Israele alle prese con la ''pandemia Delta'', torna la quarantena
Con oltre 6mila nuovi casi al giorno e un tasso al 5% ora si teme l'avvio dell'anno scolastico e il ritorno di decine di migliaia di israeliani all’estero.
L'illusione di un ritorno alla normalità, grazie alla vaccinazione di massa, è svanita e Israele è alle prese con quella che il suo premier definisce la "pandemia Delta" ed un nuovo incubo contagi. Con i nuovi casi che corrono ad un ritmo di 6 mila al giorno ed un tasso di positività che sfiora il 5% mentre sale il numero dei malati gravi. Nel Paese che ha rappresentato un esempio virtuoso nella gestione dell'emergenza Covid, pesano anche i tanti (circa un milione di persone) che non hanno risposto all'appello a immunizzarsi mentre è già partita la campagna con il booster, la terza dose di richiamo per gli aver 60 e i fragili.
«La situazione è allarmante, siamo ad un punto critico» ha avvertito il coordinatore della lotta alla pandemia mentre il primo ministro Naftali Bennett ha sottolineato come lo Stato ebraico sia «impegnato in una campagna contro la pandemia Delta, che ha investito il mondo intero: gli apparati di difesa sono in prima linea in questa campagna, assieme con tutto il personale medico», ha aggiunto Bennett, parlando da una "task-force" creata nel comando delle retrovie. E tornano le strette: da oggi per chi atterra a Tel Aviv da una trentina di Paesi (fra cui l'Italia) torna obbligatoria la quarantena, anche se si è vaccinati o guariti dal Covid. È inoltre vietato agli israeliani, se non in casi eccezionali, di recarsi in una dozzina di Paesi fra cui Gran Bretagna, Spagna, Turchia e Cipro.
Ormai non c'è tempo da perdere perché il numero dei malati gravi è salito a quasi 400. Di questi 88 versano in condizioni critiche e di loro 63 sono in rianimazione. Per il sistema sanitario, la "linea rossa" è rappresentata da 1.000 malati gravi. Un traguardo che, secondo il professor Eran Segal dell'Istituto Weizman di Rehovot, rischia di essere raggiunto entro la fine di settembre. Mentre la casse mutue hanno avuto istruzione a tenersi pronte per organizzare ricoveri domiciliari per mille malati medio-gravi, l'apprensione fra i responsabili sanitari cresce per una concomitanza di circostanze. Fra tutte la prossima apertura delle scuole il primo settembre, il ritorno di decine di migliaia di israeliani all'estero per le vacanze e diverse ricorrenze religiose ebraiche in calendario il mese prossimo che prevedono preghiere in sinagoghe affollate e riunioni familiari.
Da alcuni giorni è in vigore un Green pass rafforzato: ma ormai è evidente che non basta più. Il problema centrale, ribadiscono le autorità, è rappresentato da oltre un milione di israeliani che pur potendosi vaccinare finora resistono a tutti gli appelli. A dare l'esempio sono invece gli Over 60 che hanno accolto in massa l'appello ad assumere la terza dose di Pfìzer, avendo ricevuto la seconda oltre cinque mesi fa. In otto giorni la loro vaccinazioni sono state 600 mila, e l'obiettivo è di raggiungere a giorni la cifra di 900 mila. La terza dose, secondo gli esperti locali, protegge da forme gravi di malattia e in prospettiva sarà estesa anche agli Over 50 e agli Over 40. I malati attivi sono decine di migliaia e potrebbero nelle prossime settimane crescere fino a centinaia di migliaia.
(Avvenire, 11 agosto 2021)
Conclusione: se i contagi diminuiscono il merito è della vaccinazione già fatta; se invece crescono la colpa è di quelli che non si sono ancora fatti vaccinare. Dunque, se i contagi rimarranno alti anche dopo il 90 percento di vaccinati, bisognerà dare la caccia a quel 10 percento che si sono rifiutati di farlo e costringerli con le buone o con le cattive a vaccinarsi. E costringere quelli che hanno fatto solo la prima dose a fare anche la seconda; e dopo la seconda anche la terza; rimanendo aperta la possibilità di arrivare alla quarta se necessario. Lo richiede il «bene dell'umanità». Qualcuno potrebbe chiedersi: e se fosse proprio la vaccinazione a far aumentare i contagi? Forse soltanto per qualche errore di manovra. E' "scientifico" escludere questa possibilità? Non è stato affatto escluso che sia stato proprio un errore di manovra degli scienziati cinesi di Wuhan a produrre quella straordinaria specie di virus che oggi affligge l'umanità. E siamo sicuri che altri errori non potrebbero ripetersi? Dovremmo fidarci ciecamente non solo di chi studia il vaccino, ma anche di chi lo produce e di chi lo commercia e di chi compie le inoculazioni per sentirci "messi in sicurezza" dalle autorità politiche? Chi spera di sentirsi in sicurezza in questo modo vivrà ogni giorno nell'ansia. M.C.
Israele, strategie per combattere il cambiamento climatico
A seguito dei moniti lanciati nel sesto rapporto, appena pubblicato, dal Comitato intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), l’ente delle Nazioni Unite che studia il riscaldamento del pianeta, Israele ha risposto sottolineando l’importanza di agire a tutti i livelli e delineando i piani da attuare contro l’emergenza climatica, come riferito dal sito Arutz Sheva.
“Il rapporto è un campanello d'allarme – riporta la nota del ministero degli Esteri - Richiede un'azione internazionale congiunta e la condivisione di conoscenze ed esperienze, volte a prevenire gli scenari estremi in esso descritti”.
Il Ministero degli Esteri e i funzionari israeliani sostengono la figura strategica dell’”Inviato speciale del clima”, che partecipi agli eventi internazionali sul cambiamento climatico, come la Giornata della Terra, in cui decine di delegati israeliani in tutto il mondo organizzano eventi per sensibilizzare sull’argomento e sull’attuale tecnologia israeliana”.
Il rapporto dell’Ipcc ribadisce che tutti i cambiamenti che stanno avvenendo nell’ambiente sono provocati dall’attività umana.
Il direttore generale del ministero, Alon Ushpiz, ha affermato che lo Stato ebraico è in una posizione unica per aiutare il resto della comunità internazionale a gestire questa emergenza.
"Israele, che ha affrontato difficoltà legate al clima fin dalla sua istituzione, ha una vasta conoscenza ed esperienza nei campi dell'innovazione legata al clima e può aiutare i paesi di tutto il mondo nei settori della tecnologia idrica e della desalinizzazione dell'acqua di mare, nell’agricoltura contro la siccità e il cambiamento climatico, nell’energia rinnovabile e nello stoccaggio di energia, nello sviluppo di sostituti delle proteine animali, nella riforestazione, per affrontare le prossime sfide del cambiamento climatico".
(Shalom, 10 agosto 2021)
Il capo della Cia in Israele. Per decidere la rappresaglia contro l’Iran?
Il capo della Cia, Bill Burns, è oggi, martedì 10 agosto, in Israele per incontri che dovrebbero riguardare l’Iran. La visita doveva essere discreta, ma il giornalista di Axios Barak Ravid ha ricevuto un’imbeccata su incontri e obiettivi, e dunque è possibile che ci sia l’intenzione di far trapelare una certa attività focalizzata su Teheran. Il viaggio, il primo da quando Burns è stato nominato, prevede due tappe: la prima al Mossad, con il capo dell’intelligence esterna israeliana David Barnea, la seconda dal primo ministro Naftali Bennett – conferma tra l’altro di come in Israele, paese fatto dagli apparati, molta della politica estera sia condotta con interlocuzioni da e con le leadership degli apparati di sicurezza. La tempistica: Burns arriva a Gerusalemme mentre le tensioni tra Israele e Iran si sono alzate a seguito dell’attacco drone al tanker “Mercer Street”, collegato a una società controllata dal magnate ebreo israeliano Eyal Ofer. Ci sono stati due morti, circostanza che ha reso l’evento singolare all’interno di una costante guerra ombra condotta tra i due paesi – guerra di cui gli Stati Uniti sono stati più volte parte attiva al fianco israeliano. Washington e Gerusalemme, con Londra e Bucarest (le vittime erano un inglese e un romeno), hanno promesso una rappresaglia congiunta contro l’Iran, ritenuto responsabile dell’azione condotta una settimana fa. Responsabilità addossatagli anche grazie alla condivisione di informazioni da parte di Israele. Ora il punto sta in che genere di rappresaglia aspettarsi, perché a questo punto è praticamente impossibile dal punto di vista narrativo tornare indietro. Una volta annunciata in modo pubblico come è stato fatto, una ritorsione si esegue: pena sembrare deboli. Come? Difficile anticiparlo visto il livello di riservatezza elevatissimo sui piani, sebbene è possibile pensare a uno schiaffo cyber, ossia un’azione molto simbolica che possa colpire la Repubblica islamica ma non gli iraniani, per esempio sul programma atomico. Possibile anche si possa trattare di una retaliation che coinvolga asset esterni come le milizie sciite addestrate e guidata dai Pasdaran. Nei giorni scorsi, uomini dello Special Boat Services sarebbero arrivati in Yemen per condurre indagini: l’informazione sullo spostamento degli incursori della marina di Sua Maestà è uscita su alcuni media inglesi senza conferme, chiaramente, ma come forma di messaggio a Teheran. Un ufficiale del Pentagono ha detto a Newsweek che l’attacco potrebbe essere stato condotto dallo Yemen, dove in effetti i nordisti Houthi hanno più volte usato droni Shahed-136 di fabbricazione iraniana per colpire i loro obiettivi. Gli americani hanno ritrovato rottami di quei droni sul ponte del Mercer Street. Secondo l’iraniana Nour News, un sottomarino Classe Dolphin israeliano ha attraversato Suez il 4 agosto. I sottomarini possono avere deck appositi per ospitare le forze speciali e fare da base mobile per le loro missioni. Nour News ha anche elencato tutti i presunti sabotaggi subiti da navi iraniane tra Mar Rosso e Mediterraneo negli anni 2019, 2020 e 2021. La rete è collegata al Supremo consiglio di sicurezza nazionale e dunque non scevra dalla propaganda. Val la pena anche ricordare che l’uccisione del generale Qassem Soleimani, capo dell’unità di élite dei Pasdaran e ideatore del network di milizie con cui l’Iran cerca influenza nella regione mediorientale, avvenne sotto coordinamento Usa-Israele. Il Mossad fornì intelligence alla Cia quando il 3 gennaio 2020 i missili Hellfire di un drone americano centrò, lungo la strada che costeggia l’aeroporto di Baghdad, due auto in cui viaggiavano Soleimani e il capo delle milizie irachene riunite. Allo stesso modo, quando il fisico nucleare Moseh Fakhrizadeh fu ucciso qualche dozzina di chilometri fuori Teheran mentre andava a trovare il fratello fuori città, con moglie e scorta, la Cia condivise informazioni con il Mossad che il 27 novembre 2020 attivò la squadra killer. Anche l’Iraq potrebbe essere di nuovo un terreno di sfogo della ritorsione. Oppure la Siria. Sempre oggi, il Consigliere per la sicurezza israeliano uscente Meir Ben Shabbat ha accompagnato l’entrante Eyal Hulta a Mosca per incontri con funzionari russi guidati da Nikolai Patrushev, capo del Consiglio di sicurezza nazionale del Cremlino. Al di là dei convenevoli, anche questo potrebbe essere un meeting che anticipa qualche azione. Israele è dal 2013 che bombarda costantemente in Siria i traffici di armi tra Pasdaran e gruppi sciiti collegati, su tutti Hezbollah; la Russia controlla i cieli siriani e chiude più di un occhio al passaggio dei caccia con lo Scudo di David. Certi contatti tra leadership delle intelligence sono passaggi cruciali per lo sviluppo delle relazioni e delle attività. Burns, che oggi ha avuto incontri anche con l’Autorità Palestinese, ha già condotto le attività di backchannel con Israele quando nel 2013 si stava costruendo il Jcpoa. Con lui, a condurre i rapporti col principale alleato americano in Medio Oriente, c’era l’attuale Consigliere per la sicurezza nazionale di Joe Biden, Jake Sullivan. I due avevano un ruolo molto importante, perché i rispettivi leader, Barack Obama e Benjamin Netanyahu, non si parlavano, e gli Stati Uniti avevano tutto l’interesse di costruire un accordo sul nucleare con l’Iran, mentre Israele aveva come obiettivo impedirlo. Situazione simile adesso, con l’amministrazione Biden che cerca in modo complicato, e senza fretta, di ricostruire l’accordo messo alle corde dalla decisione di uscita unilaterale di Donald Trump. Su questo dossier, Israele vuole dire la sua e sta da tempo cercando di filtrare le scelte americane. Tanto più adesso, che a Teheran si è insediato un presidente, Ebrahim Raisi, che promette di attestarsi su una visione, che seppur pragmatica allinea tutto il policentrismo iraniano sull’asse del conservatorismo – opposto alle apertura delle due presidenze Rouhani precedenti.
(Formiche.net, 10 agosto 2021)
Grave terremoto colpì Gerusalemme 2800 anni fa, le prove nei resti archeologici
Un forte terremoto è avvenuto all’incirca 2800 anni nel territorio dell’odierno Israele, un terremoto che colpì anche Gerusalemme, secondo alcune indagini archeologiche condotte da una squadra di ricercatori dell’Autorità per le antichità israeliane. I primi risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla pagina Facebook del team in via preliminare.
Le prove archeologiche del terremoto, occorso durante il Regno di Giuda secondo quanto descritto nella Bibbia, risiederebbero in alcuni resti ritrovati nel Parco nazionale della città di David.
Già in passato alcune prove del suddetto terremoto erano state trovate in diversi siti di Israele ma questa è la prima volta che si trovano prove del fatto che il terremoto ha colpito anche Gerusalemme.
Il terremoto viene descritto sia nel libro di Zaccaria che in quello di Amos. Le descrizioni vennero immortalate diversi anni dopo l’evento e riguardano soprattutto la distruzione che lo stesso terremoto ha apportato al territorio e lo ha segnato per i decenni successivi.
I ricercatori sono giunti alla conclusione relativa fatto che questo terribile terremoto é occorso anche a Gerusalemme esaminando con attenzione vari resti di ceramiche, lampade, utensili vari, in particolare da cucina, mobili e pareti sbriciolate.
Oltre a questi oggetti chiaramente in frantumi, i ricercatori hanno analizzato anche diversi resti di navi, in particolare le merci danneggiate dalle scosse che queste navi trasportavano.
Secondo i ricercatori si tratta di danni non intenzionali oppure provocati da altre tipologie di eventi, quali incendi. La causa più probabile deve risiedere in una forte scossa tellurica e deve essere stato il terremoto descritto nei suddetti libri della Bibbia in quanto i periodi coincidono.
In ogni caso Gerusalemme non doveva essere l’epicentro perché, pur fortemente colpita, ha continuato ad esistere e a svilupparsi fin poi alla distruzione babilonese avvenuta un paio di secoli dopo.
(Notizie scientifiche.it, 10 agosto 2021)
Porto di Haifa in vendita
di Abele Carruezzo
HAIFA - Il Governo israeliano, già nell’anno scorso, aveva approvato il piano per la privatizzazione del porto di Haifa, dopo la riforma sui porti del 2005: si doveva incidere sui mercati con infrastrutture adeguate e attrarre nuovi traffici merceologici. Haifa, città posta nella parte settentrionale di Israele, ha il più grande porto del Paese e con il maggior numero di traffici di merci.
Al bando emanato dalla Government Companies Authority (GCA) – organo istituzionale che sta gestendo la vendita – sono in corsa quattro gruppi di investimento che stanno cercando di acquisire il porto israeliano di Haifa, stimato per un valore di 600 milioni di dollari.
Le offerte previste saranno formalizzate entro ottobre prossimo per chiudere una campagna di una nuova strategia israeliana in tema di portualità: vendere i porti statali non competitivi e costruire nuovi moli privati nel tentativo di incoraggiare la concorrenza e ridurre i costi di gestione delle infrastrutture e ridurre la prassi burocratica.
Allo stesso tempo si sta operando in legami economici con i vicini paesi arabi creando nuove opportunità commerciali, rivalutando e sfruttando la posizione geografica del porto di Haifa per farlo diventare un hub regionale. Infatti, da quest’anno, ha preso il via il terminal container gestito dalla cinese Shanghai International Port Group (SIPG), sito lungo la costa israeliana ed è per questo che il porto di Haifa dovrà essere aggiornato nelle sue infrastrutture se vorrà competere. L’innovativo terminal container, con fondali a – 17,3 metri, si trova vicino al vecchio porto di Haifa e consente di scaricare velocemente grandi navi lunghe 400 metri e larghe 62 che trasportano più di 18.000 container.
Il bando dovrà dichiarare il concorrente scelto entro la fine di quest’anno con la proprietà da trasferire all’inizio del 2022 e la concessione avrà validità fino al 2054.
L’aggiudicatario della gara dovrà impegnarsi per un investimento minimo di 290 milioni di dollari, di cui 115 milioni di dollari andranno per investimenti in infrastrutture. I lavoratori del porto riceveranno un ‘bonus di privatizzazione’ e una parte del finanziamento verrà utilizzata per la compensazione dell’interruzione dal lavoro per circa 200 posizioni.
I gruppi che si stanno contendendo il porto di Haifa provengono da Israele, Europa, India ed Emirati Arabi Uniti, che solo l’anno scorso hanno normalizzato i legami economici con Israele.
Una nota della GCA afferma che la vendita è stata “un processo ordinato e internazionale”, aggiungendo: “la geopolitica non è un fattore”.
Per attirare investitori, evitando la concorrenza con il terminal gestito dalla Cina, posizionato proprio nella baia, Israele sta vendendo il porto di Haifa e relativo entroterra da sviluppare per una crescente domanda di beni per i investitori e consumatori. Anche se questo ha messo in allerta la diplomazia americana.
Uno dei quattro gruppi concorrenti al bando, la Israel Shipyards Industries che sta operando un’offerta congiunta con la DP World di Dubai, è convinta che il progetto è fattibile per rendere il porto di Haifa ‘gateway- porta del Mediterraneo’.
La britannica DAO Shipping che sta collaborando con il fondo infrastrutturale israeliano Generation Capital e la Compagnia di Navigazione Lomar, con il gruppo leader Libra, con sede a Londra, sta finalizzando la sua partecipazione al consorzio, affinché il porto di Haifa diventi un importante porto di merci alla rinfusa, di automobili, ro-ro e anche come porto per crociere da/per tutta la regione compresa la Palestina. Sono convinti di avere tutto il potenziale per trasformare il porto in un hub strategico multi – carico che andrà a beneficio di Israele e della regione in generale.
L’altro concorrente è l’Adani Ports dell’India che sta partecipando separatamente con il Gadot Group di Israele e un quarto pretendente, la società israeliana Shafir Engineering che in questa fase non ritengono di rilasciare dichiarazioni in merito.
Tutto questo avviene in un momento in cui i porti, a livello mondiale, sono alle prese con complessi problemi di congestione. I ritardi, causati in gran parte da intoppi nella catena di approvvigionamento, sono ulteriormente cresciuti durante la pandemia, allungando i tempi di consegna e aumentando i costi di spedizione. Più del 99% del commercio israeliano avviene via mare, pertanto, l’apertura d’infrastrutture aggiuntive sarà vitale per risolvere le congestioni, consentire prezzi al consumo più bassi e creare nuovi posti di lavoro.
(Il Nautilus, 10 agosto 2021)
Covid Israele, oltre 6 mila contagi nelle ultime 24 ore
Sono 6.275 i nuovi contagi da Covid-19 registrati in Israele nelle ultime 24 ore. Lo riferisce il ministero della Sanità, sottolineando che è il dato più alto dal picco della pandemia a febbraio, con un tasso di positività che sale al 4,84%. I pazienti in gravi condizioni aumentano a 394. Lo riporta il Jpost.
“Il momento è critico per tutti noi, la salute, la vita e l’economia” ha affermato Salman Zarka, commissario anti-Covid, in un’intervista a Radio Kan Bet.
Attualmente i casi attivi sono 35.466, le vittime dall’inizio della pandemia sono 6.559, tra cui 16 persone decedute domenica scorsa, giorno che segna il maggior numero di morti da aprile.
I funzionari del ministero della Sanità sperano in un miglioramento significativo con la somministrazione della terza dose di vaccino agli over 60 e alle persone con sistema immunitario fragile. Da quando è iniziata la campagna vaccinale circa 600mila israeliani hanno ricevuto la “dose booster”.
Il direttore generale, Nachman Ash, ha affermato che il Governo sta facendo di tutto per evitare il lockdown. Il Gabinetto ministeriale per il Covid si riunirà nei prossimi giorni.
(Shalom, 10 agosto 2021)
Fede no vax
Ricchi o poveri, quando l’estremismo religioso è usato per rafforzare l’antiscientismo.
di Enrico Bucci
In questa rubrica, i lettori hanno spesso potuto leggere del rapporto tra memi umani pericolosi – concetti rapidamente diffusibili nelle popolazioni umane, i quali possono predisporre a comportamenti erronei – e geni di parassiti, in particolare di Sars-CoV-2, ma anche di Xylella e di altri, che hanno potuto sfruttare idee sbagliate e diffuse in ambienti culturali predisponenti, per diffondersi meglio e più rapidamente.
Fra gli esempi che vale la pena considerare, vi è una categoria di memi che vale la pena di osservare con maggiore attenzione. Si tratta delle credenze religiose, le quali hanno una presa molto forte e hanno valore prescrittivo, nel senso che determinano il comportamento degli esseri umani che ne sono portatori. All’inizio dell’epidemia, si ricorderà che le cerimonie religiose di una particolare setta coreana, la chiesa di Gesù di Shincheonji, divennero l’innesco principale dell’epidemia in Corea; sebbene questo fosse ovviamente un fatto accidentale, perché qualunque congregazione di un numero elevato di individui, in assenza di conoscenze del virus, avrebbe potuto essere un fattore importante nella propagazione iniziale, non tutti sono a conoscenza del fatto che, per motivi religiosi, il leader di quella setta si oppose all’efficiente programma di tracciamento del governo coreano. L’ottantottenne Lee Man-hee, a causa delle sue credenze, convinse i suoi fedeli a sottrarsi al tracciamento, in un periodo in cui non vi erano vaccini e il contenimento con misure non farmacologiche era l’unico che poteva contrastare un virus allora sconosciuto nei suoi effetti e nelle sue dinamiche.
Si potrebbe pensare che il caso coreano sia il caso di un estremista religioso isolato, ma non è così: a gennaio, il leader religioso supremo dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, ha bandito l’importazione di vaccini fatti in Usa e in Inghilterra, stabilendo che sono inaffidabili e che potrebbero propagare l’infezione. L’azione politica di quel leader ha fatto ovviamente leva sulla religione iraniana, e sui memi ad essa legati; il risultato è stata una campagna di vaccinazione lentissima, con meno del 4 per cento degli 83 milioni di cittadini attualmente vaccinati, e un tasso di infezione attuale in Iran di una persona ogni due secondi, con un nuovo morto osservato all’incirca ogni due minuti, ospedali in crisi e sanità allo sbando.
Anche nei paesi cosiddetti avanzati l’estremismo religioso è usato per rinforzare l’antiscientismo. Negli Usa, un sondaggio del Pew Research Center condotto a febbraio ha rilevato che gli evangelici bianchi sono il gruppo religioso che maggiormente si oppone alla vaccinazione contro Sars-CoV-2. Quasi la metà (45 per cento) ha dichiarato che non si sarebbe vaccinato contro il Covid-19, rispetto al 30 per cento della popolazione generale. L’obiezione religiosa, in paesi come gli Stati Uniti, può ancora essere riconosciuta come un motivo legalmente valido per l’obiezione vaccinale; il che, ovviamente, dimostra quale sia la potenza delle false credenze come varianti mentali accessorie alle varianti virali. Negli Usa, si è arrivati al punto che un gruppo di arcivescovi ha alimentato i dubbi dei fedeli sui vaccini, mettendo in questione la moralità dell’utilizzo di vaccini sviluppati attraverso l’utilizzo di linee cellulari originariamente derivate da embrioni umani. C’è voluto quindi l’intervento del Vaticano e del Papa per spegnere le obiezioni alla vaccinazione almeno nella comunità dei cattolici. Né ci si limita ai credenti cristiani: sempre in USA, un dibattito tra diverse autorità islamiche sembra rispecchiare quanto è avvenuto nella chiesa cattolica, con i fedeli confusi e in dubbio circa la possibilità di vaccinarsi e preservare la propria religione.
Ora, il problema risiede naturalmente non nelle credenze religiose in sé, ma nel fatto che queste, se estremizzate e se caricate di scopi politici (come ad esempio in Iran, ma anche nell’ultradestra religiosa bianca americana), possono essere usate per produrre leve mentali estremamente potenti, in grado di favorire la diffusione del virus sia attraverso il negazionismo, sia attraverso la credenza che le misure preventive, tanto quelle vaccinali che quelle non farmacologiche, siano opera di entità malevole, cui il religioso deve opporsi in nome del bene. Le credenze religiose sono parte costitutiva della spiritualità di troppi esseri umani, perché si possa ignorare il loro peso nel determinarne il comportamento; è quindi essenziale, se si vuole raggiungere un tasso di vaccinazione sufficiente, che vi sia una collaborazione fra sanità pubblica e autorità religiose volta a scardinare gli usi impropri delle fedi religiose, oltre che per fermare la strumentalizzazione da parte di guru no-vax di ogni specie, pronti a cavalcare qualunque cosa sia utile per affermare la propria, di religione.
Il Foglio, 10 agosto 2021)
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Fede si vax
Scienziati e tutti gli altri, quando l'estremismo religioso scientista è usato per promuovere la caccia alle streghe eretiche dei no-vax sotto la spinta di guru si-vax pronti a colpire chiunque si opponga all'unica vera universale religione che deve accomunare oggi tutti gli uomini: la SCIENZA.
E' bene che tra i proseliti della religione SCIENZA ci sia qualcuno che sappia dire certe cose con decisione. Per semplice chiarezza e non per timore di un'eventuale persecuzione scientista, si avverte che chi scrive ha deciso di non vaccinarsi. Ma non invita altri a fare altrettanto, né si permette di fare valutazioni morali su chi prende una decisione diversa dalla sua. Non si tratta di attaccamento alla propria ego-libertà o di paura di soccombere alla temuta inoculazione.
In ambito evangelico non è stata fatta una riflessione ordinata e condivisa sul rapporto tra fede e obbligo vaccinale, e quasi sicuramente la maggioranza si farà vaccinare. O l'ha già fatto. La reazione quasi rabbiosa che certi si-vax della maggioranza, soprattutto tra quelli che si trovano in posizione di potere, hanno verso coloro che si attentano a mettere soltanto in dubbio il valore sociale dell'operazione, fa capire che questo atto della vaccinazione ha assunto ormai il valore di un atto di iniziazione per l'ingresso nella società prossimo-ventura. Ha il valore di un engagement. La cui importanza sta nell'atto stesso che si compie. Il quale, per sua stessa natura e per le sue motivazioni, ne chiederà ben presto un altro. Se si è fatto il primo passo, che motivo c'è per non fare il secondo? E così via. Sta qui l'importanza dell'engagement iniziale. E la pressione che sarà fatta ogni volta sarà sempre maggiore, ma avrà in ogni caso un indiscutibile volto nobile: il «bene dell'umanità». "Vuoi tu essere un nemico dell'umanità rifiutandoti di sottoporti all'operazione che ti viene richiesta dal mondo intero?" Sarà la solenne domanda fatta ai renitenti. Le inevitabili punizioni in caso di insistenza nel diniego sono ancora confuse e in fase di elaborazione.
Quindi, nel caso che qualcuno si fosse pentito di aver dato il proprio sì alla prima richiesta di vaccinazione, può tranquillamente aspettare di rifarsi alla seconda, perché prima o poi gli sarà fatta una richiesta simile. Solo che questa volta sarà più impegnativo rispondere no.
Per quanto riguarda i cristiani evangelici nel loro complesso, si direbbe che non vedono nulla di "religioso" nelle attuali disposizioni delle autorità. Quindi, in massima parte, conformemente all'invito biblico ad essere sottoposti alle autorità, si attengono ordinatamente alle disposizioni. E si può ammettere che oltre all'assenza di chiari divieti biblici, ci sono buoni motivi pragmatici per aderire alle richieste governative, anche se non sono ancora espresse in forma di legge.
E' bene però tener presente il motivo di fondo della richiesta: il «bene dell'umanità». E qual è il bene dell'umanità? La risposta si trova scritta nella dogmatica della religione SCIENZA. Bisogna lasciare dunque che i suoi teologi la spieghino, i suoi sacerdoti la amministrino e i fedeli la imparino e la mettano in pratica. Ma attenzione! Nessun'altra religione alla fine sarà tollerata. Già da adesso, in tempi in cui si tollera ancora la presenza di «culti ammessi», nonostante l'«ignoranza invincibile» che le informi, è bene che si sappia che nessun ostacolo che si frapponga al mantenimento del «bene dell'umanità», secondo la definizione datane dalla SCIENZA, sarà tollerato.
Grazie, signor Bucci, di averci così premurosamente avvertiti. M.C.
(Notizie su Israele, 10 agosto 2021)
Il Palazzo di vetro e i 101 antisemiti
di Daniel Mosseri.
Perpetuare lo status di rifugiati attraverso le generazioni è un crimine piuttosto odioso. Dell'incombenza si fa carico ormai dal 1949, l'Unrwa, l'agenzia dell'Onu peri rifugiati palestinesi. Sulla sensatezza di avere un'agenzia dell'Onu a uso esclusivo degli arabi palestinesi la stessa Unrwa si interroga ormai dal 1951. In 70 anni di attività non si è data ancora una risposta. Intanto però per gli altri, ossia i rifugiati di seconda classe: quelli cioè non palestinesi, sotto la meno specifica protezione dell'Unchr, più che raddoppiati da 10,1 milioni nel 2010 a 20,7 milioni nel 2020.
L'Unrwa non manca di dare scandalo: non solo perché rende ereditario lo status dei profughi palestinesi del 1948 e del 1967, balzati da 750 mila nel 1948 a 5,7 milioni l'anno scorso (dati Unhcr). Nel 2013 l'Unrwa ha fatto notizia per aver ospitato campeggi estivi jihadisti nelle proprie scuole; nel 2014 per aver custodito un deposito di munizioni di Hamas in locali dell'agenzia; nel 2017 vengono scoperti tunnel di Hamas situati sotto a diverse scuole gestite dall'Unrwa a Gaza. L'ultima perla è di questo agosto: l'agguerrita ong UN Watch ha messo alla berlina il comportamento di decine di insegnanti legati all'agenzia, accusati di spronare milioni di scolari palestinesi al jihad, all'antisemitismo e a rimpiangere Hitler, che lui sì aveva capito come si trattano gli ebrei. Colta nel vivo, l'Unrwa è corsa ai ripari lanciando un'indagine su 10 degli accusati. L'agenzia ha anche ricordato che negli ultimi 5 anni l'UN Watch ha identificato 101 casi di comportamento scorretto (leggi antiebraico) di funzionari e docenti Unrwa sui social «ma nel 57% dei casi non si trattava di personale nostro».
Libero, 10 agosto 2021)
Tutti a tavola con la TorahLe norme ebraiche sull’alimentazione sono severe e cariche di divieti ma hanno prodotto una gastronomia che è un grande giacimento culturale
di Marino Niola
«Quanto si muove e ha vita, vi servirà di cibo. Vi do tutto questo, come già le verdi erbe. Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè il suo sangue». Siamo nel nono capitolo della Genesi , all’indomani del diluvio universale e il Signore mette sulla tavola degli uomini tutto ciò che sta nei cieli, nel mare, sulla terra, tutto ciò che cammina, che vola, che striscia. Ma pone subito numerosi tabù. Come quello di mangiare carne contenente sangue. Forse in memoria dell’assassinio di Abele. E ai divieti del primo libro della Bibbia seguono quelli del terzo, cioè il Levitico .Che traccia una invalicabile frontiera tra il puro e l’impuro, tra le specie commestibili e quelle che un ebreo osservante non può mangiare senza peccare. Disco verde per i ruminanti dotati dell’unghia bipartita. Una doppia clausola che taglia fuori di netto il maiale, perché ha sì l’unghia fessa, ma non rumina. E anche il cammello, che rumina ma non ha l’unghia bipartita. Sì agli uccelli, con moltissime eccezioni tra cui il pipistrello, che evidentemente anche prima del Covid non ha mai goduto di buona stampa. Ok anche per i pesci, purché abbiano pinne e squame. Quindi niente polpi, calamari, seppie, crostacei e frutti di mare. E mai, per nessuna ragione, associare la carne con il latte nello stesso pasto. Di conseguenza mangiare come Dio comanda nella cultura ebraica significa intonare un controcanto gastronomico della Torah . Un promemoria culinario che alterna ricette e precetti, per dirla con Miriam Camerini, nota studiosa di ebraismo. Rinsaldando i legami familiari e collettivi attraverso la preparazione e il consumo dei piatti della tradizione. Di fatto, i ricettari, tramandati di generazione in generazione, danno vita ad un grande patrimonio alimentare, attraverso il quale l’antico popolo di Israele si ritrova unito, anche se disperso ai quattro angoli del pianeta. Così la cucina diventa un fatto che è al tempo stesso intimamente domestico e intensamente pubblico. Perché mangiare alla giudia significa prima di tutto non dimenticare mai che il cibo è una cosa sacra. Non a caso all’inizio e alla fine del pasto si recita una preghiera per ringraziare Dio dei suoi doni alimentari e per chiedergli di contenere la voracità degli uomini entro i limiti della decenza. E non ci si può alzare dalla tavola senza aver benedetto e ringraziato il nome del Signore, raccolto e conservato le briciole di pane, segno di abbondanza e riposto il sale, simbolo del cerimoniale del Tempio di Gerusalemme. Questa acribia rituale rifletterebbe lo stato di perenne inquietudine in cui versano gli ebrei osservanti di fronte al cibo. A dirlo è la psicoterapeuta e scrittrice Anna Segre, che cita in proposito una fonte rabbinica secondo cui «quando il Tempio esisteva, l’altare espiava per tutti; dalla distruzione del Tempio (70 d.C.), la tavola di ciascuno espia per lui». Quindi, osservare rigorosamente i precetti della Torah non rappresenta un esercizio ozioso, una pignoleria integralista, una puntigliosità anacronistica, come insinua un laicismo superficiale. Invece costituisce una forma di religiosità che non è fatta solo di incorporei misteri teologici e vertiginose altezze metafisiche, ma anche di comportamenti concreti, cerimonie casalinghe, gesti tramandati sempre alla stessa maniera, per non disperdere quella parte dell’identità collettiva che è tramata di vita quotidiana. Pratiche di distinzione, le ha definite il sociologo francese Pierre Bourdieu. Regole, prescrizioni, protocolli, paletti, impedimenti, interdizioni, obblighi e anche molti tabù. Un corpus di leggi conosciuto sotto il nome di kasherùt, che stabilisce cosa è kasher (o kosher), cioè puro, corretto, e cosa non lo è. Seguire i precetti religiosi significa dunque aderire ad un progetto esistenziale, ad un vero e proprio stile di vita, che fra l’altro vieta anche la prevaricazione dell’uomo sulla natura. Ma la cucina ebraica non è solo divieti. A farne un grande giacimento culturale è una stratificazione secolare di sapori, umori, odori. Da cui sono nati capolavori della cucina italiana di cui beneficiamo tutti. La parmigiana di melanzane, le zucchine alla scapece, il baccalà fritto, le triglie alla mosaica (comunemente dette alla livornese), la crostate di ricotta e visciole, i carciofi alla giudia, che nella comunità ebraica di Napoli si soffriggevano con olive e capperi, mentre in quella romana, si immergono nell’olio bollente, per farli riemergere come fiori dorati e fragranti. E con tutta probabilità sono ebraici anche il pan di spagna e i baci di dama. Nonché il fish and chips, arrivato dall’Andalusia in Inghilterra seguendo il filo d’Arianna della diaspora sefardita. E poi, nella cultura ebraica mangiare significa anche raccontare. Tanto che per i bambini vengono inscenate piccole pièce teatrali, come quando si porta a tavola la "Ruota di Faraone". È il manicaretto dello Shabbat Beschallach, il sabato in cui si ricorda la fuga degli ebrei dalla schiavitù egiziana. Racconta il Libro dell’ Esodo che il Mar Rosso prima si apre miracolosamente per far passare il popolo di Mosè, ma subito dopo si richiude sugli inseguitori. Le onde che sommergono l’esercito del Faraone in questo piatto vengono rappresentate dalle tagliatelle all’uovo immerse nel brodo di cappone. In quei deliziosi marosi galleggiano le teste dei soldati egiziani sotto forma di uvette e polpettine di manzo. Mentre i pinoli tostati simboleggiano le lance degli aggressori disperse tra i flutti. E una serie di rondelle di salsiccia d’oca (l’equivalente kasher del maiale) raffigurano le ruote divelte dei carri. È un piatto rituale, che consente di rimangiare la propria storia. Insomma, un modo di mandarla a memoria mandandola giù. E da qualche anno, gli alimenti prodotti secondo le regole ebraiche e rigorosamente certificati dai rabbini, conquistano anche i palati dei Gentili, cioè i non ebrei. Nel Nord America rappresentano oltre un terzo dei cibi venduti. È un consumo parallelo, che in questo caso non obbedisce a nessun comandamento se non alla domanda di sicurezza e salubrità, parenti strette della purezza. Questi consumatori acquistano a marchio kasher per ragioni di fiducia, più che di fede. Evidentemente l’autorità religiosa è più credibile dell’autority alimentare. Siamo in pieno cortocircuito tra alimentazione e devozione, tra salute e salvezza. A riprova del fatto che il cibo è diventato la nuova religione del nostro tempo e la tavola l’altare dove si celebra il culto del corpo.
(la Repubblica, 10 agosto 2021)
Israele e la difficile convivenza arabi-ebrei. "I nostri vicini si sono rivoltati contro di noi"
La città mista di Lod sembrava un modello di tolleranza ma non è stata risparmiata da violenze e devastazioni.
di Stefano Stefanini
GERUSALEMME - Nessuno pensava che i nostri vicini si girassero contro di noi». Naomi (il nome è fittizio) è ebrea, i vicini arabi. Tutti cittadini israeliani. Le violenze dello scorso maggio l'hanno risparmiata. Ci mostra un appartamento adiacente travolto da un'ondata di puro vandalismo gratuito. Nulla rubato; tutto devastato. Siamo a Lod, città mista al centro di Israele. L'edilizia è decorosamente popolare. Non c'è separazione fisica. Arabi ed ebrei condividono scale e pianerottoli, cortili e negozi, autobus e nettezza urbana.
Naomi viene da un insediamento. Si è trasferita a Lod con il marito per far crescere i figli in un ambiente diversificato, e perché le case sono meno care. Ha fatto attivismo civico. Possibile, e la voce le si rompe, durante le violenze «non ricevere neanche un sms, un come state» dai conoscenti arabi della porta accanto? Intorno a noi bambini giocano fra scivoli e altalene. Insieme? Naomi esita. Forse prima, ora chissà. Incrociamo un'anziana residente ebrea: «Sono qui da quarant'anni; grazie per essere venuti a vederci»,
Il nostro fantastico accompagnatore di tutto il viaggio è il Generale (della riserva) Dov Sedaka. E' passato attraverso guerra, pace, cooperazione e negoziati. Proviene da un quartiere misto di Haifa e, dice, «lì stiamo tornando alla normalità». A Lod invece, dove la comunità ebraica più religiosa che secolare ha tenuto le distanze dalla maggioranza araba, con economia stagnante, «ci vorrà più tempo». Siamo nello strato centrale di quella che un analista chiama la «cipolla del Medio Oriente»: popolazioni e risorse, le prime generalmente in eccesso sulle seconde, gomito a gomito. Sconfina nel secondo: identità, religione, lingua. L'uno obbliga alla convivenza; l'altro la separa. Entrambi sono subiti, non scelti.
Il terzo strato è regionale. Israele voleva essere un avamposto europeo; oggi è parte integrante del Medio Oriente. La svolta autoritaria in Tunisia sembra dare ragione allo scetticismo israeliano sulle «primavere arabe». «Qui non esiste primavera», è un concetto «eurocentrico», Le «primavere» hanno solo fatto venir meno i due pilastri dei regimi: il monopolio della forza e l'indottrinamento. Il primo incrinato da piazza, milizie e jihadisti; il secondo compromesso definitivamente dai social media. In pace fredda con Egitto, solida con Giordania, quasi calda con il Golfo, Israele non è più circondato da governi ostili ma da bandiere tribali a briglia sciolta. A Sud, c'è Hamas incuneato a Gaza e il Sinai egiziano nelle mani di simpatizzanti di Al Qaeda. A Nord, il Libano è una «cortina fumogena» per le operazioni di Hezbollah e i suoi mandanti iraniani; milizie al soldo di Teheran operano anche al confine siriano. Sunnite, non sciite, ma l'Iran è l'unico datore di lavoro sul mercato.
All'esterno gli strati internazionali: lo scontro di potenze regionali, mascherato dal paravento religioso sunnita-sciita che si interseca con quello politico radicali-moderati; il grande gioco tra vecchi protagonisti, Stati Uniti e Russia, astri nascenti come Cina, forse India, personaggi in cerca d'autore, come l'Europa. Vicina geograficamente, dimenticata politicamente da Netanyahu. Potrebbe cambiare col nuovo governo - prova anche la recente visita del Ministro degli Esteri Yair Lapid in Italia. Ue ed europei dovranno però smarcarsi nettamente dal boicottaggio dei prodotti israeliani (Bds). Finché è campagna non governativa Israele fa buon viso a cattivo gioco contestandola dove e come può, ad esempio sul piano del diritto internazionale. Come componente di politica estera è inaccettabile.
Risorse, territorio, identità sono stati ostacoli non sormontati in trent'anni di negoziati israelo-palestinesi. Anche quando le posizioni delle due parti sono state più vicine, raccontano i veterani delle trattative, lo erano più in principio che in concreto. Non è mai stato un classico negoziato internazionale; è un negoziato esistenziale. Israeliani e palestinesi devono accordarsi non solo su come ripartirsi il territorio - problema non da poco - ma su come condividere le rispettive versioni di storia, religione e cultura. Per legittimarle entrambi accampano titoli di proprietà di lunga data.
Il catasto si perde nei millenni. Dall'alto dell'insediamento Eli, una colonna mostra orgogliosamente le sottostanti rovine della capitale del Regno di David. E' nata e cresciuta a Los Angeles, si sente tornata a casa. Nel tunnel sotto la spianata delle Moschee e il Muro del Pianto, un archeologo mette a nudo impressionanti muraglie, intatte, del tempio di «Erode il Grande», non nascondendo che gli scavi servono anche a dimostrare che «eravamo qui prima di loro».
Sì, ma adesso sono tutti qui. Con i suoi quattro quartieri, armeno, cristiano, ebraico e musulmano, la città vecchia di Gerusalemme è già una comproprietà. Se «si toglie Dio dall'equazione», osserva alquanto irriverentemente una guida, la torta si può spartire. Sarebbe una vittoria per tutti. A condizione di far propria la raccomandazione che Sedaka fece ai suoi uomini nella «guerra dei soldati» del 1973, mentre difendevano strenuamente le alture del Golan dall'offensiva siriana: «Per vincere bisogna non odiare il nemico». Perché dopo la vittoria ci vuole la pace e non c'è pace con odio.
(La Stampa, 9 agosto 2021)
Israele, 500 mila hanno ricevuto terza dose Pfizer
Continua a ritmo serrato in Israele la vaccinazione con una terza dose di Pfizer per gli over 60 che hanno ricevuto le prime due dosi oltre cinque mesi fa. In otto giorni, informa il ministero della sanità, è stata somministrata a 500 mila israeliani. Il premier Naftali Bennett ha mostrato compiacimento per il successo della campagna e ha incoraggiato le casse mutue a completare entro venerdì la somministrazione della terza dose al 90 per cento di questa fascia della popolazione. Secondo il ministro della sanità Nitzan Horowitz i dati sono incoraggianti. In particolare si ritiene che chi ha ricevuto la terza dose sia meno esposto a complicazioni, se fossero contagiati dal virus. Quanto a effetti collaterali, la terza dose di vaccino Pfizer, secondo i report che arrivano da Israele, dà effetti collaterali «simili o minori» rispetto alla seconda.
(Corriere della Sera, 9 agosto 2021)
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Israele: 14 vaccinati con terza dose si sono ricontagiati
Undici dei 14 casi avevano più di 60 anni
In Israele procede la campagna di vaccinazione per somministrare la terza dose. Si è già raggiunto il numero di 420mila inoculati. Ma 14 israeliani si sono contagiati nonostante la terza dose di vaccino.
I dati del Ministero della Salute dello Stato di Israele sono stati forniti da Channel 12 News e ripresi da The Times of Israel.
La notizia è di ieri e non si sa al momento se le 14 persone abbiano contratto il virus prima o dopo aver ricevuto il richiamo di vaccino Covid.
Nel frattempo due dei 14 contagiati sono stati ricoverati in ospedale (over 60). Undici dei 14 casi avevano più di 60 anni, mentre i restanti 3 erano individui immunocompromessi sotto i 60 anni.
Quindi ricapitolando:
- 2 ricoverati, contagiati,
- 11 contagiati over 60,
- 3 contagiati under 60.
Va aggiunto che sono 420mila le somministrazioni della terza dose dall’inizio della campagna di richiamo del Ministero della Salute.
In Israele oltre 5,8 milioni di cittadini hanno ricevuto almeno una dose di vaccino, rispetto ad una popolazione di circa 9,3 milioni. Gli israeliani che hanno ricevuto due dosi sono al momento 5,4 milioni, mentre quelli a cui è stata somministrata la terza dose sono 420mila.
Il governo israeliano – comunica The Times of Israel – ha discusso anche di un’altra eventuale chiusura, come avevamo accennato nel nostro post “Israele torna al pass sanitario e obbligo mascherine. Eventuale lockdown a settembre“, ma i canali di TV ebraica 12 e 13 hanno fatto sapere che il ministro dell’Istruzione Yifat Shasha-Biton ha definendo un “crimine” la pianificazione per la vaccinazione degli studenti nelle scuole, inoltre che l’opzione di un lockdown va rimossa “dall’ordine del giorno”.
Il ministro dell’intelligence Elazar Stern – fa sapere The Times of Israel – ha detto che è necessario “eliminare la parola ‘blocco’ dal lessico”, perché è come se le persone stessero vivendo “sotto minaccia”.
Hamad Amar, un dirigente del Ministero delle Finanze, ha affermato che “il lockdown non è una soluzione“, che l’Australia è attualmente all’ottava chiusura, ma i casi sono comunque ancora in aumento.
Altri ministri invece hanno sottolineato che un lockdown è necessario, ma che si deve parlare pubblicamente prima di imporlo alla popolazione.
Va data anche notizia su Meirav Cohen, ministro per l’uguaglianza sociale, la quale si è unita alle proteste dei ministri contro l’esclusione delle sinagoghe legata alle nuove restrizioni ai raduni nell’ambito del rinnovato sistema green pass.
Ricordiamo che con il green pass “in formula piena” gli assembramenti di qualsiasi dimensione, sia al chiuso che all’aperto, sono limitati solo ai vaccinati, ai guariti dal virus o a tutti quelli che presentano un test Covid negativo.
(The Italian Tribune, 9 agosto 2021)
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Nuovo farmaco Covid dà risultati promettenti: “Il 93% dei pazienti dimesso in 5 giorni”
Chiamato EXO-CD4, il trattamento sperimentale è stato sviluppato dal team israeliano del Sourasky Medical Center di Tel Aviv e testato in uno studio di fase II condotto in diversi ospedali in Grecia: “Abbiamo trovato lo strumento per affrontare la malattia”.
di Valeria Aiello
Un nuovo farmaco sperimentale, sviluppato dal team israeliano del Sourasky Medical Center di Tel Aviv, ha dato prova di poter trattare con successo i pazienti Covid. Nel trial clinico di fase II condotto in diversi ospedali in Grecia, la terapia si è rivelata efficace in quasi la totalità dei casi, secondo quanto anticipato dagli stessi sviluppatori al Jerusalem Post. “Circa il 93% dei 90 pazienti con Covid grave trattati con il nuovo farmaco è stato dimesso in cinque giorni o meno” hanno indicato gli studiosi, confermando i risultati osservati nella prima fase di test svolta in Israele lo scorso inverno e che ha visto 29 pazienti su 30, in condizioni da moderate a gravi, riprendersi in pochi giorni.
“L’obiettivo principale di questo studio era verificare che il farmaco fosse sicuro – ha affermato Nadir Arber, responsabile della ricerca – . Fino ad oggi non abbiamo registrato alcun effetto collaterale significativo in nessun paziente di entrambi gli studi”. La seconda fase di sperimentazione, spiega il quotidiano israeliano, si è svolta in Grecia perché in Israele non c’erano abbastanza pazienti in gravi condizioni. Il principale investigatore è stato il commissario greco per l’emergenza coronavirus, il professor Sotiris Tsiodras.
Il farmaco, chiamato EXO-CD4, è basato su una molecola chiamata CD4, che il team di ricerca guidato dal professor Arber studia da circa 25 anni. Questa molecola, naturalmente presente nell’organismo, è una piccola proteina ancorata alla membrana cellulare che svolge diverse funzioni, inclusa la regolazione del meccanismo responsabile della cosiddetta “tempesta di citochine”, la risposta immunitaria eccessiva che colpisce i pazienti con forme gravi di Covid. Arber ha sottolineato che il nuovo farmaco non interviene bloccando il sistema immunitario nel suo insieme, ma mira solo a questo meccanismo specifico, favorendo il ripristino del giusto equilibrio. “Questa è una medicina di precisione – ha evidenziato – , e siamo molto felici di aver trovato uno strumento per affrontare la fisiologia della malattia”.
Rispetto alla terapia con gli corticosteroidi, come ad esempio il desametasone, (“che spegne l’intero sistema immunitario” ha spiegato Arber), il nuovo farmaco “bilancia la parte responsabile della tempesta di citochine, utilizzando il meccanismo endogeno dell’organismo, ovvero gli strumenti forniti dall’organismo stesso”. Un altro elemento importante del trattamento è la sua assunzione. “Utilizziamo gli esosomi, vescicole molto piccole derivate dalla membrana cellulare, che sono responsabili dello scambio di informazioni tra le cellule – ha indicato l’esperto – . Potendo consegnarli direttamente dove sono necessari, evitiamo molti effetti collaterali”.
I risultati dello studio di fase II aprono la strada all’ultima fase di sperimentazione che servirà per confrontare l’efficacia del trattamento rispetto ai pazienti trattati con placebo. Allo studio di fase III prenderanno parte circa 155 pazienti Covid, di cui i due terzi riceveranno il farmaco e un terzo un placebo. La sperimentazione sarà condotta in Israele e potrebbe coinvolgere altri Paesi qualora il numero di pazienti non fosse sufficiente. “Puntiamo a completare lo studio entro la fine dell’anno” ha concluso Arber, precisando che se i dati confermeranno risultati finora osservati, il trattamento potrà essere disponibile in tempi relativamente brevi e a basso costo.
(Scienze Fanpage, 9 agosto 2021)
Un pirata amico dei terroristi e presto armato con la bomba atomica. chi saprà reagire?
di Ugo Volli
Si chiama Ebrahim Raisi, indossa il turbante nero dei Seyed, cioè di coloro che pretendono la discendenza da Maometto, usa il titolo di Hojat-ol-eslam, che è quello immediatamente inferiore nella complessa gerarchia clericale sciita alla massima carica di Ajatollah. Di mestiere ha fatto il pubblico ministero della capitale Teheran, poi il procuratore generale della repubblica islamica, infine il capo dell’intero sistema giudiziario iraniano. In questi ruoli è stato responsabile direttamente o indirettamente di torture, arresti arbitrari, esecuzioni capitali di avversari politici e religiosi, omosessuali e criminali comuni in quantità tale da meritargli il soprannome di “macellaio”. Per chi non lo sapesse, vale la pena di ricordare che l’Iran occupa un posto di eccellenza nel mondo per numero di esecuzioni capitali: secondo di poco solo alla Cina che ha venti volte più abitanti. Raisi però da qualche giorno ha cambiato mestiere, ora fa l’ottavo presidente della Repubblica Islamica dell’Iran, eletto con un ottimo risultato apparente, il 72% dei voti espressi, che però perde tutto il suo valore se si tiene conto che il numero dei votanti è stato inferiore a tutte le elezioni precedenti e catastroficamente basso, soprattutto per un paese dove la vita pubblica è controllatissima, come l’Iran: appena il 48%.
Il senso della sua carica diminuisce ancora se si tiene conto che nel sistema iraniano il presidente è un esecutore o al massimo un uomo di pubbliche relazioni, com’era il suo predecessore Rouhani, mentre il potere vero è in mano alla “Guida Suprema”, Ali Khamenei, il successore di Khomeini. Costui controlla ancora il paese e senza dubbio Raisi ha vinto non perché fosse il candidato più popolare nel paese ma perché Khamenei lo ha scelto; ma costui è anziano e non sta bene di salute, e Raisi è anche il principale candidato alla sua successione, condividendo con lui la linea dura contro l’opposizione interna e certamente anche l’imperialismo e l’odio di Israele che sono le chiavi della politica iraniana da quarant’anni in qua. La nomina di un personaggio del genere comunque indica la scelta del regime, è un segnale forte inviato a tutto il mondo: l’Iran non intende cambiare la sua aggressività, la sua politica imperialista, il suo tentativo di distruggere Israele, la demonizzazione dell’Occidente e degli Stati Uniti, il suo piano di armamento nucleare. Tocca agli altri paesi adattarsi, se ci riescono. Se no dovranno affrontare la violenza del regime, spesso impartita con mezzi subdoli e non dichiarati, come gli attentati all’estero e nei paesi obiettivo, attacchi anonimi per mezzo di droni, razzi, mine e bombe mai ammessi o dichiarati, anzi spesso negati anche di fronte all’evidenza; soprattutto l’uso di movimenti terroristici diretti dall’Iran come burattini o fantocci, nonostante la loro ostentazione di radicamento nelle nazioni dove si trovano: innanzitutto Hezbollah, che dal Libano si è espansa in Siria, poi Hamas, Jihad Islamica e anche in parte Fatah fra i palestinisti, gli Houti in Yemen, molti movimenti in Iraq, negli Emirati del Golfo, in Bahrein, Egitto, Sudan e altrove.
La prova di questo segnale di continuità, anzi di intensificazione della politica imperialistica e guerrafondaia si è avuta pubblicamente alla cerimonia di insediamento di Raisi. In prima fila c’erano i rappresentanti dei movimenti che tutto il mondo classifica come terroristi, ma che per il regime iraniano sono amici, allievi, alleati disponibili, sostanzialmente strumenti politici. A fianco loro, e certe volte dietro a loro, in posizioni meno eminenti, stavano gli stati e i movimenti antioccidentali, fra cui con molto onore la Russia, alleata e concorrente in Medio Oriente e la Cina, con cui l’Iran ha stretto un patto economico-politico di lunga scadenza che lo subordina all’imperialismo mondiale cinese. Non c’erano naturalmente americani, inglesi, israeliani; ma invece l’Unione Europea aveva scelto di non mancare e di mandare il più importante burocrate del direttorato delle relazioni internazionali, ricompensata per quest’atto di accettazione senza principi da un posto di terza fila, proprio dietro Hamas che pure l’UE ha riconosciuto come un movimento terrorista. Non c’è stata una protesta europea per questa evidente umiliazione. Il cerimoniale diplomatico è fatto di segnali chiarissimi per gli occhi di chi sa leggerli e questo mostrava la disistima anche dell’Iran per i tentennamenti velleitari dei dirigenti dell’UE.
Il segnale diplomatico non è rimasto isolato, ma è stato accompagnato da mosse di insolita evidenza aggressiva: la pirateria nei confronti delle navi israeliane (o considerate tali perché sono gestite da società in cui vi sono soci israeliani), l’accelerazione della raffinazione del combustibile nucleare, più di recente il lancio di una ventina di razzi dal Libano, rivendicati da Hezbollah. E’ evidente che questa aggressività è un segnale delle intenzioni degli ayatollah, e allo stesso tempo un test delle reazioni del mondo, in particolare dell’amministrazione Biden, che si è molto compromessa nel tentare un recupero dell’accordo nucleare con l’Iran e del nuovo, debole, governo israeliano. Nessuno sembra sapere che cosa fare nei confronti di un pirata con le armi atomiche, governato da un “macellaio”, come si avvia ad essere l’Iran. Gli ayatollah hanno l’abitudine di sfidare i loro nemici, di avanzare se non trovano risposta e di negare la loro responsabilità e di cambiare tattica se ne ricevono di decise. Per il momento non se ne sono avute. Speriamo solo che non ritorni l’epoca in cui per amor di “pace” si permise al terrorismo di compiere grandi stragi prima di reagire.
(Shalom, 8 agosto 2021)
Nasrallah, il leader di Hezbollah: "Non vogliamo la guerra, ma siamo pronti”
Il leader di Hezbollah ha elogiato la resistenza di Gaza. Anche all'inizio di maggio non era apparso in buona salute. Per rassicurare i sostenitori il figlio twitta: "E' solo un'allergia”.
di Sharon Nizza
TEL AVIV - In un passaggio del lungo discorso in occasione del "quindicesimo anniversario dalla vittoria divina sul nemico sionista", il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah si è soffermato sabato sera sull'escalation in corso al confine con Israele negli ultimi giorni, definendola uno "sviluppo pericoloso".
Ieri la milizia sciita che governa de facto il Sud del Libano ha rivendicato per la prima volta in anni il lancio di 19 razzi verso Israele, in reazione ai bombardamenti dei caccia israeliani avvenuti la notte precedente, a loro volta in risposta a tre razzi sparati mercoledì verso la città di Kiriat Shmona.
"Non vogliamo la guerra, ma, nonostante tutte le difficoltà in Libano, siamo preparati per qualunque scenario", ha detto Nasrallah. "Se il nemico lancerà una guerra, realizzerà presto che si tratta del passo più stupido che avrebbe potuto intraprendere", ha aggiunto, sostenendo che Hezbollah può colpire Israele anche nel profondo della Galilea e che i raid israeliani in Siria - volti a minare le capacità militari dell'asse filoiraniano nell'area - "hanno fallito totalmente nei propri obiettivi".
• LA FOLLA DI SHWAYYA CONTRO IL BATTAGLIONE DI HEZBOLLAH
Nasrallah si è dilungato sull'episodio - che ha definito "vergognoso" - in cui residenti del villaggio di Shwayya hanno assalito il battaglione di Hezbollah responsabile del lancio, accusandoli di mettere a rischio la popolazione civile, e in particolare in quell'area dove gli abitanti sono drusi e non sciiti. "I combattenti di Hezbollah sono degli eroi e chi ha cercato di fermarli deve essere indagato: la loro affiliazione è ben nota".
Nel weekend i video della folla che aggrediva i militanti di Hezbollah sono diventati virali. Sostenitori di Hezbollah hanno diffuso notizie secondo cui gli oppositori sarebbero collaborazionisti d'Israele. Nasrallah ha spiegato che i miliziani di Hezbollah erano stati istruiti a sparare da quella zona, da cui era possibile mirare a una postazione militare israeliana e non verso aree abitate, per evitare consapevolmente una reazione israeliana contro aree abitate in Libano, cosa che non era possibile fare da altre postazioni, secondo il leader shiita. Il portavoce dell'esercito israeliano aveva detto ieri che "il fatto che Hezbollah abbia mirato ad aree disabitate è indice che la deterrenza è ancora efficace".
• IL TIMORE DI UN "MODELLO GAZA" NEL SUD DEL LIBANO
Tra gli analisti israeliani invece, l'opinione più diffusa è che la deterrenza ottenuta negli ultimi quindici anni potrebbe essere ormai danneggiata. Solo da maggio scorso si sono verificati sei episodi di lanci di razzi verso Israele in violazione del cessate il fuoco in vigore dal 2006. In cinque casi precedenti, Israele ha attribuito la responsabilità a fazioni palestinesi attive nel sud del Libano, che avrebbero agito a sostegno di Hamas a Gaza.
In Israele il timore è che vi sia un tentativo di replicare il "modello Gaza" nel Sud del Libano, con lanci di razzi sempre meno sporadici, un modo per testare il nuovo governo Bennett che si è insediato a giugno dopo dodici anni di leadership di Benjamin Netanyahu.
In molti ricordano come la guerra del 2006 scoppiò dopo soli tre mesi che Ehud Olmert era alla guida del Paese per la prima volta. Finora l'esercito israeliano ha reagito ai razzi di venerdì con alcuni colpi di artiglieria in aree aperte e vi è un certo consenso in Israele che non si tratti di una risposta adeguata.
• IL DILEMMA DEL NUOVO GOVERNO ISRAELIANO
Secondo gli analisti, il dilemma del nuovo governo sarebbe tra infliggere un duro colpo a Hezbollah, con il rischio di innescare un'escalation più ampia, o invece contenere, intaccando la deterrenza. In un modo o nell'altro, una recrudescenza del confronto è vista solo come una questione di tempo e la domanda è come si inserirà nel contesto più ampio della "guerra delle ombre" tra Israele e Iran, che si svolge sempre più alla luce del sole.
La prima visita del premier Naftali Bennett alla Casa Bianca, prevista per le prossime settimane, e la minaccia di un nuovo lockdown causa ondata Delta, fanno pensare che la risposta al quesito potrebbe essere rimandata, almeno per ora.
(la Repubblica online, 8 agosto 2021)
Libellula Linoy, l’oro di Israele fa infuriare i russi
di Cosimo Cito
TOKYO — L’oro di Linoy Ashram resterà uno dei più storici e controversi di tutta l’Olimpiade. Mai una donna israeliana aveva vinto una gara a cinque cerchi e mai la ginnastica ritmica, nel concorso individuale, aveva premiato un Paese che non fosse la Russia o una repubblica ex sovietica. Con una sola eccezione, la vittoria della canadese Lori Fung. Ma si era a Los Angeles nel 1984, e tutto il blocco dell’Est era fuori dai Giochi. Fu, l’Olimpiade californiana, la prima edizione di sempre per lo sport di cerchio, nastro, palla e clavette. Anche a Tokyo la storia sembrava avviata a un epilogo scontato, con le gemelle Averina superfavorite. Eppure non è andata così. Al nastro, l’ultima delle quattro prove, Linoy Ashram ha danzato come una libellula sulle note di Hava Nagila , un canto popolare ebraico. Nata a Rishon Le Zion nel 1999, con trascorsi anche italiani nella Associazione sportiva Udinese, due anni di servizio militare da segretaria in un comando, «lavoravo al mattino, mi allenavo tutti i pomeriggi tranne il sabato», famiglia di origini yemenite- sefardite, Linoy ha incantato i giudici nonostante una piccola incertezza. «Sono stati i minuti più lunghi della mia vita» ha raccontato, «il punteggio non spuntava e io morivo a poco a poco». Oro, con un margine piccolissimo su Dina Averina, 0.150, un battito di ciglia in una gara lunga due ore. La russa ha preso a singhiozzare. La sua federazione ha parlato di «giudizio strano, il nostro esercizio era molto complesso e ha avuto un voto basso. Abbiamo presentato appello, ma ci è stato respinto. Ma tutto il mondo ha visto questa ingiustizia». È il 2° oro di Israele (prima volta anche questa) a Tokyo: Artem Dolgopyat aveva trionfato al corpo libero.
(la Repubblica online, 8 agosto 2021)
Gaza, raid notturno di Israele in risposta ai palloncini incendiari di Hamas
“Gaza non intende piegarsi ai dettami di Israele e ai suoi tentativi di imporre nuove equazioni”, ha detto il portavoce di Hamas Fawzi Barhoum riferendosi al rinnovo del trasferimento dei fondi del Qatar e al rilascio degli ostaggi.
di Sharon Nizza
TEL AVIV – I caccia israeliani hanno attaccato questa notte postazioni militari di Hamas nella Striscia di Gaza, in risposta al lancio di palloni incendiari che venerdì hanno provocato massicci incendi nelle comunità israeliane a ridosso della Striscia. Immagini rilasciate dal portavoce dell’esercito indicano che l’obiettivo, una rampa di lancio di razzi, si trovava non lontano da un’area abitata nei pressi di Jabalia, a nord della Striscia. Non sono stati riportati vittime o feriti. Il portavoce di Hamas Fawzi Barhoum ha detto oggi che il lancio di palloni incendiari è la dimostrazione che “Gaza non intende piegarsi ai dettami di Israele e ai suoi tentativi di imporre nuove equazioni”. Il riferimento è allo stallo che verte intorno al rinnovo del trasferimento dei milioni di dollari del Qatar, interrotto con lo scoppio dell’ultimo confronto tra Israele e Hamas a maggio. Fino ad allora, i fondi entravano in contanti, attraverso l’inviato di Doha Mohammed al-Emadi, in un’operazione concertata con l’esercito e le autorità politiche israeliane, nonostante l’assenza di rapporti diplomatici tra il Paese del Golfo e Israele. Una politica nata nel 2018 a seguito della decisione del presidente palestinese Abu Mazen - motivata dal persistente dissidio politico tra Hamas e Fatah - di interrompere il trasferimento dei fondi all’enclave palestinese che fino ad allora avveniva tramite Ramallah. Nonostante il raggiungimento del cessate il fuoco il 22 maggio dopo 11 giorni di conflitto tra Israele e Hamas, a oggi non è ancora stato risolto il nodo della ricostruzione di Gaza. Dopo gli scontri di maggio, Israele si oppone al rinnovo del passaggio dei contanti qatarioti – circa 30 milioni di dollari mensili, parte diretti a famiglie bisognose e parte a pagare stipendi di funzionari di Hamas - direttamente nelle mani dell’organizzazione terroristica che governa la Striscia di Gaza, sostenendo che non vi sia monitoraggio e che i soldi vengano utilizzati per scopi militari e non umanitari. I principali mediatori, gli egiziani e l’inviato dell’Onu Tor Wennesland, lavorano da mesi per cercare una soluzione. Solo giovedì, il ministro palestinese per gli affari sociali Ahmad Majdalani aveva affermato che l’Anp era vicina alla formulazione di un accordo con Doha, “ma che sussistevano ancora alcune difficoltà legate al sistema bancario”. Secondo quanto pubblicato dall’emittente israeliana Kan 11, il Qatar avrebbe stabilito di passare i fondi tramite banche palestinesi di Ramallah per una commissione dell’1,5%, ma il nodo verterebbe sull’utilizzo dei soldi per pagare gli stipendi dei funzionari di Hamas, a cui l’Anp si oppone. Un’altra richiesta da parte di Israele è di poter passare in rassegna le famiglie bisognose beneficiarie dei fondi (si tratta di 100$ a famiglia) per verificare che non abbiano legami con Hamas. Nelle lente trattative per la cementazione della fragile tregua un altro punto di attrito riguarda la richiesta di Israele di inserire la questione del rilascio degli ostaggi israeliani a Gaza (i corpi di due soldati morti e due civili disabili che si reputano ancora in vita). Quando parla di “nuove equazioni” Hamas si riferisce anche al tentativo israeliano di condizionare la ricostruzione di Gaza alla questione degli ostaggi, mentre Hamas è irremovibile sul fatto che la liberazione degli ostaggi possa essere effettuata solo in cambio del rilascio di prigionieri palestinesi, come avvenuto nel 2011 con il rapimento del caporale Gilad Shalit, liberato in cambio di 1,027 detenuti nelle carceri israeliane, tra cui diversi esecutori di attentati terroristici. Il bombardamento delle strutture militari a Gaza è arrivato dopo una giornata che ha visto la tensione in Israele concentrarsi prevalentemente sul fronte nord, dopo il lancio venerdì di 19 missili dal Libano verso il nord d’Israele - quasi tutti intercettati dal sistema Iron Dome, senza riportare vittime o feriti. Si tratta del sesto episodio di spari di razzi dal Libano da maggio, per la prima volta ufficialmente rivendicato dalla milizia sciita Hezbollah. Gli altri episodi erano stati attribuiti da Israele a fazioni palestinesi attive nel sud del Paese dei Cedri. Hamas ieri in un comunicato ha espresso sostegno per “la reazione condotta dalla resistenza islamica in Libano diretta contro obiettivi del nemico sionista”. Gli analisti israeliani temono che vi sia un tentativo di replicare il “modello Gaza” nel sud del Libano, con lanci di razzi sempre meno sporadici contro Israele, e che una reazione israeliana per ristabilire la deterrenza potrebbe essere solo questione di tempo, degenerando in un conflitto su larga scala. Nonostante la tensione tra i due Paesi, il confine israelo-libanese è relativamente calmo dalla fine della Seconda guerra del Libano di quindici anni fa. La sfida posta dai gruppi palestinesi nel sud del Libano si inserisce nel più ampio scenario dello scontro tra Israele e l’asse sciita pro-iraniano, che ha raggiunto un nuovo picco la settimana scorsa con l’attacco mortale alla petroliera Mercer Street nel Golfo dell’Oman, per il quale la comunità internazionale accusa Teheran. Il portavoce militare israeliano ha precisato ieri, rispetto al Libano, che “nessuna delle parti è interessata al conflitto”. Ma la convergenza dei diversi fronti su un unico confine potrebbe rendere la situazione inevitabilmente esplosiva.
(la Repubblica online, 7 agosto 2021)
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Green pass e dissonanza cognitiva
«Ormai è palese quanto gran parte della popolazione italiana sia inebetita e terrorizzata dai media militarizzati, che ogni giorno decantano presunti dati a favore dei vaccini e paventano la morte per chi non si vaccina, oltre alla velata minaccia di essere "ghettizzati" socialmente qualora non si vaccinassero». L'articolo che segue è stato scritto dopo le gravissime parole pronunciate dal Presidente del Consiglio al termine della sua conferenza stampa del 22 luglio (avallate in seguito dal Presidente della Repubblica) e prima del decreto governativo del 6 agosto. La "velata minaccia" di cui si parla non è più velata: la costruzione del "ghetto" procede a pieno ritmo. Il risalto nell'articolo è stato aggiunto. M.C.
di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno
In questo ultimo periodo stiamo assistendo ad una offensiva inimmaginabile, da parte dell'attuale Esecutivo, con la sua forzatura nella somministrazione dei vaccini anti Covid-19. Gli ultimi provvedimenti legislativi hanno evidenziato l'aggressività e il tentativo impositivo da parte del Governo Draghi di indurre la popolazione italiana a vaccinarsi. Se non riguardasse un fatto così grave, che inerisce a un tema così vitale per la nostra salute e per la tutela dei nostri diritti costituzionali, oserei affermare, sarcasticamente, che ci troviamo di fronte alle "comiche finali". Purtroppo, non è né una sceneggiatura di un film comico o di fantascienza e tanto meno di un thriller, ma siamo di fronte ad una deriva incostituzionale, sia nel merito dei principi che il Governo in modo recidivo sta violando e sia per quanto riguarda la procedura legislativa che sta attuando per realizzare queste violazioni. Il fatto che la quantità di vaccini acquistati dallo Stato italiano si avvicina alla sua scadenza di ottobre è ormai risaputo e per questo, il generale Francesco Paolo Figliuolo, acclamato come una sorta di "salvatore della Patria" si sta prodigando a incrementare il più possibile la somministrazione di questi vaccini. E per questo stesso motivo il presidente del Consiglio si sta prestando ad escogitare tutte le restrizioni possibili, per impedire la facoltà di scelta dei cittadini italiani riguardo al loro diritto di non essere obbligati a un determinato trattamento sanitario, appunto, se non per disposizione di legge (ex articolo 32 della Costituzione). Tra le mie competenze professionali non rientrano certamente quelle mediche e tanto meno aspiro a millantarle, come al contrario molti cercano di fare, ma sicuramente nessun può impedirmi di informarmi e fare delle analisi su dati e fatti oggettivi al riguardo. Prima di tutto merita sindacare il metodo legislativo utilizzato dal Governo, ossia l'atto avente forza di legge legiferato in casi di necessità ed urgenza, il decreto- legge. Non solo non ci sono i presupposti per utilizzare il decreto-legge, in quanto non vi è nessun caso di necessità ed urgenza, tanto più che il livello della pandemia è sotto controllo e sotto i parametri considerati pericolosi per la salute pubblica. Qualcuno avrà da obiettare che è stato prorogato lo stato di emergenza, ma anche questo è ingiustificato, visto che non solo non siamo in uno stato di guerra, unica condizione costituzionale che lo autorizzerebbe, ma attualmente non esiste neanche alcuna emergenza sanitaria, visto che l'Italia è di colore bianco in ciascuna sua regione. Quindi, siamo al cospetto di una evidente violazione della nostra Costituzione, il cui principale garante, ovvero il presidente della Repubblica, rimane completamente inerte di fronte a tale attentato alla Costituzione. Inoltre, la legiferazione del provvedimento "sovietico" e discriminatorio, nonché lesivo delle nostre libertà costituzionali, ossia il "Green pass", tramite un nuovo decreto-legge che reitera l'introduzione di un provvedimento già presentato in un precedente decreto-legge decaduto, perché non convertito in legge entro 60 giorni con la maggioranza dei voti del Parlamento, come prevede la nostra Costituzione, determina la sua nullità. Infatti, la lettera d dell'articolo 15 della legge numero 400 del 23 agosto del 1988, stabilisce che "il Governo non può, mediante decreto-legge ... d) regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti". L'unico modo per legiferare un provvedimento precedentemente inserito in un decreto-legge non convertito in legge e quindi decaduto è farlo approvare dal Parlamento, inserendolo in una legge ordinaria. Inoltre, entrando sempre nel merito del provvedimento che istituisce il "Green pass", si evince la non conoscenza e comunque la mancanza di rispetto della normativa europea, nel passaggio in cui prevede che siano i titolari degli esercizi commerciali a richiedere la visione e il controllo di tale documento, non sapendo o fingendo di non sapere che questo non è possibile, perché violerebbe il nuovo Regolamento europeo sul trattamento dei dati sensibili e personali (Gdpr), visto che solo un pubblico ufficiale può esercitare tale funzione. Quindi, anche per questo motivo, il provvedimento in parola risulterebbe nullo. A questo punto, c'è da considerare se questo provvedimento non serva solo a terrorizzare e velocizzare le somministrazioni dei vaccini, da smaltire prima che a ottobre scadano, perché sarebbe impensabile che Mario Draghi e la sua maggioranza non sapessero o non fossero venuti a conoscenza di questa ulteriore violazione del Gdpr. Dunque, passando all'analisi del merito del "Green pass", risulta alquanto sconcertante che Draghi l'abbia presentato come l'unico modo per salvare la popolazione dalla morte per Covid-19, in quanto sostiene che solo con la vaccinazione, per cui il "Green pass" verrà rilasciato, gli italiani saranno immuni sia dal contagio che dal contagiare gli altri e anche dal morire a causa di tale virus, tutto ciò senza alcuna documentazione scientifica mostrata e dimostrata al riguardo da dati certi e determinati in un tempo scientificamente plausibile. Perfino il ministro alle Infrastrutture e Mobilità sostenibili, Enrico Giovannini, ha smentito lo stesso Draghi, durante un suo intervento in una puntata della trasmissione televisiva "Porta a Porta" della Rai, in cui ha affermato che chi si vaccina può comunque contagiare gli altri, lasciando interdetto lo stesso presentatore Bruno Vespa. In questa occasione eviterò di citare ciò che hanno affermato scienziati e medici, nonché premi Nobel per la Medicina come Luc Montagnier, che con documenti e studi scientifici asserisce l'inefficacia e soprattutto la possibile nocività a medio e lungo termine dei vaccini a tecnologia M-Rna e degli altri vaccini alternativi, sempre anti Covid-19, visto che per i danni immediati abbiamo già verificato che il 4 per cento (dichiarato ufficialmente) dei vaccinati ha subito delle trombosi ed ictus, a volte letali, a causa del vaccino. Detto ciò, non posso esimermi dal citare dei fatti, partendo da quello più recente, ossia che più della metà dei malati gravi ospedalizzati in Israele, a causa del Covid-19, sono vaccinati. Un altro fatto che voglio evidenziare è quello che l'Ema (Agenzia europea per i medicinali) prevede per ogni nuovo vaccino una procedura ordinaria di controllo che va da 3 anni a 5 anni e che, solo quando non esistono cure immediate per contrastare un virus, subentra la procedura emergenziale e proprio per questo bisogna denunciare che quelle cure già esistenti, non sono state autorizzate, nonostante la loro efficacia, come la cura degli anticorpi monoclonali, per esempio. Ormai è palese quanto gran parte della popolazione italiana sia inebetita e terrorizzata dai media militarizzati, che ogni giorno decantano presunti dati a favore dei vaccini e paventano la morte per chi non si vaccina, oltre alla velata minaccia di essere "ghettizzati" socialmente qualora non si vaccinassero. Questo modus operandi del Governo e dei media, dallo stesso finanziati per promuovere la campagna vaccinale, insieme alla solita corte di nani e ballerine, che non si risparmiano mai di essere dei "servi sciocchi" o dei cortigiani ben remunerati , per avallare il millantato beneficio dei vaccini, non fa altro che risvegliare l'antico vizio gattopardesco e pusillanime nel suo opportunismo, anche se autolesionista, dell'italiano medio, che come un servo abituato alla sua catena, invece di ribellarsi, preferisce inocularsi ciò di cui non conosce gli effetti collaterali, pur di sfoggiare il suo nuovo "titolo" di Green pass, pensando di ottenere quella libertà che gli spetta già di diritto, ma che egli stesso ha permesso che gli venisse concessa anziché costituzionalmente riconosciuta senza il bisogno di alcun Green pass. Dopo tutto, l'immaturità incolta e qualunquista della gran parte degli italiani è radicata nella sua storia indigena. Oltre a quello che è stato finora esposto, è importante evidenziare quanto questa vicenda abbia fatto scatenare la natura d'inquisizione atavicamente radicata nella cultura di matrice papista che la sinistra italiana, con la sua cultura catto-comunista, composita all'interno con le sue diverse sfaccettature, ha ben assorbito, sempre alla ricerca di un avversario da demonizzare come nemico dell'umanità o di un capro espiatorio da ghettizzare, sempre pronta alla "caccia alle streghe" nei confronti di chi non la pensa come il pensiero unico della Sinistra impone. Perché per questi soloni, sedicenti detentori della verità assoluta, solo le élite (a cui essi stessi sono asserviti) "conoscono" il bene per la società, e per questo stesso motivo assistiamo alla surreale metodologia di cronaca e di analisi degli eventi da parte dei media e dell'attuale maggioranza parlamentare, secondo cui le manifestazioni a favore del Ddl Zan sono accettabili e non contagiano nessuno, mentre coloro che manifestano per il loro diritto costituzionale di scegliere il trattamento sanitario più opportuno, ricevono degli anatemi ed insulti di tutti i tipi e vengono additati come pericolosi ed irresponsabili untori della collettività. Siamo arrivati al triste paradosso che gli immigrati che sbarcano in Italia clandestinamente non devono mostrare alcun "Green pass", mentre gli italiani saranno costretti a farlo. In finale, da tutta questa vicenda si ricava una sola considerazione, alquanto sbalorditiva, ossia che la mala fede pianificata da certe élite abbia trovato terreno fertile nell'incapacità di reagire e analizzare i fatti per quello che oggettivamente sono e non per quello che vogliono far credere che essi siano, al punto da vedere la maggioranza di un popolo in preda ad una dissonanza cognitiva (come la definisce Alessandro Meluzzi) che, ahimè, lascia molto poco spazio a qualsiasi ottimismo di far riemergere il buon senso e le capacità di discernimento. Et posteris judicas ...
(l'Opinione, 28 luglio 2021)
La vendetta di Lieberman: far lavorare gli haredim
di Giordano Stabile
Avigdor Lieberman prepara la sua vendetta contro gli ultra-ortodossi, gli haredim. Fra i risvolti della fine dell'era Netanyahu in Israele c'è anche questo. L'ex premier aveva come alleati più fidati i due partiti religiosi conservatori. Per Lieberman, leader della destra laica e soprattutto degli elettori di origine russa come lui, erano la bestia nera. Nell'ultima campagna l'avevano persino accusato di non essere un «vero ebreo», come tanti immigrati dall'ex Unione Sovietica. Lui li aveva definiti «renitenti alla leva», perché sono esentati dal servizio militare, ben tre anni, oltre a ricevere sussidi di tutti i tipi. E aveva promesso che se fosse tornato al governo, come è stato con il nuovo primo ministro Naftali Bennet, li avrebbe privati dei loro «privilegi». In realtà gli haredim sono fra le comunità più povere dello Stato ebraico. Soltanto metà degli uomini adulti ha un lavoro a tempo pieno, e questo perché gli obblighi religiosi sono molto pesanti, e comportano lo studio continuo dei testi sacri. Gli altri si dedicano a tempo pieno alla Torah nelle yeshivot, i seminari giudaici. Per contro circa i tre quarti delle donne lavorano, oltre a dovere accudire in media sei bambini, il triplo che nelle altre famiglie israeliane.
Il risultato è gran parte dei nuclei famigliari tira avanti con gli aiuti di Stato, soprattutto per i figli minori. Lieberman si è attaccato proprio a questi, e ha presentato una proposta di legge per togliere i sussidi per gli asili nido che spettano ai piccoli di meno tre anni, se il padre non esercita nessuna professione. Una norma che andrà a impattare almeno 20 mila nuclei famigliari e quasi 100 mila haredim sul milione che abita in Israele. I due partiti religiosi sefardita e ashkenazita, Shas e Torah Unita, hanno subito alzato le barricate, i rabbini ultra-ortodossi hanno promesso «l'inferno» a chi voterà la legge ma Lieberman ha replicato che «nella Torah non c'è mica scritto che non si può lavorare». Un tono populista, ma che si appoggia anche a un rapporto della Banca centrale, in base al quale è «una questione strategica» convincere il maggior numero possibile di haredim a entrare nel mondo del lavoro. Lieberman punta a eliminare sussidi che in media valgono 260 euro al mese a tutti quelli che non lavorano almeno 24 ore alla settimana, oltre a modificare i programmi nelle scuole private, con «più matematica e inglese». Un banco di prova per Bennett.
(Specchio, 8 agosto 2021)
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Il giusto timore dei giudizi di Dio
Riflessioni sul libro dei Proverbi. Dal capitolo 5.
- Infatti le vie dell’uomo stanno davanti agli occhi del SIGNORE,
egli osserva tutti i suoi sentieri.
- L’empio sarà preso prigioniero dalle proprie iniquità,
tenuto stretto dalle funi del suo peccato.
- Egli morirà per mancanza di correzione,
andrà vacillando per la grandezza della sua follia.
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Infatti le vie dell’uomo stanno davanti agli occhi del SIGNORE,
egli osserva tutti i suoi sentieri.
Mentre il rapporto sessuale degli sposi avviene nel privato, quello degli adulteri avviene nel segreto. Non è una differenza di poco conto. L'appartarsi degli sposi costituisce uno schermo voluto da Dio per proteggere dal male la santità del rapporto matrimoniale; la segretezza degli adulteri è invece un paravento di menzogna dietro il quale i peccatori vorrebbero nascondersi agli occhi degli uomini e, se fosse possibile, a quelli di Dio. L'adulterio cerca "protezione" nelle tenebre. Ma se con gli uomini qualche volta questo funziona, nei confronti di Dio non serve a niente, perché non v’è nessuna creatura che possa nascondersi davanti a lui; ma tutte le cose sono nude e scoperte davanti agli occhi di colui al quale dobbiamo render conto” (Ebrei 4.13).
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L’empio sarà preso prigioniero dalle proprie iniquità,
tenuto stretto dalle funi del suo peccato.
Le tenebre sono una prigione, non una protezione. La rete di menzogne necessaria per mantenere in piedi una relazione illecita diventa ben presto una maglia soffocante che si stringe sempre di più intorno al malcapitato. L'adulterio, come ogni peccato che dura nel tempo, deve essere sempre accompagnato da tanti altri peccati. E questi costituiscono altrettante funi che costringono il peccatore a rimanere legato alle conseguenze delle sue scelte. Anche in questo caso si confermano vere le parole di Gesù: ”In verità, in verità vi dico che chi commette il peccato è schiavo del peccato” (Giovanni 8.34).
