Nella sfida al Covid il fallimento è vistoso e il dubbio legittimo: sanno quello che fanno?
Quarta ondata, terza dose, immunità di gregge ... Visto l'andazzo, si può insinuare il dubbio che i poteri pubblici, politici e sanitari, e i loro corifei mediatici, abbiano fallito clamorosamente la sfida dei contagi e delle terapie? Continua ad alzarsi l'asticella e si rimanda sempre la salvezza. Facendo ricadere la colpa sui pochi che non osservano i diktat.
di Marcello Veneziani
La quarta ondata del Covid annunciata con grande allarme dai media; il terzo vaccino nell'arco di sei mesi prescritto praticamente a tutti con una campagna martellante; il go per cento di vaccinati indicata come nuova soglia d'immunità, dopo il 70 e dopo l'80 per cento dei mesi scorsi; il terzo anno di pandemia e di emergenza che si annuncia con certezza e apprensione: si può insinuare il dubbio che qualcosa non stia funzionando, che i poteri pubblici, politici, amministrativi e sanitari, e i loro corifei mediatici, abbiano fallito clamorosamente la sfida dei contagi e delle terapie, considerando che si alza sempre l'asticella e si rimanda sempre la salvezza? O si deve per forza concentrare ogni responsabilità, ogni attenzione e ogni condanna sulla esigua minoranza che non si è vaccinata e si ribella al green pass, con manifestazioni che gli stessi media giudicano di poco rilievo e con quattro gatti? Avevo deciso in questa pandemia di sospendere ogni giudizio, non ritenendomi in grado di esprimere pareri netti e autorevoli in merito o indicare soluzioni alternative; con tutte le perplessità che ho sempre coltivato, ho continuato a seguire di malavoglia le prescrizioni e le proscrizioni imposte. Con una sola raccomandazione: allargare e non restringere i campi di ricerca e di sperimentazione, non limitarsi ai vaccini ma investire di più sulle cure per debellare o neutralizzare il virus. Insomma, aggredire il Covid su vari fronti, a monte e a valle. Personalmente ho usato come strategia di sopravvivenza quella di evi tare tutti i programmi televisivi sul tema e cambiare canale o media quando appariva il santino del virologo di turno e dei centouno virologi di complemento. Sottrarmi, senza nessuna pretesa di insegnare a nessuno il mestiere. Non ho dunque alcuna tesi precostituita, nessuna soluzione alternativa, nessuna propensione al complotto. Però quando ti alzi la mattina del 5 novembre 2021 e vedi che il titolo principale dei principali giornali e media italiani è incentrato sulla quarta ondata, sull'euroterrorismo, sul pericolo che viene dall'Est (dove peraltro sono già sotto osservazione i 12 Paesi europei colpevoli di voler ripristinare i confini per arginare l'immigrazione), allora dici: basta, non se ne può più, non potete tenere l'umanità così a lungo in una gabbia di terrore, di obblighi e divieti, spostando continuamente gli obbiettivi da raggiungere, e facendo ricadere ogni colpa sui pochi che non seguono le vie obbligate. Se dopo venti mesi un virus non viene debellato nonostante l'80% di popolazione sia vaccinata, e anche due volte, se il Covid è ancora virulento e pericoloso, vogliamo dirlo che siamo davanti a una sconfitta, anzi un fallimento delle classi dirigenti e delle forze sanitarie, farmaceutiche e amministrative senza precedenti? La moltiplicazione dei dubbi a questo punto è più che legittima: la strada intrapresa senza se e senza ma, imposta ai quattro quinti della popolazione, considerando che il restante quinto e per meta costituito da bambini, è stata davvero quella giusta? Un virus che supera il biennio, ditemelo voi perché io non lo so, ha precedenti? O se volete riformulo la domanda: è concepibile che all'entrata nel terzo anno di Covid, si debbano ancora allestire, intensificare e amplificare vaccini, controlli e allarmi, senza contemplare soluzioni alternative o supplementari? E sfiorando la blasfemia, la bestemmia contro il dio vaccino: e se ci fosse un nesso tra le varianti e i vaccini, nonostante le dimostrazioni che il contagio riguarda in particolare chi non si è vaccinato? Dobbiamo considerare normale che i virologi si portino avanti con il lavoro e si proiettino non nell'anno venturo ma addirittura nel 2023, che era un modo proverbiale per indicare il futuro lontano, predicendo che in quell'anno ci faranno un vaccino multitasking, onnicomprensivo, prodigioso, incluso di anti-influenzale? Se dopo sei mesi siamo al terzo vaccino, dopo ventiquattro mesi saremo alla dodicesima dose? Siamo entrati in un serial horror, in un raggiro universale, in una truffa colossale o che? A fronte di un fallimento così vistoso sono legittimi i dubbi, anche quello di aver imboccato una strada sbagliata, oltre che esserci affidati a percorsi sanitari e farmaceutici errati o inadeguati. Il dramma, lo ammetto onestamente, è che non siamo in grado di opporre un' altra soluzione organica, né abbiamo poteri, voce in capitolo, mezzi e condizioni per poter indicare altri percorsi o correggere quelli presenti. Dobbiamo però vigilare con la massima attenzione su quel delicato passaggio in cui il regime della sorveglianza sanitaria si estende automaticamente ad altri ambiti civili, culturali, politici, sociali. E' impressionante l'ondata repressiva e liberticida che c'è in giro che esonda dai confini sanitari e si allarga ovunque. Oscuramenti sui social, intimidazioni, censure dappertutto e nuove restrizioni si annunciano in ogni campo. Lo dico anche per esperienza personale. Considerando che i social sono, bene o male, l'unico luogo in cui il privato dissenso si fa pubblico, è di una gravità enorme. Se solo tocchi certi temi «sensibili» o presunti tali, anche argomentando, non insultando nessuno né semplificando con tesi «oltraggiose», sei subito censurato e punito. E non puoi prendertela con nessuno perché ti dicono che il mandante è l'algoritmo, dunque la censura è anonima, come la banda dei sequestri. Anonimo, come il Covid. La colpa in ambo i casi non è di chi usa questi agenti anonimi per veicolare e controllare la gente ma del caso o della tecnica. Se non possiamo fare e dire molto in ambito sanitario, sorvegliamo almeno le linee di frontiera della nostra libertà, della nostra dignità e dei diritti. Occhio alla dogana, alle mascherine ideologiche e agli sconfinamenti delle «ondate» sanitarie. Cantava Bruno Lauzi: «onda su onda il mare ci porterà alla deriva, in balia di una sorte bizzarra e cattiva».
