Alroy-Preis – sono 10 volte più protetti da infezioni e sintomi gravi rispetto a coloro che hanno ricevuto due dosi.
   The Jerusalem post ricorda inoltre che nell’ultima settimana, sono stati somministrati più di 100.000 vaccini al giorno nei giorni feriali, per lo più richiami, ma anche prima e seconda dose.
   Gli israeliani che hanno ricevuto almeno una dose sono circa 5,95 milioni, mentre quelli che hanno ricevuto la doppia dose sono 5,46 milioni.
   Questo comunque non ha fermato il contagio, infatti domenica si registravano 726 pazienti con Sars-Cov-2 in gravi condizioni, il numero più alto da marzo. La scorsa settimana invece il numero di pazienti in gravi condizioni erano circa 680/700.
   Più precisamente – scrive Israel news – sabato, 7.071 persone in Israele sono risultate positive al COVID-19, secondo le statistiche del Ministero della Salute. A partire da domenica, c’erano 80.579 casi attivi di COVID in Israele, con 1.175 ricoverati in ospedale, 726 in condizioni gravi, di cui 149 attaccati ai ventilatori. Il bilancio delle vittime dall’inizio della pandemia è stato di 6.958.
   Riguardo invece i positivi, sabato erano 7.071, al momento ci sono più di 80.000 casi attivi e va ricordato che durante il picco della terza ondata i casi attivi erano 88.000.
   Si specifica che il numero di test somministrati sabato è stato inferiore a quello dei giorni feriali, 100.000 anziché 150.000, quindi il tasso di persone con esito positivo è stato superiore al 7%.
   Il prof. Eran Segal, uno dei massimi consiglieri del governo sul coronavirus, ha detto domenica mattina, intervistato da Army Radio, che l’intera popolazione disponibile all’inoculazione dovrebbe ricevere la terza dose di vaccino.
   “Dal momento in cui abbiamo capito che il vaccino sta svanendo, la cosa giusta da fare è somministrare una terza dose all’intera popolazione che è stata vaccinata cinque mesi o più fa”, ha affermato il prof. Segal.
   Ricordiamo che pochissimi giorni fa il ministro della Salute, Nitzan Horowitz, aveva dichiarato a Channel 13 che considerato il fatto che il vaccino “perde la sua efficacia dopo un certo periodo, non c’è giustificazione per dare un lasciapassare verde a qualcuno che non ha ricevuto un’altra dose”.

(Theitaliantribune.it, 30 agosto 2021)


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Israele ha appena cambiato la definizione di “completamente vaccinato”

Questa ridenominazione, degna della miglior neolingua, porterà un controllo più autoritario, enormi profitti per Big Pharma... e costituisce forse il peggiore inganno di tutta la "pandemia".
  Israele è stato in prima linea nel programma di vaccinazione fin dal novembre 2020, quando aveva firmato un accordo con Pfizer per eseguire quelli che essenzialmente è un esperimento medico sulla propria popolazione civile.
  Era stato il primo Paese a lanciare il vaccino Pfizer. Era stato il primo Paese a provare il sistema (tra l’altro già abbandonato) dei “green pass” per la segregazione sanitaria. E ora sono il primo Paese a cambiare i termini del contratto “fatti vaccinare e riavrai la tua libertà.”
  Proprio così. Così come le “tre settimane per appiattire la curva” si sono trasformate in circa 18 mesi (e si va avanti), la “doppia somministrazione” si sta evolvendo in una “tripla somministrazione.”
  Per citare il dottor Salman Zarka, lo “zar del coronavirus” di Israele: “Stiamo aggiornando ciò che significa essere vaccinati.”
  Quindi, ecco come stanno le cose. In Israele, ufficialmente, coloro a cui sono state iniettate due dosi del cosiddetto “vaccino” Pfizer non vengono più conteggiati come vaccinati.
  Cosa significa questo? Beh, prima di tutto, significa che tutte le persone “vaccinate” possono dire addio alle loro libertà recentemente acquisite, a meno che non siano disposte a fare almeno un altro richiamo.
  Secondo il Wall Street Journal: “I possessori del passaporto vaccinale israeliano devono ottenere una terza dose del vaccino Pfizer-BioNTech entro sei mesi dalla loro seconda dose o perderanno il cosiddetto greenpass che permette loro un maggior grado di libertà.”
  C’è anche da dire che il terzo richiamo non è considerato l’ultimo. Il Ministero della Salute israeliano “non ha escluso ulteriori richiami in futuro” e il terzo richiamo estenderà la condizione di “vaccinato” solo per sei mesi, non permanentemente.
  Quindi, essenzialmente, è stato creato il precedente che le vostre libertà sono alla mercé dello stato, che può portarvele via quando vuole. E, se vi conformate, useranno semplicemente la vostra conformità come scusa per prendersi libertà ancora maggiori (il gioco di parole è molto voluto).
  Israele è stata la capsula Petri di questo esperimento fin dall’inizio. Se funziona lì, aspettatevi che “l’obbligo dell’iniezione di richiamo” vada rapidamente in vigore in altri Paesi del mondo.
  A tutte le persone che si sono vaccinate e che ora si stanno rendendo conto di aver fatto qualcosa di stupido, beh, ci dispiace, ma abbiamo cercato di avvertirvi che sarebbe successa una cosa del genere.
  Finanziariamente parlando, questa è altra manna in un anno d’oro per Pfizer, che ora può continuare a fornire sempre più dosi della sua sperimentale e inutile terapia genica a persone che sono letteralmente obbligate per legge ad usarla. Se non volete fare il vaccino, potete sempre prendere qualcuna delle nuove magiche pillole anti-Covid di Pfizer.
  Quindi, non preoccupatevi della morte della libertà e della democrazia in nome di una malattia quasi del tutto innocua. Almeno gli azionisti di Pfizer potranno permettersi una seconda isola privata e costumi intessuti d’oro per i loro set di scacchi umani.
  Tuttavia, il prevedibile sequestro delle libertà, e gli ovvi motivi finanziari dietro di esso, non sono nemmeno la parte peggiore.
  La parte potenzialmente molto più cinica verrà dopo. Fra circa tre mesi, quando arriverà la stagione dell’influenza e gli anziani e gli infermi cominceranno a morire, come ogni inverno. Non si chiamerà “stagione influenzale,” ovviamente. Sarà tutto classificato come “Covid.” Insieme a questa nuova definizione di “vaccinato,” la “quarta ondata” o la “variante sigma” (o come la chiameranno) potrebbe essere usata per produrre nuove statistiche manipolate.
  Pensateci: ogni cittadino israeliano che si ammalerà e/o morirà dopo essere stato vaccinato due volte ma non tre, verrà ufficialmente etichettato come “non completamente vaccinato.” Potrebbero quindi affermare che la Covid colpisce soprattutto “i non vaccinati,” anche se la maggior parte delle persone che si ammaleranno avranno avuto due dosi del cocktail mRNA di Pfizer.
  Proprio come hanno usato trucchi linguistici per trasformare le “morti per qualsiasi causa” in “morti per Covid” e i “test positivi asintomatici” in “casi Covid,” ora hanno creato una scappatoia per trasformare le “persone vaccinate” che si ammalano in “persone non vaccinate.”
  Peggio ancora, è possibile che, nel corso del prossimo inverno, le persone che sono state “vaccinate” possano morire ad un tasso ancora maggiore del normale.
  Se si dimostrerà corretta la teoria che i vaccini mRNA possono causare un potenziamento anticorpo-dipendente (ADE), quest’inverno molte persone potrebbero essere uccise dai virus come risultato diretto dell’essere state “vaccinate”… e poi essere usate come prova per sostenere la tesi dell'”efficacia del vaccino.”
  In venti mesi di evidente negligenza scientifica, manipolazione dei dati, disonestà statistica e totale inversione linguistica… potremmo essere sul punto di vedere la bugia peggiore di tutte.
  A questo punto, queste sono tutte supposizioni, è ovvio. Ma, per chiunque là fuori stia pensando che “non lo farebbero mai,” vi ricordo quell’uomo che, dopo essersi sparato in testa, era stato classificato come decesso Covid. Non c’è letteralmente un limite al peggio che i potenti non riescano a superare.
  Anche se il tempo dimostrasse che la mia teoria è sbagliata, la dura ed evidente realtà del sistema basato sulle iniezioni di richiamo è abbastanza brutta: la libertà per sempre sotto una penzolante spada di Damocle è l’ennesimo assalto al linguaggio come parte di una campagna di anni per togliere il significato alle nostre stesse parole.
  E, anche se tutto questo può sembrare incredibilmente cinico e se negli ultimi due anni non siete diventati incredibilmente cinici, allora vuol dire che non eravate abbastanza attenti.

(Termometro Politico, 5 settembre 2021)


Il Boss delle vaccinazioni in Israele: preparatevi per la quarta dose

di Guido da Landriano

Sabato lo “Zar”, il responsabile nazionale israeliano del coronavirus ha chiesto al paese d’iniziare a prepararsi per somministrare infine le quarte dosi del vaccino contro il coronavirus, secondo il Times of Israel.
    “Dato che il virus è qui e continuerà ad esserci, dobbiamo anche prepararci per una quarta iniezione”, ha detto Salman Zarka alla radio pubblica di Kan.
    Non ha specificato quando alla fine potrebbero essere somministrate queste successive iniezioni.
    Zarka ha anche affermato che ila prossima inoculazione potrebbe essere modificato per proteggere meglio dalle nuove varianti del virus SARS-CoV-2 che causa il COVID-19, come il ceppo Delta altamente infettivo.
    “Questa è la nostra vita d’ora in poi, a ondate”, ha detto.
    Zarka ha fatto commenti simili in un’intervista con The Times of Israel il mese scorso: “Sembra che se impariamo le lezioni dalla quarta ondata, dobbiamo considerare la [possibilità di successive] onde con le nuove varianti, come quella nuova dal Sud America”, “E pensando a questo e alla diminuzione dei vaccini e degli anticorpi, sembra che ogni pochi mesi – potrebbe essere una volta all’anno o cinque o sei mesi – avremo bisogno di un altro colpo”.
    Certo, la soluzione potrebbe essere diversa rispetto alle continue iniezioni di Pfizer, ad esempio attendere un vaccino con un copertura molto più prolungata, ma pare che il governo israeliano non valuti questa opzione e abbia deciso di proseguire per la sua strada, cioè con un vaccino, il Pfizer, dalla brevissima efficacia.

(scenarieconomici.it, 5 settembre 2021)


I vaccini gettati alle masse dalle case farmaceutiche come ciambelle di salvataggio si sono rivelati ben presto come cappi al collo. Ogni dose propinata è uno Strattone al cappio per impedire al naufrago di affogare. Se non basta lo Strattone 1, si dà lo Strattone 2; se non basta il 2 si dà il 3, e così via. La serie degli Strattoni però non è infinita: finisce quando il naufrago esce dall'acqua strangolato. L'operazione è riuscita e - nel rispetto dei protocolli - il paziente è morto. M.C.


Crisanti boccia l’obbligo vaccinale: “Da Israele dati preoccupanti su calo efficacia”

Mario Draghi ha detto chiaro e tondo che l’Italia potrebbe andare verso l’obbligo vaccinale per tutti. L’annuncio del premier ha scatenato molte reazioni, tra le quali segnaliamo quella – assai interessante – di Andrea Crisanti, direttore del Dipartimento di medicina molecolare dell’università di Padova: “L’annuncio del premier mi lascia molte riserve”, ha commentato. “Da Israele arrivano dei dati che indicano come l’efficacia dei vaccini si riduca al 70%. Al momento sono preoccupato per questo”, ha dichiarato all’Adnkronos. 
   Quella di Crisanti è potenzialmente una bomba. Israele, il Paese preso a modello per la vaccinazione, vede di giorno in giorno i contagi triplicarsi, mentre l’intera popolazione è vaccinata con due dose e si procede spediti con la terza. Là, però, stando ai dati citati da Crisanti, l’efficacia dei vaccini sta diminuendo al 70%. La domanda quindi è: se si ha la prova provata che l’efficacia contro il blocco dei contagi è in caduta libera, perché obbligare l’intera popolazione a vaccinarsi? E perché procedere addirittura con una terza dose? È chiaro la questione non è più sanitaria ma politica. 
   Chi pensava che l’Italia non sarebbe mai arrivata all’obbligo vaccinale è un ingenuo o un illuso. O semplicemente ha capito poco di quanto sta succedendo fin dall’inizio della pandemia. Il governo ha proceduto per gradi: prima i sanitari, poi la scuola, ora tutti i dipendenti pubblici. Infine, ieri, in conferenza stampa, il premier Draghi ha sostanzialmente detto che l’obbligo vaccinale non è più un tabù per il governo. Quindi, che si proceda pure. Rispondendo a una domanda che mirava a chiedere se il presidente del Consiglio ritenga che l’obbligo vaccinale possa essere introdotto, e se si vada verso la necessità di una terza dose, Draghi ha risposto – ribadendolo due volte -: “Sì a entrambe le domande”. 
   A dare man forte a Draghi ci ha pensato poi il ministro della Salute Roberto Speranza, aggiungendo: “L’obbligo vaccinale nel nostro Paese è già disposto da una norma primaria per quanto riguarda il personale sanitario, quindi in realtà è già applicato ad un pezzo della nostra società”. E sulla terza dose: “Si inizierà entro il mese di settembre”. Avanti, dunque. Perché ormai è evidente a tutti che non si tratta più di salute, ma di lotta politica: Draghi e il suo governo non hanno combinato nulla finora, non hanno mantenuto nessuna delle promesse che avevano fatto, l’unica cosa che gli è rimasta è la campagna vaccinale.