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Egli morirà per mancanza di correzione,
andrà vacillando per la grandezza della sua follia.
Il verbo "vacillare" coincide, nell'originale ebraico, con quello che nei versetti 5.19 e 5.20 viene tradotto con "invaghire". Il termine sembra esprimere uno stato d'animo di ebbrezza che può condurre, a seconda dei casi, a fare scelte sia giuste, sia sbagliate. Accostando i tre versetti si può arrivare allora a questa conclusione: se un uomo rifiuta di essere "inebriato" dall'amore per sua moglie e si lascia "inebriare" dal fascino della straniera, finirà inevitabilmente per essere "inebriato" dalla sua stessa follia, e non essendo quindi più raggiungibile dalla correzione della saggezza, che è ”la via della vita” (6.23), arriverà sicuramente al preordinato traguardo del suo percorso: la morte.
M.C.
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Il nuovo farmaco israeliano anti Covid: “Guarisce pazienti gravi in 5 giorni”
di Federico Giuliani
Un nuovo farmaco israeliano potrebbe sferrare il colpo decisivo al Sars-CoV-2. È ancora presto per fare proclami ufficiali, visto che il suddetto prodotto si trova ancora nel bel mezzo della sperimentazione di Fase 2. Eppure, le prime indicazioni raccolte sul campo autorizzano gli esperti a tirare un bel sospiro di sollievo.
Il test è stato effettuato su un gruppo di 90 pazienti infettati dal coronavirus in forma grave e ricoverati in diversi ospedali greci. Il 93% di loro, dopo aver assunto il farmaco sviluppato da un team del Sourasky Medical Center di Tel Aviv, è stato dimesso in appena cinque giorni o addirittura in un lasso di tempo minore. Secondo quanto riportato dal Jerusalem Post, lo studio di Fase II ha confermato i risultati ottenuti dagli scienziati in Fase I.
Quest’ultima è stata condotta in Israele lo scorso inverno dando ottime risposte. Già, perché all’epoca, su 30 pazienti contagiati da forme di Covid che andavano da moderate a gravi, 29 sono riusciti a riprendersi nel giro di pochi giorni. Adesso, a distanza di qualche mese, ecco nuove prove derivanti dalla Fase II a suggellare l’eccellente azione del farmaco.
• COME FUNZIONA IL NUOVO FARMACO ISRAELIANO L’obiettivo principale degli studi era quello di verificare che il farmaco fosse sicuro. Fino ad oggi non abbiamo registrato alcun effetto collaterale significativo in nessun paziente di entrambi i gruppi”, ha affermato il prof. Nadir Arber. Dal punto di vista tecnico, lo studio è stato condotto ad Atene, e non ad Israele, per un motivo semplice: a Tel Aviv e dintorni non vi erano abbastanza pazienti affetti da forme gravi.
In ogni caso, Arber e il suo team hanno sviluppato il farmaco sulla base di una molecola che lo stesso Arber studia da 25 anni. Si tratta della cosiddetta molecola CD24, che è naturalmente presente nel nostro organismo. Scendendo nel dettaglio, il farmaco sarebbe in grado di combattere la tempesta di citochine, una reazione immunitaria potenzialmente letale legata all’infezione da Sars-CoV-2, responsabile di un elevato numero di decessi.
In generale, “è importante ricordare che 19 pazienti su 2 non hanno bisogno di alcuna terapia”, anche se, dopo una finestra di 5-12 giorni, quasi il 5% dei pazienti inizia a peggiorare, ha affermato Arber. Il motivo principale del loro deterioramento? Un’elevata attivazione del sistema immunitario, la citata tempesta di citochine. In alcuni casi accade che il sistema immunitario inizia ad attaccare le cellule sane nei polmoni. E a quel punto sono guai seri.
• RISULTATI CHE FANNO BEN SPERARE
Tornando alla CD24, questa non è altro che una piccola proteina ancorata alla membrana delle cellule. Svolge varie funzioni, tra cui la regolazione del meccanismo responsabile della famigerata tempesta di citochine. Il trattamento, chiamato EXO-CD24, non colpisce il sistema immunitario nella sua interezza, ma solo ed esclusivamente questo meccanismo, aiutandolo a ritrovare il corretto equilibrio. “Questa è medicina di precisione. Stiamo bilanciando la parte responsabile delle tempeste di citochine utilizzando il meccanismo endogeno del corpo, ovvero gli strumenti offerti dal corpo stesso”, ha aggiunto il professor Arber.
Adesso tutti gli sforzi saranno orientati per la realizzazione dell’ultima fase dello studio, al quale prenderanno parte 155 pazienti infetti. A due terzi di loro sarà iniettato il farmaco; ai rimanenti un placebo. L’obiettivo è completare il tutto entro la fine del 2021. Nel caso in cui non dovessero esserci intoppi, e tutto dovesse andare per il meglio, il trattamento EXO-CD24 potrebbe essere reso disponibile in tempi relativamente brevi e, per di più, a basso costo.
(Inside Over, 7 agosto 2021)
Dal Libano razzi su Israele ma i cittadini si ribellano
Gli abitanti delle zone controllate da Hezbollah non vogliono subire la reazione dello Stato ebraico.
di Davide Frattini
Questa volta le scie nel cielo e il fumo degli incendi causati dalle esplosioni non sono serviti a mantenere una cortina di ambiguità. Hezbollah ha rivendicato il lancio di 19razzi sul Nord di Israele, la maggior parte intercettati dal sistema Cupola di Ferro. E una rappresaglia - scrive in un comunicato l'organizzazione libanese filoiraniana - per i bombardamenti di giovedì sul Libano, dichiara di aver mirato a zone non abitate. I jet israeliani avevano risposto giovedì a un attacco sulla città di Kiryat Shmona; ancora razzi, senza però una firma. L'intelligence israeliana presume si tratti di gruppi palestinesi.
Che in ogni caso per operare nel Sud del Libano hanno bisogno del benestare dei comandanti di Hezbollah. In queste aree gli abitanti sembrano per la prima volta ribellarsi a essere usati come base di lancio. Sui social sono apparsi i video che mostrano i drusi del villaggio di Chouya che fermano un pick-up pieno di razzi, probabilmente quelli appena usati. Impediscono ai miliziani di muoversi, ne prendono a schiaffi uno in borghese, aspettano che arrivino i soldati dell'esercito libanese. Sanno che i raid vicino ai loro campi li espongono ai colpi di artiglieria israeliani in risposta.
Sul fronte Nord convergono gli eventi di questi giorni: l'insediamento di Ibrahim Raisi come presidente dell'Iran, il caos libanese che rischia di tracimare dall'altra parte, la tentazione dell'asse iraniano di mettere alla prova il neo-governo guidato a Gerusalemme da Naftali Bennett. Gli analisti avvertono:un errore di calcolo e questo ping pong bellico potrebbe diventare conflitto aperto.
Hezbollah avrebbe l'interesse a distogliere l'attenzione dall'anniversario - il 4 agosto - dell'esplosione al porto di Beirut, commentano fonti dell'esercito al quotidiano Haaretz: «Il Paese è al collasso e i leader vogliono allontanare le critiche mettendo Israele in mezzo». Migliaia di libanesi hanno marciato contro i politici corrotti e per chiedere un'inchiesta che individui i responsabili del disastro di un anno fa, alcuni striscioni portavano scritto lo slogan: «Iran fuori dal Libano».
Bennett, che è stato ministro della Difesa, e Benny Gantz, il ministro della Difesa che è stato capo di Stato Maggiore, sembrano essere stati presi di sorpresa dai razzi di ieri. «Siamo pronti a colpire l'Iran», ha già minacciato Gantz nei giorni scorsi. Adesso lo Stato Maggiore è convinto che Hezbollah non voglia spingere verso uno scontro più ampio e spiega di avere piani «per reagire con azioni allo scoperto e operazioni segrete», se le truppe irregolari non dovessero fermarsi.
(Corriere della Sera, 7 agosto 2021)
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Pioggia di razzi su Israele. Hezbollah alza il tiro: “Li abbiamo lanciati noi”
Dal Libano 19 missili contro il Paese ebraico. Sospetti di un patto con Hamas. I residenti libanesi contro il Partito di Dio: “Ci mettete in pericolo”.
di Sharon Nizza
TEL AVIV - Dopo 19 razzi lanciati ieri dal Libano verso il nord d’Israele – quasi tutti intercettati da Iron Dome – a lasciare interdetti gli israeliani più che l’insolita potenza dell’attacco è stata la rivendicazione: la firma questa volta è di Hezbollah, dopo che altri cinque lanci da maggio erano stati attribuiti a movimenti palestinesi attivi nel sud del Paese dei Cedri.
In una nota ufficiale, il Partito di Dio ha affermato che l’attacco è una rappresaglia per i raid aerei israeliani avvenuti la notte precedente. Per la prima volta dal 2013, i caccia israeliani avevano colpito zone disabitate sotto il controllo di Hezbollah in risposta al lancio di tre razzi il giorno prima. Il portavoce dell’esercito israeliano dice che «nessuna delle parti vuole la guerra, ma non accetteremo che ogni due o tre settimane si spari dal nord».
Israele ha risposto con colpi di artiglieria, ma di fronte all’aperta rivendicazione di Hezbollah, il rischio escalation rimane alto. Specie se considerato il più ampio scenario dello scontro con l’asse iraniano, che ha raggiunto un nuovo picco la settimana scorsa con l’attacco mortale alla petroliera Mercer Street nel Golfo dell’Oman, attribuito ieri anche dal G7 a Teheran che «con i suoi delegati minaccia la pace e la sicurezza internazionali».
Gerusalemme cerca il coinvolgimento degli alleati anche per mantenere la calma sul fronte nord. In un colloquio con l’omologo americano, il ministro della Difesa Benny Gantz ha chiesto «alla comunità internazionale, e in particolare agli Usa, di esigere dal governo libanese di mettere fine ai lanci verso Israele, alla luce della volatile situazione in Libano». Hezbollah potrebbe volere scaldare il confine per distogliere l’attenzione dalla critica interna a cui è sottoposto a causa della crisi umanitaria, in particolare a due giorni dalle imponenti manifestazioni in commemorazione dell’esplosione al porto di Beirut, in cui è risuonato anche lo slogan “Iran fuori dal Libano”. Ieri un raro episodio ha dato la misura del fatto che i libanesi stessi potrebbero non tollerare questo gioco pericoloso: video diventati virali mostrano residenti del villaggio druso Shwaya, nei pressi della zona da cui è partito l’attacco, che assalgono un lanciarazzi e uomini di Hezbollah, accusando il movimento sciita di sparare da zone abitate.
L’esercito libanese ha in seguito comunicato di aver sequestrato il lanciarazzi e arrestato quattro operativi. «Il Libano non è parte dello scontro tra Israele e Iran nel Golfo dell’Oman», ha twittato l’ex premier Saad Hariri, «il nostro popolo già soffre sotto il peso del collasso economico».
Per quanto il Libano verta nel caos, la valutazione in Israele è che Hezbollah continui ad avere il polso della situazione nel sud e i cinque attacchi precedenti, quelli attribuiti ai palestinesi, sarebbero parte di un’intesa tra il Partito di Dio e Hamas: sviare l’attenzione al nord con lanci sporadici per incalzare un nuovo accordo sull’ingresso dei milioni del Qatar a Gaza. Il flusso, interrotto con l’ultimo conflitto di maggio, dovrebbe rinnovarsi a breve con la mediazione di Ramallah, sempre che la tensione al nord non cambi le carte in tavola.
«C’è una linea comune tra i recenti eventi nel Golfo, in Libano e a Gaza» dice Michael Milstein, ricercatore dell’Università di Tel Aviv con un passato nell’intelligence militare. «C’è un tentativo di disegnare nuove regole del gioco contro Israele, per testare il nuovo governo, così come quello Usa». E per quanto sia nell’interesse israeliano mantenere il confine libanese calmo - specie in un frangente critico nel contenimento dell’ondata Delta in cui a Gerusalemme si pronuncia nuovamente la parola lockdown – resta alto il timore che la situazione possa sfuggire di mano.
(la Repubblica, 7 agosto 2021)
Due passi dentro la “VERA” resistenza iraniana
Due parole con la "vera" resistenza iraniana. Perché i persiani non sono “cammellieri arabi”, sono colti e fieri e bramano la libertà dagli Ayatollah
di Franco Londei
In Iran è iniziata l’era di Ebrahim Raisi e com’era prevedibile non solo non cambia nulla nei confronti di Israele, ma addirittura la situazione peggiora e probabilmente siamo sull’orlo di uno scontro diretto. Ma con l’elezione del boia di Teheran non è solo Israele a dover fare i conti con un importante inasprimento della tensione, anche gli iraniani non stanno messi proprio bene, almeno quei milioni che vorrebbero la fine del regime degli Ayatollah. Proprio pochi giorni fa mi è venuto a trovare il mio vecchio amico Shahyar, membro della resistenza iraniana (nulla a che vedere con il MEK) e rifugiato in Italia con tutta la sua famiglia. Il vecchio amico mi raccontava di temere per i suoi famigliari rimasti in Iran, i genitori e i suoceri, che con Rohuani non hanno avuto grossi problemi ma che non appena eletto Raisi si sono visti piombare in casa le “camice nere iraniane”, i fantomatici e fanatici Basij, la milizia paramilitare agli ordini dei Guardiani della Rivoluzione Iraniana. Gli hanno chiesto se erano in contatto con i loro congiunti fuggiti in Italia e se erano in contatto con il MEK, perché in Iran la resistenza per essere denigrata viene sempre associata ai Mojahedin del Popolo Iraniano, quando invece la vera resistenza iraniana è lontanissima dai Mullah in esilio. E così si è finiti a parlare degli iraniani e di quanto questo popolo fiero e colto sia lontano dagli Ayatollah e dalla loro teologia assassina. Certo, nelle campagne dove regna l’ignoranza i Mullah sono ancora fortissimi, ma nelle grandi città ormai non li sopporta più nessuno. E nessuno capisce perché l’Iran si debba mettere in conflitto continuo con Israele. Perché gli Ayatollah spendono miliardi di dollari che potrebbero essere usati nello sviluppo dell’Iran, per sostenere gruppi terroristici in configurazione anti-israeliana.
Gli iraniani sono lontanissimi dal considerare Israele e gli israeliani alla stregua di un nemico. Noi siamo persiani non cammellieri arabi
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Gli iraniani sono lontanissimi dal considerare Israele e gli israeliani alla stregua di un nemico. Noi siamo persiani non cammellieri arabi» mi dice fiero Shahyar. «I persiani non odiano gli ebrei o Israele. Anzi, come loro abbiamo una storia millenaria, ci piace la modernità, lo sviluppo scientifico e come loro guardiamo avanti» continua Shahyar. «La cosiddetta “rivoluzione iraniana” ci ha scaraventati nel Medio Evo islamico quando tutti noi volevamo solo liberarci di Reza Pahlevi e instaurare una vera democrazia, non passare da un regime sanguinario ad un altro» continua. «Ma gli iraniani veri, i persiani non i cammellieri, non hanno nulla a che vedere con gli Ayatollah e quando lo abbiamo dimostrato con il Movimento Verde il mondo non ci ha supportati, anzi ci ha abbandonati». Conosco già questi discorsi, li abbiamo fatti un sacco di volte io e Shahyar, ma ogni volta resto sorpreso, colpito dal suo onesto livore e dal suo orgoglio persiano. «In tanti ci dicono “ma perché non mandate via gli Ayatollah?”» continua Shahyar. «Come se fosse una cosa facile. Con i Guardiani della Rivoluzione che controllano praticamente ogni singola porzione del Paese e dove non arrivano loro ci arrivano i Baij, le SS del regime». «Siamo in un vicolo cieco» continua. «Non riusciamo a organizzare una resistenza seria al regime. Non bastano le grandi città. Se non riusciamo a sfondare nelle zone rurali, nel bacino di consenso degli Ayartollah, non andiamo da nessuna parte». So già che le zone rurali sono diffidenti ai cambiamenti e che sono la solida base di consenso sulla quale poggiano gli Ayatollah, ma pensavo che con la crisi nella quale è sprofondato l’Iran delle sanzioni anche le zone rurali si sarebbero unite al dissenso delle città. «Sbagli» mi dice l’amico Shahyar. «Loro sentono di meno la crisi perché i prezzi sono più bassi e la loro è una economia si sussistenza. Hanno di che vivere e questo gli basta. Di tutto il resto non si interessano».
Se gli Ayatollah arrivano alla bomba non li ferma più nessuno
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«Se gli Ayatollah arrivano alla bomba non li ferma più nessuno» mi dice all’improvviso. «Se adesso un vero atto ostile potrebbe spiazzarli e soprattutto potrebbe spiazzare le guardie rivoluzionarie, se arrivano alla bomba non cadranno mai e non si faranno nemmeno scrupolo di usarla» dice quasi rassegnato. Gli chiedo se per “vero atto ostile” intenda un attacco militare e mi conferma che intende un attacco alle centrali nucleari, l’arma definitiva degli Ayatollah. «Se gli togli quelle non hanno più niente. Ma se le lasci integre e lasci che arrivino alla bomba è finita» specifica. «L’occidente deve capire che gli iraniani sono prigionieri degli Ayatollah e soprattutto dei Guardiani della Rivoluzione islamica. Capirebbero qualsiasi atto ostile che non sia un attacco che uccida civili ma che possa indebolire i loro boia». E qui c’è la domanda delle domande. Lo capiranno soprattutto gli americani che lasciare che gli Ayatollah arrivino alla bomba è prima di tutto un “de profundis” per il popolo iraniano, addirittura prima ancora che una minaccia esistenziale per Israele?
(Rights Reporter, 7 agosto 2021)
Spunta pure la gogna di Stato per gli alunni non vaccinati
Anni a parlare di privacy, inclusività e rispetto. Poi nel dl è prevista la deroga all' obbligo di mascherina in classe solo se tutti hanno fatto la puntura. Senza modifiche entro settembre, partirà la caccia ai renitenti.
di Federico Novella
Il pensiero unico entra nelle scuole. E ci entra con la sensibilità di un panzer. All'articolo 1 comma 3 dell'ultimo decreto del governo, sta scritto che si potrà fare a meno delle mascherine in classe «qualora alle attività didattiche e curriculari partecipino esclusivamente studenti che abbiano completato il ciclo vaccinale o che abbiano un certificato di guarigione». Proprio così: a scuola si potranno togliere le mascherine, a patto che sui banchi regni l'unanimità vaccinale. E stavolta nel palazzo fanno sul serio: non esistono scappatoie, non c'entrano green pass né tamponi. O vaccino o mascherina. E se anche un solo bambino rifiutasse (o non potesse fare) l'iniezione? Allora nisba. Per colpa della piccola (parliamo di over 12) pecora nera, tutti imbavagliati per l'anno scolastico a venire. Un po' come nel film Full metal jacket, quando l'intero plotone è costretto ad ammazzarsi di flessioni perché la recluta "Palla di lardo», derisa da tutti, aveva infranto le regole mangiando un pasticcino. Eppure, il ministro dell'Istruzione, Patrizio Bianchi, esulta: «Invitiamo sempre a tenere la mascherina, ma se in classe sono tutti vaccinati sarà una gioia per tutti toglierla».
Più che una gioia, è un trucchetto psicologico per spingere al vaccino, che è chiaro a tutti nella sua follia. Già ci immaginiamo le dita puntate, in classe, contro i ragazzini non vaccinati: guastafeste che obbligano l'intera scolaresca a indossare l'odiata mascherina. Decida il lettore come chiamare questa pazzia: gogna scolastica a norma di legge? Delazione minorile con bollino governativo?
La parte surreale della faccenda è che nello stesso decreto, due righe più in alto, si specifica graziosamente che queste decisioni servono "ad assicurare il valore della scuola come comunità e tutelare la sfera sociale e psico-affettiva della popolazione scolastica». Alla faccia: per tutelare la sfera sociale dei bambini, discriminiamo quelli senza vaccino? E il metodo Montessori del governo: non potendo - o non volendo imporre l'obbligatorietà vaccinale a un dodicenne, non resta che rovinargli la vita sociale, nella speranza di farlo sentire in colpa. I piccoli reprobi possono tranquillamente frequentare in presenza: purché dietro la lavagna, con le orecchie d'asino in testa, potenziali untori, una palla al piede per tutti. E pensare che abbiamo passato l'estate a riempirci la bocca di belle parole: inclusività, accoglienza, rispetto delle diversità. Ricordiamocelo, alla prossima campagna governativa di sensibilizzazione contro il bullismo: perché, se questo non è bullismo di Stato, poco ci manca.
Senza contare un leggerissimo effetto collaterale: la riservatezza dei dati sanitari andrà a farsi benedire. Ditemi che senso ha continuare a stipendiare un Garante della privacy, nel momento in cui ogni bambino dovrà dichiarare al mondo il suo stato di salute, l'immunità vaccinale, l'eventuale guarigione, ivi comprese quelle fragilità che magari gli impediscono di assumere il siero. Persino ai ragazzi più problematici questa norma impone di squadernare urbi et orbi la propria condizione, per far sì che gli altri possano condannarti o applaudirti. Ogni mamma che abbia messo piede in una scuola italiana sa già come andrà a finire: già al primo giorno di lezione tutti sapranno chi è vaccinato e chi no. E al secondo giorno, sarà già scattata la caccia alle streghe no vax, magari con l'ausilio nefasto delle chat di classe di genitori e amichetti. Con il rischio che alla gogna scolastica si aggiunga la gogna social. Quale sarà il prossimo passo? La vaccinazione inserita in pagella? Farà media nei giudizi insieme a storia, italiano e matematica? Oppure l'inoculazione Pfizer influirà sul voto in condotta?
Ricordiamoci poi un piccolo particolare: i protagonisti di questo scempio sono quasi tutti minorenni, e dunque non hanno facoltà di decidere in autonomia sul vaccino (anche se il Comitato di bioetica ha fatto capire che, solo se si vaccinano, possono contraddire la volontà dei genitori). Questo vuol dire che un ragazzo pagherà in termini sociali una decisione che ovviamente spetta comunque in buona parte ai genitori. E parliamo di milioni di studenti. Attualmente i ragazzi nella fascia 12-19 anni immunizzati con due dosi di vaccino sono poco più del 20% del totale: questo vuol dire che 3 milioni e 600.000 ragazzi italiani saranno drammaticamente esposti, loro malgrado, al giudizio dell'Inquisizione vaccinale. Alcuni di loro nascono in famiglie di squinternati no vax, e non si capisce perché i figli debbano pagare per le storture dei padri. Ma molti altri hanno dei genitori che semplicemente si sono presi tempo per riflettere, anche sulla base del fatto che gli scienziati inglesi e tedeschi non hanno promosso il vaccino in età scolare.
Ma, a quanto pare, riflettere è un'attività sconsigliata dal Cts. Bisogna agire e basta, con la massima urgenza. Anche sacrificando le basi della logica. Ci hanno detto per settimane che bisogna fermare il contagio delle scuole, che tutto passa dalle scuole, che bisogna tenere d'occhio le scuole. E loro cosa fanno? Tolgono le mascherine dalle scuole. Proprio in classe, dove si sta gomito a gomito per otto ore di fila. Qual è il senso? Se, come è ormai chiaro, i vaccinati contagiano e sono contagiati, perché togliamo la mascherina agli alunni? Con quale coerenza scientifica nello stesso decreto mettiamo i vaccinati in quarantena se a contatto con un positivo (ritenendoli contagiosi: altrimenti perché?) ma consentiamo agli studenti vaccinati di girare a scuola a volto scoperto (ritenendoli in questo caso non contagiosi)?
Anziché rispondere a queste domande, i virologi alla Matteo Bassetti liquidano la questione a modo loro: «Siamo in guerra: a mali estremi, estremi rimedi». Ecco, premesso che questa storia del clima di guerra sta giustificando ogni nefandezza, la domanda è un'altra: siamo proprio sicuri di voler portare la guerra anche nelle scuole? Siamo proprio sicuri di voler mandare in trincea gli alunni, schierando le famiglie le une contro le altre? Siamo proprio sicuri - lo chiediamo agli psicologi e ai pediatri italiani - che fare leva sui sensi di colpa di un adolescente sia davvero la strada più giusta? Siamo proprio sicuri che questi metodi da Germania Est possano convincere una eventuale madre no vax a vaccinare il figlio?
(La Verità, 7 agosto 2021)
E' inutile cercare motivazioni sanitarie logiche nelle norme governative che obbligano a vaccinarsi; la logica va cercata nelle motivazioni politiche che obbligano ad usare il green pass. Non è l'interesse per la salute dei cittadini che si esprime nella logica di una norma, ma la rintracciabilità del loro muoversi in società. E la logica è questa: la norma è tanto più valida quanto più costringe a procurarsi il green pass governativo. M.C.
Errore politico inseguire i no vax
di Fiamma Nirenstein
In questi giorni in Israele (e a breve in tutta Europa) gli over 60 sono in coda per la terza dose di vaccino. È questa la libertà: quella di fare ciò che è giusto per sé e per la società intera secondo il buon senso, e ciò che ti viene indicato con il criterio del bene comune dal governo eletto. E chi non distingue la regola definita per il bene comune da una malvagia acquisizione di potere, peggio per lui. È nella Bibbia. Mosè diventa un uomo libero quando scende dal Monte con in mano la regola: quella è la libertà. Perché sono le leggi, e oggi le Costituzioni, che formano l'uomo libero. Anche quello che crede che libertà sia contestare il minimale diritto alla protezione della salute, che è la base stessa di un armonico vivere sociale.
C'è chi pensa che nelle norme con cui si cerca di limitare il contagio del Covid ci sia qualcosa che viola «il semplice, amabile fatto di vivere l'uno accanto all'altro». Non hanno conosciuto l'isolamento? Dopo un anno e mezzo di pandemia, in cui l'uno accanto all'altro abbiamo temuto che il vicino potesse trascinarci col suo respiro nella valle della malattia e persino della morte, la cosa più logica è cercare i sentieri del ritorno alla salute. No, non deve essere obbligatorio vaccinarsi per questo, ma neppure si deve costringere qualcuno che ha fatto maggiori sacrifici per proteggere se stesso e i suoi cari, che magari, come è capitato a me, ha visto qualcuno soccombere in famiglia, all'insicurezza di condividere lo spazio con chi non vuole dirti se è vaccinato. Perché, alla fine, sai che ci sono molte probabilità che questo significhi che non lo è.
A ogni latitudine un eccitato movimento «intersezionale» che ammonticchia tutti i diritti umani e tutti gli oppressi contro tutti gli oppressori, ci propone un'idea palingenetica di libertà - quella delle donne, dei neri, dei gay, delle minoranze, e ora dei No Vax e dei No Pass - che sospetta una rete di potere oppressivo che ha fatto la storia, la geografia, gli Stati, le leggi... La verità è che le cause di ciascuno vanno sempre bilanciate con la possibile distruttività che contengono.
E qui, per quel goccio di libertà in più che può fornire non dovere mostrare un'app verde sul telefonino, si gioca sulla vita umana. È la libertà di passare col semaforo rosso. Inoltre chi ha la responsabilità della guida politica non deve dimenticare che l'opinione pubblica sulla salute, alla fine, è saggia: i leader che scelgono questa strada e non rincorrono i No Vax saranno i più ammirati... La legge e l'obbedienza, specie nella salute, danno la libertà.
Totale disaccordo. Fa impressione sentir dire certe cose da parte ebraica. L’autrice può essere certa che da parte mia non mi azzarderei mai a “costringere” una vaccinata come lei a “condividere lo spazio con chi non vuole dirle se è vaccinato”, tanto più che nel mio caso, per esempio, sarei pronto a dirle chiaro e tondo che non sono vaccinato. M.C.
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Veleno sparso sulla vita sociale
E' questo il "bene comune" che si voleva salvaguardare con la doppia imposizione di vaccino e greenpass?
Si ricorderà bene il canto degli inni nazionali rilanciati da balcone a balcone nel desiderio di vincere uniti la nuova tremenda battaglia anticovid che molti, senza distinzione, sentivano di dover combattere uniti. Poteva essere vista come un'ingenuità, e ovviamente era destinata a cambiare aspetto, ma ci si poteva comunque aspettare che fosse una spinta a modificare in meglio le tensioni dei rapporti sociali, ad avvicinare in qualche modo le persone. Non è stato così, e l'abbassamento delle attese era in un certo senso inevitabile. Ma era forse evitabile che i rimedi offerti dalle autorità fossero peggiori del male che si diceva di voler combattere. Si continua a dire che bisogna sacrificare gli egoismi libertari sull'altare del superiore bene sociale. Ma in che consiste la socialità di questo bene? Solo nel fatto che vaccinandosi in massa ci sarebbero meno malati e meno morti? Ma questo resta ancora indimostrato e forse anche indimostrabile, se non si assegna il termine "dimostrazione" alle valanghe di statistiche a lettura variabile che vengono propinate tutti i giorni.
Ma se pur così fosse, come vivranno coloro che sopravvivono al covid? "C'è chi pensa che nelle norme con cui si cerca di limitare il contagio del Covid ci sia qualcosa che viola «il semplice, amabile fatto di vivere l'uno accanto all'altro»", dice l'autrice dell'articolo precedente. E questo ricorda stranamente il classico slogan riferito al problema israeliani-palestinesi: "due popoli che vivono uno accanto all'altro in pace e sicurezza". Le due proposizioni hanno verosimilmente lo stesso grado di attinenza alla realtà.
Cerchiamo infatti di immaginare come potrà essere «il semplice, amabile fatto di vivere l'uno accanto all'altro» dei sopravvissuti al covid dopo che ai mali del morbo si saranno aggiunti i mali di quelli che con le loro imposizioni dicono di voler combattere il morbo. Siamo passati dai richiami unitari dai balconi ai perfidi "vade retro" lanciati contro tutti quelli non possono o non vogliono esibire il certificato di purezza anticovid. "Se vado al ristorante - ha scritto un pro-greenpass su un giornale - esigo che tutti siano vaccinati. E' una questione di sicurezza". Comprensibile, no? Dunque, chi ha ottenuto dal governo il lasciapassare per entrare in un ristorante, stia comunque in guardia quando entra, perché oltre ad essere vagliato dal ristoratore, potrebbe essere guardato con diffidenza anche dagli altri avventori. Non si sa mai...
Ma è solo un esempio. Si preannuncia un "tutti contro tutti". I medici contro i pazienti, i ristoratori contro i clienti, i datori di lavoro contro gli operai, i docenti contro genitori, i genitori contro i figli. E viceversa. E oltre ai contrasti tra categorie, ci saranno i contrasti interni in ogni categoria. "Dobbiamo vaccinare i nostri i figli?" Si chiedono i genitori. Sì, no, forse. E i nonni che dicono?" Ciascuno può proseguire la serie dei prevedibili contrasti che inevitabilmente si aggiungeranno a quelli che già ci sono.
E' stata già elencata una quantità di problemi tecnici di attuazione, ognuno dei quali genererà una serie interminabile di contrasti. E' questo il comune bene sociale che si vorrebbe "responsabilmente" difendere? Possibile che le autorità non abbiano previsto il sorgere di problemi come questi? No, non è possibile: l'hanno messo in conto. E il governo a guida Draghi e a imitazione di Israele ha deciso di andare avanti. L'importante è dare il via al greenpass obbligatorio; il resto si aggiusterà. E quando si sarà aggiustato, la società non sarà più quella di prima. Irreversibilmente. M.C.
(Notizie su Israele, 6 agosto 2021)
Il governo di Raisi
C’è molta meno voglia di accordo sul nucleare, l’Iran assapora la convenienza di non negoziare.
di Cecilia Sala
ROMA - Checkpoint e blocchi stradali, treni sospesi e i cinque aeroporti più vicini a Teheran chiusi. Ieri la cerimonia d’insediamento del nuovo presidente conservatore Ebrahim Raisi si è svolta in una capitale blindata. Il leader iraniano ha due settimane per presentare al Parlamento la lista dei suoi ministri, ma i tempi questa volta saranno rapidi: la Guida suprema, Ali Khamenei, ha lanciato un appello per una transizione veloce, il Parlamento e il governo – adesso entrambi dominati dai conservatori – andranno d’amore e d’accordo, e ci sono le emergenze, dagli ospedali al collasso all’inflazione, dai blackout continui alle proteste nelle regioni di sud-ovest dove manca anche l’acqua. Fuori dai confini tutti gli occhi sono puntati sul dicastero degli Esteri. Per ovvie ragioni, ma in questo particolare momento soprattutto perché l’accordo sul nucleare iraniano – che solo un mese e mezzo fa sembrava cosa fatta – è precipitato in uno stallo che ha prima sorpreso e poi preoccupato gli occidentali. A giugno, quando si è concluso il sesto round dei negoziati, alcuni delegati europei avevano lasciato le scarpe e le camicie nelle loro stanze dell’hotel Palais Coburg di Vienna dove si tengono i meeting internazionali, convinti che nell’arco di pochi giorni ci sarebbero tornati per il round definitivo. Da fonti dell’Amministrazione Biden trapelava la fretta di chiudere prima dell’insediamento: è la prima volta che in Iran entra in carica un presidente sanzionato dal Tesoro americano, e per la delegazione americana dialogarci è imbarazzante.
La fretta non era solo loro, i conservatori della Repubblica islamica hanno sempre sostenuto che fidarsi dell’occidente è un errore, per questo non “sporcarsi le mani” e lasciar concludere l’accordo al governo riformista uscente conveniva e avrebbe permesso a Raisi di beneficiare della fine delle sanzioni appena insediato. Invece, il tempo è passato e non è successo nulla. E’ per questo che adesso, mentre ci si interroga su quale sia la strategia iraniana, se sia cambiata di recente e come, cimentarsi nel totonomi sul ministero degli Esteri non è un esercizio fine a se stesso ma utile a capire cosa abbia davvero in mente la Repubblica islamica.
Adnan Tabatabai è un analista iraniano del Carpo, è consulente di istituzioni e società europee e un volto noto della Cnn e di Bbc World. “La prima cosa interessante da scoprire è se il prossimo ministro sarà un militare che non è mai uscito dalla regione oppure qualcuno che parla inglese e francese, che ha viaggiato fuori dal medio oriente per meeting internazionali e si è già occupato di negoziati sul nucleare”. Arrivati a questo punto i papabili non sono molti, ci sono i falchi come Hosseini Tash o Bagheri Kani: “La loro nomina sarebbe il segnale che per l’Iran l’accordo non è più una priorità: se Joe Biden per primo toglie le sanzioni ‘bene’, altrimenti si va avanti con l’economia di resistenza”. La posizione ufficiale della Repubblica islamica è che non si può tornare all’accordo se gli americani non si vincolano in qualche modo, se manca la garanzia che non riaccada ciò che è successo nel 2018, quando Donald Trump è uscito unilateralmente e sono tornate le sanzioni. “Anche se Biden rimanesse nell’accordo finché è presidente, e non è comunque scontato visto i mal di pancia nel suo partito, la leadership iraniana si chiede: ‘E se nel 2024 vincesse le presidenziali uno come Mike Pompeo?’. Se per gli Stati Uniti non ci sono conseguenze negative nel momento in cui abbandonano il patto, prima o poi accadrà di nuovo”, dice Tabatabai. Ma, appunto, i problemi potrebbero sorgere già prima di una futuribile presidenza repubblicana.
Se Biden rimuove parte delle sanzioni con un ordine esecutivo, a un certo punto il Congresso dovrà convertirlo in legge. “I democratici contrari non sono pochi – ricorda Tabatabai – Il governo di Raisi rischierebbe di ritrovarsi di nuovo con le sanzioni come è capitato a quello riformista di Hassan Rohani”. Con due differenze: sarebbe la seconda volta, quindi difficilmente perdonabile. E i riformisti avevano promesso quell’accordo, mentre i conservatori lo hanno sempre bollato come una follia pericolosa – farebbero molta fatica a giustificarsi in uno scenario come quello appena descritto. Forse, per l’establishment conservatore iraniano, l’ipotesi di una figuraccia del genere è un rischio politico talmente grosso per cui vale la pena sopportare una crisi che però si scarica soprattutto sui più deboli e non certo sull’élite di cui fanno parte. “Gli occidentali sono convinti che la Repubblica islamica sia disposta a tutto. La crisi economica è profonda e reale, ma quel giudizio è comunque un giudizio avventato. L’ultimo mese e mezzo di stallo, che altrimenti sarebbe difficilmente spiegabile, lo dimostra”, dice Tabatabai.
Ci sono altri fattori e incentivi da considerare, per esempio il vantaggio militare dato da una maggiore libertà di movimento, perché a luglio nei siti iraniani si sono spenti sensori e telecamere di controllo dell’Agenzia dell’Onu per il nucleare, e senza un nuovo accordo difficilmente riprenderanno a funzionare.
In conclusione, Tabatabai dice il suo pronostico: “Che al ministero degli Esteri vadano i più intransigenti anti occidentali non è a mio parere l’ipotesi più probabile. Anche se l’accordo oggi non è più imprescindibile, da un punto di vista strategico non avrebbe senso essere tanto espliciti fin dall’inizio (del mandato, ndr) con le controparti. Mi aspetto piuttosto che il nuovo capo della diplomazia sia Hossein Amir-Abdollahian”. Che parla perfettamente l’inglese, è legato ai conservatori e ai pasdaran, ma è stato viceministro anche nell’ultimo governo dei riformisti. Un uomo fidato che può andar bene per qualsiasi stagione ed eventualità. Perché adesso serve tenersi le mani libere, avere un piano A e un piano B. La novità è che non si può più dare per scontato che il piano A sia l’accordo.
Il Foglio, 6 agosto 2021)
Ma come sono nazi gli imam norvegesi
«Il Führer ha lasciato alcuni ebrei così il mondo può vedere quanto sono crudeli»
di Mirko Molteni
La Norvegia è scioccata da proclami pubblicati su Facebook da un imam della comunità islamica di Drammen, seconda città del paese per immigrati dopo Oslo. Noor Ahmad Noor, della confraternita Minhaj-ul-Quran, ha scritto sul suo account in lingua urdu: «Hitler ha lasciato vivi alcuni ebrei affinché il mondo possa vedere quanto siano crudeli e perché è necessario ucciderli. Israele è il Diavolo e Hitler l'ha lasciata indietro perché f umanità possa capire di essere in pericolo».
A denunciare l'incitamento antisemita che mescola estremismo islamico e nazismo è stato il giornale Drammens Tidende, che l'ha fatto tradurre dall'urdu al norvegese e che si assume «la responsabilità di eventuali errori di traduzione». Ma la traduzione sembra corretta, poiché i violenti commenti di Noor s'inquadravano nel discorso sulla guerra Gaza-Israele.
L’imam conta 2900 "amici" Facebook e 1150 "followers". Dopo la denuncia, ha rimosso il post e chiesto scusa, sostenendo: «Ho sempre lavorato per la tolleranza». Ma i suoi toni violenti parlano da soli. Nella vicina Svezia, intanto, l'imam Basem Mahmoud, della moschea al-Sahaba di Rosengard, sobborgo di Malmò, ha tenuto sermoni farneticanti: «Gli ebrei sono progenie di maiali e scimmie. Il Giorno del Giudizio non verrà finché noi musulmani non avremo ucciso gli ebrei». Ha inoltre vietato ai suoi fedeli fuso della bandiera svedese «perché contiene una croce».
Libero, 6 agosto 2021)
Scoperte prove archeologiche di un terremoto citato nella Torah
di Michelle Zarfati
“Due anni prima del terremoto” questo è il primo versetto che troviamo nel libro di Amos, il profeta biblico dell'VIII secolo a.C. Due secoli dopo, il profeta Zaccaria fece nuovamente riferimento a questo terremoto distruttivo.
Ora, per la prima volta, un team di archeologi della Israel Antiquities Authority nella città di David, a Gerusalemme, rivela di aver trovato prove concrete senza precedenti di questo terremoto dell'VIII secolo a.C. a Gerusalemme
Il famoso terremoto, avvenuto in Israele circa 2.800 anni fa, compare sulla Torah. I ricercatori ritengono che per la prima volta sono stati in grado di identificare alcune testimonianze archeologiche che indicano che il terremoto ha colpito anche Gerusalemme - la capitale di Giuda. Questi reperti archeologici saranno mostrati al pubblico alla conferenza "City of David Research" - la conferenza archeologica annuale dell'Istituto Megalim che si terrà all'inizio del prossimo mese.
Gli scavi archeologici dell'Autorità per le antichità israeliane nel Parco nazionale della città di David, hanno rivelato uno strato distrutto, in cui sono stati rinvenuti: una fila di vasi in frantumi, ciotole, lampade, utensili da cucina, e giare per la conservazione, che sono state frantumate quando le pareti dell'edificio sono crollate. Secondo i ricercatori, poiché non sono stati trovati segni di incendio,il motivo del crollo dell'edificio è il terremoto avvenuto in Israele durante l'VIII secolo a.C., nel periodo del Regno di Giuda.
"Quando abbiamo scavato la struttura e scoperto uno strato di distruzione dell'VIII secolo a.C., siamo rimasti molto sorpresi, perché sappiamo che Gerusalemme ha continuato ad esistere in successione fino alla distruzione babilonese, avvenuta circa 200 anni dopo. Ci siamo chiesti cosa potesse aver causato quel drammatico strato di distruzione che abbiamo scoperto. Esaminando i reperti degli scavi, abbiamo cercato di verificare se vi fosse un riferimento ad esso nel testo biblico. Il terremoto che compare nella Bibbia nei libri di Amos e Zaccaria, è avvenuto nel momento in cui, il complesso da noi scavato nella Città di David, è crollato. La combinazione dei reperti nel campo, insieme alla descrizione biblica, ci ha portato alla conclusione che il terremoto che colpì la Terra d'Israele durante il regno di Uzzia re di Giuda, colpì anche Gerusalemme”. Hanno detto alla stampa i Dr. Joe Uziel e Ortal Chalaf, direttori degli scavi per conto dell'Israel Antiquities Authority.
Secondo i ricercatori: "Il terremoto che si è verificato a metà dell'VIII secolo a.C. è stato probabilmente uno dei terremoti più forti e dannosi dei tempi antichi.
(Shalom, 6 agosto 2021)
Netanyahu torna all'attacco e critica il suo successore Naftali Bennet
di Elena Grigatti
Benjamin “Bibi” Netanyahu torna all’attacco e critica il suo successore Naftali Bennett.
Secondo l’ex Premier, ora all’opposizione, il dialogo costante (e morboso?) con gli alleati d’oltreoceano sarebbe deleterio per la risposta dello Stato ebraico verso i suoi nemici. Come a dire: in guerra ognuno pensi per sé. E, soprattutto, non riveli le proprie strategie. Che Israele soffra lo scacco degli Usa? O tema soltanto una riconciliazione tra Washington e Teheran? Specialmente in vista di un imminente accordo nucleare?
NETANYAHU CRITICA BENNETT? “Non dovremmo informare gli americani di tutto quello che facciamo contro l’Iran”. Così ritiene Benjamin Netanyahu, l’ex Premier più longevo dello Stato ebraico che ora guida l’opposizione. Un compito che il leader conservatore adempie con zelo, dopo una sconfitta elettorale rimastagli indigesta. Nonostante alle consultazioni del 23 marzo il suo Likud avesse ottenuto più seggi rispetto alle altre formazioni, Netanyahu ha dovuto cedere lo scettro al suo ex protetto, nonché franco tiratore, Naftali Bennett. Proprio il leader di Yamina, che servirà come Primo ministro del governo del cambiamento fino a settembre 2023, è spesso oggetto delle critiche al vetriolo di Netanyahu. In particolare, Bibi ha biasimato la “politica senza sorprese” promessa a Washington dal nuovo pot pourri al gabinetto dello Stato ebraico. Specialmente perché potrebbe compromettere l’azione di Israele contro i suoi nemici. Tra cui il rivale atavico: l’Iran.
LA DICHIARAZIONE Durante un’accesa discussione alla Knesset, il Parlamento monocamerale israeliano, Netanyahu ha affermato che il successo delle sue politiche anti-Teheran nell’epoca in cui era Premier, deriva dall’aver tenuto all’oscuro i presidenti d’oltreoceano sulle operazioni israeliane in Medio Oriente. Come riporta il Times of Israel, il leader di destra ha spiegato che: “Le informazioni inviate in America potrebbero essere divulgate ai principali media e in questo modo le nostre operazioni verrebbero ostacolate“. “Ecco perché nell’ultimo decennio ho rifiutato le richieste dei presidenti americani di informarli sempre delle nostre azioni“, ha chiarito Netanyahu. E ancora. “Questo è un problema esistenziale per Israele, in cui potrebbero esserci sorprese e talvolta le sorprese sono necessarie“. Insomma, una logica cristallina. Almeno per Bibi.
NETANYAHU CRITICA BENNETT "SENZA SORPRESE" In effetti, una tale (cieca) collaborazione nelle relazioni bilaterali implica che Israele informi con anticipo Washington di qualsiasi operazione programmata dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF) nei confronti della Repubblica islamica. Il che si traduce, nell’ottica di Netanyahu, in una minaccia alla sicurezza di Israele. A tal proposito, l’ex Primo ministro ha osservato che il governo di Bennett “ci ha trasformato in una sorta di protettorato con l’obbligo riferire tutto quello che facciamo“. Come ha fatto notare il leader di Likud, “Se non abbiamo indipendenza su questa materia, non abbiamo alcuna indipendenza“. Il tutto mentre a Vienna sono ripresi i negoziati per il JCPOA: il programma nucleare iraniano.
LA QUESTIONE IRANIANA Nei mesi scorsi, le autorità sioniste hanno mostrato una preoccupazione crescente riguardo alla ripresa dei colloqui nella capitale austriaca. Difatti, non è un segreto che lo Stato ebraico osteggi un accordo internazionale che permetta a Teheran di arricchire uranio. Sulla scorta dei molteplici appelli lanciati, è chiaro che Israele ne tema l’utilizzo a fini militari. Come lo sviluppo di un’arma atomica. Anche per questo, l’Iran ritiene che siano proprio le IDF israeliane le uniche responsabili dei recenti attacchi ai danni della Repubblica islamica. Tra cui l’assassinio dell’autorevole scienziato nucleare, Mohsen Fakhrizadeh, e il sabotaggio all’impianto nord-orientale di Natanz. Oltre che al raid che aveva colpito una petroliera iraniana. Tutti atti che si considerano diretti a minare le capacità nucleari dell’Iran.
NEMICI AMICI Se non un nemico in senso stretto, dunque, gli Usa rappresentano quantomeno un ostacolo. Per Netanyahu, infatti, una cieca collaborazione con Washington porterà l’amministrazione statunitense a divulgare informazioni ai media. Il tutto allo scopo di manipolare lo Stato ebraico. In questo senso, Netanyahu ritiene che l’amministrazione Biden sfrutterà la buona volontà di Israele a suo vantaggio, in particolare per sventare un attacco contro l’Iran. D’altronde, le tempistiche con cui Netanyahu ha diramato il suo messaggio non lasciano spazio a dubbi. A ben vedere, seguono alla discussione tra i massimi funzionari statunitensi e israeliani in materia di sicurezza regionale, in cui hanno affrontato la “minaccia iraniana” dopo il recente attacco alla petroliera MV Mercer Street. In merito, le autorità sioniste avevano prontamente accusato la Repubblica islamica di aver ordinato l’attacco. Mentre gli alleati occidentali hanno promesso ritorsioni contro Teheran, il governo sciita esclude ogni coinvolgimento nell’attentato.
NETANYAHU CRITICA BENNETT PERCHE' CONVIENE Per la prima volta dopo anni, Netanyahu ha esposto la sua visione del mondo. E lo ha fatto con la spietatezza di un leader che assapora la vendetta nel caos che lo circonda. Oltre a Bennett, Bibi ha criticato anche il ministro degli Esteri Yair Lapid, prossimo Premier di Israele. Il quale mette in pericolo lo Stato ebraico impegnandosi a informare con anticipo gli Stati Uniti su qualsiasi azione militare che Israele potrebbe intraprendere contro l’Iran. Eppure, Netanyahu pecca di onestà. Perché durante il suo regno, alti funzionari israeliani avevano concordato con Washington nei colloqui relativi al dossier nucleare iraniano che non ci sarebbero state “sorprese” sulla questione. Piuttosto, che gli eventuali disaccordi sarebbero stati affrontati a porte chiuse, come conferma una fonte interna. Ora cos’è cambiato?
LAMA A DOPPIO TAGLIO A questo punto, si potrebbe considerare la campagna personale di Bibi come una battaglia al jihadismo che avviluppa il Medio Oriente. O almeno è così che la vede Netanyahu. Al di là delle recenti ostilità tra Israele e Hamas, oltre che dell’eterno conflitto palestinese, l’ex Premier avverte che Israele si trova in una regione “che è stata presa dall’estremismo islamico“. Il quale “Sta abbattendo paesi, molti paesi”. “Bussa alla nostra porta, a nord e a sud“, ha osservato il leader dell’opposizione. Attenzione, però. Se da una parte Netanyahu ha condannato la politica della trasparenza come una strategia suicida per lo Stato ebraico, dall’altra ha dimenticato come la stessa sia stata utilizzata a beneficio di Gerusalemme. In passato, infatti, ha rappresentato uno scudo per Israele. Soprattutto, consentiva alle autorità sioniste di rimanere aggiornate sulle eventuali aperture statunitensi nei riguardi della Repubblica islamica.
DO UT DES A marzo, quando Netanyahu era Premier, l’allora ministro degli Esteri Gabi Ashkenazi riferiva che Israele e l’amministrazione democratica di Joe Biden avevano concordato una politica di “senza sorprese”. Ad aprile, lo confermava a NBC News anche il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Jake Sullivan. In tutto ciò, Netanyahu era ancora in carica. “Crediamo, profondamente e appassionatamente, nell’assicurarci che noi e Israele non abbiamo una politica senza sorprese, che stiamo comunicando tra di noi su una base futura, in modo da avere una migliore comprensione“, diceva Sullivan. “Quanto a ciò che l’altra parte intende fare rispetto a tutta una serie di questioni di sicurezza nella regione“, riferiva il funzionario statunitense.
IL PUNTO Ma non finisce qui. Se nel 2011 Jeffrey Goldberg scriveva su Bloomberg che Netanyahu sembrava essersi rifiutato di impegnarsi a ragguagliare Washington sulle operazioni israeliane, nel 2014 la questione pareva risolta. Quell’anno, infatti, il quotidiano di sinistra Haaretz riportava che: “Un alto funzionario israeliano ha affermato che Israele e gli Stati Uniti hanno un’intesa che richiede una politica ‘senza sorprese’ nel quadro degli attuali negoziati tra l’Iran e le sei potenze, che si svolgono nel tentativo di raggiungere un accordo definitivo sul programma nucleare iraniano“. Non solo. “Come parte di questa intesa, gli Stati Uniti hanno informato Israele in anticipo del suo piano per tenere colloqui bilaterali diretti con l’Iran a Ginevra questa settimana“.
PERCHE' NETANYAHU CRITICA BENNETT Dunque, le tempistiche non vanno sottovalutate. I commenti di Netanyahu, infatti, sono giunti dopo che il primo ministro Naftali Bennett si è scagliato contro il suo predecessore per aver “lasciato dietro di sé una scia di caos”. Anche, e soprattutto, per quanto riguarda la questione iraniana. Quindi, il “principio di nessuna sorpresa” dell’ex ambasciatore Michael Oren “equivale a un virtuale veto di Netanyahu su qualsiasi cosa il governo degli Stati Uniti possa contemplare di fare o su Israele“. Così scriveva Bernard Avishai sul New Yorker, nel 2015. Pertanto, l’attacco di Netanyahu appare l’ultimo guizzo di un animale all’angolo. E ferito.
(Periodico Daily, 5 agosto 2021)
«La nave è stata dirottata. Iraniani a bordo»
L'assalto alla petroliera nel golfo di Oman
Israele reagisce Muscat II Centro per la sicurezza marittima dell'Oman ha fornito ieri la prima conferma ufficiale che la petroliera panamense Asphalt Princess è stata vittima martedì di un «dirottamento in acque internazionali nel Golfo di Oman», dirottamento che vede sospettato l'Iran. Secondo lo stesso istituto, in seguito alla segnalazione dell'incidente la Marina militare di Muscat ha dispiegato diverse navi nell'area, con il sostegno di mezzi aerei, per «contribuire alla sicurezza delle acque internazionali nella regione». Sono ancora da chiarire le dinamiche di quanto avvenuto martedì, quando sei petroliere contemporaneamente avevano segnalato di essere fuori controllo.
Tre diverse fonti di sicurezza marittima hanno riferito che il tentativo di dirottamento è stato compiuto da agenti iraniani, ma Teheran ha negato ogni coinvolgimento. Sulla Asphalt Princess a un certo punto è salito a bordo un commando armato, che poi ha lasciato la nave. L'equipaggio ha comunicato che sulla petroliera erano saliti «cinque o sei iraniani». Ieri il ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, in una riunione con gli ambasciatori dei Paesi membri del Consiglio di sicurezza Onu, ha puntato il dito contro i Pasdaran per un altro dirottamento avvenuto la settimana scorsa al largo dell'Oman contro la petroliera Mercer Street, gestita da una società israeliana e costato la vita a due membri dell'equipaggio. Gantz ha accusato il comandante delle forze aeree dei Pasdaran, AmirAli Hajezda, e il capo della sezione che si occupa di droni, Saeed Ara Jani. Quest'ultimo «fornisce i rifornimenti, l'addestramento, i piani ed è responsabile di molti atti di terrorismo nella regione», ha affermato Gantz, assicurando che fornirà ai diplomatici prove di intelligence a sostegno delle sue accuse.
(Avvenire, 5 agosto 2021)
Il conflitto Israele-Hamas si sposta sulle criptovalute
La guerra si combatte, ormai, non solo sul terreno, ma anche su altri fronti, come ad esempio le fonti di finanziamento che si ritiene vengano utilizzate per alimentare un conflitto o, come nel caso di Israele ed Hamas, per irrobustire un arsenale militare.
Per questo, come ha rivelato per il quotidiano Haaretz il giornalista Omer Benjakov, Israele alla fine di giugno ha preso di mira il flusso di cassa digitale di Hamas, sequestrando dozzine di portafogli digitali associati al gruppo islamista che governa, con pugno di ferro, la Striscia di Gaza.
Secondo più fonti concordanti, Hamas, inserito come gruppo terroristico nella lista nera di Stati Uniti e Unione Europea, ha utilizzato a lungo le valute digitali per aggirare le sanzioni. Il gruppo utilizza le criptovalute, difficili da rintracciare e che presumibilmente offrono l'anonimato online, per raccogliere fondi e trasferirli nella Striscia utilizzando un sistema di portafogli digitali.
L'Ufficio nazionale contro il finanziamento del terrorismo del ministero della Difesa israeliano ha reso noto di avere sequestrato una serie di portafogli digitali collegati ad Hamas in quella che viene considerata la prima e più aggressiva azione contro l'utilizzo di criptovaluta del gruppo islamista.
Secondo alcune branche dell'intelligence israeliana, durante i più recenti combattimenti tra Israele e Hamas, quest'ultimo ha lanciato una massiccia campagna di raccolta fondi utilizzando le criptovalute. Circostanza confermata anche da un articolo del Wall Street Journal che, in giugno, ha riferito di un picco nelle donazioni di criptovaluta all'organizzazione. Una parte del denaro sarebbe utilizzata per scopi militari e quindi probabilmente destinata all'ala militare di Hamas, Iz al-Din al-Qassam.
Tra gli oltre 70 account sequestrati il 30 giugno c'erano quelli che includevano bitcoin - la valuta digitale più comune e più conosciuta -, ma anche altri tra cui Ethereum e anche Dogecoin, una valuta che ha attirato l'attenzione dei media dopo che Elon Musk vi ha investito.
Il sequestro dei conti è stato autorizzato direttamente dal ministro della Difesa, Benny Gantz, dopo che un'operazione congiunta con una società di monitoraggio di criptovalute "ha scoperto una rete di portafogli elettronici" utilizzati da Hamas per raccogliere fondi.
La notizia arriva mentre gli Stati occidentali stanno valutando di adottare una serie di misure per reprimere i portafogli digitali, grazie ai quali i criminali informatici riciclano le ingenti somme accumulate con attacchi ransomware.
La raccolta fondi bitcoin di Hamas è sempre più complessa, dicono i ricercatori.
"L'intelligence, gli strumenti tecnologici e legali che ci consentono di mettere le mani sul denaro dei terroristi in tutto il mondo costituiscono una svolta operativa", ha detto il ministro Gantz commentando l'operazione.
Di recente, i regolatori statunitensi hanno suggerito di modificare l'architettura dei portafogli digitali in modo che non possano più essere anonimi e di ritenere le società responsabili se i fondi digitali che pagano ai criminali come parte degli attacchi ransomware vengono utilizzati per scopi illegali.
(Italia Informa, 5 agosto 2021)
L'Ue va dal macellaio di Teheran
Al giuramento di Ebrahim Raisi sarà presente un funzionario europeo
Al giuramento del presidente iraniano Ebrahim Raisi davanti al Parlamento previsto per oggi sono attesi i rappresentanti di 73 nazioni. Tra loro ci sarà anche Enrique Mora, vicesegretario generale del Servizio europeo per l'azione esterna (Seae), che parteciperà a nome di Josep Borrell, l'Alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza. Lo ha annunciato martedì la portavoce del Seae, aggiungendo che "è fondamentale impegnarsi diplomaticamente con la nuova Amministrazione e trasmettere direttamente messaggi importanti".
All'ultimo giuramento, quello del presidente uscente Hassan Rohani, andò Federica Mogherini, allora rappresentante della politica estera europea, c'erano grandi speranze in quella che si presentava come un'Amministrazione innovatrice, ma le stesse speranze non sono presenti oggi. Raisi è l'espressione di un Iran ultraconservatore, non è interessato a migliorare i suoi rapporti con l'occidente, né nei fatti né a parole. Mora non è Borrell ma è comunque un funzionario europeo importante e la decisione di portare un rappresentante dell'Ue in Iran per assistere all'insediamento del macellaio di Teheran è stata criticata fortemente da Israele, che l'ha definita "sconcertante", tanto più che Gerusalemme, Regno Unito e Stati Uniti hanno accusato Teheran dell'attacco a una nave civile venerdì scorso e ci sono prove sempre più forti sul tentato dirottamento di una seconda nave martedì nel Golfo. Per Borrell la necessità è però tenere aperto il negoziato sul nucleare, è il coordinatore dei negoziati, nei quali è coinvolto anche Mora.
L'arrivo dell'Amministrazione Biden ha dato nuove speranze all'accordo, ma Teheran ha bloccato tutto fino all'arrivo del nuovo presidente. Gli americani sanno che dovranno riavvicinarsi al tavolo dei negoziati con più cautela di prima, e varrebbe la pena che lo sapesse anche Borrell. L'idea che l'accordo sul nucleare — anzi, la mera chance di una accordo — faccia sparire tutto il resto come se non accadesse è sbagliata.
Il Foglio, 5 agosto 2021)
Le restrizioni anti Delta e il nuovo lockdown a settembre: che cosa succede in Israele
"Dobbiamo preparare la popolazione e l'opinione pubblica per una nuova serrata a settembre" spiega il governo. La stretta nel paese con il più alto tasso di vaccinazione al mondo.
l governo dello Stato di Israele ha approvato ieri sera nuove restrizioni per contenere la diffusione della pandemia di Covid-19 e non esclude l'eventualità di una nuova serrata a settembre. Secondo quanto riporta il quotidiano israeliano Jerusalem Post a partire da domenica 8 agosto le mascherine ritorneranno obbligatorie in tutti gli incontri all'aperto e il green pass sarà necessario in tutti i luoghi pubblici senza eccezioni. Inoltre i genitori che si occupano di minori sotto i 12 anni risultati positivi saranno sottoposti a quarantena nonostante abbiano già ricevuto il vaccino o siano guariti dal Covid-19. Gli uffici governativi torneranno a lavorare al 50 per cento in smart working e il settore privato sarà incoraggiato a fare altrettanto. Infine saranno formulati criteri più rigorosi per disincentivare i viaggi all'estero o da Paesi a rischio.
Una stretta inattesa nel paese che ha immunizzato la più larga fetta della popolazione e che ha iniziato la somministrazione della discussa terza dose: già 142mila over 60 hanno ricevuto il nuovo richiamo vaccinale. Eppure i dati del contagio destano allarme: lo scorso 2 agosto, Israele ha registrato oltre 3.800 nuovi casi nelle 24 ore precedenti su 113.723 tamponi, il dato piu' alto dall'inizio di marzo. Inoltre, con i dieci decessi registrati domenica primo agosto e altri sette il giorno successivo, Israele ha registrato il più alto numero di morti in 48 ore in quattro mesi.
Il primo ministro Naftali Bennett ha giustificato le nuove norme con l'esigenza di tenere sotto controllo la diffusione della variante Delta: "Evitate la folla e fatevi vaccinare, ora. Altrimenti, non ci sarà altra scelta che imporre restrizioni più severe, inclusa una nuova serrata", ha dichiarato. "Dobbiamo preparare la popolazione e l'opinione pubblica per una nuova serrata a settembre, che è un mese in cui il danno economico sarà minore", ha dichiarato da parte sua il ministro della Difesa Benny Gantz, riferendosi al periodo delle feste ebraiche.
LA TERZA DOSE E IL FULL GREEN PASS
Obiettivo del governo è assicurare che tutti coloro che lo necessitano possano avere la possibilità di vaccinarsi con la terza dose che , come spiega il premier Bennet, "semplicemente 'ricarica' le difese dell'organismo e ci permette di salvare vite umane". Ad accompagnare il piano del governo e per tentare di evitare una serrata generale verrà applicato lo schema del green pass che dal 20 agosto non esenterà neppure i bambini al di sotto dei 12 anni.
(Today mondo, 5 agosto 2021)
Israele, boom di contagi e ricoveri: il 58% dei pazienti gravi ha la doppia dose di vaccino
Dopo il caso Islanda, l’isola del “tutti vaccinati” dove sono riesplosi i contagi, ecco arrivare un’altra conferma da Israele, dove nelle ultime 24 ore sono quasi 4.000 i contagi da coronavirus secondo i dati del bollettino giornaliero del ministero della Salute e riportati da Ynet. Si parla di altri 3.818 israeliani risultati positivi al test per il Covid-19 e di un tasso di positività rispetto al numero di esami effettuati arrivato al 3,78%. Si tratta, scrive il Jerusalem Post, del bollettino più preoccupante da inizio marzo.
Inoltre, con altri 15 decessi da lunedì mattina il Paese registra il bilancio più grave da quattro mesi. I pazienti in condizioni definite gravi sono 221, nove in più rispetto a ieri, 66 in più – sottolinea ancora il giornale – rispetto a martedì scorso. Secondo i dati del ministero della Salute, aggiunge Haaretz, il 42% dei pazienti in condizioni gravi non è vaccinato contro il coronavirus. Il che vuol dire che il 58% dei paziente gravi è in realtà vaccinato con doppia dose.
I casi attivi, riporta Ynet, sono 22.345 e sono 6.492 le vittime dall’inizio della pandemia. Il gabinetto ministeriale di Israele per il coronavirus intanto ha stabilito nuove restrizioni. A partire dal 20 agosto, infatti, sarà di nuovo operativo il sistema completo del Green pass. A partire da domenica, le mascherine saranno obbligatorie in tutti gli incontri all’aperto e anche un genitore vaccinato o in guarigione che si prende cura di un bambino in quarantena di età inferiore ai 12 anni dovrà isolarsi.
Inoltre, gli uffici governativi di Israele lavoreranno con solo il 50% della loro forza lavoro di persona e il settore privato sarà incoraggiato a fare lo stesso. Inoltre, saranno formulati criteri più rigorosi per porre ai paesi il divieto di viaggio, lasciando un gruppo molto limitato di nazioni da visitare liberamente dagli israeliani senza la necessità di mettersi in quarantena al loro ritorno, indipendentemente dal loro stato di immunizzazione. Beh, non c’è che dire: il vaccino è stata davvero l’arma per tornare alla normalità, vero? Boom di contagi e il 58% dei pazienti gravi ha due dosi.
(Il Paragone, 4 agosto 2021)
Terza dose, no dell'Ema. Berlino e Londra pronte. E Israele ha già iniziato
Spinta di Big Pharma, alcuni Paesi sono partiti. Ma mancano le prove scientifiche
REZZA (SALUTE)
«Probabilmente bisogna partire dai fragili e dagli immunodepressi»
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GERUSALEMME
Al via i richiami su base volontaria agli over 60
In Germania a settembre
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di Antonio Caperna
La necessità della terza dosa sta catalizzando il dibattito scientifico e politico dell'estate. Se da un lato, infatti, si spinge per raggiungere la massima copertura della popolazione, ragionando sui giovani per il prossimo anno scolastico e su qualche milione di over 50 ancora scoperto, dall'altra non si hanno le idee chiare se attivarsi in una nuova campagna vaccinale e soprattutto a chi destinarla. Il rischio concreto è di andare in ordine sparso con alcune nazioni che hanno già deciso (Israele, Germania, Gran Bretagna), altre con qualche dubbio (Italia), altre ancora lontane dal dibattito (Svizzera) mentre l'Agenzia europea del farmaco Ema ha ribadito ancora una volta, tramite il direttore esecutivo, Emer Cooke, che «al momento non ci sono dati sufficienti per indicare che sia necessario un richiamo. Per alcune popolazioni si potrebbe iniziare a vedere la necessità, il che non significa che ce ne sia bisogno in generale». La questione, perciò, assume soprattutto i caratteri di una scelta politica anche per metter un freno alla recrudescenza di contagi per la variante Delta, poiché dal punto di vista scientifico mancano le prove per una decisione definitiva. Lo studio condotto in Israele e pubblicato sul New England Journal of Medicine, infatti, è solo un primo passo: su 11.500 operatori sanitari coinvolti ne sono stati identificati solamente 39 vaccinati e reinfettati con sintomi lievi o nessuno; tra questi in appena 22 lavoratori si hanno avute misurazioni anticorpali. I ricercatori hanno poi esaminato i dati di 104 lavoratori completamente vaccinati, che non sono stati infettati pur essendo stati a contatto con il virus. Il confronto ha mostrato che i livelli di anticorpi neutralizzanti erano più bassi tra coloro che sono stati infettati, fornendo la prima prova diretta di questo effetto. Un dato simile si era ottenuto durante gli studi clinici per Astrazeneca. Il numero esiguo del campione e il fatto che «l'analisi non fornisce un livello specifico di anticorpi associato alla protezione, e su questo è necessario ora indagare», sottolineano gli autori, lascia qualche dubbio. Da considerare poi i dati sulle reinfezioni nei guariti da Covid, come riportato a fine maggio su Jama Internal Medicine. In questa situazione complessa il dg della Prevenzione del ministero della Salute, Gianni Rezza, ha sottolineato comunque la necessità di decidere «nel giro di un mese chi vaccinare e in quali tempi con una terza dose. Una decisione che va meditata bene. Probabilmente saranno persone più fragili e immunodepresse ma non sappiamo quando. C'è indecisione, perché non ci sono ancora evidenze forti per poter dire che la faremo a tutti piuttosto che ad alcuni». In Israele intanto, è partita la somministrazione su base volontaria agli over 60, anche se in un sondaggio, solo il 52% degli israeliani con due dosi sarebbe disponibile alla terza. Secondo la ricerca, rilanciata dal Jerusalem Post, appena il 47% degli under 60 riceverebbe un'ulteriore dose, che sale al 67% negli over 60. La vicina Svizzera è attendista, con Virginie Masserey dell'Ufsp, che ribadisce innanzitutto la necessità vaccinare chi ancora è scoperto e dopo si penserà alla terza dose. La Germania e la Gran Bretagna invece puntano già al 1 settembre: i ministri della Salute dei Lander hanno approvato all'unanimità un piano per iniziare con Pfizer o Moderna dalle persone anziane e a rischio; Oltremanica il governo sta «preparando un piano di richiami» per 32 milioni di persone tra over 50, fragili, lavoratori dell'assistenza e della sanità ma i dettagli della decisione finale saranno resi pubblici «a tempo debito» anche sulla base di studi in corso.
(il Giornale, 4 agosto 2021)
Scienza e politica, attenti a quelle due
La storia ci mette in guardia dal mescolarle. Etica e ricerca non sempre vanno d'accordo
Non si tratta di equiparare fenomeni diversi ma di stimolare la riflessione
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Ragioni mediche possono portare a un controllo sociale senza precedenti
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di Giorgio Agamben
Si parla spesso, per giustificare i decreti emessi dal governo sul green pass, ma anche tutto il modo in cui la pandemia è stata politicamente governata, delle ragioni scientifiche su cui questi decreti si fondano. E' bene fare qualche riflessione sul nesso fra scienza e politica che in questo modo si viene incautamente a stabilire, senza valutare se le conseguenze che esso implica siano o meno accettabili.
Quando Mussolini decise di introdurre le leggi razziali in Italia si preoccupò innanzitutto di dare ad esse una legittimazione e un fondamento scientifico. Per questo, un mese prima della pubblicazione del primo decreto-legge del 5 settembre 1938, apparve sul Giornale d'Italia del 14 luglio una dichiarazione firmata da dieci illustri scienziati, tutti docenti nelle principali università italiane (il cui elenco vorrei che i virologi e i medici che si pronunciano oggi con tanta sicurezza su ciò che la scienza infallibilmente dimostra leggessero) in cui si affermava su basi «puramente biologiche» che le razze esistono e che gli ebrei non appartengono alla «pura razza italiana».
Per una mente minimamente attenta e responsabile questo dovrebbe dar luogo a due ordini di considerazioni: la prima è che pretendere di fondare su ragioni scientifiche decisioni che per loro natura implicano conseguenze politiche è estremamente rischioso; la seconda è che competenza scientifica e coscienza etica non vanno necessariamente d'accordo e che anzi, se si ricorda che scienziati all'epoca considerati importanti non hanno esitato a usare i deportati dei lager come cavie umane per i loro esperimenti, sembrano molto spesso divergere. E non sarà fuori luogo ricordare che la prima volta che uno Stato si assunse programmaticamente la cura della salute dei cittadini è nel luglio 1933 quando Hitler, immediatamente dopo l'ascesa al potere, fece promulgare un decreto per proteggere il popolo tedesco dalle malattie ereditarie, che portò alla creazioni di speciali commissioni mediche che decisero la sterilizzazione di circa 400.000 persone.
Meno noto è che, ben prima del nazismo, una politica eugenetica, potentemente finanziata dal Carnegie Institute e dalla Rockefeller Foundation, era stata programmata negli Stati Uniti, in particolare in California, e che Hitler si era esplicitamente richiamato a quel modello. Se la salute diventa l'oggetto di una politica statuale trasformata in biopolitica, allora essa cessa di essere qualcosa che riguarda innanzitutto la libera decisione di ciascun individuo e diventa un obbligo da adempiere a qualsiasi prezzo, non importa quanto alto.
Non si tratta qui, lo ricordiamo ancora una volta, di equiparare fenomeni storici diversi, ma di far riflettere gli scienziati, che sembrano poco sensibili alla storia delle loro stesse discipline, sulle possibili implicazioni di un nesso acriticamente assunto fra scienza e politica. Così come il diritto e la vita non devono essere confusi e il legislatore, come la Costituzione ricorda, deve essere particolarmente cauto quando tocca la vita e la dignità della persona, così è bene che anche diritto e medicina non pretendano di coincidere.
La medicina ha il compito di curare le malattie secondo i principi che segue da secoli e che il giuramento di Ippocrate - che i medici sembrano oggi ignorare e trasgredire in molti punti essenziali - sancisce irrevocabilmente. Se, stringendo un patto necessariamente ambiguo e indeterminato con i governi, si pone invece - implicitamente o esplicitamente - in posizione di legislatore, non soltanto, come si è visto in Italia per la pandemia, ciò non conduce necessariamente a risultati positivi sul piano della salute, ma può condurre a inaccettabili limitazioni delle libertà degli individui, rispetto alle quali le ragioni mediche possono offrire, come dovrebbe oggi essere per tutti evidente, il pretesto ideale per un controllo senza precedenti della vita sociale.
(La Stampa, 4 agosto 2021)
Ragione che dorme e ragione che sconfina
«Il sonno della ragione genera mostri», è la scritta che compare su un dipinto del pittore spagnolo Francisco Goya, trasformata poi in un aforisma che ha indubbiamente il suo valore nel giusto contesto. Ad esso se ne può accostare un altro di nuovo conio: «Lo sconfinamento della ragione ospita demoni». E' quello che oggi sta avvenendo sotto i nostri occhi, con la nostra più o meno consapevole partecipazione. Con l'inizio dell'era pandemica ha ripreso vita il culto della "dea Ragione". Il riferimento al Vaccino nelle varie forme salvifiche in cui si presenta agli uomini, appoggiato dall'autorità considerata indiscutibile della "scienza", ha ormai assunto i caratteri di un culto idolatrico, con i suoi dogmi, i suoi precetti, i suoi premi e i suoi castighi. E dietro agli idoli ci sono sempre i demoni.
Chi scrive nega autorità al tipo di scienza che oggi viene invocata a sostegno della politica dei governi per combattere il Covid. Non si disconosce ogni forma convenzionale di euristica autorità, al fine della prosecuzione delle indagini, ma si nega in modo deciso l'autorità che pretende di avere, o che ad essa viene data, sul bene e sul male, e dunque sulla realtà concreta della vita degli uomini. «La scienza moderna non è osservazione distaccata della realtà e sua rappresentazione concettuale. La scienza moderna è intervento sulla realtà, manipolazione», si trova scritto nell'articolo precedente su fede e scienza. Questo è indiscutibile, e chi lo nega è un ignorante colpevole di ignoranza. Studiare il movimento dei pianeti, come hanno fatto a suo tempo Copernico e Galilei, non è la stessa cosa che studiare il movimento dei virus nel corpo umano, come fanno oggi i virologi. Esaminare scientificamente un oggetto significa oggi manipolarlo secondo dati protocolli, e quindi alterarlo in modo più o meno esteso e in molti casi irreversibile. E l'essere umano, creato a immagine di Dio, non può essere oggetto di manipolazione forzata. Per nessuna ragione.
Il saggio che segue è stato presentato circa trent'anni fa come lavoro introduttivo e propositivo in un seminario tenuto in ambito evangelico. La presentazione delle tesine in forma numerica doveva servire a facilitare la discussione dei singoli punti. M.C.
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Fede cristiana, scienza e limiti della conoscenza
di Marcello Cicchese
RIFERIMENTI BIBLICI
- Dopo la creazione l'uomo poteva guardare in tre direzioni: a) in alto, verso il Creatore; b) a lato, verso il suo simile; c) in basso, verso il creato.
- Il suo atteggiamento doveva essere: a) di ubbidienza fiduciosa, verso il Creatore; b) di comunione, verso il suo simile; c) di dominio creativo e preservativo, verso la natura.
- L'uomo è l'unica creatura fatta a immagine di Dio. Per questo Dio concede all'uomo uno spazio di dominio e libertà sulla terra, sugli animali e sulle piante. L'uomo è libero e dominatore nei confronti della natura: può mangiare i frutti di tutti gli alberi (tranne uno), può trasformare la terra con il suo lavoro, può dare il nome agli animali.
- L'uomo è limitato e sottomesso nei confronti di Dio: la parola di Dio è il suo limite. L'albero proibito sta proprio nel mezzo del giardino e il suo nome si collega al nostro tema: albero della conoscenza del bene e del male.
- Nel principio tutto era "molto buono". L'equilibrio tra Creatore, uomo e natura era perfetto.
- Il punto di rottura è avvenuto nella relazione tra l'uomo e il suo Creatore. Quindi, l'origine dei guai dell'uomo non sta né nella politica (relazione con il proprio simile), né nell'ecologia (relazione con l'ambiente), ma nel suo rapporto con Dio.
- Il peccato dell'uomo sta nel non aver accettato il limite verso l'alto. Egli non si è accontentato della libertà e del dominio verso il basso, ma ha cercato un ampliamento delle sue possibilità nella conquista di una conoscenza superiore: ha desiderato essere più "intelligente", più capace di conoscere e dominare la realtà.
- Le conseguenze hanno danneggiato tutte le relazioni dell'uomo: a) verso l'alto: l'uomo è stato cacciato dalla presenza di Dio, non ha potuto mangiare il frutto dell'albero della vita, ha "conosciuto" la morte; b) a lato: l'uomo e la donna hanno iniziato un'incessante contesa (dominio dell'uomo e desideri di rivalsa della donna); c) verso il basso: la natura non si è più piegata docilmente al suo naturale dominatore, ma ha cominciato a produrre "spine e triboli".
- Tuttavia, anche dopo la caduta le relazioni dell'uomo nelle tre direzioni indicate restano dello stesso tipo, anche se distorte dalla presenza del peccato. Quindi: a) l'uomo è chiamato ad ascoltare, con ubbidienza e fiducia, la parola di Dio che lo conduce sulla via della salvezza; b) è chiamato a coltivare la comunione con i suoi simili, anche se questo non avverrà senza contrasti e sofferenze; c) è chiamato a dominare, ordinare e custodire la natura, anche se questa gli resiste tenacemente e gli procura grandi dolori e delusioni.
RIFERIMENTI STORICI
- Fino a che l'uomo è rimasto in una posizione di debolezza nei confronti della natura, egli ha provato verso di lei il timore che si ha davanti a una divinità. L'uomo ha accostato natura e divinità, e la forza minacciosa della natura lo ha spinto a cercare di ingraziarsi la divinità che ci stava dietro.
- Il rapporto tra uomo e natura, simile a quello tra uomo e divinità, è stato dunque sentito come un rapporto di forza, in cui l'uomo era la parte più debole. Per questo la scienza apparteneva ai sacerdoti: perché erano gli uomini che più di tutti gli altri conoscevano come si doveva trattare con chi ha il potere.
- Dal periodo classico dell'antica Grecia si comincia ad avere notizia di un atteggiamento più "scientifico" dell'uomo verso la natura. L'uomo avverte di poter dominare la natura non solo con l'abilità tecnica, ma anche con la capacità di "pensarla", cioè di contemplarla e di spiegare le ragioni del suo essere senza far riferimento diretto alla divinità. La cornice può restare religiosa (come nei Pitagorici), ma il metodo di approccio è più legato al pensiero dell'uomo. L'uomo comincia a prendere coscienza della possibilità di dominare la natura comprendendone le ragioni profonde con la riflessione e la speculazione.
- La geometria di Euclide è rimasta per secoli il modello insuperato di comprensione scientifica della realtà: percezione delle verità elementari e fondamentali dello spazio attraverso l'intuizione, e acquisizione di altre verità più difficili e riposte con l'uso delle capacità logiche dell'intelletto.
- L'ascesa politica e sociale della chiesa cattolica ha rallentato per molti secoli lo sviluppo dell'autonomia di pensiero dell'uomo nei confronti della natura. L'istituzione ecclesiastica ricorda all'uomo il suo limite nei confronti di Dio, ma lo fa più per innalzare se stessa che per dare gloria a Dio. La chiesa cattolica, e con essa tutto il cristianesimo, assume gradualmente la fama non del tutto immeritata di nemica della scienza e del progresso del pensiero umano.
- Nel Medioevo l'immagine del mondo era quella dei piani sovrapposti: al centro la terra, destinata all'uomo; in alto i cieli, dimora particolare di Dio e delle creature celesti; in basso l'inferno, sede del Diavolo e dei suoi angeli. Solo la realtà terrena era accessibile alla conoscenza naturale dell'uomo; ma stretta com'era tra cielo e inferno, di cui solo la chiesa ufficiale era abilitata a dare spiegazioni, ben poco era lo spazio che restava all'uomo per applicarvi la forza del suo pensiero.
- Dagli inizi del seicento alla prima metà dell'ottocento abbiamo la nascita e lo sviluppo della scienza sperimentale moderna. Nasce il concetto di legge naturale espressa in linguaggio matematico, che il ricercatore riesce a scoprire sulla base di esperimenti. Lo sviluppo imponente della matematica (geometria analitica, algebra, calcolo differenziale), con le sue prodigiose applicazioni alla meccanica terrestre e celeste, sono tali da dare le vertigini all'uomo che per secoli è rimasto rinchiuso nel mondo religioso del Medioevo. I risultati sono indiscutibili e sembrano promettere una crescita lineare della conoscenza sulla base dei metodi razionali di indagine della natura.
- L'uomo comincia a credere che la sua ragione è in grado di cogliere la struttura profonda dei fenomeni, perché essa coincide con il principio razionale costitutivo dell'universo. La scienza si emancipa quindi dalla metafisica e tende anzi a sostituirla.
- La matematica e la fisica contagiano con i loro successi tutto il mondo della scienza, e ne nasce un atteggiamento di ottimismo scientifico (positivismo) che in forma attenuata e settoriale perdura ancora oggi. E' in questo clima che nascono le grandi teorie "scientifiche" di Darwin, Marx, Freud.
- I successi della scienza dell'età moderna convincono l'uomo della forza del suo pensiero e lo spingono a sentirsi autonomo da Dio. Lo spazio infinito sostituisce i cieli, e Dio rimane senza casa. Le leggi naturali sostituiscono la provvidenza divina, e Dio rimane senza lavoro. La vecchia immagine del mondo a tre piani viene abolita e sostituita da un'altra che non ha più posto per Dio: agli uomini non è proibito averne uno, ma la sua eventuale esistenza è comunque irrilevante per l'indagine della realtà.
- Come già detto, questo atteggiamento di trionfalismo umanistico è stato favorito soprattutto dal comprensibile entusiasmo per i successi ottenuti dalla matematica e dalla fisica, un entusiasmo che poi, senza ragionevoli motivi, si è esteso a tutte le altre discipline.
- Nel frattempo, dalla fine del secolo scorso a oggi, nella matematica e nella fisica si sono verificati terremoti tremendi che hanno portato a modificare non tanto i metodi di indagine, quanto piuttosto l'intero atteggiamento concettuale verso la realtà. Ma purtroppo le profonde crisi di identità della matematica e della fisica non hanno avuto nella società la stessa ripercussione che hanno avuto i suoi successi. Probabilmente ciò è dovuto all'aspetto poco spettacolare e poco divulgativo dei veri motivi che hanno provocato questo cambiamento di atteggiamento.
- Per la matematica si possono citare: la scoperta delle geometrie non euclidee; la scoperta delle antinomie logiche; l'impossibilità di dimostrare la non esistenza di contraddizioni in un qualunque sistema logico-formale che contenga i numeri interi; la presenza ineliminabile di proposizioni indimostrabili in un qualsiasi sistema logico-formale di tipo matematico; la possibilità di costruire diverse matematiche partendo da fondamenti diversi, senza che si abbiano ragioni decisive per sceglierne una invece di un'altra. In conclusione, il tentativo serio e impegnato di dare fondamenti solidi alle discipline matematiche ha portato alla conclusione che tali fondamenti assoluti non si possono trovare. La matematica viene ormai considerata come un'attività umana, del tutto umana, di cui si riconosce che in molti casi "funziona", anche se non si sa spiegare bene perché.
- Per la fisica si possono citare: la dissoluzione del concetto di "materia" come fondamento ultimo dell'essere, sostituito dal concetto di "energia", che è un "nome" creato dagli uomini (la materia non "è", la materia "avviene"); la dissoluzione del concetto di "spazio vuoto e infinito" (non c'è spazio dove non c'è qualcosa, e quello che c'è non è infinito); la dissoluzione del concetto di "tempo infinito" (il mondo ha un'età e una durata limitate); la dissoluzione del concetto di "causa" (le particelle elementari fanno quello che vogliono, e la regolarità dei fenomeni macroscopici è un fatto statistico di cui non si conoscono i veri motivi). In conclusione, la ricerca coscienziosa di fondamenti solidi per lo studio della struttura della materia ha aperto baratri di oscurità, che hanno portato a concludere che nella fisica non si possono trovare fondamenti assoluti. Anch'essa è e resta un'attività puramente umana che si accredita nella misura in cui "funziona". E quando questo accade, non si sa bene perché.