(La Verità, 6 novembre 2021)
Il dubbio maggiore potrebbe venire da una delle osservazioni conclusive dell'autore: "E' impressionante l'ondata repressiva e liberticida che c'è in giro che esonda dai confini sanitari e si allarga ovunque". Ma forse è proprio questo che si vuole. E' quasi patetico dire "... sorvegliamo almeno le linee di frontiera della nostra libertà, della nostra dignità e dei diritti", quando questa frontiera è già stata chiaramente oltrepassata. "Oscuramenti sui social, intimidazioni, censure dappertutto e nuove restrizioni si annunciano in ogni campo", questo non è uno "sconfinamento", ma piuttosto un obiettivo raggiunto. Da cui ripartire per andare oltre. Sanno quello che fanno? Forse sì, e questo è il guaio. M.C.
Israele sostiene le forze armate sudanesi
Il governo israeliano ha ammesso che a fine settembre 2021 una delegazione militare sudanese è stata inviata dal generale Dagalo, alias Hemidti, a Tel Aviv. Israele ha riconosciuto anche che, dopo i fatti del 26 ottobre, definiti da Washington «colpo di Stato militare», Israele ha inviato a Khartum una delegazione di alto livello del ministero della Difesa e del Mossad.
Già a febbraio 2020 l’allora primo ministro israeliano in carica aveva incontrato il generale al-Burhan a Entebbe (Uganda).
Gli Occidentali hanno ufficialmente rotto con i generali Dagalo e al-Burhan, ma questi ultimi sono tuttora finanziati dall’Arabia Saudita e sono tuttora gli interlocutori di Israele.
Il 4 novembre il segretario di Stato USA, Antony Blinken, ha telefonato al primo ministro, in libertà, Abdallah Hamdok, nonché al generale al-Burhan. Al termine dei colloqui sono stati liberati quattro ministri in precedenza assegnati a domicilio coatto.
(Réseau Voltaire, 6 novembre 2021 - trad. Rachele Marmetti)
Sally Rooney non si fa tradurre. Israele la bandisce
Guerra di libri tra Israele e la scrittrice Sally Rooney. A cominciarla è stata l'autrice irlandese, che non intende autorizzare la traduzione in ebraico dell'ultimo romanzo A Beautiful World, Where Are You come sostenitrice del boicottaggio verso lo Stato ebraico, in sostegno alla causa palestinese. Ma adesso lei stessa sarà boicottata in Israele dalle due principali catene di librerie, Steimatzky e Tzomet Sfarim: con un provvedimento senza precedenti e dopo un appello web sottoscritto da migliaia di lettori, le due catene hanno deciso di rimuovere dai propri siti internet e scaffali i due libri della Rooney tradotti in ebraico (Parlarne tra amici e Persone normali).
(Nazione-Carlino-Giorno, 6 novembre 2021)
Addio a Pasqualina Perrella, l’ultima delle “ragazze dell’anagrafe”
Falsificò i documenti per gli ebrei in fuga
di David Di Segni
Il 25 ottobre scorso si è spenta all’età di 99 anni Pasqualina Perrella, una delle dipendenti comunali di San Donato Val di Comino (Frosinone) che, durante la Seconda guerra mondiale, rischiò la propria vita per salvare quella degli ebrei confinati in città. Perella, il podestà Gaetano Marini ed altri quattro dipendenti comunali - Donato Coletti, Maddalena Mazzola, Rosaria De Rubeis, Carmela Cardarelli – falsificarono i documenti d’identità degli ebrei per scamparli alle deportazioni nei campi di sterminio.
Tra i confinati c'erano anche Margaret Bloch - ex compagna di Franz Kafka - che diventò vicina di casa dei Perrella, e l'attrice del cinema muto Grete Berger. "Gli ebrei venivano a chiederci aiuto e noi rilasciavamo a ciascuno di loro documenti falsi per farli risultare cittadini italiani. - raccontò Pasqualina Perrella – Ricordo che a una donna ebrea attribuii lo stesso nome e cognome di mia sorella".
Per l’attività di falsificazione lei rischiò persino la vita, quando il 6 aprile 1944 Pasqualina venne prelevata dai tedeschi e interrogata. “Venne condotta presso il locale Comando, dove fu interrogata. – spiega il sindaco di San Donato Val di Comino, Enrico Pittiglio - Riconosciuta come una delle artefici delle falsificazioni, venne condotta presso il camion dove furono stipati gli ebrei arrestati. La fortuna di Pasqualina fu che nel camion non c’era posto e quindi rimase a terra, scampando così alla deportazione ad Auschwitz".
Questo valoroso gruppo di persone verrà ricordato nel Museo del Novecento e della Shoah, attualmente in fase di realizzazione nel piccolo centro della provincia di Frosinone, che riprodurrà anche il luogo di lavoro delle rinominate “ragazze dell'anagrafe”.
Con Pasqualina Perrella se ne va un’eroina della storia, che ha basato la propria esistenza proprio su quell’eterno principio che è il fondamento dei giusti: chi salva una vita, salva il mondo intero.
(Shalom, 5 novembre 2021)
Israele approva la prima finanziaria dal 2018
Tiene la nuova maggioranza
Prima vittoria del nuovo governo israeliano guidato da Naftali Bennett: il Parlamento, la Knesset, nella notte tra mercoledì e giovedì ha approvato la legge finanziaria, per la prima volta dal 2018, evitando così la scadenza del 14 novembre che avrebbe portato il Paese alle quinte elezioni in tre armi.
Il premier Bennett detiene una maggioranza stretta, che aveva fatto sperare all'ex primo ministro Benjamin Netanyahu, ora all'opposizione, di poter rientrare in gioco nel caso in cui non ci fossero stati i numeri per approvare la legge di bilancio.
Bennett ha subito celebrato su Twitter, scrivendo: «Dopo anni di caos abbiamo formato un governo, sconfitto la variante Delta e ora, grazie a Dio, approvato un bilancio per Israele». Il budget, che riguarda l'anno in corso ed è di 195 miliardi di dollari, ha avuto il via libera dopo una serie di votazioni durate tutta la notte con 61 voti a favore contro 59 contrari che rappresentano l'esatta fotografia della divisione tra la composita maggioranza guidata da Bennett e l'opposizione di Netanyahu. Ora la Knesset tornerà a riunirsi per l'approvazione della finanziaria 2022.
Il voto permetterà di sbloccare l'azione di governo necessaria ad affrontare la crisi del debito pubblico che nell'anno della pandemia è aumentato del 21% raggiungendo quota 72,4% del Pil. Il target di deficit nella finanziaria è stato posto al 6,8% del Pil, Includendo le spese per la lotta alla pandemia e il sostegno all'economia.