(Il Paragone, 3 settembre 2021)



Ma quando il Figlio dell'uomo verrà, troverà la fede sulla terra?

di Marcello Cicchese
    Propose loro ancora questa parabola per mostrare che dovevano continuamente pregare e non stancarsi. In una certa città v'era un giudice, che non temeva Iddio né aveva rispetto per alcun uomo; e in quella città vi era una vedova, la quale andava da lui dicendo: Fammi giustizia del mio avversario. Ed egli per un tempo non volle farlo; ma poi disse fra sé: Benché io non tema Iddio e non abbia rispetto per alcun uomo, pure, poiché questa vedova mi dà molestia, le farò giustizia, che talora, a forza di venire, non finisca col rompermi la testa. E il Signore disse: Ascoltate quello che dice il giudice iniquo. E Dio non farà egli giustizia ai suoi eletti che giorno e notte gridano a lui, e sarà egli tardo per loro? Io vi dico che farà loro prontamente giustizia. Ma quando il Figlio dell'uomo verrà, troverà egli la fede sulla terra? (Luca 18:1-8)

"Il Figlio dell'uomo verrà", dice Gesù. Questo è un fatto certo, indiscutibile, perché dipende da Dio.
     Ma poi Gesù si chiede: "Troverà Egli la fede sulla terra?" E questo è un fatto incerto, discutibile, perché dipende da noi.
     Gesù sta per tornare, e quando si parla del ritorno di Gesù di solito è l'uomo incredulo che si pone delle domande su Dio, e chiede: "Ma sarà poi vero che Gesù ritornerà?". Qui invece, stranamente, è Dio che si pone delle domande sull'uomo, e chiede: "Troverà Egli la fede sulla terra?"
     E dove cercherà Gesù la fede? La cercherà forse tra coloro che apertamente si professano increduli? No, la cercherà tra coloro che si professano credenti. Ma se Gesù si pone una domanda, è perché ci sono due possibili risposte: sì o no. Gesù tornerà sulla terra, e sulla terra cercherà la fede. La troverà?
     La fede. Non è forse questo uno dei punti forti di noi cristiani evangelici? Non ci vantiamo forse della riscoperta, fatta da Lutero, del ruolo centrale della giustificazione per fede? Non siamo forse noi quelli che abbiamo sempre insistito sulla superiore importanza della fede rispetto alle opere, contrapponendoci in questo all'insegnamento della chiesa cattolica?
     "Il giusto vivrà per fede" diciamo spesso e volentieri, citando la lettera ai Romani. Ma dimentichiamo di aggiungere quello che sta scritto nella lettera agli Ebrei: "... ma se si trae indietro l'anima mia non lo gradisce" (Ebrei 10:38). Possiamo onestamente dire, con l'autore della lettera, che "noi non siamo di quelli che si traggono indietro a loro perdizione, ma di quelli che hanno fede per salvare l'anima"?
     Ed ecco, in questa parabola abbiamo un esempio di persona che non si trae indietro, ma esercita fino in fondo la sua fede: la vedova.
     Ma torniamo al primo elemento del nostro discorso: "Il Figlio dell'uomo verrà". Gesù verrà, e ci sembra di vedere i segni dell'imminenza del suo ritorno. Tra questi, ce n'è uno che merita particolare attenzione: il nervosismo del suo Avversario.
     Sì, il Diavolo dà segni di nervosismo, forse perché, come dice l'Apocalisse, sa di non avere che poco tempo. L'avvicinarsi del Figlio dell'uomo toglie tempo e spazio al suo Avversario. Al Diavolo viene a mancare il tempo, e quindi deve fare tutto con più fretta e agitazione; e viene a mancare lo spazio, e quindi deve cercarselo dovunque gli riesce, anche e proprio tra i figli di Dio.
     Non è il caso di spendere molte parole per confutare coloro che, anche tra i cristiani, anche tra i conduttori di chiese, negano l'esistenza del Diavolo o lo vaporizzano in fumosi concetti. Non vale neppure la pena di mettersi a discutere sul piano teorico: qui non è questione di teoria, ma di pratica. Non saper riconoscere il nemico in tempo di guerra significa rendersi oggettivamente strumenti del nemico. Non si tratta di idee più o meno rispettabili, ma di un grave accecamento spirituale: chi non sa vedere il nemico all'opera è cieco, guida di altri ciechi. Quello che la Scrittura dice in modo chiaro e incontrovertibile oggi è confermato da innumerevoli fatti che diventano sempre più vicini a noi, che non si fermano né davanti alla porta di casa, né davanti alla porta della chiesa.
     Il campo che l'Avversario predilige in questa società e in questo tempo è quello della vita personale e familiare. I grandi discorsi sulla pace e la giustizia non lo infastidiscono molto, purché riesca a intrufolarsi tra marito e moglie, tra genitori e figli; purché riesca a tenere schiave le persone con l'immoralità, con vizi vergognosi, con ambizioni smodate, con bramosie incontrollate, con malattie inspiegabili, con angosce e paure di ogni tipo, con veri e propri legami spirituali.
     Gli attacchi vengono portati nella penombra, lontano dalle luci dei riflettori, in quella zona del personale che appare così piatta e banale alla maggior parte delle persone importanti, anche a molti cristiani impegnati, da non meritare una particolare attenzione.
     E i cristiani sono tutt'altro che al riparo da questi attacchi. Anzi, diversi segni sembrano confermare che sta per venire il tempo, forse è già venuto, in cui non ci si potrà più confessare cristiani a buon mercato. Chi oggi confessa pubblicamente il nome di Gesù Cristo deve aspettarsi di essere sottoposto a tentazioni ancora più forti e tenaci di quelle degli altri uomini, perché l'Avversario, reso furioso dal nome di Cristo che è in gioco, cerca accanitamente ogni lato scoperto della vita dei cristiani per sferrare contro di loro i suoi tremendi attacchi.
     Quando l'apostolo Pietro avverte: "Il vostro Avversario, il Diavolo, va attorno come un leone ruggente, cercando chi possa divorare" (I Pietro 5:8), non fa della poesia, ma descrive efficacemente la realtà: una realtà che può diventare drammatica in tempi di particolare prova.
     Per questo Paolo dice: "Ritraggasi dall'iniquità chiunque nomina il nome del Signore" (II Tim. 2:19), perché chi nomina il nome del Signore entra automaticamente nel mirino dell'Avversario; e se l'Avversario avvista l'iniquità, sa di avere un campo d'azione aperto, perché l'iniquità è dominio suo.
     Può accadere così che singoli cristiani, famiglie cristiane, chiese cristiane vengano mantenute in una posizione di schiavitù, come il popolo d'Israele al tempo dei Giudici. Il Nemico dispone dei figli di Dio.
     E questo è fondamentalmente ingiusto. E' ingiusto perché Gesù Cristo ha trionfato sulla croce di tutti i principati e delle potestà e ne ha fatto un pubblico spettacolo (Colossesi 2:15). Quindi, coloro che sono stati riscattati dal sangue di Gesù Cristo non sono, nel piano di Dio, soggetti alla schiavitù del mondo, della carne e del Diavolo, perché Gesù Cristo ha pagato per loro il prezzo di riscatto, e i vecchi padroni non hanno più alcun diritto su di loro. Solo per la loro ingratitudine e infedeltà i figli di Dio possono rimettersi sotto un giogo che non è per loro. Quando ciò accade, naturalmente l'Avversario ne approfitta, e fa di tutto per ottenere che il nome di Gesù venga schernito e profanato.
     Siamo certi che qualcosa del genere non sia già avvenuto, non stia avvenendo nelle nostre famiglie o nelle nostre chiese? Ricordiamoci in ogni caso che questo non è giusto. Non è giusto perché l'apostolo Paolo dice: "Il peccato non vi signoreggerà, perché non siete sotto la legge, ma sotto la grazia" (Romani 6:14); e Gesù promette: "Se il Figlio vi farà liberi, sarete veramente liberi" (Giovanni 8:36).
     Se ci rendiamo conto di stare vivendo in una posizione di schiavitù, noi possiamo e dobbiamo, come il popolo d'Israele al tempo dei Giudici, gridare all'Eterno per essere liberati, dopo aver confessato onestamente i nostri peccati a Dio, e se necessario anche agli uomini. Possiamo essere certi che Dio interverrà, e nella sua fedeltà e giustizia ci libererà "dalle fauci della distretta".
     Tuttavia, è bene sapere che l'Avversario non molla subito la presa: Dio gli concede un certo tempo. E' il tempo che Dio riserva all'umiliazione e alla prova dei suoi figli; il tempo in cui Dio si aspetta da loro la preghiera insistente.
     Ed è proprio qui che la vedova ci è d'esempio. La situazione che la parabola ci presenta non potrebbe essere più sfavorevole: da una parte una vedova, cioè una persona nella massima debolezza sociale; dall'altra un uomo potente e privo di scrupoli, che non ha alcun interesse a favorire l'insignificante vedova per inimicarsi il suo più importante avversario. In questa situazione la vedova poteva scegliere tra due cose: o rassegnarsi alla sua debolezza e riconoscere "realisticamente" che contro la preponderante forza avversa non c'era niente da fare; o far lavorare il cervello e cercare qualche soluzione intelligente per modificare almeno un poco i rapporti di forza, e riuscire a strappare, magari con l'aiuto di qualche amico influente, una soluzione di compromesso che le permettesse di ottenere almeno una parte di quello che le spettava.
     Sono due vie che anche noi cristiani siamo tentati di prendere quando ci troviamo nella schiavitù spirituale: la via della rassegnazione (e la rassegnazione non è fede); o la via dell'attivismo "intelligente" (e anche l'attivismo non è fede).
     La via della fede è un'altra. Essa è semplice e difficile nello stesso tempo: è la via diretta della preghiera insistente. Questa è fede.
     Però non basta dire preghiera, perché sulla preghiera siamo d'accordo tutti: bisogna dire "preghiera insistente". "Giorno e notte", dice Gesù, e anche questa non è un'espressione poetica.
     Ci sono tempi in cui Dio mette alla prova i suoi eletti lasciando che vadano a finire in situazioni da cui non hanno alcuna possibilità di uscita, se non attraverso la preghiera insistente a Dio per ottenere liberazione. E' una posizione estremamente umiliante per noi uomini orgogliosi, gelosi della nostra autonomia. Per questo cerchiamo e troviamo un'infinità di argomenti, pur di non restare in una simile posizione.
     Naturalmente, in una presentazione teorica ordinata della nostra posizione di cristiani, nessuno di noi è contrario a inserire la fede tra gli elementi teologici fondamentali del cristianesimo. Siamo anche pronti a usare la preghiera come cappello introduttivo al nostro umano agire. Ma abbiamo una grande riluttanza a ricorrere alla preghiera insistente come unica espressione di fede per ottenere da Dio che le cose cambino. Siamo molto riluttanti a imboccare questa via, perché è la via che richiede l'ammissione della nostra totale impotenza e della assoluta necessità di dipendere in tutto e per tutto dalla grazia di Dio.
     Eppure, è proprio questo che la vedova ha fatto. Lei non ha fatto grandi discorsi, non ha fatto acute analisi della situazione, non ha fatto tentativi di procurarsi alleanze vantaggiose, non ha cercato di arrivare ad un compromesso con il suo avversario. Con patetica "ottusità" ha scelto la via semplice e diretta: è andata ripetutamente da colui che doveva esercitare la giustizia e ha chiesto giustizia. Non si è lasciata né stancare né intimidire dai rifiuti del giudice; ha superato l'ostacolo del tempo, perché "per un tempo" il giudice non ha voluto farle giustizia. Ma alla fine, nonostante che avesse davanti un faccendiere privo di ogni scrupolo di coscienza, la vedova ha ottenuto quello che voleva e che era oggettivamente giusto.
     E voi - dice Gesù - voi che non dovete rivolgervi a un giudice prepotente e malvagio ma a un Padre amorevole e giusto, voi che non siete dei poveri tapini ignorati e disprezzati ma siete gli "eletti" del Padre vostro, perché vi stancate molto prima di quella vedova? Perché non avete la fede necessaria per credere di poter essere liberati dalle mani del vostro Avversario, visto che quello che chiedete è giusto, e l'Iddio a cui vi rivolgete è il fondamento di ogni giustizia?
     Naturalmente, ci si può aspettare l'obiezione: "Pregare va bene, ma mica si può sempre e solo pregare, e poi starsene con le mani in mano. In fondo, Dio ci ha dato un'intelligenza perché la usiamo e la mettiamo al suo servizio. Quindi, prima preghiamo e poi diamoci da fare".
     Il discorso fila ed effettivamente è applicabile a molte situazioni della vita. A molte, ma non a tutte.
     E qui sta il punto. Perché sono proprio le situazioni a cui questo discorso non si può applicare quelle che possono risultare fondamentali per la nostra vita. Dietro questo impeccabile discorso si annida troppo spesso l'incredulità: un'incredulità teologicamente argomentata, ma che non per questo merita di essere chiamata in modo diverso.
     Senza essere obbligato a dare spiegazioni o preavvisi, Dio può mettere alla prova i suoi eletti per "vedere quello che hanno nel cuore" (Deuteronomio 8:2), e lasciare che cadano in situazioni da cui possono uscire solo gridando insistentemente all'Eterno. E' vero che Dio ci ha dato un'intelligenza naturale perché la usiamo nel modo più opportuno, ma è anche vero che Dio ci dà un'intelligenza spirituale per capire quando la nostra intelligenza naturale non serve assolutamente a niente.
     Guardiamo di nuovo la vedova: il suo comportamento non ha nulla di peregrino e intelligente. Lei ha soltanto la visione di quello che è giusto, e la fiducia di poterlo ottenere con la sua insistenza. E così è stato. Alla resa dei conti, la sua è stata vera intelligenza.
     Gesù ritornerà. Ma quando tornerà, troverà la fede sulla terra? Troverà quella fede che si esprime nel rivolgersi a Lui, e soltanto a Lui, per chiedere con insistenza la vittoria sul male? O troverà delle persone e delle chiese che vegetano in una condizione di semischiavitù spirituale, che tentano di coprire la loro situazione di asservimento al male dietro un polverone di discorsi pieni di razionalistico buon senso religioso?
     Troverà Gesù la fede che lotta in preghiera, che resiste all'azione logorante del tempo che passa senza che apparentemente accada nulla? La fede che non si stanca, che non abbandona la preghiera per trasformarla in chiacchiera teologica, che non nasconde la sua mancanza di fede dietro grandi discorsi sulla "giustificazione per fede", con i quali "giustifica" la sua resa all'Avversario?
     Ci troverà Gesù impegnati in questa lotta di fede che è anche una lotta contro il tempo? Contro il tempo dell'attesa che sembra interminabile, e che l'Avversario cerca di usare abilmente per logorarci e stancarci?
     Ma il tempo è breve. E' breve il tempo che ci separa dal ritorno di Cristo; è breve il tempo che l'Avversario ha ancora a disposizione per sedurre gli uomini e le nazioni; è breve il tempo della nostra prova. Gesù dice che Dio farà "prontamente" giustizia ai suoi eletti. Questo vuol dire che, per quanto il tempo passato in preghiera nella prova possa sembrarci lungo, noi dobbiamo ricordarci che Dio dice che è breve. E se Dio dice che è breve, esso è breve. Perché la fede non permette che sia la propria sensibilità psicologica a stabilire se un certo tempo è breve o lungo, ma lascia che sia Dio, e solo Dio, a stabilirlo. Quindi, se Gesù dice che il Padre "farà prontamente giustizia ai suoi eletti che gridano a lui notte e giorno", vuol dire il tempo passato in preghiera nella prova è breve, anche se a noi le notti e i giorni dovessero sembrare interminabili.
     Alla fine dell'Apocalisse ci viene detto: "Colui che attesta queste cose dice: Sì, vengo in breve". Guardiamoci allora dal misurare il tempo passato e quello che pensiamo dovrà passare prima del Suo ritorno con i nostri metri, per vedere se, secondo noi, quel tempo è breve o lungo. Se Dio dice che è breve, esso è breve, perché il metro giusto è quello di Dio.
     E se siamo in lotta nella preghiera, se stiamo combattendo con insistenza per ottenere giustizia da Dio, il "giusto giudice" (II Timoteo 4:8), possiamo ascoltare di nuovo la parola confortante di Gesù: "Sì, vengo in breve".
     E con la Scrittura possiamo rispondere fiduciosi: "Amen! Vieni, Signore Gesù!"