- "Che cos'è dunque la matematica, visto che non è una struttura logica unica e rigorosa? Questa scienza è un insieme di grandi intuizioni accuratamente vagliate, raffinate e organizzate dalla logica che, in ogni epoca, gli uomini sono disposti ad applicare e sono capaci di applicare. Più essi tentano di raffinare i suoi concetti e di ordinare sistematicamente la sua struttura definitiva, più le intuizioni della matematica si fanno sofisticate. Ma questa scienza si fonda su alcune intuizioni che, forse, possono essere il prodotto di quello che sono gli organi sensoriali, il cervello e il mondo esterno. Essa è una costruzione umana e ogni tentativo di fondarla su una base assoluta è probabilmente condannato al fallimento" (M. Kline).
- "La fisica attraversa oggi un periodo di radicale trasformazione, il cui tratto saliente sembra essere il ritorno all'originaria autolimitazione. Il contenuto filosofico di una scienza viene garantito solo dalla consapevolezza dei propri limiti. Le grandiose scoperte intorno alle proprietà di singoli fenomeni naturali sono possibili solo quando non si stabilisca a priori, generalizzando, l'essenza di tali fenomeni. Solo rinunciando a stabilire che cosa siano, nella loro essenza ultima, corpo, materia, energia, ecc., la fisica può giungere a conoscere singole proprietà dei fenomeni che noi indichiamo con quei concetti, e tali conoscenze potranno poi aprire la strada a vere prospettive filosofiche" (W. Heisenberg)
- Che è successo? E' successo che nei suoi secoli d'oro la scienza ha tentato di sostituire gradualmente la metafisica, e quando ci è riuscita ne ha assunto le medesime caratteristiche. Gli attributi del Creatore sono stati trasferiti sul creato: a un Dio infinito si è sostituito uno spazio infinitamente esteso in ogni direzione; a un Dio immutabile si è sostituito una materia ultima sempre uguale a sé stessa; a un Dio eterno si è sostituito un tempo senza inizio e senza fine; a un Dio che esprime sovranamente la sua volontà si è sostituita la "volontà" delle leggi naturali. E la sostituzione è parsa vantaggiosa all'uomo, perché la natura è più adatta a subirne la concupiscenza. Essa infatti, al contrario di Dio, non ha bisogno di essere ubbidita e adorata: essa può essere dominata.
- E com'è andata a finire? E' andata a finire che fino a un certo punto la natura si è lasciata dominare, permettendo all'uomo di interpretarne e regolarne certi suoi comportamenti; ma quando questi ha tentato di scoprire in essa l'assoluto, essa si è sornionamente sottratta, e ha costretto il suo intraprendente ammiratore ad un inseguimento vano e prolungato che ha rischiato di farlo impazzire. L'uomo è andato a sbattere contro i suoi limiti, e la botta è stata dura.
LA SITUAZIONE ATTUALE DELLA MATEMATICA E DELLA FISICA
- La matematica e la fisica sono arrivate quindi ad una visione molto più sobria di sé stesse proprio in virtù della validità e legittimità dei loro metodi di indagine. Sono metodi "onesti" che hanno condotto a conclusioni oneste.
- L'onestà dei metodi può essere biblicamente fondata sul fatto che è volontà di Dio che l'uomo cerchi di comprendere, ordinare, dominare, conservare la natura che gli è stata sottoposta. Ma certamente non è volontà di Dio che l'uomo si dimentichi del suo Creatore. Non è quindi strano che l'uomo che ha sperato di incontrare l'assoluto nella natura, ha trovato qualcosa che gli ha dato un senso di angoscioso disagio, simile forse a quello che provavano i primi uomini davanti a fatti misteriosi che facevano temere la presenza di qualche minacciosa divinità.
- La situazione adesso è questa: che la matematica e la fisica restano ancora oggi (inspiegabilmente) potenti strumenti di indagine, controllo e previsione di innumerevoli fatti della vita dell'uomo, e nello stesso tempo i ricercatori hanno acquisito la sgradevole consapevolezza di non poter trovare fondamenti solidi e indiscutibili all'edificio delle loro conoscenze.
- Tutto questo conferma quello che dice la Bibbia. L'uomo è libero e dominatore quando si mette in relazione con ciò che sta sotto di lui, cioè la natura, ma va a sbattere contro insuperabili limiti quando pensa di poter dominare ciò che sta sopra di lui. E l'assoluto, sia pure ricercato nei fondamenti della matematica o della struttura della materia, sta sopra di lui.
- Ogni volta che gli uomini hanno cominciato a costruire un potente e glorioso edificio unitario, in forma politica o scientifica, Dio ha preso ad osservare gli industriosi edificatori dell'ultima torre di Babele, e alla fine è sempre sceso a confondere le lingue. E l'opera si è arrestata. Qualcosa di simile è successo anche alla matematica e alla fisica negli ultimi decenni.
- Cessata forzatamente l'edificazione superba della torre di Babele unitaria, l'opera dei matematici e dei fisici può tuttavia serenamente proseguire. Se resta nei suoi limiti, l'uomo ha la libertà di essere dominatore e ordinatore della natura; può dare nomi diversi ai fenomeni che incontra; può sostituire le teorie esistenti con altre migliori; può discutere sulla bontà di una soluzione e cercarne un'altra più adatta. Finché fa questo, non pecca: è lo spazio che Dio gli concede sulla terra. Il dominio dell'uomo sulle cose è reale e visibile (anche se non assoluto), perché rientra nel piano di Dio. L'indubbia efficacia della tecnologia, frutto evidente dell'aumento delle conoscenze, conferma che Dio gradisce che l'uomo "si renda soggetta" la terra.
- Il peccato dello scienziato della natura non sta nel suo lavoro, ma nel modo in cui considera il suo lavoro e ne applica i risultati.
LE RIPERCUSSIONI SULLE SCIENZE DELL'UOMO
- I prodigiosi successi ottenuti dalle scienze della natura nell'età moderna hanno spinto anche gli studiosi delle scienze dell'uomo (psicologia, sociologia, economia, storia, filosofia, teologia, ecc.) a cercare metodi di indagine "rigorosi" che potessero condurre a conclusioni altrettanto "certe" di quelle ottenute dalla matematica e la fisica. Chi non è rimasto intimidito davanti alle pretese di "scientificità" delle teorie di Marx e di Freud? Chi, tra i credenti, non è stato qualche volta turbato dalla "scientificità" dei risultati prodotti dalla critica biblica?
- In molte discipline di studio si continua a lavorare dentro la cornice ottimistica del positivismo ottocentesco. Si dice che un metodo di ricerca è "scientifico" quando si svolge dentro certe regole che l'ambiente dei ricercatori si è dato, ma non si sa dire qual è il valore intrinseco di quelle regole; si dice "scientifico" e si pensa a "vero", ma il problema della verità resta sostanzialmente accantonato, o peggio ancora, mistificato.
- Il tentativo di trasferire alle scienze dell'uomo il grado di certezza e di funzionalità dei risultati delle scienze della natura è stato un abuso dell'uomo superbo, che ha creduto di scorgere la possibilità di dominare con le sue ricerche non solo la terra, ma anche l'uomo e Dio. Ancora oggi viviamo, a livello popolare, in questo clima culturale. Davanti a ogni tipo di guai gli uomini invocano la scienza. Ma la scienza così intesa è un idolo, e questo è confermato dal fatto che quando cominciano a sorgere dubbi sui reali poteri della scienza, gli uomini si rivolgono a idoli più chiaramente dichiarati, come maghi, stregoni, guaritori, pratiche occulte, ecc..
- Ma l'uomo è fatto a immagine di Dio. L'uomo quindi non può studiare sé stesso come studia un pezzo di roccia, perché non ha questo mandato. L'uomo è chiamato ad avere una comunione d'amore con il suo simile e una relazione di ubbidienza fiduciosa con il suo Creatore, di cui porta l'immagine.
- Il tentativo di assumere verso l'uomo lo stesso atteggiamento che si ha verso la natura nasconde il desiderio di superare il limite imposto dal Creatore. L'uomo vuole essere "come Dio", vuole dominare non solo la natura ma anche gli uomini e gli dèi, vuole avere non solo la conoscenza delle piante e degli animali ma anche la conoscenza del bene e del male.
- Da questo si deduce che lo studioso di scienze dell'uomo corre il rischio, a differenza dello scienziato della natura, di peccare proprio nel suo lavoro. Non solo il suo atteggiamento di fondo e le applicazioni dei suoi studi possono essere peccato, ma anche i metodi stessi che usa possono essere espressione di peccato. In questo caso non si può più dire con certezza che i suoi metodi sono onesti, perché forse sono essi stessi un'espressione di rivolta contro Dio. E se non sono onesti, non sono neppure validi, perché non hanno il supporto della verità, ma della menzogna. Per esempio, marxismo e freudianesimo non si limitano a contenere "errori" che l'uomo possa correggere e modificare, essi sono "menzogne" che hanno ingannato e ingannano gli uomini, contribuendo a tenerli lontani da Dio.
- Ma, a differenza di quello che è accaduto alla matematica e alla fisica, non è detto che gli studiosi delle scienze dell'uomo arrivino ad una visione altrettanto sobria delle loro discipline. Ancora una volta, questo dipende dal fatto che i metodi usati non sono onesti e quindi non consentono di arrivare alla percezione del limite. Nella misura in cui sono menzogna, questi metodi continueranno a tenere lontano il ricercatore dalla scoperta dei suoi limiti, entro i quali sarebbe dolorosamente costretto a rientrare.
- Ma esiste anche un'altra possibilità. Matematici e fisici hanno riconosciuto i loro limiti, hanno rinunciato alla pretesa di afferrare l'assoluto e hanno ammesso che il loro studio è un'attività puramente umana. Tuttavia hanno fiducia che questa attività sia tuttora valida e possa produrre risultati utili anche in futuro. Ma la giustificazione di questa fiducia non è la stessa per tutti: essa dipende dall'immagine del mondo extra-scientifica che il ricercatore ha.
- C'è quindi spazio per il credente, il quale ha fiducia che la sua attività non è vana perché corrisponde al mandato di Dio di "lavorare e custodire" la terra. Egli sa che a fondamento di tutto il suo operare scientifico c'è Dio, anche se sa di non poterne dimostrare scientificamente la necessità.
- Ma c'è anche spazio per il non credente, che da questo crollo di assoluti può essere indotto a credere che al di là dell'attività umana non c'è nulla. Tutto è opera dell'uomo, e se si cerca un fondamento al di fuori si trova il "nulla". Anche questa possibilità non può essere dimostrata scientificamente, ma neppure può essere confutata. Resta lo spazio aperto per l'annuncio del Vangelo.
- Potrebbe quindi avvenire, e probabilmente in parte è già avvenuto, che la sobria visione di sé stesse raggiunta dalla matematica e dalla fisica si allarghi a tutta la comprensione della realtà e induca a credere che l'uomo non abbia da ricercare nulla al di fuori di sé stesso, e non solo una verità scientifica assoluta e indubitabile. Anche in questo caso sarebbe sempre l'uomo a restare al centro di ogni cosa, se non proprio nella posizione di dominatore incontrastato, almeno in quella di libero creatore del vero e del falso, del bene e del male. E anche questa sarebbe un'illecita estensione di un atteggiamento che è accettabile solo nelle scienze della natura.
- In conclusione, poiché conoscere scientificamente significa dominare, lo spazio della conoscenza scientifica, cioè di quella conoscenza che presuppone una posizione di distaccata superiorità del ricercatore nei confronti del suo oggetto di studio, è limitato a ciò che sta sotto l'uomo, cioè la natura. La conoscenza che l'uomo deve avere di Dio e del suo simile è di tutt'altro genere, e quindi non deve neppure lontanamente assomigliare alla relazione di conoscenza che lega uomo e oggetto.
- E' chiaro che con questa impostazione non si risolvono tutti i problemi specifici. Ci sono settori di confine, come la biologia e la medicina, che sono particolarmente delicati sotto questo rispetto. Ma per muoversi adeguatamente in mezzo a questioni spinose come l'ingegneria genetica, le malattie psichiche, l'eutanasia, ecc. bisogna avere non solo una conoscenza tecnica di come funzionano certe cose, ma anche dei punti di riferimento biblici entro cui far crescere la propria riflessione e cercare soluzioni concrete. Ma questo è proprio ciò che manca, e di cui i credenti dovrebbero farsi carico.
- Perché oggi le conoscenze crescono, ma la sapienza diminuisce, perché si dimentica che "il timore dell'Eterno è il principio della scienza" (Proverbi 1:7).
(Notizie su Israele, 4 agosto 2021)
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Golfo, concluso il sospetto dirottamento della nave al largo degli Emirati
Abbordata ieri da uomini armati nel Golfo dell'Oman è stata rilasciata ed è al sicuro. Lo riporta Ukmto, agenzia per la sicurezza marittima britannica che aveva dato l'allarme.
di Sharon Nizza
È finito senza danni il potenziale dirottamento di una nave al largo degli Emirati Arabi Uniti: lo rende noto l'Ukmto, agenzia per la sicurezza marittima britannica. Le persone che erano salite a bordo "hanno lasciato la nave, che adesso è al sicuro", spiega l'Ukmto su Twitter sottolineando che "l'incidente è concluso". La nave Asphalt Princess dirottata ieri è stata rilasciata. L'Ukmto in una nota, ha fatto una raccomandazione alle navi di "esercitare estrema cautela durante il transito in quest'area". Ieri pomeriggio, a circa 90 km al largo dell’emiratina Fujairah, nel Golfo, dove insieme a quello di Hormuz passa circa il 40 per cento del petrolio mondiale, quasi contemporaneamente, altre 5 petroliere hanno “perso il controllo”, ovvero non riuscivano più a muoversi: la Golden Brilliant battente bandiera di Singapore, la Velos Forza (Isole Marshall), Abyss (Vietnam), Khamdenu (Isole Cook), Queen Ematha (Guyana), la Jag Pooja (India). Ed è di cinque giorni fa l'attacco a una petroliera nel Golfo dell'Oman in cui sono stati uccisi due membri dell'equipaggio. Assalto che Israele, gli Usa e il Regno Unito hanno attribuito all'Iran. Il potenziale dirottamento è stato reso pubblico ieri dall'Ukmto. E' successo a circa 60 miglia nautiche al largo del porto emiratino di Fujairah. In base a quanto riferisce l'emittente "Sky News", un gruppo di almeno nove uomini armati l'avrebbe abbordata facendo irruzione a bordo. Secondo fonti del "The Times", tra le ipotesi vi sarebbe il coinvolgimento di forze iraniane o milizie collegate a Teheran, che smentisce alcuna responsabilità.
(la Repubblica, 4 agosto 2021)
Netanyahu: “Non dovremmo informare gli americani di tutto quello che facciamo contro l’Iran”
L’ex Primo ministro e ora leader dell'opposizione israeliana, Benjamin Netanyahu, ha criticato il governo in carica per la cosiddetta "politica senza sorprese" con gli Stati Uniti, lamentandosi che potrebbe potenzialmente contrastare gli attacchi di Israele contro il suo rivale Iran, secondo quanto riferito dai media israeliani.
Secondo Netanyahu le politiche anti-Iran dei suoi mandati avevano conseguito importanti successi proprio perché, al contrario della linea del nuovo governo, tenevano all'oscuro i presidenti americani sui piani di Israele nella regione.
"Le informazioni inviate in America potrebbero essere divulgate ai principali media e in questo modo le nostre operazioni verrebbero ostacolate", ha detto Netanyahu citato da The Times of Israel. "Ecco perché nell'ultimo decennio ho rifiutato le richieste dei presidenti americani di informarli sempre delle nostre azioni".
Secondo quanto riferito, "questo è un problema esistenziale per Israele, in cui potrebbero esserci sorprese e talvolta le sorprese sono necessarie".
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Ciò avviene mentre i massimi funzionari statunitensi e israeliani hanno discusso sulla sicurezza regionale, in cui hanno menzionato la "minaccia iraniana" sulla scia del recente attacco contro la petroliera MV Mercer Street. Il governo israeliano ha rapidamente accusato Teheran di essere dietro l'attacco, con gli alleati occidentali che hanno fatto eco alle accuse e hanno giurato una dura risposta all'Iran. Teheran ha negato qualsiasi coinvolgimento nell'incidente.
L'approccio "senza sorprese" nelle relazioni bilaterali implica che Israele informi in anticipo gli Stati Uniti in merito a qualsiasi operazione delle Forze di Difesa Israeliane contro la Repubblica islamica. Netanyahu già in precedenza aveva criticato questa politica come una minaccia alla sicurezza di Israele che avrebbe rovinato la sua libertà di azione contro il programma nucleare di Teheran.
Il governo israeliano, quando Netanyahu era primo ministro, ha a lungo lanciato l'allarme sul presunto lavoro dell'Iran per sviluppare un'arma atomica. Ciò ha portato alla convinzione che Israele fosse dietro i recenti attacchi contro l'Iran, incluso l'assassinio del suo principale scienziato nucleare Mohsen Fakhrizadeh e un incidente di "sabotaggio" presso l'impianto di Natanz, tutti atti presumibilmente volti a minare le capacità nucleari dell'Iran.
(Sputnik Italia, 3 agosto 2021)
Sheikh Jarrah, la Corte suprema israeliana rinvia la decisione: un'altra settimana per cercare un accordo
La storica contesa per la proprietà di una serie di edifici a Gerusalemme oppone alcune famiglie palestinesi e un gruppo di coloni: l'alta tensione è esplosa recentemente negli scontri tra Hamas e Israele
di Sharon Nizza
GERUSALEMME – Nessuna decisione presa e aggiornamento della Corte: è l’esito dell’atteso dibattimento che si è svolto oggi presso la Corte Suprema israeliana sulla controversia di Sheikh Jarrah, il quartiere di Gerusalemme est diventato oggetto dell’attenzione internazionale nei mesi scorsi. La disputa attuale riguarda quattro famiglie palestinesi, ma potrebbe determinare il destino di almeno altre nove famiglie che si trovano in condizioni simili e che rischiano di essere evacuate dalle loro case, secondo quanto stabilito da due precedenti gradi di giudizio che hanno confermato la proprietà ebraica dei lotti contesi. Durante le oltre cinque ore di udienza, i corridoi della Corte sono inondati di giornalisti della stampa mondiale, di parlamentari della Lista Araba Unita e del Meretz (quest’ultimo oggi parte della coalizione di governo) e di manifestanti a sostegno delle famiglie palestinesi, tra cui diverse organizzazioni israeliane per i diritti umani che si battono per la causa da decenni. All’udienza si sono presentati anche diversi diplomatici delle rappresentanze europee a Gerusalemme, tra cui Italia, Danimarca, Francia, Spagna, Germania, “per esprimere solidarietà alle famiglie contro una pratica illegale secondo il diritto internazionale”, come dice un’esponente della missione dell’Unione Europea.
La Corte si era riunita per stabilire se accogliere la richiesta di appello presentata dalle famiglie per impugnare la sentenza. Invece, il collegio dei tre giudici ha tentato di raggiungere una mediazione tra le parti, per cui ai palestinesi sarebbe confermato lo status di “inquilini protetti” per tre generazioni, ma riconoscendo la proprietà ebraica a cui verserebbero un affitto simbolico di poche centinaia di sheqel l’anno. “Il compromesso darà la possibilità di respirare per un buon numero di anni e fino ad allora si potrà raggiungere un accordo immobiliare o chissà, magari si arriverà alla pace”, ha detto il giudice Amit. Le famiglie non vogliono accettare la mediazione perché rivendicano la proprietà sulle case in questione. La Corte ha dato una settimana di tempo per cercare di fare dialogare le parti. “I giudici stanno solo cercando di evitare di assumersi le proprie responsabilità, sono preoccupati dall’impatto mediatico e vogliono spingerci a farci pagare l’affitto ai coloni”, dice fuori dall’aula Mohammad, uno dei gemelli al-Kurd diventati simbolo della battaglia, con milioni di follower sui social. “Non ho nessuna fiducia nella Corte, sono coloni che parlano a coloni”.
La vicenda si trascina nei tribunali da oltre trent’anni e nel 2009 già due famiglie palestinesi erano state sfrattate in un altro procedimento legale simile a quello in corso. Solo nei mesi scorsi però la battaglia ha raggiunto l’opinione pubblica globale, con l’hashtag #savesheikhjarrah diventato virale, dopo che il quartiere è stato al centro della tensione che ha portato il 10 maggio all’inizio di un nuovo scontro tra Israele e Hamas. Dopo giorni di scontri tra la polizia israeliana e i palestinesi che protestavano contro la minaccia di sfratto, Hamas ha lanciato dei razzi verso Gerusalemme dando il via a 11 giorni di conflitto terminati con un cessate il fuoco che ancora non è del tutto cementato e rischia di esplodere nuovamente. Per questo, la valutazione è che ci sia un interesse politico a posticipare quanto possibile qualsiasi decisione che possa rendere esecutivo lo sfratto, per evitare di gettare benzina su una situazione già incandescente.
Nei giorni scorsi, il Jerusalem Post aveva riportato una fonte vicina al premier Naftali Bennett, subentrato a Netanyahu a metà giugno, secondo cui il governo intendeva placare la controversia e non procedere allo sfratto. Sebbene lo Stato non sia parte in causa, se anche la Corte respingesse il ricorso delle famiglie palestinesi, spetta al ministero della Sicurezza Interna autorizzare de facto le operazioni di sfratto. Il nuovo esecutivo, che si regge su una maggioranza risicata ed estremamente eterogenea che include esponenti della destra nazionalista così come il partito islamista Ra’am, non intende affrontare nessuna questione altamente controversa nei prossimi mesi, almeno fino a quando non avrà superato il primo grande ostacolo, ovvero l’approvazione della finanziaria entro novembre. Secondo l’accordo di governo, se il budget non venisse approvato, l’esecutivo cadrebbe automaticamente.
“Ci sono molti modi in cui la Corte può prendere una decisione che faccia giustizia”, dice a Repubblica Eyal Raz, attivista israeliano che da oltre 15 anni manifesta tutti i venerdì a Sheikh Jarrah. “Ma la decisione va presa a livello politico, cambiando le leggi che indirizzano le decisioni dei giudici”.
Nel 1956, i giordani, che dopo la guerra del ’48 occuparono la parte orientale di Gerusalemme, costruirono su alcuni terreni fino al ’48 abitati da ebrei, 28 abitazioni per accogliere famiglie palestinesi, in cambio della rinuncia allo status di rifugiato rilasciato dall’Unrwa. Con la guerra dei Sei giorni nel ‘67, Israele conquista Gerusalemme Est dalle mani della Giordania, annettendola al resto della città che considera “capitale unica e indivisibile”. In virtù della “legge sulle proprietà degli assenti” del 1950, che consente a Israele di confiscare i beni di “chi ha lasciato le proprietà per recarsi in un Paese nemico”, le abitazioni in questione sono tornate in mano agli eredi dei proprietari ebrei, che in seguito ne hanno venduti i diritti a delle associazioni legate alla destra israeliana che vogliono ricreare in loco l’insediamento ebraico nato nel 1875 intorno a quella che la tradizione ebraica identifica come la tomba di Simeone il Giusto. “L’ingiustizia deriva dal fatto che lo stesso diritto a reclamare le proprietà antecedenti al 1948 non è riservato ai palestinesi, che rischiano di diventare profughi due volte”, dice Raz.
“Nel 1947 i Paesi arabi hanno rifiutato la Risoluzione di Spartizione dell’Onu e dichiarato guerra a Israele. Non è una condizione unica al mondo: la popolazione locale passata sotto uno Stato nemico (la Giordania in questo caso, ndr) ha perso il diritto alla proprietà nel momento in cui l’aggressore è uscito sconfitto dalla guerra”, dice Jonathan Yosef, il nipote dello storico rabbino capo sefardita d’Israele Ovadia Yosef che abitava qui negli anni ‘40. “Chi parla di pulizia etnica non sa cosa dice: agli inquilini viene offerto di rimanere pagando una cifra simbolica. Ma la proprietà è nostra e questo ci va riconosciuto”.
Tra gli inquilini minacciati dallo sfratto, c’è chi punta il dito anche contro l’ex Paese nemico d’Israele. “La Giordania ha le sue responsabilità perché ha tergiversato per anni e non ha mai compiuto la registrazione a nome nostro delle proprietà”, ci dice Samira, una delle inquiline su cui pende una causa separata che pure potrebbe concludersi con lo sfratto. Nella richiesta di appello, l’avvocato Sami Ershid, che rappresenta i ricorrenti, ha inserito un nuovo documento che la Giordania ha fatto recapitare di recente alle famiglie che dimostrerebbe che Amman stava procedendo alla registrazione della proprietà a nome degli inquilini, procedura interrotta con lo scoppio della guerra nel 1967. Non è chiaro se è un documento che potrà essere ritenuto rilevante in una fase così inoltrata del procedimento giudiziario. Quello che sembra profilarsi è un continuo rinvio della saga giudiziaria, almeno finché sarà al centro dell’attenzione internazionale.
(la Repubblica, 3 agosto 2021)
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L'oro storico di Artem divide Israele
di Davide Frattini
GERUSALEMME - In Israele ci è arrivato dodici anni fa a dodici anni. L'ebraico lo ha imparato durante gli allenamenti invece che nelle scuole create per i nuovi immigrati. Adesso è considerato un eroe che ha vinto al corpo libero la seconda medaglia d'oro nella storia sportiva del Paese. Eppure il ginnasta Artem Dolgopyat è «l'orgoglio della nazione sul podio e un cittadino di seconda classe sotto la hupa», la tenda dei matrimoni tradizionali ebraici, commenta Yoel Razvozov, il ministro del Turismo, anche lui originario dell'ex Unione Sovietica e un passato da judoka olimpionico. Lo ripete quasi in lacrime la madre di Artem: «Vive con la fidanzata da tre anni, non possono sposarsi, dovrebbero andare all'estero e lui non ha tempo». Non possono sposarsi a casa loro perché i rabbini ortodossi non riconoscono Artem come ebreo: lo è solo il lato paterno della famiglia, non la madre. Così niente cerimonia in sinagoga, resta la possibilità dell'unione civile in un Paese straniero riconosciuta poi dallo Stato israeliano. Che mette una pezza legale al monopolio del rabbinato sui matrimoni. Una soluzione che comincia a non bastare, la norma laica e quella religiosa si contrastano: Artem è potuto immigrare perché lo Stato garantisce la cittadinanza a chiunque abbia almeno un nonno ebreo.
Sempre più israeliani si trovano nelle sue condizioni, soprattutto il milione e duecentomila «russi» (lui è nato in Ucraina). Al punto che Merav Michaeli, ministra dei Trasporti e leader laburista, annuncia di voler cambiare la legge nel nome di Artem e revocare la concessione fatta ai rabbini 73 anni fa da David Ben-Gurion, il laicissimo padre fondatore della patria. I partiti religiosi preparano l'opposizione: «Ci dispiace, ma vincere l'oro non lo trasforma in ebreo».
(Corriere della Sera, 3 agosto 2021)
L’assassinio del re di Giordania nel 1951 - Un anniversario importante
di Ugo Volli
Da pochi giorni è passato il settantesimo anniversario di un evento che pochi ricordano, ma che ha avuto un influsso profondo sulle vicende del Medio Oriente: l’assassinio del re di Giordania Abdullah I, bisnonno dell’attuale sovrano che porta il suo nome. Esso fu perpetrato il 20 luglio 1951 da un palestinese, Mustafa Shukri Ashshu, legato al Muftì di Gerusalemme Amin al-Husseini a Gerusalemme per incontrare i dirigenti israeliani e trattare una pace separata. Qualche giorno prima, il 16 luglio, era stato ucciso il primo ministro del Libano, Riad al Sohl, coinvolto anch’egli nel progetto di una chiusura del conflitto con Israele. Abdullah aveva incontrato Reuven Shiloah, il primo direttore del Mossad, e Golda Meir in una serie di discussioni dal 1949 al 1950 e il giorno del suo assassinio doveva avere un altro incontro con Shiloa e col diplomatico israeliano Moshè Sasson. Nella biografia del nipote di Abdullah, Hussein (“Lion of Jordan: The Life of King Hussein in War and Peace”), si dice che il re abbia detto a Sasson: "Voglio fare la pace con Israele non perché sia diventato sionista o mi preoccupi per il benessere di Israele, ma perché è nell'interesse del mio popolo. Sono convinto che se noi non facciamo pace con voi, ci sarà un'altra guerra, e poi un'altra guerra, e un'altra guerra ancora, e noi perderemo tutte queste guerre. Quindi è supremo interesse della nazione araba fare la pace con voi."
Parole sagge e preveggenti. Ma frustrate dalla violenza dei fanatici antisemiti nel mondo arabo. L’assassinio di Abdullah non solo frustrò quella pace possibile, ma fece da esempio. Anche il primo ministro egiziano Sadat fu ucciso nel 1981 per aver fatto la pace con Israele. Raghib Nashashibi, membro della famiglia araba di Gerusalemme rivale di Amin al Husseinie sostenitore di una politica di compromesso con gli ebrei, fu sottoposto a diversi tentativi di omicidio e dovette fuggire in Egitto. Anche lo zio di Abdullah I, Feisal I, re dell’Iraq, aveva tentato un accordo di convivenza con Weizmann, siglato ai margini della conferenza di Versailles, alla fine della I Guerra Mondiale, ma poi fu costretto a rinunciare dalla violenta pressione dei dirigenti arabi che non volevano alcun accomodamento con gli ebrei.
L’omicidio di Abdullah ha segnato anche i rapporti fra Israele e Giordania con un’ambiguità che ha preso forma diverse nei decenni. Per Israele il regno hashemita è un presidio importante della lunga frontiera orientale, che la separa dai nemici più potenti come l’Iraq e, almeno fino a un certo momento l’Arabia. Per la Giordania Israele è il vicino più potente, da cui dipende non solo militarmente, ma anche per l’acqua e i trasporti. I due stati hanno un nemico comune, il sovversivismo palestinista che vuol distruggere Israele ma ambirebbe anche a impadronirsi della Giordania, che dopotutto è un pezzo del mandato britannico di Palestina, quello che fu riservato dalla Gran Bretagna agli arabi durante la sua prima divisione in “due stati”, nel 1922. Questo asse si è visto in numerosi occasioni, quando la Giordania ha bloccato le azioni terroriste, e in particolare nel settembre del 1970, quando re Hussein si decise, con il tacito appoggio israeliano, a smontare con la forza lo stato nello stato che era stato costruito da Al Fatah. Venne poi il trattato dell’Arvà fra i due stati (1994) e la reazione di Hussein a un terribile attentato terrorista quando un soldato giordano uccise a fucilate sette ragazzine adolescenti in gita scolastica in un parco sul Giordano (1997): il re si recò personalmente a chiedere scusa alle famiglie delle vittime. E però la Giordania non seppe mai resistere alle pressioni della lega araba e partecipò a tutte le guerre contro Israele, rifiutando gli accordi di non belligeranza che Israele le propose. L’occupazione giordana di Giudea e Samaria e di Gerusalemme fu una vergognosa pulizia etnica e culturale, contro tutte le norme umanitarie e i trattati. Inoltre Hussein, ma soprattutto suo figlio Abdullah II che gli è succeduto, non hanno mai risparmiato la retorica palestinista e gli attacchi pubblici allo stato ebraico, principalmente a proposito di Gerusalemme. Inoltre la Giordania si rifiuta di estradare i terroristi che vi hanno trovato rifugio, innanzitutto Ahlam Tamimi, responsabile della strage della pizzeria Sbarro. Tutto ciò si spiega pensando che la maggioranza dei sudditi giordani, inclusa la moglie del re, ha origini palestinesi e il parlamento è dominato dagli integralisti e il re è continuamente minacciato da rivolte e colpi di stato.
Ci si può chiedere come sarebbero andate le cose se gli arabi, ragionando come Abdullah I, avessero scelto la strada degli accordi invece che della guerra e del terrorismo. Senza dubbio tutto il Medio Oriente sarebbe più prospero e pacifico. Oggi, grazie agli “accordi di Abramo” patrocinati da Trump vediamo come può essere fruttuosa l’accettazione araba dell’esistenza di Israele. Nonostante tutti gli ostacoli, non si può che sperare che questa scelta si generalizzi.
(Shalom, 3 agosto 2021)
Mercer Street: Usa, Uk e Israele fanno fronte comune contro l’Iran
di Filippo Jacopo Carpani
Stati Uniti e Regno Unito uniscono le loro voci a Israele e indicano l’Iran come responsabile dell’attacco alla petroliera Mercer Street, costato la vita a due membri dell’equipaggio (un cittadino britannico e uno rumeno). Giovedì la nave è stata bersagliata da due droni suicidi mentre navigava al largo della costa dell’Oman. Il vascello, di proprietà della giapponese Taihei Kaiun Co., è gestito dalla Zodiac Maritime, parte dell’omonimo gruppo del miliardario israeliano Eyal Ofer. Non è la prima volta che una nave collegata alla Zodiac subisce un attacco: in giugno, la nave cargo Csav Tyndall, mentre navigava nell’Oceano Indiano settentrionale, è stata danneggiata da un’esplosione, le cui cause sono ancora ignote. Forse un semplice incidente o forse qualcosa di più.
Saeed Khatibzadeh, portavoce del ministero degli Esteri iraniano, ha affermato ieri che “il regime sionista ha creato insicurezza, terrore, violenza. Queste accuse riguardo al coinvolgimento dell’Iran sono condannate da Teheran”, sottolineando anche che già altre volte Israele ha rivolto accuse simili al suo Paese. La risposta dello Stato ebraico non si è fatta attendere e aiuta a comprendere quale sia la linea che il nuovo premier Naftali Bennett intende adottare in situazioni simili. Nella riunione del governo di ieri, il primo ministro ha dichiarato che “l’Iran, in maniera codarda, sta cercando di schivare le proprie responsabilità. Quindi lo dichiaro inequivocabilmente: l’Iran ha condotto l’attacco contro la nave”. Nei giorni precedenti, altri esponenti del governo israeliano avevano rilasciato dichiarazioni, come il ministro degli Esteri Yair Lapid, che ha sostenuto il fatto che “l’Iran non è solo un problema di Israele, ma un esportatore di terrorismo, distruzione e instabilità che ci danneggia tutti”, aggiungendo che “il mondo non deve stare in silenzio di fronte al terrorismo iraniano, che danneggia anche la libertà di navigazione” e che sia necessaria una dura risposta. Il sito israeliano di news Yenet ha citato un ufficiale, il cui nome non è specificato, secondo cui “sarà difficile che Israele chiuda un occhio su questo attacco”. Tutte dichiarazioni, queste, che preannunciano un aumento considerevole della tensione nell’area, ma mai quanto le parole di Bennett: “In ogni caso, sapremo come trasmettere il messaggio all’Iran”.
Londra e Washington, pur allineate con Israele, hanno commentato l’accaduto con parole decisamente meno forti, tipiche dell’equilibrata ed (decisamente troppo) educata diplomazia occidentale. Oggi, il segretario di Stato per gli affari esteri del Regno Unito Dominic Raab ha indicato come “molto probabile” la responsabilità iraniana nell’attacco, un atto “deliberato e una chiara violazione delle leggi internazionali”. Il Regno Unito, ha aggiunto, è al lavoro con i partner internazionali per stabilire una “risposta coordinata”. Il segretario di Stato americano Antony Blinken ha commentato che l’accaduto “minaccia la libertà di navigazione attraverso questa via marittima cruciale, le spedizioni, il commercio internazionale, e le vite di coloro che si trovano sulle navi coinvolte”. Gli altri Stati nell’area, per ora, non hanno rilasciato dichiarazioni.
Questo attacco non è il primo rivolto a navi collegate, in qualche modo, a Israele. Esse hanno cominciato ad essere dei bersagli dal 2019, circa un anno dopo il ritiro dell’allora presidente Donald Trump dal nuclear deal con l’Iran. Ufficiali dello Stato ebraico hanno ripetutamente accusato il governo di Teheran di essere il mandante di questi attacchi, tutti parte della shadow war tra le due nazioni. L’attacco alla Mercer Street è stato il più sanguinoso dall’inizio del conflitto. Israele stesso è sospettato di aver condotto numerosi attacchi contro l’Iran e, proprio il mese scorso, la più grande nave da guerra iraniana ha preso fuoco (in circostanze misteriose) ed è affondata, mentre si trovava vicino allo Stretto di Hormuz. Non serve essere dei complottisti per ricollegare questa (inspiegabile) tragedia, per la Marina militare iraniana, alla lunga serie di attacchi ad altri vascelli di entrambe le parti.
Restiamo in attesa di ulteriori sviluppi. In particolare, sarà interessante vedere come si muoverà il premier Bennett, già sostenitore, in passato, della necessità di attaccare direttamente l’Iran e non le sue appendici secondarie, come gli Hezbollah. Le sue parole lasciano intendere un qualche tipo di reazione, nel prossimo futuro, e rincuora il fatto che non sembri incline ad attendere le mosse della ben più lenta diplomazia occidentale. Forse basterà la sua energia a dare uno scossone a tutti gli altri Paesi danneggiati dall’aggressività di Teheran.
(l'Opinione, 2 agosto 2021)
L'attacco alla petroliera nell'Oman, ultimo episodio della guerra nell'ombra tra Iran e Israele
Il premier Bennett definisce "un atto di codardia" il tentativo di Teheran di negare il proprio coinvolgimento nell'azione con un drone suicida in cui sono morti due membri dell'equipaggio della Mercer Street, un inglese e un rumeno. Blinken parla di "indagine congiunta", Raab propone una risposta concertata "per quello che crediamo essere un attacco deliberato"
di Sharon Nizza
GERUSALEMME – L’attacco venerdì alla petroliera Mercer Street nel Golfo dell’Oman estende la partita a più attori internazionali, e con essa il possibile perimetro delle reazioni: sulla nave di proprietà giapponese, gestita dalla compagnia Zodiac Maritime, con sede a Londra, del miliardario israeliano Eyal Ofer, hanno perso la vita due uomini dell’equipaggio, un inglese e un rumeno. A pochi giorni dall’insediamento del nuovo presidente iraniano Ebrahim Raisi, con l’incognita che la sua figura riserva rispetto al futuro dell’accordo nucleare Jcpoa, Israele spera di monetizzare l’episodio per portare dalla sua maggiore sostegno diplomatico. “Il mondo ha ricevuto un promemoria dell'aggressione iraniana, questa volta via mare”, ha detto il premier Naftali Bennett, definendo un atto di “codardia” il tentativo dell’Iran di negare il proprio coinvolgimento, annunciato ieri dal portavoce del ministero degli esteri di Teheran, smentendo la televisione vicina ai pasdaran che aveva parlato venerdì di una reazione a un precedente attacco in Siria attribuito agli israeliani, che avrebbe provocato due vittime. Il ministro degli Esteri Yair Lapid si è coordinato durante il weekend con gli omologhi britannico e rumeno e il segretario di Stato Usa Antony Blinken ha parlato di “indagine congiunta”. Ieri in serata, il ministro degli Esteri inglese Dominic Raab ha detto che ci sarà una risposta concertata a “quello che crediamo essere un attacco deliberato, mirato e una chiara violazione del diritto internazionale da parte dell’Iran”.
L’attacco con un drone suicida alla Mercer è l’ultimo episodio di quella che gli israeliani chiamano la “battaglia tra le guerre” – o nel suo acronimo ebraico “Mabam” – che lo Stato ebraico e l’Iran conducono da anni nella penombra su diversi fronti. Il più noto è la Siria, dove l’aviazione israeliana colpisce periodicamente gli interessi di Teheran. Lo scontro marittimo principalmente al largo del Golfo Persico ha registrato negli ultimi sei mesi una decina di episodi, ma potrebbe essere solo la punta dell’iceberg. Solo nei mesi scorsi è trapelato questo nuovo fronte, dove almeno dal 2019 Israele attacca navi da carico e petroliere iraniane per sabotare il contrabbando di armi a Hezbollah e le spedizioni di petrolio in Siria. Dal canto suo l’Iran ha aumentato il tiro perché sa che sul fronte marittimo gioca in casa, vicino alle proprie coste, mentre Israele con una escalation rischia di danneggiare le proprie rotte commerciali, che al 99% dipendono da compagnie straniere. Un aumento dei costi assicurativi potrebbe incidere direttamente sull’economia israeliana. Un altro fronte che vede sempre più impegnati i due rivali è quello cyber: in Israele si pensa che l’attacco al mercantile sia una risposta a un’operazione di hackeraggio al sistema ferroviario iraniano avvenuta agli inizi di luglio: gli hacker sono riusciti a mandare in tilt i tabelloni nelle stazioni di tutto il Paese, peraltro lasciando il numero dell’ufficio del leader supremo Ali Khamenei “per chiarimenti”. L’anno scorso l'Iran aveva lanciato un cyber-attacco, sventato in extremis, contro il sistema idrico israeliano. Per Bennett, ancora alle prime armi del nuovo governo, si tratta di un primo banco di prova nello scacchiere internazionale. Quando ancora era ministro della Sicurezza, nel 2020, diceva che Israele deve “mirare alla testa e non ai tentacoli”: ergo puntare a Teheran per fare fuori Hamas e Hezbollah. È il messaggio con cui si prepara a visitare gli Stati Uniti, nel primo incontro con il presidente Joe Biden previsto per metà agosto a Washington.
(la Repubblica, 2 agosto 2021)
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Nave assaltata, Iran nel mirino. «Imminente una risposta dura»
Teheran nega ogni responsabilità, ma Bennett avverte: «Sbaglio che pagherete». Si muovono gli Usa.
di Fiamma Nirenstein
GERUSALEMME - «Israele dimostrerà che l'Iran ha fatto un serio errore attaccando la nave Mercer Street» ha detto il primo ministro Naftali Bennett ieri. Non gli importa se dopo una prima generica ammissione, il portavoce del ministero degli Esteri Said Khatibzadeh ha negato tutto. Per Bennett si tratta di un gesto codardo e possiamo cominciare a interrogarci su quale sarà la sanzione. Lo stesso segretario di Stato americano Antony Blinken assicura che è «imminente» una risposta appropriata. Qualcosa accadrà. Israele ha dimostrato di avere molte possibilità di penetrare la corazza iraniana per trovare la strada del cuore nucleare, delle centrali cibemetiche, delle basi dei «proxy» anche senza avventurarsi in guerre fatali.
Bennett nel passato, quando era ministro della Difesa di Netanayhu disse che avrebbe costretto l'Iran a lasciare la Siria: «Che ci sta a fare là? In 12 mesi lo cacceremo». Così disse, ma Bennett sapeva benissimo che gli Ayatollah sanno quello fanno, e che la Siria è un anello fondamentale nella loro strategia, anzi, in quella del defunto generale Soleimani che stava costruendo la sua grande «luna crescente» dall'Irak allo Yemen giù per il Libano e la Siria in tutto in Medioriente.
La nave su cui sono stati fatti fuori il capitano romeno e un inglese, era l'obiettivo, presumibilmente, di una vendetta iraniana contro i bombardamenti israeliani su basi e convogli iraniano-libanesi in Siria. 11 fatto che non sia venuta dalla Siria, può dimostrare semplicemente che le forze della Repubblica islamica sono indebolite dall'assenza di Soleimani, e che risulta più comodo colpire in mezzo al mare vicino all'Oman tramite l'uso della schiera di droni iraniani. D'altra parte può significare che è proprio il potere centrale a Teheran, compreso il nuovo presidente Raisi che sta per insediarsi, che ha deciso di colpire dove Israele è più indifeso.
L'uccisione di due marinai del tutto estranei, fra cui di un cittadino di un Paese che appartiene alla Nato, dà spazio al nuovo programma del ministro degli Esteri Yair Lapid di spiegare al mondo che l'Iran per colpire Israele non ha problemi a uccidere chi gli capita. Che il pericolo iraniano, riguarda tutti. Anzi, che le dimostrazioni di spavalderia contenute nel terrorismo gli si attagliano: fanno paura a tutti, e spingono al silenzio; portano anche al compromesso a Vienna, dove insieme a Biden tutto il mondo siede impaziente di firmare un accordo uguale a quello disastroso di Obama del 2015. Ma accadrà presto?
L'Europa dà qualche segno di essersi stufata, l'Iran ha giocato a rimandare l'accordo: tutti sanno che sta usando questo tempo per arricchire velocemente tutto l'uranio che può. Il fatto che l'Iran crei tanta confusione proprio adesso non deve essere considerato casuale: è prima di tutto un film per la folla disperata nelle strade che grida a Khamenei che non ne può più e si batte valorosamente contro la Guardia Rivoluzionaria. Se per l'Occidente arrivare a un accordo è un obiettivo che fa da comma alla parola pace, per gli Ayatollah l'interesse primario è la necessità divina di mantenere il potere e di usarlo per i propri fini espansivi. L'arricchimento atomico non sarà sacrificato se questi obiettivi non concorderanno con l'eventuale patto. Bennett parte per gli Usa per il suo primo incontro con Biden questo mese. Speriamo si capiscano.
(il Giornale, 2 agosto 2021)
Israele: 45mila over 60 hanno ricevuto terza dose
Il governo vuole accelerare campagna vaccinale
Finora 45mila israeliani di età superiore ai 60 anni o con sistema immunitario fragile hanno già ricevuto una terza dose del vaccino anti Covid, ma il primo ministro Naftali Bennett vorrebbe accelerare la campagna vaccinale.
Sono infatti 2.114 i nuovi casi di coronavirus Sars-CoV-2 registrati in Israele nelle ultime 24 ore. Lo riferisce il ministero della Salute israeliano, spiegando che 212 pazienti sono ricoverati in gravi condizioni. Si tratta del dato più alto da aprile. Il sito di Ynet sottolinea che il tasso di contagio in Israele è salito al 2,95%. Dall'inizio della pandemia, in Israele 6.474 persone sono morte per complicanze riconducibili a Covid-19.
(Adnkronos, 2 agosto 2021)
Fede e scienza. E' possibile un'interazione?
Il punto di forza su cui si appoggiano gli araldi del vaccino nella guerra contro il mostro pandemico ormai è chiaro e apparentemente inattaccabile: la scienza. Ad essa si richiama la politica, dopo di che il discorso è chiuso: la scienza ha parlato, la politica ha ordinato. Punto. I cittadini devono ubbidire. E' davvero sorprendente la cedevolezza acritica con cui tante persone di cultura laica o religiosa hanno depositato le loro armi intellettuali per accogliere quasi senza discutere l'autorità tutta da dimostrare di una scienza tutta da definire. Come cristiano evangelico che ha svolto tutta la sua attività di lavoro in ambito scientifico, mi sono sempre preoccupato di riflettere sul rapporto tra fede e scienza. Presento allora gli appunti di uno studio che presentai circa trent'anni fa a un gruppo di studenti dei GBU, Gruppi Biblici Universitari, su un libro allora da poco uscito di Jader Jacobelli, dal titolo che suona attuale: "Scienza e etica. Quali limiti?" M.C.
di Marcello Cicchese
La scienza moderna non è osservazione distaccata della realtà e sua rappresentazione concettuale. La scienza moderna è intervento sulla realtà, manipolazione. Attraverso la crescita tecnologica, questa manipolazione può produrre effetti di portata enorme e non soggetti a sicuri controlli.
Diamo per scontato di intenderci su che cosa è fede. Il problema è: che cosa intendiamo per scienza? - Nell'antichità la scienza coincideva con la metafisica, con la filosofia, perché la vera scienza era scienza dell'universale, scienza dell'"essere". Ciò che interessava era l'essenza degli oggetti, le cause che provocano le loro mutazioni, i principi che regolano i loro svolgimenti. Aristotele: "Del particolare non si dà scienza". - Con Galileo nasce la scienza moderna, all'inizio come un tentativo di ritagliare delle autonomie particolari all'interno scienza universale. Galileo non si azzardava a "tentar l'essenza" degli oggetti che studiava, ma si limitava a studiarne alcune particolari "affezioni" (accidenti). La Bibbia ci dice "come si va al cielo" e non "come va il cielo". - Lo sganciamento della scienza dalla metafisica ha consentito, nel seicento e nel settecento, risultati di portata veramente grandiosa. - Come conseguenza, la scienza non si limita più a rivendicare autonomia dalla metafisica, ma tende a sostituirsi ad essa. Si arriva al positivismo. - E' da questo momento che scoppiano, anche in campo protestante, le contrapposizioni fede-scienza. Noi protestanti siamo subito stati dalla parte di Galileo, ma abbiamo avuto qualche difficoltà con Darwin, Freud, Marx, e anche con l'uso del metodo storico-critico della Bibbia, che fa la sua apparizione alla fine del 700. - Tra la fine dell'800 e l'inizio del 900 il positivismo va in crisi per due tipi di motivi: crisi fondazionali all'interno della matematica e della fisica; rivendicazione di autonomia da parte della filosofia (varie forme di idealismi spiritualistici). - La visione della scienza tende a ridursi alla dimensione di un convenzionalismo efficace per dominare alcuni gruppi di fenomeni. - Questa può essere la visione che non dà problemi al cristiano: la scienza è un puro strumento per l'indagine di alcuni settori particolari del nostro mondo. Che ci può essere di male? - Negli ultimi anni si tende a dare, in ambito epistemologico, una visione meno rinunciataria della scienza. Essa costituisce un'effettiva forma di sapere, anzi, (come dicono alcuni) pur senza le pretese universali della metafisica antica, non esiste alcuna altra forma superiore di effettiva conoscenza. La scienza è, per l'uomo moderno, il "paradigma del sapere". Il sapere o è sapere scientifico o non è sapere. - A questo atteggiamento spingono, da una parte, la disillusione sul piano filosofico-religioso, dall'altra, la potenza travolgente dell'attuale sistema scientifico-tecnologico. - Ma proprio la potenza di questo sistema comincia a dare problemi di tipo nuovo: problemi etici. - Se fino a qualche tempo fa il contrasto tra fede e scienza si poneva ad un livello molto elevato, e poteva essere considerato come un contrasto di idee, oggi il conflitto acuto sembra avvenire sul piano del bene e del male (Evandro Agazzi, "Il bene, il male e la scienza"). Come mai? - La scienza moderna non è osservazione distaccata della realtà e sua rappresentazione concettuale. La scienza moderna è intervento sulla realtà, manipolazione. Attraverso la crescita tecnologica, questa manipolazione può produrre effetti di portata enorme e non soggetti a sicuri controlli. - Quali limiti? Il libro di J. Jacobelli potrebbe essere un buon punto d'approccio per la discussione sui rapporti fede-scienza. Per un cristiano il limite dovrebbe essere Dio, la Sua volontà. Non aveva forse Dio posto un limite alla conoscenza nel giardino di Eden? Nel libro si parla infatti del giardino di Eden, ma mai per prendere seriamente in considerazione quello che la Bibbia dice. Un solo autore nel libro sostiene che i limiti vanno cercati nella trascendenza, in un "Assoluto" non meglio identificato. Tutti gli altri cercano un "autolimite", una presa di "responsabilità" che conduca a stabilire dei limiti. Prospettiva interamente umanistica, modulata in diverse, interessanti forme. Avrebbe potuto non essere così? - L'atteggiamento coerentemente "scientifico" non è forse, per sua natura, non religioso, non fideistico? Essere scienziati coerenti non significa forse dover dimenticare di essere credenti? - Perché gli increduli discutono tranquillamente di scienza sulla base delle loro ideologie e noi cristiani non sappiamo farlo sulla base della nostra fede? - E' importante, perché in realtà il problema non sta soltanto nei rischi che si possono correre usando inopportunamente certi ritrovati tecnici (non siamo più soltanto al rischio atomico). L'apparato scientifico-tecnologico pone oggi agli uomini questioni vitali di portata planetaria, che procedono non solo dai risultati che ottiene, ma proprio dalla sua struttura teorico-pratica. - Per esempio, se nella tradizione etica occidentale l'uomo è sempre da considerarsi come fine e non come mezzo (Kant), l'apparato scientifico-tecnologico tende per sua natura a considerare se stesso come il fine e l'uomo come un mezzo. - Leggiamo in "Scienza e etica", p.61, per capire in quale forma oggi la scienza può contrapporsi alla fede. - Non tutti, anche tra gli studiosi di epistemologia, condividono la visione di una "scienza che è il nostro mondo". "Il bene, il male e la scienza": p.116. - Se veniamo ai GBU, vuol dire che siamo universitari, e quindi il nostro atteggiamento nei confronti della scienza e, in generale, della cultura è benevolo. Probabilmente siamo portati a cercare l'armonizzazione delle due sfere. - Teniamo presente, allora, che non siamo più ai tempi di Galileo. Non basta dividersi educatamente i campi della verità (da una parte le verità di fede, dall'altra quelle di scienza). Togliamoci dalla mente, una volta per tutte, l'idea che la scienza sia soltanto un semplice strumento per l'indagine di alcuni aspetti particolari della realtà. - Per l'apparato scientifico-tecnologico non c'è da spartirsi serenamente i fattori di verità da indagare. Molto semplicemente, non esiste una verità esterna che possa limitare la nostra attività. Possiamo e forse dobbiamo autolimitarci, ma non c'è nulla al di fuori di quello che noi facciamo. Questa è l'educata forma operativa (quindi non necessariamente speculativa) in cui si presenta oggi, nell'ambito scientifico, la filosofia della morte di Dio. Dopo essere scomparso il cielo metafisico, è scomparsa anche la terra metafisica, cioè la natura, intesa come limite alla conoscenza e all'azione dell'uomo. - Come atteggiarsi concretamente? Che cosa pensare? Di solito prendo posizione in modo abbastanza preciso. In questa sede preferisco limitarmi a "problematizzare", perché credo che sia questa la prima cosa da fare, data la gravità dell'impegno che ci incombe come cristiani. - Dopo aver letto il libro "Scienza e etica, quali limiti", mi sono chiesto: "Perché nessun credente ha scritto un suo contributo su questo tema? Perché ci si può rifare ad Aristotele, Platone, Kant, a Nietzsche, a Heidegger, e non a Gesù Cristo, all'apostolo Paolo, alla Bibbia? - Naturalmente ho delle idee più precise sulla questione, anche se certamente non ho portato a termine le mie riflessioni. Certamente, in un'ora non è possibile dire cose che valgano indistintamente per la fisica, la medicina, la psicologia, la parapsicologia o, magari, l'astrologia. Ritengo, in particolare, che non si possano fare gli stessi discorsi per le scienze della natura e le cosiddette scienze dell'uomo (scienze della natura: il modo di essere coincide con il dover essere). - Riflettere su quello che stiamo facendo praticando la nostra disciplina è un imperativo per i credenti che pensano di inserirsi nel mondo della scienza e della tecnica. Non è possibile, non è cristianamente lecito risolvere il problema sdoppiandosi. Non basta essere buoni cristiani andando in chiesa, leggendo la Bibbia come libro di devozione da una parte, e immergersi nella propria professione tecnico-scientifica dall'altra. E' assolutamente necessario arrivare a chiarire a noi stessi, come figli di Dio, quello che stiamo facendo nei nostri studi e nella nostra professione. - Non arriveremo a chiarire le cose in pochi giorni. Ma dobbiamo porci questo obiettivo in modo serio.
- Essere cristiani biblici consacrati, seri (con serietà non minore di quella richiestaci dalla nostra disciplina scientifica), approfondendosi nella riflessione continua e ubbidiente della Parola di Dio, convinti che "il timore dell'Eterno è il principio della scienza" (Proverbi 1:7);
- non limitarsi a fare quello che tutti fanno nel proprio ambiente di studio e di lavoro, ma riflettere, come cristiani, su quello che si fa, perché la Parola di Dio ci invita a guardarci da quella che "falsamente si chiama scienza" (1 Timoteo 6:20);
- essere pronti, fin dall'inizio, a non "amare la gloria degli uomini più della gloria di Dio".
Nulla di originale, dunque. Ma in fondo, che cosa si può chiedere a dei cristiani, se non di "amare Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente propria"?
Firenze, 26 maggio 1992
Nei prossimi giorni è prevista l'uscita di un saggio più elaborato.
(Notizie su Israele, 2 agosto 2021)
Se la Polonia nega i danni della Shoah
di Elena Loewenthal
Quella storia fa ancora tanta, tanta paura. Come fosse un presente troppo ingombrante per essere riconosciuto, ammesso, fatto proprio per riuscire a guardarlo dritto negli occhi. È proprio così, quel passato: un peso insostenibile, almeno fino a quando non farà veramente parte di una memoria condivisa. La Camera di Varsavia ha approvato nei giorni scorsi un provvedimento che fissa in trent’anni il termine massimo per impugnare una decisione amministrativa. Una decisione dall’innocua apparenza burocratica che ha invece delle colossali implicazioni storiche perché di fatto rende impossibile la restituzione dei beni ebraici sequestrati, cioè rubati durante la Shoah. Tanto è vero che a corredo di questa norma si staglia una nota da brividi da parte del ministro degli Esteri polacco: “La Polonia non è responsabile dell’Olocausto, un crimine commesso dagli occupanti polacchi”.
Per molto tempo dopo la fine della guerra le campagne intorno a Oswiecin, cioè Auschwitz, restarono coperte da una patina impalpabile, arida, grigiastra: era la cenere fuoriuscita dalle ciminiere dei forni crematori. Le si vedeva da molto distante, in quel paesaggio uniforme, quasi desolato. E i treni: i treni che passavano sempre carichi in una direzione e vuoti nell’altra. L’Europa era in quei mesi un reticolo ferroviario di viaggi avanti e indietro verso i campi di sterminio. A volte si fermavano nelle piccole stazioni sperdute, a volte correvano lasciando dietro di sé la scia di grida di terrore, dolore, sgomento. Qualche biglietto lanciato dallo stretto spiraglio d’aria dei carri merci.
Quella storia riguarda tutti: vittime. Carnefici. Il resto del mondo che non poteva non vedere, non sentire. Tutti sono responsabili di quell’orrore. Tutti. In Polonia, prima dell’inizio della guerra vivevano tre milioni di ebrei: erano lì da secoli, disseminati in una miriade di shtetlach, borghi di campagna con le sinagoghe fatte tutte di legno, e per le grandi città. Alla fine della guerra il novanta per cento di loro era stato sterminato. Sparito nel silenzio dell’assenza, nel fumo dei forni crematori.
“Tornare in Polonia, dopo quello che era successo? Non ci ho mai più messo piede e finché vivo non ci tornerò mai più. Ho paura. Tanta paura”. A più di cinquant’anni di distanza così mi disse mia suocera, israeliana dal 1948, polacca di nascita. Quel giorno capii che toccava a me, e non a lei, spiegare ai miei figli il perché di quel numero tatuato sul braccio della nonna, sbiadito dal tempo ma non dalla memoria. Per questo, e per tanto altro, come fa il ministro degli Esteri polacco a sostenere che la Shoah non riguarda i polacchi?
Quella storia, come ha detto qualche settimana Ursula von der Leyen in visita a Fossoli, è colpa e responsabilità di tutti. Lei si sente chiamata in causa da quella storia in quanto tedesca, ma tutti dovrebbero essere così come lei, di fronte a quella storia: perché riguarda tutti. Perché fino a quando non se ne sarà fatta memoria condivisa e responsabile, fino a quando non la si sarà riconosciuta come propria e non altrui, quella storia resterà un ostacolo a tutto. All’Europa, ai diritti comuni, a una pacificazione che non sia rimozione ma consapevolezza di un passato scomodo. Un passato inaccettabile, che diventa insopportabile quando si tenta, invano, di dimenticarlo.
(La Stampa, 2 agosto 2021)
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I droni contro il mercantile: la guerra sui mari tra Israele e Iran
di Davide Frattlni
GERUSALEMME La famiglia Ofer è una delle più ricche di Israele. Il decano Sammy, morto nel 2012, una volta ha donato 25 milioni di dollari per la costruzione di un parcheggio sotterraneo che potesse funzionare anche come bunker-ospedale in caso di attacco chimico. Dalle parti del porto di Haifa da dove i mercantili del gruppo salpano per tutto il mondo. Haifa, i suoi depositi di ammonio, sono tra i bersagli sempre minacciati dall'Hezbollah libanese, il gruppo filo-iraniano fa da braccio armato agli ayatollah nella sfida con Israele sul confine nord. Uno scontro che si estende alla Siria — dove l'aviazione israeliana continua a colpire gli obiettivi legati a Teheran — e da lì verso l'Oceano Indiano, i golfi e gli stretti davanti all'Oman, allo Yemen, qui navigano i mercantili sulle rotte più affollate.
L'intelligence iraniana individua — non è difficile — quali siano di proprietà israeliana (battono bandiere diverse), spesso degli Ofer e della loro Zodiac. Attaccano questi bestioni lunghi 600 metri perché sono facili da raggiungere e sanno che il messaggio sarà ricevuto a Gerusalemme: l'ultimo blitz giovedì è stato effettuato con uno sciame di droni, ha ucciso due marinai, un britannico e un rumeno, nonostante la scorta militare americana anti-pirateria. «L'Iran è un problema globale, i Pasdaran non si trattengono più: volevano così tanto colpire gli israeliani che si sono infilati in un incidente internazionale», commenta una fonte a Gerusalemme. Yair Lapid, il ministro degli Esteri, è in contatto con il britannico Dominio Raab e gli chiede «una risposta comune». Nessuna rivendicazione ufficiale come in passato. In mezzo al mare resta l'ambiguità, la stessa che copre le missioni israeliane dentro l'Iran per rallentarne lo sviluppo atomico: Anche se Aviv Kochavi, il capo di Stato Maggiore, ha avvertito: «Le nostre mosse in Medio Oriente non sono nascoste agli occhi del nemico».
In aprile una mina ha danneggiato il mercantile iraniano Saviz mentre navigava nel Mar Rosso: è considerato dagli 007 una postazione avanzata di comando usata per coordinare le operazioni degli Houthi, sostenuti da Teheran, nella guerra in Yemen. La chiamano guerra ombra, fa vittime come quella reale e prepara uno scontro aperto alla luce delle esplosioni.
(Corriere della Sera, 1 agosto 2021)
Golfo. Due vittime nella battaglia navale tra Iran e Israele
di Farian Sabahi
Uccisi da un drone iraniano due membri dell’equipaggio di una petroliera israeliana, un britannico e un rumeno. Prosegue così lo scontro a distanza tra i due paesi, mentre Teheran si prepara al passaggio di poteri tra il moderato Rohani e il conservatore Raisi
Israele accusa l’Iran di essere dietro all’attacco di giovedì scorso a una petroliera in cui hanno perso la vita un cittadino britannico e uno rumeno, membri dell’equipaggio. Senza carico, la petroliera MV Mercer Street stava procedendo da Dar es Salaam (Tanzania) nell’Oceano indiano settentrionale in direzione degli Emirati arabi.
Si trovava nei pressi dell’isola omanita di Masirah, al largo delle coste dell’Oman, nel mare Arabico. Di proprietà giapponese, batte bandiera liberiana e le sue operazioni sono gestite dalla società Zodiac Maritime con sede a Londra e di proprietà del magnate israeliano dei trasporti Eyal Ofer.
L’autorità navale britannica sta facendo luce sull’incidente e rende noto che «le forze della coalizione» stanno garantendo la sicurezza della nave che si sta spostando verso un porto sicuro. Venerdì il ministro degli Esteri israeliano, Yair Lapid, ha puntato il dito contro «il terrorismo iraniano» e ha aggiunto che «l’Iran non è solo un problema di Israele, il mondo non deve essere silenzioso».
Ora, Israele sta facendo pressione affinché vi sia un’azione internazionale nei confronti dell’Iran. In particolare, Yair Lapid ha scritto su Twitter: «Ho dato indicazioni alle ambasciate a Washington, Londra e presso l’Onu di lavorare con i loro interlocutori al governo e le rilevanti delegazioni al quartier generale del Palazzo di Vetro a New York».
Intanto, un’emittente televisiva iraniana in lingua araba avanza l’ipotesi che si sia trattato della vendetta di Teheran in seguito a un attacco israeliano a un aeroporto in Siria, alleata dell’Iran.
Da anni, Israele e Iran si stanno facendo la guerra con varie modalità. In questi anni il Mossad è riuscito a uccidere una serie di scienziati nucleari di Teheran. L’ultima vittima era stato Mohsen Fakhrizadeh lo scorso novembre.
Più di recente, a metà aprile 2021, i servizi segreti dello Stato ebraico avevano messo in atto un attacco informatico che aveva fatto saltare la corrente nello stabilimento nucleare di Natanz, destinato all’arricchimento dell’uranio.
E sono stati numerosi i bombardamenti dell’aviazione israeliana verso postazioni militari iraniane in Siria. Gli iraniani hanno ovviamente risorse decisamente inferiori rispetto alle forniture militari made in the Usa in possesso all’esercito israeliano.
Ma se gli iraniani si erano finora dimostrati succubi della forza militare israeliana, pare che in questo caso siano riusciti a colpire davvero, grazie ai droni. Sarebbe stato proprio uno di questi droni esplosivi ad avere ucciso i due membri dell’equipaggio sulla petroliera MV Mercer Street. Il risultato di questo ennesimo attacco è l’escalation in una regione già caldissima.
Nella pericolosa battaglia navale in corso in questi ultimi anni tra Iran e Israele, finora c’erano stati diversi incidenti ma senza vittime. Si era trattato di scaramucce, seguite da reciproche accuse. Ora, invece, c’è scappato il morto, anzi due. Il morto che «conta» davvero pare essere il cittadino britannico.
Intanto, sul fronte interno gli iraniani si preparano al passaggio di testimone alla presidenza tra il moderato Hassan Rohani e l’ultraconservatore Ebrahim Raisi, previsto per il 3 agosto. Si teme il peggio, ma c’è comunque una buona notizia: il leader supremo ha concesso la grazia a 2.825 prigionieri in occasione di due commemorazioni religiose.
Il 21 luglio ricorreva Eid al-Adha, la festa del sacrificio celebrata da tutti i musulmani. E giovedì scorso gli sciiti hanno celebrato Eid al-Ghadir ricordando il giorno in cui il profeta Maometto aveva designato suo erede il cugino e genero Ali.
Non è la prima volta che l’Ayatollah Khamenei dimostra clemenza nei confronti dei carcerati: in occasione dell’anniversario della nascita dell’Imam Reza aveva dato ordine di liberare 5mila prigionieri. Da questo gesto restano però esclusi i prigionieri politici.
(Diritti Globali, 1 agosto 2021)
Israele vuole acquistare diciotto CH-53K
di Aurelio Giansiracusa
Il Dipartimento di Stato di Washington ha dato parere favorevole ad una possibile vendita militare straniera (FMS) al Governo Israeliano di elicotteri da trasporto pesante CH-53K con supporto e relative attrezzature per un costo stimato di 3,4 miliardi di dollari.
La Defense Security Cooperation Agency ha consegnato la certificazione richiesta notificando al Congresso questa possibile vendita.
Il Governo di Israele ha chiesto di acquistare fino a diciotto elicotteri CH-53K Heavy Lift, fino a sessanta motori T408-GE-400 (di cui 54 installati e 6 come ricambio) e fino a trentasei sistemi di posizionamento globale integrato /sistemi di navigazione inerziale (EGI) con modulo di disponibilità selettiva/anti-spoofing (SAASM).
Inoltre, nel pacchetto richiesto sono inclusi anche le apparecchiature di comunicazione, mitragliatrici GAU-21 da 12,7×99 mm, sistemi di pianificazione della missione, lo studio, la progettazione e realizzazione di impianti.
Richiesti anche parti di ricambio, apparecchiature di supporto e collaudo, pubblicazioni e documentazione tecnica, formazione per gli equipaggi e del personale addetto alla manutenzione oltre supporto tecnico e logistico.
Gli appaltatori principali saranno Lockheed Martin e General Electric Company.
Il CH-53K “King Stallion” è l’ultima versione dell'elicottero trimotore pesante da trasporto Sikorsky (Lockheed Martin) CH-53.
Ha un equipaggio di quattro uomini e può trasportare sino a 30 soldati completamente equipaggiati ; può trasportare al gancio baricentrico sino a circa 17 tonnellate, mentre all’interno può caricare sino 11 tonnellate.
Ha una velocità massima di 170 nodi, capacità di rifornimento in volo e raggiunge i 18.000 piedi di altitudine massima.
(Ares Osservatorio Difesa, 1 agosto 2021)
Paragon Solutions : la startup israeliana super segreta
Paragon Solutions non ha un sito web. Ci sono pochissime informazioni online, anche se i dipendenti della startup con sede a Tel Aviv sono su LinkedIn. Non è male come numero di dipendenti per una azienda che sembra essere invisibile, finanziata da americani che “hackera WhatsApp e Signal”
Paragon Solutions ha un cofondatore, direttore e principale azionista che farà girare la testa: Ehud Schneorson, l’ex comandante dell’equivalente NSA israeliano, noto come Unit 8200. Gli altri cofondatori – CEO Idan Nurick, CTO Igor Bogudlov e vicepresidente della ricerca Liad Avraham – sono anche ex intelligence israeliana. Nel consiglio c’è anche il direttore cofondatore ed ex primo ministro israeliano Ehud Barak. Hanno anche un importante finanziatore americano: Battery Ventures, con sede a Boston, nel Massachusetts. Secondo due dipendenti senior di aziende del settore della sorveglianza israeliana, che hanno parlato a condizione di anonimato, hanno affermato che la venture capital ha investito tra i $ 5 e i $ 10 milioni, sebbene Battery abbia rifiutato di commentare la natura del suo investimento, che è menzionato solo in breve sul sito web della società. Il prodotto di Paragon Solutions probabilmente otterrà critiche da parte di esperti spyware ed esperti di sorveglianza allo stesso modo: Paragon Solutions afferma di dare alla polizia il potere di violare da remoto le comunicazioni crittografate di messaggistica istantanea, che si tratti di WhatsApp, Signal, Facebook Messenger o Gmail. Un altro dirigente del settore dello spyware ha affermato che promette anche di ottenere un accesso più duraturo ad un dispositivo, anche quando viene riavviato. La startup, fondata nel 2019, sta silenziosamente crescendo in un momento in cui i suoi concorrenti nel settore degli hacker su commissione sono sotto tiro. Il Progetto Pegasus, un insieme di organizzazioni non profit e pubblicazioni globali, questo mese ha affermato di aver scoperto la sorveglianza mondiale di giornalisti, avvocati e politici eletti di alto profilo da parte dei clienti del più noto fornitore di spyware israeliano, la NSO Group. L’amministratore delegato della società ha respinto le affermazioni, affermando di non avere prove che i loro strumenti siano stati utilizzati per prendere di mira quelli nominati nei rapporti, dalla moglie del giornalista assassinato Jamal Khashoggi al presidente francese Emmanuel Macron. Il governo francese ha già avviato le sue indagini, ma altre amministrazioni in tutto il mondo sono ora chiamate a indagare su chi è stato hackerato dallo spyware di NSO e perché. Anche prima del Progetto Pegasus, il presidente di Microsoft Brad Smith ha avvertito che l’industria da 12 miliardi di dollari nel suo insieme rappresentava una minaccia, scrivendo: “Un segmento dell’industria che aiuta gli attacchi informatici porta cattive notizie su due fronti. In primo luogo, aggiunge ancora più capacità ai principali aggressori degli stati/nazione e, in secondo luogo, genera una proliferazione di attacchi informatici ad altri governi che hanno i soldi ma non le persone per creare le proprie armi. In breve, aggiunge un altro elemento significativo al panorama delle minacce alla sicurezza informatica”. Un dirigente senior di Paragon, che ha rifiutato di commentare, ha affermato di non voler parlare dei suoi prodotti ma, nel tentativo di evitare i problemi che NSO ha avuto con alcuni dei suoi clienti che sono stati esclusi per uso improprio, l’esecutivo ha aggiunto che Paragon venderebbe solo a paesi che rispettano le norme internazionali e che rispettano i diritti e le libertà fondamentali. Regimi autoritari o non democratici non sarebbero mai clienti, ha aggiunto. Due fonti del settore hanno affermato di ritenere che Paragon stesse cercando di distinguersi ulteriormente promettendo di accedere alle applicazioni di messaggistica istantanea su un dispositivo, piuttosto che assumere il controllo completo di tutto su un telefono. Una delle fonti ha affermato di aver capito che lo spyware di Paragon sfrutta i protocolli delle app crittografate end-to-end, il che significa che entrerebbe nei messaggi tramite vulnerabilità nei modi principali in cui opera il software. Il personale della società, secondo i profili LinkedIn, ha un forte background nella sorveglianza, con il suo vicepresidente delle operations e il responsabile delle risorse umane ex NSO e molti dei suoi sviluppatori provenienti dalle unità di intelligence delle forze militari israeliane. Uno dei suoi sviluppatori di software, Alon Weinberg, ha precedentemente presentato una ricerca sull’hacking del software in esecuzione su chip Intel e AMD alla famosa conferenza di hacking statunitense DefCon.
SORVEGLIANZA ISRAELIANA CON I SOLDI AMERICANI Con un investitore americano, sembra che Paragon cercherà di violare le forze dell’ordine americane dove altri come NSO hanno fallito. Secondo un profilo LinkedIn, un veterano di 30 anni dell’intelligence israeliana, Menachem Pakman, è stato assunto per aiutare a trovare business negli Stati Uniti. Tuttavia, non ci sono ancora indicazioni che abbiano clienti dall’altra parte dell’Atlantico. Secondo il documento aziendale per la società, Battery ha investito tramite due dei suoi veicoli di capitale di rischio nel settembre 2019, indicando che ha contribuito a lanciare l’attività, mentre il suo vicepresidente con sede in Israele, Aaron Rinberg è un osservatore del consiglio di amministrazione di Paraandare. Battery, che ha raccolto oltre 9 miliardi di dollari dalla sua fondazione nel 1983, ha sostenuto alcuni investimenti di grande successo a suo tempo, tra cui Coinbase, Groupon, Splunk, SkullCandy e il creatore di Pokémon Go Niantic. La società non aveva commentato il suo investimento nel gioco di sorveglianza per smartphone israeliano al momento della pubblicazione. John Scott-Railton, ricercatore senior presso Citizen Lab presso la Munk School dell’Università di Toronto, ha affermato che se l’obiettivo dell’attività di Paragon è aiutare le agenzie americane a prendere di mira gli americani, allora deve essere esaminato attentamente. “Qualsiasi investitore americano che sta investendo denaro nel settore in questo momento, ha urgente bisogno di un serio controllo. Avremo bisogno di sapere chi sono i loro clienti. Abbiamo appreso cosa succede quando l’industria opera in segreto e afferma di avere a cuore la protezione dei diritti umani”, ha affermato. “L’industria dell’hack-for-hire è andata molto oltre su un arto legale.” Il dirigente di Paragon ha affermato che la società non rivelerà i futuri clienti. Paragon non è la prima azienda israeliana a prendere capitale di rischio americano al momento del lancio. Toka, che si concentra sull’aiutare le forze dell’ordine ad hackerare dispositivi Internet of Things (IoT) come Amazon Echos per la scientifica o durante le incursioni nelle proprietà, ha raccolto $ 12,5 milioni nel 2018, in un round che includeva finanziamenti da Dell Technologies Capital e Andreessen Horowitz. NSO, nel frattempo, era di proprietà di maggioranza della società di private equity statunitense Francisco Partners fino a quando una società di private equity britannica, Novalpina Capital, ne ha preso il controllo. La leadership di Paragon è anche nell’interessante posizione di lavorare sia per la difesa informatica che per le società in modalità “offensive”. Nel 2019, lo stesso anno in cui hanno fondato Paragon, Nurick e Schneorson hanno presentato una società che avevano cofondato, Hunters.ai, una startup che promette intelligenza artificiale in grado di dare la caccia agli hacker su una rete ed è supportata società di investimento di Microsoft M12.
(israele360, 1 agosto 2021)
Un eccentrico e misterioso rabbino tunisino a Nizza e nel Ponente ligure al tempo dei Savoia
di Pierluigi Casalino
Dopo la caduta di Napoleone, le restaurate monarchie imposero agli ebrei molte delle passate restrizioni. Nel 1818 Abraham Belaiss Naskar, un erudito rabbino, costretto a fuggire da Tunisi, sua città natale, probabilmente per atti poco onesti, giunse nel Regno di Sardegna dopo peregrinazioni presso varie corti europee. Fu un personaggio stravagante, che, con odi encomiastiche e comportamenti da cortigiano, seppe conquistarsi il favore dei sovrani, ma suscitò la diffidenza degli ebrei piemontesi. Parlava solo ebraico o arabo, ma Vittorio Emanuele I nel 1820 lo impose come rabbino a Nizza Marittima, con il sottinteso incarico di sorvegliare gli ebrei di quella città, sospettati di simpatie per le idee della Rivoluzione. In realtà Carlo Felice, il successore di Vittorio Emanuele I, fu amato dagli ebrei nizzardi per la sua liberalità e soprattutto da tutta la città per aver posto le basi della moderna Nizza sabauda e poi francese. Il rabbino suscitò a Nizza molte polemiche.
Dopo anni di contrasti, il rabbino tunisino, nel 1826, fu, comunque, costretto ad abbandonare Nizza, soggiornando a Sanremo e Porto Maurizio, dove non raccolse simpatie da parte di ebrei e non ebrei, per poi stabilirsi in Piemonte. Rimasto in Piemonte fino al 1830, dopo permanenze in Olanda e Francia, si stabilì a Londra, dove morì ottantenne nel 1853. Nella vita raccolse notizie per le polizie segrete di mezza Europa e seppe garantirsi una discreta capacità di superare le difficoltà quotidiane. Quando visse a Sanremo, ad esempio, collaborò attivamente con l'autorità governativa anche per attività di controspionaggio nei confronti di agenti stranieri.
(ImperiaNews.it, 1 agosto 2021)
Il “Cielo Nero” sugli ebrei libici - Intervista all’autore Herbert Avraham Arbib
di Michele Zarfati
Tra le diaspore più buie del popolo ebraico, la “diaspora libica” rappresenta senza dubbio una delle pagine più tristi della storia del ‘900. La comunità ebraica libica è stata per secoli tra le comunità ebraiche più antiche e fiorenti del Mediterraneo. Ebrei cosmopoliti forti delle loro affascinanti tradizioni, che vissero a stretto contatto, e in maniera pacifica, con le popolazioni arabe locali fino allo scoppio del secondo conflitto mondiale. Sebbene l’equilibrio cominciò ad incrinarsi a partire della Seconda Guerra mondiale, fu dal 1945 che la situazione per gli ebrei libici cominciò a cambiare radicalmente. Un’ondata di violenza si riversò sulla popolazione ebraica, a causa del nazionalismo dilagante che affondava le sue radici nei confronti dell’odio verso la nascita del nuovo stato d’Israele. Più di 32.000 ebrei emigrarono tra il 1949 e il 1951, in Israele, per rincorrere il loro ideale sionista. Successivamente la guerra dei sei giorni del 1967 rappresentò l'ultima campana per il resto della comunità ebraica, la quale fu dirottata urgentemente verso le coste italiane. Quando il colonnello Gheddafi prese il potere nel 1969, erano rimasti meno di 600 ebrei in Libia. Il nuovo regime si impegnò velocemente ad espellerli, cancellando tutte le tracce della presenza ebraica, distruggendone i cimiteri e convertendo le sinagoghe in moschee. Molti ebrei arrivarono in Italia, in particolare a Roma, alcuni momentaneamente, altri rimasero in pianta stabile cercando di ricostruire quella forte identità comunitaria ormai frammentaria. Oggi gli ebrei libici continuano ad avere un fortissimo legame con le loro tradizioni e rappresentano una parte fondamentale dell’ebraismo. Shalom ha intervistato Herbert Avraham Arbib, autore del romanzo autobiografico “Cielo Nero” (Salomone Belforte Editore, 2021). Il suo primo libro; un testo che attraverso la storia famigliare e personale dello scrittore, riesce con maestria a ripercorrere le vicende di un’intera comunità. Un grande senso di resilienza e di rinascita accompagna la narrazione.
- Perché ha deciso di scrivere questo libro? Lei viene dall’ambiente scientifico e accademico, cosa l’ha spinta a dedicarsi alla scrittura? Il libro non è la mia autobiografia, perché non interesserebbe a nessuno, è un romanzo autobiografico che cerca di ripercorrere gli ultimi decenni della diaspora ebraica in Libia. Molta gente non conosce questa storia, ed è importante raccontarla. Non sono una persona che guarda al passato in maniera nostalgica, con rimpianto, non mi sento vittima di questo. Per tutta la mia vita ho cercato di guardare al futuro, e di insegnarlo ai miei figli. Spesso si rovina il futuro per i troppi rimpianti del passato. Ma dopo essere andato in pensione e dopo la morte di mia madre, durante un viaggio a Roma, momento che coincide con l’inizio del libro, con mia nipote ho avuto modo di pensare. Ho compreso che noi libici abbiamo una storia non molto conosciuta, ci sono molti libri su questo tema ma i libri di storia ahimè vengono letti poco, così ho pensato che la nostra storia andasse raccontata. La letteratura è sempre stata la mia passione, ho scelto un'altra carriera perché sono sempre stato molto pratico e pensavo che la letteratura mi avrebbe portato solo ad insegnare, ora mi sono messo a scrivere. Il libro è uscito piano piano, partendo da Roma e raccontando il trauma del’ 67. Ognuno ha una storia, la mia ho pensato di raccontarla con un romanzo, chiaramente tutti gli eventi storici sono veri.
- Quanto è importante utilizzare la propria storia per raccontare la grande storia? Secondo me è indispensabile. Quando la storia la ascolti dagli altri è abbastanza simile, ma utilizzare la propria storia è importante per non dimenticare. Ci sono molte minoranze nel mondo, il mio libro non è rivolto solo ai tripolini o agli ebrei, anzi è destinato ad un pubblico diversificato. Del resto in Libia c’erano moltissimi italiani, questa è una storia che accomuna molti. Sentirsi vittime del passato non è una soluzione, ma neanche dimenticare lo è.
- Non è mai facile ricordare pagine dolorose della propria vita. Ha trovato difficile far affiorare i ricordi del passato per la stesura del romanzo? Molti degli eventi raccontano di ricordi e momenti tristi. Ma quel periodo per me era bello, dei primi amori, legato a ricordi quasi comici. La vita era piacevole, la società libica era estremamente cosmopolita. Vivere lì era stimolante, vivere con ebrei, arabi, italiani, non ebrei, americani, inglesi, insomma un mondo molto vasto. Al liceo, ricordo avevamo in classe anche dei greci e dei maltesi quindi un’atmosfera molto variegata. Ricordo che arrivarono i film più o meno nello stesso periodo dell’Italia. Non era vivere in un ghetto, per quanto non fosse facile, specialmente negli ultimi anni, in cui le donne giovani venivano molestate e dovevano sempre essere accompagnate. Era una società interessante, c’erano feste tra compagni di liceo. Si trattava di una società tollerante dal punto di vista religioso, non tutti erano ortodossi spesso prevalentemente tradizionalisti.
- Alla luce del suo passato, come vede le nuove forme di antisemitismo a cui stiamo assistendo ultimamente? L’antisemitismo è una specie di malattia, ma non è monolitico; è un odio che si coniuga in varie forme, molto spesso confondendolo con l’antisionismo. Ci sono tante forme di antisemitismo, quello arabo per esempio, il loro è particolare perché la loro posizione interessa tutti coloro che non sono mussulmani. C’è anche l’antisemitismo cristiano, che è molto vario. Ad esempio, in America, ci sono tantissime correnti di oppositori come i cristiani fondamentalisti, che si nutrono spesso dalla mancanza di cultura. Oggi l’antisemitismo è un problema con molte facce, che bisogna combattere. Credo tuttavia che gli ebrei non possano farlo da soli, è un problema culturale. Viviamo in un mondo complicato, sotto ogni punto di vista, dalla guerra alla crisi climatica; la situazione che stiamo attraversando ultimamente non mi permette di essere ottimista.