La bozza di legge finanziaria per il 2022 prevede una spesa di 184 miliardi di dollari e una riduzione del rapporto deficit-Pil fino al 3,9 per cento. Il bilancio dello stato e la crescita economica nel difficile periodo della pandemia sono stati ostaggio del caos politico che ha attraversato il paese dal dicembre 2018 fino alla formazione dell'attuale coalizione di governo, cinque mesi fa quando è nata la Grande Coalizione che mette insieme otto formazioni di tutti gli schieramenti.
Sempre sul fronte mediorientale, ieri il presidente dell'Autorità palestinese Abu Mazen è stato ricevuto dal Papa, che ha auspicato un rilancio del dialogo per la «soluzione dei due Stati».
(Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2021)
Quell'esempio di Israele: rinato coi sieri
di Fiamma Nirenstein
Si deve fare? Sì. Lo si deve però scegliere liberamente, essendo in democrazia? Ancora sì. Ci sono i No Vax, e quelli sono duri come il granito. Non si parla a loro. Ma per spiegarsi fra gente normale, di buon senso, occorre discussione, consapevolezza sull'oggetto in questione, la vaccinazione: i pro, i contro, i pericoli, le risorse, senza spazi per stupide teorie della cospirazione o movimenti rivoluzionari social-politici. Così dopo un periodo di crisi, Israele si riposiziona come esempio per la lotta al Covid, guardiamolo bene: ieri la squadra di esperti che affianca il ministero della Sanità nelle decisione, ormai imminente dopo quella americana, di vaccinare i piccoli, ha tenuto la sua seduta in pubblico, sui social, sulla pagina Facebook del ministero, con tutti gli esperti, i medici, i politici, e con venti cittadini ciascuno con il diritto a parlare per tre minuti. Alla fine deciderà la commissione, e non la folla, si capisce: ma il vaccino ai bambini oltre i 5 anni è un pezzo di cuore e richiede tutto il cervello. Difficile decidere, ma messe tutte le carte in tavola, basta, si soppesa, si decide, forti del fatto che dopo un momento di panico, di nuovo i vaccini hanno salvato il Paese, e senza ombra di dubbio. Su questo, anche un governo e un'opposizione che si odiano come quelle di Bennett e di Netanyahu, sono insieme. Pochissimi usano la chiave No Vax in una dimensione politica. Si sa, qualcuno dei vaccinati si è ammalato di nuovo, ma non è morto; e il vaccino ogni tanto ha reazioni indesiderate anche estreme. Perciò un Paese allenato come Israele ha bisogno di inspirare profondamente prima di decidere sui numerosissimi, onnipresenti piccoli cittadini. Ma è chiaro a tutti gli opinion maker, i giornalisti, i politici, gli intellettuali, come dovrebbe esserlo in Italia. Chiedi: «Hai fatto la terza dose?». E la risposta è sempre: «Certo». Sei un fratello nella scelta della libertà per tutti. Dopo il booster la crisi della quarta ondata è stata superata, a settembre c'erano 80mila casi attivi, ora sono 7.388; i casi seri erano 740, ora sono 201; i nuovi casi quotidiani 663 ed erano 2.500. Prima di rendersi conto, a maggio, che si era ben proceduto a salvare la vita degli adulti e degli anziani, ma si doveva vaccinare veloci anche i ragazzi nelle scuole pena una moria generale; adesso si sa che i bambini fra i 5 e gli 11 anni, più di un milione e 200mila, sono il 45% dei portatori del virus della settimana scorsa. E allora, se i dati sono questi, se il vaccino preserva dal contagio, e quando non lo fa comunque salva la vita, e rende la libertà, che dire, per esempio, alla folla triestina? Quando si ammala rischia la vita, e appare anche un po' scema.
(il Giornale, 5 novembre 2021)
" ... i No Vax, quelli sono duri come il granito", ".. stupide teorie della cospirazione", "... la folla triestina? appare anche un po' scema". Anche Fiamma Nirenstein non ha resistito dunque alla tentazione di sostenere le sue ragioni pro-vaccino screditando gli oppositori. E' manifestazione di pacato buon senso trattare gli oppositori come gente anormale, priva di buon senso, che merita di essere considerata "anche un po' scema"? O manifesta invece insicurezza per le scelte fatte e fastidio nel vedere che altri fanno scelte diverse? Da dove viene tutta questa stizza? E' solo una domanda, e non si formula una risposta.
E' innegabile che la pandemia ha ridisegnato linee trasversali di separazione in quasi tutti gli ambienti, non è strano quindi che questo avvenga anche tra gli amici di Israele. Per il sito su Israele che gestisco da vent'anni devo allora precisare che, ferma restando la vicinanza a Israele in tutto quello che riguarda il suo posto fra le nazioni, questo non significa e non ha mai significato approvazione indiscussa del costume della sua società e delle scelte del suo governo. In particolare, è inquietante che proprio Israele si sia messo a capo, o sia considerato avanguardia, della campagna di vaccinazione mondiale. Le nazioni applaudono, e proprio questo è il guaio. Almeno su questo argomento e in questo tempo. Se ne dovrà riparlare. M.C.