(da "Credere e comprendere", agosto 1991)


 

Israele chiama Italia: “Pronti ad accogliere gruppi di turisti vaccinati”

di Roberta Moncada

Accogliere nuovamente il turismo organizzato vaccinato, e far scoprire anche luoghi meno noti della destinazione, sfruttando e potenziando scali come il nuovo aeroporto di Eilat-Ramon. Questi, i progetti dell’Ufficio nazionale del turismo di Israele, presentati in occasione di un evento tenutosi a Roma, nella cornice del Singer Palace Hotel, sulla terrazza con vista sul centro storico.
   «Stiamo lavorando per accogliere nuovamente e al meglio i turisti italiani, che per Israele sono un mercato importantissimo – ha detto al nostro giornale Kalanit Goren Perry, direttrice dell’Ufficio nazionale israeliano del Turismo in Italia – e l’obiettivo è di promuovere e incrementare sempre di più gli scambi turistici Italia-Israele. Ne abbiamo parlato anche durante l’incontro con il ministro Massimo Garavaglia a maggio, e ci siamo trovati d’accordo sull’importanza reciproca dei rispettivi mercati».
   Nel 2019, sono stati circa 200mila gli israeliani che hanno fatto turismo nel nostro Paese, e altrettanti i turisti che dall’Italia hanno visitato Israele.
   Ma non si tratta più solamente di turismo religioso. Israele si sta confermando sempre di più come meta poliedrica, con un’offerta che spazia dalle attività outdoor alle spiagge, al trekking, fino al turismo enogastronomico. E proprio nell’ottica di venire incontro alle nuove richieste del mercato, l’ente del turismo israeliano sta cercando di ampliare l’offerta puntando su zone ancora poco battute, come ad esempio il deserto del Negev, facilmente raggiungibile proprio dall’aeroporto di Eilat-Ramon, scalo per cui una recente direttiva governativa incentiva e potenzia l’offerta anche per i voli internazionali.
   Quanto all’offerta per agenzie e operatori, Goren Perry sottolinea che «noi siamo sempre a disposizione di qualsiasi necessità da parte degli agenti di viaggio. Per aiutarli a conoscere meglio la destinazione, abbiamo creato appositamente diversi programmi di formazione, video e webinar, che speriamo facciano scoprire la ricchezza dell’offerta turistica di Israele».
   Con quasi il 25% della popolazione che ha già ricevuto la terza dose del vaccino anti Covid-19, Israele si conferma come uno dei Paesi più avanti nei tassi di vaccinazione al mondo.

(L'Agenzia di Viaggi, 4 settembre 2021)


Boom di contagi da Covid in Israele, autunno in lockdown per l’Europa?

I dati sul Covid in Israele sono pessimi, malgrado il paese sia tra i più vaccinati al mondo. Cerchiamo di capire cosa ci attenda.

di Giuseppe Timpone

Israele è stato un esempio mondiale di efficienza per la campagna vaccinale contro la pandemia. Già agli inizi di marzo, nel paese erano state somministrate dosi per il 100% della popolazione. Un risultato che l’Europa ha raggiunto solamente nelle ultime settimane. Per questo, il boom dei contagi da Covid è guardato con estrema attenzione e timore. I dati ci dicono che a inizio settembre, i nuovi casi giornalieri in Israele sono saliti ai massimi di sempre, superando quota 16.600. Moltissimi per una popolazione di 9,4 milioni di abitanti. Pensate che a inizio giugno, erano scesi a una media di poco più di una decina. Per quanto sopra accennato, Israele è guardato un po’ come se anticipasse di qualche mese il futuro di cosa attenderebbe anche il Vecchio Continente.
   Fa specie che il boom dei contagi sia arrivato con una campagna di vaccinazione così avanzata. Rischiamo per caso di tornare in “lockdown” nell’autunno che sta per arrivare? Prima di cercare una risposta, dobbiamo premettere che Israele oggi non sia più avanti all’Europa in termini di persone completamente vaccinate. Queste sono circa il 63% della popolazione, solamente qualche punto percentuale in più dei dati europei. L’Italia è già salita al 60,7%, tanto per fare un confronto.
   In effetti, dalla primavera scorsa i ritmi della campagna vaccinale in Israele sono di molto rallentati. Anzitutto, perché oltre una certa soglia, risulta molto più difficile convincere la popolazione residua a vaccinarsi. Stiamo assistendo alla stessa situazione in tutta Europa. Il traguardo del 60% segna quasi una soglia di resistenza, toccata la quale le somministrazioni procedono molto più a rilento. Del resto, con le dosi ormai disponibili da mesi a sufficienza, chi fosse convinto di vaccinarsi, grosso modo lo avrebbe fatto.

- CONTAGI COVID, I PROBLEMI COMUNI A ISRAELE
  Detto questo, Israele pone due problemi. Il boom dei contagi sarebbe alimentato dalla variante Delta, ormai diventata preponderante un po’ ovunque in Occidente. Per fortuna, proprio gli alti tassi di vaccinazione nel paese stanno impedendo una recrudescenza anche dei decessi. Questi sono contenuti a una media di 25 al giorno, pur in drastico rialzo dallo zero centrato a fine giugno. Dunque, la variante Delta si mostra molto più contagiosa, ma grazie al fatto che la maggior parte delle persone sia vaccinata, in pochi starebbero accusando effetti gravi. A febbraio, all’apice della terza ondata, i morti da Covid in Israele superarono la soglia giornaliera di 60.
   C’è un altro problema, però: il caso israeliano suggerisce che l’efficacia del vaccino si riduce a distanza di mesi. Considerato che il grosso delle vaccinazioni nel paese sia stato completato entro marzo, dopo sei mesi già il siero inizierebbe a difendere molto meno il sistema immunitario contro il Covid. Non a caso Gerusalemme ha iniziato a somministrare la terza dose, un ulteriore richiamo per irrobustire l’immunità almeno tra le fasce più a rischio della popolazione.
   Tuttavia, esiste una differenza rilevante con l’Europa. Israele ha puntato tutto su Pfizer, mentre da noi i sieri utilizzati sono stati molteplici. E molti richiami sono stati effettuati già con la cosiddetta “eterologa”, cioè con un siero diverso dal primo. Secondo gli studi, emergerebbe che questo mix garantirebbe un’immunizzazione più forte contro il virus. Per il momento, Israele non sta adottando alcun ritorno alle vecchie restrizioni. Ma qui il fattore sarebbe forse più politico: il nuovo premier Naftali Bennett è contrario ai “lockdown” imposti dal predecessore Benjamin Netanyahu. Resta da vedere se questa opposizione verrà meno nel caso di ulteriore risalita dei contagi.

(InvestireOggi, 4 settembre 2021)


Qualcuno prima o poi dovrebbe chiederselo. Hanno detto che con il vaccino si debella il covid; c'è un paese che l'ha fatto per primo in dosi massicce; il covid continua a crescere e a estendersi; dicono che bisogna continuare come prima e più di prima. Domanda: com'è possibile convincersi e convincere altri che il rimedio migliore se non l'unico per debellare il covid è l'aumento di vaccinati e inoculazioni vaccinali? La difficoltà di riuscire a capire i sottili meccanismi mentali che possono portare le persone ad autoconvincersi così serenamente mi ha suggerito la risposta: è il dualmind. Quello di cui parla Orwell nel suo famoso libro "1984":
    «La mente scivolò via nel mondo labirintico del dualmind. Sapere e non sapere; essere consapevoli della totale veridicità, proprio mentre si raccontano bugie ben costruite; intrattenere simultaneamente due opinioni che si annullano a vicenda, sapendole contraddittorie, ma credendo a entrambe; usare la logica contro la logica; ripudiare la moralità avanzando pretese morali; credere che la democrazia sia impossibile e che il Partito sia l’unico baluardo democratico; dimenticare qualunque cosa sia necessario dimenticare, e poi riportarla alla memoria al momento del bisogno, e in seguito dimenticarsene di nuovo all’occorrenza; e soprattutto, applicare lo stesso procedimento al procedimento stesso. Ecco la sottigliezza definitiva: indurre consapevolmente l’inconsapevolezza; e poi, di nuovo, essere inconsapevoli dell’autoipnosi appena praticata.»
M.C.