- Colpisce una frase del libro: “…come un rifugio che consentiva di condurre la loro vita secondo la tradizione, come un piccolo mondo che forniva loro un certo grado di sicurezza: una patria in miniatura”. Lei che oggi vive in Israele, considera ancora la Libia la sua patria? No, come dicevo non vivo più nella nostalgia del passato. Per quanto il deserto con le dune mi piaceva molto, e il mare che c’era in Libia non l’ho visto in nessun’altra parte del mondo, somigliava quasi ad una piscina, non ho nostalgia. Non sono certo che avrei voglia oggi di visitarla, io mi sono staccato del tutto a differenza di altri. Ne conservo però un ricordo, che ho cercato, attraverso questo libro, di condividere con tutto il mio pubblico. Ebrei e non, tripolini e non. Il libro è stato precedentemente edito in Israele, e momentaneamente sta andando bene. Amos Oz parlava della sua “piccola Gerusalemme” che nel tempo della narrazione diventava quasi il centro del mondo. Nel momento in cui uno scrittore scrive, lui stesso e il luogo di cui racconta è il centro del mondo, in qualunque posto, anche nel più piccolo. Non è importante che sia Roma, Tripoli o Israele, il messaggio, le conclusioni che si traggono, i passaggi che si vedono, sono universali. Anche per me è stato così, scrivere di una realtà piccola, a volte comica ma cosmopolita e ricca di contraddizioni, di cui in pochi avevano scritto prima, aveva diritto di essere raccontata.
(Shalom, 30 luglio 2021)
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Invito a godere gioie legittime con la propria moglie
Riflessioni sul libro dei Proverbi. Dal capitolo 5.
- Bevi l’acqua della tua cisterna,
l’acqua viva del tuo pozzo.
- Le tue fonti devono forse spargersi al di fuori?
I tuoi ruscelli devono forse scorrere per le strade?
- Siano per te solo,
e non per gli stranieri con te.
- Sia benedetta la tua fonte,
e rallegrati con la sposa della tua gioventù.
- Cerva d’amore, capriola di grazia,
le sue carezze t’inebrino in ogni tempo,
e sii sempre invaghito nell’affetto suo.
- Perché, figlio mio, ti invaghiresti di un’estranea,
e abbracceresti il seno della donna altrui?
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Bevi l’acqua della tua cisterna,
l’acqua viva del tuo pozzo.
Ai severi ammonimenti a guardarsi dalla donna straniera seguono i gioiosi inviti a gustare la dolcezza dei rapporti coniugali, anche nei loro aspetti corporali. Il desiderio sessuale può essere paragonato alla sete e il suo appagamento al senso di soddisfazione che si prova dopo aver bevuto profondi sorsi di acqua fresca in un giorno di grande caldo. La propria legittima sposa viene allora paragonata a una cisterna e a un pozzo , come in altri passi della Bibbia (Cantico dei Cantici 4.12,15), e il discepolo viene invitato a bere soltanto l'acqua viva del suo pozzo, e ad evitare la "fossa profonda" della prostituta e il "pozzo stretto" della straniera (23.27).
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Le tue fonti devono forse spargersi al di fuori?
I tuoi ruscelli devono forse scorrere per le strade?
Come in 5.10, l'esortazione contenuta in questo versetto vuol far evitare che i beni preziosi promessi dal Signore alla coppia che vive fedelmente il rapporto matrimoniale vadano dispersi e sciupati. La capacità di procreare, che probabilmente qui viene intesa quando si parla di fonti e ruscelli, è un privilegio meraviglioso che Dio concede all'uomo affinché si formi una famiglia (Salmo 68.6) entro la quale possa godere le Sue benedizioni. Se questo magnifico dono viene usato male, il frutto che ne viene non serve a formare una famiglia benedetta, ma fa nascere persone che invece di essere allevate in una casa dove regna l'amore sono costrette a crescere al di fuori e vivere per le strade.
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Siano per te solo,
e non per gli stranieri con te.
Se si ha con la donna straniera un rapporto simile a quello che nel piano di Dio deve essere vissuto soltanto con la propria donna, inevitabilmente i frutti di questo rapporto, ivi compresi gli eventuali figli, saranno estraniati (5.10). Il figlio avuto dalla straniera sarà anch'egli, in qualche modo, uno straniero. Inevitabilmente passerà ad altri almeno una parte della potestà che in origine Dio aveva concesso soltanto al padre.
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Sia benedetta la tua fonte,
e rallegrati con la sposa della tua gioventù.
La sposa della tua gioventù è la donna con cui l'uomo ha concluso il patto voluto da Dio e ha iniziato insieme la vita matrimoniale. Il profeta Malachia rivolge un severo invito a non dimenticare quello che è avvenuto nel passato, al tempo della gioventù, quando dice: "Il SIGNORE è testimone fra te e la moglie della tua giovinezza, verso la quale agisci slealmente, sebbene essa sia la tua compagna, la moglie alla quale sei legato da un patto" (Malachia 2.14). Il legame tra giovinezza e patto viene messo in evidenza anche dal comportamento della donna adultera, di cui si dice che"ha abbandonato il compagno della sua gioventù e ha dimenticato il patto del suo Dio" (2.17). Viceversa, la donna che vive lealmente all'interno di questo patto viene benedetta dal Signore e diventa per l'uomo una fonte di gioia. Ne discende allora per l'uomo l'invito a rallegrarsi con lei, a non permettere che il passare del tempo apra le porte al senso di stanchezza e alla noia. La consapevolezza di aver potuto costruire, sotto lo sguardo benedicente di Dio, una casa stabile in cui genitori e figli possono sentirsi accolti e protetti deve spingere l'uomo alla gioia, ma a una gioia da vivere proprio con lei, con la sposa della sua gioventù, perché la felicità vissuta insieme, oltre che essere un frutto della fedeltà al patto, contribuisce potentemente a cementare l'unione iniziata e continuata all'interno del patto.
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Cerva d’amore, capriola di grazia,
le sue carezze t’inebrino in ogni tempo,
e sii sempre invaghito nell’affetto suo.
La felicità che ha Dio preparato per la coppia uomo-donna passa anche attraverso il corpo. Il discepolo viene qui invitato a non fare quello che soprattutto per l'uomo è molto facile: separare nettamente i sentimenti d'affetto dai piaceri sessuali, voler mantenere con la moglie rapporti di tranquilla amicizia e sperimentare con la straniera le tumultuose ebbrezze del sesso. Si potrebbe dire che anche in questo caso la Scrittura esorta a non dividere ciò che Dio ha unito. L'amore autentico si prende cura del corpo (1 Corinzi 7.4), e attraverso la giusta attenzione al corpo l'amore viene alimentato e sostenuto.
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Perché, figlio mio, ti invaghiresti di un’estranea,
e abbracceresti il seno della donna altrui?
Anche nell'originale il verbo qui tradotto con "invaghire" è lo stesso di quello usato nel versetto precedente. Questo serve a sottolineare che il discepolo non ha bisogno di cercare nell'estranea quelle emozioni che può trovare in misura maggiore e in forma più autentica nella sposa della sua gioventù. In questo momento il maestro non richiama il giovane al suo dovere, ma fa appello alla sua intelligenza e gli chiede: Perché? Perché cercare in zone lontane e pericolose il sapore intenso ma artefatto di un cibo sofisticato, quando vicino a te, in un ambiente custodito e protetto dalla benedizione di Dio, puoi assaporare il gusto schietto di un cibo genuino?
M.C.
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Israele e il timore di perdere lo scudo Usa: “Finiremmo soli come un kayak nell’Oceano”
L’America non cesserà di appoggiare lo Stato ebraico, ma il disimpegno nella regione lascerà vuoti di potere.
di Stefano Stefanini GERUSALEMME. Dalla città vecchia di Gerusalemme è impossibile non sentirsi al centro del mondo. È l’ora del tramonto. I fedeli ebraici assembrati sotto il Muro del Pianto celebrano l’inizio dello Shabbat. Poco sopra, dalle Moschee di Al Aqsa e dalla Cupola della Roccia, si levano le preghiere musulmane. A un paio di centinaia di metri in linea d’aria, la Chiesa del Santo Sepolcro riunisce i cristiani di ogni culto sulla via del Calvario e della Crocifissione. Sulla Terra Santa delle religioni sono anche passati millenni di rivolgimenti geopolitici che hanno lasciato il popolo ebraico in balia delle onde, disperdendolo nei quattro angoli del globo. Oggi non è più così. Qui, gli ebrei non sono più erranti. Sono israeliani. Hanno una nazione e uno Stato. Hanno realizzato quello che chiamano «progetto Israele» ed è una storia di successo politico, economico, scientifico, culturale. Ma, nel grande gioco internazionale, sono anche coscienti di non essere una grande potenza. «Siamo l’equivalente di una media città cinese, un kayak nelle acque internazionali - dice un analista israeliano - Il nostro percorso va con la corrente, specie in mezzo alle rapide». Per il nuovo governo acrobatico di coalizione – un voto di maggioranza alla Knesset - appena subentrato alla lunga era Netanyahu, con una nuova amministrazione a Washington dopo quattro anni di tormentone Trump, non è tempo di grandi strategie. Israele cerca invece di capire in che direzione vada la corrente e di navigarla in sicurezza. I barometri sono tarati a cogliere ogni variazione atmosferica. Hanno subito registrato i venti di cambiamento che tirano in Medio Oriente. Le rilevazioni sono univoche. Sono in Israele ospite di Academic Exchange, un’organizzazione americana che da una dozzina d’anni appronta viaggi “di studio” in Israele e nei Territori palestinesi per gruppi di professori universitari, ricercatori ed esperti di affari internazionali di tutto il mondo. Finora quasi un migliaio. In questa settimana passata visitando il paese da una frontiera all’altra – le distanze sono brevi ma la varietà delle situazioni sul terreno è senza paragoni – ho raccolto da più interlocutori, tanto analisti quanto operatori sul terreno, la stessa valutazione dei giochi geopolitici in corso, dell’evolversi delle dinamiche regionali e delle conseguenze che ne trae Israele. Al centro l’incognita americana che lascia Gerusalemme con un interrogativo di fondo: quanto contare ancora sugli Stati Uniti che per mezzo secolo sono il pilastro della sicurezza di Israele e, di riflesso, punto cardinale di politica estera? Non è un cambiamento di poco conto. Se anche si tratta più di percezione che di fatti concreti – l’amministrazione Biden non ha alcuna intenzione di abbandonare Israele, i legami bilaterali rimangono solidissimi, gli F-35 arrivano - la convinzione che l’America tiri i remi in barca in Medio Oriente cambia molte carte in tavola. Quello che preoccupa Israele – e non solo Israele – non è tanto di essere abbandonato dagli Usa, che non avviene e non avverrà, ma è l’abbandono da parte degli Usa di una politica e di un impegno regionale. Il kayak israeliano è così lasciato a navigare da solo senza le portaerei americane d’appoggio nelle vicinanze. Visti da Gerusalemme gli equilibri regionali si stanno spostando a favore di chi sa approfittare del vuoto di potere lasciato da Washington: Russia, Cina e Iran. «Il ritiro americano sta avvenendo», appena confermato dai confusi segnali dall’Iraq. «La Russia sta tornando senza essersene mai andata. I cinesi si affacciano in una regione di loro priorità secondaria. L’Europa e gli europei sono spariti. L’Ue aveva l’abitudine di far un po’ di rumore. Neanche più quello». Gli israeliani, che non vogliono rimanere soli, vedono drammaticamente restringersi le sponde occidentali di riferimento, al punto di auspicare l’entrata in scena di attori alternativi come l’India, non perché la preferiscano all’Ue, ma perché hanno perso fiducia nella volontà e capacità dell’Europa di rientrare in gioco in Medio Oriente. Che fare allora? Israele vive di sicurezza essendo stato sotto minaccia di annientamento da che esiste. Oggi questa minaccia ha praticamente un solo nome: Iran. Gerusalemme guarda con apprensione ai negoziati in sordina per il rientro di Washington nell’accordo nucleare. L’atteggiamento è cambiato rispetto all’opposizione a spada tratta di Netanyahu. Questo governo non la farà. Cerca piuttosto – saggiamente – di spingere gli americani ad ottenere garanzie più stringenti da parte di Teheran e di consolidare il rapporto con gli arabi ormai diventati chiaramente alleati. Il fronte si è capovolto: «Prima erano gli arabi contro Israele; adesso sono gli israeliani e gli arabi contro l’Iran». E di mezzo non c’è solo il rischio nucleare ma anche l’espansionismo iraniano per procura che via Hezbollah lambisce ormai Israele dai confini del Nord con Libano e Siria alla polveriera di Gaza a Sud, dove Teheran rifornisce di razzi Hamas. Il rapporto con i paesi del Golfo, e soprattutto gli Accordi di Abramo con gli Emirati, sono oggi un pilastro della sicurezza di Israele. Aspettando quindi gli Usa di Joe Biden, e forse anche l’Europa? «Gli europei volevano andarsene ma non possono», spiega un analista. Il Medio Oriente è vicino, non c’è soluzione di continuità col Mediterraneo. Qualcosa cui pensare nei nostri ozi di agosto. Anche in Italia. Vista da qui la Libia è meno vicina geograficamente ma le sfide e gli attori sono gli stessi.
(La Stampa, 31 luglio 2021)
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Israele accusa l'Iran per l'attacco alla petroliera costato la vita a due membri dell'equipaggio
Il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid, ha accusato l'Iran dell'attacco al largo delle coste dell'Oman alla petroliera MV Mercer Street, operata dalla società londinese Zodiac Maritime guidata da un magnate israeliano. Gli iraniani, ha affermato Lapid parlando nella tarda serata di ieri, sono "esportatori di terrorismo". "L'Iran non è solo un problema israeliano, ma un esportatore di terrorismo, distruzione e instabilità che sta danneggiando tutti noi. Non dobbiamo mai tacere di fronte al terrorismo iraniano, che danneggia anche la libertà di navigazione", ha affermato Lapid attraverso i suoi profili social. L'attacco avvenuto nella notte tra il 29 e il 30 luglio contro la nave cisterna Mercer Street al largo delle coste dell'Oman, è costato due morti (un cittadino romeno e uno britannico). I media iraniani hanno detto che l'attacco sarebbe una risposta alla recente azione israeliana all'aeroporto di Al Dabaa nella regione di Al-Qusayr in Siria. Ad affermarlo è stata in particolare l'emittente televisiva iraniana che trasmette in lingua araba, "Al Alam". Quello mandato in onda da "Al Alam" e' il primo resoconto sull'accaduto da parte dei media iraniani. La nave cisterna Mercer Street è di proprietà giapponese, ma è operata dalla compagnia di navigazione Zodiac Maritime dell'imprenditore israeliano, Eyal Ofer. La nave cisterna sarebbe stata attaccata dai pirati mentre stava navigando senza "carico a bordo". In una nota il Comando centrale degli Stati Uniti (Centcom) ha sottolineato che le forze navali della Quinta flotta degli Stati Uniti hanno risposto ad una richiesta di emergenza lanciata dalla nave mercantile, inviando anche esperti di esplosivi a bordo. "Le prime indicazioni indicano chiaramente un attacco condotto con droni", si legge in una nota del Centcom. La Mercer Street è attualmente scortata dalla portaerei Uss Ronald Reagan. Ieri sera il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid e l'omologo britannico Dominic Raab hanno discusso al telefono di una potenziale risposta all'attacco e della volontà di portare la questione davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Il confronto tra Iran e Israele sta riscaldandosi sempre di più e l' "incidente" della Mercer Street rappresenta un passo verso l'escalation, viste le vittime.
(la Repubblica, 31 luglio 2021)
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Ormai è chiaro, l’Iran è un problema globale, non solo di Israele
E ora la “guerra ombra” tra Iran e Israele potrebbe diventare palese
L’ultimo attacco iraniano ad una petroliera nel Golfo Persico che ha causato la morte di due marinai, uno rumeno e uno britannico, è la dimostrazione palese che l’Iran non è più solo un problema israeliano ma è un problema globale. Sono queste, più o meno, le parole che il Ministro degli esteri israeliano, Yair Lapid, ha detto ieri al suo omologo britannico, Dominic Raab dopo che un drone suicida iraniano ha colpito l’ennesima petroliera di proprietà israeliana in navigazione nel Golfo Persico. Lapid ha detto al suo omologo britannico che questa volta sarà necessaria una risposta dura e, possibilmente, globale agli attacchi iraniani. Dal canto suo Teheran non solo conferma e rivendica l’attacco alla petroliera Mercer Street, battente bandiera liberiana ma di proprietà israeliana, ma afferma che è la risposta iraniana agli attacchi israeliani contro postazioni iraniane in Siria.
• ISRAELE RIUNISCE IL GABINETTO DI GUERRA Ieri sera leadership della difesa israeliana si è riunita per discutere in merito alla risposta da dare a Teheran dopo questo ultimo attacco. Alla riunione urgente convocata dal ministro della Difesa, Benny Gantz, hanno partecipato il capo di stato maggiore dell’IDF Aviv Kohavi e altri funzionari della difesa. Non è trapelato nulla sulle decisioni prese ma appare evidente che questa volta ci sarà una “energica” risposta all’attacco iraniano. “L’Iran sta seminando violenza e distruzione in ogni angolo della regione” ha dichiarato ieri sera a condizione di anonimato un funzionario israeliano di alto livello. “Erano così ansiosi di attaccare un obiettivo israeliano che si sono macchiati dell’uccisione di cittadini stranieri” ha detto ancora la fonte. “Gli iraniani hanno tolto la maschera e hanno dimostrato che non sono un problema israeliano ma globale in quanto mettono in pericolo il commercio mondiale” ha infine concluso l’alto funzionario. E ora la “guerra ombra” tra Iran e Israele potrebbe diventare palese. Teheran con l’uccisione di due cittadini stranieri ha varcato la quella linea rossa che fino ad ora non era mai stata superata da nessuno e difficilmente adesso Israele potrà fare a meno di rispondere in maniera dura, aperta e palese.
(Rights Reporter, 31 luglio 2021)
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L'Iran cerca l'incidente per zittire le proteste. Nave mercantile israeliana attaccata in Oman
I negoziati per le lunghe. I timori: quasi pronta la bomba degli Ayatollah.
di Fiamma Nirenstein
L'aggressione internazionale affiancata alla violenza interna sono sempre state la strada maestra percorsa dal regime iraniano. Lo scenario è un palcoscenico girevole, la gente soffre e le armi iraniane attaccano. In questi giorni nelle strade specie del Khuzestan sudorientale, il popolo, specie gli agricoltori, gridano disperati gli stessi slogan che si sentirono nel 2019, quando le proteste furono affogate nel sangue di 1.500 persone uccise nelle strade delle città nella Repubblica degli Ayatollah. Manca l'acqua, il regime ha scelto solo la canna da zucchero e il riso abbandonando il resto dei campi, non c'è elettricità, i contadini abbandonano il lavoro e la casa, la protesta si muove verso Teheran dalle campagne.
Ci sono già, dal 15 di luglio, inizio dei moti, 10 morti. La folla grida: «Morte al dittatore» «Khamenei, vergognati, lascia in pace l'Iran» e anche «Né Gaza né Libano, la mia vita per l'Iran»: cioè, l'Iran non ne può più dell'ideologia espansionista della leadership che usa il terrore e la violenza affiancandosi a Hamas e agli Hezbollah in battaglie di sapore ultraideologico, dei miliardi spesi per affermare l'odio contro Israele, Stati Uniti, Occidente, per allargarsi a formare una mezzaluna di potere dall'Irak al Libano, alla Siria, allo Yemen; che ambisce a diventare sempre più importante mentre non cela le consuete ambizioni atomiche.
Israele è sempre il cardellino nella miniera della disastrosa politica iraniana, e infatti era una nave mercantile israeliana quella attaccata nella notte di ieri al largo della costa dell'Oman (con due marinai uccisi), non a caso un Paese in predicato di diventare un amico istituzionale dello stato ebraico nei Patti di Abramo. Il governo israeliano tace, questa è una delle varie navi legate in qualche modo a Israele che sono state prese di mira in questo periodo, lo scontro registra ormai una quantità di episodi di varia entità, questo per ora non sembra di grande rilievo in confronto al danneggiamento, si dice da parte israeliana, di svariate centrali nucleari e alle eliminazioni mirate come quella del padre della bomba atomica Fahrizade. Gesti molto rilevanti che Israele ha compiuto contro la bomba atomica destinata alla distruzione del suo Paese; monito che tutto sarà fatto per evitare che l'Iran ottenga la bomba. Il nuovo primo ministro Bennett ha espresso la medesima posizione. Netanyahu nel 2013 aveva detto all'assemblea generale dell'Onu che se si voleva porre fine al programma nucleare iraniano pacificamente, guai a lasciare l'acceleratore delle sanzioni. Ma Obama cercava il patto a tutti i costi, e adesso Biden, mentre chiede a Khamenei di accettare il vecchio patto, aspetta pazientemente che Khamenei, come ha annunciato, torni alle trattative di Vienna dopo il 5 agosto quando il nuovo presidente Raisi sarà in carica.
Sono giorni in cui l'arricchimento dell'uranio va a mille, e così avvicina la bomba e aumenta il ricatto per ottenere un patto che i desideri degli iraniani vogliono intoccabile, quale che siano le violazioni che certamente già progettano. Proprio in questi giorni in Israele si insiste che la bomba è ormai vicinissima. La preoccupazione è che Biden, pur di cancellare la giusta scelta di Trump di conservare un patto fasullo e inutile, sia pronto a cancellare tutte le sanzioni. La confezione di un nuovo patto che preservi intatta la forza nucleare attuale dell'Iran accumulata nei mesi, e consegni a Raisi un budget che arricchisce le casse del regime, sarebbe un errore capitale. Subito diversi Paesi sunniti si muoverebbero per ottenere la bomba a loro volta. Bel risultato di pace. Comunque non distoglierebbe Israele dalla sua linea: fare qualsiasi cosa per assicurarsi che l'Iran non ottenga l'atomica.
(la Repubblica, 31 luglio 2021)
La diplomazia vaccinale dell’Iran scatena una bufera: dosi a Hezbollah
Golfo. 1,2 milioni di fiale a Beirut quando solo il 5% della popolazione iraniana è del tutto coperto. Teheran usa il Coviran-Barekat, prodotto da un’azienda vicina a Khamenei
di Farian Sabahi
Gli iraniani stanno affrontando la quinta ondata di pandemia, con numerose nuove infezioni causate dalla variante Delta. Con 202.607 casi di Covid-19 registrati in una settimana (+ 27%), l’Iran è ancora al primo posto in Medio Oriente. Una percentuale minima della popolazione iraniana – meno del 5% – ha ricevuto la doppia dose del vaccino e sono in tanti ad andare nella vicina Armenia per farsi vaccinare. Eppure, le autorità della Repubblica islamica hanno mandato 1,2 milioni di dosi di vaccino ai membri dell’Hezbollah libanese e alle loro famiglie. Secondo il sito IranWire, i vaccini made in Iran sarebbero arrivati in Libano un mese fa. Un’operazione inizialmente limitata, gradualmente estesa: la diplomazia dei vaccini serve a rafforzare vecchie alleanze. La notizia indispettisce gli iraniani, già contrariati dalla siccità nel Khuzestan e dalla repressione di regime nei confronti di chi osa protestare. Gli iraniani usano un vaccino prodotto localmente, chiamato Coviran-Barekat. L’Organizzazione mondiale della Sanità non lo ha ancora approvato, non vi sono dati o informazioni sulla sua efficacia, né tanto meno sappiamo su quante persone sia stato testato e nemmeno quali siano i suoi ingredienti. È stato sviluppato dalla società farmaceutica Shifa, una sussidiaria di Setad, ovvero dei quartieri generali di una conglomerata di enormi dimensioni che fa capo al Leader supremo Ali Khamenei (e a suo figlio Mojtaba). A inizio gennaio 2021 l’Ayatollah Khamenei aveva scritto su Twitter: «L’importazione di vaccini prodotti negli Stati uniti e in Gran Bretagna è vietato». E aveva aggiunto che «non ci possiamo fidare, questi paesi potrebbero cercare di diffondere il Covid-19 altrove». Ai manager di Twitter il post del capo di Stato della Repubblica islamica non era però piaciuto: era stato rimosso perché violava le regole sulla disinformazione. Il 29 marzo, in un contesto di emergenza, le autorità sanitarie di Teheran hanno autorizzato l’uso del vaccino Coviran-Barekat. Ora, il caso dei vaccini made in Iran sottratti al sistema sanitario per essere mandati agli Hezbollah libanesi causa un putiferio in Iran e il viceministro della Sanità iraniano Iraj Harirchi si è scusato per i ritardi nelle vaccinazioni. La società farmaceutica Shifa ha inizialmente dichiarato che le fiale erano di uno «standard inferiore», mentre i vertici di Setad si sono affrettati a dire che le dosi erano andate «perdute». È stata una fonte del sito IranWire a rivelare che le dosi sarebbero state «donate» agli Hezbollah. In sé, la donazione non dovrebbe stupire: Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, ha più volte ribadito che «il nostro pane e la nostra acqua, le nostre armi e i nostri missili, vengono tutti dall’Iran». Perché la leadership di Teheran manda i vaccini a Beirut? Questa mossa rientra nella dottrina della profondità strategica del generale dei pasdaran Suleimani, ucciso da un drone statunitense nell’aeroporto di Baghdad il 3 gennaio 2020. Si tratta di quella politica attiva in tutti i teatri confinanti e vicini – Iraq, Siria e Libano – con l’obiettivo di estendere gli interessi del paese oltre i propri confini territoriali e tessere buone relazioni con gli attori regionali in una fase storica in cui l’area è militarmente presidiata dagli Stati uniti; una dottrina utilizzata da ayatollah e pasdaran per sfuggire al senso di assedio percepito, giacché l’Iran è un’eccezione in Medio Oriente in quanto paese non arabo e, sebbene a maggioranza musulmana, nella declinazione sciita.
(il manifesto, 31 luglio 2021)
Il mago del Country d’Israele
Koby Oz ha cambiato il pop raccontando un paese che è sceso a patti con la propria identità mediorientale
E' il più influente musicista del paese, un tunisino di una città di marocchini che ha portato il sud a Tel Aviv e ha cambiato il pop israeliano
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"L'umorismo è un incredibile strumento per farsi accettare in società", dice Oz, nato a Sderot, quando era una città operaia
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Il chitarrista Uliel per Oz è stato la chiave di Sderot e della musica. Si esibirono insieme a tutti i matrimoni marocchini del paese
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La sua versione dell'inno di Israele fu eseguita per la prima volta a un concerto interrotto dalla notizia di un attacco suicida su un autobus
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di Matti Friedman
Chi è il musicista israeliano più importante dell’ultima generazione? Non intendo il più dotato o popolare, ma il più influente, senza il quale il sound del paese non sarebbe lo stesso. Il mio voto va a Kobi Oz – l’illusionista del mix-track, il cucchiaino di zucchero che aiuta a mandare giù la medicina, il tunisino di una città di marocchini che ha portato il sud a Tel Aviv e ha cambiato ciò che intendiamo quando diciamo pop israeliano. Naturalmente, più di una persona è responsabile dell’ascesa del sound, un tempo disprezzato, noto come “Mizrahi” o “Eastern”, che è diventato l’equivalente spirituale di Israele del country americano e della musica occidentale, sebbene i due generi non suonino per niente allo stesso modo. Ma dovendo scegliere un musicista che ha reso mainstream il sound Eastern, orientale, in Israele, direi Oz. Ascoltando il lavoro di Oz negli ultimi trent’anni, si ottiene il ritratto di un paese che cambia, costantemente in crisi ma anche con una vitalità irrefrenabile, un luogo che ha rinunciato a essere un altro e ha fatto i conti con se stesso. Poiché Oz e la sua band sfondarono negli anni Novanta, l’era dei video musicali, è possibile vedere i momenti cruciali della loro ascesa su YouTube, come l’uscita di “In Newsprint” nel 1993. Nessuno dava due lire a questa canzone, che ha testi pungenti nei confronti degli israeliani – li descrive come persone distratte dalle battute, dal giornalismo e dall’autoillusione – e una melodia complicata che cambia bruscamente ritmo nel mezzo e si sposta in un territorio musicale esplicitamente marocchino. La canzone era diversa da qualsiasi cosa la gente avesse ascoltato prima. Non era immediatamente chiaro se la band stesse incanalando seriamente il suono nordafricano o se ne ridesse, come era comune a quei tempi, quando la cultura Mizrahi era ancora irrisa dai custodi del gusto popolare. Il disco, il secondo della band, al tempo non andava bene e l’entusiasmo della casa discografica stava scemando. Come cantante, Oz era strano – piccolo e stravagante con una treccia, occhiali grossi, un sorriso accattivante ma per nulla amichevole, come se avesse in mente una bella battuta ma pensasse che tu non l’avresti capita. La musica della sua band, diceva la casa discografica, era “troppo araba”. Lui e la band misero insieme praticamente tutti i soldi che avevano, 600 dollari, e girarono un video di fronte a un pubblico dal vivo, in un posto a Jaffa in cui di solito si esibivano cantanti greci. La folla detestò subito sia la band sia la canzone – si vede chiaramente nel video. Questi ragazzi erano marocchini o ashkenaziti? Cos’era quello schifo? Solo quando un famoso artista greco salì poi sul palco, il pubblico iniziò a ballare, sollevato dal fatto che Oz e i suoi amici se ne fossero andati. Oz disse al cameraman di filmarlo e modificò la clip in modo che sembrasse che la gente stesse ballando sulla sua canzone. Funzionò: il video andò in onda, “In Newsprint” divenne un classico e la band non si guardò mai più indietro. “L’umorismo è un incredibile strumento israeliano per essere accettati in società”, ha detto Oz quando ci siamo incontrati in un bar di Tel Aviv. Era entrato camminando lento con un cappello da sole leopardato sopra ai sui celebri occhiali e al suo caratteristico pizzetto. Adesso Oz ha 51 anni, è uno dei più anziani della scena pop del paese, e tutti lo riconoscono per strada. “Se non vuoi essere il ragazzo che tutti ignorano”, dice, “è meglio essere quello di cui tutti ridono. Se ridono di te abbastanza a lungo, diventi uno di loro. Inizi a ridere di te stesso e poi puoi ridere di loro”. Questa osservazione ha le sue radici a Sderot, la città del sud dove Oz è nato nel 1969. Sderot è ora famosa per essere l’obiettivo preferito dei missili palestinesi lanciati dalla vicina Gaza: molte migliaia di razzi hanno colpito la città e un bambino è stato ucciso lì nell’ultimo round di combattimenti, in primavera. Ma quando Oz era un ragazzo negli anni ’70 e ’80, Sderot era solo un povero stagno i cui residenti erano per lo più proletariato nordafricano che lavorava nelle fabbriche gestite dai socialisti nei vicini kibbutz. Una città operaia con una ricca scena culturale ignorata dai più, con musicisti di talento senza accesso a radio o case discografiche, e senza la speranza di potersi avvicinare al mainstream – tutto questo sembra aver creato l’elettricità che ha messo l’underground di Sderot sulla mappa. L’hard rock era forte a Sderot anni prima che lasciasse il segno a Tel Aviv. La città ha prodotto parecchie band importanti: alcune ce l’hanno fatta a emergere, la maggior parte si è sciolta prima che qualcuno fuori potesse notarla. A Sderot c’era anche una seconda scena underground, abitata da intrattenitori che organizzavano feste e matrimoni con canzoni arabe e nomi d’arte come Sheikh Muijo e Filfel al Masri. Erano artisti arrivati con la grande migrazione in Israele dal mondo arabo e facevano del loro meglio per tenere alto il morale delle persone in un paese meno accogliente del previsto. Cantavano musica tradizionale e canzoni di protesta rivestite di un umorismo acido, che occasionalmente diventavano delle hit. Un buon esempio degli anni 50 è stato “Installments” di Filfel al Masri, sulle persone che vengono convinte a comprare ora e pagare dopo, o “Unemployment Office” di Jo Amar sul tentativo di un ragazzo marocchino di emergere da una burocrazia più favorevole per chi arrivava dalla Polonia. Sderot era un posto piccolo, ma lì accadevano un sacco di cose. Per Oz, la figura musicale chiave della città era (e rimane) il chitarrista Haim Uliel, figlio di Matatya, che era un impresario culturale e un membro delle Pantere nere, il gruppo Mizrahidi protesta anti establishment degli anni ’60 e ’70. Il giovane Uliel aveva iniziato con jeans attillati e capelli lunghi suonando i Black Sabbath, poi aveva fatto una brusca inversion tornando alla musica con cui è cresciuto nel bar di suo padre sulla via principale della città, Herzl Street. Il bar ospitava artisti ebrei del Nord Africa e anche musicisti arabi che venivano dalla vicina Gaza, che all’epoca non era un ministato gestito da terroristi e circondato da recinzioni, ma solo un posto in fondo alla strada. La scena all’Herzl Street café era un po’ losca, uomini e donne malfamati, mi aveva raccontato Uliel quando l’avevo incontrato nella piccola casa accanto dove è cresciuto e dove vive ancora – un sessantacinquenne in pantaloncini e infradito con il divano in soggiorno occupato dalla custodia di una chitarra. Ma erano quelle persone nei bassifondi che avevano finito per mantenere vivo l’antico sound. C’era una porta tra la casa e il bar e gli abitanti di questo demimonde a volte si aggiravano nella cucina di Haim. Si svegliava e trovava i batteristi addormentati sul pavimento. Uliel era, e rimane, un personaggio combattivo. Non ha il desiderio di essere accettato che ha Oz. La band di Uliel, Sfatayim (labbra), ha conservato uno stile marocchino autentico, suona con strumenti occidentali ma fa pochi altri sforzi per catturare l’orecchio europeo. Uliel teneva in poco conto non solo la musica ashkenazita, ma anche quella considerata mizrahi: la disdegnava, pensava che fosse nulla di più di canzoni greche suonate da yemeniti che erano troppo desiderosi di compiacere il pubblico. Credeva che se il mainstream non era interessato alla vera musica marocchina, il mainstream poteva andarsi a fare un giro. “A quei tempi c’era l’idea che la cosa importante fosse il testo ebraico, non la musica”, ha detto Uliel. “Pensavano che la musica fosse educazione, ma la musica non arriva per insegnarti: la musica vuole renderti triste, o felice, o farti ballare. Se vuoi educare le persone, fallo a scuola”. Quando Oz aveva 10 anni, Uliel ne aveva 20 e gestiva un festival musicale locale. Portò Oz d esibirsi e poi, quando Oz aveva 15 anni, gli fece suonare la tastiera nella sua band. Il ragazzo, ricorda Uliel, era dedito alla musica fino all’ossessione. Oz, da parte sua, ricorda di essere stato selezionato principalmente “perché ero lì”. Fu in questo periodo che Kobi Oz divenne Kobi Oz; prima di adottare il nome d’arte, era Yaakov Uzan. Si esibirono nei matrimoni marocchini in tutto il paese e Oz ricorda quel periodo come una specie di glorioso campo di addestramento. “Da bambino, ho avuto un’incredibile scuola di beat e groove: era l’Africa, era il Marocco”, dice. “Era come suonare con James Brown”. Oz frequentava anche alcuni musicisti adolescenti dei kibbutz intorno a Sderot, il che era raro: non c’erano molti contatti tra i due mondi. Alcuni di loro decisero di formare una band che avrebbe cancellato quei confini, dandole il nome di una marca di correttori per macchine da scrivere, Tipp-Ex (il riferimento, che si perde nel nome inglese della band, Teapacks, non ha comunque senso per chi abbia meno di 40 anni.) Il ragazzo di Sderot sarebbe stato al comando, con i ragazzi dei kibbutz a sostenerlo. Iniziarono a suonare nelle sale da pranzo del kibbutz, il tipo di concerto in cui dopo dovevi ripulire molto. A quel punto aveva comprato una batteria elettrica da uno dei due negozi in Israele che le vendeva, e un computer per le basi, ed era riuscito a convincere il liceo di Sderot a lasciarlo studiare musica elettronica. La scuola non aveva nessuno che potesse interrogarlo sull’argomento, quindi portarono il professionista che consideravano più vicino alla materia: un elettricista. Oz prese 10 su 10, il che gli sembrò fantastico fino a quando non arrivò il suo appuntamento con la leva e quel voto perfetto gli portò un impiego militare senza sbocchi: aggiustava i sistemi elettrici dei carri armati. Il chitarrista della band del Kibbutz Nir Am svanì nei Navy Commandos e non lo videro mai più, ma quando l’esercito ebbe finito con tutti loro, Gal Perelman del kibbutz Nahal Oz era ancora lì con il basso e Tamir Yemini del kibbutz Ruhama sui tamburi, e Ram Yosifov arrivò a Tel Aviv con una chitarra e un mandolino. Tutti e tre sono ancora nella band. Ormai era la fine degli anni Ottanta, e c’erano alcuni dj dell’Army Radio che erano interessati a sound diversi. Alon Olearchik, celebre per aver suonato la chitarra con la leggendaria band comic-rock Kaveret (Beehive), era tornato da Manhattan, dove aveva suonato in un club, e travolse le onde radio locali con una hit su un nuovo arrivato nel quartiere. Oz lo convinse a produrre l’album della band, e tutto cominciò. Il loro primo successo riguardava un ciarlatano taumaturgo, il rabbino Joe Kapara, un tipo comune nel sud israeliano. L’idea era di cantare canzoni specifiche su un luogo specifico, come la musica country: non guidi un camion – guidi una Ford col pianale ribassato. Non canti di una donna, ma di Jolene. E non vieni da qualsiasi luogo, vieni da Luckenbach, Texas, o Muskogee, o Sderot. (“Quando ascolto musica country, voglio essere nel mio paese”, dice Oz). Quello che seguì fu una serie di istantanee popolari di un paese, Israele, che cambia: un’ode alla vecchia e sporca stazione degli autobus di Tel Aviv, che era stata demolita a favore di una nuova stazione (che si era rivelata peggiore); una canzone sulle persone sedute nei bar e nelle jeep, che mettono a tacere tutto durante un’ondata di attentati suicidi; una divertente, ma non divertente “hora” sui mali della nuova prosperità di Israele. Il suono dei Teapacks è immediatamente riconoscibile e molto di ciò che è comune nella scena pop odierna può essere ricondotto a loro: non solo la normalizzazione dei ritmi nordafricani, ma l’ironica fisarmonica o l’utilizzo di versi hip-hop seguiti da un coro mizrahi, di cui Oz è stato pioniere con la canzone del 1993 “Monopoly Champion”. Da allora, mentre molti musicisti israeliani si sono spostati verso generiche sonorità occidentali (quello che Oz chiama “post londonismo disconnesso”), il lato Mizrahi della scena musicale è diventato più sfacciatamente ebraico e israeliano. Questo è lo stile di Oz, come è illustrato in una delle sue canzoni più importanti – che non ha né scritto né composto, e che non ha attirato molta attenzione quando è uscita, né dopo. Era una sera del giugno del 2001 e la band si esibiva con la regina del pop Mizrahi Sarit Hadad, diventata famosa per aver cantato con i Teapacks qualche anno prima. Cominciarono ad arrivare notizie di un attentato suicida palestinese in una discoteca di Tel Aviv; 21 persone erano morte, per lo più adolescenti. E’ il tipo di situazione che gli artisti israeliani devono affrontare. A maggio, per esempio, ero a un concerto all’aperto a Gerusalemme quando una raffica di razzi di Hamas ha colpito il centro di Israele: metà del pubblico si è alzata per rispondere alle chiamate di babysitter spaventate e il resto di noi si è girato sulle sedie di plastica bianca per guardare le piccole esplosioni rosse degli intercettatori di Iron Dome, nel cielo a ovest. I musicisti continuavano a suonare. Cos’altro avrebbero potuto fare?
Oz non voleva annullare il concerto, ma la situazione doveva essere affrontata, quindi decise di aprirlo con l’inno nazionale, “Hatikva”. Perché?, gli ho chiesto. “Avevo sempre voluto cantare ‘Hatikva’”, ha detto. Lui e Hadad avevano provato una versione che incorporava lo stile che Oz ha sentito quando suo nonno tunisino gli cantava l’inno. Era simile a quello che si può ascoltare in una bella registrazione da Tunisi nel 1932, che suggerisce non solo un diverso modo di cantare l’inno, ma un diverso sionismo. Senza aggiungere una parola, la versione di Oz sottolineò un fatto politico: l’inno era stato scritto da un europeo dell’est, ma la canzone, e il paese, appartenevano a persone di Tunisi tanto quanto a chiunque altro. Il ministro dell’Istruzione, Limor Livnat del Likud, era tra la folla quella sera e, dopo lo spettacolo, chiese loro di registrare la canzone per promuoverla nelle scuole del paese. Oz e Hadad affittarono uno studio e le inviarono la registrazione, ma non ricevettero alcuna risposta; pare che una commissione di esperti convocata al ministero dell’Istruzione non si fosse divertita affatto ascoltando quella rivisitazione. “Hatikva” di Oz è la mia versione preferita della canzone, quella di cui Israele ha bisogno ora, mentre la nostra società si sfilaccia lungo linee etniche e politiche e reclama nuove idee e suoni. I funzionari storsero il naso, Oz lo pubblicò lo stesso, includendolo come bonus track in una compilation di greatest hits nel 2003. Avrebbe trovato le orecchie giuste.
(Il Foglio, 31 luglio 2021)
Peggiorano le condizioni di salute del Presidente palestinese Abu Mazen
Uno staff medico israeliano, richiesto dalla segreteria dell’Autorità Nazionale Palestinese, è giunto oggi a Ramallah per visitare il Presidente palestinese Abu Mazen, le cui condizioni di salute hanno subìto un peggioramento nelle ultime ore. Il governo israeliano prevede che la morte di Mahmoud Abbas possa causare disordini nei territori palestinesi e portare all’insediamento di Hamas anche in Cisgiordania, a poca distanza da Gerusalemme, con un aumento delle minacce per la sicurezza.
(San Marino Rtv 30 luglio 2021)
Il Presidente della cosiddetta "Palestina" richiede la visita di uno staff medico dello Stato d'Israele!
Terza dose Pfizer agli over 60, Israele fa da apripista
Primo Paese al mondo. Anche l’Ue ci pensa: nuovo accordo con l’azienda per 1,8 miliardi di fiale
di Sharon Nizza
TEL AVIV — Oggi il presidente dello Stato Isaac Herzog sarà il primo capo di Stato a ricevere una terza iniezione Pfizer, dando il via alla campagna per la somministrazione dell’iniezione “booster” agli over 60. La decisione è stata annunciata ieri dal premier Naftali Bennett dopo settimane di discussione tra gli esperti: Israele sarà il primo paese al mondo a procedere con il richiamo, nonostante non vi sia ancora l’approvazione della Fda. I sondaggi indicano che gli israeliani hanno fiducia nella scelta, con un 72% che ha risposto che si sottoporrà alla terza iniezione, disponibile da domenica, per gli over 60 che hanno ricevuto la seconda dose almeno cinque mesi fa. Già circa 4 mila immunodepressi hanno ricevuto il booster nelle ultime settimane, senza riportare effetti collaterali. Secondo gli esperti, la scelta verrà estesa a stretto giro all’intera popolazione. «Non è stata una decisione leggera, ma non è la prima volta che anticipiamo la Fda, come è stato con la scelta di inoculare donne incinte, bambini sotto i 16 anni e ora anche sotto i 12 con malattie pregresse », dice Arnon Shahar, responsabile Covid per la cassa mutua Maccabi. Il dilemma principale degli esperti era se aspettare la versione del vaccino Pfizer in lavorazione, adattata alle nuove varianti. La decisione di procedere subito è motivata dall’aumento dei contagi nel Paese da inizi di giugno, anche tra i vaccinati: gli ultimi dati del ministero della Salute indicano che l’efficacia del vaccino nel prevenire i contagi da variante Delta è calata al 40%. Il calo è riscontrato in particolare tra gli over 60 che sono stati i primi a vaccinarsi (tra gennaio e febbraio). Rispetto ai dati sulla ridotta efficacia del vaccino, Shahar tranquillizza: «Vediamo un aumento dei contagi nella quarta ondata, ma la curva dei malati gravi non cresce in maniera esponenziale, grazie ai vaccini». Da ieri è rientrato in vigore anche il Green Pass, che era stato rimosso a inizio giugno. Di nuovo solo vaccinati, guariti o chi presenta un tampone negativo potranno accedere a raduni di oltre 100 persone, eventi culturali, ristoranti al chiuso, palestre, luoghi di culto. Dall’8 agosto, i tamponi non saranno più sovvenzionati dallo Stato (salvo per chi è impossibilitato a vaccinarsi), ma saranno a carico dei clienti a partire dai 12 anni in su.
Anche l’Ue non vuole farsi trovare impreparata. «Stiamo concludendo un terzo accordo con Pfizer per 1,8 miliardi di dosi e con Moderna per 150 milioni di fiale che serviranno se occorrerà fare una terza dose, oppure per combattere le varianti», ha detto un portavoce della Commissione.
(la Repubblica, 30 luglio 2021)
Di variante in variante, di dose in dose, di controllo in controllo. Ma - dicono - è per il bene dell'umanità. Ed è per questo che il mondo ammira Israele? Gli si ritorcerà contro. M.C.
L'ex primario Giovanardi: “Io medico senza dose mio fratello l'ha fatta vediamo chi vive di più"
di Rosario Di Raimondo
BOLOGNA - «Non sono un no vax. Chi ha fatto una scelta diversa non è un cittadino di serie B. Daniele Giovanardi, 71 anni, medico in pensione, fratello dell'ex senatore Carlo, non si vaccina.
- Perché?
«In questo momento, per me, è più rischiosa la vaccinazione che prendere il virus ».
- A un paziente cosa direbbe?
«Ho fatto fare il vaccino a centinaia di persone: settantenni con patologie, diabete, ipertensione, obesi. Ma se uno viene da me e mi chiede: "Faccio vaccinare mia figlia di 16 anni?", rispondo di no. Germania, Inghilterra, Francia escludono che si debbano usare farmaci genomici per questa fascia.
Devo stare zitto?»
- E lei non teme per la sua salute?
«Sono un ex olimpionico in perfetta salute, Se mi sveglio con la febbre, comincio dal primo giorno con delle terapie, antinfiammatori e così via. Non si capisce perché un cittadino debba essere bandito».
- Cambierà mai idea?
«Un vaccinatore mi deve scrivere due cose: che da vaccinato non infetterò nessuno; e che non è un farmaco sperimentale e c'è certezza che non avrò effetti collaterali. Deve firmare».
- Del Green Pass manco a parlarne.
«Qual è la razionalità?»
- Ha fatto arrabbiare suo fratello?
«Da 40 anni faccio il medico, lui il politico. Uno vaccinato l'altro no. Vediamo chi campa di più ...
(la Repubblica, 30 luglio 2021)
Il dibattito sulla terza dose: spunta l'ipotesi per i più fragili
Mentre Israele sarà il primo Paese ad iniziare la somministrazione di una terza dose ad anziani e più fragili, in Italia monta il dibattito: ecco cosa ne pensano gli esperti.
di Alessandro Ferro
Da un lato aumentano i casi di variante Delta, dall'altro sembra che gli anticorpi contro il Covid sviluppati dai vaccini attualmente in uso diminuiscano dopo sei mesi dalla completa immunizzazione. Un rapporto aumento-diminuzione che preoccupa in vista del prosieguo dell'estate ma soprattutto della prossima stagione autunnale. Ecco perché il dibattitto sulla terza dose si fa sempre più acceso ed il Ministero della Salute comincia ad avere le idee chiare, in particolare su anziani e fragili.
COSA DICE LO STUDIO Come abbiamo trattato di recente, l'ultima ricerca condotta dai ricercatori dell’University College di Londra e pubblicata nei giorni scorsi sulla rivista scientifica Lancet, si è infatti concentrata sulla durata dell'immunità determinata dal completamento del ciclo vaccinale; in particolare, il documento rileva che i livelli totali di anticorpi sviluppati dai vaccini Pfizer e AstraZeneca comincerebbero a diminuire sei settimane dopo l’immunizzazione completa, e gli stessi, in dieci settimane, potrebbero ridursi anche di oltre il 50%. Visto che gli anticorpi derivanti dai vaccini si riducono a questo ritmo, gli effetti protettivi dei medicinali in uso sarebbero lentamente destinati sparire, risultando quindi sempre meno efficaci contro le nuove varianti del coronavirus.
L'ITALIA CI STA PENSANDO, LA UE: "SIAMO PRONTI" A questo punto, prende sempre più corpo l'ipotesi di un piano che possa prevedere un ulteriore richiamo per alcune categorie: le persone fragili, gli immunodepressi e gli operatori sanitari che hanno iniziato le prime dose il 27 dicembre 2020 con il 'V-Day'. Il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri, intervenendo a Radio Cusano Campus, parlando della durata del vaccino ha lanciato un allarme. "Una quota della popolazione può avere una riduzione degli anticorpi dopo 6 mesi, significa che in quelle persone bisognerà fare un richiamo. È possibile - ha aggiunto - che ogni anno si debba fare un richiamo come per l'influenza". Sulla terza dose si era espresso anche Gianni Rezza, direttore generale Prevenzione del ministero della Salute. "Probabilmente un richiamo vaccinale" ulteriore contro Covid-19 "sarà nelle cose, anche se non sappiamo ancora quando, come e per chi". "Siamo molto consapevoli che può esserci bisogno di un'ulteriore dose di richiamo e questo è uno dei motivi per cui ci siamo preparati ad esempio concludendo un terzo contratto con Pfizer, tempo fa, che prevede 1,8 miliardi di dosi e l'obiettivo di queste dosi è essere pronti per le dosi di richiamo, se necessario", ha detto il portavoce della Commissione Ue, Stefan De Keersmaecker, ad un briefing con la stampa a Bruxelles.
ISRAELE COMINCIA DOMENICA Intanto, lo Stato di Israele è stato il primo a dare il via libera alla somministrazione di una terza dose di vaccino Pfizer contro il Covid-19 alle persone di età superiore a 60 anni che rischiano di sviluppare un decorso grave della malattia. Lo ha annunciato il ministero della Salute in una nota. Il comitato per la vaccinazione contro il coronavirus del ministero della Salute ha votato a maggioranza assoluta per somministrare il terzo vaccino Pfizer agli anziani nonostante non ci sia ancora l'approvazione dalla Food and Drug Administration statunitense. "La nostra strategia è chiara: salvaguardare la vita e salvaguardare la quotidianità nello Stato di Israele", ha dichiarato il primo ministro Naftali Bennett.
"SOLO PER I FRAGILI", "BAGGIANATA": SI ACCENDE IL DIBATTITO "Sulla necessità di una terza dose non ci sono dati a sufficienza per dire che andrà fatta. Probabilmente la risposta ai vaccini a mRna dura almeno un anno o di più. Io credo che la terza dose si farà ad un gruppo selezionato: agli anziani fragili, agli immunodepressi, chi è paziente oncologico o ematologico, ai trapiantati", afferma ad Adnkronos Salute Matteo Bassetti, primario di Malattie infettive all'ospedale San Martino di Genova. "Credo sia da prendere in considerazione" la terza dose di vaccino anti-Covid. Lo afferma il virologo Fabrizio Pregliasco, docente dell'Università Statale di Milano, sull'ipotesi di un piano che possa prevedere un ulteriore richiamo per le persone fragili, gli immunodepressi e gli operatori sanitari vaccinati all'inizio. Lo stesso Pregliasco fa parte di uno studio di valutazione che ha mostrato come i titoli anticorpali si siano abbassati rispetto all'inizio anche se le variabili sono molte: dagli anticorpi neutralizzanti all'immunità cellulare "manca ancora una standardizzazione", sottolinea. Una terza dose "è una solenne baggianata. Io sono tra i primi ad essere stato vaccinato, quindi sarei tra i primi candidati alla terza dose. E non la farei perché non ha senso". Massimo Galli, direttore di Malattie infettive all'ospedale Sacco di Milano, contrario anche all'ipotesi di ulteriore richiamo alle persone fragili, gli immunodepressi e gli operatori sanitari fin quando non ci sarà una valutazione "del loro stato rispetto alla risposta immunitaria". Sulla stessa linea di Galli ma in maniera un po' più moderata anche l'epidemiologo e assessore alla Sanità della Regione Puglia, Pier Luigi Lopalco, in merito alla possibilità di prevedere un ulteriore richiamo vaccinale che reputa ancora un po' "prematuro". "Dobbiamo raggiungere l'obiettivo di copertura con due dosi. Quando avremo dati robusti di durata della efficacia vaccinale, sicuramente servirà una strategia per la terza dose", conclude.
(il Giornale, 30 luglio 2021)
Giorgio Agamben: “Non discutiamo le vaccinazioni ma l’uso politico del Green Pass”
«Se si reprimono le libertà individuali per decreto a essere in pericolo è la democrazia».
di Giorgio Agamben
Quello che colpisce nelle discussioni sul green pass e sul vaccino è che, come avviene quando un paese scivola senza accorgersene nella paura e nell’intolleranza - e indubbiamente questo sta avvenendo oggi in Italia - è che le ragioni percepite come contrarie non solo non sono in alcun modo prese seriamente in esame, ma vengono rifiutate sbrigativamente, quando non diventano puramente e semplicemente oggetto di sarcasmi e di insulti. Si direbbe che il vaccino sia diventato un simbolo religioso, che, come ogni credo, funge da spartiacque fra gli amici e i nemici, i salvati e i dannati. Come può pretendersi scientifica e non religiosa una tesi che rinuncia allo scrutinio delle tesi divergenti?
Per questo è importante innanzitutto chiarire che il problema per me non è il vaccino, così come nei miei precedenti interventi in questione non era la pandemia, ma l’uso politico che ne viene fatto, cioè il modo in cui fin dall’inizio essi sono stati governati. Ai timori che si affacciavano nel documento che ho firmato con Massimo Cacciari, qualcuno ha incautamente obiettato che non c’era da preoccuparsi, «perché siamo in una democrazia». Com’ è possibile che non ci si renda conto che un paese che è ormai da quasi due anni in stato di eccezione e in cui decisioni che comprimono gravemente le libertà individuali vengono prese per decreto (è significativo che i media parlino addirittura di «decreto di Draghi», come se emanasse da un singolo uomo) non è più di fatto una democrazia? Com’è possibile che la concentrazione esclusiva sui contagi e sulla salute impedisca di percepire la Grande Trasformazione che si sta compiendo nella sfera politica, nella quale, com’ è avvenuto col fascismo, un cambiamento radicale può prodursi di fatto senza bisogno di alterare il testo della Costituzione? E non dovrebbe dare da pensare il fatto che ai provvedimenti eccezionali e alle misure di volta in volta introdotte non viene assegnata una scadenza definitiva, ma che essi vengono incessantemente rinnovati, quasi a confermare che, come i governi non si stancano di ripetere, nulla sarà più come prima e che certe libertà e certe strutture basilari della vita sociale a cui eravamo abituati sono annullate sine die? Se è certamente vero che questa trasformazione - e la crescente depoliticizzazione della società che ne risulta - erano già in corso da tempo, non sarà per questo tanto più urgente soffermarsi a valutarne finché siamo in tempo gli esiti estremi? È stato osservato che il modello che ci governa non è più la società di disciplina, ma la società di controllo -ma fino a che punto possiamo accettare che questo controllo si spinga?
È in questo contesto che si deve porre il problema politico del green pass, senza confonderlo col problema medico del vaccino, a cui non è necessariamente collegato (abbiamo fatto in passato vaccini di ogni tipo, senza che mai questo discriminasse due categorie di cittadini). Il problema non è, infatti, soltanto quello, pure gravissimo, della discriminazione di una classe di cittadini di serie B: è anche quello, che sta certamente più a cuore dell’altro ai governi, del controllo capillare e illimitato che esso permette sui titolari stoltamente fieri della loro “tessera verde”. Com’è possibile -chiediamo ancora una volta- che essi non si rendano conto che, obbligati a mostrare il loro passaporto persino quando vanno al cinema o al ristorante, saranno controllati in ogni loro movimento?
Nel nostro documento avevamo evocato l’analogia con la “propiska”, cioè col passaporto che i cittadini dell’Unione sovietica dovevano esibire per spostarsi da una località all’altra. È questa l’occasione di precisare, visto che purtroppo sembra necessario, che cos’ è un’analogia giuridico-politica. Ci è stato senza alcun motivo rimproverato di istituire un paragone fra la discriminazione risultante dal green pass e la persecuzione degli ebrei. È bene precisare una volta per tutte che solo uno stolto potrebbe equiparare i due fenomeni, che sono ovviamente diversissimi. Non meno stolto sarebbe però chi rifiutasse di esaminare l’analogia puramente giuridica - io sono giurista di formazione - fra due normative, quali sono quella fascista sugli ebrei e quella sull’istituzione del green pass. Forse non è inutile rilevare che entrambe le disposizioni sono state prese per decreto legge e che entrambe, per chi non abbia una concezione meramente positivistica del diritto, risultano inaccettabili, perché - indipendentemente dalle ragioni addotte - producono necessariamente quella discriminazione di una categoria di esseri umani, a cui proprio un ebreo dovrebbe essere particolarmente sensibile.
Ancora una volta tutte queste misure per chi abbia un minimo di immaginazione politica vanno situate nel contesto della Grande Trasformazione che i governi delle società sembrano avere in mente - ammesso che non si tratti invece, come pure è possibile, del procedere cieco di una macchina tecnologica ormai sfuggita a ogni controllo. Molti anni fa una commissione del governo francese mi convocò per dare il mio parere sull’istituzione di un nuovo documento europeo di identità, che conteneva un chip con tutti i dati biologici della persona e ogni altra possibile informazione sul suo conto. Mi sembra evidente che la tessera verde è il primo passo verso questo documento la cui introduzione è stata per qualche ragione rimandata.
Su un ultima cosa vorrei richiamare l’attenzione di chi ha voglia di dialogare senza insultare. Gli esseri umani non possono vivere se non si danno per la loro vita delle ragioni e delle giustificazioni, che in ogni tempo hanno preso la forma di religioni, di miti, di fedi politiche, di filosofie e di ideali di ogni specie. Queste giustificazioni sembrano oggi - almeno nella parte dell’umanità più ricca e tecnologizzata - venute meno e gli uomini si trovano forse per la prima volta di fronte alla loro pura sopravvivenza biologica, che, a quanto pare, si rivelano incapaci di accettare. Solo questo può spiegare perché, invece di assumere il semplice, amabile fatto di vivere gli uni accanto agli altri, si sia sentito il bisogno di instaurare un implacabile terrore sanitario, in cui la vita senza più giustificazioni ideali è minacciata e punita a ogni istante da malattie e morte. Così come non ha senso sacrificare la libertà in nome della libertà, così non è possibile rinunciare, in nome della nuda vita, a ciò che rende la vita degna di essere vissuta. —
(La Stampa, 30 luglio 2021)
“Cacciari ha ragione, siamo ipnotizzati. La scienza non oscuri le minoranze”
«Mi inquieta la minaccia di mandare l’esercito a stanare chi non si è fatto iniettare la sua dose». di Carlo Freccero
È necessario arrivare ad un punto di rottura perché la rottura si realizzi. Dall’inizio della pandemia i popoli di tutto il mondo sono scesi in piazza innumerevoli volte. Gli italiani sembravano sedati da una sorta di ipnosi. Con il green pass il miracolo si è compiuto: le piazze italiane si sono riempite. Ed è interessante notare che in piazza a contestare c’erano non solo i no-vax, ma anche i vaccinati, che, per motivi di principio, protestano per tutelare le libertà costituzionali. Lo stesso concetto è ribadito da Cacciari nell’articolo di ieri: io mi sono vaccinato, ma la democrazia è libertà di scelta e questa libertà di scelta va difesa. Nel contesto del generale risveglio si pone il pezzo firmato congiuntamente da Cacciari e di Agamben che, bisogna dargliene atto, è stato l’unico ad intervenire dai primi giorni della pandemia con i suoi interventi quotidiani su Quodlibet. Purtroppo la sua voce è stata isolata ed ascoltata solo da minoranze. Per attirare l'attenzione di un numero sufficiente di persone, bisognava esagerare. E si è esagerato. La somministrazione dei vaccini è stata affidata all’esercito per sottolineare il clima di emergenza, di protezione civile in cui ci troviamo. Ma per chi ha la mia età l’idea di una scelta sanitaria imposta dall’esercito ha qualcosa di inquietante come inquietanti suonano le minacce di mandare l’esercito porta a porta a «stanare» i non vaccinati. Analogamente, per quelli della mia generazione, la morte di De Donno evoca il fantasma di Pinelli. Per la mia professione nella comunicazione il primo problema che ha attirato la mia attenzione è stato da subito la mancanza di alternativa imposta al discorso pandemico. Democrazia significa tutela del parere delle minoranze. Questo parere è stato sradicato in nome della scienza, chi lo professava è stato zittito ed insultato nei dibattiti pubblici. Nell’articolo contro il green pass, pubblicato dall’Istituto Italiano di Studi Filosofici di Napoli, Agamben e Cacciari criticano il green pass affermando che «la discriminazione di una categoria di persone, che diventano automaticamente cittadini di serie B, è di per sé un fatto gravissimo, le cui conseguenze possono essere drammatiche per la vita democratica». L’art. 3 della Costituzione italiana vieta esplicitamente ogni forma di discriminazione. L'affermazione dei due filosofi dovrebbe quindi essere, in qualche modo,ovvia. Invece il fatto stesso che il sito Dagospia definisca l’articolo una «bomba» solo perché dissente dalla vulgata del «mainstream» è una conferma di quanto gli autori espongono nell’articolo citato e cioè del pericolo di una deriva totalitaria. Mi sembra di assoluta evidenza che un’informazione che bandisce qualsiasi forma di dissenso, sia di per sé sinonimo di propaganda. E la propaganda ha poco di democratico. Da quando è iniziata la pandemia la televisione ci ha abituati alla consuetudine del dibattito unanimistico. Ci sono format e programmi come il talk show che hanno bisogno per esistere di un contraddittorio. Dato che gli invitati sono tutti della stessa idea, essi non sono tenuti a confrontarsi, ma fanno gara tra loro a superarsi in ortodossia ed obbedienza ai vari Dcpm ed ora a Decreti Legge che hanno sostituito la legislazione ordinaria. Mi si obietterà che tutto questo è fatto per il bene comune, un bene comune che autorizza uno stato di eccezione, previsto però in Italia, solo per lo stato di guerra (art. 78 della Costituzione). Per rendere estensibile ad una pandemia lo stato di eccezione si applica al Covid-19 un linguaggio bellico. Stiamo combattendo la guerra contro il virus. Chi non si vaccina (e quindi non accede al green pass) è un disertore. Chi si vaccina dimostra senso civico. Vi siete chiesti perché il vaccino non viene imposto per legge, anche se, per eccellenti costituzionalisti come Cassese, l’art. 32 giustificherebbe la vaccinazione obbligatoria? L’art. 32, pur ammettendo che un trattamento sanitario possa essere imposto per legge, limita questo intervento al paragrafo successivo che recita: «La legge non può violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Tutela cioè la collettività, ma anche l’individuo. E i trattamenti sperimentali sono esclusi dal codice di Norimberga, dalla dichiarazione di Helsinki, dalla convenzione di Oviedo. Il processo di Norimberga basta da solo ad evocare il nazismo. Gli imputati si difesero sostenendo di aver obbedito agli ordini. Per evitare che queste aberrazioni si ripresentassero fu stabilito un codice a futura memoria. Tra l’altro esso prevede che la sperimentazione sia ammessa solo se «il soggetto volontariamente dà il proprio consenso ad essere sottoposto ad un esperimento». Senza accettazione volontaria l’esperimento non può avere luogo. Il vaccino è ancora in fase sperimentale. Cito dal bugiardino Pfizer e quindi faccio parlare direttamente le case farmaceutiche produttrici, perché sia ben chiaro che non sto riferendo il mio parere personale: «Per confermare l’efficacia e la sicurezza di Comirnaty il titolare dell’autorizzazione alla emissione in commercio deve fornire la relazione finale sullo studio clinico» e a lato «Dicembre 2023». Sino al 2023 il vaccino sarà una terapia sperimentale con esiti futuri incerti. In questi giorni la senatrice Segre, sopravvissuta all’Olocausto, è intervenuta dicendo che è folle paragonare vaccino e green pass alla Shoah. Ci sarebbe una sproporzione tra le cose. Ma la senatrice sembra dimenticare che c’è sempre un inizio e la discriminazione è quell’inizio. Per parlare di regime autoritario non è necessario poi arrivare sino ai forni crematori. Basta che la normale vita democratica ed i diritti dei cittadini subiscano delle limitazioni. In senso opposto va invece l’intervento di un’altra sopravvissuta all’Olocausto che milita invece sul fronte opposto, la signora Vera Sharav. «Conosco le conseguenze - dice la sopravvissuta - di essere stigmatizzati come diffusori di malattie». Il suo calvario è incominciato a piccoli passi con la segregazione ed il divieto sempre più esteso a partecipare alla vita sociale, a entrare in determinati contesti, a viaggiare. La cosa che più mi ha colpito nell’intervento di Vera Sharav è la lucidità con cui collega il nazismo all’uso autoritario della medicina. In nome della scienza - ci dice - viene cancellato ogni principio morale della società. Questa affermazione mi fa ricordare il fondamentale intervento di Agamben con la sua «Domanda» rivolta a tutti gli italiani. «Com’è potuto avvenire che un intero Paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato di fronte ad una malattia?». In nome della sopravvivenza e di quella che Agamben chiama «nuda vita» (una vita privata di ogni valore che travalichi la sopravvivenza biologica ), gli italiani hanno accettato di lasciar morire i loro anziani in solitudine negli ospedali, hanno accettato di incenerire i cadaveri senza sepoltura, hanno accettato la perdita di ogni principio morale. Ed hanno rinunciato alla vita sociale. E questa adesione acritica da parte dei cittadini è per certi versi più inquietante dell’autoritarismo del governo. È un indice inequivocabile che i meccanismi dell’autoritarismo sono già stati introiettati da tutti noi come naturali e che appartengono ormai alla quotidianità e al nostro futuro.
(La Stampa, 29 luglio 2021)
Il "complotto sionista" è sempre dietro l'angolo
Se non piove, l'Iran dà la colpa a Israele
GERUSALEMME - La notizia, rimbalzata nei comunicati di varie agenzie di stampa, recante come fonte l'agenzia di stampa governativa iraniana è di per sé bombastica, eclatante: Teheran comunica di aver arrestato un certo numero (non precisato) di agenti del Mossad (nomi e nazionalità ignote). Gli agenti stranieri, prosegue l'agenzia governativa iraniana, sono stati arrestati mentre tentavano di varcare clandestinamente il confine occidentale della Repubblica islamica. Se provenissero dalla Turchia o dall'Iraq non lo si specifica. In loro possesso sono stati rinvenuti fucili da caccia, pistole e bombe a mano. Se la notizia non fosse così fumosa, sembrerebbe proprio che l'Iran questa volta abbia fatto il colpo grosso! Di tanto in tanto l'Iran, trasmette dichiarazioni di questo tipo. Una volta si tratta di agenti del Mossad, un'altra di spie americane, l'importante è mantenere accesa la tremolante fiaccola che illumina le colpe esterne. Sono sempre gli "altri" ad avercela con loro, a destabilizzare, a causare problemi interni. In questo caso gli arrestati, accusati di appartenere a una «rete di spionaggio» guidata dal Mossad, avrebbero ricevuto l'ordine di «aiutare i manifestanti, compiendo azioni terroristiche ed attentati contro personalità del regime». Le manifestazioni a cui si accenna sono scoppiate settimane fa per protestare contro l'inefficienza del governo nell'affrontare la grave siccità (la più grave negli ultimi 50 anni) che attanaglia il Paese. Particolarmente critiche sono le condizioni della popolazione nell'area del Khuzestan (regione a Sud Ovest) ed è lì infatti che si riscontrano gli episodi di maggior violenza. Il tentativo di spostare il focus dall'incapacità governativa di affrontare la crisi idrica verso "agenti esterni" è maldestra e poco credibile. È vero che agenti del Mossad hanno operato ( e probabilmente operano) in Iran, valga per tutti l'esempio del furto dell'archivio nucleare iraniano nel 2018, di cui Israele si è assunta la piena responsabilità, ma lo fa a ben più alti livelli e con ben più sofisticati mezzi di fucili da caccia e pistole. È difficile, inoltre, credere che sia una pura coincidenza che la notizia dell'arresto dei componenti della "rete di spionaggio" giunga subito dopo la divulgazione, da parte della britannica Sky News, di alcuni documenti segreti in cui si descrivono i piani dell'unità 13 dei servizi di spionaggio iraniani per attaccare obbiettivi civili quali navi da trasporto e pozzi petroliferi con mirati attacchi cyber. La notizia dell'arresto ha pertanto almeno due scopi: distogliere la vessata popolazione iraniana dai problemi della malgestita siccità e controbattere alle accuse di preparazione di attacchi cyber contro civili a opera dei servizi iraniani. Ad aggiungere preoccupazioni circa gli aggressivi piani iraniani giunge l'affermazione di Dany Yatom, ex capo del Mossad, che lunedì ha dichiarato: «Israele deve preparare un piano alternativo, il Presidente Usa Joe Biden non si è mai impegnato a impedire all'Iran di diventare una potenza pre-nucleare ( cioè in possesso di tutti i mezzi per poter produrre la bomba atomica) ma solo che non permetterà la produzione della medesima». È noto il detto italiano: «Piove, governo ladro». Potremmo ora coniarne un altro in Farsi: «Non piove, è colpa d'Israele».
Libero, 29 luglio 2021)
In Israele una nuova ondata, verso la terza dose agli over 60 Usa. Iniezione a tutti i federali
Tornano le misure anche in Francia: a Bordeaux obbligatorie le mascherine al chiuso,
ROMA - Israele resta uno dei Paesi al mondo con la maggior percentuale (59%) di popolazione immunizzata con due dosi vaccinali ma ormai è considerato un "ex" paese virtuoso. Ieri infatti a causa della variante Delta a Gerusalemme e dintorni sono stati registrati 2 mila nuovi contagi in un solo giorno. Mai così tanti da mesi per una popolazione di circa 9 milioni di abitanti. Il governo israeliano sta valutando l'opportunità di somministrare una terza dose di vaccino Pfizer agli over60, anche prima che arrivi una autorizzazione formale da parte della Fda americana.
Allarme anche a Tokyo e in tutto il Giappone per una nuova impennata di contagi. L'incubo torna a metà estate - nel pieno delle Olimpiadi - e parte dall'Asia dove, salvo una manciata di casi virtuosi, la pandemia non dà tregua. A Tokyo si registrano 2.848 nuovi casi in 24 ore, il livello più alto dall'inizio della pandemia. A livello nazionale, con 7.629 contagi, è il maggior aumento da inizio gennaio.
Negli Stati Uniti si sta anche pensando di introdurre l'obbligo di vaccinazione per tutto il personale che lavora nel governo federale, come ha rivelato lo stesso il presidente americano Joe Biden. E si va anche verso il ritorno dell'obbligo della mascherina al chiuso in alcune circostanze anche per i vaccinati e per le scuole alla ripresa a settembre. In Francia invece la regola è già stata introdotta, sebbene soltanto nella regione di Bordeaux, una delle principali città francesi, e in diverse zone turistiche della regione circostante, la Gironda. E si aggiunge al divieto del consumo di alcol in strada. Mentre continuano a riecheggiare gli appelli alla vaccinazione: l'ultimo in ordine di tempo è quello del ministro francese della Salute Olvier Véran, lanciato dal suo profilo Twitter: «Non indugiate, vaccinatevi!».
L'ESEMPIO BUTHAN
Tra gli appelli in queste ore spicca anche quello della ormai 18 enne ambientalista Greta Thunberg che ha ricevuto la prima dose del vaccino e, pubblicando la foto del braccio, ha ricordato quanto sia «estremamente iniqua» la distribuzione dei vaccini nel mondo. Sulla stessa lunghezza d'onda del messaggio diffuso dall'Unicef che mette in evidenza come il piccolo regno asiatico del Bhutan debba considerarsi un esempio da seguire in merito alle donazioni internazionali di vaccini, dopo che in una settimana ha accelerato la sua campagna al punto da sottoporre alla seconda dose l'85% della popolazione che ne aveva diritto. In Europa, va meglio nel Regno Unito, dove per il settimo giorno consecutivo si registra una decelerazione nei contagi, con 23.511 nuovi casi identificati. Ma il ministro della Salute tedesco Jens Spahn intanto pianifica un'estensione dell'obbligo di test covid-19 per chiunque entri in Germania, non importa da quale luogo provenga o con quale mezzo voglia entrare. Per adesso l'obbligo di test riguarda i passeggeri in arrivo dai luoghi inseriti nella lista delle zone a rischio, l'opzione di un inasprimento delle misure finora però non ha incontrato il favore di tutto il governo.
Del resto l'ultima fotografia dell'Ecdc, il Centro europeo per il controllo delle malattie, è abbastanza nitida nel cogliere come la diffusione della variante Delta stia causando un aumento dei casi nelle strutture di lunga degenza in diversi paesi europei. D.Pir.
(Il Messaggero, 29 luglio 2021)
Israele apre sul siero ai bambini sotto 12 anni
di Gaudenzio Fregonara
Israele ha autorizzato l'uso del vaccino contro il Covid-19 di Pfizer per i bambini più fragili tra i 5 e gli 11 anni, mentre nel Paese i casi connessi alla variante Delta aumentano rapidamente. I funzionari locali hanno affermato che i bambini dovrebbero essere vaccinati se hanno un'alta probabilità di ammalarsi gravemente o morire per il Covid-19 a causa di problemi sottostanti come grave obesità, malattie polmonari croniche, immunodepressione o insufficienza cardiaca.
Il ministero della Salute ha specificato che ogni singolo caso avrà bisogno di un'approvazione speciale e che ai bambini verrà somministrato un dosaggio inferiore del vaccino, 10 microgrammi invece dei consueti 30, in conformità con i dati forniti da Pfizer. Un portavoce della società ha dichiarato che i regimi di dosaggio dipendono dalle autorità sanitarie più che dall'azienda farmaceutica. Pfizer sta testando la dose da 10 microgrammi su bambini da 5 a 11 anni, ma non ha ancora rilasciato dati clinici e ha detto che si aspetta di avere i risultati dello studio in settembre, quando dovrebbe chiedere alla Food and Drug Administration Usa di autorizzare l'uso del suo vaccino per questa fascia di età.
L'autorizzazione di Israele, una delle prime al mondo, arriva dopo che la Fda ha aumentato il numero minimo di bambini piccoli che dovrebbero essere inclusi negli attuali studi sui vaccini contro il Covid-19 per rilevare meglio eventuali effetti collaterali. La Fda vuole comprendere meglio quali potrebbero essere gli effetti collaterali, tra cui un raro problema cardiaco, noto come miocardite, che ha colpito un esiguo numero di persone.
«La decisione di Israele di accelerare le vaccinazioni per i bambini vulnerabili si è basata su una valutazione dei potenziali effetti collaterali rispetto alle conseguenze di non somministrare i vaccini ai giovani a rischio», ha detto Eyal Leshem, direttore del Centro per la medicina di viaggio e le malattie tropicali dell'ospedale Sheba. «La mossa consentirà probabilmente di vaccinare centinaia di bambini a rischio», ha affermato. «Non possiamo aspettare gli studi clinici quando la malattia sta imperversando, né rinchiudere le persone a casa per mesi e mesi».
(Milano Finanza, 29 luglio 2021)
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L’infondatezza scientifica e giuridica del Green Pass
di Aldo Rocco Vitale
Il Green pass è una misura con i quali i cittadini possono continuare a svolgere attività con la garanzia di ritrovarsi tra persone che non sono contagiose”: con queste parole il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha pubblicamente giustificato l’emanazione del Green pass. Sebbene già da decenni Hannah Arendt abbia precisato nelle sue riflessioni sui rapporti tra verità e politica che “le menzogne sono sempre state considerate dei necessari e legittimi strumenti non solo del mestiere del politico o del demagogo, ma anche di quello dello statista”, si può ritenere l’affermazione del capo del Governo come non rispondente a realtà, poiché il Green pass è scientificamente e giuridicamente infondato. Sotto il primo profilo, infatti, non soltanto la realtà sta dimostrando, come nel caso olandese, o come nel caso del Vespucci, o come nel caso della docente di Milano, che il vaccino non esclude né il contagio, né, addirittura, il ri-contagio, semmai limita la sintomaticità, le complicanze e la mortalità da Covid, ma per di più che proprio scientificamente non c’è alcuna certezza che il vaccino escluda in modo categorico e totale la contagiosità, specialmente in relazione alla rampante variante Delta. In questa direzione, oltre la cronaca riportata dal Wall Street Journal su ciò che sta accadendo in Israele in cui il 60 per cento dei nuovi ospedalizzati ha già effettuato la doppia dose vaccinale, si deve ricordare il punto numero 11 del documento dell’Aifa in cui si chiarisce che la questione è ancora in fase di studio e che si possa parlare soltanto di plausibilità e non di certezza in merito ai rapporti tra vaccino ed esclusione del contagio. Il Green pass, dunque, da un punto di vista scientifico non fornisce alcuna garanzia di ritrovarsi tra persone non contagiose, poiché la cronaca, la scienza e, soprattutto, la realtà non hanno ancora fornito tali garanzie. Ciò che ha affermato il Presidente del Consiglio, dunque, non è rispondente alla realtà attuale. Sotto il profilo giuridico, inoltre, non si possono privare dei diritti fondamentali costituzionalmente garantiti alcuni soggetti per tutelare quelli degli altri. Delle due l’una: o i diritti fondamentali sono tali, e lo sono sempre e per tutti, cioè sostanzialmente pre-ordinamentali (tanto che la Carta costituzionale utilizza il verbo “riconoscere” e non “costituire”), pre-costituzionali, ultra-statali, sovra-politici, meta-normativi, poiché ancorati e ancorabili alla struttura ultima dell’essere umano, ovvero alla sua umanità, essendo cioè il riflesso giuridico della sua dimensione ontologica, oppure non lo sono e quindi diventano manipolabili o eliminabili in base alle circostanze anche se emergenzialmente giustificate. Per quanto sia vero che la stessa Costituzione consenta delle limitazioni, per esempio per la tutela della pubblica incolumità, è anche altrettanto vero che ammettere le compressioni non significa ammettere anche le eventuali soppressioni, come parrebbe fare l’introduzione del Green pass che esclude senza limiti dalle attività lavorative o ricreative chi fosse sprovvisto di copertura vaccinale, peraltro in un contesto normativo quale è quello attuale che non prevede l’obbligo vaccinale anti-Covid. Il rigore sul punto, infatti, data la particolare importanza e sensibilità della materia, dovrebbe essere totale e inderogabile, e soprattutto – almeno per il Green pass – scientificamente supportato, cosa che, come già visto, non è per nulla. Ancora sotto il profilo giuridico: occorre precisare che non esiste una gerarchia di diritti fondamentali in base alla quale si possa ritenere che alcuno di essi sia sovraordinato rispetto ad altri, per cui il diritto alla salute è tanto fondamentale quanto quello al lavoro, quello di circolazione lo è tanto quanto quello di professare liberamente il proprio culto, quello di espressione del pensiero lo è tanto quanto quello di insegnamento o istruzione. Se così non fosse si dovrebbe dimostrare tale presunta gerarchia, i criteri logico-giuridici utilizzati per la sua ordinazione e la legittimazione di chi avesse compiuto una tale gerarchizzazione. Mettere in scontro i diritti fondamentali, come fossero cavalieri in giostra l’un contro l’altro armati, significa disconoscere la natura degli stessi e della stessa dimensione assiologica del diritto in quanto tale. Ad ogni buon conto, proprio perché il Green pass agisce su libertà e diritti fondamentali, si dovrebbe prevedere un limite temporale breve e certo che richiami la presenza confortante dello Stato di diritto all’orizzonte di tutta questa vicenda, proprio perché la compressione, o perfino la soppressione, delle libertà dei singoli e dei gruppi a tempo indeterminato e indeterminabile è più confacente alla natura dello Stato totalitario. Appare, dunque, alquanto evidente l’infondatezza scientifica e giuridica di un provvedimento come il Green pass che non soltanto non fornisce alcuna garanzia sull’assenza di contagio, ma solleva profondissime inquietudini, soprattutto per quei giuristi (la minoranza purtroppo) che non sonnecchiano pigri e arresi all’ombra della forma della legge, agitati sempre e incessantemente dall’ardore della libertà e della giustizia che invece sono, e in ogni circostanza dovrebbero essere, la sostanza vivificante e palpitante del diritto e dello Stato di diritto.