I «Protocolli» antisemiti venduti dalla Feltrinelli
di Alberto Giannoni
E intervenuta la Comunità ebraica, e a sostegno la coordinatrice nazionale della lotta all' antisemitismo Milena Santerini, docente all'Università Cattolica: «Davvero incredibile - ha scritto - che si possa diffondere un libro così pericoloso scrivendo che i Protocolli potrebbero essere "veri o falsi" senza avvertire che sono un falso e l'uso che se ne è fatto nella storia». Sì perché il libro in questione, i Protocolli dei savi di Sion; è un falso conclamato, redatto ad arte oltre un secolo fa, e da allora usato a piene mani dalla peggiore propaganda antisemita, tanto da ispirare i deliri di Adolf Hitler nello sterminio di massa degli ebrei. Il volume, prodotto probabilmente dalla polizia segreta russa, mirava ad accreditare l'esistenza di un piano ebraico occulto per impossessarsi del mondo, e da cento anni calamita le attenzioni morbose dei razzisti di tutte le categorie (è molto diffuso in certe piazze arabe). L'editore del volume, oggi, è una piccola casa ultrareligiosa, la friulana «Segno», che ha compilato la scheda che viene caricata sempre uguale, in automatico, nelle varie piattaforme di vendita ordine. «Fin dall'inizio - si legge - sono stati bollati di essere un geniale falso e le motivazioni pro e contro sono tante». «Veri o falsi che siano ormai non conta più - prosegue incredibilmente la presentazione - perché questi misteriosi protocolli, persino fuori dal loro tempo si sono rivelati laicamente profetici». La Comunità ebraica ha subito chiamato in causa via twitter La Feltrinelli, perché il volume compariva proprio negli «store» online di quella (come di altre) case editrici. «Ehi, La Feltrinelli, attenzione qui - il tweet della Comunità - Davvero pensate si possa proporre i Protocolli dei Savi di Sion - libro chiave della propaganda antisemita - senza una nota che ne evidenzi la falsità?». Prima ancora era stata la traduttrice Ilaria Pipemo a sollevare il caso: «È sconvolgente - ha scritto - che Ibs e La Feltrinelli vendano questo nel 2021 nel mio Paese». Feltrinelli ha replicato direttamente sul social: «Grazie per la segnalazione. La descrizione del volume è di competenza esclusiva della casa editrice che lo ha pubblicato e non dei canali di vendita presso i quali questo risulta disponibile». La precisazione non è bastata ai molti che hanno continuato a protestare, manifestando indignazione verso i distributori. Qualcuno ha pubblicato pure la risposta di Feltrinelli: «Le confermo che, grazie alle numerose segnalazioni, la sinossi dell' editore Segno è stata opportunamente rimossa». Raggiunta dall'Huffington, l'editrice Cristina Mantero ha garantito: «Non era nostra intenzione urtare la sensibilità di nessuno». «Siamo profondamente dispiaciuti - ha assicurato - Siamo disponibili a specificare che si tratta di un documento di cui è dubbia la veridicità». Intanto Mosaico, portale della Comunità ebraica milanese, ha fatto notare come nel catalogo dell' editore friulano compaia un altro titolo, L'ombra di Samael. Gli ultimi sviluppi della questione ebraica, che pretende di «arrivare a una conclusione definitiva della querelle sull' autenticità dei Protocolli», definendo «patetico» il «tentativo di farli passare per falsi».
(il Giornale, 5 novembre 2021)
Le loro case un riparo per le famiglie ebree perseguitate dai nazisti
Ora sono Giusti tra le Nazioni, le cerimonie a Firenzuola e a Firenze. I nomi impressi nel Memoriale della Shoah di Gerusalemme. Così sono stati ricordati Armando e Clementina Matti, Pietro e Dina Angeli e il giorno prima Giuseppe Dani e i genitori, Giovanni e Maria.
di Azzurra Giorgi
Finché è stato in vita, Alessandro Smulevich sentiva di non aver fatto abbastanza per ringraziarli. Ma adesso, Armando e Clementina Matti e Pietro e Dina Angeli, che per un anno avevano aiutato lui, la sorella Ester, il cugino Leone e i genitori Sigismondo e Dora Smulevich, nascondendoli dai nazisti nelle loro case di Firenzuola e Ponte Roncone, sono Giusti tra le Nazioni. A onorarli lo Yad Vashem, il Memoriale della Shoah di Gerusalemme, dove saranno impressi i loro nomi, insieme con quelli di Giuseppe Dani e dei suoi genitori, Giovanni e Maria, diventati Giusti il giorno prima per aver salvato la famiglia Cividalli dai rastrellamenti nella campagna pisana. A Firenzuola, il figlio di Alessandro Smulevich, Ermanno, ha ricordato la storia della famiglia, di come il nonno Sigismondo, ebreo nato in Polonia, avesse conosciuto la moglie Dora, ungherese, a Fiume, dove era rimasto dopo essere stato imprigionato dall'esercito ungherese, di come lì avesse cominciato a fare il sarto, mettendo su famiglia, ottenendo la cittadinanza italiana e vivendo una vita moderatamente benestante.
Poi erano arrivate le leggi razziali, l'Italia era entrata in guerra, e Sigismondo fu internato in provincia di Salerno. Riuscì a farsi trasferire prima a Firenze poi a Prato come internato libero, con obbligo quotidiano di firma, fin poco dopo l'8 settembre' 43, quando fuggì con la famiglia a Firenzuola, rifugiandosi prima a casa dei Matti e poi, quando la situazione peggiorò, in quella degli Angeli. Allora quella zona, così vicina alla Linea Gotica, aveva una massiccia presenza di soldati tedeschi e milizie fasciste: Ermanno ha ricordato la fuga del padre sulla canna di una bicicletta da Firenzuola a Ponte Roncone, i nascondigli e le altre famiglie di Firenzuola che «aiutarono e nascosero ebrei perseguitati, nonostante questo le esponesse a rischi gravissimi. Purtroppo non ci sono più testimonianze dirette per promuovere la loro causa allo Yad Vashern». Alla cerimonia, erano presenti anche Lisa Matti e Pellegrina Angeli, discendenti dei Giusti, il sindaco di Firenzuola Giampaolo Buti, il presidente della Comunità ebraica fiorentina Enrico Fink, il rabbino Gadi Piperno, l'assessore al Comune di Firenze Alessandro Martini e altri discendenti della famiglia Smulevich. Presente anche l'ambasciatore d'Israele in Italia, Dror Eydar, che in questi giorni sta girando la Toscana, visitando realtà economiche e accademiche dopo ad aver partecipato alle cerimonie dei Giusti, ovvero «persone che si sono opposte alle sofferenze inflitte al popolo ebraico.
L'orrore della Shoah si è potuto verificare perché non c'erano abbastanza persone di buon cuore pronte ad opporsi alle leggi antisemite e perché gli ebrei non avevano un focolare nazionale che potesse difenderli. Ora - racconta Eydar - sono venuto come rappresentante dello Stato ebraico per onorare queste grandi anime e le loro grandi azioni, che hanno consentito al popolo ebraico di mantenere la fiducia nella bontà umana». Prima di Firenzuola, Eydar ha partecipato alla cerimonia nella Sinagoga di Firenze in cui sono stati riconosciuti Giusti Giuseppe Dani e i genitori, che protessero Giorgio Cividalli, la moglie Wanda e le tre figlie: Carla, Anna e Miriam, che hanno ricordato come «quando si cominciò a parlare di un riconoscimento per i salvatori degli ebrei perseguitati, il Dani rifiutò: «È stato fatto solo quello che si doveva fare», sosteneva. Sono passati anni dalla sua scomparsa prima che riuscissimo a dirci che era venuto il momento di disubbidire».