Antirazzisti, giù le mani da Israele

Intellettuali lanciano sul Monde un appello contro la distorsione del conflitto.

L'attuale situazione in medio oriente non è solo il risultato di decenni di scontri tra israeliani e palestinesi, ma è anche alimentata da centinaia di anni di persecuzione degli ebrei nei paesi arabi e in Europa". Si apre così sul Monde un appello firmato da molti intellettuali, francesi e no: Michael Walzer, Elisabeth Badinter, Elie Barnavi, Georges Bensoussan, Paul Berman, Jean-François Braunstein, Pascal Bruckner, Elie Chouraqui, Alain Finkielkraut, Jacques Julliard, Mohamed Louizi, Pierre Manent, Pierre Nora, Michel Onfray e Boualem Sansal.
   Un conflitto che non può essere "ridotto alla visione binaria di un confronto tra i `bravi palestinesi' e i 'cattivi israeliani', se non da propagandisti o da ignoranti". Ma è proprio in questa oltraggiosa semplificazione che sono impegnate "diverse organizzazioni - pensiamo ad alcuni rapporti delle Nazioni Unite -, organi di stampa, nonché un numero significativo di intellettuali e artisti, personalità politiche e mediatiche". Con il pretesto dei buoni sentimenti, "si tratta di propaganda di stato, che consiste nell'inventare il crimine per uccidere meglio lo stato con il pretesto di porre fine all'apartheid che non esiste (gli arabi israeliani godono degli stessi diritti degli ebrei israeliani, hanno deputati alla Knesset, un giudice della Corte Suprema, consoli e ambasciatori, medici e infermieri".
   Dietro le accuse di apartheid, dicono, "si è pronti a far uccidere l'ultimo palestinese per servire la propria agenda". Nel 2014, l'autore americano Sam Harris ha pubblicato un episodio sul suo podcast intitolato "Perché non critico Israele?". In realtà l'episodio non risparmiava critiche, ma il saggista americano lo concludeva con una frase che fa pensare: "La verità è che viviamo tutti in Israele. Il problema è che alcuni di noi non se ne sono ancora resi conto". L'inno alla gioia di Hamas e del jihad islamico per la presa del potere a Kabul dei talebani dovrebbe farci non poco pensare.

Il Foglio, 4 settembre 2021)


«Noì ebrei in fuga, ci salvammo la vita riparando a Lugano»

La storia di Ornella Ottolenghi che nel drammatico autunno del 1943 raggiunse il Ticino dall'Italia con i suoi genitori per sfuggire ai massacri dell'esercito tedesco. Quando attraversò il confine aveva solo 14 anni ma ancora oggi i suoi ricordi sono lucidissimi.

La fuga di Ornella Ottolenghi e dei suoi genitori verso il Ticino è una delle quattro vicende di profughi di guerra che sono raccontate al Museo Svizzero delle dogane a Caprino nell'ambito dell'esposizione intitolata Un confine tra povertà e persecuzioni, curata dagli storici momò Adriano Bazzocco e Stefania Bianchi. E qui andiamo a scoprirla dalla viva voce della signora Ornella che ce la racconta dalla sua casa di Milano, città dove è nata e cresciuta e vive ancora oggi all'età di 92 anni. 

- LA FAMIGLIA
  «Siamo ebrei ma prima di tutto in famiglia eravamo convinti socialisti. Mio padre Federico era titolare della fabbrica di pelletteria d'alta moda Ottolenghi, fondata nel 1817 e poi chiusa nel 2009. Quando nel 1938 erano state emanate le leggi razziali, riuscì a salvarla e a conservarla nelle mani degli Ottolenghi trasformandola in una società anonima e facendo figurare fra gli azionisti suoi amici socialisti ma non ebrei. Mia madre si chiamava invece Adriana e fu lei a darsi da fare per organizzare la nostra fuga nell'ottobre del '43». 

- IN PIAZZA SENZA APPLAUDIRE
  «Mio padre, per farmi capire come stavano andando le cose nell'Italia fascista, quando ero bambina mi portò in più occasioni in Piazza Duomo ad ascoltare i discorsi di Benito Mussolini. E ogni volta mi diceva: "Vedrai che tutti battono le mani, ma papà no. E non farlo neppure tu". Più chiaro di così.;», 

- SOTTO LE LEGGI RAZZIALI
  «Il giorno dopo il 5 settembre del '38, data in cui entrarono in vigore le leggi razziali del fascismo, mio padre, che era capitano e aveva fatto la Grande guerra, quella del '14-'18, era stato allontanato dall'esercito, mentre io, figlia unica, lo ero stata dalla scuola pubblica. Gli ebrei milanesi, però, organizzarono subito delle loro scuole che io ho frequentato. E avevamo comunque di che vivere, grazie all'azienda di famiglia. Prima dell'8 settembre del '43 non ricordo chissà quali vessazioni subite da noi Ottolenghi. Rammento però che un giorno, uscita dalla scuola ebraica in zona Sempione, mentre stavo aspettando il tram per tornare a casa dall'altra parte della città, tre ragazzotti si erano avvicinati a me e mi avevano insultata. Pioveva, io ero sotto il mio ombrello e quando mi dissero "ebrea" aggiungendovi un epiteto (non ricordo il termine, ma poteva essere tipo "fottuta") lo richiusi, li presi a ombrellate e scapparono. Avrò avuto 11-12 anni, quando accadde», 

- I GIORNI DEL PERICOLO
  Dopo l'annuncio dell'armistizio i soldati tedeschi e soprattutto le SS iniziarono a dare la caccia agli ebrei. «Nell'ultima settimana del mese di settembre del '43 - spiega la nostra interlocutrice - mia nonna materna, Ada Crema, che insieme al nonno Amilcare viveva a Ispra, telefonò a mia madre dicendo che a Meina, sulla sponda opposta del Verbano, era accad uto un fatto drammatico. Sedici ebrei rifugiatisi nell'albergo che portava il nome del paese erano stati arrestati e quindi trucidati dai soldati nazisti, che poi ne gettarono i corpi nel lago dopo averli zavorrati. In quei giorni, con i miei genitori, ero sfollata a Mandello del Lario, sulle sponde del lago di Como, perché la nostra casa di Milano era stata bombardata. Mia madre, allora, non ci pensò due volte e iniziò a darsi da fare per organizzare la fuga della nostra famiglia verso la Svizzera, per cercare di salvarci la vita».

- IL RESPINGIMENTO A CAPRINO
  Da Mandello gli Ottolenghi salirono fino a Lanzo d'Intelvi, dove li accolse un'amica di famiglia che lì aveva una villa. E da lì ... «Nel buio della notte fra il 27 e il 28 settembre, lungo un pendio ripido e accidentato, scendemmo da Lanzo verso Caprino, insieme a dei nostri mezzi parenti, che di cognome facevano Benaroio e avevano con sé la figlia di soli sette mesi. Al posto di confine di Caprino le guardie di frontiera elvetiche diedero il permesso ai Benaroio di entrar e in Svizzera, cosa che non venne invece concessa a noi Ottolenghi. Infatti, venivano accolte solo le famiglie i cui figli non avevano ancora compiuto i quattordici anni, e io li avevo già compiuti», 

- BUONO IL SECONDO TENTATIVO
  «Mio padre si rifiutò di risalire a Lanzo e riuscimmo a raggiungere l'altra sponda del lago in barca, grazie all'aiuto offertoci da guardie di finanza sarde e antifasciste. Scappammo verso Porlezza, dopo di che mia madre organizzò un secondo tentativo. Io e lei il 10 ottobre entrammo in Svizzera scendendo verso Arogno». In quei boschi le attendeva un certo signor Fischer, salito ad accoglierle con la scusa di andare per funghi. Arrivarono quindi a Bissone, dove presero il treno per Lugano. 

- LA CERTEZZA DELLA SALVEZZA
  E qui? «Dopo essere stati a casa Fischer dove ci offrirono tè e biscotti, ci alloggiarono al Majestic, un albergo di lusso. Non mi parve vero di essere in salvo e mi fece effetto vedere che di là del lago c'era l'Italia da dove eravamo fuggite. Mia madre andò poi alla Gendarmeria per annunciarci e in seguito ci trasferirono a Bellinzona, dove provvisoriamente dormimmo nelle prigioni, su un pagliericcio. Rispetto al Majestic, un cambiamento di scenario un po' truce ma almeno avevamo una certezza: finalmente eravamo in salvo! Come lo fu in seguito mio padre che nella notte fra il 26 e il 27 ottobre sconfinò da Caprino, stavolta senza farsi acciuffare», Pure lui raggiunse Lugano, su una barca che era lì ad attenderlo. 

- ORNELLA CINQUANTUNO
  Siamo ai saluti, ma Ornella Ottolenghi ha ancora un ricordo da raccontare. «Sa qual è il vero trauma che ho subito in quegli anni? Quando i pericoli si erano fatti sempre più concreti, mi avevano nascosto presso delle suore a Oneglia, in Liguria. Per evitare che mi si potesse riconoscere come ebrea, sostituirono il mio cognome con quello di Cinquantuno. Era il numerino che era stato applicato sui miei vestiti e indumenti per riconoscerli quando veniva fatto il bucato. Anche la posta dei miei veniva indirizzata a Ornella Cinquantuno. L'aver perso il mio cognome vero mi aveva fatto davvero male, pur se la sostituzione era stata fatta a fin di bene, per la mia incolumità», 

(Corriere del Ticino, 4 settembre 2021)


Giordania: capo Hamas elogia studentessa universitaria per aver boicottato Israele

Il capo dell'ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ha contattato telefonicamente una studentessa palestinese residente in Giordania per ringraziarla di aver boicottato Israele nel corso di una competizione internazionale universitaria.
    La ragazza, Lina al-Hourani, si era rifiutata di fronteggiare un contendente israeliano asserendo di non riconoscere la legittimità del cosiddetto stato di Israele. L'aver accettato di competere, avrebbe significato un riconoscimento de facto di Israele.
    Haniyeh ha elogiato la presa di posizione di al-Hourani e il suo messaggio di rifiutare la normalizzazione dei rapporti con l'entità occupante, lodando "questo gesto nobile e sincero."
    Al-Hourani si è ritirata dal concorso organizzato dall'americana Johns Hopkins University incentrato sul tema della ripresa delle città nel periodo post Covid, rinunciando così al premio da un milione di dollari.
    La ragazza ha dichiarato in un comunicato stampa: "I miei principi non mi consentono di competere con coloro che hanno distorto l'immagine del mio paese in una competizione internazionale che si occupa di bellezza".
    Al-Hourani ha aggiunto: "Il valore del premio, che ammonta a un milione di dollari USA, non mi ha tolto la sanità mentale. Sono stata educata su principi basati sulla Palestina. La mia posizione sulla questione è intransigente, mentre il resto sono dettagli che non mi interessano".

(IQNA, 3 settembre 2021)


Lotta tecnologica alle zanzare, Casale chiede l’aiuto di Israele

Il sindaco Federico Riboldi annuncia la collaborazione con il Paese all’avanguardia nella disinfestazione

di Valentina Frezzato 

CASALE MONFERRATO - L’aiuto, tecnico e tecnologico, per l’eliminazione che sia quanto più definitiva possibile delle zanzare a Casale Monferrato arriverà da Israele.
   Grazie a un’amicizia nata in un contesto culturale (una visita alla sinagoga della città, prima della pandemia), il sindaco Federico Riboldi ha potuto rivolgersi a laboratori di tutto il paese del Medio Oriente e oggi porterà in giunta una proposta concreta: «Un documento – spiega – con cui condividerò quanto successo in queste ultime settimane. Prenderemo poi contatto con le realtà più interessanti del paese che è il più avanti nella lotta alle zanzare». Ma Riboldi guarda già oltre: «È importante fissare un meeting con la Regione perché quello delle zanzare non è solo un problema legato al turismo, ma di carattere sanitario».

- UN PASSO INDIETRO
  Un passo indietro va fatto a due anni fa, al giorno in cui Gianluigi Benedetti, ambasciatore italiano a Tel Aviv che all’epoca ancora non lo era, andò a Casale per vedere e conoscere le bellezze della sinagoga.<
   «In tutto questo tempo – racconta Riboldi – ci eravamo sentiti solo per scambiarci gli auguri per le festività. Grazie a una riflessione con Alberto Drera, che è il consigliere delegato alle zanzare, abbiamo cercato più informazioni e creato un contatto in questo senso».<
   Perché non chiedere a loro, in Israele, qualche suggerimento sul tema? «Ne avevo parlato con l’ambasciatore durante la sua visita in città, poi avevo letto documenti e studiato qualche case history: a Tel Aviv portano avanti iniziative molto interessanti sia per la lotta diretta all’insetto, utilizzando alcuni macchinari che lo eliminano, sia per quanto riguarda la prevenzione», continua Riboldi.