(l'Opinione, 28 luglio 2021)
Guttman, il medico ebreo scampato a Hitler che inventò le Paralimpiadi
Il neurologo polacco riuscì a riscattare la vita di tanti portatori di handicap. Nel 1948, dopo aver trovato rifugio in Inghilterra, organizzò la prima gara tra arcieri in sedia a rotelle.
di Michela Pagano
“Aktion T4”. Programma di “buona morte”. Nella Berlino nazista del 1939, in un elegante edificio della Tiergartenstrasse 4, un ente pubblico opera per la salute e l’assistenza sociale della Germania. Obiettivo: eliminare persone affette da malattie genetiche nonché pazienti disabili, portatori di handicap fisici e mentali, ospiti degli ospedali e delle case di cura. Il sogno di un mondo perfetto dominato dalla “razza” ariana, perseguito da Adolf Hitler, non può prescindere da questo ambizioso progetto. Lo aveva già spiegato il Führer una decina di anni prima nel “Mein Kampf”. In questo modo il risparmio delle risorse economiche nazionali per il sostentamento delle spese sanitarie sarebbe stato notevole. Meno pazienti da curare, più denaro da investire per il riarmo del Paese. Un progetto ambizioso. Tanto quanto folle. Un progetto che il neurologo ebreo polacco Ludwig Guttmann, scampato alla Shoah, avrebbe cercato di riscattare qualche anno dopo, esaltando le capacità di quegli individui considerati inutili, di quelle vite giudicate indegne di essere vissute e che (anche) attraverso il gioco paralimpico avrebbero mostrato tutta la loro validità. Lo racconta Roberto Riccardi, generale del Comando dei carabinieri per la tutela del patrimonio culturale, nel suo libro “Un cuore da campione. Storia di Ludwig Guttmann, inventore delle Paralimpiadi” (Giuntina). Nel 1902, quando ha solo tre anni, Ludwig si trasferisce insieme alla sua famiglia da Toszek a Chorzów, cittadina polacca della Slesia Superiore. Non sa ancora che quella sarebbe stata la città che, prima fra tutte, avrebbe contribuito alla sua formazione. Ricco centro minerario, Chorzów è sede del primo ospedale al mondo dedicato agli incidenti sul lavoro. Nel 1917 Guttmann opera da volontario nei Servizi medici di emergenza nazionale, spinto da uno dei precetti fondamentali dell’etica ebraica: la solidarietà verso chi soffre. Assiste alla morte di un giovane minatore affetto da una lesione spinale e nello stesso anno viene contagiato da un paziente con un’infezione alla gola. Il morbo gli procura per qualche anno una forma di disabilità (perché costretto a tenere un tubo di vetro in gola per il drenaggio di un ascesso) che gli fa conoscere in prima persona l’emarginazione del diverso. Un disprezzo che non immaginava di poter mai incontrare. Arrivano i primi contatti con la sofferenza. Episodi che lo segneranno profondamente. Molti anni dopo, Chorzów sarà protagonista di uno degli eventi più terribili della storia, la deportazione nazista, ospitando uno dei 45 sottocampi del lager di Auschwitz. Anche questo inciderà profondamente nella vita di Guttmann. Il giovane, poco più che maggiorenne, asseconda piacevolmente la sua vocazione per la medicina, unitamente al suo amore per lo sport, attraversando i principali centri universitari polacchi e tedeschi: Breslavia, Würzburg, Friburgo. Due passioni che gli faranno da guida nel corso di tutta la sua esistenza. Guttmann vuole essere un neurologo. E così il primo ottobre 1923 accetta l’incarico presso il reparto di neurologia e neurochirurgia dell’ospedale di Breslavia da cui partirà la sua missione per la cura delle patologie nervose e spinali. Non ha dimenticato il giovane minatore incontrato sei anni prima, non ha dimenticato la sofferenza che aveva promesso a se stesso di voler combattere. Ma due grandi ostacoli gli si pongono davanti e condizionano per sempre la sua vita: l’ascesa del partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi e l’entrata in vigore delle leggi di Norimberga. Nel 1933, poco dopo la salita al potere, Adolf Hitler annuncia la rimozione da ogni incarico pubblico o professione di tutti gli appartenenti alla “razza” ebraica. L’unico luogo in cui a Guttmann è concesso di lavorare è l’ospedale israelitico di Breslavia. A lui è affidata l’unità neurologica, ma è solo la quiete prima della tempesta. Nell’agosto del 1939, a tre anni dall’applicazione delle leggi razziali, la Germania nazista impone il divieto, per i medici di religione ebraica, di curare malati diversi da quelli appartenenti alla propria “razza”. Ma di lì a poco tutto sarebbe cambiato. Il 9 novembre 1938 l’uccisione del diplomatico tedesco Ernst vom Rath da parte del diciassettenne ebreo Herschel Grynszpan scatena l’ira del partito nazista, convinto dell’esistenza di un complotto ordito dalla comunità ebraica ai danni del Terzo Reich. La spedizione punitiva è sanguinosa, l’ospedale israelitico si riempie di feriti, la polizia tedesca minaccia ritorsioni se si continuano a curare feriti considerati “illegittimi”. Ma Guttmann non ci sta. A uno a uno fa sfilare davanti ai militari i ricoverati. Tutti hanno diritto alle cure, tutti hanno diritto di stare lì. La sfida alla Gestapo è appena iniziata. Buffo pensare che qualche mese più tardi sarà proprio il governo a cui quella polizia presta servizio a offrire inconsciamente a Guttmann l’opportunità di cambiare vita. Una richiesta d’aiuto da Lisbona, per la cura della paraplegia del dottor Almedia Dias, si rivela una mossa orchestrata dal Terzo Reich per mantenere solide le relazioni con il Paese alleato di Antonio de Oliveira Salazar. Per questo motivo schiera il suo medico migliore. Da lì la strada è in discesa, il futuro delle paralimpiadi è appena cominciato. Dopo aver visitato Lisbona, Guttmann riceve una proposta di lavoro in Inghilterra. Il suo visto è pronto, l’ultimo ostacolo da superare è il controllo doganale da parte dei funzionari del Reich. Nell’inverno del 1939, mentre la guerra imperversa e il programma di sterminio nazista ha inizio, la famiglia Guttmann approda a Oxford. Dopo un breve periodo all’ospedale militare installato al St.Hugh’s College, Ludwig viene trasferito nel nuovo Centro Nazionale di ricerca sulle lesioni del midollo spinale presso l’ospedale di Stoke Mandeville, nel Berkshire, vicino Londra. Da un lato “Aktion T4”, il programma di “buona morte” per disabili, dall’altro uno studio per rendere loro la vita migliore. Guttmann, in quell’ospedale, comprende immediatamente l’esigenza di cambiare le cose. Non può permettere che la paraplegia abbia la meglio. Non può permettere che alla folle ideologia nazista un giorno venga data ragione. Inizia a pensare che l’unico modo per riportare in vita chi invece la vita crede di averla persa è praticare sport. Dimezza i sedativi, costringe i pazienti a sopportare il dolore, li obbliga a giocare tra di loro lanciando una palla. In poco tempo il nuovo metodo fisioterapico attira pazienti da tutta Europa e i risultati ottenuti lo gratificano al punto da diventare un simbolo di riscatto, l’emblema della ribellione alla follia nazista. Così, a Stoke Mandeville lo sport diventa una regola. Ai palleggi si aggiungono le freccette, i birilli, il tennis da tavolo, il tiro con l’arco, il biliardo. E poi ancora il bowling, il basket in carrozzina, la maratona. Ma è nel 1948 che accade un evento che avrebbe cambiato la storia dello sport. Parallelamente alla manifestazione d’apertura delle Olimpiadi di Londra di quell’anno, Guttmann organizza nel cortile del suo ospedale una competizione di tiro con l’arco. Sedici i partecipanti. Nella seconda edizione saranno sessanta, in quella dopo centoventisei. L’evento è un successo. L’auspicio è che quei giochi diventino popolari quanto le Olimpiadi. Nel 1952 nasce la International Stoke Mandeville Games e anno dopo anno le iscrizioni da tutta Europa aumentano sempre di più. Sono proprio gli anni ‘50 a segnare la definitiva realizzazione del progetto di Guttmann: aumentano i finanziamenti, si ampliano i luoghi, crescono l’organizzazione e le strutture. Ogni estate, ogni quattro anni, in concomitanza delle Olimpiadi, si svolgono le paralimpiadi. E gli atleti di Guttmann diventano una presenza costante. Nel 1956, il dottor Antonio Maglio, pioniere della riabilitazione dei disabili in Italia, incontra Guttmann. Con lui l’intesa è immediata. I due decidono che alle Olimpiadi previste quattro anni dopo a Roma, avrebbero partecipato anche gli atleti paraplegici. Così avviene. Il 25 agosto 1960, quattrocento disabili di ventitré Paesi partecipano alle competizioni, arricchite di pallacanestro, lancio del giavellotto, scherma, biliardo e tennis da tavolo. Quattro anni dopo è la volta di Tokyo, con ventuno Paesi partecipanti; nel 1968 di Israele e ventinove Paesi in competizione; nel 1972 di Monaco di Baviera e centoventuno Paesi. Il ritorno in Germania non può essere più soddisfacente. A oltre trent’anni dal “T 4” i disabili onorano la propria vita. Le paralimpiadi del 1976 a Toronto sono le ultime a cui Guttmann partecipa. Non riuscirà ad essere presente a quelle del 1980 ad Arnhem sul Reno, nei Paesi Bassi, né a vedere realizzato lo stadio di Stoke Mandeville per cui aveva raccolto dei fondi qualche anno prima. Il 22 luglio 1984 si apre la settima edizione dei Giochi mondiali su sedia a rotelle. L’evento è un omaggio alla memoria di quell’uomo che, più di tutti, aveva creduto nelle capacità di quegli uomini e quelle donne, donando loro una nuova speranza. La strada da allora è tutta in discesa. I giochi continuano a realizzarsi, i partecipanti continuano a gareggiare. La loro vita non è più da disabili ma esclusivamente da campioni.
(l'Espresso, 28 luglio 2021)
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Dror Eydar: "L'Italia ha avuto un ruolo storico e biblico centrale per Israele”
Intervista all’Ambasciatore d’Israele in Italia Dror Eydar
di Alessandro Iovino
Dror Eydar non è solo l’ambasciatore d’Israele in Italia. Il suo profilo, la sua preparazione, la sua dialettica, lo qualificano anche come uno dei più attenti e raffinati osservatori non solo dei fatti di attualità ma anche storici che riguardano lo stato d’Israele ed il popolo ebraico. Ex editorialista ed editore di Israel Hayom, è l’ambasciatore israeliano in Italia dal 2 settembre 2019. Laureato in letteratura ebraica, ha scritto molti libri ed è un esperto di geopolitica internazionale. Analizza, studia, scrive e pubblica. Argomenta ogni sua posizione e in questi due anni, nonostante le difficoltà legate alla pandemia, ha lavorato moltissimo per intensificare il legame storico, politico e culturale con il nostro paese. Tra gli uomini più “scortati” d’Italia, la sua sicurezza e’ una priorità per il nostro paese, da sempre vicino ad Israele. Ha parlato a Real Inside Magazine con questa intervista in esclusiva, alla luce anche di una storica ed importantissima celebrazione che si è tenuta lo scorso aprile a Sanremo dove nel 1920 si tenne una conferenza fondamentale per la costituzione dello stato ebraico. Ma abbiamo parlato anche delle recenti tensioni in Medio Oriente, dell’emergenza sanitaria e dello storico rapporto con l’Italia. Grazie Ambasciatore per questa opportunità. Partiamo proprio dall’evento di Sanremo.
- Quale ruolo ha avuto l’Italia in quella storica conferenza in cui furono gettate le basi per la nascita dello Stato d’Israele ? La conferenza di Sanremo si è tenuta poco dopo la Prima Guerra Mondiale. Alla conferenza parteciparono i rappresentanti delle quattro nazioni vincitrici. Dal 19 al 26 aprile del 1920 a Sanremo si decise come suddividere i territori derivanti dal crollo del gigante dai piedi d’argilla: l’Impero Ottomano. Il Medio Oriente infatti era controllato fino a quel tempo dagli ottomani. Nel 1919 a Parigi si tenne una conferenza in cui si decise per l’Europa ed i suoi confini. Molti dei quali sono ancora oggi in essere. Ma in quella sede non fu affrontata pienamente la questione mediorientale. Ecco perché venne convocata a Sanremo questa conferenza. Vennero già a Parigi invitate due delegazioni: una ebraica ed una araba. Sostanzialmente a Sanremo venne condiviso dagli Alleati questo principio: tutto il Medio Oriente agli Arabi, ad eccezione della Palestina che sarebbe divenuta stato ebraico. In quella sede si tenne conto anche dei confini geografici definiti nella Bibbia. L’Italia oltre che ospitare la conferenza ebbe un ruolo centrale attraverso il suo presidente del Consiglio dell‘epoca: Francesco Saverio Nitti. Fu un vertice di assoluta importanza per le decisioni che vennero prese …
- Quali furono dunque queste decisioni riguardo la Palestina ? La Palestina fu destinata agli Ebrei, come ho detto. Tra i vari punti fu ribadito che “è stato dato riconoscimento alla connessione storica del popolo ebraico con la Palestina e alle basi per ricostituire la loro nazione in quel paese”. Ma mi si consenta di fare una precisazione storica riguardo la Palestina. Nel II secolo d.C. l’imperatore Adriano decise di essere determinato nel frenare le continue rivolte del popolo ebraico contro l’Impero Romano. Dopo la distruzione del tempio nel 70 d. C., nel 132 d.C., gli ebrei diedero vita alla terza guerra giudaica, l’ultima grande rivolta contro i Romani. Furono tre anni di rivolte e ribellioni contro il dominio dei romani, il divieto di circoncisione emanato da Adriano e la sua volontà di costruire una città sulle rovine di Gerusalemme dedicata al culto pagano del dio Giove. Fu una mattanza per i giudei. Alla fine nonostante non fu semplice per Romani, la repressione delle rivolte fu massiccia. L’imperatore Adriano decise dunque di cambiare il nome di quei territori in Siria-Palestina. Penso’ che gli ebrei dopo qualche generazione avrebbero dimenticato le loro radici e perso memoria della loro storia. Ma così non fu. Perché quella terra che prese il nome di Palestina, è stata sempre terra di ebrei. Pensi che tutti quelli nati prima del 1948 a Gerusalemme sulla propria carta d’identità hanno scritto: nato in Palestina. Una terra da sempre appartenuta alla nostra popolazione. A Sanremo nel 1920 fu deciso che dopo ben 1850 anni circa, per la prima volta dopo la distruzione del Tempio, quella terra tornasse ad essere patria per gli Ebrei. Una presa di posizione davanti agli occhi del mondo. Insomma credo sia chiaro la portata storica di questo evento di Sanremo: per la prima volta dopo tanti secoli il mondo riconosceva il diritto degli Ebrei di ritornare in Palestina dopo una così lunga diaspora.
- Ambasciatore, perché la conferenza di Sanremo è stata così importante rispetto anche alla Dichiarazione di Balfour del 1917? Quella dichiarazione fu di certo fondamentale. Si tratta di una lettera, scritta dall’allora ministro degli esteri inglese Arthur Balfour a Lord Rothschild, considerato come principale rappresentante della comunità ebraica inglese, e referente del movimento sionista. In quella lettera si fece espressa menzione al fatto che il governo britannico guardava con favore alla creazione di una “dimora nazionale per il popolo ebraico”. Prima di Sanremo il movimento sionista aveva ottenuto diverse dichiarazioni in tal senso, ma non ci fu mai una reale opportunità per la fondazione di uno stato. Quella di Balfour fu appunto una dichiarazione ma la conferenza di Sanremo sancì la nascita di un percorso, allora embrionale, per la nascita dello stato ebraico, avvenuta poi 28 anni dopo.
- Perché allora una certa propaganda vuole affermare che Israele viola leggi internazionali riguardo l’occupazione di quei territori ? Ecco, questo non lo capisco. Molti osservatori probabilmente non conoscono i fatti. Ignorano quanto avvenne a Sanremo che rimane un nodo centrale per la nostra storia. E gli Italiani dovrebbero essere orgogliosi di cio’, visto che a firmare quel documento ci fu anche il presidente Nitti. Ecco perché abbiamo deciso di ricordare questo evento, con la presenza tra l’altro, del Maestro Andrea Bocelli, delle autorità italiane tra cui il ministro Luigi Di Maio ed il senatore Lucio Malan, presidente del gruppo di amicizia interparlamentare tra Israele e Italia. Il vostro paese ebbe un ruolo storico fondamentale, ma direi anche in chiave biblica. Quella terra fu per secoli desolata ma con il ritorno a casa degli Ebrei è tornata a rifiorire. L’Italia può dirsi testimone di tutto questo, alla luce anche delle profezie bibliche.
- Ambasciatore, dopo questo viaggio nella storia, passiamo ad alcune questioni di attualità. Dopo gli scontri dello scorso maggio, la situazione in Israele oggi è più tranquilla ? Siamo abituati, purtroppo, a queste offensive. Gli Arabi di Gaza non vogliono vivere in pace con noi. Questo è un dato di fatto. Nell’agosto del 2005 Israele ha abbandonato la Striscia di Gaza ed abbiamo lasciato tutto, abbiamo perfino preso le tombe dei nostri antenati. Abbiamo loro offerto anche la nostra tecnologia. Sarebbe potuta diventare la Singapore del Medio Oriente. Hanno affaccio sul mare, hanno un grande potenziale per vivere in prosperità. Invece per noi non è una sorpresa sapere che l’hanno trasformata in un fortino militare. Hanno tolto perfino impianti idrici per i campi per il posizionamento dei razzi contro Israele. Hanno preso in ostaggio la popolazione e influenzano con strumenti primitivi anche i fanciulli con una propaganda antisemita. Nel 2006 ci furono le elezione dell’Autorità Nazionale Palestinese, ed Hamas ebbe una grande vittoria. Abbiamo avuto diversi focolai di guerre in questi anni. Israele ha subito contro la propria popolazione decine di migliaia di razzi. Con un solo scopo: distruggere il nostro stato.
- Perché secondo lei in Occidente, alcuni giornalisti e politici, sono accondiscendenti con Hamas ? Voglio sperare per mancanza di conoscenza. Regna una grande ignoranza anche in molti politici in Europa. Hamas non riconosce sovranità di ANP. Però questi ultimi si ostinano a difenderla. Ma rimane un fatto: sono un’entità terroristica. Fondata nel 1988, nel loro manifesto si può precisamente capire quali sono intenti. Ecco lo statuto di Hamas, tradotto in italiano perché tutti possano leggere e capirne la vera natura. Potete chiaramente evincere che lo scoop di Hamas è di distruggere Israele ed uccidere ogni ebreo. Questa è loro missione. Ho pubblicamente dichiarato al senato della Repubblica Italiana che questo statuto si ispira alla “Mein Kampf” di Adolf Hitler. Non vi è dubbio. Perciò ritengo che ogni parola sia superflua, basta leggere quanto qui indicato nello Statuto. Non c’è soluzione per loro se non la guerra santa, la Jihad. Cedere un pezzo di terra per loro significa cedere una parte della religione. Chi conosce l’Islam e legge le premesse di questo statuto può rendersene conto.
- Come si può allora pensare di trattare con questa entità terroristica ? Vorrei rispondere con una domanda. Nella seconda guerra mondiale, quando ormai i piani di Hitler erano noti al mondo, chi pensava che si potesse ancora negoziare con i nazisti ? Non puoi parlare con diavolo, ahimè. Ma qui dobbiamo chiarire che non c’entra la popolazione ma il regime. Ero sconcertato nel sentire alcuni giornalisti europei manifestare vicinanza ad Hamas e non ad Israele. In questi giorni meditavo sulla Divina Commedia. Fu proprio il Sommo Poeta a condannare gli ignavi, «coloro / che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo». Quelli che non hanno il coraggio di prendere una posizione e per cui non era previsto nemmeno un girone nell’inferno dantesco. Noi non possiamo essere dei martiri eterni. Dobbiamo difenderci. E contiamo sul fatto che in Occidente si distingua bene tra chi ama la libertà e chi invece la guerra. Non siamo tornati per sopravvivere nella nostra terra ma per vivere. Vogliamo dare il nostro contributo per migliorare la vita sociale e civile dell’umanità. Non vogliamo guerra ma sviluppo, e poi condividerlo. Avendo come nostro partner principale l’Italia, nostro storico alleato. Tre settimane fa ero ad Amendola, in Puglia, per una delicata esercitazione aeronautica congiunta tra Italia ed Israele. La prima volta che i nostri F35 hanno lasciato Israele hanno raggiunto l’Italia, un nostro partner strategico.
- Perché allora si fatica così tanto a raggiungere la tanto agognata pace ? Non abbiamo pace perché come prima spiegato Hamas, con la complicità dell’ANP, non la ricerca. Loro contestano la teoria dei “due stati, due popoli”, come sancito dagli accordi di Oslo. La premessa di quegli accordi è di parlare di due popoli. L’ANP ci ha riconosciuti come nazione ma non come popolo, con le nostre radici e la nostra storia. Lo Statuto dell’ANP, all’Articolo 20, dichiara di non riconoscere la dichiarazione di Balfour e quella di Sanremo. La loro propaganda afferma e diffonde che non c’è legame del nostro popolo con quella terra, rinnegando così anche la Bibbia. A testimonianza di ciò, l’affare Wikileaks ha portato alla luce uno scambio di mail in cui un alto rappresentante dell’ANP ha sollecitato i suoi funzionari ad abbandonare l’utilizzo di “due stati, due popoli” perché si tratta di un implicito riconoscimento della nostra storia e delle nostri radici. Vogliono negare il nostro diritto all’autodeterminazione. Invito i nostri lettori a riflettere su questo.
- Ambasciatore, infine non possiamo dimenticare quanto vissuto in questo ultimo anno, con l’emergenza sanitaria. Anche su questo fronte Italia ed Israele sono stati molto unite come nazioni per fronteggiare questa pandemia globale …. Confermo. Italia è l’unico paese in cui è stata inviata una delegazione israeliana di medici, infermieri e ricercatori. Abbiamo promosso un fitto scambio di protocolli d’intesa su questo tema tra le nostre strutture sanitarie. Durante la grave ondata della pandemia abbiamo fatto ogni settimana riunione con i rispettivi ministri della salute. Come ho detto vogliamo condividere ciò che il nostro paese riesce a conquistare in termini scientifici e tecnologici. Siamo un baluardo di libertà per tutto il mondo occidentale. Ecco perché insisto nell’affermare che difendere noi significa difendere il mondo libero, sostenere noi significa sostenere la nostra civiltà.
(Reale Inside, 28 luglio 2021)
La Knesset si mobilita contro Ben&Jerry's
TEL AVIV - La Knesset si è mobilitata contro la società di gelati Ben&Jerry's dopo che questa ha reso noto che, per restare fedele ai propri ideali, dalla fine del 2022 non autorizzerà oltre la vendita dei propri prodotti "nei territori palestinesi occupati" della Cisgiordania. Novanta dei 120 deputati della Knesset hanno sottoscritto oggi un appello alla Unilever - la società britannico-olandese che ha acquisito la B&J's - per esigere la revoca immediata di quella decisione che a loro parere è "vergognosa ed ipocrita".
Essa, hanno sottolineato, penalizza non solo centinaia di migliaia di israeliani che risiedono negli insediamenti ebraici della 'Giudea-Samaria' (il termine biblico della Cisgiordania) ma anche i palestinesi stessi, nonché i dipendenti israeliani di B&J's. Le direttive annunciate questo mese da B&J's, avvertono, contrastano poi con le leggi in vigore in Israele che vietano discriminazioni di clienti o di aree geografiche.
Sulla stampa sono intanto comparse informazioni secondo cui anche il ministero degli esteri israeliano si sarebbe attivato in maniera discreta contro la Unilever. Queste notizie non hanno per ora conferme ufficiali.
(ANSAmed, 28 luglio 2021)
Lettera da Haifa agli amici di Israele
Sull'ultimo numero di "Nachrichten aus Israel", edito da "Mitternachtsruf", di cui esiste la versione italiana "Chiamata di Mezzanotte", compare come ogni volta un editoriale del responsabile di "Beth-Shalom", albergo in Israele presentato come "Peaceful Refuge in the center of Haifa" . Ne riportiamo qui la traduzione.
Cari amici di Israele,
la domanda più eccitante in Israele in questo momento è: quanto durerà il nuovo governo? Le differenze nella coalizione degli otto partiti non potrebbero essere maggiori. Affinché un governo di coalizione con partner così diversificati abbia una possibilità di sopravvivenza, avrebbe bisogno di avere almeno un'ideologia che lo tenga insieme. L'obiettivo che accomunava tutti era quello di rovesciare finalmente Benjamin Netanyahu. Questa opposizione a Netanyahu era basata in gran parte su motivi personali piuttosto che politici.
Quasi tutti gli attuali partiti al governo sono già stati in una coalizione con Netanyahu. E le esperienze che hanno maturato sono apparse talmente negative che si sono detti: «Mai più»!
Netanyahu ha annunciato in un discorso che quasi sicuramente molto presto sarebbe tornato al potere, perché il nuovo governo manca di coesione interna. Con queste parole ha fornito alla coalizione il preciso collante di cui aveva bisogno per tenerli insieme, ovvero: Netanyahu non deve tornare al potere. Finché questa minaccia incombe, i vari partiti al governo, nonostante tutte le gravi divergenze, continueranno probabilmente a essere disposti al compromesso e, contrariamente alle previsioni, rimarranno uniti.
Perché questa opposizione a Netanyahu? Le ragioni sono complesse, ma quello che si è rivelato particolarmente grave è il fatto che ha fondato la sua base di potere - insieme al suo stesso partito Likud - sui partiti ultra-ortodossi. Questi hanno ottenuto da Netanyahu il sostegno finanziario che volevano e in cambio si sono coinvolti ben poco in politica, lasciandogli praticamente mano libera. Ma non sono riusciti ad assicurare la maggioranza a Netanyahu, che quindi ha avuto bisogno di un altro partito nella sua coalizione. Questa parte aggiuntiva serviva però più come "tappabuchi" che non proprio come un partner serio. Ma quello che ha fatto più arrabbiare quelli che una volta facevano parte di una coalizione con Netanyahu è stata la distribuzione ineguale degli oneri. La maggior parte degli ortodossi non presta servizio militare perché si è dedicata agli studi religiosi. In tal modo, ottengono denaro dallo Stato, una cosa che molti israeliani non vogliono più accettare.
Quando fu fondato lo Stato, agli ebrei strettamente religiosi fu concesso questo privilegio, perché a quel tempo erano ancora una piccola minoranza. Ma nel frattempo sono diventati un potere che non può essere trascurato; pertanto la materia dovrebbe essere nuovamente disciplinata . Ma poiché erano sempre stati una parte fondamentale della coalizione di governo, erano sempre riusciti a far passare le loro richieste.
Quando si è installato il nuovo governo, i portavoce dei partiti religiosi hanno insultato nel peggior modo i loro leader. Hanno chiesto a Bennett, che indossa una kippah, di togliersi la kippah perché non è ebreo, ma una vergogna. Per la prima volta nella storia di Israele, un rabbino riformato fa parte della Knesset con il Partito del lavoro, che ora fa anche parte della coalizione. Hanno insultato anche lui nel peggiore dei modi e gli hanno negato di essere ebreo. Gli ebrei riformati non sono ebrei, ma peggio dei cristiani.
Questo fa capire quanto sia preoccupante la tensione interna che c'è adesso in Israele. La disponibilità al compromesso per salvaguardare l'unità di Israele è diventata una necessità indispensabile. Speriamo e preghiamo che il nuovo governo sia un inizio in questa direzione.
In questa speranza, vi saluta con Shalom, il vostro
Fredi Winkler
(Nachrichten aus Israel, agosto 2021 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Caso Pegasus, parla l'azienda israeliana del software-spia
"Contro di noi una campagna orchestrata. Abbiamo salvato decine di migliaia di vite". Intervista ad Ariela Ben Abraham, che dirige la comunicazione globale della Nso, al centro delle critiche per lo spyware che ha aiutato Paesi autoritari a controllare gli oppositori. "Se qualche cliente ne abusa, non abbiamo problemi a terminare il rapporto", dice, ma poi sull'Arabia Saudita, che avrebbe usato Pegasus nell'omicidio Khashoggi, glissa.
di Sharon Nizza
GERUSALEMME – Lo scandalo Nso è scoppiato mentre Tel Aviv era nel pieno della settimana internazionale del cyber. “Forse non è un caso”, dice a Repubblica Ariela Ben Abraham, che dirige la comunicazione globale per l’azienda israeliana nell’occhio del ciclone per l’inchiesta “Progetto Pegasus”, che prende il nome dal loro prodotto di bandiera, lo spyware che avrebbe consentito a diversi regimi di monitorare oppositori politici e giornalisti.
- In che senso? "Ci chiediamo chi ci sia dietro questa operazione: 90 giornalisti da tutto il mondo che peraltro ora sostengono che l’elenco famoso non è direttamente correlato con Nso".
- Sostengono che si tratti di un database di obiettivi nel mirino dei vostri clienti. "Nso non ha un database di 50mila obiettivi, non è possibile con i numeri su cui lavoriamo che limitano il cliente a 100 licenze annue. Il Progetto non ha portato una sola prova a sostegno delle loro tesi".
- Nei controlli effettuati finora su 65 numeri, è risultato che almeno su 37 era attivo Pegasus. "Sono partiti con 50mila numeri, ora siamo arrivati a 37. Ma non ci è stata fornita nessuna prova finora".
- Avete intrapreso vie legali? "Stiamo considerando di agire contro chi ha diffuso queste menzogne. Va chiarito che grazie a Pegasus le vite di decine di migliaia di persone sono state salvate, sono stati evitati attentati terroristici. Durante il Covid è stata sventata una rete di cento pedofili".
- Questo è l’obiettivo principale del software, ma… "Non il principale. L’unico".
- …voi stessi avete ammesso di aver interrotto cinque contratti per abusi da parte dei clienti. "Anche di una forchetta e un coltello si può fare uso improprio. Il nostro obiettivo è garantire che i nostri sistemi vengano utilizzati unicamente per salvare vite".
- Però vendete il coltello anche a chi sapete potrebbe abusarne. In che modo potete controllare che i vostri clienti non facciano un uso improprio della vostra tecnologia? "Attualmente Pegasus ha 45 clienti, solo Stati, la maggior parte europei. A oltre 55 Stati abbiamo rifiutato di vendere. Siamo la prima compagnia cyber ad aver aderito alle linee guida dell’Onu per il business e i diritti umani. Il contratto è molto specifico sugli scopi per cui può essere utilizzato il software e viene rivisto periodicamente. Se riceviamo delle denunce, facciamo debite verifiche con le quali il cliente è tenuto a collaborare. Non conosco un’altra azienda del settore con tali standard. Se qualcuno abusa della nostra tecnologia, non abbiamo problemi a terminare il rapporto: l’abbiamo fatto in passato e lo faremo in futuro, anche al costo di perdere milioni di dollari".
- Avete cessato il rapporto con l’Arabia Saudita dopo che il vostro nome è stato legato all’omicidio Khashoggi? "Non riveliamo dettagli sui nostri clienti, presenti o passati. Respingiamo qualsiasi connessione con quel delitto atroce. Abbiamo fatto più controlli e lo spyware non si trovava né sul suo cellulare né su quello della sua fidanzata o di altre persone connesse a lui, diversamente da quanto riportato".
- Avete aperto inchieste specifiche a seguito di quanto emerso dal Progetto Pegasus? Per esempio, il giornalista ungherese Szabolcs Panyi risulta nell’elenco degli spiati dal vostro software. "Qualsiasi lamentela affidabile verrà presa in considerazione".
- Una delle critiche che vi vengono mosse è che il processo di verifica non sia indipendente e trasparente. "Il fatto che abbiamo interrotto il rapporto con cinque clienti credo che dica molto".
- Che ripercussioni sta avendo lo scandalo sulla società? "Un attacco del genere, così coordinato, ha chiaramente un impatto. Ma noi siamo forti e fieri di lavorare per Nso e farlo da Israele. I nostri impiegati (800, ndr) sono corteggiati ovunque. E ci sostengono perché credono in quello che fanno, sanno qual è l’obiettivo della società e quello che facciamo per evitare abusi".
- La stampa israeliana indica come vero tallone di Achille il processo di regolamentazione per ottenere la licenza a esportare, concessa dal ministero della Difesa: poca trasparenza, interessi politici e relazioni molto strette con i piani alti, come nel suo caso che è stata capo censore dell’Idf, le Forze di difesa israeliane. "Siamo totalmente conformi, e fieri di esserlo, con la regolamentazione israeliana e anche con quella europea. Credo che quella israeliana sia ancora più severa che in Ue o Usa. Nso è diventata un nome generico, un archetipo, e il target di una campagna mirata. Non siamo di certo l’unica società del settore, in Israele o all’estero. Oggi più che di paradisi fiscali si parla di ‘paradisi regolatori’. Come smettiamo di lavorare con un cliente, il nostro posto lo prende un’altra azienda soggetta a chissà quale regolamentazione".
- Il presidente francese Macron ha chiamato il premier Bennett per chiedere chiarimenti sulla vicenda e dovrebbe partire una commissione di controllo. Avete già ricevuto una convocazione? "Siamo contenti di collaborare con qualsiasi inchiesta le autorità decideranno di portare avanti. Non abbiamo dubbi che dietro questa campagna ci siano soggetti motivati da interessi".
- Chi? "Ci sono molte possibilità. Prima o poi lo verremo a sapere".
- Intende il movimento Bds per il boicottaggio di Israele, oppure il Qatar, come ha detto il vostro Ceo? "Soggetti che hanno interessi e molte risorse a disposizione"
(la Repubblica, 28 luglio 2021)
Che cos’è Durban 4 e perché l’Italia deve boicottarlo
di Ugo Volli
Durban è una città di circa quattro milioni di abitanti nella parte nordorientale del Sudafrica, sulla costa dell’Oceano Indiano, nota soprattutto per le sue belle spiagge e per la fiorente industria portuaria. Dal 31 agosto all’8 settembre 2001 vi si svolse però la “Conferenza mondiale contro il razzismo” promossa dall’Unesco e da allora il suo nome, almeno nel gergo politico internazionale, si è identificato con questo evento. Infatti nel 2009 la nuova edizione della “Conferenza” si riunì a Ginevra e fu soprannominata “Durban 2”; nel 2011 ce ne fu un’altra presso la sede della Nazioni Unite per celebrare il decimo anniversario della prima conferenza e la si chiamò “Durban 3” e oggi dopo altri dieci anni è stata convocata per il 22 settembre “Durban 4”, sempre a New York.
Naturalmente non vi è nulla di male nel combattere il razzismo anche per via diplomatica, con conferenze internazionali; anzi si tratta di un tema importantissimo, su cui ogni persona, movimento o stato ha il dovere di impegnarsi. Il fatto è però che la conferenza di Durban, la prima e anche le successive, non si impegnarono contro il razzismo in qualunque senso ragionevole del termine, ma si trasformarono in tribune di agitazione antisraeliana e antioccidentale, secondo una dinamica analoga a quella che abbiamo visto in opera nell’ultimo anno con le azioni del movimento “Black Lives Matter”. Durban divenne la peggiore manifestazione internazionale di antisemitismo nel dopoguerra. Invece di combattere il razzismo, la conferenza lo ha incoraggiato e incitato, almeno contro gli ebrei.
In preparazione della Dichiarazione finale da fare adottare a Durban, le nazioni asiatiche si erano incontrate a Teheran nel febbraio 2001. Il testo che uscì da questa pre-conferenza demonizzava Israele, accusandolo di aver commesso "un nuovo tipo di apartheid", "un crimine contro l'umanità" e "una forma di genocidio". Questo linguaggio fu eliminato all'ultimo minuto dalla Dichiarazione di Durban su pressione dei membri dell'Unione Europea, che minacciavano di seguire gli Stati Uniti e Israele, ritirandosi dalla conferenza. Tuttavia, il testo finale indicò solo Israele come presunto colpevole di razzismo. Alla conferenza i discorsi incendiari contro Israele erano onnipresenti. Arafat parlò ai delegati della "vergogna" delle "politiche e pratiche razziste israeliane contro il popolo palestinese". Il dittatore cubano Fidel Castro gli fece eco predicando contro il “terribile genocidio perpetrato, proprio in questo momento, contro i nostri fratelli palestinesi”. In parallelo alla conferenza vera e propria, vi era "Forum delle ONG" in cui le organizzazioni non governative dichiararono formalmente Israele uno "stato di apartheid razzista" colpevole di "genocidio". In una marcia guidata dai palestinesi con migliaia di partecipanti, un cartello diceva "Hitler avrebbe dovuto finire il lavoro". Fra i documenti diffusi non mancavano i più famosi dei libri antisemiti, come "I Protocolli dei Savi di Sion"; l'Unione degli avvocati araba distribuiva caricature di ebrei con il naso adunco, le zanne grondanti di sangue e i soldi in mano. Attivisti ebrei per i diritti umani a Durban erano fisicamente intimiditi e minacciati, con grida di: "Non appartenete alla razza umana!"
Lo shock fu immenso, tanto che a Durban2, nel 2009, si rifiutarono di partecipare non solo Israele e Usa, ma anche Canada, Germania, Italia (il presidente del consiglio era Berlusconi, il ministro degli esteri Frattini), Svezia, Olanda e Australia. La conferenza, con meno partecipazione della prima, andò per gli stessi binari: la presidenza del comitato preparatorio fu assegnata alla Libia di Gheddafi e il discorso principale fu pronunciato fra gli applausi dal presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad: "Il sionismo mondiale personifica il razzismo - disse - ricorre falsamente alla religione e abusa dei sentimenti religiosi per nascondere il suo odio e il suo volto feroce”. Dopo la seconda guerra mondiale, è stato istituito "un governo totalmente razzista nella Palestina occupata, con il pretesto della sofferenza ebraica". Con queste premesse, a Durban 3 quindici paesi rifiutarono di partecipare: Australia, Austria, Bulgaria, Canada, Repubblica Ceca, Francia, Germania, Israele, Italia (il primo ministro era sempre Berlusconi e il ministro degli esteri Frattini), Lettonia, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Polonia, Regno Unito e Stati Uniti.
Le premesse per Durban 4 non sono diverse dalle edizioni precedenti. In molti paesi, fra cui gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, l’antisemitismo “antirazzista” si è molto diffuso, anche in istituzioni come le principali università e in partiti che avevano sempre rifiutato l’odio per gli ebrei, come i Democratici americani e i Laburisti inglesi. Lo si è visto anche in Italia nelle reazioni di alcuni deputati, sindaci e dirigenti sindacali di fronte all’autodifesa israeliana dalla recente aggressione missilistica di Hamas. Anche in Francia e in Germania l’antisemitismo, almeno quello “buono” travestito da antisionismo e “dunque” da antirazzismo, ha infettato i più importanti livelli dello Stato e della politica. D’altro canto negli ultimi anni si è avuta una normalizzazione dei rapporti di Israele con molti paesi arabi, asiatici e africani, ma prima che la cessazione del conflitto si rifletta nelle sedi politiche e propagandistiche internazionali, molto tempo è passato. Anche Durban 4, insomma, molto probabilmente sarà un festival dell’odio per gli ebrei e per Israele. Ci sono già alcuni stati che hanno annunciato il loro boicottaggio: gli Usa, Israele, l’Australia, il Canada, la Gran Bretagna, l’Ungheria, l’Austria, l’Olanda, la Repubblica Ceca, la Germania. Dall’elenco mancano per ora la Francia e soprattutto per noi l’Italia. Possiamo sperare che il Ministro degli Esteri Di Maio, il Premier Draghi e il Presidente della Repubblica Mattarella sapranno evitare che l’Italia partecipi a una vergognosa sagra antisemita? Bisogna chiederlo con forza, perché i precedenti delle posizioni italiane all’Onu negli ultimi anni sono decisamente sconfortanti.
(Shalom, 28 luglio 2021)
Grandi emozioni alla Giudecca di Bova nella serata dedicata alla Shoah
Nel corso dell’evento di domenica scorsa si è ribadito come la “Memoria” sulla Shoah non conosce divisioni politiche, né divergenze di intenti.
REGGIO CALABRIA - Inteso e carico di emozioni l’evento di premiazione del primo concorso nazionale di poesia dedicato alla Shoah “Ricordare per non dimenticare”, ospitato a Bova, presso il quartiere della Giudecca, sezione urbana del Museo della Lingua Greco-Calabra “G. Rohlfs”.
Un incontro quello di domenica scorsa senza precedenti per il borgo calabrese, che ha visto la partecipazione dei rappresentanti politici della Regione Calabria, della Città metropolitana di Reggio Calabria, del sindaco di Bova Santo Casile, riuniti insieme al rabbino della Comunità Ebraica di Napoli, rav ing. Ariel Finzi e alla responsabile delle relazioni esterne dell’Universal Peace Federation Italia, Maria Gabriella Mieli, per riflettere sull’occasione offerta dall’organizzatrice del singolare concorso di poesia, Miriam Jaskierowicz Arman, pedagoga vocale di origine israeliana nonché presidente dell’Accademia per lo Sviluppo della Voce, Ebraismo e Kabalah, di Reggio Calabria.
Nel corso dell’evento si è ribadito come la “Memoria” sulla Shoah non conosce divisioni politiche, né divergenze di intenti. Anzi al contrario, ha evidenziato l’assessore alla cultura del comune di Reggio Calabria, Rosanna Scopelliti, il tema necessita di una sinergica collaborazione, fondamentale per trasmettere la Memoria alle future generazioni. Sulla stessa scia anche l’intervento del presidente della Regione Calabria, Nino Spirlì, il quale ha auspicato la rinascita di una comunità ebraica calabrese, sulla base della secolare presenza nella nostra regione di importanti comunità giudaiche fin dal IV secolo d. C.
A coinvolgere spettatori dell’incontro nel dramma della Shoah è stato l’intervento del rabbino della Comunità Ebraica di Napoli, rav ing. Ariel Finzi, che ha ricordato come l’olocausto degli ebrei non trova paragoni nella storia. La Shoah rappresenta infatti un "unicum" perché mai è stata ideata, progettata e realizzata una industria della morte così efficiente e spietata.
Il rabbino ha di seguito recitato in ebraico i versi di una canzone di un prigioniero di un campo di concentramento, versi che hanno echeggiato tra le mura della giudecca di Bova, da dove gli ebrei sono stati cacciati via, insieme a tutti i Giudei dell’Italia meridionale all’indomani degli editti di espulsione, emanati da Carlo V nel 1541.
L’evento è proseguito con gli interventi di Maria Gabriella Mieli, responsabile delle relazioni esterne dell’Universal Peace Federation Italia, Anita Nucera, presidente della Commissione pace e diritti umani del comune di Reggio Calabria e l’organizzatrice del primo concorso nazionale di poesia dedicato alla Shoah, Miriam Jaskierowicz Arman, che ha regalato al Museo di G. Rohlfs di Bova un libro di preghiere del padre, morto in un campo di concentramento polacco, da esporre alla Giudecca di Bova.
Successivamente è stata letta la poesia di Caterina Sorbilli vincitrice del concorso, poesia immortalata in una lastra in ceramica posta nel quartiere ebraico di Bova, realizzata da Antonio Pujia Veneziano, l’artista a cui si deve l’installazione di arte contemporanea che arricchisce questo suggestivo angolo del borgo calabrese. A chiudere la serata il direttore del Museo Rohlfs di Bova, Pasquale Faenza, che ha ricordato come la Giudecca è stata riqualificata con l’intento di attivare sinergie per il futuro del patrimonio ereditato, creare momenti di incontro e riflessione su tutti i temi legati alle identità culturali, ma anche sui pregiudizi che nel corso della storia hanno marginalizzato intere popolazioni.
Il direttore ha poi ringraziato quanti hanno patrocinato il primo concorso nazionale di poesia dedicato alla Shoah (Ambasciata di Israele; Comunità Ebraica di Napoli; l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI); Regione Calabria; Comune di Reggio Calabria; Comune di Bova e di Bova Marina; e dell’Organizzazione Nazionale Ecumenica), in particolare l’associazione Territorium che insieme al Comune di Bova hanno contribuito allo svolgimento di una delle più toccanti serate di questa estate bovese.
(ReggioToday, 27 luglio 2021)
Israele contro il Covid: nuove limitazioni al Ben Gurion
Cresce la preoccupazione in Israele dopo i dati di ieri, che hanno registrato oltre duemila contagi. Una cifra record per il piccolo Paese che, ironia della sorte, era stato preso da tutti ad esempio per essere stato il primo a uscire dalla pandemia.
Ieri, come spiega Il Messaggero, le autorità sanitarie hanno imposto nuove limitazioni all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, vietando gli ingressi di passeggeri nelle sale di partenze e arrivi per cercare di frenare i contagi.
Il direttore generale del Ministero della sanità Nahman Ash ha inoltre reso noto che sta valutando la opportunità di somministrare una terza dose di vaccino Pfizer agli over 60 anni (ma forse anche agli over 50 anni), anche prima che arrivi l'autorizzazione formale da parte della Fda americana.
(TTG, 27 luglio 2021)
Green pass e infodemia: cosa ci dicono i dati di Israele
di Francesca Totolo
ROMA - Lo scetticismo e la perdita di fiducia nei confronti dei governi nazionali in merito alle strategie di contenimento del Covid-19 e delle campagne vaccinali stanno aumentando un po’ ovunque. L’infodemia, una comunicazione errata, la mancanza di trasparenza e di autorevolezza delle istituzioni stanno confondendo i cittadini che si trovano a dover maneggiare il tutto e il contrario di tutto, come in un grande labirinto orwelliano. Ogni Paese occidentale sta attuando politiche simili per sconfiggere il coronavirus, ma i risultati non sembrano portare ai medesimi risultati. Il Regno Unito e Israele hanno i tassi di popolazione vaccinata più alti a livello mondiale, rispettivamente il 54,43 per cento e il 61,15 per cento di vaccinazioni con due dosi al 22 luglio del 2021. Gli ultimi dati pubblicati dal ministero della Salute del Regno Unito, il 22 luglio scorso, affermano che l’efficacia del vaccino, dopo la somministrazione di due dosi, contro la malattia sintomatica da Covid-19 si attesterebbe al 79 per cento per quanto riguarda la variante Delta, percentuale in forte riduzione rispetto alla variante Alpha, l’89 per cento.
I DATI DI ISRAELE IN CONTRASTO CON QUELLI BRITANNICI Veniamo ai dati di Israele. Secondo le nuove statistiche del Ministero della Salute di Israele pubblicate il 20 luglio scorso, il vaccino della Pfizer è ora efficace solo per il 39 per cento contro l’infezione da variante Delta, mentre è efficace solo per il 41 per cento nel prevenire il Covid-19 sintomatico.
L’epidemiologo Nadav Davidovitch, professore della Ben-Gurion University e presidente del sindacato dei medici israeliani, ha commentato tali dati: “Quello che vediamo è che il vaccino è meno efficace nel prevenire la trasmissione, ma è facile trascurare che è ancora molto efficace nel prevenire il ricovero e i casi gravi”. Per questo motivo, secondo Davidovitch “non possiamo fare affidamento solo sulle vaccinazioni, ma abbiamo anche bisogno di green pass, dei test, delle mascherine e simili”. La perdita di efficacia del vaccino Pfizer è stata ribadita anche dal primo ministro israeliano Naftali Bennett, durante la conferenza stampa seguita alla cabina di regia sull’emergenza coronavirus del 16 luglio. Qualche giorno prima, era stato divulgato lo studio di un team di medici israeliani guidati dal professore Tal Brosh, capo dell’Unità Malattie Infettive presso il Samson Assuta Ashdod Hospital. L’analisi aveva riguardato 152 pazienti completamente vaccinati che avevano sviluppato il Covid-19. Il 96 per cento di questi soggetti, ricoverati in diciassette ospedali, erano affetti da malattie preesistenti. Il professor Brosh ha poi evidenziato: “Se il tuo sistema immunitario non funziona bene, sei a maggior rischio di non sviluppare protezione dalla vaccinazione”, aggiungendo che circa il 35 per cento dei pazienti non aveva anticorpi rilevabili, ovvero non erano riusciti a creare una risposta immunitaria dopo la somministrazione vaccino. Anthony Fauci, capo della task force del presidente degli Stati Uniti sull’emergenza coronavirus, ha affermato di essere rimasto sorpreso dall’apparente forte calo dell’efficacia del vaccino Pfizer che i dati israeliani sembrano suggerire. Ha poi affermato di volerlo confrontare con i dati che il Center for disease control and prevention sta raccogliendo negli Stati Uniti. Fauci ha evidenziato altresì: “Le persone si stanno insospettendo“.
“LA CAROTA NON STA PIÙ FUNZIONANDO” In una mail che è stata diffusa per errore, il capo dell’ufficio di Washington e senior vice president della Cnn, Sam Feist, ha ammesso: “La carota non sta più funzionando“. La risposta di Feist arrivava dopo la constatazione del giornalista Charlie Kirk: “La maggioranza degli americani non vaccinati afferma che non ha intenzione di assumere il vaccino, nonostante la divulgazione degli sforzi messi in campo”. Probabilmente, anche Anthony Fauci si riferiva a quella “carota” quando ha dichiarato che gli americani si stavano insospettendo. La mancanza di trasparenza governativa e istituzionale riguardante i vaccini sono alla base dello scetticismo che sta prendendo piede in quasi tutti i Paesi occidentali, come è peraltro emerso durante le manifestazioni dell’ultimo fine settimana. Decine di migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro il Green pass e l’obbligo vaccinale, dall’Italia all’Australia, passando per l’Inghilterra e la Francia. Nel nostro Paese, sono state ben 81 le città coinvolte dalle manifestazioni, dai grandi centri, come Milano, Roma, Napoli e Torino, alle province più piccole.
Il premier Mario Draghi, durante la conferenza stampa del 22 luglio scorso, ha testualmente asserito: “Il Green pass è una misura con cui gli italiani possono continuare a esercitare le proprie attività, a divertirsi, ad andare al ristorante, a partecipare a spettacoli all’aperto, al chiuso, con la garanzia però di ritrovarsi tra persone che non sono contagiose”. Questa dichiarazione, oltre che inesatta, potrebbe spingere gli italiani vaccinati a comportamenti irresponsabili e i non vaccinati a un’ulteriore perdita di fiducia nei confronti del presidente del consiglio. La cosiddetta “moral suasion” non causerà un’ulteriore perdita di credibilità nelle istituzioni e nel governo? Veramente gli italiani hanno bisogno di un atteggiamento paternalistico per essere “responsabili”? Vediamo se il premier Draghi passerà al “bastone”, imponendo per legge l’obbligo vaccinale ai cittadini italiani.
(Il Primato Nazionale, 27 luglio 2021)
I no-greenpass faranno bene a non farsi troppe illusioni. La grande maggioranza degli italiani accetterà "responsabilmente" il ricatto del governo. Ma rifiuterà sdegnosamente di ammettere di aver ceduto a un ricatto. Diranno che è per il bene della società, prima che per il bene personale. E ci spiegheranno che la libertà deve scaturire dall'accettazione degli obblighi sociali; e che quella dei renitenti alla chiamata al vaccino è una deplorevole ego-libertà. Così diranno, anzi già dicono. Ma forse presto si accorgeranno di aver rinunciato alla ego-libertà per cadere nella socio-schiavitù. Ma la difenderanno con tutte le loro forze, sia perché l'essere in molti è comunque rassicurante, sia perché una volta che si è fatta una scelta sotto costrizione per motivi di necessità, è inevitabile desiderare di presentarla a se stessi e agli altri sotto una veste nobile. E di conseguenza quella di chi l'ha rifiutata come ignobile. Ma la società comunque non ne avrà affatto un bene. Tutt'altro. M.C.
Gerusalemme-Ramallah, prove per un nuovo dialogo
Ricucire i rapporti complicati con i vicini più prossimi. La diplomazia israeliana del nuovo corso, quello a guida Naftali Bennett e Yair Lapid, ha deciso di cambiare politica rispetto alle modalità di confronto con l’Autorità nazionale palestinese e con la Giordania adottate in passato. Meno scontri a viso aperto, più dialogo. Almeno in questa fase iniziale. E così, dopo anni in cui solo il Presidente israeliano Reuven Rivlin aveva un filo diretto con il presidente dell’Anp Mahmoud Abbas, in poche settimane quella linea si è aperta a più interlocutori. Oltre al nuovo Presidente Isaac Herzog, che Abbas conosce bene per la sua militanza laburista, anche il ministro della Difesa Benny Gantz e il ministro della Pubblica Sicurezza Omer Bar-Lev hanno avuto conversazioni dirette con il leader palestinese.
In particolare Gantz ha telefonato ad Abbas in occasione della festa islamica Eid al-Adha. “I due – spiega una nota del ministero della Difesa – hanno parlato in un’atmosfera positiva e hanno discusso la necessità di far progredire le misure di rafforzamento della fiducia tra Israele e l’Anp, che aiuterà la sicurezza e l’economia dell’intera regione”. Una dichiarazione simile è arrivata anche dal ministro Bar-Lev che ha auspicato che la sua conversazione con Abbas possa portare “all’apertura di linee di comunicazione tra me e le mie controparti dell’Anp, facendo avanzare la pace e la sicurezza per entrambi i popoli”.
Parole insomma distensive, dopo anni di gelo. Se infatti durante la guida di Benjamin Netanyahu la cooperazione in termini di sicurezza con i palestinesi è proseguita, i rapporti politici con Ramallah sono stati quasi inesistenti. E nell’era Trump l’allontanamento è stato ancora più marcato, con Abbas e i palestinesi messi ai margini dell’agenda internazionale, mentre Israele firmava accordi con Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco.
Il cambio a Gerusalemme, ma soprattutto a Washington con la presidenza Biden, ha favorito la nascita di un nuovo corso. Gli Stati Uniti hanno infatti da subito dichiarato di voler puntare su Abbas – che però non gode di grande consenso tra i palestinesi – e sull’Anp per rilanciare il dialogo tra le parti e per la gestione del futuro dei territori palestinesi, in Cisgiordania come a Gaza. Una linea sposata da Gantz. “Il cambiamento più auspicabile – ha dichiarato il ministro della Difesa – è rafforzare il più possibile l’Autorità nazionale palestinese, e non lasciare che sia Hamas a stabilire l’agenda, né nella zona della Striscia di Gaza né nella stessa Gaza”. Per il momento, rilevano analisti e funzionari israeliani, si tratta solo di una distensione a parole e molto deve essere ancora fatto per riaprire a un vero negoziato (tra cui, l’interruzione del versamento di soldi da parte di Ramallah ai terroristi palestinesi in carcere e alle loro famiglie).
Secondo una fonte del sito Al Monitor, gli americani anche aspettando che il nuovo governo israeliano si stabilizzi, in particolare che riesca a superare la prova dell’approvazione del bilancio a fine anno. “Solo allora le cose cominceranno davvero a muoversi. L’ipotesi plausibile è che l’amministrazione Biden inizierà allora a spingere per rinnovare i negoziati tra Israele e i palestinesi. Bennett e il ministro degli Esteri Yair Lapid dovrebbero visitare presto Washington. Nel frattempo, vedremo sempre più sforzi per rafforzare lo status di Abbas e dell’Anp”.
Almeno sui media si legge quindi una propensione a credere che la riapertura del tavolo delle trattative sia possibile. Un’idea condivisa anche da un altro attore interessato, il re di Giordania Abdullah II. Questi era entrato in diretto scontro con l’ultimo governo Netanyahu, in particolare dopo l’annunciata – e poi sospesa – decisione di annettere una parte della Cisgiordania. E per questo aveva raffreddato molto i rapporti con Israele. Nel frattempo, come i palestinesi, anche la sua Giordania era stata messa ai margini dalla rivoluzione degli Accordi di Abramo. E ora il nuovo governo di Gerusalemme offre la possibilità al re Abdullah di tornare ad avere un peso politico nell’area. Il sovrano ha confermato alla Cnn di aver incontrato sia il Primo ministro Bennett sia Gantz. “Sono uscito da quegli incontri davvero incoraggiato e penso che abbiamo visto, nelle ultime due settimane, non solo una migliore comprensione tra Israele e Giordania, ma le voci che escono da israeliani e palestinesi dicono che abbiamo bisogno di andare avanti e resettare quel rapporto”.
(moked, 27 luglio 2021)
Giordania e Israele: la questione palestinese
di Elena Grigatti
Giordania e Israele sembrano desiderosi di porre fine ad anni di tensioni, manifestatisi in incidenti diplomatici altrimenti evitabili. Eppure, per ripristinare la piena cooperazione c’è uno scoglio da superare: la questione palestinese. Nonostante i buoni propositi, per altro condivisi da entrambe le parti, ciò che avverrà in futuro tra lo Stato ebraico e il Regno Hascemita influenzerà (e sarà influenzato da) gli sviluppi a Gerusalemme. Nonché la creazione stessa di uno Stato di Palestina. Quindi, Israele riuscirà a riallacciare i rapporti con il Paese con cui condivide il suo confine più esteso?
Un incontro tra Giordania e Israele? Domenica, Sua maestà il Re di Giordania Abdullah II ha rivelato di aver incontrato in segreto alcuni politici israeliani. Tra cui il neo Premier israeliano, Naftali Bennett, all’inizio di questo mese. Nonché il ministro della Difesa Benny Gantz, già qualche settimana dopo la formazione del governo del cambiamento. Secondo i rapporti dei media israeliani, la serie di incontri prelude ai viaggi a Washington delle rispettive delegazioni, israeliana e giordana, che si terranno entro la fine dell’estate. Con un atteggiamento appena irrigidito dall’etichetta e dalla carica, il monarca del Regno Hascemita ha espresso il proprio ottimismo a Fareed Zakaria, giornalista della CNN, in merito a una prossima riconciliazione tra i due Paesi. A tal proposito, il primo test riguarderà proprio un accordo sulle risorse idriche, discusso nei giorni scorsi tra Bennett e Abdullah II nel palazzo reale di Amman.
Ripartire In base all’accordo, Israele prevede di vendere 50 milioni di metri cubi di acqua alla Giordania. Una cessione, pensata come una tantum, che aumenterebbe l’assegnazione annuale di 55 milioni di metri cubi stabiliti dal trattato di pace del 1994. La Giordania è uno dei paesi più poveri d’acqua al mondo che quest’anno affronta una grave siccità, stimata in 40 milioni di metri cubi. In passato, il regno era solito fare affidamento sulle riserve di Israele per le forniture idriche, essenziali per l’uso agricolo e domestico. Nonostante l’ufficio del Premier non abbia rilasciato dichiarazioni in merito, durante la sua visita in Giordania il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid ha spiegato che “Il Regno di Giordania è vicino e partner dello Stato di Israele“. “Il ministero degli Esteri continuerà a mantenere un dialogo continuo al fine di preservare e rafforzare tale relazione“, ha precisato il ministro.
Intenti tra Giordania e Israele E ancora. “Espanderemo la cooperazione economica a beneficio di entrambi i paesi“, ha aggiunto Lapid. In proposito, lo Stratfor Center for Strategic Studies, con sede negli Stati Uniti, ritiene che “la Giordania e Israele stiano adottando misure attive per migliorare le loro relazioni bilaterali”. Eppure, non sfugge che negli ultimi anni i rapporti tra Giordania e Israele si siano incrinati. In questo senso, “Le profonde radici di Amman in Cisgiordania significano che la durata del riavvicinamento dipenderà dalla politica israeliana nei territori palestinesi“. Inoltre, per il Centro di ricerche il fatto che gli incontri si siano tenuti a porte chiuse di Bennett rappresenta “un’ulteriore indicazione delle tensioni tra i due paesi”. Se non altro, la visita clandestina di Bennett sarà valsa a rompere il ghiaccio.
Crisi tra Giordania e Israele In effetti, i rapporti tra Giordania e Israele, già incrinati, si sono deteriorati negli ultimi due anni. Principalmente a causa delle relazioni instaurate dall’ex Primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu. “I giordani non sono particolarmente contenti di Netanyahu e non lo sono da molto tempo“, spiegava Joshua Krasna. Un esperto di Medio Oriente presso il Centro Moshe Dayan dell’Università di Tel Aviv. In proposito, nel 2019 il re di Giordania Abdullah II aveva dichiarato che le relazioni con lo Stato ebraico fossero “ai minimi storici”. Specialmente dopo una serie di incidenti diplomatici che avevano spinto Amman a richiamare il proprio ambasciatore in Israele. Oltre che a chiudere la sede diplomatica. Infine, l’arresto di due cittadini giordani per terrorismo da parte di Israele aveva provocato l’ennesimo alterco. In quel periodo, il Regno sospese gli accordi speciali che riconoscevano alcune agevolazioni agli agricoltori israeliani in Giordania.
Sedotta e abbandonata A ben vedere, la Giordania è insoddisfatta della piega che ha assunto la sua relazione con Israele. Abbagliato dalla normalizzazione dei rapporti con le monarchie del petrolio, i cosiddetti Accordi di Abramo, lo Stato ebraico ha dimenticato il suo partner storico. O, quanto meno, lo ha dato per scontato. A ragione, Krasna ha paragonato la situazione alla gelosia che prova “la moglie verso la nuova amante”. “Da un giorno all’atro, Israele parla delle meravigliose relazioni e delle meravigliose opportunità che ha con gli Emirati Arabi Uniti, e che ha con il Bahrain e forse con altri stati“, ha commentato Krasna con un accenno di biasimo. D’emblée, le autorità sioniste avrebbero cancellato anni e anni di relazioni politiche. Con un gesto di spugna. Proprio per questo, sosteneva Krasna, “I giordani e gli egiziani si sentono esclusi due volte“. Oltretutto, entrambi “Hanno pagato un prezzo alto quando hanno concluso i trattati di pace con Israele”, ha ribadito l’esperto.
Dilemma Eppure, per la Giordania non c’è via di scampo. Pubblicamente, Amman può solo che elogiare la ripresa del dialogo in Medio Oriente. E, di conseguenza, i patti firmati nel 2020 sotto la supervisione dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Tuttavia, i rapporti altalenanti degli ultimi due anni hanno impresso alla Giordania la sensazione di essere una pedina nelle mani di Israele. Sebbene condividano i medesimi interessi di sicurezza, e da molto tempo, le relazioni politiche tra i due Paesi non hanno resistito alle recenti violazioni israeliane nei confronti dei palestinesi. Ma c’è di più. Sullo sfondo emergono altre due questioni, altrettanto delicate. Da una parte, l’accordo di annessione della Cisgiordania. La sponda occidentale del fiume Giordano che in inglese prende il nome di West Bank. Quel progetto aveva ricevuto la benedizione nella Sala Est della Casa Bianca. Come c’era da aspettarsi, visto che gli Usa si schierano al fianco di Israele da prima degli accordi di Camp David. Dall’altra, la contesa per Gerusalemme Est, dove si trova il Monte del Tempio. Il terzo luogo sacro dell’Islam che ospita la Spianata delle Moschee. Tra cui Al Aqsa. Ma procediamo con ordine.
Wadi Araba Israele ha rivendicato il Monte del Tempio e la Città Vecchia di Gerusalemme nella Guerra dei Sei Giorni del 1967. Da allora, lo Stato ebraico ha esteso in maniera progressiva e costante la propria sovranità sull’area, violando lo status quo riconosciutole a livello internazionale. Tuttavia, ha permesso al Waqf giordano di mantenere l’autorità religiosa sulla sommità del Monte. Un luogo sacro che i fedeli ebrei possono visitare. Ma cui è interdetto svolgere funzioni religiose e pregare. Così, la Giordania ne divenne custode. Mentre il suo ruolo veniva sancito dallo storico accordo di pace israelo-giordano del 1994. Questo fino alle aspirazioni espansionistiche di Benjamin Netanyahu. L’obiettivo era annettere parte delle Terre palestinesi della Cisgiordania, tra cui la Valle del Giordano. Un territorio che, secondo le stime, ospita dai 50.000 ai 65.000 palestinesi che non riceverebbero la cittadinanza israeliana. Al contrario, “rimarranno come enclavi palestinesi“, spiegava l’ex Premier al quotidiano conservatore Israel Hayom.
Un progetto ambizioso All’agenzia di destra Makor Rishon, Netanyahu aveva detto di ritenere improbabile che la Giordania avrebbe annullato il trattato di pace. Anche qualora Israele avesse portato avanti il suo programma di annessioni. Inoltre, il leader di Likud aveva affermato che qualsiasi blocco della costruzione di insediamenti come parte del piano di Trump sarebbe stato applicato anche ai palestinesi nell’Area C, che è controllata da Israele. Tuttavia, il Re Giordano si era opposto pubblicamente a quell’operazione fortemente voluta dal leader israeliano. A maggior ragione perché la considerava come uno stratagemma politico per acquisire consensi in vista delle elezioni. Dal canto suo, Netanyahu prometteva di “preservare la possibilità di pace”. Prima di aggiungere che gli Usa avevano approvato l’annessione di aree palestinesi che, secondo il piano, rimarrebbero sotto il controllo israeliano. Come a dire: oltre al danno, la beffa.
Il calderone “Medio Oriente” Mentre continuano le proteste contro l’annessione in Cisgiordania, Amman deve fare i conti con gli attriti nel sud della Siria. Lì, le sfide sono con la Russia e l’Iran. Ma anche con la minaccia dello Stato islamico dell’Iraq e di al-Sham (ISIS), nonché con gli Stati del Golfo a sud. Oltretutto, la Giordania è un fulcro di sicurezza per CENTCOM, che ospita l’esercitazione annuale di Eager Lion guidata dagli Usa. E supporta Tanf, una base statunitense in Siria, al confine nord-orientale con la Giordania. In questo contesto, l’annessione di Israele getta un’ombra su una serie di questioni a Est del fiume Giordano. Tanto che il Regno hashemita camminerà sul filo nei suoi rapporti politici con Israele. Senza contare l’isterismo sionista per il programma nucleare di Teheran. “Sappiamo che i colloqui di Vienna saranno rinviati fino a quando non si insedierà questo nuovo governo in Iran“, ha ricordato Abdullah. “Ho la sensazione che la posizione americana e quella iraniana siano alquanto distanti“, ha osservato. Infine, ha detto: “Speriamo che questi colloqui ci portino in una posizione migliore in cui possiamo calmare la regione perché abbiamo così tante sfide“.
Il futuro tra Giordania e Israele Ora, però, è tempo di cambiamento. Almeno, questa è la dichiarazione d’intenti dell’eterogenea coalizione di governo in Israele. La quale riunisce non solo i partiti di destra e di centro. Ma anche le fazioni islamiste. Consapevole degli attriti che in passato hanno segnato il dialogo con l’ex Primo ministro Netanyahu, Zakaria ha voluto approfondire la questione. In maniera educata, ma pur sempre con fermezza, il giornalista indiano naturalizzato statunitense ha chiesto a Re Abdullah II la sua opinione circa il nuovo governo israeliano. In particolare, rispetto al progetto di annessione dei Territori Palestinesi. Volendo infierire, Zakaria ha ricordato a Sua Maestà una provocazione dell’allora Primo ministro Benjamin Netanyahu. Il quale alludeva alla presenza palestinese in Giordania.
Rifugiati I primi cittadini palestinesi erano giunti nel regno con lo status di rifugiato tra il 1947 e il 1967. Oggi, la maggior parte dei loro discendenti è naturalizzata. Il che rende la Giordania l’unico paese arabo ad aver integrato i rifugiati palestinesi del 1948. Pur in assenza di dati ufficiali, l’UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione) stima che nel 2016 dei quasi 6 milioni di rifugiati almeno 2 milioni si trovino in Giordania. Talvolta, la definizione include cittadini giordani con origine palestinese. Cifre alla mano, si tratta di circa un terzo del totale. Dal 2014, quasi 4 milioni di palestinesi si dividono dieci campi profughi, il più grande dei quali è quello di Baqa’a, che ospita oltre 100 mila persone. Cui segue quello di Amman New Camp (Wihdat), con oltre 5o mila residenti. Pr lo più, i palestinesi si concentrano nel nord e nel centro del regno. In particolare nei governatorati di Amman, di Zarqa e di Irbid. Mentre la restante parte vive in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est occupata. Ma anche nella Striscia di Gaza, in Libano e Siria.
La dichiarazione “La Giordania resta la Giordania“. Così risponde Re Abdullah II alla cortese imbeccata. Prima di aggiungere che, sebbene vanti una società multietnica, il Regno non sia il terreno per uno Stato di Palestina. “I palestinesi non vogliono abitare in Giordania“, precisa il monarca. Piuttosto, “Desiderano la loro Terra, la propria squadra calcistica, la propria bandiera che sventola sulle loro case“. Per Abdullah II la creazione di due Stati indipendenti rimane l’unica soluzione possibile. Al giornalista della CNN spiega: “Venendo negli Stati Uniti come, penso, il primo leader da quella parte del mondo, era importante unificare i messaggi perché le sfide sono numerose“. “Era importante per me non solo incontrare la dirigenza palestinese dopo la guerra, che ho fatto con Abu Mazen (il presidente palestinese Mahmoud Abbas, ndr)“, spiega il monarca. E prosegue. “Ho incontrato il primo ministro. Ho incontrato il generale Gantz perché dobbiamo davvero riportare la gente al tavolo“.
Questione palestinese Secondo il Re di Giordania, i violenti disordini arabo-ebraici in Israele durante il suo più recente conflitto con Hamas sono stati una “guerra civile”, dovrebbero servire da monito. In particolare, il re ritiene che la recente escalation di 11 giorni tra Israele e Hamas “era diverso”. “Dal 1948, questa è stata la prima volta che ho sentito che una guerra civile è avvenuta in Israele“. Lo ha detto riferendosi agli scontri tra ebrei e musulmani israeliani, avvenuti durante il conflitto. “E penso che sia stato un campanello d’allarme per il popolo di Israele e il popolo palestinese, che se non andiamo avanti, a meno che non diamo speranza ai palestinesi“. E profetizza: “La prossima guerra sarà ancora più dannosa”. A ben vedere, parte del problema è dato dai numerosi attori che, da dietro le quinte, cercano di muovere i fili a proprio vantaggio. In questo senso, non sarà da sottovalutare la contesa per il controllo di Gerusalemme. In particolare, della Moschea di Al Aqsa.
La Città Santa Nel 2019, Re Abdullah II ha riferito di aver ricevuto pressioni per rinunciare al suo ruolo storico di custode dei luoghi santi di Gerusalemme. Eppure, il sovrano ha promesso che continuerà a proteggere i luoghi santi islamici e cristiani della Città Santa, quale prerogativa per il suo paese. Secondo gli analisti, l’Arabia Saudita sarebbe interessata ad assumersi la responsabilità del Monte del Tempio e delle moschee all’interno del complesso. Come si ricorderà, l’Arabia Saudita è già custode dei due luoghi musulmani più sacri: la Mecca e di Medina, entrambi all’interno del suo territorio
Il centro di tutto A tal riguardo, nel gennaio 2018, l’allora leader dell’opposizione Isaac Herzog aveva suggerito che l’Arabia Saudita avrebbe svolto un ruolo chiave a Gerusalemme. Anche proponendosi quale mediatore di un qualsiasi accordo di pace tra Israele e palestinesi. Come ha osservato Krasna, però, i sauditi “Sono in competizione con altri giocatori della regione“. In particolare, “L’Autorità Palestinese cerca costantemente di aumentare la sua influenza sul Monte del Tempio“. Mentre “I turchi cercano costantemente di aumentare la loro influenza“.
(Periodico Daily, 27 luglio 2021)
Vittoria israeliana, prosperità palestinese. Una lettera di Daniel Pipes
di Daniel Pipes
Chi può resistere all’ottimismo dell’editoriale di Micah Goodman, titolato “Israel’s Surprising Consensus on the Palestinian Issue” (“Il sorprendente consenso di Israele sulla questione palestinese”) (pubblicato il 15 luglio scorso)? Purtroppo, il testo scritto in piccolo rivela che il presunto consenso si basa sulla proposta di Goodman “di creare una contiguità territoriale tra le isole autonome palestinesi in Cisgiordania, collegare questa autonomia palestinese al resto del mondo e promuovere la prosperità e l’indipendenza economica palestinese”.
Ma non abbiamo mai visto questo film prima? Il programma di Goodman replica fedelmente la visione di Shimon Peres di un “nuovo Medio Oriente” e gli Accordi di Oslo del 1993, quando gli israeliani fecero importanti concessioni nell’innocente speranza che Yasser Arafat, Mahmoud Abbas e i loro scagnozzi rispondessero con buona volontà. Ora sappiamo come è andata a finire.
Da storico, mi dispiace affermare che i conflitti in genere non finiscono con gesti di buona volontà, ma con una parte che rinuncia ai suoi obiettivi di guerra. Si pensi al 1865, al 1945, al 1975 e al 1991. Bellissimi appartamenti e auto di ultimo modello non indurranno i palestinesi ad accettare Israele; questo accadrà solo dopo che avranno riconosciuto l’inutilità del loro sogno di eliminare lo stato ebraico. La vittoria israeliana, non la prosperità palestinese, porta alla pace.
Proprio come i tedeschi hanno guadagnato incommensurabilmente rinunciando alla loro aggressione, così possono fare i palestinesi. Solo quando accetteranno il loro vicino, questa popolazione capace e dignitosa potrà costruire una politica, un’economia, una società e una cultura che merita.
Daniel Pipes
Presidente del Middle East Forum,
Philadelphia
(L'Informale, 26 luglio 2021 - trad. Angelita La Spada)
Un altro judoka si ritira da Tokyo per non affrontare un israeliano
Anche l’atleta del Sudan rischia sanzioni
Nessuna spiegazione. Al momento. Il judoka sudanese Mohamed Abdalrasool ha scelto di ritirarsi dalle Olimpiadi di Tokyo 2020 prima del match previsto contro l’israeliano Tohar Butbul nella categoria maschile sotto i 73 chili. Nei scorsi giorni l’algerino Fethi Nourine aveva scelto di non affrontare Butbul come segno di protesta per la situazione della Palestina. Queste le sue parole: «Abbiamo lavorato molto per andare alle Olimpiadi, ma la causa palestinese è qualcosa di più grande». Nonostante questa giustificazione la Federazione internazionale di Judo aveva deciso di sospendere Nourine. Non è chiaro se la stessa sorte ora toccherà anche a Abdalrasool.
Nella classifica di ranking internazionale Abdalrasool si trova al 469° posto nella sua classe di peso. Butbul invece è uno degli atleti più forti in questo momento: è 7° in classifca e negli anni scorsi ha conquistato diversi podi nei tornei internazionali. Dopo il rifiuto di gareggiare con lui di Abdalrasool e Nourine, ora Butbul dovrebbe incontrare in combattimento il moldavo Victor Sterpu, vincitore nel 2020 dei Campionati Europei di Judo.
(Open, 26 luglio 2021)
Israele taglierà l’85% delle emissioni entro il 2050
Gli ambientalisti: abbandonare le politiche fossili di trivellazione del Mediterraneo
Il nuovo governo di coalizione israeliano ha annunciato che Israele ridurrà le emissioni di carbonio dell’85% rispetto ai livelli del 2015 entro la metà del secolo. Secondo il primo ministro Naftali Bennett «La decisione aiuterà il Paese a passare gradualmente a un’economia low-carbon». Gli obiettivi comprendono la riduzione della stragrande maggioranza delle emissioni dei trasporti, delle centrali elettriche e dei rifiuti urbani. Ma gli ambientalisti israeliani chiedono obiettivi più ambiziosi per le energie rinnovabili e maggiori incentivi economici per un vero cambiamento di paradigma. Solo la settimana scorsa <, Greenpeace Israel ricordava che «Negli ultimi mesi, un comitato interministeriale guidato dal direttore generale del ministero dell’energia Udi Adiri (comitato adiri) ha commissionato un programma per incoraggiare nuove esplorazioni di petrolio e gas nelle acque della Zona economica esclusiva israeliana e denunciava come particolarmente scandaloso il riferimento alla crisi climatica come «finestra di opportunità limitata» per la vendita di gas per l’esportazione, a causa della transizione dei Paesi del mondo verso un’economia low-carbon». Le dichiarazioni del governo Bennet arrivano mentre il team di Greenpeace Israel sta lavorando per formulare osservazioni al ministero dell’energia contro quel documento e gli ambientalisti dicono che «Questa procedura “democratica” sembra essere solo apparente. Questo perché come parte della legislazione di bilancio (legge sugli accordi) il governo ha incorporato la maggior parte delle raccomandazioni delle conclusioni del comitato Adiri, tra le quali incoraggiare l’esplorazione di gas e petrolio attraverso esorbitanti benefici fiscali per le compagnie fossili, la più significativa delle quali è che la spesa per la perforazione a secco (cioè la perforazione senza gas) può essere coperta deducendo le tasse dalla perforazione esistente. Sì, avete sentito bene, se la Chevron o la Delek cercano gas e petrolio nel mMditerraneo e non trovano carburante, allora noi, cioè il pubblico israeliano, copriremo le loro spese attraverso un meccanismo in cui il governo riscuoterà meno tasse dai profitti di Tamar e Whale Rig». Greenpeace Israel avverte il governo che «L’emergenza climatica non lascia più spazio a una politica titubante e obbliga il governo israeliano a scegliere per sempre una parte: essere parte del problema o partecipare alla soluzione». E Bennett ci prova, assicurando che gli obiettivi di taglio delle emissioni porteranno a «Un’economia pulita, efficiente e competitiva» e «Metteranno Israele in prima linea nella battaglia contro il cambiamento climatico». Con i nuovi obiettivi Israele si allinea con l’Accordo sul clima di Parigi del quale è firmatario e che non ha abbandonato nemmeno al tempo di Donald Trump. Israele finora si era prefissato l’obiettivo provvisorio di ridurre le emissioni del 27% entro il 2030.
(Greenreport, 26 luglio 2021)
Accordi di Abramo: primi voli tra Israele e Marocco
Sono arrivati domenica a Marrakesh in Marocco i primi due aerei colmi di turisti israeliani. Si tratta dei primi voli commerciali dopo il disgelo tra i due paesi, firmato nel dicembre 2020, come parte degli accordi di Abramo, che sotto l'egida degli Stati Uniti hanno riavvicinato Israele ad alcuni paesi arabi (Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco, appunto).
Ad accogliere i turisti all'arrivo un buffet di benvenuto con tè alla menta, datteri e dolci tipici.
"Sono così contenta di essere qui oggi - dice una turista israeliana - è il primo volo commerciale da Israele al Marocco. È un giorno storico: questi due bellissimi paesi sono finalmente connessi, c'è finalmente cooperazione".
El Al, la compagnia di bandiera di Israele, ha pianificato 5 voli alla settimana tra Israele e Marocco.
Come parte dell'accordo, firmato a dicembre 2020 sotto la presidenza Trump, gli Stati Uniti hanno accettato di riconoscere l'annessione della regione del Sahara occidentale al Marocco, ma il nuovo presidente Biden ha detto che rivedrà questa decisione. L'annessione del 1975 non è mai stata riconosciuta dalle Nazioni Unite.
La comunità ebraica del Marocco è la più numerosa del Nord Africa. Circa 700mila israeliani di origine marocchina hanno spesso mantenuto forti legami con il loro paese di origine. Per questo la notizia del primo volo è stata accolta con gioia da Jacky Kadoch, a capo della comunità ebraica di Marrakech-Safi.
(euronews, 26 luglio 2021)
L'ambasciatore israeliano: «Razzismo anti-ebraico
anche in Italia e Onu
«La comunità internazionale tratta la nostra democrazia alla pari dei nazisti di Hamas. Roma riconosca Gerusalemme capitale come ha fatto Trump».
di Fausto Carioti
L'ASTENSIONE
«Le Nazioni Unite investigano su Israele, accusandolo di crimini di guerra. Ma non hanno dedicato una parola ai 4.000 razzi sparati contro di noi. E l'Italia si è astenuta.
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I SOLDI A GAZA
«La comunità internazionale non ha capito che quei fondi sono usati per mantenere la Striscia in stato militarizzato e per arricchire i capi dei terroristi»
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Abbondano i libri sulla storia romana, scritti in ebraico, in inglese e in italiano. «Storicamente», dice mostrando alcuni di quei volumi antichi, «i rapporti tra Italia e Israele sono molto forti. Gli intellettuali ebrei si ispirarono al meraviglioso Risorgimento italiano. Nel 1861 Moses Hess, un ebreo tedesco, pubblicò Roma e Gerusalemme: 9 anni prima della presa di Roma, scrisse che con la liberazione della Città eterna sul fiume Tevere sarebbe iniziata la liberazione della Città eterna sul monte Moriah. Un profezia che si è realizzata».
- E oggi, ambasciatore? Come sono i rapporti tra i nostri popoli?
«Italia e Israele collaborano in molti settori. Le aziende hanno interessi economici comuni, ma la componente fondamentale resta l'amicizia. Un mese fa, al termine dell'esercitazione congiunta, i piloti militari israeliani mi hanno detto cose meravigliose sui loro colleghi italiani È così anche nell'agricoltura, nella sanità, nella cybersecurity, nella ricerca. La prima visita ufficiale del nostro ministro degli Esteri, Yair Lapid, è stata qui Abbiamo tante cose in comune».
- C'è dell'altro, mi pare di capire
«C'è una domanda che mi faccio. Perché noto una discrepanza tra questi rapporti così stretti e l'attitudine dell'Italia verso Israele nell'arena internazionale, a cominciare dall'Onu. lo non capisco, noi non capiamo. Ogni anno sono adottate oltre venti risoluzioni contro Israele, non c'è altra nazione che riceva un simile trattamento. Tutti sanno che le decisioni dell'Onu contro Israele sono un teatro dell'assurdo, eppure tutti, Italia inclusa, partecipano alla scena».
- È accaduto anche di recente, dopo l'operazione a Gaza.
«È stata l'operazione di uno Stato democratico contro Hamas, organizzazione terroristica di stampo nazista. Eppure il Consiglio per i diritti umani dell'Onu ha varato una risoluzione per investigare su Israele, accusandolo di avere commesso "crimini di guerra". Senza dedicare una parola ai quattromila razzi lanciati contro Israele. E l'Italia si è astenuta, mettendo così Israele e Hamas sullo stesso piano».
- Ne ha parlato con i nostri politici, presumo.
«Il capo della commissione Esteri al Senato, Vito Petrocelli ( esponente del MSS, ndr), mi ha detto: "Non ho sostenuto né Israele né Hamas, io sono contro la violenza"»
- E lei?
«Gli ho risposto che il popolo ebraico, quando finisce Shabbat, prega Dio di dargli l'abilità di distinguere tra la luce e il buio. Perché se una persona non sa distinguere tra uno Stato democratico che non vuole combattere ed è costretto a farlo, e un'organizzazione la cui ragion d'essere consiste nel distruggere Israele e gli ebrei, il problema non è nostro: è questa persona ad avere un grosso problema morale. Appartiene a quelli di cui scrive Dante nel Terzo Canto».
- Gli ignavi.
«"Coloro che visser sanza 'nfamia e sanza lodo". Quelli che non meritano nemmeno di entrare all'Inferno, perché non hanno mai preso posizione».
- Per l'Italia è una tradizione. Nel 2016 si astenne sulla risoluzione Unesco che negava il legame tra gli ebrei e i luoghi sacri di Gerusalemme.
«Tutto il mondo occidentale vuole intervenire nel rapporto storico, religioso e sentimentale che lega gli ebrei a Gerusalemme. Ma Gerusalemme non è una capitale come le altre: è la ragion d'essere degli ebrei. Durante l'esilio la ricordavamo ogni volta che mangiavamo e ancora oggi, dopo aver ringraziato Dio per il cibo, aggiungiamo: "E non dimenticare di costruire Gerusalemme"».
- Gerusalemme è sacra anche per musulmani e cristiani, ambasciatore.
«Ma questo riguarda la religione, non la politica. Gerusalemme è stata una capitale politica solo per il nostro popolo. E solo la sovranità di Israele ha garantito che vi fosse libertà di religione e movimento per tutti».
- Donald Trump ha spostato l'ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme. È stato il primo, ma anche l'unico.
«Trump ha fatto un grande gesto. È entrato nella Storia come il nuovo Assuero, il re persiano che dopo l'esilio babilonese permise agli ebrei di tornare a Gerusalemme. Riconoscerla come capitale politica eterna del popolo ebraico è la ricompensa per tutti i disastri che abbiamo sofferto».
- Matteo Salvini ha promesso di fare lo stesso. È questo che vi attendete dall'Italia?
«So che l'Italia non è l'impero romano, ma da Roma fu mandato Tito a distruggere Gerusalemme. Dopo quasi duemila anni il popolo ebraico è tornato a casa e ha ricostruito Gerusalemme. Cosa manca? Che anche Roma e l'Italia partecipino a questo miracolo. È il mio sogno».
- In Italia, comunque, chi prende posizione c'è. Una scrittrice di sinistra, Michela Murgia, nei giorni scorsi ha scritto: «La penso come Hamas»,
«È sorprendente, da parte di una scrittrice di origine cristiana. Se fosse stata nella striscia di Gaza sarebbe stata discriminata sia in quanto donna, che per Hamas non deve avere diritti, sia in quanto cristiana, perché Hamas ha perseguitato tutti i cristiani di Gaza».
- La Murgia non è certo l'unica a pensarla così. Come se lo spiega?
«Ci sono intellettuali, o persone che vorrebbero esserlo, che fanno della loro ignoranza un'ideologia. Basterebbe che leggessero lo statuto di Hamas, scritto nel 1988. In quella carta ci sono due principi. Il primo è un impegno totale per la completa distruzione dello Stato ebraico, il secondo la promessa di uccidere ogni ebreo, ovunque si trovi. Negli ultimi cento anni conosco un solo documento in cui appaiano simili idee».
- Il Mein Kampf.
«Appunto. A chi crede che sia possibile trattare con Hamas, consiglio di leggere questi articoli: "Le iniziative di pace, le cosiddette soluzioni pacifiche, le conferenze internazionali per risolvere il problema palestinese contraddicono tutte le credenze del Movimento di resistenza islamico", cioè Hamas. "Non c'è soluzione per il problema palestinese se non il jihad?»
- Magari certi personaggi trasferiscono su Hamas la loro simpatia per la causa palestinese e i poveri di Gaza,
«Ma Hamas non è "i palestinesi". È un'entità distinta che nemmeno riconosce l'Autorità palestinese. Certo, a Gaza ci sono poveri, ma quegli intellettuali ingenui non sanno che, anche mentre Hamas lanciava migliaia di razzi contro di noi, contro i nostri bambini, Israele non ha mai smesso di fornire a Gaza elettricità, acqua, benzina e cibo».
- La Banca mondiale e altre organizzazioni stanno raccogliendo soldi da donare a Gaza, come riparazione per i danni subiti.
«È un'altra cosa che gli occidentali non capiscono: la maggior parte di quei soldi è usata per scopi terroristici, per mantenere la striscia di Gaza perennemente militarizzata. Il resto va direttamente ai capi di Hamas: la ricchezza di lsmail Haniyeh è valutata in 4 miliardi di dollari, quella di Musa Abu Marzook in 3 miliardi».
- Un'altra accusa frequente a Israele è quella di condurre una politica di «apartheid» nei confronti dei palestinesi. La ripete anche Alessandro Di Battista, altro personaggio con un certo seguito.
«Lo so, ci sono persone che ripetono in continuazione simili bugie. In Israele un giudice arabo ha mandato in prigione il presidente dello Stato di Israele. Questa sarebbe apartheid? Da noi i cittadini arabi hanno gli stessi diritti di tutti gli altri. Anzi, ne hanno più degli ebrei, visto che non debbono fare il servizio militare».