(la Repubblica - Firenze, 5 novembre 2021)
La lunga storia del “cacio all’argentina”
di Giulia Gallichi Punturello
Nel 1492 gli ebrei sono espulsi dalla Spagna; e il 18 giugno dello stesso anno viene dato l’ordine di espulsione anche dalla Sicilia, ordine che viene eseguito, dopo una breve dilazione, entro il 1492. Neppure un ebreo rimane in Sicilia; la maggioranza degli ebrei siciliani si rifugia nelle comunità ebraiche del meridione. Ma anche le Comunità ebraiche dell’Italia Meridionale sono destinate a scomparire. Nel 1500, con il Trattato di Granada, il Regno di Napoli viene diviso fra Luigi XII di Francia e Ferdinando il Cattolico di Spagna; nella lotta che ne segue fra francesi, e spagnoli, questi ultimi prevalgono: nel 1505 gli spagnoli entrano a Napoli; da questo momento le Comunità ebraiche del Regno di Napoli (Napoli, Trani, Nola, Bari) vanno rapidamente scomparendo. Una parte degli ebrei provenienti da queste Comunità si stabilisce a Roma, dove sorgono in tal modo piccole sinagoghe (siciliana, aragonese). I Siciliani che approdano a Roma portano con loro non soltanto tradizioni e riti antichi, ma anche un’abitudine culinaria fatta di ricette profondamente ebraiche ma che all’apparenza sembrano non esserlo. Nel tentativo di sfuggire al tribunale dell’inquisizione gli ebrei siciliani avevano sviluppato un’incredibile capacità di nutrirsi di cibi consentiti che sembrassero assolutamente taref (non kasher). Un ingrediente che utilizzavano moltissimo erano le melanzane. Il modo di prepararle e condirle dava l’impressione che si trattasse di carne. La stessa preparazione di alcuni formaggi, uno per tutti il cacio, tanto famoso anche nella tradizione romana, che insaporito e bruciato sulla griglia sprigionava lo stesso odore del maiale. Il cacio all’Argentiera, le melanzane in agrodolce (concia) ed anche le sarde a beccafico sono sicuramente tre tra i più clamorosi esempi di cucina cripto-giudaica.
INGREDIENTI: - formaggio caciocavallo 500 gr.
- aglio, due spicchi
- aceto, una spruzzata
- origano, un pizzico
- olio di oliva quanto basta
PREPARAZIONE: - Mettete l’olio in una padella antiaderente e fate imbiondire l’aglio. Appena avrà cambiato colore eliminatelo.
- Tagliate il formaggio a fette di un certo spessore e mettetelo nell’olio ben caldo.
- Giratelo velocemente con una paletta e fatelo dorare dall’altro lato.
- Spruzzare con l’aceto e spolverizzare con l’origano. Servitelo immediatamente con contorno di insalata fresca
(Shalom, 5 novembre 2021)
Gerusalemme riapre ai pellegrini in vista del Natale
Dal 6 novembre via libera ai pernottamenti anche a Betlemme. L'essere vaccinati contro il Covid-19 è un requisito essenziale.
Prima solo i gruppi, ora anche singoli visitatori potranno entrare in Israele seguendo un rigido protocollo sanitario. Dal 6 novembre via libera ai pernottamenti anche a Betlemme. Dopo i lunghi mesi di sostanziale chiusura dei flussi di pellegrini verso Gerusalemme e la Terrasanta riparte quasi a pieno regime, anche in vista del Natale, il flusso dei pellegrinaggi. Sono stati due anni durissimi, in cui è venuto a mancare anche il sostegno rappresentato per l'economia locale da questa forma di viaggio.
Ora si spera che il peggio sia alle spalle. I no vax - non pochi tra i cattolici tradizionalisti - dovranno comunque rinunciare al viaggio. L'essere vaccinati contro il Covid-19 è, infatti, un requisito essenziale (salvo eccezioni autorizzate, su esplicita richiesta, da un'apposita commissione) e le autorità israeliane, molto sensibili all'argomento, non sembrano disponibili al lassismo. Per intenderci: il viaggiatore non deve aver soggiornato (o transitato) nei 14 giorni precedenti all'ingresso in Israele in un Paese considerato zona rossa dal governo dello Stato ebraico.
La testata specialistica "Terrasanta" sottolinea che tutti i vaccini usati in Italia sono riconosciuti anche da Israele. Devono essere trascorsi almeno 14 giorni dall'inoculazione della seconda, o terza, dose (dalla prima, in caso di Johnson & Johnson). L'uscita da Israele deve avvenire entro sei mesi dall'ultima dose di vaccino. Tutti dovranno essere in possesso di green pass e sottoporsi a un tampone molecolare (Pcr) - con esito negativo - non piu' di 72 ora prima di imbarcarsi sul volo per Israele. Dovranno anche compilare un apposito modulo online con i propri dati anagrafici ed altre informazioni.
Unica via d'accesso consentita è l'aeroporto internazionale Ben Gurion, di Tel Aviv. Nell'aerostazione i passeggeri saranno sottoposti a un altro tampone molecolare, a loro spese, e dovranno autoisolarsi in albergo, o nel loro primo alloggio, fino a quando non riceveranno l'esito negativo del test, che consentirà loro di circolare liberamente per il Paese. Lo straniero non positivo al Covid-19 che non rispetti l'isolamento imposto dalle norme israeliane verrà bandito dal Paese per 3 anni. Chi presentasse documentazione falsificata sarà bandito per 5 anni.
Chi dovesse risultare positivo durante il soggiorno verrà isolato in un Covid-hotel e le spese saranno a carico della sua assicurazione. Il custode di Terra Santa, fra Francesco Patton, ha accolto con soddisfazione la riapertura: "un luogo che, piu' di ogni altro, esorta a superare la paura è il Santo Sepolcro", ha dichiarato ad Asianews. Sorridono commercianti e piccoli imprenditori a Gerusalemme, come a Betlemme in Palestina. Nella maggior parte dei casi si tratta di palestinesi, appartenenti alla minoranza cristiana come musulmani, che hanno pagato direttamente il prezzo delle chiusure decise in passato.
Negli ultimi mesi, precisa il Custode di Terra Santa, "abbiamo registrato un piccolo volume di turismo interno", ma quello che cambia adesso è la possibilità "non solo per i gruppi, ma anche per singoli individui di entrare con visto turistico. "La speranza - sottolinea - è che a novembre si possa assistere a una graduale ripresa", da consolidare a dicembre con "l'ingresso di un numero maggiore di pellegrini".