- IL TERZO TURNO
  Proprio oggi in città termina il terzo turno, che era iniziato il 23 agosto scorso, di trattamenti larvicidi nelle caditoie stradali, «quelle presenti su suolo pubblico in tutto il territorio del comune – spiegavano dal municipio pochi giorni fa – nell’ambito del progetto di lotta alle zanzare; i trattamenti sono eseguiti dal personale della ditta Sanatec e nel periodo di tempo intercorso fra i turni di trattamenti il tecnico esegue personalmente azioni di disinfestazione dei tombini nei luoghi in cui ritiene necessario».

(La Stampa, 3 settembre 2021)


Il capodanno ebraico tra rinnovamento e indagine interiore 

«Rosh ha Shanà»: lunedì sera si inaugura l'anno 5782 e un mese ricco di celebrazioni e riflessioni profonde 

Il Shanà, la parola ebraica che significa «anno», ha un senso paradossalmente duplice: la sua radice infatti fa riferimento tanto al concetto di «ripetere» quanto a quello di «cambiare». Un apparente controsenso che la tradizione ebraica si incarica di spiegare: se infatti da un lato la ritualità implica di per sé la ripetizione di parole e la reiterazione di gesti allo stesso tempo, per evitare che si trasformi in retorica vuota di senso, deve contenere in sé la capacità di innovare e di rinnovarsi. 
  Ed è a partire da questa duplice direzione che si inaugura, la sera di lunedì 6 settembre, per la precisione il primo del mese di Tishri, l'anno 5782 del calendario ebraico. Rosh ha Shanà ( che tradotto significa letteralmente «capo d'anno») ha un ruolo centrale e inaugura un mese fondamentale ricco di celebrazioni e riflessioni. I calendari infatti sono diversi: alcuni dipendono dal sole, altri dalla luna, altri ancora - come quello ebraico - combinano il tempo dell'uno e quello dell'altra. Proprio per gli strani casi dei calendari, la sera di lunedì prossimo, in aggiunta alla specifica funzione in sinagoga, gli ebrei di tutto il mondo iniziano il nuovo anno mangiando cose buone e dolci in segno di buon augurio per il futuro eppure, a indicare la duplice direzione di senso, Rosh ha Shanà è anche il «giorno del giudizio» in cui Dio inizia a valutare il comportamento sia del singolo che dell'intera umanità. Resta quindi - anche in questo caso - una coesistenza tra elementi di permanenza e cambiamento. 
  Iniziano allora i dieci giorni penitenziali, di riflessione e di introspezione che conducono a Yom Kippur, il giorno dell'espiazione (quest'anno dalla sera del 15 settembre al tramonto del 16). Dieci giorni in cui, a partire dal ricordo della creazione del mondo si ha una sorta di nuovo inizio di tutti gli inizi che implica un'opportunità di rinnovamento che muove dalla riflessione su di sé. Dieci giorni chiamati « Yamin noraim - i giorni terribili» tale è l'intensità dell'impegno che li caratterizza: un periodo però che non è destinato alla sola riflessione, conservando infatti il senso di duplicità iniziato a Rosh ha Shanà, i dieci giorni penitenziali implicano - e impongono - atti concreti e vincolanti: l'obbligo - ad esempio - di chiedere scusa per i torti inflitti. Ma non si tratta di pentimento come inteso nella cultura occidentale (e cristiana): uno dei grandi maestri della tradizione ebraica, Mosé Maimonide, esegeta e filosofo medioevale, dedica alla ricorrenza il testo Hilkhot ha-teshuvà, di cui una prima ipotesi di traduzione del titolo è monne per il pentimento», ma il significato si presta ad essere indagato con maggior attenzione. «TESHUVÀ» infatti indica piuttosto un ritorno che un pentimento e Hilkoth significa percorsi piuttosto che norme. In aggiunta è significativo rilevare che il titolo è declinato al plurale, «ritorni»: nella metafora rabbinica quindi la traduzione - e l'indicazione che se ne trae - è «percorsi di ritorno»: riconoscendo in questo plurale una molteplicità e varietà di possibilità quale che sia il punto di partenza individuale. «La Teshuvà - scrive il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni nella prefazione dell'opera (Giuntina 2015) - riguarda prima di tutto un moto dell'anima, una decisione radicale che determina tutte le future scelte, ma che pur sempre rimane inizialmente interna e non ancora visibile». Un esito possibile che, ancora una volta, è duplice: da una parte infatti è riparatore dei torti commessi, dall'altra la Teshuvà contiene in sé la possibilità di essere creatrice. Secondo il Maharal di Praga - filosofo, talmudista e matematico del Cinquecento - infatti se una tende a riparare gli errore e le cose sbagliate, la seconda, volta e mossa dall'amor di Dio, crea una cosa nuova e giusta, l'una è quindi volta al passato, la seconda al futuro. Eppure né la Teshuvà - il ritorno - né il giorno di Kippur possono espiare se non le colpe commesse verso il Padre Eterno. Si definisce così anche in questo caso una duplice direzione: una verticale dedicata e implicante la relazione con Dio, l'altra, per così dire, orizzontale che riguarda la relazione con gli altri e la collettività nel suo insieme. 
  Per tutti questi motivi il giorno di Kippur, il giorno del giudizio finale, ci si astiene dal mangiare, dal bere e da altre forme di godimento: sembrerebbe quindi che il distacco dalla dimensione materiale consenta di tornare alla natura intima ed essenziale di ciascuno. Un contesto - che conserva ancora una duplicità di senso - in cui «la colpa» non è intrinsecamente negativa indicando piuttosto un percorso di consapevolezza di ciò che si è stati nel passato e avvia alla trasformazione e alla capacità di reinventarsi il futuro. 

(il manifesto, 3 settembre 2021)


Dagli Emirati al Libano. Per l’imprenditore israeliano Erel Margalit è il business la via per la pace

di Fabiana Magrì

“Sono convinto che, molto presto, il Libano farà parte di questo progetto. La chiamiamo “open fence strategy”, la strategia dei recinti aperti”. Dalla città più settentrionale di Israele, Kiryat Shmona, dove giovedì 1° settembre si è inaugurato il Margalit Startup City Galilee, nuovo hub tecnologico tutto dedicato al foodtech, l’israeliano Erel Margalit, fondatore e presidente della società di venture capital JVP, ha lanciato un appello al popolo libanese. “La terra su entrambi i lati del confine è fertile. Respiriamo la stessa aria. Desidero e attendo con ansia il giorno in cui l’innovazione, la ricerca e la creatività saranno condivise dai due popoli”. “Le nostre porte sono aperte - ha continuato il teorizzato le della “Startup Region” in Medio Oriente - e le nostre braccia tese. Non c'è speranza nella guerra. Un conflitto non porta vantaggi per nessuno. L’innovazione, invece, può cambiare una città e può cambiare un paese. E può anche essere un ponte per l'intera regione”.
   E’ uno degli uomini d'affari più influenti in Israele. Con la Jerusalem Venture Partners, società internazionale fondata nel 1993, Erel Margalit ha investito in oltre 150 società. Era il 2004 quando Forbes l’ha annoverato - primo israeliano - tra i cinquanta migliori imprenditori al mondo per la capacità di creare ricchezza per i propri investitori e l’ha definito il più importante venture capitalist non americano. Dopo aver coltivato l'ecosistema high-tech a Gerusalemme, ha istituito centri di innovazione in altre regioni di Israele, tra cui un Cyber ​​Center a Be'er Sheva e un Digital Health Center ad Haifa, a cui si è aggiunto il Foodtech Center in Galilea. E un International Cyber ​​Center a New York. Margalit è stato uno dei primi uomini d’affari a guidare una delegazione ufficiale di business a Dubai, dopo la firma degli Accordi di Abramo, un anno fa. Ed è stato il primo israeliano ospite della TV pubblica emiratina.
    La sua intenzione è perseguire con il Libano lo stesso obiettivo di normalizzazione delle relazioni che ha avuto successo con i paesi nel Golfo Persico, Emirati Arabi in primis. Tra Gerusalemme e Abu Dhabi, tuttavia, non c’era il trascorso di guerre che ha segnato l’incomunicabilità tra Israele e Libano. E non c’era la longa manus dell’Iran e dei suoi proxy Hezbollah. Questa volta, la sfida lanciata da Margalit è decisamente più azzardata.
    “Prima dei politici - ha continuato - ci sono le piccole attività, gli agricoltori, i commercianti, i produttori. La gente inizia a guadagnare per vivere, lavorando insieme su progetti semplici. Io credo negli inizi a piccoli passi”. Dietro le quinte, lascia intendere Margalit, gli uomini d’affari sono già al lavoro per creare dei varchi in un confine attualmente invalicabile.

(Shalom, 3 settembre 2021)


Decapitarono un giornalista ebreo. Potrebbero essere liberi tra pochi anni

Uno collabora con la giustizia americana, l’altro è “detenuto” in Turchia ma sarà libero (di arruolarsi nell’esercito Jihadista di Erdogan) tra pochissimi anni se non subito

Rapirono, torturarono e decapitarono diversi ostaggi occidentali, tra i quali il giornalista ebreo americano Steve Sotloff, il cui rapimento venne tenuto segreto per oltre un anno dalla sua famiglia e dal governo israeliano nel tentativo di non comprometterne la liberazione.
  Steve Sotloff venne decapitato all’inizio di settembre 2014 in una esecuzione filmata dalla cellula ISIS denominata “Beatle” in quanto i suoi quattro membri erano tutti di origine inglese.
  Tra loro il più famoso era Mohamed Emwazi, noto come “Jihadi John”, ucciso in Siria nel novembre 2015 durante un attacco aereo statunitense.
  Gli altri sono Alexanda Amon Kotey e El Shafee Elsheikh, attualmente detenuti negli Stati Uniti mentre il quarto membro è Aine Davis, imprigionato in Turchia dopo essere stato condannato a sette anni (ripeto, sette anni) con l’accusa di terrorismo.
  Kotey ed Elsheikh sono stati catturati dalle forze curde e consegnati agli americani, mentre Davis è stato catturato dalla polizia turca ad Istanbul.
  Quando turchi e americani hanno chiesto alla Gran Bretagna di prenderli in consegna il Governo britannico ha pensato bene che per non dar loro troppa pubblicità in patria la soluzione migliore sarebbe stata quella di privarli della cittadinanza.
  Così è stato deciso di lasciarli processare negli Stati Uniti e in Turchia a condizione che non fosse inflitta loro la pena di morte e che se la pena fosse stata inferiore all’ergastolo sarebbero stati trasferiti in Gran Bretagna per scontare la pena a vita.
  Ora però si apre una questione davvero curiosa. A parte Aine Davis che dopo sette anni sarà libero di “arruolarsi” nell’esercito Jihadista di Erdogan, ma almeno uno dei due attualmente detenuti negli USA (Alexanda Amon Kotey) avrebbe deciso di collaborare con la giustizia e quindi di patteggiare (forse accusando proprio l’altro).
  Ora, questa eventualità prevede la scarcerazione dopo un massimo di 15 anni ed avendo la Gran Bretagna tolto agli accusati la cittadinanza britannica, un buon avvocato potrebbe chiedere alla giustizia americana di non consegnare l’imputato alla giustizia britannica come prevede l’accordo.
  Quindi, almeno due dei responsabili della tortura e della decapitazione di diversi ostaggi occidentali, tra i quali l’ebreo americano Steve Sotloff nipote di un sopravvissuto ai lager nazisti, potranno essere liberi nel giro di pochi anni. Alla faccia della giustizia.