- E lei come spiega che così tanti, in Occidente, spargano bugie su Israele?
«È il nuovo antisemitismo. Dicono di essere non contro gli ebrei, ma contro lo Stato ebraico, eppure lo scopo è sempre quello. Contestano il diritto di Israele a difendersi dai suoi nemici, quindi il diritto degli ebrei ad esistere e ad avere una nazione come gli altri popoli. E difendendoci non difendiamo solo noi stessi: Israele è l' avamposto contro il terrorismo e l' estremismo che minacciano il mondo libero».
- A proposito: come sono i vostri rapporti con la Ue? A Bruxelles intendono rilanciare l'accordo sul nucleare siglato con l'Iran nel 2015.
«Conosco gli iraniani. Sono i numeri uno nel commercio, abilissimi nelle trattative e capaci di far cambiare opinione agli europei ingenui. Anche nel 2015 il mondo disse che Israele sbagliava ad opporsi. Due anni dopo, il Mossad si procurò l'archivio del progetto nucleare iraniano. E lì c'erano le prove che durante i negoziati l'Iran aveva mentito, le sue intenzioni erano militari. Adesso arriva Mohammad Zarif, il loro ministro degli Esteri, con completo inglese e cravatta, e tanto basta a convincere gli europei».
- La guerra tra Israele ed Iran è una delle grandi paure dell'Occidente. Fino a che punto siete disposti ad arrivare per difendervi?
«L'Iran dichiara ogni giorno che intende sterminare il popolo ebraico, e la Storia ci ha insegnato che dobbiamo credere ai dittatori quando dicono una cosa. Noi implorammo gli Alleati affinché bombardassero la linea ferroviaria di Auschwitz. Avrebbero potuto salvare mezzo milione di ebrei ungheresi, però non lo fecero. Ma abbiamo finito di implorare gli altri. Grazie a Dio, ora abbiamo la tecnologia per difenderci da soli e la saggezza per usarla. A nessuno sarà più permesso di sterminare gli ebrei. Se ci sarà la necessità, sapremo cosa fare».
Libero, 26 luglio 2021)
Ilana Romano: “Mezzo secolo di lotta in nome di mio marito per ricordare quella strage”
Per ottenere il minuto di silenzio a Tokyo si è battuta per 49 anni: "Ci dicevano che i morti si piangono nei cimiteri, non alle Olimpiadi. Ma non ci siamo arresi".
TEL AVIV - Le Olimpiadi di Tokyo si sono aperte per gli israeliani nel segno della vittoria, titolava Haaretz dopo la cerimonia venerdì. Poche ore dopo sarebbe arrivato il primo, inaspettato bronzo in Taekwondo femminile, ma la vittoria celebrata era innanzitutto quella del minuto di silenzio per cui Ilana Romano e Ankie Spitzer hanno lottato per 49 anni. Romano, padre nato in provincia di Pistoia, e Spitzer, olandese arrivata in Israele per amore, si sono conosciute all'aeroporto Ben Gurion quel 6 settembre 1972, mentre attendevano i feretri dei mariti, due degli undici atleti israeliani uccisi alle Olimpiadi di Monaco da un commando dell'organizzazione terroristica palestinese Settembre Nero.
"Ci siamo sentite dire più volte: "I morti si piangono nei cimiteri, non alle Olimpiadi". Ma io e Ankie, abbiamo girato il mondo, da un'Olimpiade all'altra, a nostre spese, per incontrare chiunque fosse disposto. Una volta abbiamo chiesto a Jacques Rogge: "Ma se si fosse trattato di un altro Stato, vi sareste comportati così?". Ci ha risposto "Forse no". È stato così umiliante constatare come la politica possa calpestare i valori sportivi. Ma noi non ci siamo arrese". Ilana ci parla da Tokyo, dove è arrivata con Ankie, come per tutte le ultime 12 Olimpiadi. "Il minuto di silenzio è arrivato come un sogno inaspettato. Avevo 26 anni quando promisi alle nostre tre figlie che nessuno si sarebbe dimenticato chi erano loro padre e i suoi compagni. Ancora non ci credo, temevo che avrei lasciato questo fardello alle mie figlie".
- Quando è iniziata la vostra battaglia?
"Nel 1976 siamo andate alle Olimpiadi di Montreal, per noi era scontato che ci sarebbe stata una commemorazione. Invece nulla. Il Cio si è sempre arreso all'opposizione dei Paesi arabi. L'apice della battaglia è stato alle Olimpiadi di Londra nel 2012, nel quarantennale dal massacro. Allora diversi parlamenti nel mondo, tra cui quello italiano, hanno osservato un minuto di silenzio in ricordo delle vittime. Ma abbiamo continuato la nostra battaglia perché il riconoscimento avvenisse sul suolo olimpico".
- Sapevate che a Tokyo sarebbe stato diverso?
"Abbiamo incontrato Thomas Bach appena subentrato a Rogge alla direzione del Cio e ci ha fatto capire che voleva mettere da parte le assurde logiche politiche. Lui è uno sportivo, era a Monaco nel '72 come atleta. A Rio ha promosso per la prima volta una commemorazione all'interno del Villaggio Olimpico, un primo passo. L'abbiamo incontrato di nuovo a Losanna l'anno scorso, insistendo nuovamente sul minuto di silenzio. Ha detto che ci avrebbe pensato e poi non abbiamo più saputo nulla. Nonostante i timori per il Covid, abbiamo deciso di venire a Tokyo per la consueta commemorazione che organizziamo con la delegazione israeliana.
Poi ci è arrivato un invito alla cerimonia inaugurale. Abbiamo pensato che fosse qualcosa di particolare, considerata l'esclusività dei Giochi quest'anno, ma non avevamo dettagli. Come inizia la cerimonia, Ankie mi dice "Ho la sensazione che non accadrà nulla neanche stavolta". Improvvisamente, una stretta allo stomaco: si apre la cerimonia e vengono ricordati i nostri cari".
- Nel contesto del minuto di silenzio per le vittime del Covid, e con un richiamo piuttosto generico.
"Non ho ancora rivisto il video. L'abbiamo vissuto dal vivo, strozzate dalle lacrime, senza preavviso. Abbiamo sentito che venivano ricordate le vittime israeliane di Monaco e come noi l'hanno sentito miliardi di persone al mondo e questo per noi è quello che conta, per non dimenticare, perché non si ripeta".
- Pensa che gli Accordi di Abramo abbiano avuto un ruolo nell'ammorbidire le posizioni?
"Non lo so. Penso Bach abbia preso la giusta decisione che andava presa 49 anni fa e non per politica: sono stati uccisi sulla terra olimpica, erano degli sportivi, per questo era dovere del Comitato onorarli. Trovo così sbagliato mischiare sport e politica. Ma continua a succedere: ancora il judoka algerino non ha voluto gareggiare con l'israeliano. E ti dico di più: come esco dalla cerimonia, chi mi trovo davanti? Jibril Rajoub (il presidente del comitato olimpico palestinese, ndr). Da sempre è uno dei più ferventi oppositori alla cerimonia, ma immagino che come gli altri abbia rispettato il minuto di silenzio".
- Avete parlato?
"No. Anche se siamo nello stesso hotel e facciamo colazione uno accanto all'altra".
In tutti questi anni, non avete mai avuto interazioni con sportivi arabi?
"Ad Atlanta, nel 1996, era la prima volta della delegazione palestinese. Abbiamo portato con noi 14 figli delle vittime. Gli orfani degli atleti di Monaco hanno plaudito come tutti l'ingresso degli atleti palestinesi. Poi abbiamo fatto la nostra consueta commemorazione con la comunità ebraica e il capo della delegazione palestinese è venuto a dare un bacio sulla fronte a mia figlia. La prima e ultima volta in cui hanno partecipato alla cerimonia".
- E ora, vi riposate?
"Ora ringraziamo di essere arrivati a questo momento. E auspichiamo che d'ora in poi rientri nel protocollo delle cerimonie inaugurali".
(la Repubblica, 26 luglio 2021)
Palestinesi accusano Hamas di immagazzinare armi nelle zone residenziali
Le fazioni palestinesi e le organizzazioni per i diritti umani hanno invitato Hamas a smettere di immagazzinare armi nelle aree residenziali. Questo a seguito di un’altra esplosione, che giovedì ha ucciso una persona e ne ha ferite altre 14.
PERCHE' I PALESTINESI ACCUSANO HAMAS DI IMMAGAZZINARE ARMI NELLE ZONE RESIDENZIALI? I palestinesi della Striscia di Gaza hanno affermato che l’esplosione è avvenuta in un magazzino utilizzato da Hamas per immagazzinare armi. Hamas ha detto di aver avviato un’indagine, ma non ha fornito dettagli. I Palestinesi hanno anche chiesto un’indagine approfondita sull’esplosione al fine di trovare i responsabili. L’esplosione di giovedì è avvenuta poco dopo le 8 in una casa situata nell’area del mercato di Al-Zawiya, nel centro di Gaza City. Fonti palestinesi affermano che Atta Ahmed Saqallah, 69 anni, è morto e 14 civili sono rimasti feriti, tra cui sei bambini.
Fonti mediche dell’ospedale di Shifa hanno descritto le ferite di uno di loro come critiche, secondo il Centro palestinese per i diritti umani Al-Mezan. La casa a tre piani è stata parzialmente distrutta, mentre le case e i negozi vicini sono stati parzialmente danneggiati, ha affermato il centro in una nota. Secondo testimoni oculari, prima dell’esplosione in casa era scoppiato un incendio. “Il Centro per i diritti umani Al-Mezan a Gaza considera l’incidente dell’esplosione con grave serietà, poiché in passato si sono verificati ripetuti episodi di esplosioni interne in case in quartieri residenziali sovraffollati per vari motivi, che hanno provocato l’uccisione di un certo numero di civili e la distruzione di case e proprietà pubbliche e private”, si legge nella nota.
CHI VUOLE LE INDAGINI
Di conseguenza, Al-Mezan ribadisce la sua richiesta per un’indagine completa e seria su questo incidente e altri eventi simili, per pubblicare i risultati dell’indagine pubblicamente e per adottare le misure necessarie per garantire che non si ripeta al fine di preservare vite e proprietà dei cittadini”. Anche la Rete delle ONG palestinesi, un’organizzazione ombrello che comprende 133 organizzazioni membri, ha chiesto un’indagine “seria e trasparente” sull’esplosione. “La rete sottolinea la necessità di accelerare la fornitura di tutte le forme di assistenza e supporto alle persone colpite”, ha affermato il gruppo. “Sottolinea inoltre la necessità di annunciare i risultati delle indagini e di adottare misure serie per evitare che tali esplosioni si ripetano”.
PERCHE'; HAMAS SCEGLIE DI IMMAGAZZINARE LE ARMI IN ZONE CIVILI?
Lo scrittore palestinese Fadel Al-Manasfeh ha affermato che è chiaro che Hamas sceglie i mercati popolari come luogo sicuro per i suoi magazzini di munizioni perché sa che Israele non prende di mira tali luoghi. Ha detto che Hamas era “confuso” dall’esplosione perché era stato scoperto uno dei suoi depositi di armi. Ha anche sottolineato che un’esplosione simile è avvenuta in un mercato aperto nel campo profughi di Nuseirat lo scorso anno, uccidendo più di 10 palestinesi e ferendone dozzine.
(Periodico Daily, 25 luglio 2021)
NSO Pegasus: spyware in vendita
Il mercato in forte espansione della tecnologia di sorveglianza
Il gruppo israeliano NSO è nell’occhio del ciclone a causa del suo spyware Pegasus, ma è tutt’altro che l’unica azienda che aiuta i governi con le loro operazioni di sorveglianza segrete. Affermazioni esplosive secondo cui Pegasus è stato utilizzato per spiare gli attivisti e persino i capi di stato hanno puntato i riflettori sul software che consente un accesso altamente intrusivo al telefono cellulare di una persona.
NSO è solo un attore in un settore che è cresciuto silenziosamente negli ultimi anni, armando anche i governi a corto di liquidità con una potente tecnologia di sorveglianza. “Questi strumenti sono diventati sempre più economici”, ha affermato Allie Funk, analista di ricerca senior in tecnologia e democrazia presso il think tank statunitense Freedom House che ha affermato inoltre: “Quindi non sono solo le principali agenzie di intelligence del mondo che possono acquistarli, ma sono i governi più piccoli o le agenzie di polizia locali”. Le economie emergenti come l’India, il Messico e l’Azerbaigian dominano l’elenco dei paesi in cui un gran numero di numeri di telefono sarebbe stato identificato come possibili obiettivi dai clienti NSO. Ron Deibert, direttore del centro di ricerca Citizen Lab dell’Università di Toronto, ha affermato che tali società hanno permesso ai governi di “acquistare la propria NSA” in modo efficace, un cenno all’Agenzia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti la cui vasta sorveglianza è stata esposta da Edward Snowden.
Il Citizen Lab scandaglia Internet alla ricerca di tracce di spionaggio digitale da parte dei governi. Proprio la scorsa settimana lo ha pubblicato un’indagine su un'altra azienda segreta israeliana che vende spyware a governi stranieri. Sembra che sia stato usato in modo simile per prendere di mira dissidenti e giornalisti, dalla Turchia a Singapore. Nel 2017, Citizen Lab ha scoperto che l’Etiopia aveva utilizzato lo spyware sviluppato da Cyberbit, un'altra azienda israeliana, per infettare i computer dei dissidenti in esilio. “Ci sono molteplici fattori per cui vediamo molte aziende israeliane”, ha detto Deibert, e uno è l’atteggiamento “apertamente imprenditoriale” dell’unità militare israeliana di spionaggio “Unit 8200”, che “incoraggia i propri laureati a uscire e sviluppare start-up dopo il servizio militare”.
Mentre Israele sta ora affrontando richieste per un divieto di esportazione di tale tecnologia, non è l’unico paese che ospita società che vendono spyware standard. Come Pegasus, il FinFisher tedesco è commercializzato come uno strumento per aiutare i servizi segreti e le forze dell’ordine a combattere il crimine e anche questo è stato accusato di essere stato utilizzato per sorveglianza abusiva, anche per spiare giornalisti e attivisti del Bahrein. L’azienda italiana Hacking Team è stata al centro del proprio scandalo in stile Pegasus nel 2015 quando una fuga di notizie ha rivelato che stava vendendo spyware a dozzine di governi in tutto il mondo. Da allora è stato rinominato come Memento Labs. Non tutte le aziende di questo settore oscuro sono specializzate nello stesso tipo di tecnologia.
Alcuni vendono strumenti che imitano le torri dei telefoni cellulari, aiutando le autorità a intercettare le telefonate; altri, come Cellebrite, hanno aiutato le forze di polizia dagli Stati Uniti al Botswana a entrare nei telefoni cellulari bloccati.
Deibert ha tracciato una distinzione tra le società che operano in questo settore delle “intercettazioni legali” e le organizzazioni di “hack for rent” – gruppi criminali borderline “che praticano hacking per conto degli stati”. Gli analisti sospettano, tuttavia, che le società di spyware facciano spesso affidamento sull’esperienza degli hacker. Le versioni recenti di Pegasus hanno utilizzato punti deboli nel software comunemente installato sugli smartphone, come WhatsApp e iMessage di Apple, per installare lo spyware sui dispositivi delle persone sebbene non sia chiaro come gli sviluppatori di NSO abbiano scoperto questi punti deboli, gli hacker vendono comunemente l’accesso a queste cosiddette “vulnerabilità zero-day” sul dark web.
“NSO ha svolto molte attività di ricerca e sviluppo, ma si affida anche al mercato grigio per le vulnerabilità”, ha affermato l’esperto di sicurezza informatica francese Loic Guezo, che ha anche affermato che aziende come Zerodium negli Stati Uniti acquistano l’accesso a queste vulnerabilità del software dagli hacker e le vendono direttamente agli stati o ad aziende come NSO. Mentre si diffonde lo scandalo Pegasus, crescono le richieste affinché l’industria debba affrontare una maggiore regolamentazione o addirittura una moratoria su questo tipo di tecnologia di sorveglianza del tutto e per Deibert, “la realtà è che quasi tutti i governi hanno interesse a mantenere questa industria così com’è – segreta, non regolamentata – perché ne beneficiano”.
(israel360, 25 luglio 2021)
“Special in Uniform”: Forze Armate israeliane ed impiego di soldati con abilità speciali
Special in Uniform è una novità mondiale: un programma di formazione quadriennale che prepara i giovani con disabilità a servire nelle Forze di Difesa Israeliane accanto ai loro coetanei. Nessun’altra nazione militare addestra persone con disabilità al servizio nell’esercito.
dii
Sara Palermo
TEL AVIV - Esiste un reparto dell’esercito israeliano unico nel suo genere. È l’unità 9900, una squadra di intelligence selettiva specializzata nel riconoscimento visivo satellitare ad alta risoluzione ed i cui membri rivestono un ruolo di vitale importanza per la sicurezza del Paese. Tutto grazie alla loro straordinaria diversità: si tratta infatti di soldati affetti da disturbi dello spettro autistico.
Circa l’uno per cento della popolazione mondiale è diagnosticato con un disturbo dello spettro autistico. La diagnosi spesso significa una vita di sfide, poiché queste persone hanno difficoltà ad apprendere le abilità sociali e a comunicare con gli altri. Risulta difficile per gli adolescenti e gli adulti integrarsi nella società, trovare un lavoro e contribuire significativamente all’interno delle proprie comunità. In tutto il mondo si stanno sviluppando programmi di integrazione basati sui punti di forza delle persone con autismo. Un esempio di successo è l’iniziativa Special in Uniform lanciata nel 2014 dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF: Israel Defense Forces) e supportata dallo Jewish National Fund-USA sin dall’anno successivo. Ad oggi, la JNF-USA contribuisce con circa 1,5 milioni di dollari all’anno, il 60 per cento del budget di Special in Uniform; il resto proviene dal governo israeliano, da aziende e donazioni private...
(Report Difesa, 23 luglio 2021)
L’incidente di hacking telefonico globale ha esposto il lato oscuro dell’immagine di Israele
La società ha dichiarato di non controllare l’uso del software da parte dei clienti, ma di rispettare le leggi israeliane sull’esportazione di tecnologia di livello militare, censurando selettivamente i clienti e interrompendo l’accesso in caso di abuso.
LA PERFETTA COMBINAZIONE DI SPIA E TECNOLOGIA
Il dominio di Israele nella sicurezza informatica non viene dal nulla. I dipartimenti di intelligence e operazioni segrete del paese, in particolare le forze di sicurezza del Mossad, sono noti da tempo per le loro attività di spionaggio astute, audaci e spietate e sono glorificati dai ritratti di Hollywood.
Poiché l’importanza di Israele come centro di innovazione tecnologica e imprenditorialità continua ad aumentare, l’integrazione di questi due campi ha conferito a questo piccolo paese un’enorme influenza nel settore della sicurezza informatica.
Tal Pavel, capo della ricerca sulla sicurezza informatica presso l’Academic College, ha affermato che il sistema educativo ricco di risorse del paese, insieme al servizio militare obbligatorio, ha consentito a molti giovani israeliani di ricevere una formazione avanzata in sicurezza informatica e guerra informatica prima di andare all’università. Pavel ha sottolineato che molte delle tecnologie più all’avanguardia del paese derivano da sviluppi militari.
Una delle forze d’élite delle Forze di difesa israeliane è l’Unità segreta 8200, un’agenzia di spionaggio informatico che ha addestrato alcune delle più grandi superstar tecnologiche del paese.
“Una caratteristica unica di Israele è ‘cynergy’, che combina la sinergia tra Internet e l’industria”, ha detto Pavel alla CNN, e poi ha alluso a una caratteristica che, secondo lui, potrebbe essere radicata nella psicologia israeliana.
“Ci sono alcune cose anche qui… forse c’è una lotta per la sopravvivenza. Se tutto è piacevole e non stai sempre cercando di sopravvivere (contro coloro che cercano di distruggerti), allora non devi innovare per affrontare con esso.”
CONSEGUENZE DELL'UFFICIO NAZIONALE DI STATISTICA
NSO è stata fondata nel 2009, ma è stato solo nel 2016 che la forza tecnica di NSO è stata censurata.
In quell’anno, è stato riferito che Ahmed Mansour, un attivista per i diritti umani negli Emirati Arabi Uniti, ha ricevuto un messaggio di testo sospetto con un link. Laboratorio cittadino L’Università di Toronto ha scoperto di contenere malware di NSO hackererà il suo iPhone(Nel 2018, Mansour è stato condannato a 10 anni di carcere per “danneggiare la reputazione degli Emirati Arabi Uniti” sui social media.)
Il software Pegasus sarebbe anche collegato all’omicidio dell’editorialista del Washington Post Jamal Khashoggi nel 2018 attraverso il dissidente Omar Abdulaziz. Il telefono è stato presumibilmente hackerato Attraverso il software Pegasus. Abdulaziz ha citato in giudizio NSO nel 2019, accusando la società di vendere il software a regimi autoritari in violazione del diritto internazionale. Secondo il rapporto “Guardian”, all’inizio dello scorso anno, un giudice israeliano ha respinto la richiesta dell’Ufficio nazionale di statistica di archiviare la causa, che l’Ufficio nazionale di statistica considerava priva di “sincerità”. NSO ha ripetutamente negato che il suo software venga utilizzato per monitorare Khashoggi o la sua famiglia.
Una recente indagine L’International Media and Human Rights Alliance ha trovato prove del software Pegasus sui telefoni cellulari 37. Queste persone, in base alla descrizione dell’uso del software da parte dell’azienda, non dovrebbero essere prese di mira dal software NSO, come giornalisti e attivisti per i diritti umani .
La CNN non ha verificato in modo indipendente i risultati di un sondaggio organizzato da Forbidden Stories chiamato Pegasus Project. In una dichiarazione alla CNN, l’Ufficio nazionale di statistica ha negato con forza i risultati dell’indagine, affermando di aver trovato molte delle affermazioni problematiche.
Pertanto, paesi come la Francia hanno annunciato indagini sull’uso di questa tecnologia, mentre Amazon ha annunciato di aver “chiuso l’infrastruttura pertinente e gli account associati a NSO utilizzando i servizi Amazon”.
PUNTA DELL'ICEBERG
Il consulente per la strategia e la comunicazione Israel Bachar ha affermato che NSO è solo una parte di un’enorme industria di spionaggio informatico. Ha lavorato con molti dei principali leader politici israeliani, tra cui l’ex primo ministro Benjamin Netanyahu e l’attuale vice primo ministro e ministro della Difesa Benny Ganz. .
“Ad essere onesti, i paesi raccolgono costantemente informazioni che si confrontano tra loro. Tutti controllano tutti. Quando si tratta di un’azienda israeliana, ci sarà molta ipocrisia”, ha detto Bachar, osservando che l’Agenzia per la sicurezza nazionale era stata precedentemente coinvolta Monitorare le notizie dei leader mondiali e dei loro cittadini. “NSO è un altro strumento, ma ci sono molti altri strumenti”.
Bachar ha affermato che oltre alle capacità pratiche, aziende come la NSO stanno anche aiutando Israele diplomaticamente perché Israele ha stabilito in silenzio e ora apertamente relazioni con ex oppositori per anni.
“Uno degli strumenti diplomatici di Israele sono le sue capacità di intelligence. Non è un segreto che Israele condivida anche informazioni sensibili con i paesi arabi perché siamo interessati a proteggerli”, ha detto Bachar.
Ma il professor Yuval Shani, capo del Dipartimento di diritto internazionale pubblico presso l’Università Ebraica di Gerusalemme, ha affermato che questa strategia sta iniziando ad avere un effetto controproducente sull’immagine di Israele.
“La logica è che Israele potrebbe essere disposto a chiudere un occhio sulle transazioni con regimi amici perché sono amichevoli con Israele ma non necessariamente amichevoli con i diritti umani”, ha detto Shani. “Penso che il recente scandalo abbia messo in imbarazzo sia l’Ufficio nazionale di statistica che Israele, almeno a breve termine, porterà a un inasprimento degli standard di controllo delle esportazioni”.
COME CONTROLLARE L'INCONTROLLABILE
A differenza delle armi convenzionali, il software è solitamente intangibile e può essere facilmente venduto e trasferito a livello globale, il che rende difficile il controllo di tecnologie come il sistema Pegasus.
Shany ha affermato che NSO e tecnologie simili di livello militare sono regolate dalla struttura di controllo delle esportazioni all’interno del Ministero della Difesa israeliano. Il sistema si concentra sia sulla tecnologia che sugli obiettivi; ha aggiunto che quale entità, che sia uno stato o un non stato, sta acquistando la tecnologia, incluso il suo record sui diritti umani. Tuttavia, ha detto Shany, guardando alle accuse che circondano il software Pegasus di NSO, “i risultati non sono impressionanti, il che è molto preoccupante”.
In risposta alle recenti accuse riguardanti la tecnologia NSO, il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha dichiarato che stanno “esaminando” queste accuse ed è stata nominata una squadra interministeriale per indagare sul processo in corso e se la tecnologia prodotta da Israele viene utilizzata all’estero. . A Reuters.
Shany ha affermato che una soluzione rapida è che Israele firmi formalmente l’accordo di Wassenaar tra 42 paesi, che cerca di aumentare la trasparenza delle esportazioni di tecnologie militari e a duplice uso e di impedire che tali tecnologie vengano acquisite da elementi pericolosi. Shany ha affermato che Israele attualmente rispetta l’accordo ma non è un membro a pieno titolo.
Ma Karin Nahun, professoressa presso il Centro interdisciplinare di Herzliya e presidente della Israel Internet Society, ha affermato che le riforme più importanti per aiutare a controllare tali tecnologie verranno dall’interno.
“Se Israele non esporta, altri esporteranno, e se non concedi a quegli ingegneri le licenze di avvio e non fornisci una sorta di supervisione, nulla può impedire loro di trasferirsi in un altro paese e venderlo da lì”, ha detto.
Nahone ha invitato a considerare le questioni etiche e la possibilità di utilizzare tali tecnologie come parte più importante delle decisioni di esportazione. Inoltre, ha suggerito che le aziende dovrebbero imporre maggiori restrizioni all’uso del software ed esercitare una maggiore supervisione sul modo in cui i clienti utilizzano il software: l’Ufficio nazionale di statistica afferma di avere scarso controllo su questo.
La società ha dichiarato in una dichiarazione la scorsa settimana: “L’Ufficio nazionale di statistica non gestisce il sistema e non può visualizzare i dati”, e ha affermato che continuerà a indagare su “tutte le affermazioni credibili di abuso e a prendere le misure appropriate in base ai risultati di tali indagini. azione”.
“Ciò rende più complicate le responsabilità di queste aziende e di Israele, ma d’altra parte può ridurre al minimo il numero di paesi in cui viene esportato il software”, ha affermato Nahone.
Sebbene sembri che l’immagine di NSO e di Israele sia stata trascinata nel pantano a causa della loro connessione con questa sorveglianza scioccante, Bachar ha affermato che nel complesso, questa potrebbe essere una sfida per coloro che desiderano continuare a rendere Israele una tecnologia avanzata e le persone che sono i leader delle operazioni di intelligence hanno un impatto positivo.
“Penso che a volte le persone malediranno, e il risultato è benedetto, perché alla fine, quella che la gente ricorda come la migliore tecnologia è la tecnologia israeliana, NSO”, ha detto Bachar. “Questo è ciò che la gente ricorderà tra tre mesi”.
(Economia e Finanza, 25 luglio 2021)
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Il segno del profeta Giona (12)
di Marcello Cicchese
Allora alcuni scribi e farisei presero a dirgli: «Maestro, noi vorremmo vederti operare un segno». Ma egli rispose loro: «Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno; e segno non le sarà dato, tranne il segno del profeta Giona. Poiché, come Giona stette nel ventre del pesce tre giorni e tre notti, così il Figlio dell'uomo starà nel cuore della terra tre giorni e tre notti» (Matteo 12:38-39).
Ad una prima lettura sembrerebbe che la risposta di Gesù ai farisei sia un modo per chiudere il discorso e sbarazzarsi dei molesti capi religiosi che volevano incastrarlo. Come se dicesse: non vi darò nessun segno prodigioso, vedrete i fatti. Ma nella storia della salvezza i fatti da soli non dicono niente: ciò che li rende eloquenti è il riferimento alla parola di Dio che li precede e in qualche caso li segue.
Giovanni Battista si era presentato al popolo come precursore di un Messia che viene a portare un Regno in cui ci sarebbe stata un'impietosa separazione tra giusti ed empi. Il suo messaggio era terrificante, nello stile degli antichi profeti:
"Già la scure è posta alla radice degli alberi; ogni albero dunque che non fa buon frutto, sta per esser tagliato e gettato nel fuoco. Ben vi battezzo io con acqua, in vista del ravvedimento; ma colui che viene dietro a me è più forte di me, ed io non sono degno di portargli i calzari; egli vi battezzerà con lo Spirito Santo e con fuoco. Egli ha il suo ventilabro in mano, e netterà interamente l'aia sua, e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma arderà la pula con fuoco inestinguibile" (Matteo 3:10-12).
Avvenne invece che ben presto il profeta Giovanni finì nella prigione del malvagio Erode. E questo mal si accordava con la forma del suo annuncio. La scure sembrava colpire lui, non Erode. E in effetti poco dopo la scure di Erode colpì Giovanni mozzandogli la testa.
E' comprensibile allora che a Giovanni, mentre era ancora vivo, venissero dei dubbi:
"Giovanni, avendo nella prigione udito parlare delle opere del Cristo, mandò a dirgli per mezzo dei suoi discepoli: «Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro?» Gesù rispose loro: «Andate a riferire a Giovanni quello che udite e vedete: i ciechi ricuperano la vista e gli zoppi camminano; i lebbrosi sono purificati e i sordi odono; i morti risuscitano e il vangelo è annunciato ai poveri. Beato colui che non si sarà scandalizzato di me!»" (Matteo 11:2-6).
Per spiegare quello che stava accadendo in quel momento Gesù dunque fa riferimento a fatti che erano stati annunciati dalla Parola di Dio nel passato:
"Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e saranno sturati gli orecchi dei sordi; allora lo zoppo salterà come un cervo e la lingua del muto canterà di gioia; perché delle acque sgorgheranno nel deserto e dei torrenti nei luoghi solitari" (Isaia 35:5,6).
Le guarigioni compiute da Gesù dovevano essere comprese come segni dell'avverarsi di parole che Dio aveva detto a Israele nel passato. Ma i capi religiosi non le accolsero come tali e richiesero un segno aggiuntivo. Gesù si rifiutò di farlo e annunciò che come segno, da loro non richiesto, avrebbero visto l'avverarsi di un'altra parola che Dio aveva detto nel passato.
La parola di Dio espressa nel libro di Giona non deve dunque essere intesa come istruzione rivolta agli uomini per indurli a comportamenti virtuosi, ma come anticipata rivelazione in forma di parabola storica di quello che Dio aveva deciso di fare in mezzo agli uomini. E' questo che si intende quando si dice che la vicenda di Giona è un segno.
Ma qual è il contenuto del segno? Il segno che i capi religiosi avevano chiesto a Gesù era un segno messianico, dunque la risposta di Gesù è decisiva: la vicenda di Giona è un segno messianico, cioè anticipata rivelazione che Dio fa al suo popolo, attraverso fatti storici, sulla figura del Messia che verrà.
Presentare il racconto di Giona come parabola raccontata da Dio stesso in forma storica sottolinea dunque il suo aspetto di rivelazione di quello che Dio vuole fare e non di istruzione su quello che gli uomini devono fare, come sono in fondo tutte le parabole di Gesù nei Vangeli, anche quelle che ad una prima lettura sembrano essere soltanto esortazioni a comportarsi bene. E' chiaro che ogni rivelazione di Dio contiene implicitamente un'istruzione per gli uomini, ma è un'istruzione a credere anzitutto alla rivelazione ricevuta e solo di conseguenza a fare. E' una fatale deformazione della Bibbia, in particolare dei Vangeli, trasformare frettolosamente gli indicativi in imperativi. Gesù inizia il suo ministero con un indicativo: il Regno di Dio è vicino, e solo dopo, come conseguenza, seguono due imperativi: ravvedetevi e credete all'Evangelo.
Come tutte le parabole, anche la vicenda di Giona richiede di essere interpretata. Abbiamo già detto che Giona rappresenta Israele, mentre i marinai sulla nave e gli abitanti di Ninive rappresentano le nazioni. Ma se Giona rappresenta Israele, come mai Gesù lo rapporta a Se stesso mentre si trova in una situazione di contesa con i capi di Israele? Gesù si paragona a Giona, non a Israele, che invece viene indicato come "questa generazione malvagia e adultera". Diciamo allora subito la tesi interpretativa che qui si vuole proporre:
Giona rappresenta sia il popolo d'Israele, sia il Messia d'Israele.
L'affermazione naturalmente va approfondita, ma in ogni caso va detto che questo modo di presentazione delle cose è conforme allo stile biblico. E' presente in particolare nel libro di Isaia, dove il servo del Signore è presentato contemporaneamente nella forma del servo-popolo e in quella del Servo-Messia; e l'autore passa con disinvoltura dall'una all'altra senza avvertire, come a testimoniare che agli occhi di Dio le due figure sono indissolubilmente collegate.
Abbiamo detto che Giona rappresenta Israele in fuga dal Signore da quando ha violato il patto originario del Sinai con l'adorazione del vitello d'oro. Israele però non se ne accorge; pensa di essere abbastanza a posto con Dio. Certo, non tutto è perfetto, ma lui ha la legge, e questo gli permette di riconoscere di essere mancante, e qualche volta anche di correggersi. I Gentili invece sono lontani da Dio per posizione, non conoscono la legge e nemmeno sanno di essere tutti immersi nel peccato. Israele sa di avere dei problemi, ma non sa di essere lui stesso un problema. Dio però ha deciso di risolvere questo problema, da cui dipende la risoluzione del problema del rapporto di Dio con tutta l'umanità.
Nella vicenda di Giona si riconosce dunque, in forma parabolica anticipata, un aspetto del modo in cui Dio decide di risolvere il problema dell'umanità con Lui ; ed è per questo che in essa compaiono tutti gli elementi in gioco nella storia della salvezza: Dio, Israele, le Nazioni.
Per far emergere l'inconsapevole stato di autocompiacimento in cui si trovava la "parte buona" di Israele, quella che osserva i precetti e vede in Giona il suo campione, Dio fa cadere sulla testa del suo profeta un preciso, particolarissimo ordine, ben sapendo che non sarebbe stato eseguito. Con questo si vuole sottolineare non tanto la "disubbidienza" di Giona, come di solito si fa, quanto l'azione pedagogica di Dio. Questo spiega anche il tono sorprendentemente morbido con cui Dio tratta il "ribelle" Giona. E spiega anche perché l'ubbidiente Gesù non abbia esitato ad accostarsi al "disubbidiente" Giona. In entrambi i casi c'è Dio all'opera, in una dolorosa azione pedagogico-salvifica verso il suo popolo.
In sintesi: sottolineare la disubbidienza di Giona è antropocentrico; sottolineare l'azione pedagogico-salvifica di Dio nella storia è teocentrico.
In tutte le parabole, quindi anche in questa, esiste un centro intorno a cui è costruito il racconto, ma non a tutti i particolari si deve dare un preciso significato. In questa interpretazione il centro della parabola si trova nel momento in cui Dio raggiunge Giona-popolo nel ventre del pesce. E' lì che si ristabilisce tra i due il collegamento.
La cosa comincia con un grido:
"Io ho gridato all'Eterno dal fondo della mia distretta, ed egli m'ha risposto; dal grembo dello Sheol ho gridato, e tu hai udito la mia voce" (Giona 2:3)
"Io ho gridato... ho gridato... e tu hai udito...". Dio ha dovuto lasciare che Giona arrivasse nella sua esperienza fino al fondo della sua distretta e con la sua anima fino grembo dello Sheol, cioè che conoscesse la morte fisica. Questo significa, secondo questa interpretazione, che Dio non ha fatto venire il pesce per impedire a Giona di morire, ma perché facesse l'esperienza della risurrezione dai morti dopo aver conosciuto la morte come conseguenza della sua ribellione, che qui appare non come una generica disubbidienza personale, ma come espressione della posizione di peccato in cui si trova il suo popolo dopo la rottura del patto originario del Sinai.
Quello che si può definire come il "salmo di Giona", contenuto nel secondo capitolo del suo libro, dovrebbe essere considerato come un salmo messianico, in analogia con quello che si fa col salmo 22. E' nel grembo dello Sheol che Giona-Messia si identifica con Giona-popolo e in un certo senso lo sostituisce. Si potrebbe dire che nel versetto 2:3 è Giona-popolo che grida a Dio, mentre dal versetto 4 in poi, dopo che Dio ha udito il grido di soccorso, è il Giona-Messia che prende la parola e si rivolge a Dio in rappresentanza di tutto Israele. Questo salto o sovrapposizione di significati può sembrare artificioso al nostro modo di organizzare ed esporre i pensieri, ma appartiene indubbiamente allo stile biblico.
Confrontando il salmo di Giona con il salmo 22, in entrambi i casi si vede il protagonista esprimere la sua angoscia nel sentirsi colpito e abbandonato da Dio:
"Tu m'hai gettato nell'abisso, nel cuore del mare; la corrente mi ha circondato e tutte le tue onde e tutti i tuoi flutti mi sono passati sopra" (Giona 2:4);
"Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Perché te ne stai lontano, senza soccorrermi, senza dare ascolto alle parole del mio gemito?" (Salmo 22:1);
e in entrambi i casi si conclude con un inno di lode a Dio:
"Io t'offrirò sacrifici, con canti di lode; adempirò i voti che ho fatto" (Giona 2:10);
"Io annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all'assemblea" (Salmo 22:22).
La vicenda del profeta Giona può dunque essere vista come un segno preparato da Dio affinché Israele al tempo stabilito potesse riconoscere il Messia in colui a cui fosse avvenuto un fatto simile. Il riferimento di Gesù a Giona non è dunque la semplice descrizione di ciò che sarebbe avvenuto nell'immediato futuro, ma il ricordo ai capi religiosi di ciò che Dio aveva detto nel lontano passato e che presto sarebbe avvenuto. Dio ha preparato la vicenda di Giona per essere il segno messianico decisivo, il segno dei segni, quello destinato a togliere ogni dubbio.
E così è stato. Perché è soltanto dopo la morte e la risurrezione di Gesù che i suoi discepoli hanno riconosciuto definitivamente in Lui il Messia d'Israele. I segni precedenti li avevano entusiasmati, ma non erano stati sufficienti a radicare in loro la fede: nei tre giorni e tre notti passati da Gesù nel cuore della terra i discepoli avevano fatto in tempo a smettere tutti di credere che Gesù fosse il Messia. E anche dopo, i Vangeli alludono delicatamente alla difficoltà con cui i discepoli arrivarono ad essere convinti che Gesù fosse proprio il Messia morto e risuscitato.
Se questa può essere la linea interpretativa della parabola storica di Giona, si possono trarre alcune conseguenze e porre altre domande.
Quando il pesce vomita sulla terra il poco gradito contenuto che per tre giorni e tre notti lo aveva infastidito, Giona-Israele è perdonato. Non è la "disubbidienza" di Giona che deve essere accentuata, ma il perdono da lui ricevuto. Se così non fosse, Giona dovrebbe rimanere, insieme ad Israele da lui rappresentato, il prototipo del più incallito e testardo dei peccatori: il peggiore profeta, il peggiore tra i servitori di Dio.
Ma così non è. Perché nella parabola storica Giona-Israele esce perdonato dal ventre del pesce. E nell'interpretazione storica della parabola si ottiene che Israele, da quando il Messia risuscitato è uscito dal cuore della terra, è un popolo perdonato da Dio.
La tesi che Israele oggi è un popolo perdonato da Dio, e non un popolo maledetto, è già contenuta nel libro "La superbia dei Gentili". Ne presentiamo qui alcuni estratti.
«Deve essere abbandonata l'idea che dopo la morte di Gesù Dio mantenga un volto adirato verso il suo popolo e per questo motivo lo sottoponga a innumerevoli sofferenze. E' vero esattamente il contrario. Dio era adirato con Israele prima della venuta di Gesù, fin dal tempo di Isaia, e anche per questo aveva mantenuto il silenzio per circa quattrocento anni. Ma attraverso i profeti, a cominciare proprio da Isaia, aveva annunciato il giorno in cui si sarebbe riconciliato con il suo popolo, perché Egli stesso si sarebbe caricato dei suoi peccati e avrebbe perdonato la sua iniquità.
"Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e proclamatele che il tempo della sua schiavitù è compiuto; che il debito della sua iniquità è pagato, che essa ha ricevuto dalla mano del Signore il doppio per tutti i suoi peccati. La voce di uno grida: «Preparate nel deserto la via del Signore, appianate nei luoghi aridi una strada per il nostro Dio! Ogni valle sia colmata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; i luoghi scoscesi siano livellati, i luoghi accidentati diventino pianeggianti.»" (Isaia 40:1-4).
Il "debito della sua iniquità" è stato pagato quando Gesù è morto in croce "colpito a causa dei peccati del mio popolo" (Isaia 53:8).
Prima che per i miei peccati personali, Gesù è morto per i peccati del suo popolo, cioè di Israele. Accogliere per sé il perdono e dichiarare che il popolo d'Israele si trova ancora sotto l'ira di Dio a causa dei suoi peccati perché ha ucciso Cristo significa praticare una distorsione del messaggio biblico che prima o poi conduce ad atteggiamenti antisemiti.»
Questo spiega anche la grande gioia con cui viene annunciata a tutto il popolo sia la venuta del Messia, sia la sua risurrezione.
"In quella stessa regione c'erano dei pastori che stavano nei campi e di notte facevano la guardia al loro gregge. E un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore risplendé intorno a loro, e furono presi da gran timore. L'angelo disse loro: «Non temete, perché io vi porto la buona notizia di una grande gioia che tutto il popolo avrà: "Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è il Cristo, il Signore." (Luca 2:8-11).
Quale può essere la gioia che tutto il popolo avrebbe avuto, se la conseguenza della venuta di Gesù sarà considerata dagli ebrei il più grande disastro nella storia d'Israele? Il libro degli Atti si preoccupa di sottolineare questa gioia. Agli israeliti presenti a Gerusalemme nella festa di Pentecoste dopo la morte, la risurrezione e l'ascensione al Padre di Gesù, l'apostolo Pietro annunciò il Messia, invitando tutti a ravvedersi, non per evitare il giudizio di Dio, come aveva fatto Giovanni Battista, ma per ricevere da Dio i doni che aveva promesso nel passato al suo popolo:
"E Pietro a loro: «Ravvedetevi e ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e voi riceverete il dono dello Spirito Santo" (Atti 2:38)
In quel giorno tremila persone accettarono la parola di Pietro. E fu allora che tutto il popolo cominciò a gustare quella grande gioia che gli angeli avevano annunciato ai pastori.
"Tutti quelli che credevano stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le proprietà e i beni, e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. E ogni giorno andavano assidui e concordi al tempio, rompevano il pane nelle case e prendevano il loro cibo insieme, con gioia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Il Signore aggiungeva ogni giorno alla loro comunità quelli che venivano salvati." (Atti 2:44-47).
"Tutto il popolo" non si riferisce certamente a tutti gli israeliti uno ad uno, ma nello stile biblico sta a significare che Dio attribuisce a tutto il popolo quello che in quel momento solo una parte, il "residuo" d'Israele, riconosce e sperimenta.
Lo studio della parabola storica di Giona potrebbe proseguire nel tentativo di interpretarne altri particolari. Dopo essere stato vomitato sulla terra dal pesce, Giona-Israele è perdonato da Dio, ma non ancora del tutto convinto. In lui si agitano due anime, come è sempre accaduto nella storia di Israele, dai tempi di Giacobbe ed Esaù fino ad oggi. Una di esse spinge Giona ad ubbidire a Dio, e questo gli permette di far arrivare alle Nazioni, rappresentate dai Niniviti, il messaggio di perdono che Dio gli aveva affidato fin dall'inizio; l'altra invece rimane dubbiosa, perplessa, recalcitrante. Dio però aspetta, perché sa che la riconciliazione ormai è avvenuta, anche se non se ne godono ancora tutte le conseguenze. Non ordina più, discute. Con infinita pazienza replica pacatamente alle parole del suo irritato servitore che gli rimprovera di essere troppo buono.
E a dire il vero, qualche rimprovero dello stesso tipo mi sentirei anch'io di muoverlo al Signore, per come ha trattato Giona. Perché se fosse stato per me, l'avrei preso e rigettato in mare, senza chiamare un pesce a raccoglierlo. Antisemitismo di un gentile invidioso dell'intramontabile ebreo? Potrebbe essere. Ma se è così, allora mi identifico coi Niniviti e "grido con forza a Dio, e mi converto dalla mia via malvagia e dalla violenza che è nella mia mente" (cfr. Giona 3:8), come dovrebbero fare tutti quelli che odiano Israele. Giona che mugugna sotto il ricino è l'Israele di oggi. Quando era in fuga da Dio mentre si trovava sulla nave, Giona non sapeva di essere nel peccato ancor prima di imbarcarsi; adesso che è in fuga da Dio rimanendo a rodersi sotto il ricino, non sa di essere perdonato. Quell'incontro in fondo al mare nel ventre del pesce l'ha salvato per sempre. Ma sembra che lui non lo sappia, e quindi non può ancora goderne i benefici.
 È per questo che la storia di Giona s'interrompe bruscamente con una domanda di Dio a cui non è stata data ancora una risposta. Manca il finale. Manca la risposta di Giona-Israele.
Ma il Signore aspetta. Perché sa che verrà il giorno in cui Israele dirà con tutto il cuore: ברוך הבא בשם יהוה
(Salmo 118:26).
Del resto Gesù l'aveva detto:
"Da ora innanzi non mi vedrete più, finché non direte: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore!»" (Matteo 23:39).
(12) fine
(Notizie su Israele, 25 luglio 2021)
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A Tokyo nella cerimonia inaugurale tributo agli 11 israeliani uccisi a Monaco
Gli 11 atleti israeliani uccisi nel 1972 da terroristi palestinesi nel Villaggio olimpico di Monaco di Baviera, sono stati ufficialmente ricordati nella Cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Tokyo 2020. Quarantanove anni dopo il massacro si è avuto un commosso minuto di silenzio, in una coreografia con una morbida luce blu che attraversava lo stadio oscurato e le movenze di una danzatrice. “Noi, la comunità olimpica, ricordiamo tutti gli olimpionici e i membri della nostra comunità che ci hanno lasciato. In particolare, ricordiamo coloro che hanno perso la vita durante i Giochi Olimpici”, ha detto l’annunciatore.
RICORDI
“Un gruppo occupa ancora un posto importante in tutti i nostri ricordi e rappresenta tutti quelli che abbiamo perso ai Giochi: i membri della delegazione israeliana ai Giochi Olimpici di Monaco 1972”. Il forte ricordo, finora sempre rimosso, era da tempo richiesto dai familiari delle vittime e ha trovato nell’attuale presidente del Comitato Internazionale Olimpico (CIO) il tedesco, Thomas Bach. Apprezzamento dal primo ministro israeliano, Naftali Bennett: “Accolgo con favore questo momento importante e storico. Possa la loro memoria essere benedetta”, ha scritto su Twitter.
GIUSTIZIA Il 5 settembre 1972 un commando suicida di Settembre Nero prese in ostaggio alcuni componenti della squadra olimpica israeliana. Subito furono uccisi due atleti che avevano tentato di opporre resistenza, mentre in 9 vennero sequestrati. Un tentativo di liberazione da parte della polizia tedesca portò alla morte di tutti gli atleti, di un poliziotto tedesco e di di cinque terroristi. Il CIO all’epoca decise di non interrompere le Olimpiadi. “Finalmente è stata fatta giustizia per i nostri mariti, padri, figli che sono stati assassinati a Monaco di Baviera”, hanno detto in un comunicato le vedove di due degli uccisi, Ilana Romano e Ankie Spitzer, alla cerimonia allo stadio di Tokyo. Nel tragico attacco terroristico persero i consorti, il sollevatore di pesi Yossef Romano e l’allenatore di scherma Andre Spitzer.
LACRIME Le altre vittime furono David Berger, Ze’ev Friedman, Yoseff Gutfreund, Moshe Weinberg, Mark Slavin, Eliezer Halfin, Yakov Springer, Amitzur Shapira e Kehat Shorr. Avrebbero dovuto prendere parte agli eventi dei Giochi in specialità che comprendevano lotta, scherma, sollevamento pesi e atletica leggera. “Ci sono voluti 49 anni di lotta, ma non ci siamo mai arresi. Non possiamo trattenere le lacrime. Questo è il momento che stavamo aspettando”, hanno aggiunto le due vedove. Nel 2016 due giorni prima dell’inizio delle Olimpiadi di Rio, si era svolta una cerimonia con rappresentanti brasiliani e israeliani. Ora il tributo nella cerimonia di apertura.
VALORI Bach ha rimarcato: il massacro di Monaco “è stato un attacco non solo ai nostri colleghi atleti olimpici, ma anche un assalto ai valori l’Olimpiade rappresenta”. Igal Carmi, capo del Comitato olimpico israeliano, ha detto che Israele è “grato. Il CIO ha esaudito i desideri delle famiglie delle vittime di Monaco e le ha coraggiosamente commemorate alla cerimonia di apertura” di Tokyo 2020.
(in20righe, 24 luglio 2021)
Israele ha mostrato come ha bombardato la base aerea siriana
Confutando la dichiarazione del Ministero della Difesa della Federazione Russa
Dopo le dichiarazioni del Ministero della Difesa della Federazione Russa, Israele ha mostrato come ha bombardato con successo la base aerea siriana.
Nonostante la dichiarazione del Ministero della Difesa russo secondo cui l'attacco israeliano nella notte tra il 21 e il 22 luglio è stato respinto con successo, si è saputo che le informazioni al riguardo non corrispondevano alla realtà. La ragione di ciò è stata la pubblicazione da parte israeliana di immagini satellitari, che mostrano chiaramente le conseguenze devastanti degli attacchi missilistici israeliani
Dalle immagini satellitari presentate, si può vedere che il territorio della base aerea militare siriana è stato effettivamente attaccato con successo, sebbene la parte russa abbia affermato che tutti i missili lanciati dalla parte israeliana sono stati abbattuti con successo. Sulla base delle immagini satellitari, solo in quest'area si sono verificati almeno tre attacchi aerei
“Poco dopo l'01:00 di mercoledì sera, l'agenzia di stampa ufficiale siriana Sana ha riferito che i sistemi di difesa aerea dell'esercito siriano nell'area di Homs stavano lavorando per respingere un attacco nemico. Pochi minuti dopo, l'emittente araba Al-Arabiya ha annunciato che l'attacco era rivolto a obiettivi presso un aeroporto militare siriano: Shairat nella regione di Homs, nel nord della Siria. Questa è la seconda notte di questa settimana associata agli attacchi aerei in Siria", - riporta l'agenzia di stampa israeliana "NZIV", pubblicando rilevanti immagini satellitari.
Poco prima, i rappresentanti del dipartimento della difesa russo hanno riferito che tutti e quattro i missili sono stati distrutti dalla difesa aerea siriana in servizio: i complessi Buk-M2E di fabbricazione russa.
(AviaPro, 24 luglio 2021)
“La comunità ebraica emiratina si prepara a crescere”
di Francesco Paolo La Bionda
L’Associazione delle Comunità Ebraiche del Golfo, in inglese Association of Gulf Jewish Communities (AGJC), è nata lo scorso febbraio a seguito della normalizzazione dei rapporti tra Israele e parte del mondo arabo sancita dagli Accordi di Abramo.
Lo scopo dell’associazione è facilitare la vita religiosa e comunitaria nella regione sia per gli ebrei residenti sia per i turisti di fede ebraica, soprattutto ma non esclusivamente israeliani. I due poli della presenza ebraica nel Golfo Persico sono il Bahrein, dove è sopravvissuta in forma ridotta la comunità autoctona, e gli Emirati Arabi Uniti, dove Dubai in particolare ospita una nutrita comunità di espatriati provenienti da tutto il mondo.
Dopo aver ascoltato la testimonianza del lato bahreinita per bocca del Presidente dell’Associazione Ebrahim Dawood Nonoo, abbiamo intervistato il Co-Fondatore Alex Peterfreund per farci raccontare le attività e la vita della comunità ebraica emiratina.
- Come è cambiata la vita della vostra comunità dopo la firma degli Accordi di Abramo?
Premettendo che anche prima della firma del patto noi ci siamo sempre sentiti sicuri qui negli Emirati, sicuramente la situazione è cambiata: la comunità è in crescita, possiamo trovare cibo kasher. Ci sono insomma molti sviluppi positivi per i quali siamo contenti.
- C’è stata anche un’evoluzione in termini di disponibilità dei servizi e delle funzioni religiose.
Da quando abbiamo fondato l’Associazione siamo stati in grado di fornire alle persone oggetti e servizi rituali, il nostro rabbino sta facendo un ottimo lavoro. Celebriamo le funzioni anche su Zoom, abbiamo tenuto ad esempio una bellissima funzione in ricordo della Shoah, e abbiamo anche organizzato a suo tempo delle cene in presenza.
Oggi a Dubai la comunità ebraica, che è la più grande della regione, ha tutti i servizi necessari a disposizione per la sua vita religiosa, mentre la comunità del Bahrein invece ha una bellissima sinagoga ma non ha un rabbino residente, e negli altri Paesi non hanno né l’una né l’altro. Quindi è molto importante e bello che tramite noi possano comunque soddisfare le proprie necessità.
- È cresciuto l’interesse della popolazione araba verso la comunità ebraica dopo la firma degli Accordi?
Assolutamente sì, e questo ci aiuta a organizzare delle attività interconfessionali. È quello che vogliamo: interagire con la comunità locale e farle conoscere l’ebraismo, a nostra volta imparando di più sui nostri concittadini arabi.
- Le comunità della regione hanno già iniziato a crescere anche in termini numerici?
Ad oggi prevediamo che sarà solo la comunità emiratina a crescere nei prossimi anni. Gli Emirati sono il Paese dove si può fare business, dove sono disponibili tutti i servizi religiosi e comunitari. Penso accadrà alla fine anche in Bahrein ma ci vorrà sicuramente più tempo.
- Come interagiscono e si integrano gli espatriati provenienti dai diversi Paesi?
Gli expat costituiscono almeno il 95% della comunità emiratina, che quindi è estremamente composita: abbiamo persone che provengono da Sud Africa, Australia, America, Italia… Però le interazioni sono molto positive e frequenti, nonostante si parlino lingue differenti e talvolta si abbiano mentalità differenti. Negli Emirati in generale ci sono molti stranieri e si praticano religioni diverse, quindi è un sentimento abbastanza naturale.
- Avete previsto l’avvio di attività culturali ed educative nel corso dei prossimi mesi?
Abbiamo già in programma di aprire un asilo e un centro culturale ebraico. Da quando è arrivato il coronavirus non abbiamo più sfortunatamente un nostro luogo di ritrovo per le funzioni religiose, le teniamo per il momento negli hotel o via Zoom ma speriamo di poter avere presto una sinagoga ufficiale anche qui a Dubai.
(Bet Magazine Mosaico, 24 luglio 2021)
Algerino lascia i Giochi per evitare l'ebreo
Alle Olimpiadi di Tokyo nessuno s'inginocchia contro l'antisemitismo. La squadra di judo del Paese arabo boicotta Israele per «la causa palestinese», ma non subisce sanzioni disciplinari.
di Andrea Morigi
A casa, in moschea, in patria, non l'avrebbero mai perdonato se fosse stato sconfitto da un ebreo in un corpo a corpo. Così il judoka algerino Fethi Nourine ieri si è ritirato dai Giochi Olimpici di Tokyo 2020 per evitare di affrontare un avversario israeliano. Forse non voleva "sporcarsi le mani" o magari non aveva il coraggio di combattere contro Tohar Butbul, che il sorteggio gli aveva assegnato nel secondo turno della competizione, a condizione che avesse vinto il suo primo incontro. Fatto sta che Nourine si era già ritirato dai campionati mondiali di judo del 2019 per lo stesso motivo. Lo ha spiegato così, giovedì sera, alla tv algerina: «Abbiamo lavorato duro per qualificarci ai giochi, ma la causa palestinese è più grande di tutto questo».
La Federazione internazionale evidentemente trascura le motivazioni razziste, se Amar Ben Yaklif, l'allenatore dell'atleta algerino, può permettersi di motivare pubblicamente le ragioni del rifiuto: «Non siamo stati fortunati con il sorteggio, abbiamo trovato un awersario israeliano e per questo ci siamo dovuti ritirare. Abbiamo preso la decisione giusta». "Giusta" nel senso che forse era l'unica maniera di non essere messi al tappeto, anzi al tatami come si dice in giapponese, il Paese dove le arti marziali sono nate e in cui dovrebbero educare al rispetto reciproco.
In realtà, viste le premesse politiche indicate dalla squadra algerina, a Tokyo ci si sarebbe dovuti misurare nel quadro di una sfida millenaria, per di più stabilita da un destino che non appare per nulla casuale. Quell'abbinamento sa molto più di una volontà celeste che di uno scherzo della fortuna cieca. E mica tutti sono preparati agli eventi soprannaturali.
L'IRA DI DIO
È da millenni che i nemici di Israele rimangono sgomenti davanti alla Stella di David. Se ne trova traccia nella Bibbia, nel libro dell'Esodo, al capitolo 14: «Hanno udito i popoli e tremano; dolore incolse gli abitanti della Filistea. Già si spaventano i capi di Edom, i potenti di Moab li prende il timore; tremano tutti gli abitanti di Canaan. Piombano sopra di loro la paura e il terrore; per la potenza del tuo braccio restano immobili come pietra, finché sia passato il tuo popolo, Signore».
Per non rimanere troppo indietro nel tempo, tuttavia, occorre tornare con la memoria alla tragedia del 1972, al villaggio olimpico di Monaco di Baviera. I terroristi palestinesi di Settembre Nero comunque, dopo aver ucciso undici membri della squadra olimpica dello Stato ebraico, andarono incontro a una vendetta chirurgica, che poi li vide eliminati uno a uno nell'Operazione Ira di Dio, durata vent'anni.
Ai tempi, le formazioni armate palestinesi dipendevano dal capo dell'Olp Yasser Arafat, che in nessun altro Paese al mondo trovò appoggio e ospitalità come in Algeria, il cui governo fu il primo a riconoscere lo "Stato" palestinese nel 1985. Quindi non c'è da sorprendersi più di tanto se proprio là la malapianta dell'antisemitismo ha dato i suoi frutti peggiori. Fra l'altro, il Marocco ha appena stabilito relazioni diplomatiche con Gerusalemme e la confinante e rivale Algeria ora si dibatte nella paranoia del complotto giudaico. Si percepiscono circondati dal sionismo internazionale, sono in preda al panico e si abbandonano all'odio antisemita.
Davanti al crimine d'odio - non solo una fattispecie giuridica, ma un'esplosione di violenza che attraversa ancora frequentemente l'Europa e si manifesta non solo nella profanazione dei luoghi di culto e dei cimiteri ebraici, ma arriva a minacciare l'incolumità di chi indossa la kippah in pubblico - le reazioni sono deboli.
REAZIONI DEBOLI
Sì, l'altro giorno hanno cacciato il maestro delle cerimonie dei Giochi perché in passato aveva deriso le vittime della Shoah. Ieri, inoltre, per la prima volta in una cerimonia inaugurale, sono stati ricordati perfino gli atleti israeliani uccisi dai terroristi palestinesi alle Olimpiadi di Monaco 1972. Sembrano enormi passi avanti sulla strada della consapevolezza delle sofferenze patite dal popolo ebraico nella storia. Eppure, il limite delle commemorazioni e delle condanne è che si versano lacrime per gli ebrei morti e per i sopravvissuti all' oppressione nei campi di concentramento e di sterminio. Non basta mica, però, mettere all'indice il negazionismo. Ci sono anche gli ebrei vivi, come quelli che hanno riconquistato la terra promessa e la fanno prosperare.
Eppure, sulla stampa internazionale e sui social network, l'oltraggio del judoka algerino sembra avere un'eco insignificante. Se non positiva, come il commento dello chef Rubio su Twitter: «Le uniche Olimpiadi a cui Israele dovrebbe partecipare sono quelle dei Paesi immaginari come l'isola che non c'è e Narnia, ma siccome non esistono dovrebbe fare solo una cosa: andarsene affanculo dalla Palestina e far rientrare i nativi!», Ma Nessuno che proponga l'espulsione della delegazione algerina, nessuno che s'indigni pubblicamente contro il boicottaggio subito da Israele, nessuno che chieda sanzioni, nessuna iniziativa esemplare per far sì che l'episodio isolato rimanga circoscritto.
Chissà quindi se qualcuno adesso s'inginocchierà per protesta contro l'antisemitismo alle Olimpiadi oppure faranno tutti finta di nulla per archiviare il caso e nascondere l'imbarazzo sotto una coltre di silenzio. In quest'ultima ipotesi, i cinque cerchi rimarranno nient'altro che dei buchi vuoti, variopinti, ma senza significato, né sportivo né civile.
Libero, 24 luglio 2021)
Italia-Israele: telefonata tra Bennett e Draghi
È avvenuta oggi [venerdì 23] una conversazione telefonica tra Il presidente del Consiglio Mario Draghi e il primo ministro israeliano, Naftali Bennett. Lo rende noto Palazzo Chigi. Lo scambio di punti di vista si è concentrato sulla collaborazione bilaterale e multilaterale per la comune lotta alla pandemia, situazione che continua a turbare gli equilibri di entrambe le nazioni; per la transizione energetica, nonché sull’ulteriore rafforzamento del partenariato italo-israeliano specialmente nei settori della cooperazione tecnologica, scientifica e industriale.
(Shalos, 24 luglio 2021)
Interessante. Ma poco rassicurante la "collaborazione bilaterale e multilaterale per la comune lotta alla pandemia". M.C.
Malati gravi in ospedale, più della metà sono vaccinati. Allarme da Israele
Doccia fredda da Israele. Il "Jerusalem Post" pubblica una notizia che farà discutere. E getta qualche ombra sull'efficacia dei vaccini. Al momento in Israele più della metà dei pazienti ricoverati in ospedale in gravi condizioni sono vaccinati.
Nell'articolo del "Jerusalem Post" si legge: "Al momento circa il 60% dei pazienti in gravi condizioni sono stati vaccinati. Inoltre, secondo i ricercatori dell'Università ebraica di Gerusalemme, circa il 90% dei nuovi contagi sopra i 50 anni sono vaccinati con due dosi".
(Il Tempo, 23 luglio 2021)
"Gli appelli a non vaccinarsi sono inviti a morire"
“Gli appelli a non vaccinarsi sono inviti a morire, oppure a far morire: non ti vaccini, contagi, muori, o fai contagiare e fai morire." Queste parole del Presidente del Consiglio Mario Draghi, riportate con compiacimento anche dal notiziario di Pagine Ebraiche, sono di enorme gravità. Confermano, in quanto motivazione delle decisioni che il governo si accinge a prendere, che sta avvenendo un graduale cambiamento dei paradigmi con cui è stata pensata e attuata finora la democrazia. Il ricatto ai cittadini è entrato a far parte integrante delle forme di governo. E' inutile e anche pericoloso tentare di spiegarlo in questa sede, ma verosimilmente anche in altre sedi più importanti di questa: si potrebbe correre il rischio di essere denunciati per istigazione al suicidio.
Per chi scrive, e si spera anche per altri cristiani evangelici che fanno della Bibbia la loro base di fede, è un campanello d'allarme che ha cominciato a suonare già diversi anni fa e il cui suono in questi ultimi giorni si è fatto particolarmente forte.
I tempi stanno cambiando. Se ne è accorto il papa, se ne è accorto Eugenio Scalfari, e se ne è accorto l'attuale Presidente del Consiglio Mario Draghi.
Riporto un articolo di un neofita convertito alla religiosità universale di papa Francesco. E' stato scritto nel marzo scorso e vi compare un interessante collegamento fra i tre personaggi sopra nominati. Il risalto è stato aggiunto. M.C.
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Sentire la voce di Francesco per un solo Dio
di Eugenio Scalfari
Ieri sera alle 19.20 ho udito uno squillo del mio telefono, l'ho portato all'orecchio e ho sentito nientemeno che la voce di papa Francesco il quale aveva saputo che mi ero interessato di lui e mi telefonava per ringraziarmi in anticipo del mio articolo di oggi. Io, a mia volta, mi sono molto commosso e ho detto a Sua Santità qual era l'ammirazione nei suoi confronti per l'intera sua identificazione con tutte le religioni del mondo. Un Papa come Francesco è un miracolo della storia. Non era mai accaduto che la religiosità d'un Papa cattolico fosse estesa a tutte le religioni del mondo unificate. È un fatto nuovo e in qualche modo rivoluzionario.
La religione unificata domina il mondo e chi crede in un unico aldilà. Jorge Mario Be,rgoglio ha origini italo-piemontesi ma il suo ramo familiare si trasferì nell'America meridionale e prosperò socialmente. Bergoglio si occupò dei poveri, dei ceti di scarsa occupazione e di un territorio bisognoso di una vita religiosa molto sensibile. Si dedicò a queste tematiche, assunse l'abito sacerdotale e lo usò ampiamente con alcuni colleghi che tendevano verso l'Europa. Bergoglio diventò vescovo nel suo Paese e conobbe i colleghi della Roma religiosa tra i quali quello a lui più vicino nel modo di pensare e di agire, Carlo Maria Martini.
Gli anni passarono, sia Bergoglio e sia Martini erano gesuiti, un ordine molto ristretto e vigilante sulle attività vaticane. Non starò a ripetermi su racconti già fatti alla fine dei quali Bergoglio fu nominato cardinale e poi Papa, Martini l'aveva preceduto nella nomina cardinalizia, ma poi si ammalò e morì. Bergoglio dal canto suo diventò papa Francesco e si rivelò ben presto una figura nuovissima della quale più che mai in questi giorni bisogna parlare.
Da alcuni mesi in qua papa Bergoglio è profondamente cambiato. Si è recato in Paesi con religioni molto lontane da quella cristiana, in Iraq e in tutte le zone del Medio Oriente. Ciascuna di queste comunità segue una religione propria il cui ispiratore è Abramo. Di religioni cristiane ce ne sono poche; quelle ispirate da Abramo sono invece molteplici, arrivano fino a territori fenici e egiziani. Cristiani pochi in questa prima fase dell'arrivo di papa Bergoglio in quelle regioni. Il Papa non ha lavorato per modificare le religioni non cristiane: al contrario le ha studiate con molta attenzione. Non si può certo dire che le condivida ma non le disprezza, anzi le sta prendendo in amichevole considerazione. Il cristianesimo non ha fatto breccia tra i popoli medio-orientali anche a causa del calendario cristiano: Gesù di Nazareth aveva trent'anni mentre l'Impero romano era già alle prese con i Fenici e i Cartaginesi.
Gesù aveva radunato molti seguaci nelle terre palestinesi e nella Galilea quando arrivato a Gerusalemme fu arrestato dalle truppe romane e condannato dai sacerdoti del Tempio, poi crocifisso ad opera dei Romani assieme a due ladroni, un personaggio meritevole della pietà cristiana a destra di Cristo e una figura infernale alla sua sinistra. Pregò per il primo e condannò l'altro. Poco dopo Gesù morì dopo aver ricevuto un colpo di lancia nel costato. Tutte queste vicende sono ben note e fanno parte della storia di una delle principali religioni attualmente guidata da papa Bergoglio. Ma qui c'è un punto che contiene una formidabile novità: papa Francesco sta prendendo in considerazione l'ipotesi che a tutte le religioni cristiane e non cristiane siano considerati analoghi riconoscimenti.
La religione dunque è unica, i Papi possono essere più d'uno ma l'unione tra di loro è indispensabile e merita quindi d'essere opportunamente organizzata. Papa Francesco sarà probabilmente uno dei primi ma non è questo il problema: la religiosità è un fenomeno ormai mondiale e come tale riconosciuto da ogni punto di vista, religioso e politico.
Ci sono molti altri problemi in questi giorni per quanto riguarda la struttura politica del nostro Paese. Le situazioni stanno continuamente cambiando, non si sa perché e non si sa per come. La nostra specie umana vive da milioni di anni ma per noi non è possibile seguirla dai suoi inizi. Possiamo cominciare dal Mille. Mille anni fa sono molti e tuttavia in qualche modo rintracciabili dalla nostra mente: il presente è fatto in un modo strano poiché studiandolo si rivede un passato del tutto diverso e quindi la storia cambia. Siamo fatti così e non riusciamo a modificarci. Settecento anni fa c'era Dante Alighieri ma era già un uomo moderno. Scrisse splendidi sonetti amorosi o semplicemente amichevoli e scrisse vari libri di storia e di pensiero, il più importante dei quali fu la Divina Commedia: l'Inferno, il Purgatorio, il Paradiso. Vi sembrerà singolare ma la totalità dell'Inferno e almeno la metà del Purgatorio sono la parte più affascinante della Divina Commedia forse perché Dante si era fatto accompagnare mentalmente da Virgilio, un "portaparola" estremamente affascinante.
Nel Purgatorio Virgilio lasciò Dante la cui poesia del Paradiso diventò molto meno attraente.
Il tema che abbiamo fin qui toccato apre una finestrella nella cultura moderna, Dante è stato e rimane uno dei grandi ma ce n'è ancora una quantità in epoche più aggiornate e di carattere europeo. Gli scrittori francesi e inglesi dell'Enciclopedia sono tra i più interessanti e cominciano il loro lavoro intorno al Cinquecento. Un secolo dopo c'è la Rivoluzione francese che non si fermerà più. Per tenerla in vita ci saranno nuovi regni, nuove guerre, nuovi Stati, nuova economia e nuova filosofia. L'Italia fu un Paese tra i più agitati d'Europa anche se gran parte della sua agitazione non nasceva dall'interno ma piuttosto al suo esterno. Ne ho parlato più volte in questi anni. Ne riparlo oggi ma ne debbo spiegare il perché ai nostri lettori: alla guida dell'Italia c'è un personaggio del rilievo di Mario Draghi. Un altro nome di notevole rilievo che è ricomparso dopo anni di assenza è Enrico Letta. Basterebbero questi nomi per dire che viviamo in un Paese molto moderno e al tempo stesso molto vecchio.
Il governo italiano è attualmente diretto da Mario Draghi. Una direzione iniziata da pochissimo tempo ma di grande interesse poiché ha radunato, salvo pochissime eccezioni, tutti i partiti nel governo da lui presieduto. C'è la Lega di Salvini, i 5 Stelle composti da Di Maio, Beppe Grillo e Giuseppe Conte che ne è diventato il numero uno.
Poi c'è il Partito democratico dove il nuovo segretario è Enrico Letta. Al centro ci sono varie piccole formazioni che messe insieme fanno un certo mucchio a cominciare da Berlusconi. Forse ne dimentichiamo qualcuna ma la vera realtà l'abbiamo già indicata: Mario Draghi. Ha in mano il governo e lo terrà favorendo una vasta alleanza tra le forze politiche che ottengano il risanamento economico, politico, ecologico, sanitario dell'intero Paese. Tra un anno ci sarebbe una soluzione per Draghi, alla quale lui non pensa ma che è nei fatti: il Quirinale.
Draghi merita di sostituire Mattarella il quale a sua volta merita il grazie di tutto il Paese.
(la Repubblica, 14 marzo 2021) In ambito evangelico già cento anni fa, e ancora prima, si diceva e si scriveva che il mondo è destinato ad avviarsi verso un governo mondiale, con una religione unica anch’essa mondiale, e che il tutto sarebbe stato considerato come la soluzione dei problemi del mondo. E tutto questo scaturiva non da una documentata analisi politica, ma da una lettura attenta e fiduciosa di quello che dice la Bibbia, con particolare riguardo alle sue profezie. Agli occhi di “sobrie” e “realistiche” persone attente alla realtà dei fatti di quel tempo, come quelle che scrivono oggi sui più importanti giornali, tutto questo poteva apparire come pura fantareligione, come quella di chi pensava che un giorno sarebbe stato ricostituito uno Stato ebraico sulla terra d'Israele. E’ eccitante allora, soprattutto per chi è avanti negli anni, scorgere segni concreti e sempre più chiari di quello che i giovani di una volta consideravano soltanto eccessi di fantasioso biblicismo. Eppure è così. Tutto si muove in quella direzione: il Papa, "la Repubblica", e ... Mario Draghi. M.C.
Complottismo biblico
impauriti, ingannati, sedotti e schiavizzati
il diavolo sta preparando il mondo
ad accogliere l'anticristo
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Israele sperimenterà il vaccino anti-Covid orale
Sviluppato dalla Oramed, è più facile da distribuire e prende di mira tre proteine strutturali del nuovo coronavirus, il che dovrebbe renderlo più resistente alle varianti. Se i test a Tel Aviv avranno successo, verrà richiesta l'autorizzazione nei Paesi rimasti più indietro, come in Sudamerica.
di Sharon Nizza
TEL AVIV – Israele si appresta a sperimentare il primo vaccino anti-Covid somministrato oralmente. Si tratta della tecnologia sviluppata dalla Oravax Medical, società nata a marzo dalla collaborazione tra l’azienda farmaceutica israeliana Oramed e l’indiana Premas Biotech. Oramed è specializzata nella somministrazione per via orale di terapie a base proteica normalmente inoculate per iniezione. Attualmente sta ultimando, sotto l’egida della Fda, la terza fase della sperimentazione clinica di una pillola di insulina per somministrazione orale efficace contro il diabete di tipo 1 e 2. La Premas invece fornisce la tecnologia vaccinale, che si basa sulla tecnica del Dna ricombinante (inoculazione della proteina-antigene riprodotta in vitro). Dagli studi eseguiti sugli animali, è emerso che la tecnologia in elaborazione porta allo sviluppo di anticorpi per immunoglobuline G (IgG) e immunoglobuline A (IgA), questi ultimi necessari per garantire immunità a lungo termine.
I vantaggi
Secondo quanto spiegato dagli scienziati della Oramed Pharmaceuticals, il nuovo vaccino prende di mira tre proteine strutturali del nuovo coronavirus, diversamente dalla tecnologia mRNA dei vaccini Pfizer e Moderna, che agisce sulla singola proteina spike. “Questo dovrebbe rendere il vaccino più resistente alle varianti”, ha affermato Nadav Kidron, Ceo di Oramed, citato dal Jerusalem Post. Inoltre, secondo Kidron, un vaccino orale risolve diverse questioni legate alla distribuzione: oltre alla praticità della somministrazione, la pasticca può essere conservata a temperatura ambiente e non richiederebbe una somministrazione professionale, ma potrebbe essere assunta in autonomia da chiunque. Secondo Kidron, il fatto che i farmaci orali tendono ad avere meno effetti collaterali potrebbe essere un ulteriore elemento che aiuterebbe a superare la riluttanza di quanti non si sono vaccinati finora.
La sperimentazione umana inizierà nelle prossime settimane su 24 volontari all’Ospedale Ichilov di Tel Aviv (Sourasky Medical Center), dopo che il protocollo è stato approvato dal collegio dei revisori del centro medico. Per allora è attesa l’autorizzazione del ministero della Salute locale. Nella prima fase sperimentale, metà del gruppo assumerà una pillola e l’altra metà ne ingerirà invece due, con l’obiettivo di misurare il livello di anticorpi e altri indicatori di immunità sviluppati. La prima fase della sperimentazione clinica dovrebbe durare circa sei settimane. Se si concluderà con successo, l’azienda intende muoversi per richiedere l’approvazione per l'uso di emergenza in Paesi con il minore tasso di vaccinazione al mondo, come per esempio in Sudamerica. “Israele, gli Stati Uniti e alcuni degli altri Paesi più ricchi sono stati i primi ad avere Pfizer e Moderna”, ha affermato Kidron. “Il nostro obiettivo è che chi è rimasto più indietro sarà tra i primi a ricevere il vaccino orale”.
Una pillola per il richiamo
Nelle scorse settimane anche la start-up israeliana MigVax ha annunciato di aver terminato con successo i test preclinici di una pillola (MigVax-101) che potrebbe essere utilizzata come “booster”, ossia il richiamo per persone già vaccinate. Nei test sugli animali effettuati dall’azienda è emerso infatti uno stesso livello di produzione di anticorpi neutralizzanti sia assumendo la pillola, sia assumendo il richiamo per inoculazione.
(la Repubblica, 23 luglio 2021)
Israele investe sui giovani e sulle startup
Scommette sull'innovazione, crede nel libero mercato e si assume una parte importante del rischio guardando al futuro.
di Andrea Vassallo
Incontenibile è la 'fuga di cervelli' che riguarda il nostro Paese: i dati mostrano un incremento annuale di giovani - laureati e con le specializzazioni più richieste - che preferiscono costruire il proprio futuro, avviare un'impresa e la propria carriera professionale all'estero. Ciò si verifica a causa dell'oppressione burocratica e fiscale che grava sul mercato del lavoro italiano, caratterizzato da tasse, contributi e mai definiti adempimenti burocratici sempre più rilevanti: un elemento che disincentiva le imprese ad assumere, con il rischio tangibile di diventare sempre meno attrattivi rispetto al mercato estero, più competitivo sotto il profilo fiscale. Servirebbe perciò ridurre la pressione fiscale, ma occorre al contempo creare sviluppo. Il modello a cui il nostro Paese dovrebbe ispirarsi è quello israeliano, il primo esempio al mondo di Startup Nation: su 8,9 milioni di abitanti, Israele sfiora le cinquemila aziende che hanno investito in high-tech. Il suo modello funziona in quanto è fondato sulla meritocrazia e sul libero mercato e si è rivelato vincente perché il governo israeliano non si è limitato ad attirare capitali dall'estero ma ha incentivato gli imprenditori, assumendosi una parte del rischio e creando condizioni fiscali favorevoli. Proviamo a immaginare, solo per un istante, l'enorme vantaggio per il nostro Paese se solo si decidesse di prendere ad esempio il modello della Startup Nation: l'Italia tornerebbe attrattiva non soltanto sotto il profilo degli investimenti ma anche per tutti i giovani laureati ora in fuga verso l'estero, molti dei quali specializzati proprio nel settore high-tech. Un modello che, unito a una riduzione dell'oppressione fiscale, si rivelerebbe vincente anche per il nostro Paese.
(La Ragione, 23 luglio 2021)
La Farnesina cancella Israele: «Gerusalemme è in Palestina»
Gli italiani che abitano nella Città santa e vogliono iscriversi alle elezioni per i comitati dei residenti all'estero possono farlo solo dicendo di vivere nei Territori
di Vito Anav
GERUSALEMME - Gerusalemme, Yerushalaim, la Città della Pace, la Città Completa, la Città Santa ( quasi per tutti). Infiniti sono i nomi con cui viene indicata Gerusalemme. Complessa, rocambolesca, antica la sua storia. Unica costante, nei millenni, nel corso dei marasmi politici e militari di cui è stata vittima, la presenza ebraica nella Città mai venuta meno (indipendentemente da chi la governasse) e la perseverante preghiera degli ebrei della Diaspora per il ritorno a essa.
Arriviamo ai giorni nostri. Il consolato italiano a Gerusalemme ancora oggi vanta ben due sedi (l'ambasciata si trova a Tel Aviv ma questo vale per quasi tutti gli altri Stati) una sede nella cosiddetta Gerusalemme Ovest e una nella cosiddetta Gerusalemme Est.
L'INDIRIZZO SBAGLIATO
L'area di competenza, oltre alla totalità di Gerusalemme, comprende anche la Cisgiordania, i Territori sotto l'Autorità Palestinese, la Striscia di Gaza. Dal sito web del Consolato Generale si evince tra l'altro che «Il Consolato Generale cura le relazioni che il Governo italiano intrattiene con le autorità palestinesi e che si sostanziano in rapporti politici, economici, culturali, di cooperazione allo sviluppo e di dialogo tra realtà locali e tra società civili». In questi giorni il consolato ha inviato, come suo compito istituzionale, una lettera a tutti gli italiani residenti nella circoscrizione consolare, sollecitandoli a iscriversi nelle liste elettorali per votare per corrispondenza alle elezioni del COMITES che si terranno nel dicembre 2021. Gli italiani residenti nell'area Consolare sono circa 5.000, di cui 3.500 iscritti all'AIRE, l'anagrafe degli Italiani Residenti all'Estero. Molti hanno tentato di esercitare il loro diritto/dovere al voto e di iscriversi alla lista elettorale. Ma è risultato praticamente impossibile.
Provando a spiegare in modo semplice una situazione complessa: per completare il modulo d'iscrizione occorre posizionare Gerusalemme nei Territori dell'Autonomia Palestinese: allora e solo allora, si riesce a completare la procedura. Anche inserendo il c.a.p, nulla da fare. Israele proprio non esiste! Gerusalemme è in un fantomatico, improbabile, quanto inesatto limbo geopolitico dei TerritoriANP (Autonomia Palestinese).
Riassumendo: se un iscritto AIRE residente a Gerusalemme vuole usufruire del servizio telematico proposto dalla Farnesina, dovrà qualificarsi come residente nei TerritoriANP e non in Israele. È un po' come se i servizi telematici della Farnesina stabilissero che Trieste si trova in Jugoslavia ... A disguidi simili le autorità italiane non sono nuove. In più occasioni, le cartelle elettorali per le elezioni nazionali sono state inviate ad astrusi indirizzi quali Gerusalemme -ASIA o Gerusalemme - Palestina.
Fino a qualche anno fa, i passaporti italiani rilasciati dal Consolato Generale a Gerusalemme alla voce Residenza indicavano prima Gerusalemme (*) ... mai saputo cosa significasse l'asterisco, poi Gerusalemme (ZZZ): non è un errore di battitura, anche lo 'Z2Z è un mistero irrisolto. Solo da qualche anno a questa parte è sparito e Gerusalemme è assurto a luogo di residenza senza orpelli.
MISTERI TERRITORIALI
Probabilmente i tempi di reazione della Farnesina, così come quelli di vari Comuni italiani (responsabili dell'invio delle cartelle elettorali) alle realtà geopolitiche e alle evoluzioni storiche sono lenti.
Nel 2016 l'Unesco approva la risoluzione Gerusalemme est adottando un testo controverso in cui si decide di usare esclusivamente il nome islamico per riferirsi al complesso della moschea di Al-Aqsa, ignorando il termine ebraico Monte del Tempio. Il commento dell'allora premier israeliano Benjamin Netanyahu fu: «È come dire che la Cina non ha legami con la Grande Muraglia o l'Egitto con le Piramidi». Superfluo ricordare che in quell'occasione l'Italia si astenne.
È recente la notizia che una parte delle mura di Gerusalemme costruite tra la fine dell'VIII e l'inizio del VII a.e.v., il periodo del Primo Tempio, è stata rinvenuta dagli archeologi nel Parco Nazionale della Città di David, che hanno scoperto altri reperti del periodo, tra cui giare di stoccaggio con anse decorate a "rosetta", che gli esperti hanno collegato agli ultimi anni del Regno di Giuda Ma anche le evidenze storiche possono essere ignorate, permettendo al portavoce di Hamas, Muhammad Hamadeh, di affermare che «Israele falsifica la storia e distorce i fatti. Gerusalemme rimarrà la capitale della Palestina e della sua identità arabo-islamica». Poche voci si sono levate contro l'ennesima falsità di Hamas. Unesco docet!
Usque tandem ... la miopia, mista a un non sempre latente sentimento di antisionismo "a priori e a prescindere" permetterà di prendere decisioni, diffondere dichiarazioni, assumere posizioni che in nulla favoriscono un processo di pace?