(AGI, 4 novembre 2021)
L’ultimo saggio di Fiamma Nirenstein: così è cresciuto l’odio per Israele
di Gianni Vernetti
Fiamma Nirenstein ha scritto il libro Jewish Lives Matter nei giorni successivi all’ennesima aggressione subita da Israele con il lancio di migliaia di razzi dalla striscia di Gaza verso la popolazione civile, lo scorso mese di maggio. Un libro scritto “di getto” a Gerusalemme, fra una sirena e una corsa al più vicino rifugio.
Il titolo è efficace e mette in chiaro, fin dalle prime battute, che la tragedia dell’antisemitismo, che ha profondamente segnato tutto il Novecento, non solo non è conclusa, ma si è evoluta ed è mutata in qualcosa di nuovo, insidioso e pericoloso. Per prima cosa l’antisemitismo si è definitivamente sovrapposto all’antisionismo: l’odio per gli ebrei è diventato odio sistematico per lo stato di Israele, che, per i suoi crescenti detrattori, non solo non ha diritto di difendersi e di vivere in sicurezza, ma non ha diritto di esistere.
Fiamma Nirenstein coglie però un passaggio in più e ci racconta di come l’antisemitismo abbia allargato ulteriormente i propri confini: non è più solo prerogativa della residuale sottocultura neo-fascista e neo-nazista (mai scomparsa però e che riemerge nella goffaggine sciagurata di quel candidato a sindaco di Roma che ci ha tenuto a farci sapere che ricordiamo troppo la Shoah solo perché gli ebrei controllano la finanza mondiale…), ma neanche più soltanto programma politico del jihadismo internazionale nelle sue varie declinazioni.
C’è un passaggio ulteriore che Fiamma Nirenstein è fra i primi a cogliere e svelare: la descrizione di Israele come uno stato “oppressore” nel quale è stato insediato un regime di “apartheid”. Israele come il Sudafrica e gli ebrei i nuovi “suprematisti bianchi” Un “mondo alla rovescia”, dunque, nel quale l’unica democrazia del Medio Oriente diventa uno stato di apartheid e i terroristi di Hamas dei novelli Nelson Mandela. E questa narrazione cancella facilmente la realtà.
Si dimentica così in un attimo che Israele è una democrazia compiuta e avanzata, dove la minoranza araba gode di diritti impensabili in qualunque altro stato mediorientale; dove la libertà di stampa, di pensiero e di culto sono le fondamenta di uno stato di diritto, tollerante e aperto; dove la libertà di ricerca scientifica e un innovativo sistema di venture capital lo hanno trasformato in breve tempo in una “start-up nation”.
E contemporaneamente si può soprassedere sul fatto che nella striscia di Gaza viga una dittatura islamista e oscurantista, nella quale non c’è spazio per le opposizioni (ben se lo ricordano i dirigenti di Fatah trucidati e costretti alla fuga dopo la presa al potere di Hamas); dove gli omosessuali vengono uccisi a decine e giustiziati in modo sommario, gettati dai tetti dei palazzi di dieci piani a Gaza; dove gli aiuti internazionali vengono utilizzati non per il welfare, l’istruzione, la sanità ma per costruire tunnel sotto gli ospedali e basi di lancio missilistiche nei condomini civili, militarizzando e mettendo a rischio la vita di un’intera popolazione. L’odio antisionista e dunque antisemita diventa, come rileva la Nirenstein, sempre più “intersezionale”: se Israele è uno stato di apartheid e gli ebrei dei “suprematisti” è doveroso, quasi obbligatorio, nel nome della giustizia globale e della tutela universale dei diritti umani, cose ovviamente buone e giuste, battersi contro lo stato di Israele e gli ebrei che vi abitano.
Un odio nuovo che si fonda però su tecniche antiche e Fiamma Nirenstein ricorda le “3d” di Natan Sharansky, ebreo dissidente perseguitato in Unione Sovietica e poi fuggito in Israele: la demonizzazione, il doppio standard e la delegittimazione dello stato di Israele.
Ma Fiamma Nirenstein coglie anche il fatto che c’è una speranza. E questa prende il nome da Abramo, colui che ebrei, cristiani e musulmani considerano il patriarca del monoteismo. Sì, perché gli Accordi di Abramo siglati fra Israele e diversi paesi arabi (Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan) sono la dimostrazione che c’è una parte di mondo arabo e islamico che vuole chiudere la stagione del conflitto e scommettere su pace, dialogo e sviluppo. E non è una “pace fredda”, come fu quella con Egitto e Giordania: l’entusiasmo in tante capitali arabe e l’esplosione in pochi mesi delle relazioni politiche, economiche, commerciali, turistiche fra i paesi firmatari degli Accordi e Israele, lo dimostrano.
(la Repubblica, 4 novembre 2021)
Nasce il polo della Memoria con il centro studi sulla Shoah
Il Cdec (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) porterà al Memoriale del Binario 21 l'immensa mole di documenti sull'eccidio degli ebrei Trentamila i libri su persecuzioni e antisemitismo a disposizione in nuovi spazi di consultazione. Luzzatto: "Ci saranno aula didattica e auditorium aperti a tutti.
di Zita Dazzi
Il grande archivio della memoria del Cdec cambia casa. Verrà ospitato al Memoriale della Shoah, dove oggi si visita il tristemente noto Binario 21, dove venivano formati i treni destinati a portare i deportati verso i campi di concentramento. Il Centro di documentazione ebraica, che raccoglie le testimonianze della comunità milanese e italiana a partire dagli Anni '30 e che offre testimonianze e informazioni sia sulle persecuzioni legate alle leggi razziali sia sull'antisemitismo contemporaneo, si sposta a dicembre. Da gennaio 2022 sarà operativo nella nuova sede. Un grande unico polo dedicato alla Memoria della Shoah, con il percorso museale che porta al Binario 21, l'anfiteatro, la biblioteca e tutti gli spazi e i servizi del Centro di documentazione ebraica (Cdec), fondazione che studia e conserva tutto quel che racconta cosa successe a partire dagli anni '30 con l'avvento al potere di Hitler e di Mussolini. Si trasferisce da metà dicembre in piazza Safra 1, accanto al Memoriale della Shoah, il Cdec, una delle più importanti fondazioni a livello europeo, che fra le molte iniziative culturali, divulgative e di ricerca, ogni anno pubblica un importante rapporto sull'antisemitismo in Italia.