(Rights Reporter, 3 settembre 2021)


G20 interfaith: il Rabbino Di Segni e Mario Draghi insieme per l’impegno delle religioni

Dal 2 settembre al 14 settembre si terrà a Bologna il G20 interfaith forum 2021, a cui prenderà parte il Rabbino Capo di Roma, Rav Shmuel Riccardo Di Segni, nella stessa sessione del Premier Mario Draghi.
    Il tema scelto del G20 Interfaith è “Time of Heal”, Il tempo della guarigione. Un titolo evocativo, che si riferisce a quello che ormai il Covid-19 ha trasformato a partire dal 2020, modificando profondamente il modo di vivere. Ma non solo, un rifinendo anche alle condizioni sociali e sanitarie che la situazione afghana che portato alla luce.
    Uno spazio per il dialogo religioso ma non solo. Il forum ospiterà infatti più di 200 personalità tra cui rappresentanze religiose e diplomatici. Prenderà parte all’evento anche Il Premier Mario Draghi, incaricato della chiusura del G20 assieme all’arcivescovo di Bologna, al cardinale, al presidente del parlamento europeo David Sassoli, e al presidente del congresso ebraico mondiale Ronald Lauder.
    Il G20 sarà quindi uno spazio aperto alla discussione, in cui si parlerà di una serie di proposte e fra esse una dichiarazione di impegni comuni a tutti, e tutte le religioni.Poche frasi ma molto significative: “noi non ci uccideremo”; “noi ci salveremo”; “noi ci perdoneremo”. Una responsabilità religiosa e politica attraverso cui ognuno si impegna a fare la propria parte.

(Shalom, 3 settembre 2021)


Per gli antisionisti, la “Palestina” non si ferma affatto alla ex-Linea Verde

Quando i nemici d'Israele parlano di "Territori palestinesi occupati" non intendono solo striscia di Gaza e Cisgiordania, e non occorre conoscere la lingua araba per capirlo.

Dopo che l’azienda di gelati Ben & Jerry’s ha annunciato il boicottaggio delle vendite nel “Territorio palestinese occupato”, vale la pena dare un’occhiata più da vicino a questo termine.
   Nel 1964, Ahmad el-Shukairy convocò una conferenza durante la quale creò un movimento terroristico chiamato “Organizzazione per la Liberazione della Palestina” (Olp). L’Olp si mise a compiere attentati terroristici contro i civili israeliani per “liberare la Palestina”. A quel tempo, Giudea e Samaria (la “Cisgiordania”) erano occupate dalla Giordania e la striscia di Gaza dall’Egitto. Ma la campagna terroristica dell’Olp non mirava a cacciare la Giordania o l’Egitto da quelle terre illegalmente occupate. Tutto il terrorismo dell’Olp mirava piuttosto a cacciare gli ebrei da Tel Aviv, Haifa, Ra’anana e da altre città, paesi e villaggi dell’Israele pre-1967, e gettarli “nel mare Mediterraneo”....

(israele.net, 3 settembre 2021)


Operativo il nuovo porto di Haifa

GERUSALEMME - Dai Yuming, ministro consigliere dell'ambasciata cinese in Israele, ha invece dichiarato che il nuovo porto di Haifa è un microcosmo della cooperazione reciprocamente vantaggiosa tra Cina e Israele.
   Nel maggio 2015, l'Israel Port Development and Assets Corporation ha sottoscritto a Tel Aviv un accordo con il Sipg per concedere ufficialmente a quest'ultimo i diritti di gestione del nuovo porto di Haifa per 25 anni, a partire dal 2021.
   La costruzione del porto è stata lanciata ufficialmente nel 2018 e la sua pianificazione si distingueva in due fasi. La prima, che è stata completata, consiste in un terminal lungo 805,5 metri sulla lunghezza della linea di riva mentre la seconda fase è caratterizzata da un terminal di 715,7 metri sulla lunghezza della linea di riva.
   Haifa è un polo israeliano del trasporto e dell'industria nonché un hub ferroviario lungo il Mar Mediterraneo mentre il suo porto, oltre a essere il più grande della nazione è anche uno dei più estesi del Mediterraneo orientale.

(ANSA, 2 settembre 2021)


Via dalla radio i conduttori che osano difendere Israele

A "Radio Statale", emittente (non ufficiale) dell'Università di Milano, tolto dal palinsesto il programma in cui venivano criticati alcuni colleghi che accusavano Tel Aviv di «genocidio».

di Daniel Mosseri

Le parole pesano e i giornalisti più ancora degli altri sono tenuti a saperlo. Anche quelli di Radio Statale, un'associazione di radioamatori autogestiti ai quali l'Università Statale di Milano ha concesso l'uso delle proprie apparecchiature radiofoniche. A volte le parole escono male: può succedere. A chi però cerca di far notare che alcuni termini sono stati usati a sproposito si dovrebbe dare ascolto. A Radio Statale invece chi la pensa diversamente viene silurato. È stato Bet Magazine Mosaico, testata della Comunità ebraica di Milano, a fare luce sulla vicenda. Siamo a metà maggio e da dieci giorni sono riprese le ostilità fra Israele e Hamas: è il movimento terroristico di ispirazione islamica a riaprirle il 6 maggio con una salva di missili su Gerusalemme. Nel giro di pochi giorni Hamas esploderà circa 4 mila missili all'indirizzo dello Stato ebraico. Missili che cadono su abitazioni civili, scuole e autobus quando non vengono intercettati dallo scudo antimissile di Israele. Circa un quarto dei missili ricadrà sulle teste degli abitanti della Striscia di Gaza. Le lsraeli Defense Forces risponderanno anche con bombardamenti di strutture ritenute strategiche per Hamas. Alla fine del conflitto si contano 20 morti israeliani e 200 palestinesi.
   La trasmissione Twitch di Radio Statale del 15 maggio osserva che il termine «conflitto» non si può più utilizzare. Tali sono le «atrocità» degli israeliani che più opportunamente bisogna parlare «di genocidio». Usata assieme al termine «sterminio», la parola ha provocato la reazione di Paolo Castellano e Fabio Simonelli, due collaboratori di Radio Statale, responsabili della trasmissione "Eurovisione". Castellano protesta subito col direttore della testata, Marco Cangelli, che si scusa a titolo personale. «Ho poi chiesto la rimozione del video della trasmissione», racconta Castellano a Libero.
   Dopo quattro giorni tutto tace. Così Castellano e Simonelli il 19 maggio durante "Eurovisione" ricordano che in radio non si usano le parole in libertà ma si fa informazione e che i termini sopracitati non solo non corrispondono alla situazione ma rischiano anche di incitare all'odio anti-israeliano e antiebraico, mettendo a repentaglio gli studenti israeliani dell'ateneo e tanti ebrei italiani.
   «Il 20 maggio ricevo una chiamata da un responsabile dei programmi di Radio Statale in cui vengo accusato di aver "infamato" la radio», riprende Castellano, che mantiene la calma e spiega di aver voluto fare chiarezza sui contenuti. Una settimana dopo le parti, pur dissentendo l'una dall'altra, decidono di eliminare dal sito i due contenuti in conflitto. Pace fatta? Manco per niente. «Ad agosto ricevo una telefonata dal direttore e dal responsabile di programma in cui vengo informato che "Eurovisione" è eliminata dal palinsesto di Radio Statale. Sono accusato di aver fatto like a un post di Calenda e di aver canzonato l'inglese di Renzi in una radio che si vorrebbe apartitica», riprende Castellano. Ma soprattutto «di aver criticato dei colleghi dall'interno», reato gravissimo per i sostenitori del pensiero unico antisionista. L'aggravante: lo stop è stato deciso dal consiglio direttivo dell'emittente nel quale, conclude l'epurato, «siedono anche i due speaker del programma Twitch».
   Del caso si è accorto martedì sera il rettore della Statale, Elio Franzini, che in una nota «stigmatizza toni e accenti impropriamente aggressivi ( ... ) ripromettendosi di vagliare attentamente le diverse posizioni coinvolte, assumendo nel caso gli opportuni provvedimenti». Perché «la natura dell'università è anche quella di palestra di idee». Sempre che a Radio Statale siano d'accordo.

Libero, 2 settembre 2021)


Israele, sul tavolo un maxi accordo petrolifero con Emirati Arabi

Un anno fa, precisamente il 15 settembre del 2020, fu siglato a Washington un accordo storico per gli equilibri del Medio Oriente: il riconoscimento dello Stato di Israele da parte di Emirati Arabi Uniti e Bahrein.Oggi che sono state aperte le ambasciate e i voli tra Israele e le monarchie del Golfo, sono partiti anche gli scambi commerciali. Tra questi c'è anche un possibile accordo petrolifero dall"enorme potenziale", ha spiegato il console generale di Israele a Dubai, Ilan Stzulman Starosta, in una intervista alla Afp. Sul tavolo c'è un accordo che prevede la spedizione via mare del petrolio del Golfo fino al porto di Eilat, sul Mar Rosso, nel sud di Israele. Da qui l'oro nero dovrebbe confluire in un oleodotto attraverso Israele fino al porto Mediterraneo di Ashkelon, da dove sarebbe spedito in Europa.
   "Oggi c'è un problema tecnico ambientale. Il progetto è sospeso perché c'è il timore che questo oleodotto, che è molto vecchio, non sia sufficientemente curato per consentire il passaggio del petrolio e che ci sia un rischio di perdite", ha aggiunto."Il ministero dell'Ambiente ha congelato il progetto. Ma dei tecnici sono all'opera per verificare cosa sia necessario per renderlo sicuro. Spero che l'oleodotto possa essere aperto perché sarebbe un ottimo affare per Israele e per gli Emirati".
   La normalizzazione dei rapporti bilaterali ha già permesso numerosi accordi nel settore del turismo, dell'aviazione e della finanza. Gli scambi commerciali fra Tel Aviv e Dubai hanno raggiunto la quota di 500 milioni di dollari in agosto. E secondo il diplomatico israeliano, se la crisi sanitaria globale lo permetterà, potrebbe raggiungere il miliardo di dollari entro un anno."Sono prudente, penso che potremmo raddoppiare il volume di scambi entro un anno, Covid permettendo, perché il potenziale è davvero enorme per entrambi", ha dichiarato.

(Notizie Tiscali, 2 settembre 2021)


Terza dose, tra chi avanza e chi attende

Potrebbe essere necessario un terzo richiamo per il vaccino anti-Covid. Moderna spinge a ottenere il via libera.

La terza dose di vaccino è il grande argomento di discussione in quasi tutto il mondo. Se da un lato in alcuni paesi, Israele su tutti, si stanno già effettuando le inoculazioni, diversi altri paesi stanno valutando come procedere. In Svizzera per il momento non è prevista una terza dose di vaccino, anche se negli scorsi giorni Christian Münz, membro della Task force scientifica Covid-19 della Confederazione aveva ipotizzato che anziani e persone vulnerabili dovrebbero già ricevere una terza dose di vaccino in autunno. In Israele, ha detto l’immunobiologo, “è ormai stato appurato che le reinfezioni nelle persone vaccinate possono diventare abbastanza frequenti”, da qui la necessità del richiamo.

- C’È CHI NON PERDE TEMPO
  Novità potrebbero arrivare a breve anche dall’Unione europea. Se l’Ema o le agenzie sanitarie nazionali ritengono necessaria una terza dose, l’Ue è pronta grazie alle sue grandi capacità produttive. È il messaggio del commissario Ue per il Mercato interno, Thierry Breton. Chi invece non perderà tempo sono Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Proprio nel paese transalpino ieri è stato il giorno zero per la terza dose alle persone vulnerabili. Mentre a breve nel Regno Unito partirà la campagna, ma solo per gli immunodepressi, almeno in un primo momento. Infine, negli Stati Uniti da ieri le persone a rischio possono richiedere la terza inoculazione: sono oltre un milione i vaccini somministrati nelle prime 24 ore. Moderna spinge
   La società Moderna spinge sulla terza dose del vaccino anti Covid-19, per la quale punta a ottenere il via libera. La società ha presentato all’agenzia federale statunitense per la sicurezza dei farmaci i dati iniziali della sperimentazione, che a breve fornirà anche all’Europa. La terza dose “mostra una robusta risposta di anticorpi contro la variante Delta”, afferma Moderna ribadendo il suo impegno a condividere i dati a sua disposizione per sostenere i governi e le autorità a decidere sulle prossime strategie da adottare per le vaccinazioni.

(Ticinonews.ch, 2 settembre 2021)


«La società Moderna spinge sulla terza dose del vaccino anti Covid-19, per la quale punta a ottenere il via libera.» Per quale motivo spinge? Per la salute dei cittadini e il bene dei popoli?