(Libero, 23 luglio 2021)
Riforma della Casherut, l'opinione pubblica si divide
Una riforma che, attraverso la concorrenza, garantirà costi minori per chi vende o acquista prodotti casher in Israele (e non solo), mantenendo gli standard richiesti dalla Legge ebraica. Una modifica che confonderà il pubblico e abbasserà il livello delle certificazioni casher, danneggiando i consumatori. La riforma del sistema delle certificazioni casher in Israele annunciata dal ministro degli Affari religiosi Matan Kahana ha aperto un’ampia discussione tra favorevoli e contrari. Il nuovo modello proposto andrebbe a modificare il ruolo del Gran Rabbinato israeliano rispetto alla gestione di questo sistema. In sostanza quest’ultimo da attore principale si trasformerebbe in supervisore. Attualmente in Israele le certificazioni casher per le imprese sono assegnate in via esclusiva da organi locali del rabbinato statale (Consigli religiosi), emanazione del Gran Rabbinato. Questi organi nominano degli ispettori che controllano che chi richiede la licenza della casherut rispetti effettivamente tutte le regole prescritte dalla Legge ebraica. Si tratta di un sistema di controllo verticale, gestito in forma di monopolio. La riforma vorrebbe cambiare questa situazione introducendo delle società private che concorrano tra loro per fornire le licenze a ristoratori o a chi ne fa richiesta. Il tutto sotto la supervisione del Gran rabbinato, che avrà il compito di stabilire regole uniformi che le società private dovranno seguire. “Chiunque abbia buon senso può vedere che il nostro sistema di casherut è molto malato, e deve essere messo in ordine", ha dichiarato Kahana in un’audizione alla Knesset, il Parlamento. "Il mio piano metterà ordine nel sistema, lo aprirà alla concorrenza, e lo metterà sotto la regolamentazione del Gran Rabbinato, sotto la sua supervisione come avviene all’estero. Così, più persone mangeranno casher”. Non è di questo avviso però il Gran Rabbinato, secondo cui questa modifica creerà solo confusione. I consumatori, afferma l’autorità d’Israele in materia di Legge ebraica, non saranno tutelati sulla qualità della supervisione delle regole alimentari e, di conseguenza, sull’effettivo rispetto della casherut. “Questa non è una riforma, non è una correzione” ha dichiarato il rabbino Eliezer Simcha Weiss, membro del Consiglio del Gran Rabbinato.
(moked, 22 luglio 2021)
Trent'anni fa, Berlino capitale
Kohl, il Cancelliere della riunificazione, non era d'accordo
di Roberto Giardina
Trent'anni fa, il 20 giugno 1991, Berlino tornò a essere capitale. Non fu una decisione facile, e il Bundestag dopo una combattuta seduta, solo alle 21 e 47 emise il verdetto di misura: su 660 deputati, in 320 votarono per rimanere a Bonn, la cittadina universitaria sul Reno, e 338 furono per il trasloco a Berlino. Fu uno sbaglio? Che sarebbe oggi la Germania se quei 18 fossero stati di altro avviso? Gli storici sostengono di odiare il «se», ma pochi resistono alla tentazione. Bonn è a un'ora d'auto da Bruxelles, a 4 da Parigi. Berlino si trova sul confine con la Polonia. La capitale provvisoria, piccola e pacifica, aveva cambiato l'immagine della Germania all'estero. Alla vigilia, alla Pressehaus, il palazzo della stampa, bussarono alla porta del mio ufficio i colleghi del Bonner Anzeiger, il giornale della capitale provvisoria. Era diventato per decenni il quotidiano tedesco più citato all'estero, per i suoi contatti con il mondo politico. Herr Kollege, mi chiesero, tu da che parte stai? Non per ipocrisia, o per amicizia, me la cavai da machiavellico italiano: Berlino diventi capitale, la sede del governo resti a Bonn. Trent'anni dopo, ne sono sempre convinto. Una soluzione quasi all'americana, Berlino come New York, Bonn come Washington. E citai Roma, rovinata dalla politica, ma ai tedeschi non piacciono i confronti con l'Italia. Fu un voto trasversale, gli Abgeordnete, i parlamentari, votarono secondo coscienza. Tutti sapevano che il renano Helmut Kohl, il Cancelliere della riunificazione, era contrario al trasloco. La prussiana Berlino è sempre stata poco amata dai tedeschi. Dalla fine della guerra, tutti avevano ribadito che prima o poi Berlino sarebbe tornata la capitale di una Germania unita, ma pochi credevano di poter vivere abbastanza per assistere all'evento. Quando cadde il Muro (9 novembre 1989), nessuno aveva un piano su cosa fare. E non tutti erano d'accordo sulla riunificazione, come il socialdemocratico Oskar Lafontaine, o lo scrittore Günter Grass. In quella storica seduta al Bundestag, se non ricordo male, furono rari gli interventi patriottici. Berlino era associata a Hitler e al nazismo, anche se in gran parte non è vero: la capitale era rossa e lo rimase, Adolf veniva dal sud. Chi votò per il trasloco, lo giustificò con motivi pratici: era necessario per unire il paese, diciamo per riguardo verso i 17 milioni di tedeschi dell'Est, e per far rinascere Berlino, una metropoli povera. Lo è ancor oggi, oltre il 20% dei berlinesi vive al di sotto della soglia di povertà. La politica economicamente rende poco, se non a quei pochi che vivono di politica. E gli ossis, come vengono chiamati i tedeschi della ex Ddr, si sentono sempre oppressi, poco rispettati, e votano a destra. Nella Haus der Geschichte, il museo della storia della Repubblica Federale, che si trova a Bonn, il passato della Germania Est è confinato in un'unica saletta. A Berlino hanno buttato giù il Palast der Republik, che era amato all'Est, un simbolo di identità, non solo del regime. Al suo posto hanno voluto ricreare il castello degli Hohenzollern, un falso storico. Lo ha ricostruito l'architetto italiano Franco Stella, e nessuno avrebbe potuto fare meglio, ha eseguito il compito affidatogli, ma oggi non si sa che farne, troppo piccolo o troppo grande. Berlino doveva diventare la capitale d'Europa, ma l'Urss è scomparsa, e gli affari si fanno altrove. Anche per lo shopping, i ricchi dell'Est volano direttamente a Parigi, o a Milano. Paradossalmente, Berlino è rinata perché era povera. Gli alloggi erano (e sono) i più economici in Germania, e italiani, spagnoli, svedesi hanno comprato casa a Berlino. Ma i berlinesi, sempre masochisti, adesso vorrebbero bandire stranieri e turisti. Il trasloco è stato costoso e lungo, si è concluso nel 1999, e cinque ministeri sono rimasti sul Reno. Bonn non è finita in miseria come si temeva, e Berlino è sempre una città in divenire, che è il suo fascino.
(ItaliaOggi, 22 luglio 2021)
I preservativi Fromm e i nazisti
Erano stati inventati da un ebreo. Vennero espropriati dal regime per una cifra risibile
Ancora dopo il '68. In farmacia in Germania si chiedeva discretamente «ein Frommie», un pacchetto di preservativi con i tradizionali colori giallo e rosso. Le generazioni passano, e i nomi scompaiono, ma sono sempre in vendita con il nome «Mapa». E' un paradosso del III Reich: i Fromm erano un'invenzione ebrea, un prodotto immorale che minava la società tedesca, e sabotava l'ordine di Hitler di produrre figli maschi per l'esercito che avrebbe conquistato il mondo, ma era un'azienda che guadagnava milioni di marchi, e la espropriarono. Una piccola storia nella grande storia raccontata dallo storico Gütz Galy con il giornalista Michael
Sontheimer nel saggio Fromm. Wie der jüdische Kondomfabrikant Julius F. unter die deutschen Raüber fiel, «Come il fabbricante ebreo di preservativi Julius F. cadde vittima dei predoni tedeschi» (Fischer Verlag; 224 pag.; 19,90 euro).
Julius Fromm era nato il 17 agosto del 1883 a Konin, una cittadina (oggi 75mila abitanti) nella Polonia centrale, all'epoca parte della Russia zarista. Entrambi i genitori erano ebrei, quando Julius aveva 10 anni decisero di trasferirsi a Berlino, dove speravano di ottenere condizioni di vita migliori. Trovarono lavoro in una fabbrica di sigarette, che venivano ancora rollate a mano, morirono giovani. Julius rimase orfano a 15 anni è dovette badare ai sei fratelli e sorelle. Riuscì a studiare chimica nei corsi serali.
I preservativi erano ancora simili a quelli usati dagli antichi romani, scomodi e poco sicuri. Si usava la vescica dei pesci, o gli intestini di pecora. Anche i primi in gomma vulcanizzata erano rudimentali e si rompevano facilmente. Nel 1912, il giovane polacco comincia a sperimentare una sua formula, crea i primi Fromm con il lattice. Durante la Grande Guerra si registra un'esplosione di malattie veneree, dilaga la sifilide. Nel 1916, Julius brevetta il suo Kondom, un anno dopo produce già 150mila pezzi al giorno, una confezione costa 72 centesimi. Nel 1920 ottiene la cittadinanza tedesca. I Fromm vengono brevettati in trenta paesi. Nel 1922, Julius possiede un'impresa internazionale, con succursali in Danimarca, Gran Bretgana, Polonia, Olanda.
La chiesa cattolica e quella luterana condannano Fromm, i suoi prodotti sono uno strumento di lussuria. I preservativi sono immorali anche per gli ebrei, ma Julius dà lavoro a centinaia di persone durante la crisi seguita alla guerra. Ed è anche uno psicologo: distribuisce gratuitamente migliaia di cartoncini su cui è scritto «Vorrei una scatola di Fromm», i timidi li possono comprare senza parlare. Nel 1928, Julius mette sul mercato il primo distributore automatico, e le vendite aumentano.
Arriva Hitler, Julius si illude di riuscire a continuare l'attività. Alcuni suoi direttori sono nazisti, nella pubblicità si ricorda che «i Fromm sono un prodotto di alta qualità tipicamente tedesca». Ma non basta. Nel 1936, la rivista Der Stürmer pubblica un violento attacco alla Fromm, impresa giudaica e immorale. Anche Julius non sfugge al processo di arianizzazione, gli ebrei sono costretti a cedere le loro imprese. Comprende che non può resistere a lungo, e trova un compratore che gli offe un buon prezzo, ma il regime interviene e gli impone di vendere alla baronessa Elisabeth von Epenstein, che &eagrave; una parente di Göring.
Il prezzo è imposto 116mila Reichsmark, neanche un decimo del valore dell'azienda, che ha un bilancio superiore ai due milioni di marchi all'anno. Julius cede e riesce a ottenere che la somma gli sia pagata in franchi svizzeri. La baronessa si sdebita regalando a Göring due castelli. Julius subito dopo ottiene di lasciare il Reich, andrà a Londra con la moglie e i tre figli. Anche la sua proprietà privata, la villa su un lago alla periferia di Berlino, quadri e mobili, viene messa all'asta per poche migliaia di marchi, benché valga oltre trenta milioni. La Fromm fu restituita alla famiglia dagli occupanti sovietici ma fu subito espropriata dal regime della Germania comunista. Julius Fromm morì per infarto il 12 maggio del '45. I figli raccontano che non gli resse il cuore per la gioia nell'apprendere la fine di Hitler.
(ItaliaOggi, 22 luglio 2021)
Siria: Israele colpisce ancora, per la seconda volta in una settimana
Le forze di difesa aerea siriana hanno riferito di aver respinto un attacco, presumibilmente condotto da Israele, contro Homs, nella Siria orientale.
L’annuncio, riportato dall’agenzia di stampa SANA, è giunto nella mattina di giovedì 22 luglio, con riferimento a un attacco perpetrato verso le ore 1:13. Stando a quanto dichiarato da fonti militari, i missili di Israele, provenienti dal Nord-Est di Beirut, miravano a colpire la zona di al-Qusayr, nella periferia di Homs. Ad ogni modo, le forze di Damasco sono riuscite ad abbattere la maggior parte dei missili “ostili” e, al momento, non sono state registrate vittime, ma soltanto danni materiali. La notizia è stata confermata anche dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani (SOHR), secondo cui l’obiettivo dei raid israeliani era rappresentato dalla base aerea di Sahyrat, situata nel Sud-Est di Homs, e dalle postazioni militari del gruppo sciita Hezbollah, nei pressi dell’aeroporto militare di al-Dabaa e di al-Qusayr, nella periferia Ovest di Homs. A detta del SOHR, i raid del 22 luglio hanno causato la distruzione di depositi di armi e munizioni. Come evidenziato, era stata proprio la zona di al-Qusayr ad essere teatro, nel 2013, di violente battaglie tra i gruppi dell’opposizione siriana ed Hezbollah, conclusesi, a giugno dello stesso anno, con la vittoria delle forze filogovernative, legate al presidente Bashar al-Assad.
Quello del 22 luglio costituisce il secondo attacco, attribuito al “nemico israeliano”, respinto nel corso dell’ultima settimana. Il primo risale alla tarda serata del 19 luglio. In tal caso, i raid sono stati lanciati contro la periferia Sud-Est di Aleppo, con l’obiettivo di colpire diverse postazioni nella regione di al-Safyrah, nella Siria Nord-occidentale. Oltre a danni materiali, il SOHR ha riferito che 5 combattenti, membri di milizie filoiraniane, sono stati uccisi. Secondo quanto monitorato dal medesimo Osservatorio, nei primi 200 giorni del 2021, sono stati almeno 14 gli attacchi aerei e missilistici presumibilmente condotti da Israele contro i territori siriani. Questi hanno provocato 104 morti, di cui almeno 5 civili e 38 uomini fedeli ad Assad e alle forze alleate. In totale, sono stati distrutti 41 obiettivi, tra cui edifici, depositi, basi e veicoli militari, situati perlopiù a Damasco, Quneitra, Homs, Hama, Deir Ezzor, Al-Suwaidaa, Latakia e Aleppo.
È dal 2011 che Israele è considerato l’autore di attacchi aerei in Siria, volti a prendere di mira i suoi principali nemici nella regione mediorientale, Iran ed Hezbollah in primis. Uno degli episodi del mese scorso risale al 17 giugno, quando Israele, a detta dell’esercito siriano, ha preso di mira una postazione presumibilmente appartenente ad Hezbollah, nella regione meridionale di Quneitra. Ancora prima, nella tarda serata dell’8 giugno, almeno 11 persone hanno perso la vita a seguito di un attacco attribuito a Israele contro postazioni delle forze siriane e dei suoi alleati. In particolare, i raid hanno colpito i dintorni della capitale Damasco, le province di Homs, Hama e Latakia, oltre al villaggio di Khirbet al-Tin, alla periferia di Homs, e a un deposito di armi appartenente ad Hezbollah.
Negli ultimi mesi, le operazioni attribuite a Israele hanno mirato a colpire soprattutto le milizie filoiraniane, stanziate nella Siria orientale, meridionale e Nord-occidentale, oltre che nei sobborghi intorno a Damasco. Tra gli attacchi più violenti del 2021 vi è quello del 13 gennaio, quando le forze aeree israeliane sono state accusate di aver perpetrato 18 raid aerei contro Deir Ezzor e al-Bukamal, nell’Est della Siria. In tale occasione, sono state provocate circa 57 vittime, tra cui almeno 10 tra le fila dell’esercito di Damasco, mentre gli altri individui deceduti appartenevano ai gruppi armati legati all’Iran, ad Hezbollah e alla Brigata Fatemiyoun, una milizia sciita afgana formata nel 2014 per combattere in Siria.
Oltre all’Iran, nel mirino israeliano vi sono altresì i gruppi palestinesi e l’organizzazione paramilitare libanese Hezbollah, considerati un pericolo per l’integrità dei propri confini territoriali. A detta di Israele, Teheran starebbe provando a intensificare la propria presenza in Siria, creando una base permanente, sebbene le operazioni israeliane abbiano contribuito a limitare l’influenza del nemico iraniano. Inoltre, fonti di intelligence regionali hanno dichiarato che i gruppi armati filoiraniani, tra cui le Quds Force, hanno rafforzato la propria presenza nei dintorni di Sayeda Zainab, nel Sud di Damasco, dove si pensa siano state create diverse basi sotterranee. Funzionari militari siriani e dell’intelligence occidentale hanno poi affermato che in cima alla lista dei target di Israele vi sono le infrastrutture che potrebbero consentire all’Iran di produrre missili a guida di precisione sul territorio siriano, erodendo il vantaggio militare regionale di Israele.
(Sicurezza Internazionale, 22 luglio 2021)
Israele, sistema Kaftor Baby: mai più bambini dimenticati in auto
Il Ministero dei Trasporti ha annunciato che dal 1° agosto entrerà in vigore in Israele una nuova normativa, che prevede l’utilizzo del sistema Kaftor Baby i2/4 su tutte le auto che trasportano bambini di età inferiore a quattro anni, allo scopo di evitare di dimenticare i più piccoli al loro interno. Lo riporta il Jpost.
Il sistema utilizza un modem cellulare, collegato fino a quattro sensori installati sotto il seggiolino o sotto il sedile, che calcolano il peso del carico.
Nel momento in cui viene spento il motore, se il dispositivo rileva il peso all’interno del seggiolino, emette segnali acustici ripetuti.
Nel caso in cui, dopo due minuti, identifica ancora la presenza del bambino, il modem invierà una chiamata ai cellulari registrati nel sistema. Senza alcuna risposta da parte del genitore o della persona responsabile, la tecnologia eCall avviserà immediatamente le unità di soccorso, fornendo l’esatta posizione del veicolo.
Il sistema è collegato al centro d’emergenza H24, 7 giorni su 7. L’obiettivo principale del dispositivo è quello di salvaguardare i più piccoli, ma può essere utilizzato per altri problemi di immediato soccorso come piccoli incidenti o malore del conducente.
Il portavoce della società Kaftor ha affermato di essere grato al Ministero dei Trasporti, per aver compiuto questo importante passo verso un “fenomeno così preoccupante”, come dimenticarsi i bambini nelle auto.
“Il sistema, che stiamo commercializzando, offre sicurezza e rassicurazione alla persona che conduce l’automobile e alla sua famiglia, consapevoli che c’è qualcuno che li accompagna da lontano, che li controlla in strada e sa come gestire qualsiasi evenienza in caso di necessità” ha spiegato il portavoce.
(Shalom, 22 luglio 2021)
Israele addestra l’Italia all’utilizzo dei droni killer
di Antonio Mazzeo*
Due settimane di super addestramento in Israele per l’Aeronautica Militare italiana utilizzando i più moderni e famigerati droni da guerra. Il 12 luglio ha preso il via nella base aerea e missilistica di Palmachim, nei pressi della città israeliana di Rishon LeZion, a sud di Tel Aviv, l’esercitazione “Blue Guardian”, presentata con enfasi dall’Israeli Air Force (IAF) come la “prima attività addestrativa internazionale al mondo con i velivoli a pilotaggio remoto”. Ai war games con i droni, oltre ai reparti specializzati dell’Aeronautica israeliana, partecipano pure quelli di Stati Uniti, Francia, Germania, Regno Unito e Italia. Il ministero della Difesa italiano ha mantenuto sino ad oggi il più stretto riserbo sull’imbarazzante missione addestrativa in Israele, ma è più che presumibile che a Palmachim siano stati schierati gli uomini e i velivoli senza pilota del 32° Stormo dell’Aeronautica militare di stanza nella base di Amendola (Foggia), che aspira a trasformarsi in uno dei principali centri di formazione dei piloti di droni in ambito NATO ed extra-NATO.
“ La storica esercitazione di 15 giorni consentirà di migliorare gli apprendimenti tra le nazioni partecipanti e ad aprire la strada verso una futura cooperazione nel rivoluzionario settore dei velivoli a pilotaggio remoto”, riporta la nota emessa dall’Israeli Air Force. Secondo il generale Amikam Norkin, comandante in capo dell’Aeronautica, “Blue Gardian” ha un valore di grande importanza strategica per lo Stato di Israele. “Siamo pionieri nel campo dei droni e siamo considerati un leader mondiale nello sviluppo delle tecnologie relative”, ha dichiarato il generale Norkin. “Queste caratteristiche, congiuntamente alle centinaia di ore di volo che abbiamo effettuato nelle ultime due decadi e all’alta competenza dei nostri operatori, spiegano la pronta favorevole risposta che abbiamo ottenuto dai paesi che avevamo invitato a prendere parte a questa esercitazione”.
Gli obiettivi chiave dei war games sono stati illustrati dal comando del 166° Squadrone dell’Aeronautica israeliana, preposto all’organizzazione e al coordinamento di “Blue Gardian”. “Innanzitutto puntiamo a rafforzare la partnership tra Israele e i cinque paesi partecipanti, cosa che ha una valenza significativa per la sicurezza del nostro paese”, spiegano i militari del 166° Squadrone, non a caso denominato “Fire Birds” (uccelli di fuoco) proprio perché preposto all’uso dei più sofisticati droni killer. “Abbiamo creato una serie di scenari aerei reali per permettere un addestramento di alta qualità durante l’intera esercitazione. Inoltre, vogliamo enfatizzare l’interconnessione personale con le nostre controparti, fornendo ai nostri alleati una sensazione di comfort e sicurezza mentre loro si adattano alle nostre necessità. Infine, puntiamo ad illustrare gli alti standard manifestati dal personale dell’Israeli Air Force e soprattutto l’impegno, la professionalità e la precisione nello svolgimento delle missioni aeree”. Sempre secondo il Comando del Fire Birds Squadron, nel corso di “Blue Gardian” saranno utilizzati in particolare i due gioielli di morte dell’arsenale dei velivoli senza pilota israeliani, gli Hermes 900 (nome in codice Kochav) e gli Hermes 450 (Zik), progettati e realizzati da Elbit Systems Ltd, holding con quartier generale ad Haifa e filiali in diversi paesi, leader nella produzione di droni militari, sistemi informatici, telecomunicazione, comando, controllo e intelligence e per le cyber war. “Nel corso dell’esercitazione, per la prima volta nella storia – precisa IAF – gli equipaggi stranieri saranno impiegati al controllo del volo di un Hermes 450, insieme agli operatori dello squadrone droni israeliano, simulando una serie di differenti scenari operativi, dall’assistenza alle forze terrestri, alle missioni di raccolta dati d’intelligence e alla cooperazione con altre forze aeree”.
Ancora più complessi gli scenari previsti nella seconda settimana di esercitazione. In particolare saranno simulate vere e proprie attività di combattimento tra i differenti reparti aerei partecipanti e saranno effettuati voli congiunti dei droni in appoggio ai cacciabombardieri e alle divisioni elicotteri israeliani. “Il processo di pianificazione delle attività sarà appannaggio di un differente paese ogni giorno, così da dare a tutti gli equipaggi un’unica opportunità per familiarizzare e conoscere le differenti modalità di conduzione delle missioni aeree”, conclude l’Israeli Air Force.
Per il complesso militare industriale israeliano, “Blue Guardian” è una ghiotta occasione per sponsorizzare tra gli ufficiali delle forze aeree di USA, Francia, Germania, Regno Unito e Italia, i due modelli di droni più utilizzati nelle ultime operazioni di guerra in Medio Oriente. Gli Hermes 450 e 900 sono infatti velivoli a pilotaggio remoto multimissione: possono essere utilizzati sia come aerei spia per la raccolta dati d’intelligence e l’individuazione degli obiettivi, sia come droni d’attacco con il lancio di missili aria-terra e aria-nave. Le due versioni variano secondo le ore di volo che possono effettuare (17 per l’Hermes 450 e 30 ore per l’Hermes 900) e per l’altitudine che possono raggiungere (da 18.000 a 30.000 piedi). L’Hermes 450 è stato impiegato operativamente per la prima volta durante l’assalto israeliano del 2008-2009 contro la popolazione della Striscia di Gaza; questi velivoli senza pilota di Elbit Systems sono stati anche usati in Libano nel 2006, causando la morte di diversi civili, inclusi operatori della Croce Rossa. Il battesimo di fuoco dell’Hermes 900 risale invece all’Operazione “Margine Protettivo” contro Gaza dell’estate 2014: un drone è stato coinvolto nell’uccisione di quattro ragazzi che stavano giocando in una spiaggia, il 16 agosto 2014.
“ Blue Gardian” si svolge a meno di due mesi da un’altra importantissima esercitazione che ha visto protagoniste le forze aeree e navali di Israele, Stati Uniti, Regno Unito e Italia, “Falcon Strike 21”, in una vasta area in territorio italiano che ha compreso i poligoni della Sardegna, il mar Tirreno, Campania, Basilicata, Calabria, Sicilia, l’isola di Pantelleria, il Golfo di Taranto, il Mar Ionio e il Mediterraneo centrale. Secondo la nota emessa dal Pentagono, “Falcon Strike” ha rappresentato “un test strategico per i nuovi cacciabombardieri F-35 in dotazione alle aeronautiche dei quattro paesi partecipanti per accrescere il livello di cooperazione e l’interoperabilità durante le operazioni congiunte”. All’esercitazione hanno partecipato oltre 50 velivoli tra caccia, aerei da trasporto e rifornimento ed elicotteri pesanti, e circa seicento militari sotto il controllo del Comando Operazioni aerospaziali di Poggio Renatico (Ferrara). Lunghissima e assai significativa la lista dei mezzi impiegati. Per l’Italia si è trattato dei velivoli F-35A, F-35B e dei droni “Predator” del 32° Stormo di Amendola; dei cacciabombardieri F-2000 “Typhoon” del 36° Stormo di Gioia del Colle e del 37° di Trapani-Birgi; dei “Tornado” del 6° Stormo di Ghedi; degli AMX e dei “Typhoon” del 51° Stormo di Istrana; dei caccia addestratori T-346A del 61° Stormo di Galatina (Lecce); dei velivoli tanker KC-767A e di un aereo da ricognizione di produzione israeliana Gulfstream “Eitam” del 14° Stormo di Pratica di Mare. Per l’US Air Force i nuovi caccia F-35A e sei F-16C a capacità nucleare del 555th Fighter Squadron di Aviano (Pordenone); un aereo da rifornimento britannico Voyager A330 e, per l’aeronautica israeliana, sei caccia F-35, un aereo-spia Gulfstream “Etam” e due aerei da rifornimento Boeing “Re’em”. “L’esercitazione ha avuto quale base principale di rischieramento Amendola, ma ha visto al contempo coinvolte altre basi in funzione di supporto, tra cui quella di Trapani e del Reparto di Standardizzazione e Tiro Aereo di Decimomannu, in Sardegna”, ha spiegato l’ufficio stampa del Ministero della difesa. “Gli scenari esercitativi sono stati creati per offrire agli equipaggi di volo un contesto complesso in cui potersi addestrare in varie tipologie di missioni, tra cui l’interdizione aerea con gestione strategica e tattica, il supporto alle forze speciali a terra, le operazioni di targeting dinamico”. Tra le attività di particolare rilevanza anche quelle relative alla “guerra elettronica”, protagonisti il centro di comando e controllo radar del 2° Stormo di Rivolto (Udine) e una componente del sistema di “difesa” contraerea SAMP-T dell’Esercito, congiuntamente ai reparti e ai velivoli d’intelligence israeliani.
Un’estate nel segno dunque della sempre più stretta cooperazione militare, industriale e strategica tra Israele, l’Italia e alcuni dei paesi leader dell’Alleanza Atlantica, protagonisti i costosissimi cacciabombardieri (a capacità nucleare) di quinta generazione prodotti da Lockheed Martin e i droni lanciamissili di Elbit Systems Ltd. E all’orizzonte sempre più affari miliardari per i produttori e i mercanti di morte sulla pelle – da subito – di migliaia e migliaia di innocenti in Africa e Medio Oriente.
* Antonio Mazzeo è un giornalista ecopacifista e antimilitarista che scrive della militarizzazione del territorio e della tutela dei diritti umani.
(Pagine Esteri, 22 luglio 2021)
Diplomazia Pegasus
Lo spyware era "il giocattolo che tutti volevano", adesso è un problema politico serio.
di Daniele Raineri.
ROMA - Due giorni fa il governo di Israele ha creato una squadra per gestire l'impatto molto dannoso del caso Pegasus, lo spyware creato da un'azienda privata israeliana - la Nso e venduto anche a regimi che l'hanno usato per operazioni illegali. Pegasus ora è un problema diplomatico perché la Nso lo vende ad altre nazioni grazie a una licenza gestita dal governo israeliano, che può autorizzare oppure bloccare il contratto considerata la pericolosità del software. In questi anni Pegasus era diventato "il giocattolo che tutti volevano" - definizione di un esperto anonimo sentito dal Financial Times e quindi era nata una "diplomazia Pegasus" che ruotava attorno alla concessione dello spyware. E questa diplomazia precedeva di molto le relazioni diplomatiche ufficiali. L'Arabia Saudita non ha contatti pubblici con Israele ma ha comprato Pegasus nel 2017 e questo lascia supporre che qualche conversazione ad alto livello ci sia stata. Lo stesso vale per gli Emirati Arabi Uniti e per il Marocco, che hanno firmato un patto di "normalizzazione" con Israele soltanto l'anno scorso. La lista dei numeri forse colpiti dallo spyware non include bersagli negli Stati Uniti, come se godessero di un'immunità decisa per ragioni di opportunità politica (a parte, forse, Jeff Bezos, fondatore di Amazon). Altri esempi: il governo indiano e quello ungherese hanno ottime relazioni con Israele e sono clienti di Nso.
Pegasus valeva l'attenzione e i negoziati sottobanco. In questi giorni si è scoperto che riesce a infettare un telefono non soltanto con il metodo del link-trappola (clicchi su un link e apri la porta allo spyware) ma anche sfruttando delle vulnerabilità "zero-click": vale a dire che non c'è più bisogno di cliccare su un link, lo spyware riesce a entrare e a installarsi nel telefono senza che il proprietario faccia nulla - o si accorga di nulla. I ricercatori del CitizenLab dell'università di Toronto, che sono all'avanguardia nell'inchiesta, hanno scoperto che la falla zero-click funziona anche con l'ultimo sistema operativo IOS dei telefoni Apple, quindi anche il 14.7, l'aggiornamento più recente.
La "diplomazia Pegasus" domenica si è rotta perché sedici testate internazionali hanno pubblicato articoli basati su una lista che contiene cinquantamila numeri di telefono che - si sostiene - sono quelli dei bersagli dello spyware. La Nso risponde che la lista è falsa. Nessuno chiarisce da dove salta fuori. Si, sa, per ora, che i ricercatori sono riusciti ad associare alcuni numeri di telefono a persone reali e importanti - come il presidente francese Emmanuel Macron - ma hanno controllato soltanto 64 telefoni e hanno trovato tracce del passaggio di Pegasus su 37. C'è una peculiarità: la lista conserva i metadati di quando un numero è stato aggiunto -vale a dire che si capisce quando qualcuno ha deciso di usare Pegasus contro una persona specifica. La fidanzata del saudita Jamal Khashoggi (un caso grave di omicidio internazionale a Istanbul) è finita sulla lista pochi giorni dopo l'uccisione di lui. E quando nel 2018 la principessa Latifa tentò di fuggire dal padre, il potentissimo primo ministro degli Emirati Sheikh Mohammed bin Rashid al Maktoum, i numeri di telefono dei suoi amici apparvero sulla lista. Lei si era sbarazzata, come ovvia misura di cautela, del telefonino, ma i soldati emiratini abbordarono con precisione la nave che la portava di nascosto verso una nuova vita e la riportarono negli Emirati.
(Il Foglio, 22 luglio 2021)
Ora è il momento della Legge del Ritorno degli Ebrei Italiani
Passò più di un decennio quando il rabbino Stephen Lyon, rabbino della tribù Bnei Anusim nel sud-ovest americano, presentò alla Conferenza del Movimento Conservatore una risoluzione che avrebbe avuto un impatto duraturo sull’ebraismo in tutto il mondo. Il rabbino Leon credeva che l’ebraismo tradizionale avesse l’obbligo di accogliere i discendenti degli ebrei spagnoli che avevano subito persecuzioni durante l’Inquisizione.
A quel tempo, nessuno avrebbe potuto prevedere la piega degli eventi che la decisione del rabbino Leon avrebbe determinato. Infatti, appena sei anni dopo, nel 2015, Spagna e Portogallo hanno approvato leggi che consentono ai discendenti di ebrei sefarditi esiliati di ottenere la cittadinanza, riconoscendo finalmente l’enorme danno sociale ed economico che l’espulsione aveva inflitto alla vita dei loro connazionali ebrei....
(La Tribuna Sammarinese, 22 luglio 2021)
Ben&Jerry's con i palestinesi: scatta il boicottaggio dei gelati contro Israele
Il colosso americano della Unilever interromperà la vendita nei Territori Occupati. Il premier Bennett: "Una decisione immorale".
di Sharon Nizza
TEL AVIV - Il colosso americano del gelato Ben&Jerry's ha annunciato lunedì che la vendita dei suoi prodotti nei "Territori Palestinesi Occupati è un atto incoerente con i nostri valori", e pertanto verrà terminata, come spiegato in un comunicato diffuso tramite Twitter.
L'annuncio della società con sede nel Vermont ha suscitato una scia di reazioni di condanna da parte dell'establishment politico israeliano. Il primo ministro Naftali Bennett, l'ha definita "una decisione immorale, che si rivelerà anche un errore commerciale. Di gelati ce ne sono tanti, di Stato ne abbiamo solo uno". "Una vergognosa resa all'antisemitismo, al Bds (il movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni, ndr) su cui non taceremo", ha dichiarato il ministro degli Esteri e premier alternato Yair Lapid.
L'ambasciatore d'Israele alle Nazioni Unite, Gilad Erdan, ha inviato una lettera ai governatori di 35 Stati americani che hanno approvato leggi contro il Bds, chiedendo di prendere misure contro il provvedimento della Ben&Jerry's.
La società, fondata negli anni '70 dagli imprenditori ebrei Ben Cohen e Jerry Greenfield (che nel 2000 hanno venduto il marchio alla multinazionale Unilever) è nota per sostenere attivamente battaglie politiche e sociali. Negli ultimi anni ha messo sul mercato nuove confezioni con slogan a sostegno del movimento Black Lives Matter e dei matrimoni omosessuali. Nel 2016 aveva rilasciato un nuovo gusto in omaggio a Bernie Sanders, senatore per il Vermont e candidato alle primarie democratiche.
La decisione della società arriva dopo anni di pressioni da parte del movimento Bds che ha raggiunto l'apice a maggio durante l'ultimo conflitto tra Israele e Hamas. Prima del comunicato diffuso ieri, l'ultimo tweet della società risale infatti al 18 maggio, nel pieno del conflitto. Il post, dedicato alla commercializzazione di un nuovo gusto, era stato preso di mira dagli attivisti Bds per chiedere una presa di posizione contro Israele.
I gelati Ben&Jerry's, estremamente popolari in Israele, sono prodotti da una concessionaria locale con sede nel Negev. Nei primi momenti dopo l'annuncio, diverse personalità israeliane (tra cui la ministra dell'Economia Orna Barbivai) hanno diffuso sui social video in cui liberavano i propri freezer dalle confezioni di gelato diventate controverse. Ma Avi Zinger, il proprietario della fabbrica israeliana, è intervenuto nella polemica spiegando che allo stato attuale, i primi a pagare le conseguenze di un controboicottaggio sarebbero le centinaia di impiegati della sede locale. Zinger ha spiegato alla stampa israeliana di non essere stato allertato dalla casa madre prima della diffusione del comunicato, ma che la decisione era nell'aria in quanto erano anni che veniva discussa la questione, mentre Zinger si rifiutava categoricamente di limitare la commercializzazione dei prodotti aldilà della Linea Verde che demarca il confine con la Cisgiordania, dove vive oggi quasi mezzo milione di israeliani in insediamenti che la comunità internazionale considera illegali. La soluzione scelta dalla società è stata di non rinnovare la licenza della concessionaria locale, che però scadrà solo a fine 2022. Fino ad allora, non è chiaro se vi saranno limitazioni alla vendita dei prodotti, che la stessa azienda israeliana distribuisce peraltro anche a favore dei clienti palestinesi.
Sostegno alla decisione arriva da diverse organizzazioni pacifiste israeliane, tra cui Peace Now che ha dichiarato che "le compagnie internazionali sono interessate a fare affari con lo Stato di Israele, ma non sono disposte a sopportare il continuo controllo militare su milioni di palestinesi".
Anche diversi parlamentari del Meretz - oggi parte del governo che ha sostituito Netanyhau il mese scorso - hanno espresso sostegno per la decisione, mettendo in evidenza l'ampia gamma di opinioni che forma la nuova maggioranza. Tuttavia, il leader di Meretz nonché ministro della Salute, Nitzan Horowitz, si è detto contrario a iniziative di boicottaggio di ogni genere, sostenendo però che "Israele deve prendere in mano l'iniziativa per fare ripartire il processo di pace".
Gli oppositori del movimento Bds sostengono che, nel suo indirizzare unicamente la realtà degli insediamenti israeliani rispetto ad altre controversie territoriali nel mondo, esso si macchi di doppio standard e antisemitismo.
Già in passato il movimento per il Bds aveva registrato alcune vittorie importanti, tra cui la chiusura della fabbrica Soda Stream a Mishor Adumim, nei Territori C in Cisgiordania (i territori che, secondo gli Accordi di Oslo, ricadono sotto l'amministrazione israeliana). La fabbrica ha riaperto successivamente nel deserto del Negev. Secondo altre opinioni, le battaglie del movimento Bds sarebbero controproducenti per i palestinesi stessi. Nel caso della chiusura della fabbrica Soda Steam, metà degli impiegati erano palestinesi che persero il proprio lavoro.
Molti in Israele credono che non sia ancora detta l'ultima parola per l'amato gelato, e sperano nel precedente del 2018: allora Airbnb aveva annunciato che avrebbe interrotto la pubblicità di proprietà negli insediamenti israeliani. Ma, dopo mesi di pressioni e discussioni da parte delle autorità israeliane, la società aveva revocato la decisione.
(la Repubblica online, 21 luglio 2021)
Covid Israele, aumentano le restrizioni e le multe
Dalla mezzanotte di martedì in Israele sono scattate altre restrizioni che limitano l’accesso ai grandi eventi al chiuso e introducono multe per coloro che violano le regole sanitarie, a causa della crescente ondata di contagi, come riporta il Times of Israel. È ripristinato il Green Pass per gli eventi indoor con più di cento persone. L’accesso è limitato ai vaccinati, ai guariti dal Covid e a chi è negativo al test PCR effettuato 72 ore prima dall’evento o al test rapido entro le 24 ore precedenti. È obbligatorio l’uso della mascherina, tranne ai pasti. I locali devono avere un servizio di sorveglianza che garantisca il rispetto delle norme e sono tenuti a dare indicazioni, che stanno operando secondo le regole del Green Pass. In caso contrario prenderanno una multa di 3mila NIS (770 €). Anche i partecipanti che violano le regole saranno multati di 1.000 NIS (260 €) e i gestori dei locali andranno incontro ad una multa di 10mila NIS (2.600 €), per non aver effettuato le opportune verifiche. Le regole si estendono anche alle attività commerciali, negozi e ristoranti, in cui obbligatorio l’uso della mascherina. I trasgressori saranno multati di 1.000 NIS (260 €). Con il sostegno del Ministero della Pubblica Sicurezza, la polizia effettuerà i controlli coordinati con gli ispettori delle autorità locali. Il comune di Gerusalemme ha annunciato che a partire dalla prossima settimana gli ispettori inizieranno a far rispettare l’uso della mascherina nei luoghi al chiuso, come ordinato dai funzionari sanitari. "Sebbene a Gerusalemme il numero di malati sia limitato, per mantenerlo basso e lasciare Gerusalemme in fascia verde, dobbiamo seguire le linee guida e assicurarci che tutti indossino la mascherina - ha detto in una nota il sindaco di Gerusalemme Moshe Lion - In questo momento dobbiamo agire in modo responsabile e obbedire alle linee di riferimento". Il Brig. Gen. Amos Ben-Avraham, nominato commissario responsabile delle misure di sicurezza anti Covid, coordinerà le attività tra polizia, autorità locali e aeroportuali. Le nuove norme sono state messe a punto la scorsa settimana dal Primo ministro Naftali Bennett, dal ministro dell'Economia Orna Barbivai e dal ministro della Sanità Nitzan Horowitz e approvate dal gabinetto ministeriale per il Covid. Israele ha visto aumentare drasticamente i contagi nell'ultimo mese, dopo aver quasi debellato la malattia e rimosso quasi tutte le restrizioni a maggio e giugno scorsi. I funzionari sanitari hanno collegato il recente picco di infezioni ai viaggiatori che hanno portato nuove varianti del virus dall'estero e non hanno rispettato la quarantena dopo il loro arrivo. La recrudescenza del Covid è stata in gran parte attribuita alla diffusione della variante Delta, che è stata rilevata per la prima volta in India e si ritiene sia due volte più contagiosa. Secondo i dati del Ministero della Salute, dall'inizio della pandemia i contagiati da COVID-19 in Israele sono stati 854.981 e i decessi 6.452.
(Shalom, 21 luglio 2021)
Il gelato «Ben e Jerry's» boicotta Israele. E Gerusalemme: «Inaccettabile»
di Chiara Clausi.
Ben e Jerry's, il fornitore di gelati famoso per aver preso posizione su questioni sociali scottanti, ha annunciato la fine delle vendite nei Territori occupati. L'azienda entra così in uno dei dibattiti più controversi. «Riteniamo che sia incoerente con i nostri valori che il gelato di Ben e Jerry's venga venduto nei Territori palestinesi occupati», si legge in una nota. La società ha cavalcato molti temi di politica nel corso degli anni. Ha abbracciato Black Lives Matter, le questioni sulla crisi climatica, i movimenti di riforma della giustizia penale e ora dà sostegno al movimento di Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds), che cerca di esercitare pressioni economiche e politiche su Israele per conto dei palestinesi. La società britannico-olandese Unilever ha acquisito Ben e Jerry's nel 2000, a condizione di concedere alla gelatiera del Vermont una maggiore autonomia per preservare la «cultura e la missione sociale» dell'azienda. Ma la società ha subito precisato che non stava boicottando il Paese nel suo insieme. «Rimarremo in Israele», ha detto. Semplicemente si ritira dal mercato in Cisgiordania. Circa 700mila israeliani vivono infatti negli insediamenti, costruiti su terreni conquistati da Israele durante la guerra del 1967. L'annuncio però è stato accolto con rabbia da molti importanti israeliani, che hanno esortato le persone a smettere di fare scorta di Chubby Hubby, Cherry Garcia o di altri gusti di Ben e Jerry's. «Ora noi israeliani sappiamo quale gelato non comprare», ha twittato l'ex primo ministro Benjamin Netanyahu, leader dell'opposizione. L'attuale primo ministro, Naftali Bennett, ha definito la decisione dell'azienda «moralmente sbagliata» e ha dichiarato: «Ben e Jerry's ha deciso di etichettarsi come il gelato anti-israeliano». E ha avvertito Unilever, che ci sarebbero state conseguenze. Anche il ministro degli esteri israeliano Yair Lapid ha definito la mossa una «vergognosa capitolazione» all'antisemitismo. «Accogliamo calorosamente la decisione, ma chiediamo a Ben e Jerry's di porre fine a tutte le operazioni nell'apartheid israeliano», ha affermato invece in un post su Twitter il movimento Bds. Ha poi applaudito alla decisione: è stato fatto «un passo decisivo verso la fine della complicità nei confronti dell'occupazione israeliana e delle violazioni dei diritti dei palestinesi», ma ha invitato a fare di più. Il ritiro di Ben e Jerry's dai Territori occupati non avrà effetto immediato, poiché il suo attuale contratto con l'azienda che produce il suo gelato in Israele scade alla fine del prossimo anno. Mentre Ben e Jerry's Israel, si è presto dissociato. «Continueremo a vendere in tutto lo Stato ebraico: non permettete che Israele venga boicottato».
(il Giornale, 21 luglio 2021)
L’importatore israeliano non ha fatto propria l’imposizione della casa madre di non vendere nei territori di Giudea e Samaria e, fino alla fine della (che scadrà nel 2022), continuerà a fornire i gelati ovunque. Nel frattempo, grazie a questa decisione, le vendite sono salite moltissimo fin dal primo giorno, e i dipendenti, che temevano di perdere il lavoro, sono invece impegnatissimi a fornire le richieste di gelati (comunque made in Israel). Emanuel Segre Amar
Bennett mette in guardia Unilever sulle “serie conseguenze” della decisione di Ben & Jerry
di Felipa Santos
GERUSALEMME – Israele ha avvertito il colosso dei beni di consumo Unilever Plc (ULVR.L) Martedì, la società ha avvertito delle “gravi conseguenze” della decisione della sua controllata Ben & Jerry di interromere la vendita di gelati nei territori occupati da Israele e ha esortato gli Stati Uniti a emanare leggi anti-boicottaggio. L’annuncio di Ben & Jerry lunedì è arrivato sulla scia della pressione pro-palestinese sulla South Burlington Company con sede nel Vermont sui suoi affari in Israele e sugli insediamenti ebraici in Cisgiordania, che opera attraverso un partner autorizzato dal 1987. Ben & Jerry’s ha detto che non rinnoverà la licenza alla scadenza alla fine del prossimo anno. Ha detto che sarebbe rimasto in Israele con un accordo diverso, senza vendere in Cisgiordania, tra le aree in cui i palestinesi cercano di stabilire uno stato. Leggi di più La maggior parte delle potenze mondiali considera illegali gli insediamenti israeliani. Si oppone a questo, citando connessioni storiche e di sicurezza con la terra, e si è mossa per sanzionare misure anti-insediamento secondo la legge israeliana, garantendo allo stesso tempo protezioni legali simili in alcuni stati degli Stati Uniti. L’ufficio del primo ministro israeliano Naftali Bennett ha dichiarato di aver parlato con l’amministratore delegato di Unilever, Alan Job, della “palese azione anti-israeliana” del gelataio. “Dal punto di vista di Israele, questa azione ha gravi conseguenze, legali e non, e agirà con forza contro qualsiasi misura di boicottaggio contro i civili”, ha detto Bennett a Job, secondo la dichiarazione rilasciata dal suo ufficio. La britannica Unilever non ha risposto immediatamente alla richiesta di commento di Reuters. Gilad Erdan, ambasciatore di Israele a Washington, ha affermato di aver sollevato la decisione di Ben & Jerry in una lettera inviata a 35 governatori statunitensi i cui stati hanno approvato una legislazione contro il boicottaggio di Israele. “Devono essere intraprese azioni rapide e decisive per contrastare tali misure discriminatorie e antisemite”, si legge nella lettera, twittata dall’inviato, che ha paragonato la questione all’annuncio di Airbnb del 2018 che avrebbe rimosso le proprietà in affitto negli insediamenti. Airbnb ha annullato tale decisione nel 2019 dopo le sfide legali negli Stati Uniti, ma ha affermato che avrebbe donato i profitti delle prenotazioni negli insediamenti a cause umanitarie. I palestinesi hanno accolto con favore l’annuncio di Ben & Jerry. Vogliono la Cisgiordania, Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza per un futuro stato. Israele considera tutta Gerusalemme la sua capitale, uno status non riconosciuto a livello internazionale.
(Reuters, 20 luglio 2021)
Capo di Stato maggiore Idf: risponderemo a lanci di razzi sul nostro territorio
GERUSALEMME- Le Forze di difesa israeliane (Idf) risponderanno al lancio di razzi avvenuto questa mattina dal Libano verso il territorio d’Israele. Lo ha detto il capo di Stato maggiore delle forze armate dello Stato ebraico, generale Aviv Kochavi, ripreso dall’emittente “Ynet”. “Il Libano sta collassando, un processo esacerbato da Hezbollah”, ha detto il generale, riferendosi al movimento sciita libanese. “Non intendiamo lasciare che il collasso risulti in un lancio di razzi come quello che ha avuto luogo martedì mattina”, ha aggiunto il comandante. “Risponderemo, apertamente o non, o in entrambi i modi, a qualsiasi violazione della sovranità da parte del Libano, chiunque l’abbia commessa”, ha proseguito Kochavi.
(Agenzia Nova, 20 luglio 2021)
Miss Universo si terrà in Israele a dicembre, è la prima volta
Il concorso arriva alla sua 70/ma edizione
GERUSALEMME - Israele ospiterà per la prima volta nella sua storia il concorso di bellezza Miss Universo la cui prossima edizione, la 70/ma, si terrà a dicembre nella città costiera di Eilat, nel sud di Israele. Lo ha annunciato oggi il ministro israeliano del Turismo, Yoel Razvozov. "In Israele siamo contentissimi", ha detto il ministro in un videomessaggio, "spero sinceramente che a dicembre celebreremo non solo la nuova Miss Universo qui in Israele, ma soprattutto la fine della pandemia".
L'edizione 2020 di Miss Universo era stata annullata a causa della crisi sanitaria. Poi si è tenuta nei mesi scorsi negli Stati Uniti.
(ANSA, 20 luglio 2021)
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“Niente fondi nelle mani di Hamas”
La Viceministra Sereni alla Commissione Esteri del Senato Lo ha detto chiaramente la Viceministra agli Esteri Marina Sereni, prima a Shalom, e poi oggi alla Commissione Esteri del Senato: nessun fondo, nessun contributo, finirà nelle mani di Hamas. Al ritorno dalla sua missione in Israele e nei territori contesi, la Viceministra ascoltata dalla Commissione riferisce: “Ho evidenziato ai miei interlocutori come la ricostruzione debba necessariamente conciliarsi con le garanzie di sicurezza di Israele, motivo per cui l’Italia vigilerà attentamente affinché i fondi non contribuiscano a ricostituire le capacità militari di Hamas”. “Anche in questa ottica - ha aggiunto Sereni - sono allo studio meccanismi di supervisione e controllo per la gestione diretta dei contributi, mentre la comunità internazionale sta lavorando all'ipotesi di una Conferenza dei donatori da tenersi a settembre nel segmento ministeriale dell’Ad hoc liaison committee, a margine dell’assemblea generale delle Nazioni Unite”. Per Sereni è inoltre “indispensabile lavorare per migliorare le condizioni di vita della popolazione araba residente. Ho personalmente ribadito tale auspicio a tutti gli esponenti del nuovo esecutivo israeliano che ho avuto modo di incontrare nel corso della mia visita”. Per la viceministra occorre poi “migliorare in maniera netta le condizioni di vita dei palestinesi, sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza. Nell'immediato, in particolare a Gaza, questo significa consentire l'accesso umanitario e mobilitare un sistema internazionale di assistenza per l'emergenza e di sostegno per la ricostruzione e lo sviluppo socio-economico”.
(Shalom, 20 luglio 2021)
Pegasus, riparare i cellulari da remoto: così è nato il software israeliano che piace alle spie
La storia di Shalev e Omri, fondatori della Nso, la società che diffonde il programma sotto accusa
GERUSALEMME - Dagli anni del liceo ad Haifa — diploma in teatro — si era portato negli Stati Uniti la parlantina e la capacità di convincere «anziane signore a comprare le creme ai sali del Mar Morto», ha raccontato in una intervista. A Shalev Hulio non bastava fare il banditore nei centri commerciali americani, sperava in un’idea d’oro, di quelle che rendono milionari. In un bar di Haifa — dov’è nato e cresciuto — immagina con l’amico d’infanzia Omri Lavie di creare una società per vendere i prodotti che gli spettatori vedono passare nelle serie televisive, usano come esempio Sex and the City. Non funziona.
Il secondo tentativo funziona anche troppo. Loro stessi ammettono di non aver capito da subito le potenzialità di quella trovata. Nel 2008 i telefonini sono ormai nelle mani di tutti, pochi sanno maneggiarli quando si impiantano. Shalev e Omri mettono a punto un sistema per inviare un collegamento ai cellulari che permetta ai loro tecnici tra le colline della Galilea di intervenire da remoto e aiutare gli utenti sperduti nei misteri tecnologici. Il discendente di quel progenitore informatico si chiama Pegasus, ha reso alla fine milionari i due soci e difficile la vita ad attivisti e giornalisti indipendenti in tutto il mondo. L’inchiesta che anche il Washington Post sta pubblicando in questi giorni — ci ha lavorato assieme ad altre 15 organizzazioni giornalistiche — rivela che il software in grado di prendere il controllo del telefonino bersagliato è stato usato in modo illegale dai governi di diversi Paesi. L’indagine parte da 50 mila numeri telefonici, una lista ottenuta e analizzata da Amnesty International e dalla francese Forbidden Stories.
Il gruppo Nso fondato da Hulio e Lavie può esportare i prodotti solo dopo l’autorizzazione del ministero della Difesa che equipara questi software alle armi. Si tratterebbe di trattative commerciali private. Il Washington Post ha raccolto però le supposizioni di 007 europei e americani convinti che la società «fornisca almeno qualche dato al governo israeliano su chi utilizza i prodotti e su quali informazioni stanno raccogliendo». Ipotesi smentita dal ministero della Difesa.
Non è la prima volta che i segugi digitali scoprono le tracce di Pegasus nei cellulari di oppositori spiati dai regimi. Il Citizen Lab, fondato all’università di Toronto da Ron Deibert, ha messo insieme il dossier legale che WhatsApp ha presentato in tribunale due anni fa: la società — proprietà di Facebook — accusa Nso di aver hackerato 1.400 utenti della popolare app di messaggistica.
Hulio è ancora quello con la parlantina ed è lui a rispondere alle accuse (anche se per lo più la compagnia si limita a comunicati ufficiali). Alla rivista israeliana Calcalist ha spiegato che 50 mila è un numero spropositato: «Gli obiettivi dei nostri 45 clienti sono un centinaio all’anno. In tutta la storia di Nso non è possibile raggiungere quella cifra». Ripete che Pegasus viene venduto ai servizi segreti e alle forze di sicurezza per contrastare la criminalità o i gruppi terroristici.
È proprio sulla lista degli acquirenti che si è concentrato il quotidiano Haaretz: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Ungheria, India, Messico, Ruanda, Marocco. Sono i Paesi con cui Benjamin Netanyahu da primo ministro ha cercato di costruire e rafforzare i rapporti diplomatici. Il giornale arriva alla stessa conclusione di Ronen Bergman, esperto di intelligence, sul New York Times: «Israele ha segretamente incoraggiato e autorizzato le vendite di cyber-materiali nonostante le condanne internazionali per gli abusi perpetrati da questi governi».
(Corriere della Sera, 20 luglio 2021)
Covid Israele, 1.327 contagi: mai così tanti in 4 mesi
Registrato un solo decesso. Il governo valuta nuove restrizioni
Le autorità sanitarie israeliane hanno registrato circa 1.400 casi di coronavirus nelle ultime 24 ore, il dato più alto in più degli ultimi quattro mesi, con un aumento dei contagi attribuito alla variante delta che ha portato le autorità a reintrodurre alcune restrizioni.
Il ministero della Salute israeliano ha indicato attraverso il suo sito web che nelle ultime 24 ore sono stati confermati 1.372 contagi e un decesso, il che porta il totale rispettivamente a 853.478 e 6.451, dall'inizio della pandemia. Il ministero ha anche riferito che attualmente ci sono 7.924 casi attivi nel Paese, inclusi 62 pazienti in condizioni critiche, e che il tasso di positività è dell'1,86 per cento. I dati sulla campagna vaccinale indicano che finora 5.747.027 persone hanno ricevuto almeno una dose del vaccino anti Covid. Tra queste, 5.245.999 persone hanno completato il ciclo vaccinale con la seconda dose.
Le autorità israeliane stanno valutando la reimposizione di una quarantena obbligatoria a tutte le persone che arrivano nel Paese, comprese quelle vaccinate o guarite dal Covid-19, come riportato dal quotidiano 'The Times of Israel'. Il ministro della Sanità israeliano Nitzan Horowitz ha confermato questi piani, escludendo però la chiusura dell'aeroporto Ben Gurion. "Divideremo i Paesi in due gruppi: uno pericoloso e per il quale è vietato volare e un altro in cui chi torna da lì dovrà andare in quarantena", ha spiegato, secondo quanto riporta il quotidiano 'Yedioth Ahoronoth'.
(Adnkronos, 20 luglio 2021)
Bennett mette in guardia Unilever sulle “serie conseguenze” della decisione di Ben & Jerry
di Felipa Santos
GERUSALEMME – Israele ha avvertito il colosso dei beni di consumo Unilever Plc (ULVR.L) Martedì, la società ha avvertito delle “gravi conseguenze” della decisione della sua controllata Ben & Jerry di interromere la vendita di gelati nei territori occupati da Israele e ha esortato gli Stati Uniti a emanare leggi anti-boicottaggio. L’annuncio di Ben & Jerry lunedì è arrivato sulla scia della pressione pro-palestinese sulla South Burlington Company con sede nel Vermont sui suoi affari in Israele e sugli insediamenti ebraici in Cisgiordania, che opera attraverso un partner autorizzato dal 1987. Ben & Jerry’s ha detto che non rinnoverà la licenza alla scadenza alla fine del prossimo anno. Ha detto che sarebbe rimasto in Israele con un accordo diverso, senza vendere in Cisgiordania, tra le aree in cui i palestinesi cercano di stabilire uno stato. Leggi di più La maggior parte delle potenze mondiali considera illegali gli insediamenti israeliani. Si oppone a questo, citando connessioni storiche e di sicurezza con la terra, e si è mossa per sanzionare misure anti-insediamento secondo la legge israeliana, garantendo allo stesso tempo protezioni legali simili in alcuni stati degli Stati Uniti. L’ufficio del primo ministro israeliano Naftali Bennett ha dichiarato di aver parlato con l’amministratore delegato di Unilever, Alan Job, della “palese azione anti-israeliana” del gelataio. “Dal punto di vista di Israele, questa azione ha gravi conseguenze, legali e non, e agirà con forza contro qualsiasi misura di boicottaggio contro i civili”, ha detto Bennett a Job, secondo la dichiarazione rilasciata dal suo ufficio. La britannica Unilever non ha risposto immediatamente alla richiesta di commento di Reuters. Gilad Erdan, ambasciatore di Israele a Washington, ha affermato di aver sollevato la decisione di Ben & Jerry in una lettera inviata a 35 governatori statunitensi i cui stati hanno approvato una legislazione contro il boicottaggio di Israele. “Devono essere intraprese azioni rapide e decisive per contrastare tali misure discriminatorie e antisemite”, si legge nella lettera, twittata dall’inviato, che ha paragonato la questione all’annuncio di Airbnb del 2018 che avrebbe rimosso le proprietà in affitto negli insediamenti. Airbnb ha annullato tale decisione nel 2019 dopo le sfide legali negli Stati Uniti, ma ha affermato che avrebbe donato i profitti delle prenotazioni negli insediamenti a cause umanitarie. I palestinesi hanno accolto con favore l’annuncio di Ben & Jerry. Vogliono la Cisgiordania, Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza per un futuro stato. Israele considera tutta Gerusalemme la sua capitale, uno status non riconosciuto a livello internazionale.
(Reuters, 20 luglio 2021)
Tre farmaci già in uso combattono il Covid: studio israeliano
Arriva da uno studio condotto in Israele una nuova speranza per arrivare a una terapia farmacologia contro Covid. Tre farmaci, già in uso per altre patologie, "hanno mostrato di poter proteggere le cellule dall'attacco del virus con un'efficacia vicina al 100%, il che significa che quasi il 100% delle cellule sopravviveva nonostante fosse infettato" da Sars-CoV-2. Lo ha riferito Isaiah Arkin, biochimico della Hebrew University, in un'intervista al 'The Time of Israel'. Lo studio, che ha aperto alla sperimentazione in laboratorio dei 3 farmaci, è stato sottoposto alla revisione di altri scienziati.
Secondo Arkin, "in circostanze normali circa la metà delle cellule sarebbe morta dopo 2 giorni dal contatto con il virus". Inoltre, secondo il lavoro che ha esaminato oltre 3mila farmaci per verificarne l'efficacia anti-Covid, ci sono buone possibilità che questi farmaci siano efficaci contro le varianti del coronavirus pandemico.
I farmaci che hanno superato questa 'selezione' sono: "Darapladib, usato attualmente per il trattamento dell'aterosclerosi; l'antitumorale flumatinib e un medicinale per l'Hiv", precisa lo scienziato, specificando che questi principi attivi "non prendono di mira la proteina Spike" di Sars-CoV-2, "ma altre due proteine che difficilmente cambiano con lo sviluppo di varianti".
(DottNet, 20 luglio 2021)
Colloquio telefonico tra Abbas e ministro Difesa israeliano Gantz
GERUSALEMME - Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas, ha avuto ieri sera una conversazione telefonica con il ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, per discutere della necessità di adottare alcune misure in grado di garantire fiducia reciproca tra le due parti. "La discussione è stata positiva ed entrambi hanno parlato della necessità di portare avanti misure di rafforzamento della fiducia tra Israele e l'Autorità palestinese, che andranno a beneficio dell'economia e della sicurezza dell'intera regione", ha riferito il portavoce di Benny Gantz in una nota.
(Agenzia Nova, 20 luglio 2021)
Il comune antisemitismo nei partiti di estrema sinistra ed estrema destra in Italia
Dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967 si è diffusa un’opposizione a Israele che va oltre l’ovvio diritto di esprimere dissenso nei confronti delle scelte di un governo: viene costantemente messa in discussione la legittimità dell’esistenza dello Stato ebraico, sconfinando spesso nella discriminazione. Un Paper Research dell’Istituto Gino Germani di Scienze Sociali e Studi Strategici, appena uscito a firma di Joel Terracina, analizza questo fenomeno di antisionismo.
di Maurizio Stefanini
«La politica di Israele è come la Shoa»; «La Shoa non è mai esistita, e quindi non dovevano dare Israele agli ebrei come sua riparazione». Apparentemente opposti, questi due approcci hanno in comune una opposizione a Israele che va oltre l’ovvio diritto di esprime dissenso nei confronti delle scelte di qualunque governo, ma investono la legittimità stessa dell’esistenza di Israele, sconfinando spesso nell’antisemitismo vero e proprio.
Entrambi si sono diffusi in Italia in particolare dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967. L’uno è proprio dell’estrema sinistra; l’altro dell’estrema destra. Entrambi sono indagati in «Antisemitismo e antisionismo nell’estrema sinistra e nell’estrema destra italiana»: un Paper Research dell’Istituto Gino Germani di Scienze Sociali e Studi Strategici appena uscito, a firma di Joel Terracina.
«La Guerra dei Sei Giorni (5-10 giugno 1967)», ricorda Terracina, «dimostrò che, se Israele poteva ancora contare sul sostegno della maggioranza della popolazione italiana, la situazione era invece cambiata tra coloro che orientavano l’opinione pubblica, in particolare tra i ceti intellettuali e i media. Anche tra i giovani, gli orientamenti mutarono significativamente. La vittoria, più facile del previsto, delle Forze Armate israeliane lasciò dietro di sé una conseguenza inaspettata e per certi versi paradossale: l’estensione del suo trionfo accelerò la perdita di favore».
Da una parte, dunque, la sinistra tradizionale dimenticò la simpatia per il «socialismo dei kibbutz», per assimilare invece i palestinesi ai «dannati della terra» che erano venuti di moda nel clima della decolonizzazione.
Era anche il clima del ’68. Alcuni esponenti intellettuali italiani si posero come obiettivo quello di riscrivere la storia d’Israele, rielaborando una nuova immagine che iniziò ad acquisire caratteristiche tipicamente negative. E un ruolo importante lo ebbe la casa editrice Feltrinelli dell’epoca, attraverso la pubblicazione degli iscritti di intellettuali palestinesi che come Fayez Sayegh, Asad Abdul Rahman o Sami Hadawi contestavano appunto alla radice la nascita di uno Stato ebraico.
In effetti, anche per via della lotta armata contro il potere britannico la guerra di indipendenza israeliana avrebbe avuto caratteristiche largamente simili a quelle di altri movimenti di decolonizzazione. E anche il fatto che la stessa terra da decolonizzare venisse contesa tra due popoli non è un caso unico: basti pensare alle vicende della partizione tra India e Pakistan, o a quelle di Cipro. Ma Israele venne invece da questi autori assimilata a una entità colonialista, appunto da «decolonizzare» tipo l’Algeria francese.
Per Sayegh, Abdul Rahman e Hadawi, non solo gli ebrei erano pari ai coloni europei che avevano commesso gravi crimini. Sostenevano addirittura la non appartenenza del popolo ebraico a quella determinata area geografica.
Se la Feltrinelli iniziò a diffondere certe idee, tra i primi a volgarizzarle a livelli di pubblico più ampio furono Dario Fo e Franca Rame. In particolare con quello spettacolo “Fedayin”, che nel 1971 venne visto da 40mila persone in pochi mesi.
Nell’immaginario della sinistra italiana il guerrigliero palestinese iniziò a essere assimilato a altri combattenti della rivoluzione più o meno iconici del passato e del presente, dai partigiani ai barbudos di Fidel Castro e Che Guevara. Da laboratorio di una utopia socialista Israele divenne uno Stato borghese e nazionalista, longa manus dell’imperalismo statunitense. L’Olp, assieme alla figura di Arafat, divenne un invece un vero e proprio oggetto di venerazione da parte dell’estrema sinistra extraparlamentare.
Va detto però che l’idea di una «desionistizzazione» di Israele aveva riscontri anche in intellettuali di una certa sinistra israeliana. Da Ury Avnery, fautore di una federazione tra Israele e Palestina, alla comunista Felicia Langer. C’è una evidente tensione tra questa idea di una Palestina laica in cui ebrei e arabi possano vivere assieme e l’altra idea di una «decolonizzazione» che dovrebbe far fare agli israeliani la fine dei Pieds-noirs.
A destra, invece i riferimenti sono René Guenon e Julius Evola. Due pensatori che riprendono le idee di Oswald Spengler sul «tramonto dell’occidente», per svilupparle in una chiave di avversione alla modernità che esalta la cultura islamica come esempio di «tradizione» capace di mantenere una forte spiritualità.
A partire dallo stesso Guenon, molti esponenti di questa «destra spiritualista» si fecero infatti musulmani. Evola non arrivò a questo estremo, ma esaltò il concetto di Jihad come esperienza guerriera in grado di portare all’ascesi per la trascendenza spirituale, allo stesso modo di Waffen SS e Guardia di Ferro del romeno Codreanu: gli altri suoi modelli di riferimento.
In questa chiave Evola «mostrava una forte avversione nei confronti degli ebrei, additati come gruppo che riuniva le peggiori caratteristiche: nomadi, astuti, mercanti, levantini. A causa di queste caratteristiche essi attiravano l’odio». Sosteneva anche che «l’Olocausto non ha avuto quelle dimensioni tradizionalmente evocate: se gli ebrei erano morti, è perché non avevano da mangiare come i tedeschi».
Grande ispiratore della estrema destra extraparlamentare su molti aspetti, Evola la influenza anche nella minimizzazione dell’Olocausto. L’ideologia per cui Israele è uno Stato artificiale da estirpare è portata avanti ad esempio dall’editore Franco Freda e da Claudio Mutti, che infatti si converte all’Islam con il nome di Omar Amin.
Tornando all’estrema sinistra, negli anni ’70 un grosso spazio alle posizioni anti-israeliane lo danno Lotta Continua e il Manifesto. Secondo Terracina, in particolare «sfogliando il Manifesto del 1973 è possibile ricostruire l’immagine d’Israele durante la guerra del Kippur, assieme ad una certa retorica tipica dei movimenti della sinistra extraparlamentare che ancora oggi utilizzano un determinato linguaggio atto a dividere la complessità mediorientale in buoni e cattivi».
La visione marxista tende a contaminarsi con dati etnici, identificando gli israeliani con i borghesi oppressori e i palestinesi col proletariato oppresso. Dopo l’invasione del Libano da parte di Israele dal 1982, sul Manifesto Valentino Parlato compie una vera opera di trasposizione del nemico nello Stato ebraico, paragonandolo alla Germania nazista e ai suoi generali e accusandolo di compiere una vera e propria «soluzione finale».
In un altro articolo Parlato accusa lo Stato ebraico di genocidio. Ma anche su Rinascita e l’Unità, settimanale e quotidiano del Pci, iniziano ad apparire toni del genere. Anzi, c’è un salto di qualità, con il ritorno a antichi pregiudizi tipici del cattolicesimo pre-conciliare a proposito della contrapposizione tra la cultura cristiana dell’amore con quella attribuita al mondo ebraico della vendetta e del rancore.
Ma dal punto di vista del cattolicesimo pre-conciliare Terracina ricorda poi «gli attacchi agli ebrei ed Israele perpetrati da Maurizio Blondet, assiduo collaboratore delle riviste della destra culturale, da Pagine di azione sindacale ai Quaderni di Avallon. Fortemente ossessionato da Israele e dalla minoranza ebraica in Europa», Blondet «concepisce lo scontro tra israeliani e palestinesi in termini religiosi, individuando nella possibile vittoria degli israeliani un rischio per la gestione dei luoghi santi cristiani». «I loro occhi sono momentaneamente velati e soltanto dopo che tutti gli altri popoli saranno entrati nella chiesa anche essi vedranno», dice.
Questo tipi di destra non sono il Msi, in cui però una linea maggioritaria che è filo-israeliana in chiave anticomunista continua a convivere con minoranze che la vedono in maniera differente. Augusto Rocca, ad esempio, sulla rivista Dissenso sostiene la tesi del controllo d’Israele sulle nazioni europee, e dello Stato ebraico come tipicamente capitalista, proponendo ai missini di abbracciare la visione spiritualistica tipica del mondo arabo.
Ed è questa anche la tesi della rivista rautiana Linea che nei giovani palestinesi lanciatori di sassi dell’Intifada trova un legame ideale col Balilla genovese ispiratore del nome della organizzazione fascista per i bambini.
Dal gennaio 1990 al giugno 1991 Pino Rauti diventa segretario del Msi. Un sondaggio di questo periodo indica che il 63,5% dei missini si definisce antisionista, il 25,2% addirittura antisemita, e i due terzi degli iscritti dichiarano di appoggiare fortemente la causa palestinese.
Il successivo arrivo di Gianfranco Fini alla segreteria porta a una trasformazione in Alleanza Nazionale per cui gran parte dei rautiani finisce nella scissione della Fiamma Tricolore.
Uno degli artefici della svolta è Enzo Palmesano: artefice della storica mozione che fece nascere il nuovo partito e allo stesso tempo esprimeva la prima condanna dell’antisemitismo e delle leggi razziali. Ma anche dopo questa evoluzione c’è il caso di Antonio Serena: deputato di An che dopo l’estradizione di Erick Priebke e la sua condanna all’ergastolo da parte del tribunale militare di Roma si lancia contro la lobby ebraica, l’imperialismo americano e la politica di Israele.
Fini però prima lo richiama, poi lo caccia dal gruppo. Interviene anche con Domenico Gramazio, quando il 24 gennaio 2005 dice che «il fascismo non ebbe colpe nello sterminio degli ebrei durante la Shoà». Ma Gramazio dichiara di essere stato equivocato da alcuni giornalisti, e indirizza una lettera di scuse al Rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni.
A questo punto la destra anti-ebraica abbandona definitivamente An, per puntare su nuove realtà come Casapound o Forza Nuova. Nel 2013 alcuni militanti di Casapound di Napoli vengono colpiti da provvedimenti restrittivi in materia di libertà personale con l’accusa di banda armata, organizzazione sovversiva, detenzioni e porto illegali di armi, lesioni a pubblico ufficiale. Dalle intercettazioni dei carabinieri del Ros emerge anche la volontà di stuprare una ragazza ebrea a Napoli e di dare fuoco all’attività di un ebreo.
Nel 2014 la Digos di Roma arresta un 29enne con un passato di militanza in Forza Nuova colpevole di aver inviato tre pacchi contenenti teste di maiali al Museo ebraico, alla sinagoga e all’ambasciata israeliana a Roma. Dalle indagini risulta che il giovane era in possesso di materiale inneggiante il fascismo oltre ad una scimitarra, una maglietta di Fn ed un libro intitolato Giudaismo, Bolscevismo, Plutocrazia e Massoneria. Ma in questi casi si tratta comunque di casi particolari.
Più pesante è la storia di Militia: movimento che si dichiara fascista, anticapitalista, contro l’immigrazione e la società multirazziale e antisionista. Dietro Militia c’è Maurizio Boccacci: esponente dell’estrema destra romana pioniere nella scelta di portare la militanza politica dentro lo stadio e di cercare costantemente lo scontro fisico contro le forze dell’ordine.
Tra il mese di ottobre e novembre 2008, il movimento si fa promotore di una serie di atti con cui si nega l’Olocausto, definendolo una menzogna ed attaccando una serie di manifesti contro politici quali Gianni Alemanno e Gianfranco Fini e contro il presidente della Comunità Ebraica romana Riccardo Pacifici. Nel 2009 seguono alcune azioni intimidatorie nei confronti di negozianti ebrei nella zona di Viale Libia. Nel maggio del 2010 la polizia arresta quattro membri di Militia che oltre ad aver attaccato l’allora presidente della Comunità Ebraica italiana, stavano da tempo progettando di colpire anche cittadini rumeni presenti nella capitale. La polizia compie una serie di perquisizioni nelle sedi di Militia, rinvenendo materiale di esaltazione del fascismo, striscioni, materiale informatico, una divisa dell’esercito israeliano.
Nel maggio del 2011 vengono ritrovati alcuni manifesti lungo la tangenziale di Roma con lo svincolo per Tiburtina, sono scritte inneggianti a Osama bin Laden che accusano tanto gli Stati Uniti quanto Israele di essere i veri terroristi.
Sempre nello stesso periodo, appare in rete una lista di docenti ebrei accusati di «manipolare le menti degli studenti è di controllare gli atenei italiani». L’obiettivo è identificare gli ebrei italiani cercando così di incutere paura, e la lista contiene anche le attività commerciali da boicottare. La polizia, dopo un’indagine accurata, riesce ad individuare l’autore dell’atto: Dagoberto Bellucci, italiano convertito all’Islam e residente in Libano, già legato al Msi e al gruppo neofascista Comunità Politica di Avanguardia.
Nel 2013 e 2014 Pacifici viene nuovamente minacciato, mentre Militia affigge manifesti lungo i quartieri Talenti, Trieste e Ojetti, esortando a boicottare i negozi dei commercianti ebrei per sostenere la causa palestinese.
A sinistra l’evoluzione del Pci in Pds, Ds e Pd ha – a proposito delle ambiguità su Israele – un effetto altrettanto e più decisivo della trasformazione del Msi in An.
Ma anche qui si libera in compenso un potenziale anti-israeliano nella estrema sinistra dei Centri Sociali, di cui ogni 25 aprile fa eco la ormai rituale contestazione della Brigata Ebraica. Ma non solo. Nel 2002 un noto esponente della comunità ebraica napoletana, Guido Sacerdoti, docente di biochimica presso l’ateneo campano, racconta che di aver dovuto fare marcia indietro annullando la sua partecipazione ad un evento, al quale era stato invitato come partecipante, che riguardava la tematica dell’Olocausto.
Nello stesso anno, il comune di Pitigliano, dopo aver subito diverse pressioni, è costretto ad annullare la rassegna sui film ebraici. Seguono una serie di atti intimidatori a Roma, nel quartiere popolare di Testaccio, in cui si invitano a boicottare i prodotti made in Israel.
E a Milano il portavoce della Comunità Ebraica Yasha Reibman è aggredito durante la manifestazione del Gay pride dai militanti dei centri sociali in quanto aveva osato portare la bandiera israeliana durante la manifestazione, per ricordare che Israele è l’unico Stato del Medio Oriente in cui i gay sono tutelati. Sempre dai Centri Sociali derivano le azioni che impediscono di parlare nel 2004 un consigliere dell’ambasciata israeliana all’Ateneo di Pisa e nel 2005 lo stesso ambasciatore all’Ateneo di Firenze.
Non sono peraltro solo i Centri Sociali. Anche un docente universitario illustre come Alberto Asor Rosa definisce gli ebrei «razza perseguitata ora divenuta guerriera». E il gran finale è nell’ascendere a star del nuovo mondo dei media di un personaggio come Chef Rubio. Ex giocatore di rugby, all’anagrafe con il nome di Gabriele Rubini, è un personaggio televisivo che si occupava di cucina.
Convertitosi all’ideologia filo-palestinese ha diffuso una serie di tweet contro Israele, celebri dopo essere stati pubblicati nel giorno della Festa della Liberazione del 25 aprile 2017. Rubio definisce gli israeliani prima pecore e poi lupi, si rivolge al suo pubblico utilizzando come incipit la parola «Rabbi».
Tra estrema destra e estrema sinistra, infine la sintesi è quella dei cosiddetti Rossobruni. Ideologo ne è Aleksandr Dugin: politologo, scrittore e saggista che ha teorizzato la fine dell’ordine liberale e atlantista ed il ritorno ad un nuovo ordine «euroasiatico». «In una delle tante interviste, Dugin si è dichiarato contrario al sionismo, sostenendo che questo movimento contraddice l’ideologia del tradizionalismo ebraico.
Per poter giustificare la sua tesi che lo porta a respingere l’ideologia sionista, Dugin deve in quanto fedele difensore dell’ideologia tradizionalista riallacciarsi alle tematiche espresse nell’opera del Rabbino Meyer Schiller di New York», ricorda Terracina.
«L’avversione di Dugin per Israele – prosegue – non nasce solamente dal suo attaccamento alla tradizione, che si traduce nel divieto della creazione dello Stato ebraico in quanto atto puramente materiale e non determinato dalla volontà Celeste secondo una visione ultraortodossa alla quale aderiscono gruppi minoritari di fede ebraica. L’atteggiamento ostile di Dugin nei confronti di Israele nasce anche da altre cause ben precise. Lo Stato d’Israele sin dalla nascita si è sempre posto come alleato del mondo libero, ed è stato accusato di aver favorito l’ingresso degli Stati Uniti nell’area mediorientale. Di conseguenza Israele avrebbe spalancato le sue porte ai disvalori occidentali, quali il capitalismo e la relativa occidentalizzazione dei valori e costumi. Tutto ciò finisce per essere letto come una sorta di tradimento agli occhi dell’ideologia rossobruna, soprattutto in politica estera».
A questo tipo di sintesi fa riferimento ad esempio L’Intellettuale Dissidente di Sebastiano Caputo: testata che il 27 gennaio del 2013 ha pubblicato un pezzo sul giorno della memoria dell’Olocausto intitolato «il giorno della cicoria», poi ritirato repentinamente dalla rete.
Caputo, in un articolo successivamente pubblicato su L’Intellettuale Dissidente, ha accusato il governo israeliano di Netanyahu di «masturbarsi colpendo indiscriminatamente obiettivi civili a Gaza». Ovviamente tra i bersagli preferiti dai rossobruni vi è George Soros, che è la più recente incarnazione di un archetipo sull’ebreo manipolatore del mondo tornata infatti prepotentemente alla ribalta col complottismo da pandemia.
(LINKIESTA, 20 luglio 2021)
Ben & Jerry’s: “Non vendiamo i nostri gelati nei territori palestinesi occupati”
di Paolo Castellano
Nelle ultime ore è arrivata un’amara notizia da parte dell’azienda di gelati americana Ben & Jerry’s, che attraverso un comunicato diffuso pubblicamente il 19 luglio ha affermato di voler porre fine alla distribuzione e vendita delle sue prelibatezze nei negozi della Giudea e Samaria, definite dalla società “territori palestinesi occupati”.
«Ben & Jerry’s porrà fine alle vendite del suo gelato nei territori palestinesi occupati. Riteniamo che sia incoerente con i nostri valori che il gelato di Ben & Jerry’s venga venduto nei territori palestinesi occupati. Ascoltiamo e riconosciamo anche le preoccupazioni condivise dai nostri fan e partner di fiducia», si legge nella nota aziendale.
Come riporta JTA, la società di gelati con sede nel Vermont è stata fondata da due ebrei ed è nota da tempo per l’appoggio a cause e battaglie politiche della sinistra americana. Attualmente, i fondatori dell’azienda Ben Cohen e Jerry Greenfield non gestiscono più il marchio che appartiene alla multinazionale britannica Unilever, ma hanno spesso usato i loro gelati per fare politica. Infatti, a molti è sembrato strano che durante la recente escalation tra Israele e Gaza Ben & Jerry’s non abbia rilasciato nessun messaggio sui social network. Una questione di tempo a quanto pare.
Certamente, la decisione dell’azienda americana di gelati è un assist al movimento Boycott, Divestment and Sanctions against Israel (BDS) che ha fatto infuriare la politica israeliana.
Come riporta Israel National News, il premier israeliano Naftali Bennett, sostenitore convinto degli insediamenti, ha definito la scelta “un boicottaggio di Israele“.
«Ci sono molte marche di gelato, ma c’è un solo Stato ebraico. Ben & Jerry’s ha deciso di etichettarsi come “gelato anti-israeliano“. Questa decisione è moralmente sbagliata. Il boicottaggio contro Israele – una democrazia circondata da isole di terrorismo – riflette una totale perdita di rotta. Il boicottaggio non funziona e non funzionerà, e lo combatteremo con tutte le forze».
Inoltre, l’amministratore delegato di Ben & Jerry’s Israel, Avi Zinger, ha rilasciato un’intervista a Channel 12 News criticando la decisione dell’azienda e affermando di aver ricevuto in passato pressioni per interrompere le vendite dei gelati in Giudea e Samaria.
(Bet Magazine Mosaico, 20 luglio 2021)
Siria: respinto un attacco missilistico di Israele
Le Forze di difesa aerea siriane hanno riferito di aver affrontato un attacco missilistico, attribuito a Israele, perpetrato contro diverse postazioni nella periferia di Aleppo, nella Siria Nord-occidentale.
La notizia è stata riportata dall’agenzia di stampa siriana SANA, sulla base delle informazioni fornite da una fonte militare. Nello specifico, a detta della fonte, alle ore 23:37 del 19 luglio, il “nemico israeliano” ha lanciato un attacco aereo contro la periferia Sud-Est di Aleppo, con l’obiettivo di colpire diverse postazioni nella regione di al-Safyrah. Le forze siriane, è stato specificato, sono state in grado di intercettare e colpire la maggior parte dei missili “ostili”. Inoltre, le perdite registrate sono state soltanto materiali. L’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani (SOHR) ha aggiunto che i missili sono precipitati nei pressi dello Scientific Studies Research Centre di al-Safyrah, distruggendo una base e un deposito di armi impiegato da milizie filoiraniane.
Secondo fonti militari siriane, è soprattutto Teheran ad essere nel mirino israeliano, compresi ufficiali del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica stanziati nella base aerea militare di Kuweires, nel governatorato settentrionale di Aleppo. Come riportato da SANA, la medesima zona è stata colpita anche il 5 aprile scorso, e, anche in tale occasione, l’attentato è stato respinto. Per Damasco, episodi simili sono da inserirsi nel quadro di una “guerra terroristica”, nella quale Israele presta sostegno a organizzazioni terroristiche, attive anche nelle regioni meridionali.
È dal 2011 che Israele è considerato l’autore di attacchi aerei in Siria, volti a prendere di mira i suoi principali nemici nella regione mediorientale. Uno degli episodi più recenti risale al 17 giugno, quando Israele, a detta dell’esercito siriano, ha preso di mira una postazione presumibilmente appartenente ad Hezbollah, nella regione meridionale di Quneitra. Ancora prima, nella tarda serata dell’8 giugno, almeno 11 persone hanno perso la vita a seguito di un attacco attribuito a Israele contro postazioni delle forze siriane, affiliate al presidente siriano Bashar al-Assad, e dei suoi alleati. In particolare, i raid hanno preso di mira i dintorni della capitale Damasco, le province di Homs, Hama e Latakia, oltre al villaggio di Khirbet al-Tin, alla periferia di Homs, e a un deposito di armi appartenente al gruppo sciita Hezbollah.
Negli ultimi mesi, le operazioni attribuite a Israele hanno mirato a colpire soprattutto le milizie filoiraniane, stanziate nella Siria orientale, meridionale e Nord-occidentale, oltre che nei sobborghi intorno a Damasco. Tra gli attacchi più violenti del 2021 vi è quello del 13 gennaio, quando le forze aeree israeliane sono state accusate di aver perpetrato 18 raid aerei contro Deir Ezzor e al-Bukamal, nell’Est della Siria. In tale occasione, sono state provocate circa 57 vittime, tra cui almeno 10 tra le fila dell’esercito di Damasco, mentre gli altri individui deceduti appartenevano ai gruppi armati legati all’Iran, ad Hezbollah e alla Brigata Fatemiyoun, una milizia sciita afgana formata nel 2014 per combattere in Siria.