L'annuncio l'ha dato l'altra sera, durante il presidio dopo il corteo no vax di Novara, il presidente dell'istituto che stava in via Eupili, Giorgio Sacerdoti. Ed è il direttore del Cdec, Gadi Luzzatto Voghera, a raccontare il progetto che trasformerà l'ente in un avamposto aperto sulla città, in comunicazione concreta non solo con tutti i milanesi, ma anche con chi vorrà venire qui a studiare o a vedere un evento pubblico, arrivando con un treno da altre città italiane. Rete ferroviaria italiana ha concesso in comodato d'uso al Cdec uno spazio di 250 metri quadrati che verranno collegati e annessi al Memoriale e ai suoi 7 mila metri quadrati circa di percorso che porta al Binario 21, da dove partivano i vagoni blindati carichi di ebrei e prigionieri politici destinati ai campi di concentramento e di sterminio tedeschi. Del Cdec è anche la biblioteca dentro al Memoriale e l'archivio che custodisce 30 mila volumi specialistici sulla storia ebraica e sulle persecuzioni, sia nazionali che internazionali. «È la più completa che c'è in Italia in questo momento e un importante punto riferimento anche europeo — spiega Luzzatto Voghera — . Ci sono oltre 2.200 riviste di cui un centinaio correnti. Abbiamo 600 metri di scaffali con libri, documenti video, testimonianze e molto materiale, che ora è stato anche digitalizzato e messo a disposizione del pubblico, degli studiosi, dei cittadini che volessero documentarsi».
Insomma, da gennaio, quando la nuova sede del Cdec diventerà operativa, Milano si arricchirà di un luogo che farà memoria, celebrerà le date simboliche come il 27 gennaio, ma sarà anche un'istituzione culturale aperta tutto l'anno, dove si andrà a riflettere, a studiare, ad ascoltare esperti. Dal 2015 la fondazione ha creato la Digital library, un portale integrato in cui sono stati inseriti i dati di ogni singolo documento dell'archivio Cdec, messo in collegamento con altre centinaia di archivi "fratelli" in Italia o nel mondo sullo stesso argomento. Una grande "nuvola" che contiene tutto lo scibile accumulato sui temi della persecuzione degli ebrei e sulle storie di chi visse quegli anni bui. Una rete di intelligenze e di documentazione che servirà a partecipare a bandi per ottenere fondi e collaborazioni europee. «Si aprono tante nuove possibilità — riassume Luzzatto — . Sono in via di allestimento spazi diversi, l'aula didattica per le scolaresche e gli insegnanti, l'auditorium che con il nostro arrivo verrà usato di più di oggi. Siamo felici di andare in un'area in grande sviluppo urbanistico, dove le nostre due fondazioni unite si salderanno idealmente con le nuove funzioni del quartiere. Per esempio con i magazzini che vengono usati durante il Salone del mobile e che in futuro saranno riqualificati».
La biblioteca avrà grandi vetrate affacciate sulla strada e 22 postazioni per lo studio e sarà aperta al pubblico, non solo a chi viene per la collezione libraria del Cdec, ma anche per chi vuole stare in questo luogo a studiare. «Diventa uno spazio per la cittadinanza e per gli studenti, un posto dove si organizzeranno eventi culturali e anche manifestazioni politiche come quella di martedì, perché la memoria non è solo storia ma anche politica», conclude il direttore del Cdec.
(la Repubblica, 4 novembre 2021)
Vaccino Covid, Arnon Shahar (responsabile piano vaccinale Israele) a Tgcom24: "Dopo la terza dose, sarà necessario farne altre"
"Noi siamo stati i primi a introdurla. Grazie all'ulteriore richiamo abbiamo salvato migliaia di persone", ha aggiunto.
Sarà necessario fare altri richiami di vaccino anti Covid dopo la cosiddetta "terza dose". Lo dice a Tgcom24 il responsabile del piano vaccinale di Israele Arnon Shahar, ospite del direttore Paolo Liguori a "Fatti e Misfatti". "E' necessario per salvare vite", spiega. "Nei mesi di giugno e luglio, in Israele abbiamo rilevato un calo drammatico dell'immunità, della capacità del vaccino di proteggerci. Visto l'arrivo della quarta ondata, abbiamo così quindi deciso di dare una copertura in più. E così facendo abbiamo salvato migliaia di persone", aggiunge.
"Siamo stati i primi nel mondo ad avviare una campagna per la terza dose, da soli e anche duramente criticati. Ma è stata necessaria. L'antinfluenzale non dura anni - dice ancora, supportando le sue parole -. Non è una novità che si è inventata ieri la medicina. Questa pandemia ci sta facendo capire che dobbiamo essere umili nei confronti del virus. Il Covid è intelligente, riesce a sfuggire alle nostre strategie".
"Dobbiamo fermare il motore della contagiosità - continua Shahar -. Se non riusciremo a fermarlo con i vaccini ci saranno altre ondate. La pandemia finirà quando saremo vaccinati tutti. Vaccinarsi è una responsabilità sociale. E personalmente, ogni volta che avrò un farmaco che saprò che salverà la vita del mio paziente insisterò e andrò in guerra per utilizzarlo".
Per quanto riguarda il Green pass, dice: "Dobbiamo continuare a utilizzarlo fino a fine pandemia". Infine, una riflessione sui no vax: "La quarta ondata è stata un'ondata di non vaccinati. Loro alimentano il motore della pandemia".
(tgcom24, 4 novembre 2021)
Prima dose, seconda dose, terza dose, quarta dose ... e così procedendo in una serie illimitata di dosi. "La pandemia finirà quando saremo vaccinati tutti". Sembra una profezia. Quanto al Green Pass: "Dobbiamo continuare a utilizzarlo fino a fine pandemia", cioè per sempre. Quanto ai no vax: "Loro alimentano il motore della pandemia", cioè il problema ben presto non sarà più la permanenza della pandemia, ma la permanenza dei no vax. E tutto questo ha il suo centro in Israele. Primi nelle vaccinazioni, primi nei certificati, primi... in che cos'altro? M.C.
Effetti negativi del vaccino oscurati dal ministro israeliano
Il Ministro della Salute israeliano è stato sorpreso a cancellare migliaia di testimonianze scritte in risposta a un post che affermava che non vi erano quasi effetti negativi per il vaccino.
(Notizie su Israele, 4 novembre 2021)
Israele e le cicliste afghane in salvo “Aiutare gli altri è una benedizione”
“Aiutare gli altri è una benedizione”. Dice così Sylvan Adams, il mecenate israelo-canadese a capo della Israel Start-Up Nation protagonista di molte iniziative umanitarie intrecciate al mondo dello sport. L’ultima in ordine di tempo collegata proprio al ciclismo, la disciplina in cui la sua squadra si è imposta come un modello non soltanto agonistico ma anche valoriale.