«La nostra testimonianza per non legalizzare l'eutanasia»

Abbiamo sempre preso posizione chiara contro la Chiesa Cattolica come istituzione, ma abbiamo sempre cercato di distinguere tra l’istituzione e le persone. Riportiamo quindi volentieri questa lettera di testimonianza pubblicata sul periodico "Famiglia Cristiana". NsI

«Il 21 maggio 2021 nostra mamma Ignazia, conosciuta da tutti come Enza, è tornata alla casa del Padre. Da 25 anni lottava con l'artrite reumatoide, una malattia autoimmune che non uccide, ma che rende, nel tempo, totalmente dipendenti dagli altri. In questi anni ha provato tutti i tipi di farmaci necessari a "tenere a bada" la sua malattia che fino ad oggi non ha una cura. Negli ultimi quattro anni era costretta su una sedia a rotelle e quando e se camminava lo faceva solo con l'aiuto di un deambulatore, Ma la mamma era comunque una persona alare, che incoraggiava sempre tutti, aveva una parola di conforto, che non raccontava mai le sue sofferenze, tanto che sembrava sempre che stesse bene.
   Nel novembre dello scorso anno per una frattura spontanea del femore ha subito un altro intervento chirurgico. In pochi giorni è sopraggiunta un'embolia. Mamma ha lottato e ha lasciato l'ospedale dove, per ragioni legate alla pandemia, ha trascorso quasi un mese da sola. Tornata a casa il decorso ci ha riservato una brutta notizia: mamma non avrebbe più potuto lasciare il letto. Ci siamo tutti armati di ulteriore buona volontà e spirito di dedizione, cose che non ci sono mai mancate.
   Ma mamma non ha sorriso più. Non si sentiva a casa nella sua stanza, benché l'avessimo dotata di tutti i comfort e non mancava mai chi le tenesse compagnia. «La mia casa è», diceva, «dove ero abituata a stare prima, attorno al tavolo, vicino alla cucina». Mamma cominciava ad arrendersi. Noi due, tra permessi e congedi, abbiamo messo da parte il lavoro per diventare infermiere e operatrici sanitarie e nostro padre era giorno e notte sempre al suo capezzale.
   Poi l'embolia ha di nuovo preso il sopravvento. In tutto 15 giorni di agonia, senza sapere se lei sentisse le nostre voci. Un «buonanotte» sussurrato sono state le ultime parole che le abbiamo sentito dire. Pregavamo, come abbiamo sempre fatto nella nostra vita, come lei ci aveva insegnato fin da bambine. Pregavamo che il Signore della Vita, il Dio onnipotente che ha pietà dei miseri e ascolta le preghiere dei suoi figli, potesse ancora dire: «Alzati e cammina!». Ma ci chiedevamo anche il perché di tanta sofferenza, specie per una persona che già aveva sperimentato i patimenti di una lunga malattia. Poi abbiamo pregato perché il Signore compisse il suo disegno su nostra mamma.
   Davanti alla sofferenza ci si sente sempre smarriti. E l'impotenza davanti al dolore è straziante. Non c'è dolore più grande che dover vedere soffrire e declinare .giorno dopo giorno, la persona che più si ama e non poter fare nulla per aiutarla. E’ di gran lunga peggio che provare dolore in prima persona. Se sei tu che stai male, puoi arrivare a fartene una ragione. Ma se sei costretto ad assistere al progressivo spegnersi di chi ti è caro, ti torturi inevitabilmente. Faresti qualunque cosa per aiutare chi ami. Toccare con mano la sofferenza vera, la malattia, la fragilità umana ti segna per sempre. Noi lo abbiamo fatto per 25 anni! E continuiamo con nostro padre, anziano, malato di tumore e distrutto dalla morte di nostra madre. Se la legge ce lo avesse consentito, avremmo autorizzato l'eutanasia per nostra mamma? No!! Lo diciamo con forza. Con la forza della fede nel Dio della Vita e con quella della fede nell'uomo creato a immagine e somiglianza di Dio. Oggi, invece, ci si vuole convincere che l'eutanasia è un segno di civiltà. Ma uccidere un essere umano lo è davvero? Perché questa è l'eutanasia, la legalizzazione di un omicidio. L'omicidio di un consenziente che ha deciso che la sua vita non vale la pena di essere vissuta con dignità.
   Ma cosa è una vita che vale la pena di essere vissuta? La vita fatta di benessere, di obiettivi raggiunti, di ricchezza ... Una vita in cui non c'è posto per la sofferenza. Abbiamo paura della debolezza e della fragilità perché il modello consumistico ci ha insegnato a essere belli e vincenti. Perciò tutto ciò che non rientra in questi standard va eliminato. Gli anziani, non più produttivi, i malati, persino i bambini che la diagnosi prenatale annuncia essere portatori di un handicap. E per quest'ultimo caso l'uomo che si crede onnipotente e padrone del mondo fa ricorso all'eugenetica.
   Eutanasia ed eugenetica vanno a braccetto. Non ci inganni il prefisso eu- che rimanda alla dolcezza e alla bellezza. Non c'è nulla di bello in un uomo che elimina un altro uomo, in una coppia di genitori che seleziona le caratteristiche genetiche migliori per il proprio bambino. Per quanto si vogliano controllare, la vita e la morte non ci appartengono. Non sono un prodotto che si può comprare, che possiamo scegliere e regolare a nostro piacimento.
   Con tutto il rispetto per chi vive il dolore in prima persona, ci sentiamo di dire la nostra contro il progetto di legalizzare l'eutanasia nel nostro Paese. Non parliamo per sentito dire. Noi abbiamo visto la sofferenza. E testimoniamo con forza che toccare con mano la sofferenza vera, la malattia, la fragilità umana è abbracciare il Cristo martoriato. Il Cristo che si è fatto obbediente accettando i limiti della condizione umana. Oggi ci chiediamo dov'è Dio: è in ogni fratello e sorella sofferente, ci porge le mani scarne e tremanti perché gliele stringiamo, ci mostra le piaghe affinché le medichiamo, si scioglie in lacrime perché noi possiamo asciugarle. Questa è la vita.
   E in questa vita, anche sopraffatta dal dolore, c'è la dignità dell'essere umano. Gesù Cristo è venuto al mondo come uomo per mostrarci cosa significa essere uomini. È nato piccolo e fragile come tutti bambini in ogni parte del mondo e in ogni tempo. Ed è morto soffrendo per mezzo del peggiore dei supplizi della sua epoca storica. Ma quella croce ha dato dignità alla sofferenza. l legni che la componevano sono essi stessi segni del sacrificio di Cristo. Il legno verticale ha unito l'uomo al cielo, a Dio; il legno orizzontale ha abbracciato il mondo perché tutti ci riscoprissimo fratelli. Gesù ha reso nobile la sofferenza. Questo dovremmo testimoniare, noi cristiani prima di tutto. E condannare tutto ciò che rende vano il sacrificio di Cristo: l'aborto, l'eutanasia e la guerra.»

Rosalba e Martina Giacalone

(Famiglia Cristiana, 2 settembre 2021))


Certamente si può dire molto di più sulla persona di Gesù, sul valore della sua morte per l'espiazione dei peccati e della sua risurrezione per la vittoria sulla morte e la rinascita del peccatore a nuova vita, ma il fatto importante, e che ritengo esemplare, è che per motivare la loro concreta opposizione a una possibile legge dello Stato, le due sorelle abbiano mostrato quello che hanno fatto e si siano riferite esclusivamente alla persona di Gesù Cristo. Tutti noi che ci diciamo cristiani abbiamo qualcosa da imparare. M.C.


Israele riapre al turismo organizzato

di Annarosa Toso

In attesa di Rosh Hashanà, il capodanno ebraico che si terrà nei giorni 7 e 8 settembre e che precede di una settimana il Kippur, l’ente del turismo di Israele si è presentato a Roma esponendo i prossimi progetti, non solo per incrementare il turismo nei luoghi noti come Gerusalemme, il mar Morto o Masada ma puntando sul deserto del Negev, raggiungibile facilmente da Eilat.

VACCINAZIONI: SIAMO ALLA TERZA DOSE
  Kalanit Goren Perry, responsabile dell’ufficio nazionale israeliano del turismo, ha evidenziato che nel maggio scorso, quando i contagi del Covid sembravano esauriti, il Paese aveva riaperto al turismo, ma solo ai gruppi di persone vaccinate. Successivamente sono stati bloccati gli ingressi per turismo, ma alla luce della terza dose di vaccino inoculata al 30% della popolazione e dei buoni risultati ottenuti, dalla fine di settembre si potrà tornare in Israele, ma unicamente con il turismo organizzato.

IL RUOLO DELL’ITALIA
  “Il turismo italiano è importantissimo per Israele – ha sottolineato la manager – . Sarà un passaggio graduale non solo per l’Italia ma per tutto il mondo, perché noi vogliamo garantire la massima sicurezza non solo per i turisti, ma per la popolazione. Nei nostri progetti c’è quello di ampliare la nostra offerta puntando sul deserto del Negev, che dista una trentina di km da Eilat. Desideriamo ampliare i collegamenti proprio sull’aeroporto di Ramon, invitando le compagnie aeree ad investire sui voli con il nostro supporto. E’ pronta una direttiva governativa che partirà a breve con i dettagli e gli incentivi per le compagnie aeree per promuovere e operare voli su Eilat. Mentre su Tel Aviv praticamente da tutta Italia ci sono collegamenti operati da compagnie aeree di linea, quali El Al e Alitalia e low cost come Ryanair, Wizzair e easyJet. Riteniamo giusto che gli italiani conoscano quella zona di Israele e che abbiano la possibilità di voli diretti. Un altro modo di viaggiare e scoprire le molteplici offerte del nostro Pese”.

LA SITUAZIONE DELLE APERTURE
  Kalant Goren Perry ha reso noto che al Timna Park, all’interno del deserto del Negev, a marzo 2022 si terrà “il concerto della pace”, al quale parteciperanno diversi paesi arabi tra cui il Marocco. “E’ un evento al quale teniamo molto in una location straordinaria come quella del deserto. Attualmente in Israele è tutto aperto, non solo hotel e ristoranti, ma anche musei, teatri, concerti. Tutti i divertimenti e le attrazioni possibili sono fruibili, sempre per persone vaccinate. Le scuole hanno riaperto il primo settembre e ci stiamo avviando verso la normalità. Invitiamo – ha concluso la rappresentante di Israele – a conoscere, in sicurezza, le altre zone del nostro Paese”.

(Guida Viaggi, 2 settembre 2021)


Tribunale libanese condanna medico che aiuta palestinesi assieme a Israele ed ebrei

di David Spagnoletto

Un medico coopera con una specifica comunità per consentire a una popolazione in difficoltà di potersi curare in ospedali all’estero.
   Se vivessimo in un mondo normale, il medico sarebbe ringraziato ed elogiato per l’ottimo lavoro svolto. Stesso discorso per la specifica comunità, che riceverebbe plausi per il proprio operato.
   La premessa, però, è quella di vivere in un mondo normale. Perché quando di mezzo ci sono Israele e il popolo ebraico, all’improvviso ciò che era giusto diventa sbagliato, ciò che era elogiabile diventa detestabile.
   Una morsa antisemita da cui gran parte del mondo arabo non riesce a uscire, perché lo Stato ebraico e il suo popolo non possono essere associati a nulla di buono. E allora occorre distruggere, cambiare i propri giudizi e paradigmi. Israele e gli ebrei devono essere radicati nel male e lì devono rimanere.
   In questo schema è rientrato anche il medico libanese Jamal Rifi, che vive in Australia, dove coopera con la comunità ebraica di Sydney al fine di organizzare e promuovere un programma di beneficenza che organizza cure per i palestinesi negli ospedali israeliani.
   Medico che è stato condannato a dieci anni in contumacia per il crimine di “normalizzazione con Israele” da un tribunale libanese. Rifi ha così commentato al programma PM della ABC l’incredibile vicenda che l’ha visto protagonista: “Sono stato informato da mio fratello che un giornalista vicino a Hezbollah in Libano ha annunciato che il tribunale militare libanese mi ha condannato a 10 anni di reclusione per essere un collaboratore e un traditore del nemico”.
   Il nemico, ovviamente, è Israele, a cui non basta curare i bambini di Gaza nei propri ospedali per scrollarsi di dosso l’etichetta di diavolo.
   Perché elogiare il Progetto Rozana, che forma operatori sanitari palestinesi e aiuta a trasferire bambini malati da Gaza e altre aree palestinesi negli ospedali israeliani, evidenzierebbe l’umanità dello Stato d’Israele, facendo cadere in un sol colpo quel castello di carta che regge la propaganda araba e palestinese.
   Perché il Progetto Rozana, che ha fornito ventilatori al sistema sanitario palestinese durante la pandemia covid-19, non ha valenza positiva se c’è Israele.
   Perché l’importante non è aiutare chi ha bisogno, ma attaccare tutto ciò che c’è di israeliano e di ebraico sparso per il mondo.