Oltre all’Iran, nel mirino israeliano vi sono altresì i gruppi palestinesi e l’organizzazione paramilitare libanese Hezbollah, considerati un pericolo per l’integrità dei propri confini territoriali. A detta di Israele, Teheran starebbe provando a intensificare la propria presenza in Siria, creando una base permanente, sebbene le operazioni israeliane abbiano contribuito a limitare l’influenza del nemico iraniano. Inoltre, fonti di intelligence regionali hanno dichiarato che i gruppi armati filoiraniani, tra cui le Quds Force, hanno rafforzato la propria presenza nei dintorni di Sayeda Zainab, nel Sud di Damasco, dove si pensa siano state create diverse basi sotterranee. Funzionari militari siriani e dell’intelligence occidentale hanno poi affermato che in cima alla lista dei target di Israele vi sono le infrastrutture che potrebbero consentire all’Iran di produrre missili a guida di precisione sul territorio siriano, erodendo il vantaggio militare regionale di Israele.
(Sicurezza Internazionale, 20 luglio 2021)
Cibi e cultura ebraica. Torna 'Balagan Cafè'
Dal 22 luglio, ogni giovedì, alla Sinagoga di Firenze
Il giardino della Sinagoga di Firenze in via Farini torna ad aprirsi alla città, come spazio permanente di dialogo. Dal 22 luglio, per ogni giovedì fino al 2 settembre (ad esclusione del 12 agosto), sei appuntamenti per la nona edizione della kermesse culturale estiva, organizzata dalla Comunità e dal Museo ebraico di Firenze, nell'ambito del calendario dell'Estate Fiorentina.
«Il Balagàn - dichiara il direttore artistico Enrico Fink - rappresenta un momento di incontro fra comunità e città, atteso e reso ancor più significativo dai lunghi mesi che abbiamo vissuto, di limitazione alla vita culturale e sociale. Ecco dunque il senso del titolo di quest'anno, "Rinascere insieme: comunità in dialogo", che prende spunto dal tema scelto per la Giornata Europea della Cultura Ebraica che si terrà a ottobre: "Dialoghi"».
La ricetta del "Balagan Cafè" prevede apertura alle 19, visite guidate della Sinagoga e del Museo ebraico, degustazioni di piatti dal mondo ebraico; musica, incontri con autori e personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo, e a concludere la serata il concerto che vede ogni sera esibirsi nella scalinata del Tempio Maggiore esponenti nazionali e internazionali del mondo ebraico e non solo.
Le visite guidate alla Sinagoga e al Museo ebraico, avranno luogo dalle 18 fino alle 20. Necessaria prenotazione, 055-290383, costo 10 euro.
La serata inaugurale inizierà con un intrattenimento musicale, il "Muzika Shelanu", che in ebraico significa "la nostra musica": protagonista il gruppo Tingo Band.
Alle 20.30 sarà il momento della presentazione a cura di Rav Gad Fernando Piperno e David Dattilo: il progetto di traduzione del Talmud Babilonese e la sua Yeshiva, un esempio di applicazione di innovazione e tecnologia a supporto della cultura e dello studio dei testi classici dell'ebraismo.
Alle ore 21.30 seguirà il concerto di musica di tradizione ebraica, Evelina Meghnagi, accompagnata da Arnaldo Vacca, Cristiano Califano e con la partecipazione speciale di Gabriele Coen.
(La Nazione, 20 luglio 2021)
Il Marocco firma un accordo con Israele per la Cyber Security
Il National Cyber Directorate di Israele ha annunciato di aver firmato un accordo di cybersecurity con il Marocco, il primo accordo di cyber-difesa dalla normalizzazione delle relazioni tra le due parti lo scorso anno come parte degli accordi di Abramo.
La firma è avvenuta a Rabat tra Yigal Unna, direttore generale della Direzione nazionale informatica israeliana e El Mostafa Rabii direttore della Direzione generale per la sicurezza dei sistemi informativi del Marocco.
Alla cerimonia della firma era presente il ministro della Difesa marocchino Abdellatif Loudiyi.
Secondo la direzione israeliana, l’accordo prevede cooperazioni nei settori della ricerca, dello sviluppo e la condivisione di informazioni e conoscenze nel campo elettronico informatico
(Daily Muslim, 19 luglio 2021)
L'imam di Malmö bandisce la bandiera svedese e invita a “schiacciare la testa agli ebrei”
L'imam di Malmö, Basem Mahmoud, lo stesso che in precedenza aveva definito gli ebrei “una progenie di maiali e scimmie", si è nuovamente scagliato contro questi invitando i fedeli letteralmente a ucciderli. Durante i suoi sermoni, ha anche approntato delle invettive contro la bandiera svedese definendola un’eresia.
L'imam Basem Mahmoud, che serve nel distretto Rosengrd di Malmö, un distretto ricco di immigrati e noto per essere in cima alla lista delle “aree particolarmente vulnerabili” della Svezia, ha bandito la bandiera svedese durante uno dei suoi sermoni, nonché si è nuovamente scagliato contro gli ebrei.
Secondo il quotidiano Expressen, il motivo dell’avversione dell’imam per la bandiera svedese sarebbe che contiene una croce, simbolo cristiano, e quindi secondo lui inappropriato.
Basem Mahmoud si è detto infastidito dal fatto che molti studenti celebrassero la loro immatricolazione ballando per le strade e sventolando la bandiera del loro Paese.
" Coloro che portano croci non dovrebbero essere perdonati, perché è nostra convinzione che queste persone siano eretici", avrebbe detto in un sermone nella moschea al-Sahaba di Rosengård.
Se qualcuno indossa inconsapevolmente una croce sui vestiti, gli ordiniamo di togliersela. Ogni volta che il profeta vedeva una croce su un panno o sui vestiti di qualcuno o altro, la distruggeva”, ha affermato.
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Durante un altro recente sermone a luglio, Basem Mahmoud si era concentrato sulla Palestina, sostenendo che tutti i musulmani del mondo dovrebbero liberare unendosi. Inoltre aveva sollecitato l'uccisione degli ebrei, citando gli Ḥadīth, cioè i racconti sulla vita del profeta Maometto che sono parte costitutiva della cosiddetta Sunna, la seconda fonte della Legge islamica dopo lo stesso Corano.
“ Il Giorno del Giudizio non arriverà finché i musulmani non combatteranno gli ebrei e li uccideranno. Gli ebrei si nasconderanno dietro le rocce e gli alberi, ma le rocce e gli alberi diranno: Oh, musulmano, c'è un ebreo dietro di me. Vieni e uccidilo", ha detto, come citato da Expressen.
Inoltre l’Imam avrebbe anche esortato a “conquistare la moschea di al-Aqsa”, che è una delle moschee più importanti dell'Islam, situata sul Monte del Tempio a Gerusalemme, nonché a “schiacciare e picchiare le teste degli ebrei”.
“Insegna questo ai tuoi figli. Se tu stesso non sei qualificato per questo e Dio non te lo comanda, allora insegna a farlo a tuo figlio e a tuo nipote", ha aggiunto.
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In ancora un altro sermone, ha detto che è permesso salutare solo i musulmani perché tutti gli altri sono "infedeli".
“Non salutare i non musulmani. Se una persona infedele ti saluta e ti dice: ‘Salam-Aleikum’ (La pace sia con te), rispondigli come rispondeva il Profeta agli ebrei, gli ebrei ingiusti che hanno ucciso i profeti e che vogliono controllare l'universo. Maledetti loro, siano perduti”.
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RECIDIVO MA LA POLIZIA È ANCORA IN ATTESA DI ISTRUZIONI
Questa non è la prima volta che Basem Mahmoud attacca gli ebrei. In precedenza, aveva ricevuto l'attenzione nazionale per aver chiamato gli ebrei "la progenie di maiali e scimmie". Nel dicembre 2020, la Jewish Youth Association lo ha denunciato alla polizia per incitamento all'odio contro i gruppi etnici. Le indagini preliminari sono ancora in corso e le forze dell'ordine sono in attesa di ulteriori istruzioni dai pm.
Circa il 90% degli abitanti di Rosengård ha origini straniere, con paesi musulmani come Iraq, Libano, Bosnia-Erzegovina e Afghanistan come principali paesi di origine.
(Sputnik Italia, 19 luglio 2021)
Tokyo 2020, 11 curiosità sulla partecipazione di Israele alle Olimpiadi
di Paolo Castellano
Manca poco, anzi pochissimo, all’inizio della nuova edizione delle Olimpiadi estive che quest’anno si svolgeranno a Tokyo. Insieme ad altri 205 paesi di tutto il mondo, parteciperanno anche gli atleti israeliani che dal 23 luglio fino al’8 agosto gareggeranno per portare a casa delle medaglie e far felici i propri concittadini tifosi.
Per iniziare al meglio la visione delle gare, vi proponiamo 11 curiosità su Israele e le Olimpiadi redatte dal sito Israel21c.
1. L’OLIMPIADE ESTIVA NUMERO 17 PER ISRAELE
Tranne i Giochi di Mosca del 1980, Israele ha partecipato a tutte le altre Olimpiadi estive a partire dai Giochi di Helsinki nel 1952 fino ai Giochi di Rio nel 2016.
2. LE MEDAGLIE VINTE
Israele ha vinto nove medaglie alle Olimpiadi estive: Yael Arad (argento, judo, 1992), Oren Smadja (bronzo, judo, 1992); Gal Fridman (bronzo, vela, 1996); Michael Kolganov (bronzo, canoa, 2000); Ariel Ze’evi (bronzo, judo, 2004), Gal Fridman (oro, vela, 2004); Shahar Zubari (bronzo, vela, 2008), Yarden Gerbi (bronzo, judo, 2016) e Or Sasson (bronzo, judo, 2016).
Alle Paralimpiadi, Israele ha portato a casa ben 375 medaglie: 123 d’oro, 123 d’argento e 129 di bronzo.
3. LA DELEGAZIONE PIÙ GRANDE DI SEMPRE
Nel 2016, Israele aveva inviato a Rio 47 atleti di 17 discipline sportive. Quest’anno a Tokyo gareggeranno 89 atleti in 18 sport diversi. La delegazione al completo, con allenatori, staff e funzionari è composta da 219 persone.
Per quanto riguarda le Paralimpiadi, finora 34 atleti si sono qualificati per Tokyo, ma altri potrebbero aggiungersi dopo le gare di luglio. Nel 2016, Israele aveva portato a Rio 33 sportivi per competere in 11 discipline sportive.
4. I PORTABANDIERA DI ISRAELE
Yaakov Tomarkin, nuotatore di 29 anni, e Hannah Knyazeva-Minenko, triplista di 31 anni, saranno i portabandiera della delegazione israeliana alle cerimonie d’apertura dei Giochi di Tokyo.
5. NUOVI SPORT
Quest’anno Israele parteciperà per la prima volta alle competizioni olimpiche di baseball, tiro con l’arco, surf ed equitazione.
La nazionale israeliana di baseball affronterà gli Stati Uniti nella sua prima partita del torneo olimpico.
I cavallerizzi israeliani che si sono qualificati ai Giochi di Tokyo sono Ashlee Bond, Danielle Goldstein Waldman , Teddy Vlock e Alberto Michán Halbinger.
Infine, la 21enne Anat Lelior sarà la prima surfista israeliana a partecipare a un’Olimpiade. Allo stesso modo, Itay Shanny, 22 anni, primo arciere olimpico israeliano.
6. L’ACCOGLIENZA A WATARI
Lo scorso giugno, il portavoce dell’ambasciata israeliana a Tokyo Barak Shine ha partecipato alla tradizionale corsa della torcia olimpica. Quando i corridori sono arrivati nella cittadina di Watari, i residenti hanno sventolato bandiere e striscioni israeliani.
La calda accoglienza giapponese nei confronti di Israele deriva dalla passata cooperazione medica durante il terremoto e lo tsunami del 2011.
7. AFFARI DI CUORE, FAMIGLIA E SPORT
Tra gli atleti israeliani ci sono alcune coppie sposate.
Come i corridori di origine etiope Maru Teferi e Selamawit Dagnachew Teferi. I coniugi Michael Rozin e Ilham Mahamid Rozin invece guidano le squadre olimpiche israeliane di goalball paralimpico.
Inoltre, ci sono i fratelli Shachar (27 anni) e Ran (24 anni) Sagiv che gareggeranno nel triathlon. Mentre i gemelli di 21 anni Mark e Ariel Malyar fanno parte della squadra di nuoto paralimpico.
8. OGGETTO DA COLLEZIONE
L’Israel Stamp Service ha emesso tre francobolli speciali in occasione delle Olimpiadi di Tokyo. Le illustrazioni sono state create da Baruch Na’a e ogni francobollo rappresenta uno sport olimpico: nuoto, equitazione e ginnastica. Gli atleti sono disegnati al centro di due line blu ondulate che simboleggiano la bandiera di Israele.
9. GLI ATLETI ISRAELIANI SU TIKTOK
Per colpa del Covid-19 le gare olimpiche non avranno pubblico. Il Comitato Olimpico israeliano ha avviato una collaborazione con il social network cinese TikTok per pubblicare contenuti esclusivi sulla delegazione e sul resoconto dei suoi spostamenti a Tokyo. Al momento sono stati pubblicati più di 300 contenuti originali.
10. DISCIPLINE SPORTIVE
Israele partecipa ai seguenti sport olimpici estivi: tiro con l’arco, atletica leggera, badminton, baseball, ciclismo (strada e montagna), equitazione, ginnastica (artistica e ritmica), judo, vela, tiro a segno, surf, nuoto (artistico, competitivo e in acque libere),
taekwondo e triathlon.
Israele sta gareggiando nei seguenti sport paralimpici estivi: atletica leggera, bocce, goalball, kayak, sollevamento pesi, canottaggio, tiro a segno, nuoto, ping pong e tennis su sedia a rotelle.
11. UNIFORMI ISPIRATE ALLE STELLA DI DAVID
Le uniformi olimpiche degli atleti israeliani – comprendenti maglietta, pantaloncini, pantaloni e giacca di nylon trasparente – hanno un design che si ispira alla Stella di David. Le divise sono state ideate e prodotte dalla casa di moda israeliana Castro.
(Bet Magazine Mosaico, 19 luglio 2021)
Colosso cinese Midea apre il primo negozio in Israele
Flagship store di elettrodomestici a Rehovot
GERUSALEMME - Midea Group, uno dei colossi cinesi nel settore degli elettrodomestici, ha aperto ieri il suo primo punto vendita in Israele. È quanto reso noto da Hemilton Group, importatore ufficiale del marchio nel Paese mediorientale.Il nuovo flagship store occupa un'area di 350 metri quadrati presso un centro commerciale situato nella città centrale di Rehovot e propone articoli quali frigoriferi, lavastoviglie, lavatrici, aspirapolvere, cappe aspiranti e altro. I prodotti Midea sono già presenti nel mercato israeliano in aree di vendita all'interno di cinque punti vendita Ace Hardware e presso decine di rivenditori autorizzati. Fondato nel 1968 e con sede nella città meridionale cinese di Foshan, il gruppo Midea opera in più di 200 Paesi dando impiego a più di 150.000 persone. Il nuovo concept store in Israele propone anche i prodotti di un altro colosso cinese operante nel campo della tecnologia, ovvero Xiaomi, ufficialmente importati in Israele da Hemilton, tra cui dispositivi mobili, aspirapolvere, robot aspirapolvere e scooter. Xiaomi ha già quattro flagship store in Israele, nonché decine di rivenditori autorizzati che commercializzano i suoi prodotti nel Paese.
ANSA, 19 luglio 2021)
Il caso Pegasus e il precedente italiano di Exodus
Ecco che cos’è NSO Group, l’azienda di ex 007 israeliani dietro Pegasus. Il caso rivelato dal Washington Post ricorda un episodio italiano…
di Gabriele Carrer
C’è un problema, il mercato della sorveglianza. Le rivelazione sul caso Pegasus lo confermano: “NSO Group continua a essere un fornitore di fiducia di software di hacking per i governi autoritari. Un altro promemoria che concentrarsi esclusivamente sulla tecnologia cinese come se fosse l’unico abilitatore della repressione digitale è controproducente”, ha commentato Rebecca Arcesati, analista del Merics, su Twitter.
Ma che cos’è Pegasus, lo spyware tornato d’attualità con l’inchiesta del Washington Post sull’attività di spionaggio condotta da decine di Paesi su migliaia di cellulari, compresi quelli di molti politici, giornalisti, attivisti per i diritti umani, manager?
Si tratta di un software realizzato dall’azienda israeliana NSO Group, società leader nella produzione di spyware. Vanta clienti in 40 Paesi, uffici in Bulgaria e a Cipro, 750 dipendenti, un fatturato record registrato lo scorso anno da 240 milioni di dollari. La maggioranza delle azioni appartiene a Novalpina Capital, società finanziaria con sede a Londra. È stata fondata nel 2010 da alcuni ex membri della famosa Unit 8200, divisione di Haman, un corpo dell’esercito israeliano, responsabile per la signal intelligence. È, per usare le parole del think tank britannico Rusi, “probabilmente la più importante agenzia di intelligence tecnica del mondo e sta alla pari con la [statunitense] Nsa in tutto tranne che nelle dimensioni”.
Pegasus, come ha spiegato un approfondimento dell’Adnkronos, è concepito per aggirare le difese di iPhone e degli smartphone Android lasciando pochissime tracce e abbattendo le tradizionali misure difensive (come password ordinarie e complesse). Può insinuarsi rubando foto, registrazioni, dati relativi alla localizzazione, telefonate, password, registri di chiamata, post pubblicati sui social. Il programma può anche attivare telecamera e microfono dello smartphone.
Il software, scrive il Washington Post, sarebbe stato concepito come strumento per monitorare l’attività di terroristi e criminali di rilievo. NSO Group ha giudicato privi di fondamento i risultati dell’inchiesta sottolineando che non gestisce il software ceduto ai propri clienti e non “ha elementi” relativi alle specifiche attività di intelligence. La società ha negato ogni coinvolgimento in attività contro il giornalista Jamal Khashoggi (ucciso nel 2018) e ha aggiunto che “continuerà a indagare” sulla base di tutte “le segnalazioni credibili di abuso” di Pegasus e “adotterà le azioni appropriate sulla base dei risultati di tali indagini”. Tali azioni comprendono anche “la chiusura del sistema di clienti” che abbiano agito in modo scorretto, come riportato dal Washington Post.
L’episodio ricorda, per alcuni aspetti, l’operazione compiuta nel 2019 dal Nucleo speciale privacy e frodi tecnologiche della Guardia di finanza, allora guidato dal colonnello Giovanni Reccia, con la Procura di Napoli su Exodus, software spia utilizzato da forze di polizia e procure per le intercettazioni che avrebbe consentito di carpire in maniera illecita i dati di centinaia di utenti che non avevano nulla a che fare con inchieste e procedimenti penali. Domani, 20 luglio, si terrà l’incidente probatorio al carcere di Poggioreale a Napoli, come notificato a marzo dal gip del tribunale di Napoli ai 25 indagati (tra persone fisiche e società).
Tra i due casi, una differenza: quello Exodus riguardava un bug (una falla) nei sistemi operativi; quello Pegasus ha richiesto un ruolo attivo da parte della preda, adescata con un link inviato via email, WhatsApp, social o sms.
(Formiche.net, 19 luglio 2021)
Avishai Cohen in concerto a Rimini per il festival Crossroads
Il contrabbassista sarà in concerto domenica 25 alla Darsena di Rimini
RIMINI - Avishai Cohen è uno dei riferimenti assoluti del contrabbasso jazz odierno. La sua musica va ben al di là dello stampo afroamericano, si tinge di Medio Oriente e soprattutto di una virtuosistica capacità di giocare con le note come con le più profonde emozioni. Cohen sarà in concerto domenica 25 luglio all'Arena Lido della Darsena di Rimini (inizio alle ore 21:15), in trio con Elchin Shirinov (pianoforte) e Roni Kaspi (batteria) per un nuovo appuntamento in riviera del festival itinerante regionale Crossroads, organizzato da Jazz Network e dall'Assessorato alla Cultura della Regione Emilia-Romagna. Il concerto è realizzato in collaborazione con il Comune di Rimini Settore Cultura. Biglietti: primo settore euro 25; secondo settore euro 20; tribunette euro 15.
Nato nel 1970 in Israele in una famiglia dai forti interessi musicali, Avishai Cohen viene avviato agli studi di pianoforte all'età di nove anni. Quando ne ha quattordici, la sua famiglia si trasferisce a St. Louis, nel Missouri. L'arrivo negli Stati Uniti coincide con l'inizio della passione per il basso, dapprima quello elettrico, stimolata dall'ascolto di Jaco Pastorius. Avishai ritorna però in Israele dove prosegue gli studi e svolge il servizio militare: è solo dopo di questo che decide di trasferirsi a New York. Vi arriva nel 1992 e deve affrontare una vita dura per mantenersi. Inizia però presto a suonare con Ravi Coltrane, Wynton Marsalis, Joshua Redman, Paquito D'Rivera, Roy Hargrove, Danilo Pérez, finché, nel 1997, la sua fortuna cambia radicalmente quando Chick Corea lo coinvolge nel suo trio e nel gruppo Origin. Cohen viene catapultato nei piani alti del jazz, posizione da cui continua ad affinare la sua tecnica strumentale e compositiva.
Corea permette a Cohen di esordire anche come leader, producendogli con la sua etichetta discografica una serie di album a partire da Adama (1998). È chiaro sin da subito che guidare i propri gruppi permette a Cohen di dare libero sfogo non solo alle sue doti solistiche ma specialmente a quelle compositive, che rivelano influssi latini e mediterranei. Da allora la sua carriera è proseguita con una fitta produzione discografica da leader, sospinta anche dalla creazione di una propria etichetta, la Razdaz Recordz.
Il trio è il format col quale Cohen ha espresso nella maniera più compiuta ed emozionante una sorta di 'ritorno alle origini': gli elementi mediorientali e gli influssi della musica ebraica sono man mano emersi con maggiore chiarezza, intrecciandosi saldamente alla matrice jazzistica afroamericana. Ne è un perfetto esempio il suo più recente lavoro discografico, Arvoles (2019).
(altarimini.it, 19 luglio 2021)
Israele - Ministro della Sanità: l'obiettivo è evitare una nuova chiusura per Covid
GERUSALEMME - La possibilità di un altro blocco esiste ancora, ma il governo israeliano non la sta considerando per ora e l'obiettivo è evitarlo. Lo ha detto oggi il ministro della Sanità, Nitzan Horowitz. Nel Paese, infatti, i contagi continuano a salire. Sabato ne sono stati registrati 430, mentre sono 63 i pazienti in gravi condizioni. Quattro settimane fa i pazienti gravi erano 19. &"Naturalmente è possibile che ci sia un altro blocco, ma non ne stiamo discutendo ora", ha detto Horowitz in un'intervista all'emittente radiofonica "Army Radio". “Tutti possono capire che se c'è un enorme focolaio, inclusa una grave morbilità, ci arriveremo. Stiamo prendendo misure per non averne bisogno", ha aggiunto.
Venerdì, 16 luglio, erano stati rintracciati 1.120 nuovi positivi su 76.000 test effettuati. All'inizio di giugno, Israele registrava circa 10-20 nuovi casi al giorno. Il nuovo focolaio sarebbe comparso in alcune scuole, riferisce la stampa locale.
(Agenzia Nova, 18 luglio 2021)
Tensione nella Spianata delle Moschee per la ricorrenza ebraica di Tishà be-Av
Appello autorità islamiche per impedire l'ingresso di fedeli ebrei
GERUSALEMME - Tensione elevata oggi nella Spianata della Moschee di Gerusalemme dove sono entrati centinaia di fedeli ebrei in occasione del digiuno ebraico del Tishà be-Av [digiuno del 9 di Av, quest'anno 18 luglio], che ricorda la distruzione del Tempio di Gerusalemme. Le autorità islamiche hanno fatto appello ai fedeli musulmani affinché impediscano loro l'ingresso ed in mattinata si sono avuti incidenti, finora circoscritti.
Il premier Naftali Bennett sta seguendo gli sviluppi assieme col ministro per la sicurezza interna Omer Bar Lev. La polizia ha intanto sbarrato diversi accessi alla Spianata ed è presente in forze.
(ANSAmed, 18 luglio 2021)
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Digiuno del 9 di Av
Il 9 del mese di Av per gli ebrei è giorno di lutto e di digiuno. In questa data a distanza di molti secoli furono distrutti sia il primo che il secondo Santuario. Il primo Santuario fu distrutto nel 586 prima dell’era volgare ad opera dei babilonesi e il secondo ad opera dei romani nel 70 e.V. Il Santuario di Gerusalemme era il luogo dove si svolgevano le cerimonie rituali prescritte nella Torà; era il centro spirituale e anche politico e religioso dell’ebraismo; la perdita del Santuario segnò anche la perdita di questo centro, oltre che l’inizio della diaspora. La distruzione del Santuario è presente nel cuore degli ebrei anche dopo venti secoli: nelle preghiere, in qualsiasi parte del mondo ci si trovi, ci si rivolge sempre fisicamente e idealmente verso le vestigia del Muro occidentale. Tishà be-Av significa 9 del mese di Av. Questa data, divenuta simbolo di disgrazia per il popolo ebraico segna anche altri momenti tragici: proprio il nove di Av gli ebrei furono cacciati dalla Spagna nel 1492.
Nelle sinagoghe parate a lutto e in un’atmosfera di grande tristezza, spesso seduti in terra e a lume di candela, si recitano preghiere ed elegie ispirate alla rovina del Tempio di Gerusalemme e all’esilio del popolo ebraico.
Secondo la tradizione ebraica nella distruzione già ci sono i semi della redenzione e proprio in questa data, simbolo di distruzione, verrà al mondo il Messia: in questa giornata si usano dei libri liturgici particolari che molti usano gettar via alla fine della ricorrenza, come segno di cieca fiducia nell’avvento messianico. Avranno la gioia di vedere Gerusalemme ricostruita solo coloro che abbiano partecipato alle manifestazioni di lutto che si tengono a Tishà be-Av.
(Unione delle Comunità Ebraiche Italiane)
Ricordiamo al mondo chi è che non vuole la soluzione a due Stati
Un unico Stato arabo palestinese dal mare al Giordano e gli ebrei buttati a mare
di Franco Londei
Ieri un alto membro di Fatah ha attaccato gli Emirati Arabi Uniti per aver normalizzato i rapporti con Israele accusando il paese arabo di tradimento della causa araba che è quella di un unico Stato palestinese.
Più o meno nello stesso momento uno dei boss della Jihad Islamica palestinese ammetteva che il loro obiettivo non era affatto quello dei due Stati ma quello di un unico Stato Palestinese con l’espulsione di tutti gli ebrei.
Abbas Zaki, membro del Comitato Centrale del movimento Fatah, quello che in occidente ritengono “moderato” e che fa capo a Mahmud Abbas (Abu Mazen) ha attaccato duramente il principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammad bin Zayed (MBZ), per aver normalizzato i rapporti con Israele.
Zaki ha detto che gli Emirati Arabi Uniti hanno tradito la causa palestinese e quella araba che è quella di liberare la Palestina dal mare al Giordano, compreso quindi il territorio dove attualmente c’è Israele.
Per lo stesso motivo nel mirino di Abbas Zaki ci sono finti anche il Sudan, il Marocco e il Bahrain. Tuttavia l’alto funzionario di Fatah, pur chiedendo l’espulsione di questi stati dalla Lega Araba, non condanna i popoli ma solo i loro leader e ne chiede la destituzione.
Più o meno nello stesso momento arrivavano dall’Iran le dichiarazioni del capo del politburo della Jihad islamica palestinese, Mohammad Al-Hindi, il quale senza giri di parole ammetteva che lo scopo della “resistenza palestinese” non era affatto quello di creare due stati che vivono in pace, ma quello di creare un unico Stato palestinese e di «buttare a mare tutti gli ebrei».
Sia chiaro, la cosa non è affatto una novità, sia Hamas che Fatah ce lo hanno addirittura nello Statuto. Che il capo della Jihad Islamica palestinese si trovi d’accordo con loro non è certo una sorpresa.
Ma siccome ultimamente nella politica europea (e italiana) è tornato di gran voga parlare della soluzione a due Stati, con diverse sfumature, è bene ricordare a questi signori chi è che non la vuole questa soluzione.
(Rights Reporter, 18 luglio 2021)
"Salvò la vita a mia madre e mia nonna ebree, nascondendoci nel convento"
Deve la sua vita a suor Benedetta. A raccontare la sua storia è Sara Cividalli, ex presidente della comunità ebraica di Firenze.
di Sofia Del Pero
Siamo a Firenze, anni '40, una ragazza e sua madre, ebree, vengono salvate da una suora di Modigliana, ma la figlia della ragazza scopre la vicenda solo più di settant’anni dopo. A raccontare la sua storia è Sara Cividalli, ex presidente della comunità ebraica di Firenze: “Per anni mia madre non ne ha parlato e io non ho mai chiesto cosa fosse successo. Poi 15 anni fa circa in una ricerca storica si sono scoperte le testimonianze di molti ebrei salvati raccolte il 21 agosto del 45, subito dopo la liberazione della città avvenuta l’11 agosto. Tra esse c’era anche quella di mia madre. Sul momento però non ho voluto sapere”.
Anni dopo un fatto eccezionale l’ha spinta a riguardare i vecchi documenti: “Ero andata in vacanza e decisi di lasciare il mio cane da amici - narra - Un loro collega lo notò e chiese da dove veniva. Dopo aver sentito il nome di via Bovi, dove abitavo, disse che andava lì a trovare una signora, Miranda Cividalli. Quella signora era mia madre. Da allora cercai di capire meglio cosa fosse successo”. Sara quindi rilesse la testimonianza e finalmente scoprì cosa era successo. “Mia madre e mia nonna erano state salvate da Benedetta, una suora che stava in convento vicino a loro. Suor Benedetta ha salvato diverse famiglie ebree, rischiando la vita. All’inizio le nascondeva con le ragazze sfollate, ma poi iniziò ad aver paura che le denunciassero. Quindi le spostò in una stanza isolata. Pensò lei a tutto, dal cibo, che in quel periodo scarseggiava, ai calmanti per mia nonna, che aveva terribili incubi.”
Il racconto arriva a margine della cerimonia di titolazione a Suor Benedetta Pompignoli, del giardino di fianco al Duom di Modigliana, con l'inaugurazione del monumento che ne ricorda l'operato e per il quale, il 1 luglio del 2018, è stata riconosciuta dallo Stato di Israele come "Giusta fra le nazioni" per avere salvato la vita a tanti ebrei perseguitati dal nazismo. Suor Benedetta era nativa di Modigliana e durante il periodo delle persecuzioni razziali era Superiora del Convento di Firenze delle Suore Francescane della Sacra Famiglia.
E' grazie a lei se Sara Cividalli oggi esiste, anche se la suora modiglianese non l'ha mai saputo. Tre giorni prima della liberazione, però, le due donne furono costrette a scappare. Sara Cividalli spiega: “I tedeschi avevano deciso di bombardare i ponti sull’Arno e avevano dato l’ordine di evacuare tutte le abitazioni nella zona. Queste includevano anche il convento. Sono scappate da amici e da allora non hanno più rivisto suor Benedetta. Non so se lei abbia mai saputo che mia madre si era salvata. Mia nonna invece è morta in ospedale il giorno dopo la liberazione”. Poi conclude: “Devo tanto a suor Benedetta, è un po’ come una madre per me, senza di lei non sarei mai nata. Il 26 novembre dell’anno scorso le abbiamo conferito delle onorificenze, per ricordare il suo coraggio. A Modigliana, suo paese d’origine, abbiamo inaugurato un monumento in suo onore. È un mosaico composto da tante tessere, che simboleggiano sia le tante cose che ha fatto, sia il modo in cui vedeva il mondo. Per lei ogni persona era un po’ come una tessera unica che, messa insieme a tutte le altre, creava un bellissimo mosaico”.
(ForlìToday, 18 luglio 2021)
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Ammonimenti a guardarsi dalla donna adultera
Riflessioni sul libro dei Proverbi. Dal capitolo 5.
- Or dunque, figlioli, ascoltatemi,
e non vi allontanate dalle parole della mia bocca.
- Tieni lontana da lei la tua via
e non ti avvicinare alla porta della sua casa,
- per non dare ad altri il fiore della tua gioventù,
e i tuoi anni all'uomo crudele;
- perché degli stranieri non siano saziati dei tuoi beni,
e le tue fatiche non vadano in casa d'estranei;
- perché tu non abbia a gemere quando verrà la tua fine,
quando la tua carne e il tuo corpo saranno consumati;
- e tu non dica: «Come ho fatto a odiare la correzione,
e come ha potuto il mio cuore disprezzare la riprensione?
- Come ho fatto a non ascoltare la voce di chi m'insegnava,
e a non porgere l'orecchio a chi m'istruiva?
- Poco mancò che non mi trovassi immerso in ogni male,
in mezzo all'assemblea e alla comunità».
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Figlio mio, sta' attento alla mia saggezza,
inclina l'orecchio alla mia intelligenza,
Ancora una volta il padre si rivolge ai figli (o al figlio) invitandoli ad ascoltare le sue parole (1.8, 4.1, 4.10). Se in 1.8 aveva esortato a "non rifiutare" l'insegnamento ricevuto, adesso invita a non allontanarsi dalle sue parole. Sono diversi, infatti, i modi che si possono usare per respingere un discorso. Si può ascoltarlo tutto e poi rifiutarlo apertamente, esprimendo in modo esplicito il proprio dissenso; oppure si può lentamente e silenziosamente allontanarsi fino a che le parole non arrivano più. L'opposizione non è più necessaria. Si può vivere come se chi doveva essere ascoltato non avesse mai parlato.
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Tieni lontana da lei la tua via
e non ti avvicinare alla porta della sua casa,
All'invito a non allontanarsi dalle parole di saggezza del padre segue l'esortazione a non avvicinarsi alla casa della donna adultera. Chi si allontana dalla Parola di Dio prima o poi si avvicina al peccato. L'uomo esercita la sua libertà anche decidendo a quali influenze vuole sottoporsi; ma deve sapere che una volta che la scelta è fatta, certe influenze possono risultare irresistibili. La conoscenza del vero bene si ottiene attraverso l'ascolto (5.6) e se ne fa l'esperienza attraverso l'ubbidienza (Romani 12.2).
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per non dare ad altri il fiore della tua gioventù,
e i tuoi anni all'uomo crudele;
La giovinezza può essere paragonata a un capitale economico. La sua particolarità sta nel fatto che non si fa nulla per ottenerlo e nulla si può fare per impedire che lentamente, ma inesorabilmente, si assottigli fino a sparire del tutto. L'unico modo per conservarlo è investirlo bene trasformandolo in un bene stabile, eterno. Questo bene è la vita stessa condotta nell'ascolto ubbidiente delle parole che provengono da Dio, che è l'unico ad avere "parole di vita eterna" (Giovanni 6.68). Chi non fa questo dilapida prima del tempo il capitale ricevuto, e il fiore della sua gioventù viene sfruttato da altre persone che, come la donna adultera, lo consumano per il proprio piacere e poi se ne disinteressano, oppure, come l'uomo crudele (probabilmente il marito della donna), si vendicano senza pietà del danno subito (6.32-33).
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perché degli stranieri non siano saziati dei tuoi beni,
e le tue fatiche non vadano in casa d'estranei;
Stranieri ed estranei sono termini che nell'originale compaiono insieme anche in 2.16, 5.20, 7.5 per indicare la donna adultera. Poiché l'estranea non è la propria donna, anche il frutto di tutte le fatiche fatte per lei deve necessariamente estraniarsi, cioè andare a finire in casa d'altri. Mentre il rapporto d'amore con la propria donna arricchisce la persona in tutti i sensi, morali e materiali, il rapporto egoistico con la donna altrui consuma beni vitali di tutti i tipi, fino a condurre la persona in un doloroso stato di miseria che porta a rimpiangere le scelte fatte soltanto per ricercare il piacere.
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perché tu non abbia a gemere quando verrà la tua fine,
quando la tua carne e il tuo corpo saranno consumati;
Nel rapporto con la donna d'altri l'elemento fondamentale non è l'amore, ma la ricerca dei piaceri corporali. E quando la carne e il corpo arrivano ad essere consumati per l'inevitabile processo d'invecchiamento cominciano i gemiti, dovuti non tanto ai dolori fisici, che in ogni caso non possono essere evitati, quanto al senso di solitudine che sopravviene come giusto castigo per aver ricercato e coltivato un rapporto di puro egoismo, al di fuori della volontà di Dio.
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e tu non dica: «Come ho fatto a odiare la correzione,
e come ha potuto il mio cuore disprezzare la riprensione?
Correzione e riprensione sono termini che compaiono spesso insieme nel libro dei Proverbi (3.11, 5.12, 10.17, 12.1, 13.18, 15.10): denotano l'atteggiamento del maestro che con le sue parole vuole frenare un comportamento sbagliato e indicarne uno giusto. Nella sua reazione il discepolo può odiare la correzione, ribellandosi apertamente alle sagge indicazioni di chi lo istruisce, o disprezzare la riprensione, semplicemente trascurando di prendere in considerazione quello che gli viene detto. Ma le parole di sapienza che provengono da Dio non sono opinioni, ma parole di verità, rivelazione della realtà così com'è. Di conseguenza, chi non si lascia correggere dalla saggezza dovrà essere corretto dalla vita: "Una dura correzione spetta a chi lascia la retta via; chi odia la riprensione morirà" (15.10). Allora sarà costretto a riconoscere che le parole della sapienza di Dio si adempiono inevitabilmente, e alla sofferenza che dovrà subire si aggiungerà l'amara consapevolezza di essere stato egli stesso la causa dei propri mali. "Chi odia la riprensione è uno stupido" (12.1).
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Come ho fatto a non ascoltare la voce di chi m'insegnava,
e a non porgere l'orecchio a chi m'istruiva?
Se il discepolo rifiuterà di ascoltare le parole di riprensione e correzione del maestro, un giorno accadrà che, ripensando alle dolorose conseguenze di questo rifiuto, sarà lui stesso a rimproverarsi e a dire: "Perché non ho ascoltato la voce di chi m'insegnava? perché non ho dato ascolto a chi m'istruiva?" Ma sarà troppo tardi. L'autoriprensione retroattiva serve soltanto ad alimentare il rimpianto e il rimorso, ma non può cambiare la realtà del passato. Chi respinge le parole di saggezza che gli vengono trasmesse perché vuole riservarsi la possibilità di verificare nei fatti se sono vere oppure no, prima o poi sarà spinto dai fatti avvenuti a riconoscere che avrebbe fatto meglio a fidarsi delle parole ascoltate.
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Poco mancò che non mi trovassi immerso in ogni male,
in mezzo all'assemblea e alla comunità».
Ricordare le parole di sapienza udite nel passato può tuttavia servire a limitare i danni ed evitare guai maggiori. Fermarsi per tempo può impedire al male di assumere una dimensione pubblica che inevitabilmente lo diffonde e lo aggrava. Se è vero che il matrimonio vissuto nell'ordine voluto da Dio è una benedizione per tutta la società in cui vive la famiglia, è altrettanto vero che una relazione adulterina produce in quel medesimo tessuto sociale una lacerazione che è causa di sofferenze aggiuntive per coloro che l'hanno provocata.
M.C.
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Azienda israeliana aiuta i governi arabi a spiare dissidenti e oppositori
È quanto emerso da un rapporto elaborato da Microsoft in collaborazione con gli esperti di Citizen Lab dell’università di Toronto. La compagnia Candiru avrebbe usato siti web di attivisti per penetrare all’interno dei dispositivi. Almeno 100 vittime nei Territori occupati palestinesi, Israele, Iran, Libano, Yemen, Turchia, Armenia e Singapore.
TEL AVIV - Una azienda israeliana ha aiutato diversi governi nel mondo, anche arabi, a spiare e hackerare i movimenti di attivisti, giornalisti, dipendenti delle ambasciate, diplomatici e politici dell’opposizione. Secondo quanto emerge da un rapporto elaborato dalla Microsoft, lo spyware era installato attraverso gruppi web umanitari fasulli, incluse pagine contraffatte di Amnesty International e Black Lives Matter.
La scoperta emerge da uno studio degli esperti di Citizen Lab dell’università di Toronto, che hanno lavorato assieme alla Microsoft per portare alla luce le attività “maligne” di Candiru, una azienda con base a Tel Aviv, specializzata nella vendita di spyware “non rintracciabili”. Secondo il rapporto, la tecnologia ha consentito di entrare in Microsoft Windows, infettando e monitorando le attività dei proprietari di computer e telefoni cellulari.
Scandagliando la rete, Citizen Lab avrebbe identificato più di 750 siti collegati all’infrastruttura spyware di Candiru. “Abbiamo trovato molti domini - afferma un ricercatore - mascherati da organizzazioni attiviste, oltre a società di media e altre entità legate alla società civile”. Bill Marczak, coautore del rapporto, spiega al Guardian che spesso le fonti sembravano attendibili ma una volta penetrato lo spyware eseguiva “un codice in background“ per “dirottare in modo silenzioso” il “controllo dei computer” delle persone colpite.
Il codice, aggiunge l’esperto, garantiva un “accesso costante” al computer o allo smartphone, consentendo ai governi di rubare password, documenti, di accendere microfoni o videocamere delle persone spiate. E le vittime sparse in tutto il mondo, conclude, “non si accorgevano di nulla”. Il programma era in grado di infettare iPhone, devices Android, Mac, Pc, iPad e account cloud ed è stato usato per colpire diverse organizzazioni e singoli, compreso un gruppo dissidente saudita e un giornale di sinistra indonesiano.
Microsoft parla di almeno 100 vittime nei Territori occupati palestinesi, Israele, Iran, Libano, Yemen, Turchia, Armenia e Singapore. “La crescente presenza di Candiru e l’uso della sua tecnologia di sorveglianza sulla società civile globale è un promemoria - afferma Citizen Lab - del fatto che l’industria dello spyware mercenario è formata da molti attori e soggetta ad abusi diffusi”. In due anni dalla fondazione, Candiru avrebbe fatturato quasi 30 milioni di dollari. I suoi clienti si trovano in Europa, ex Unione Sovietica, Golfo Persico, Asia e America Latina. Fra le nazioni che vi fanno ricorso vi sarebbero diverse realtà mediorientali fra cui Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti (Eau) e Qatar.
Diverse aziende israeliane, i cui fondatori provengono da Intelligence e Difesa, hanno sviluppato tecnologie per hackerare e spiare telefoni cellulari o computer. A giugno Quadream, altra società con sede a Tel Aviv, è stata accusata di aver venduto un programma chiamato Reign alle autorità saudite, capace di rubare dati dai telefoni e usarli come dispostivi di localizzazione, senza utilizzare link civetta per entrare nei dispositivi. Anche lo spyware Pegasus, sviluppato dalla più grande società di sorveglianza israeliana NSO Group, utilizza la tecnologia zero-click ed è stato venduto, tra gli altri, all’Arabia Saudita.
(Agenzia Stampa Italia, 17 luglio 2021)
Daniel Oren dirige Il Trovatore. "La Sicilia è solare come Israele"
Il celebre direttore d'orchestra ospite del Massimo "Verdi è un profeta siamo tutti fratelli".
di Francesca Taormina
Una Spagna notturna, a volte cupa, è quella de "Il Trovatore" di Giuseppe Verdi, opera di mezzo della trilogia verdiana al debutto domenica sera al Teatro di Verdura, alle 21,15, per la stagione estiva del Teatro Massimo. Sul podio torna a Palermo Daniel Oren, il direttore israeliano che ha scelto l'Italia come seconda patria, e ama Verdi e tutto ciò che è made in Italy. «A quante scritture ho rinunciato — ricorda il maestro — per restare in Italia. Giunsi a Trieste, dopo aver vinto il concorso Karajan in Israele, e non sono più andato via. Quando vado all'estero, non importa se in Germania o in Francia, vado a cercare i posti frequentati dagli italiani, il cibo, ormai da anni per me esiste solo quello italiano. Per la Sicilia è ancora più valido quello che dico, perché mi ricorda Israele, per i colori, per il mare trasparente, per certi vicoli ombreggiati, si lo so che avete anche voi numerosi problemi, e chi non ne ha?»
Ma il Trovatore di Verdi cosa ci dice oggi, parla ancora al nostro cuore? Qui il maestro non ha esitazioni: «Nel 1853 Verdi scrive questo capolavoro e il messaggio non solo è chiarissimo, ma vale per sempre — aggiunge Oren — gli uomini posseggono l'istinto di uccidere, di considerarsi nemici, come il Conte di Luna e Manrico, salvo poi scoprire alla fine di essere fratelli. Verdi qui è un profeta, la Spagna di allora è territorio di guerre proprio come lo è gran parte del mondo, se lo lasci dire da un Israeliano che sa cosa significa potere avere la guerra sempre dietro l'angolo, ma finché non capiremo che siamo tutti fratelli, figli dello stesso Dio, non saremo che perdenti. Ecco il Trovatore. Sono tutti perdenti». Ma il Trovatore è anche una storia d'amore tra Manrico e Leonora e tra Manrico e sua madre Azucena, la zingara che pensa al figlio come sua proprietà. Anche questo è molto siciliano. «Ma anche molto tipico di una madre molto ebrea — aggiunge Daniel Oren — come la mia. Certe volte penso che mia madre abbia sposato mio padre solo per avere me. Quando sono nato, il resto del mondo scomparve per lei, non esisteva null'altro, anzi allontanò amici e parenti perché riteneva che fossero una distrazione dall'unico e vero obiettivo, che io dovevo diventare un grande musicista, o un grande cantante. Lei non capiva nulla di musica, ma aveva un intuito eccezionale che la guidava con fermezza, mi portò pure da Leonard Bernstein per fargli sentire come cantavo e il grande maestro, cui sono molto grato, mi prese. Altro che Azucena del Trovatore. Si chiamava Rena, polacca di Lublin, riuscì ad andare in Svizzera per studiare e poi emigrò in Israele dove prese il nome di Rebecca».
Ma tutta la passionalità espressa sul podio, quel cantare e saltare, quella concentrazione massima che coinvolge tutto il corpo da dove viene? «La musica — spiega il maestro è preghiera, è contatto metafisico, con l'invisibile. Io amo le preghiere ebraiche che cantiamo in sinagoga, ma la vostra musica è la vera scala che porta all'anticamera di Dio. C'è una felicità trascinante che coinvolge tutto ciò che sono, ma quasi sempre è preghiera». Adesso il Trovatore è in forma concertante, ma c'è un cast di tutto rispetto, dal baritono Artur Rucinski, un Conte di Luna pressocché perfetto, al soprano americano, voce potente e flessuosa, Angela Meade; Manrico è il tenore Carlo Ventre, e Azucena è Violeta Urmana, Ferrando è il basso Sava Vemic. II coro è diretto da Ciro Visco. Si replica martedì sera.
(la Repubblica, 17 luglio 2021)
In Israele 152 persone si sono ammalate di Covid-19 e sono morte a causa della malattia nonostante avessero ricevuto due dosi di vaccino
Tutti avevano in comune l’età avanzata, un sistema immunitario indebolito e la concomitanza di altre malattie.
Lo indica la ricerca in via di pubblicazione sulla rivista Clinical Microbiology and Infection e condotta in 17 ospedali di Israele sotto la guida di Tal Brosh-Nissimov, dell’Università Samson Assuta Ashdod e dell’Università Ben Gurion.
Tutti i casi esaminati erano stati vaccinati con due dosi del vaccino della Pfizer-BioNtech e quelli descritti nell’articolo, che costituiscono una netta minoranza rispetto alle migliaia di persone che hanno ricevuto lo stesso vaccino, sollevano l’attenzione sul problema dei casi in cui il virus riesce comunque a bucare il vaccino e, come è accaduto in questi pazienti, non necessariamente sotto la spinta delle varianti.
«L’esito di questi pazienti è stato simile a quello dei pazienti Covid-19 ricoverati non vaccinati.», osservano gli autori della ricerca. Per questo motivo, aggiungono, «sono urgenti ulteriori studi per identificare fattori predittivi dei casi in cui l’infezione riesce a bucare il vaccino in modo da permettere di identificare gli individui a rischio più elevato».
«È il primo esperimento nel quale si vede che il vaccino viene bucato anche clinicamente: sono i primi casi di persone che non ce l’hanno fatta», osserva il virologo Francesco Broccolo, dell’Università di Milano Bicocca. «Il problema - osserva - non sembrano essere solo le varianti, in quanto soltanto in 9 dei 152 pazienti è stata rilevata la presenza della variante sudafricana». Soprattutto, secondo l’esperto, i dati appena pubblicati indicano che «ci sono soggetti che non rispondono al vaccino e che è importante prepararsi a intercettarli per proteggerli ulteriormente».
(Corriere del Ticino, 16 luglio 2021)
Vaccinatevi, vaccinatevi: sono urgenti ulteriori studi.
Israele colpisce il terrorismo nelle criptovalute
Israele ha bloccato 70 conti di criptovalute con cui Hamas avrebbe cercato di finanziarsi, mentre cresce l’interesse di Cina, Russia e Corea del Nord.
di Alessandro Longo
La scorsa settimana, Israele ha preso di mira il flusso di denaro digitale di Hamas sequestrando decine di wallet associati al gruppo islamista della Striscia di Gaza.
Un’attività di intelligence applicata al mondo digitale che dimostra due novità, valide anche per lo scenario europeo e italiano: il ruolo che le criptovalute stanno assumendo per le questioni politiche e geo-politiche e “l’importanza di avere comparti anche in Italia di intelligence iper specializzati e con funzioni ad hoc, come quelli israeliani”, come ci ha spiegato Michele Colajanni, professore all’Unimore e tra i più noti esperti di questioni cyber.
Il sequestro dei conti di Hamas
Hamas, inserito sulla lista nera come gruppo terroristico dagli Stati Uniti e dall'Unione europea, ha usato a lungo le valute digitali per aggirare le sanzioni occidentali. Il gruppo usa le criptovalute, storicamente difficili da tracciare, per raccogliere fondi e trasferirli attraverso i confini utilizzando un sistema di portafogli digitali.
Mercoledì scorso, l’ufficio del ministero della Difesa di Israele per il Contro-finanziamento al terrorismo ha annunciato di avere sequestrato alcuni portafogli digitali legati ad Hamas alla fine di giugno, in quella che è la prima e più aggressiva azione contro gli sforzi del gruppo terroristico in criptovaluta. La mossa è arrivata dopo che il ministro Gantz ha firmato un ordine amministrativo che autorizza i sequestri il 30 giugno.
Varie fonti hanno riportato che sono circa 70 i portafogli sequestrati, “attività possibile con un raffinato sistema di intelligence e tracciamento dei conti”, ha chiarito Paolo Dal Checco, esperto informatico forense.
Hamas, che ha subìto perdite significative durante gli 11 giorni di combattimenti con Israele a maggio, sta ora tentando di riorganizzarsi raccogliendo fondi attraverso valute virtuali, come i bitcoin: “Tenta di bypassare il sistema bancario convenzionale”, ha riferito il canale televisivo israeliano Keshet 12.
A giugno il Wall Street Journal ha scritto che “c'è stato sicuramente un picco” nelle donazioni di criptovalute all'organizzazione, citando un funzionario del gruppo: “Parte del denaro viene utilizzato per scopi militari per difendere i diritti fondamentali dei palestinesi”.
I conti non erano solo in bitcoin, la valuta digitale più comune e conosciuta, ma anche in ethereum e persino dogecoin, una valuta diventata popolare dopo che Elon Musk gli ha dedicato la sua attenzione.
Il ruolo geopolitico delle criptovalute
Già in passato le criptovalute hanno rivestito un ruolo nel rapporto tra gli Stati, ma certo il fenomeno sta accelerando. Nel 2016 un gruppo terroristico della Striscia di Gaza ha chiesto donazioni in bitcoin via Twitter e Telegram: la campagna si chiamava Jahezona e all’inizio ha raccolto solo 500 euro; molto meglio nel 2018, quando ha ricevuto 15 donazioni, due delle quali del valore di 289.273 dollari e 123.021 dollari.
Secondo un’analisi di Chainanalysis, sarebbe già da 7 anni che gruppi terroristici, in particolare quelli siriani, si finanziano con criptovalute. E anche se questa non è la loro principale fonte di finanziamento, sta crescendo in importanza.
Secondo l’Fbi, la Corea del Nord si sarebbe servita di un gruppo hacker autoctono, chiamato Lazarus, per finanziarsi tramite attacchi ransomware (con il celebre virus Wannacry) nel 2017, raccogliendo 2 miliardi di dollari in criptovalute. Il governo ha sempre smentito queste accuse, mentre gli Usa accusano la Corea di usare i bitcoin per riciclare denaro sporco e anche aggirare le sanzioni internazionali.
Da tempo, anche attraverso il presidente Biden, gli Stati Uniti accusano la Russia di dare porto franco ai criminali dei ransomware. E nella nuova strategia di cybersecurity avviata dalla Casa Bianca stanno cercando di rendere più tracciabili i pagamenti in criptovaluta, per contrastare i cybercriminali. Un primo, importante risultato è stato ottenuto recuperando parte dei soldi pagati per il caso Colonial Pipeline.
Infine, le criptovalute stanno assurgendo a fattore geopolitico anche alla luce della spinta della Cina per una propria valuta digitale governativa (ostacolando invece a più riprese le criptovalute decentralizzate come i bitcoin), mentre interesse simile si registra da parte dell’Europa (per un euro digitale) e dagli Stati Uniti.
(la Repubblica, 16 luglio 2021)
Parigi, 16 luglio 1942: il rastrellamento del Velodromo d’Inverno
di Giorgio Giannini
Nel giugno 1940, dopo poche settimane di guerra, la Francia è sconfitta dai nazisti. La parte settentrionale è occupata militarmente dai tedeschi mentre nella parte meridionale si costituisce uno stato collaborazionista, con capitale la cittadina termale di Vichy (per cui è chiamato Regime di Vichy), di cui è presidente il Maresciallo Philippe Pétain (eroe della Prima guerra mondiale) e primo ministro Pierre Laval.
Il 21 settembre 1940 un’ordinanza nazista dispone il censimento di tutti gli ebrei francesi, anche nello stato fantoccio di Vichy, dove è incaricato di eseguire il provvedimento l’ispettore di polizia André Tulard. In pochi mesi tutti gli ebrei sono schedati, con l’indicazione della loro professione e del loro indirizzo, in un lungo elenco, chiamato Dossier Tulard .
Il 4 luglio 1942 René Bousquet, capo della polizia del Regime di Vichy, e Louis Darquier de Pellepoix, commissario generale per le questioni ebraiche, incontrano nella sede della Gestapo, in Avenue Foch a Parigi, gli ufficiali delle SS Helmut Knochen, comandante della Polizia di Sicurezza e del Servizio di Sicurezza, e Thoedor Dannecker, rappresentante per gli “affari ebraici” di Adolf Eichmann, che dirige l’Ufficio IVB4 dell’Ufficio Centrale della Sicurezza del Reich (RSHA) e che è stato delegato, dalla Conferenza tenutasi a Wannsee (in una villa sulla riva dell’omonimo lago, vicino alla Capitale tedesca) il 20 gennaio 1942, alla soluzione del “problema ebraico”, cioè alla deportazione degli ebrei nei campi di sterminio, in primo luogo quello di Auschwitz, realizzato proprio per questo scopo (non a caso sarà poi chiamato dagli storici “la fabbrica della morte”). Il capitano Dannecker nel gennaio 1943 è in Bulgaria per dirigere la deportazione degli ebrei bulgari, che però è annullata per la opposizione della Chiesa Ortodossa e di alcuni influenti parlamentari. In seguito, il 16 ottobre 1943 Dannecker dirige la “razzia” degli ebrei romani, che vivono sia nel ghetto che nei vari quartieri della città. Nel 1944 dirige la deportazione degli ebrei ungheresi.
I due ufficiali nazisti illustrano il programma della cattura degli ebrei e della loro deportazione nei lager. Bousquet e Darquier accettano il programma nazista e quindi Dannecker telegrafa subito a Berlino, per informare Eichmann della accettazione del “programma”, che sarebbe stato attuato il 13 luglio.
Il 7 luglio si tiene nella sede parigina della Gestapo una nuova riunione per organizzare la cattura e la deportazione degli ebrei. Vi partecipano vari funzionari francesi, sia della Polizia statale che di quella municipale, e anche Tulard e Jean Leguay, il vice di Bousquet.
Viene quindi dato il via al programma di deportazione degli ebrei, denominato “Operazione Vento di Primavera” (Opération Vent Printanier) che deve essere eseguito “con la massima velocità” e che riguarda anche gli ebrei tedeschi, austriaci, cechi (scappati dal Reich in seguito all’emanazione delle leggi antiebraiche di Norimberga del 1935) e di altre nazionalità, che si trovano a Parigi e che sono circa 22.000.
L’Operazione inizia alle ore 4 del 16 luglio 1942. Vengono catturati dai nazisti, con la fattiva collaborazione della polizia del Regime collaborazionista di Vichy, 13.152 ebrei, dei quali 5.804 (il 44%) sono donne e 4.115 (il 31 %) sono bambini e ragazzi fino a 16 anni. La cattura di questi ultimi, come anche delle persone anziane, è effettuata per iniziativa Regime di Vichy, dato che i nazisti avevano chiesto solo la cattura delle persone tra i 16 ed i 40 anni. Comunque, Eichmann autorizzò la deportazione di queste persone alcuni giorni dopo.
Fu lo stesso primo ministro Pierre Laval a proporre ai nazisti la cattura delle intere famiglie. Giustificò questa decisione per un “principio umanitario”. Infatti, affermò nel Consiglio dei Ministri: «Per un principio umanitario ho ottenuto, contrariamente alle prime intenzioni dei tedeschi, che i figli, compresi quelli minori di sedici anni, siano autorizzati ad accompagnare i genitori».
Gli arrestati, autorizzati a portare con sé solo una coperta, un maglione ed un paio di scarpe, sono divisi in due gruppi: quelli che sono senza famiglia sono inviati nel Campo di transito di Drancy, vicino a Parigi (istituito nell’agosto 1941 per l’internamento degli ebrei stranieri, che si erano rifugiati in Francia per sfuggire alla cattura nel loro Paese, occupato dai tedeschi, in seguito all’emanazione delle leggi antiebraiche naziste), e sono deportati subito nei Lager. Invece, i gruppi familiari (che formano la maggioranza degli arrestati e comprendono essenzialmente le donne, i bambini, i ragazzi e gli anziani) sono rinchiusi nel Velodromo d’inverno ( Vel d’Hiv ), per cui l’Operazione è anche nota come “Retata del Velodromo d’Inverno” (Rafle du Vélodrome d’Hiver).
Il Velodromo d’Inverno è un circuito coperto per le gare di ciclismo e si trova vicino alla Torre Eiffel, tra il Boulevard de Grenelle e Rue Nelaton, nel Quindicesimo Arrondissement di Parigi. È stato costruito all’inizio del secolo, su progetto dell’architetto Gaston Lambert, per iniziativa di Henri Desgrange, fondatore e direttore del quotidiano sportivo L’Auto e ideatore del Tour de France , per sostituire il precedente velodromo che si trovava nella Salle des Machines , che era stata demolita per consentire una migliore visuale della Torre Eiffel.
Le condizioni di vita all’interno del Velodromo diventano subito molto difficili, sia per il sovraffollamento che per le precarie condizioni igieniche. Infatti le finestre sono state chiuse per motivi di sicurezza (per evitare la fuga degli internati) come anche la metà dei 10 bagni. Inoltre c’è un solo rubinetto con l’acqua potabile. Alcuni internati tentano di fuggire, ma sono catturati e subito fucilati per intimorire gli altri, allo scopo di indurli a non tentare la fuga.
Dopo 5 giorni, i prigionieri sono portati nei campi di internamento di Drancy, Compiégne, Beaune-la Rolande e Pithiviers e successivamente nel campo di sterminio di Auschwitz, dal quale ritornano solo un centinaio di deportati. La retata del Velodromo d’Inverno è la più grande cattura e deportazione degli ebrei francesi durante l’occupazione nazista.
Il Velodromo d’Inverno è stato demolito nel 1959 dopo che era stato in parte distrutto da un incendio. Al suo posto è stato costruito un edificio del Ministero degli Interni.
Per oltre 50 anni il Governo francese ha rifiutato di fare i conti con il proprio passato collaborazionista con il nazismo, e quindi di riconoscere la collaborazione fornita alla cattura degli ebrei (peraltro spontaneamente) dal Regime di Vichy, che era uno “Stato fantoccio” dei nazisti. Solo il 16 luglio 1995, ben 53 anni dopo i fatti, il presidente della Repubblica Jacques Chirac ha finalmente riconosciuto, nel discorso commemorativo, il ruolo svolto dal Regime di Vichy nella persecuzione, nella cattura e nella deportazione degli ebrei nei lager nazisti. Il 16 luglio 2017 anche il presidente Emmanuel Macron ha chiesto scusa, a nome della Francia, per il ruolo svolto dalla polizia nella retata del Velodromo d’Inverno.
Un monumento commemorativo della cattura e della deportazione degli ebrei francesi è stato posto in Quai de Grenelle, nel Quindicesimo Arrondissement. Una targa commemorativa è stata posta nella stazione della Metropolitana di Bir- Hakeim, della Linea 6, sempre nel Quindicesimo Arrondissement.
La storia della deportazione degli ebrei francesi del 16-17 luglio 1942 è raccontata in alcuni film. Ricordiamo quelli usciti nel 2010: “Vento di Primavera“ (titolo originale francese “La rafle”), della regista Roselyne Bosch, e “La chiave di Sara” (titolo originale francese “Elle s’appelait Sarah”), del regista Gilles Pasquet-Brenner, tratto dall’omonimo romanzo di Tatiana de Rosnay.
(L'Incontro, 16 luglio 2021)
Israele continua a mettere in guardia da Hezbollah
L’esercito israeliano ha rivelato la presenza di un deposito di armi appartenente ad Hezbollah, situato nella regione libanese centrale di Nabatiye, nelle vicinanze di una scuola. Da parte sua, Israele ha affermato di possedere tutti i mezzi e le capacità necessarie ad affrontare il nemico sciita.
Stando a quanto riportato il 14 luglio, sulla base di immagini satellitari, il deposito scoperto è un edificio di quattro piani situato in un quartiere residenziale, a soli 25 metri di distanza dalla scuola pubblica di Ebba, frequentata, a detta delle Forze di difesa israeliane (IDF), da circa 300 studenti. Il deposito contiene “una grande quantità di esplosivi”, da un potere distruttivo pari a circa la metà rispetto a quelli che hanno provocato la vasta esplosione presso il porto di Beirut, il 4 agosto 2020. Non è chiaro, però, che tipo di armamenti sia stato immagazzinato all’interno dell’edificio. Ad ogni modo, hanno specificato le IDF, si tratta di soltanto uno dei numerosi depositi impiegati da Hezbollah per colpire i soldati e la popolazione di Israele, in un momento in cui il gruppo sciita starebbe continuando a perseguire i propri piani militari, mettendo in pericolo la popolazione libanese.
Le forze israeliane non hanno escluso l’ipotesi secondo cui, a seguito della loro rivelazione, Hezbollah svuoterà il magazzino e trasferirà le armi altrove. Tuttavia, Israele si è detto pronto a mostrare le proprie capacità, segnalando al mondo le minacce poste “dal gruppo terroristico”. In tale quadro si collocano le dichiarazioni del primo ministro israeliano, Naftali Bennett, che, sempre il 14 luglio, ha affermato che il proprio Paese dispone di quanto necessario a far fronte ad Hezbollah, definito un “nemico comune” sia per gli israeliani sia per i libanesi. L’organizzazione, inoltre, a detta di Bennett, agisce su ordini dell’Iran, ma mette a rischio il Libano e il suo futuro. Non da ultimo, il portavoce dell’esercito israeliano, Avichay Adraee, il 10 luglio, ha riferito che le proprie forze sono state in grado di frenare uno dei maggiori tentativi di contrabbando di armi al confine con il Libano, sequestrando circa 43 armi nel villaggio di Ghajar, nella regione del Golan. Le forze israeliane, ha affermato il portavoce, continuano a tenere sotto controllo il fenomeno del contrabbando di armi e il ruolo svolto da Hezbollah, indagando, in collaborazione con le forze di polizia, sull’identità degli individui coinvolti.
Immagazzinare armi nei luoghi scoperti da Israele significa violare la risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che ha messo fine alle tensioni del 2006. Non è la prima volta che Israele fa rivelazioni sull’ubicazione di magazzini, presumibilmente appartenenti a Hezbollah, nei pressi di quartieri residenziali, nel quadro di una politica volta a costringere il “gruppo terroristico” a cambiare le proprie tattiche e i propri comportamenti, senza intervenire militarmente. Hezbollah, da parte sua, ha più volte negato l’esistenza di tali depositi.
L’organizzazione paramilitare sciita appoggiata dall’Iran, continua a rappresentare uno dei principali rivali libanesi di Israele. Nel 2006, i due si sono scontrati in una battaglia lunga 34 giorni, nella quale circa 1200 persone sono morte in Libano, per lo più civili, e altre 158 hanno perso la vita a Israele, in gran parte soldati. Ciò ha portato al rafforzamento della Missione dell’Onu UNIFIL, istituita nel 1978 e rafforzata nel 2006, la quale ha il compito di far rispettare il cessate il fuoco tra Beirut e Tel Aviv e di monitorare il ritiro israeliano da una zona smilitarizzata di confine. La missione conta attualmente circa 10.500 unità, tra cui anche un contingente italiano.
Tra gli episodi del 2021, il primo febbraio, Hezbollah ha affermato che le proprie forze hanno intercettato e distrutto un drone israeliano, mentre questo sorvolava lo spazio aereo libanese. Da parte loro, le Forze di Difesa israeliana hanno ammesso che un proprio drone era precipitato nel Sud del Libano, senza rivelare ulteriori dettagli sulle dinamiche e le cause dell’incidente. Il Libano ha più volte denunciato violazioni del proprio spazio aereo da parte di velivoli, presumibilmente israeliani, i quali volano anche a bassa quota, soprattutto nelle aree costiere, meridionali e nella Valle di Bekaa. Le forze israeliane, dal canto loro, affermano che le loro incursioni sono necessarie, in quanto finalizzate a monitorare le attività “illegali” di Hezbollah, che, invece, dovrebbero essere controllate dal governo di Beirut.
Lo scorso anno, il 2020, le tensioni tra Israele e Hezbollah lungo il confine libanese si erano intensificate dopo che, il 20 luglio, le forze di difesa aerea siriana avevano intercettato una serie di missili provenienti dalle Alture del Golan, imputati a Israele e diretti verso il Sud della capitale, Damasco, contro obiettivi iraniani e del regime siriano. I missili avevano colpito postazioni di Hezbollah e di altri gruppi iraniani, causando la morte di 5 combattenti, di cui uno appartenente alla milizia sciita libanese. Sebbene Israele non avesse rivendicato l’attacco, Hezbollah aveva accusato il Paese di aver ucciso uno dei propri membri, Ali Kamel Mohsen, e aveva deciso di vendicare la morte del suo combattente. Di conseguenza, il 23 luglio successivo, Israele aveva stabilito di inviare rinforzi al confine settentrionale con il Libano, aumentandone la militarizzazione.
(Sputnik Italia, 15 luglio 2021)
Israele, missione viceministra Esteri Sereni: "Verso fiducia reciproca
Tour di cinque giorni con lo scopo di promuovere una rinnovata centralità del ruolo dell'Unione Europea e del Quartetto nei colloqui tra israeliani e palestinesi. Sulla scia dell'iniziativa di pace italo-spagnola
di Sharon Nizza
GERUSALEMME - "La ripresa di un processo di pace non sembra essere immediatamente all'ordine del giorno, ma abbiamo constatato una volontà di favorire la costruzione di misure di fiducia reciproca". È uno dei messaggi della Vice Ministra per gli Affari Esteri e la Cooperazione Internazionale, Marina Sereni, al termine di una missione in Israele e nei Territori Palestinesi conclusasi giovedì dopo cinque giorni di incontri.
Un'agenda ricca di impegni che ha visto Sereni incontrare esponenti di governo, legislatori, imprenditori e rappresentanti della società civile di entrambe le parti. Con lo scopo, tra le altre cose, di ribadire l'intenzione di promuovere una rinnovata centralità del ruolo dell'Unione Europea e del Quartetto nei colloqui tra israeliani e palestinesi, così come espresso in una recente proposta italo-spagnola presentata dal Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che ha in programma una visita nell'area nelle prossime settimane, insieme all'omologo spagnolo.
"La proposta italo-spagnola nasce dalla volontà di costruire una nuova cornice in cui si possa muovere l'Ue, presi in considerazioni nuovi elementi che sono emersi e che hanno un potenziale di influire sugli assetti regionali, come gli Accordi di Abramo e l'insediamento dell'Amministrazione Biden", dice Sereni in un incontro con i giornalisti a Gerusalemme.
Dopo il conflitto di maggio, la ripresa di trattative dirette tra israeliani e palestinesi non sembra essere una priorità realistica sul tavolo, è l'impressione della viceministra, mentre al momento, il primo dossier all'ordine del giorno riguarda l'urgenza di consolidare la tregua tra Israele e Hamas e concepire un meccanismo che possa consentire la ricostruzione di Gaza, veicolando le donazioni internazionali attraverso parti terze.
Un argomento che è stato affrontato dalla viceministra Sereni anche durante l'incontro con Philippe Lazzarini, il Commissario generale dell'Unrwa, e con le controparti palestinesi, accanto all'urgenza di arrivare a una riconciliazione nazionale tra Fatah e Hamas che possa porre fine a 16 anni di stallo politico che ha portato anche al recente annullamento delle elezioni palestinesi di maggio. "Hamas ha ribadito la propria contrarietà, anche all'Onu, a un coinvolgimento dell'Anp negli aiuti a Gaza. C'è un nodo politico quindi, non solo tecnico, che va risolto per non trovarsi di fronte a un circolo vizioso di ricostruzione e distruzione", ha spiegato Sereni.
Negli incontri con esponenti della società civile palestinese è emerso un grande distaccamento dei giovani dalle principali fazioni politiche, inaspritosi con l'annullamento delle elezioni - "parliamo di una generazione che non ha mai votato" - e con la recente ondata di repressione del dissenso civile da parte dell'Anp, a seguito della mobilitazione popolare per il noto attivista Nizar Banat, rimasto ucciso dopo l'arresto da parte degli apparati di sicurezza palestinesi il 24 giugno.
Uno degli obiettivi della missione era "capire meglio i piani e le priorità del nuovo governo israeliano, nato sulla base di una coalizione inedita, molto ampia ed eterogenea", dice Sereni, che ha incontrato, tra gli altri, le due anime opposte che formano la nuova maggioranza che il mese scorso ha portato alla fine di 12 anni di governi Netanyahu: Mansour Abbas, il leader del partito islamista Ra'am che sostiene, per la prima volta, una coalizione di governo con esponenti di destra, e Gideon Saar, vicepremier e ministro della Giustizia, fuoriuscito dal Likud sei mesi fa.
"La nostra impressione" dice Sereni, "è che il nuovo governo sia disponibile a valutare passi concreti che possano servire a tenere calma la situazione, mentre non sembra immediatamente all'ordine del giorno la ripresa di trattative in vista di una soluzione a due Stati che l'Italia e l'Europa da sempre sostengono. Abbiamo registrato alcuni punti interessanti, come la volontà di aumentare gli investimenti per sviluppare nuove opportunità economiche in particolar modo per i giovani palestinesi".
Argomenti che sono stati al centro anche di incontri con il Centro Peres per la Pace e con l'imprenditore Yossi Vardi, entrambi promotori di diversi progetti umanitari e civili volti ad aumentare l'interazione tra israeliani e palestinesi. "Da anni sosteniamo il Centro Peres nel progetto per cui bambini palestinesi vengono curati negli ospedali israeliani e abbiamo ribadito la volontà di continuare il sostegno da parte della cooperazione italiana".
La viceministra ha avuto modo anche di visitare alcuni dei progetti di eccellenza sostenuti dall'Italia, come il centro anti-violenza contro lo donne di Bet Sahour, nei pressi di Betlemme, dove vengono accolte e riabilitare decine di donne palestinesi. Con la ministra della Salute Mai al Kaila, si è discusso invece anche dell'imminente inaugurazione del nuovo Ospedale di Dura, nel sud della Cisgiordania, interamente finanziato dalla Cooperazione italiana.
L'Iran è stato tra gli argomenti sollevati dagli israeliani, in vista della ripresa dei colloqui per il rinnovamento dell'intesa Jcpoa sul nucleare iraniano. "Noi chiediamo e speriamo che le trattative di Vienna si concludano positivamente. A nostro parere, questo è un modo per aprire con l'Iran in vista di un'altra fase del confronto - che è quello che interessa gli israeliani - sull'inserimento nell'accordo del programma missilistico e dell'attivismo regionale iraniani", dice Sereni. "Credo sia stato apprezzato il fatto che siamo consapevoli dei rischi che le politiche dell'Iran possano rappresentare per la sicurezza e la stabilità di questa regione. Ma secondo noi il Jcpoa è un fattore che aiuta la sicurezza e la stabilità piuttosto che metterle in discussione".
La minaccia nucleare iraniana e l'influenza di Teheran in Libano sono stati gli argomenti al centro di un'altra missione di Stato in Israele svoltasi in questi giorni, quella del Capo di Stato maggiore della Difesa, Generale Enzo Vecciarelli. L'omologo Aviv Kohavi ha ringraziato l'Italia in particolare per il significativo ruolo alla guida della forza di interposizione Unifil tra Israele e Libano.
(la Repubblica, 16 luglio 2021)
USA: crolla il sostegno a Israele degli ebrei americani
di Nathan Greppi
Gli ebrei americani sarebbero sempre meno vicini a Israele, e soprattutto tra i giovani starebbero aumentando quelli convinti che lo Stato Ebraico sia razzista verso i palestinesi: questi sarebbero i risultati di un sondaggio commissionato dalla Jewish Democratic Council of America, organizzazione ebraica di sinistra.
Secondo il Jerusalem Post, il report dell’organizzazione avrebbe semi-nascosto i dati più sensibili, concentrandosi su quelli relativi alle loro opinioni su Joe Biden (il 76% degli elettori ebrei ha votato per lui nel 2020, e il 74% di loro approva il suo approccio nei confronti d’Israele): stando al sondaggio, il 28% è convinto che in Israele vi sia un regime di apartheid, e questa percentuale salirebbe al 38% tra quelli che hanno meno di 40 anni di età; inoltre, il 23% degli ebrei americani (e il 33% degli under 40) pensa che Israele stia commettendo un genocidio nei confronti dei palestinesi. Infine, un quinto del totale penserebbe che Israele non ha il diritto di esistere.
L’analisi del Jerusalem Post sostiene che, se questi dati corrispondessero al vero, ciò vada attribuito a due fattori: il condizionamento ideologico dell’estrema sinistra sulle giovani generazioni, specialmente nei campus universitari, e il fallimento delle comunità nel costruire un’alternativa valida nel modo di comunicare e spiegare la realtà.
Un altro problema è che, proprio perché Israele è sempre più visto come un tema divisivo per gli ebrei americani, quando un’organizzazione organizza una manifestazione a suo favore le altre la boicottano. È successo domenica 11 luglio, quando a Washington si tenne la manifestazione No Fear: A Rally In Solidarity With The Jewish People, per denunciare l’aumento di attacchi antisemiti durante i fatti di Gaza a maggio. Alla manifestazione, organizzata tra gli altri da Elisha Wiesel, figlio dello scrittore e superstite della Shoah Elie Wiesel, hanno deciso di non prendere parte associazioni ebraiche progressiste come Americans for Peace Now e J Street, accusandola di essere troppo schierata.
Il risultato è stata la partecipazione di solo 2.000-3.000 persone: per fare un confronto, alla manifestazione tenutasi nello stesso luogo nel 1987 in solidarietà con le condizioni degli ebrei in Unione Sovietica vi erano 250.000 persone; mentre nel 2002 furono 100.000 i manifestanti che, durante la Seconda Intifada, andarono ad esprimere il loro sostegno a Israele.
(Bet Magazine Mosaico, 16 luglio 2021)
Israele nega i matrimoni misti. La vita difficile delle coppie
di Alessandro Trizio
Ci sono ancora tante cose da sistemare in Israele, una di queste è sicuramente la gestione delle coppie miste, tra israeliani o naturalizzati e palestinesi o giordani. Tante le storie che si intrecciano in questi anni. Come Wafa Issa che ha vissuto come una prigioniera nella sua stessa casa nella periferia di Gerusalemme Est. Il suo mondo è la sua cucina, i suoi sei figli e le stalle sul retro dove la famiglia tiene cavalli arabi.
È un sacrificio che Issa ha fatto per stare con suo marito nato a Gerusalemme Est, che è un residente permanente legale in Israele. In quanto palestinese nata nei territori occupati, non ha avuto il diritto di unirsi a lui nonostante il loro matrimonio. Anche se suo marito fosse un cittadino israeliano a pieno titolo, il diritto legale di vivere con la sua famiglia sarebbe comunque fuori portata.
I sostenitori di diritti umani affermano che il divieto imposto da oltre 18 anni in Israele al ricongiungimento familiare, noto come Legge sulla cittadinanza, trasforma un diritto fondamentale — vivere con il proprio coniuge e i propri figli — in un crimine e va contro la politica sull’immigrazione in altri paesi sviluppati. E’ discriminatorio, perché in gran parte non si applica agli ebrei israeliani, che raramente sposano palestinesi.
Issa e migliaia di altre coppie, tuttavia, ora vedono una rara opportunità. La scorsa settimana, i politici israeliani inaspettatamente non sono riusciti a rinnovare il divieto, stimolando una corsa da parte di gruppi di difesa e coppie palestinesi a presentare centinaia di permessi di soggiorno al ministero degli Interni israeliano. Ma la possibilità potrebbe presto bloccarsi di nuovo, perché la legge ha ancora un ampio sostegno tra molti legislatori.
Il divieto di ricongiungimento familiare è stato approvato nel 2003 come misura di sicurezza temporanea sulla scia della rivolta palestinese conosciuta come la seconda intifada. Da allora la legge è stata rinnovata ogni anno. I politici israeliani hanno recentemente riconosciuto che la misura continua a ottenere sostegno in parte per il desiderio di mantenere la maggioranza ebraica di Israele.
Tra le tante sfide che i palestinesi devono affrontare, il divieto ne pone una particolarmente intima perché ha lasciato così tante famiglie in un limbo emotivo. La vita è segnata da scelte dolorose. Alcune persone scelgono di vivere separate dalle loro famiglie, perdendo una vita di momenti o divorziando. Altri, come Issa, vivono senza documenti, a rischio costante di espulsione.
Israele consente alle coppie di richiedere la residenza temporanea e i funzionari riferiscono di aver concesso 12.700 tali permessi. I sostenitori stimano che il numero effettivo di famiglie colpite sia più del doppio.
La famiglia Issa, ad esempio, ha chiesto tre volte la residenza temporanea per Wafa, ma è stata respinta ogni volta. Una domanda depositata otto mesi fa è ancora pendente. E anche se avesse ricevuto un permesso temporaneo, non avrebbe comunque diritto alla patente di guida, alla previdenza sociale e a molti altri benefici del governo.
I palestinesi di Gerusalemme est, occupata da Israele nella guerra del 1967, sono spesso tra quelli colpiti dalla legge sulla cittadinanza a causa del loro legame geografico con la Cisgiordania. A differenza dei palestinesi nati in Israele, la maggior parte degli arabi di Gerusalemme est non sono cittadini ma residenti israeliani permanenti.
Mahmoud Akhrass, un palestinese di 46 anni nato nella città di Nablus in Cisgiordania, ha detto che quando ha sposato una donna di Gerusalemme Est nel 2005, non ha pensato a come la differenza nel loro status avrebbe influenzato la loro relazione. Ma ha ricordato che la sua futura suocera gli ha lanciato un avvertimento: non portare mia figlia in Cisgiordania, dove la sicurezza e la mobilità sono minori che a Gerusalemme.
Si stabilirono appena fuori dal muro di sicurezza che separa gran parte di Gerusalemme est da altri territori occupati. Presto la moglie di Akhrass rimase incinta e, in quanto residente permanente in Israele, cercò assistenza medica in Israele. Ma le autorità israeliane hanno negato la domanda di residenza temporanea di Akhrass perché aveva meno di 35 anni (gli uomini sotto i 35 anni e le donne sotto i 25 non sono ammissibili).
Quando è arrivato il momento per sua moglie di partorire, non poteva andare in un ospedale, che era solo a breve distanza, ha detto Akhrass.
Nel 2010 gli è stato finalmente concesso un permesso temporaneo. Ogni anno, quando va a rinnovarlo, teme che un piccolo errore nella sua domanda possa portarlo a ritirarlo.
Sebbene Wafa Issa sia riuscita a rimanere nascosta, alcune famiglie sono state divise dalla polizia israeliana, ha affermato Jessica Montell, direttore esecutivo di HaMoked, un gruppo che ha contestato il divieto presso la Corte Suprema israeliana. I vicini chiamano la polizia sui loro vicini; altre volte è un coniuge che vuole una soluzione conveniente dalla relazione.
Il divieto di ricongiungimento familiare, inizialmente giustificato come misura di sicurezza in risposta alla rivolta palestinese, è sopravvissuto a numerose sfide legali. Pochi sostenitori dei diritti umani si aspettavano che il nuovo governo israeliano, guidato da due sostenitori della legge, il primo ministro Naftali Bennett e il ministro degli Esteri Yair Lapid, non avrebbe rinnovato la legge quando si sarebbe trattato di un voto di routine.
Ma la questione si è trasformata in un primo test per verificare se la coalizione di governo, che comprende diversi partiti di tutto lo spettro politico, può ottenere il passaggio parlamentare per le leggi prioritarie. Il primo ministro recentemente destituito Benjamin Netanyahu, un sostenitore di lunga data della legge, ha cercato di sfidare il governo e ha incoraggiato i legislatori del suo partito di destra Likud ad opporvisi.
Ma il ministero che rilascia i permessi è gestito da Ayelet Shaked, una deputata di destra che ha affermato che continuerà a bloccare la residenza per la maggior parte dei palestinesi dai territori occupati e sta lavorando per portare la legge a un altro voto.
(Expoitalyonline, 16 luglio 2021)
Green pass, proteste in Francia
Allarme da Israele: più ospedalizzati tra i vaccinati rispetto a quelli che non lo sono
di Marco Paganelli
Cresce il malcontento popolare. Aumentano i malumori attorno all’ ipotesi di un Green pass, documento con cui si prova di aver effettuato la vaccinazione contro il Coronavirus o di aver realizzato un tampone (ovviamente a pagamento) nelle 48 ore precedenti, o il vaccino anti – Covid (che diventerebbe di fatto obbligatorio) per poter accedere ai luoghi della vita sociale come, ad esempio, locali, pub, ristoranti e bar.
La proposta di questa norma è partita dal governo di Parigi, ma ha generato dure proteste in diverse città d’ Oltralpe con tanto di violenti scontri tra i dimostranti e la polizia. L’ eventualità di proporla in Italia ha subito ricevuto durissime critiche dalla leader dell’ opposizione Giorgia Meloni (Fratelli d’ Italia), ma pure da alcuni partiti che sostengono la maggioranza, a partire dalla Lega di Matteo Salvini. Continuano ad arrivare dati, nel frattempo, che indicano una debolissima efficacia dei sieri iniettati al fine di proteggere i cittadini dal Coronavirus.
Il governo israeliano ha diffuso, una serie di dati, che indicano che gli ospedalizzati e coloro che sono risultati positivi all’ agente patogeno, che ha sconvolto e continua a generare disagi nel mondo, sono per lo più coloro che hanno ricevuto le due dosi dei vaccini in circolazione. Tale elemento evidenzia la bassa efficacia, delle sostanze in questione, nell’organismo.
(Agenzia Stampa Italia, 16 luglio 2021)
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