(Progetto Dreyfus, 31 agosto 2021)


Israele torna a scuola: terza dose a over12, esercito per test su bambini

Due test rapidi a settimana ai prof senza green pass, vaccinazioni a scuola, massimo sforzo sul tracing. Banco di prova per il Governo Bennett

di Alfredo De Girolamo

Israele nella lotta al Covid-19 anticipa tutti, imboccando la strada della terza dose da 12 anni in su. Tema controverso quello del richiamo che ha ricevuto non poche critiche, sia di natura etica che scientifica, da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. L’agenzia delle Nazioni Unite sostiene che tale scelta è prematura, soprattutto quando in intere aree del pianeta la somministrazione dei vaccini procede con ritardi e lentezza. Il piccolo stato del Medioriente ha preso questa decisione in seguito al diffondersi della variante delta, che continua a far registrare statistiche allarmanti.
  Se lo scorso maggio gli studi davano al vaccino Pfizer-BioNTech, distribuito grazie a un accordo di esclusività tra l’ex premier Netanyahu e i vertici della colosso farmaceutico newyorchese, un’efficacia del 95% nella prevenzione delle infezioni sintomatiche, già all’inizio di luglio la percentuale di protezione è crollata drasticamente, fissando la stima di copertura intorno al 64%. Secondo alcuni studi con la terza dose l’asticella risalirebbe al 97%. Il neofita primo ministro Bennett, solcando i passi del suo predecessore, nell’evitare di finire nuovamente impantanato nella pandemia ha optato per affidarsi alle misure restrittive e soprattutto al vaccino.
  Nemmeno a qualche mese dal successo internazionale della campagna vaccinale di Netanyahu, che pensava potesse tramutarsi in una passeggiata verso la vittoria elettorale. A marzo, invece, vuoi il sistema proporzionale puro o l’effetto del cambio di inquilino alla Casa Bianca, vuoi la voglia di riscatto di una pletora di avversari intenzionati a rivoluzionare la leadership della destra, re Bibi ha dovuto alzare bandiera bianca. E cedere la poltrona a un suo ex allievo. L’ascesa del nazionalista Naftali Bennett, vissuta dal centrosinistra come una manna benedetta, è comunque appesa a un filo, molto sottile.
  L’imminente banco di prova è la concatenazione tra apertura delle scuole e un mese di cadenzate festività religiose (capodanno ebraico di Rosh Hashanà, Yom Kippur e infine Sukkot). Il 1 settembre 2021 è il fatidico momento in cui i cancelli si apriranno e gli alunni torneranno in classe. Per i giovani che frequentano le superiori è previsto di sospendere la lezione in presenza e passare alla didattica in remoto nel caso in cui la località dell’istituto venga inserita in zona rossa. Allora, se la classe ha una percentuale inferiore al 70% dei vaccinati scatta automaticamente la didattica a distanza.
  Apparentemente complessa è stata la questione del personale scolastico non vaccinato, tra il 10 e il 15%. Materia su cui Governo, Ministero dell’Istruzione e rappresentanti dei sindacati avevano opinioni divergenti, alla fine il primo ministro ha approvato l’obbligo di due test rapidi a settimana per gli insegnanti non in possesso di Green Pass. Mentre, i presidi più restii hanno dovuto accettare che, previa autorizzazione dei genitori, ci si potrà vaccinare anche a scuola, durante l’orario di lezione. Nel tentativo di mettere in sicurezza le scuole per i più piccoli, è stato schierato l’esercito, con la funzione di mappare il livello immunitario di 1,4 milioni di bambini con età compresa tra i 3 e i 12 anni, a cui estendere il Green Pass.
  Le analisi del titolo anticorpale svolte tramite il prelievo di sangue dal dito, esito in 15 minuti, sono una metodologia clinica dalla precisione ritenuta affidabile. In questo modo si cerca di conoscere la diffusione del virus in quella fetta di popolazione al momento esclusa dalla cura vaccinale. All’interno della quale però ci potrebbe essere una diffusa presenza di infetti asintomatici e non diagnosticati (nell’indagine pilota il 17% dei recentemente testati, in gran parte appartenenti alla comunità religiosa degli ortodossi, è risultata positiva).
  Indicazioni utili che permetterebbero alle autorità israeliane di garantire la ripresa della “normale” quotidianità, evitando ai più piccoli l’isolamento. E alle famiglie di stravolgere gli orari di lavoro. Piano ambizioso con qualche inconveniente di troppo. Per gli scettici si tratta di una risposta caotica e insufficiente a evitare il deragliamento. La credibilità di Bennett è in gioco, un errore di troppo potrebbe venirgli non perdonato.

(L'HuffPost, 1 settembre 2021)


Israele amplia la zona di pesca riservata ai palestinesi

Israele ha annunciato l’estensione di 15 miglia nautiche la zona di pesca riservata ai residenti nella Striscia di Gaza e l’ingresso nel Paese di 5000 lavoratori provenienti dall’enclave palestinese.

di Luigi Pasquariello

Dopo che il Premier israeliano Naftali Bennett, all’indomani dell’incontro tra il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), Mahmoud Abbas, e il Ministro israeliano della Difesa, Benny Gantz, ha escluso una  ripresa dei negoziati di pace nell’immediato, un’inattesa decisione dello Stato ebraico potrebbe contribuire ad alleggerire la tensione e, perché no, a  gettare le basi per riportare al tavolo dei negoziati i due storici contendenti.
   Israele, infatti,  ha annunciato l‘estensione di 15 miglia nautiche della zona di pesca riservata agli abitanti della Striscia di Gaza e l’ingresso nel Paese di altri cinquemila lavoratori provenienti dall’enclave. ”Queste azioni sono state approvate al livello politico e dipendono dalla volontà di conservare stabilità e sicurezza per un lungo periodo. Una loro estensione sarà presa in considerazione dopo una valutazione della situazione”,  si legge nella nota diramata dal Cogat, Coordinamento delle attività del governo israeliano nei Territori palestinesi.

(MeteoWeek.com, 1 settembre 2021)


Israele, che non è un'isola, con il Covid lo è diventato

Tel Aviv - Milano, andata e ritorno tra due ondate

di Manuela Dviri

Tel Aviv - Milano - Tel Aviv - Un tempo, un volo diretto di più o meno quattro ore. Nulla di più semplice. Non più. In questi mesi ho preso l'aereo per l'Italia due volte. Una volta a giugno e una seconda in agosto. Ed è stata una grande lezione in burocrazia Covid. Il viaggio prevedeva un tampone molecolare negativo eseguito in Israele entro le 72 ore precedenti il volo. Non era chiaro che fosse necessario, ma giravano voci che la compagnia lo potesse richiedere. E comunque ho deciso di farlo anche per essere certa di star bene. Poi c'era da riempire un modulo europeo digitale che chiede informazioni sul mezzo di trasporto e il viaggio, sul contatto normale e di emergenza, l'indirizzo permanente e quello temporaneo, non facilissimo da compilare, ma si impara. E ci voleva anche il certificato di vaccinazione israeliano (riconosciuto in Italia) e il modulo israeliano del ministero della Salute, simile a quello europeo, solo più semplice e amichevole, da inviare esattamente 24 ore prima della partenza. Non un minuto prima.
   E finalmente sei in aeroporto. La sensazione, in Italia e in Israele, è ben strana. Sono semi vuoti, i duty free aperti ma sonnolenti, le hostess di terra imbarazzate dal loro nuovo ruolo di burocrati tra mille regole, diverse per ogni Paese. I passeggeri, abbastanza pochi, alieni con mascherina chirurgica. Per il ritorno in Israele, poi, si ricomincia daccapo: viene chiesto un nuovo tampone molecolare, con numero di passaporto e in inglese, esattamente entro le 72 ore precedenti il volo. Non è facilissimo trovare l'ambulatorio e ricevere il referto, costoso tra l'altro, in tempo. Anche perché in Italia in agosto molti ambulatori sono chiusi per ferie o non fanno referti in inglese. Finisco la saga con l'atterraggio a Tel Aviv: due minuti per un altro tampone molecolare, durante la notte arriva il risultato. Negativo. Questa volta, in agosto, anche 10 giorni di quarantena che posso accorciare a una settimana con l'ennesimo tampone molecolare. Ma da domenica sera sono cambiate di nuovo le regole e per chi ha già fatto il terzo richiamo del vaccino o il secondo vaccino meno di sei mesi fa, qui non è più obbligatorio rispettare la quarantena.
   Complicato? La situazione, ovunque nel mondo, cambia di giorno in giorno, di ora in ora. Come il Covid-19. Bisogna adattarsi.
   Quando in Italia mi chiedevano, in giugno, come fosse la situazione in Israele, rispondevo guardando i numeri dei nuovi malati al giorno e dei vaccinati (a maggio erano morti in Israele solo sette malati, il più basso numero dall'inizio della pandemia con un record di solo 200 nuovi malati al giorno), che la crisi sembrava ormai passata. Quando me lo hanno chiesto in agosto, ho risposto invece che siamo in piena quarta ondata. Solo in questi giorni, anzi ore, grazie al terzo vaccino per tutti, dai 12 anni in su, stanno finalmente scendendo in Israele i numeri dei malati gravi, ma ieri il numero di nuovi contagi ha toccato il record di 10.947, uno su tre sotto i 12 anni.
   Rimane proibito l'ingresso nel territorio agli stranieri, tranne che per ragioni di ricongiungimento familiare, mentre dall'annuncio dell'abolizione della quarantena per i vaccinati tre volte, le prenotazioni di voli sono aumentate del 300%. Gli israeliani adorano viaggiare. Si sentono un po' isolati. Israele non è un'isola, ma è come se lo fosse, avendo il Libano a nord, le alture del Golan e la Siria a nord-est, la Cisgiordania e la Giordania a est, la Striscia di Gaza e l'Egitto a sud-ovest.
   È un Paese piccolo, grande come la Lombardia, con circa nove milioni di abitanti. Come la Lombardia, ma i lombardi possono uscire dalla Lombardia in mille modi. Da Israele è un po' più complicato.

(il Fatto Quotidiano, 1 settembre 2021)


«Io, ebreo, nella Lega. Comunità amica di Matteo» 

L'esponente politico si confessa a Libero: «Non voglio polemiche e rancori. Si vince se restiamo uniti» 

di Fabio Rubini 

In questi casi di solito si dicono frasi tipo «la notizia era nell'aria da un po'». Non questa volta, visto che fino a pochi giorni fa Filippo Jarach, storico esponente di Forza Italia e della Comunità ebraica milanese, era in lizza per la ricandidatura a presidente del Municipio Uno in quota azzurra. La politica, però, va veloce e allora ecco il suo passaggio a sorpresa nella Lega «dell'amico Matteo Salvini». 

- Jarach, qualcuno dirà che il suo cambio di casacca riguarda la mancata candidatura alla presidenza del suo Municipio. Insomma, un affare di poltrone ... 
  «Nessuno potrà dire una cosa del genere. lo non ho mai chiesto nulla a nessuno. Credevo in passaggi naturali che invece non ci sono stati. Amen. lo sono un liberale, rispetto le idee di tutti, ma voglio che gli altri rispettino le mie». 

- Perché lascia Forza Italia per la Lega? 
  «Lascio gli azzurri nonostante io debba tanto al partito e a Silvio Berlusconi in particolare, ma oggi mi sento più vicino all'ìmpostazione della politica data da Matteo Salvini». 

- È stato un addio senza rancore? 
  «Da parte mia sicuramente sì. Non voglio litigare con nessuno. E poi io sono convinto che il centrodestra vince se è unito, quindi alla fine saremo sempre tutti insieme». 

- Come definirebbe la sua nuova avventura con il Carroccio? 
  «Una bella scommessa che posso vincere».

Scommessa che riparte dalla candidatura a consigliere del Municipio Uno?
  Sì, ho voluto ripartire da zero, avendo bene in mente un progetto preciso per il futuro. Per il quale ringrazio Salvini e Stefano Bolognini. Del resto il mio slogan elettorale è "Lavoriamo oggi per la Milano di domani". Dobbiamo far tornare la politica al centro, per dare ai milanesi una città più sostenibile e sicura. In questi anni tanti che vivevano qui sono andati via perché Milano non dava loro le garanzie che cercavano. Dobbiamo invertire la tendenza». 

- Lei è un esponente della Comunità ebraica milanese ... 
  «E credo anche il primo ebreo a candidami a Milano con la Lega». 

- Ecco, era giusto quella la domanda. La Lega è spesso finita nel mirino della sinistra per una presunta vicinanza con la destra estrema. Non ha paura che la Comunità ebraica possa non capire la sua scelta? 
  «No, è esattamente il contrario. Quando ho deciso di fare il salto, mi sono consultato con quella parte di Comunità che guarda al centrodestra, per capire come l'avrebbe presa». 

- E come è andata? 
  «Bene. Matteo Salvini è un leader politico che nelle diatribe internazionali si è sempre schierato al fianco di Israele. Quindi Salvini e la Lega sono amici della Comunità ebraica, che mi ha garantito totale appoggio in questa nuova avventura», 

Libero, 1 settembre 2021)


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