Sua infatti la regia di un’operazione segreta promossa dall’Unione Ciclistica Internazionale che ha permesso la fuga di vari cittadini afghani a rischio sotto il nuovo regime: tra loro cicliste e professioniste in vari campi minacciate in quanto donne emancipate, oltre a studenti, giornalisti e attivisti. Uno sforzo reso pubblico di recente che ha messo in gioco vari governi, con Israele punto di riferimento al pari di Svizzera, Francia, Canada, Emirati Arabi Uniti e Albania.
Ed è proprio in Albania che Adams si è recato per incontrare faccia a faccia un gruppo di donne che avevano fatto del ciclismo la loro passione, impossibilitate non solo a perseguirla ma anche a proseguire la loro esistenza senza il timore di soprusi e violenze. Abbracci, commozione e poi tutti insieme sui pedali per le vie di Tirana, con addosso la divisa di un team che anche i tifosi italiani hanno imparato ad apprezzare sulle strade del Giro. Nell’occasione Adams ha rivelato qualche dettaglio sulla rete di soccorso: “La dinamica – ha spiegato – è stata molto simile alla trama di un romanzo o film di spionaggio. Ci sono persone che, per portare a termine la missione, hanno rischiato la vita”.
(moked, 3 novembre 2021)
Cosa fanno Israele ed Emirati sulla cybersicurezza
L’accordo con Israele è l’ultimo di una serie di partnership per Beacon Red. L’articolo di Giuseppe Gagliano
di Giuseppe Gagliano
A Dubai, alla GITEX Technology Week 2021, svoltasi dal il 17 al 21 ottobre è stata siglata una nuova intesa nel contesto della cybersicurezza frutto degli accordi di Abramo. In un ulteriore riavvicinamento con il settore informatico israeliano, la Beacon Red, una filiale della società di difesa degli Emirati Arabi Uniti EDGE Group, ha collaborato con l’israeliana XM Cyber, guidata dall’ex capo del Mossad Tamir Pardo. Queste due società hanno siglato una nuova partnership che si concentrerà sulla gestione delle vulnerabilità, con Beacon Red che attingerà all’esperienza di XM nei metodi di attacco per identificare le vulnerabilità più a rischio. La partnership sarà supervisionata dal capo della sicurezza delle informazioni di Beacon Red, Rogerio Lemos, e dal capo dei mercati emergenti di XM Erez Jacobson. L’azienda israeliana, che sta andando bene in Europa e negli Stati Uniti è desiderosa di rafforzare il suo marchio in Medio Oriente, dove deve ancora ottenere contratti importanti. Ma cosa è la Beacon Red? Red è un’impresa che ha preso il posto della pionieristica società cyber-offensiva degli Emirati Arabi Uniti DarkMatter, dove in precedenza lavoravano un certo numero di dirigenti Beacon Red, tra cui l’amministratore delegato dell’azienda Mauricio de Almeida. La società emiratina, specializzata nella consulenza sulla guerra ibrida con una forte attenzione al cyber, ha precedentemente fatto affidamento sulle competenze informatiche australiane e statunitensi assumendo un gran numero di veterani del settore dell’intelligence e della difesa come il capo della sua divisione difesa e cyber, Eric Eifert, che in precedenza era con ManTech. L’accordo è l’ultimo di una serie di partnership che Beacon Red ha stabilito con società informatiche israeliane dalla normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Emirati Arabi Uniti-Israele, anche con la società di simulazione di attacchi informatici israelo-statunitensi.
(Startmag, 3 novembre 2021)
Israele, personale hi-tech cercasi
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Infografica che mostra i dati del rapporto della Israel Innovation Autority
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Nell'anno della profonda crisi pandemica, l'industria hi-tech israeliana, in controtendenza con gli altri settori, ha resistito. Lo racconta un report pubblicato in estate dall'Autorità israeliana per l'innovazione, in cui emerge chiaramente il ruolo centrale di questa realtà nell'economia israeliana. Per esempio, il report dice che il 15 per cento del prodotto interno lordo di Israele è generato dal mondo dell'alta tecnologia. O ancora che le esportazioni high-tech sono aumentate costantemente nel corso degli ultimi anni e hanno raggiunto quasi 50 miliardi di dollari nel 2020, rappresentando oltre il 40 per cento del totale delle esportazioni israeliane.
Il documento però non è solo un'autocelebrazione, ma mette in luce le criticità per il futuro di questo settore. In particolare viene evidenziato come un quarto degli studenti universitari stia studiando materie scientifiche e potenzialmente possa essere poi impiegato nell'hi-tech. Il problema è che solo il 45 per cento dei datori di lavoro è disposto ad assumere impiegati junior, cioè senza esperienza. "Quindi, - si legge - senza un cambiamento di percezione da parte dei datori di lavoro del settore, il problema dei giovani non potrà che peggiorare". Ovvero arriveranno sul mercato, ma non troveranno offerte di lavoro. Questo perché i profili che mancano in Israele sono quelli più specializzati: sono attualmente 16mila i posti vacanti e che l’industria sta cercando di coprire.
Per far fronte a questa mancanza di risorse umane, si è guardato all'estero. Negli ultimi tre anni circa mille lavoratori sono stati pescati fuori dai confini nazionali, in particolare negli Usa, in India, in Germania e in Cina. E il nuovo governo israeliano, in particolare attraverso gli sforzi del ministro della Scienza e della Tecnologia Orit Farkash-Hacohen, sta mettendo in piedi un intero sistema per portare in Israele lavoratori da impiegare nell'alta tecnologia. Per facilitare le assunzioni sono state previste delle agevolazioni fiscali, iter burocratici semplificati per i permessi di lavoro, incentivi per l'immigrazione ebraica. Su quest'ultimo elemento il governo israeliano punta in modo particolare: il presupposto è che chi fa l'aliyah viene in Israele per rimanerci. E questo è importante per stabilizzare il mercato del lavoro, che altrimenti potrebbe vedere gli impiegati rimanere un periodo circoscritto per poi lasciare nuovamente vacanti le proprie posizioni e trasferirsi altrove.
Per il futuro però non basta l'importazione di know how, segnala l'Autorità israeliana per l'innovazione, ma e necessario costruire percorsi di formazione per gli studenti del paese che siano poi in grado di rispondere alla domanda del settore, con una flessibilità dei datori di lavoro. Inoltre, è necessario aumentare la quota di donne (già significativa perché rappresenta un terzo del totale), dei haredi (sono solo il 3 per cento) e arabi (il 2 per cento) con competenze utili per questo mercato. A maggior ragione considerando che l'hi-tech sembra essere sempre più la colonna portante dell'economia nazionale.
(Shalom, novembre 2021)
3 novembre ’43, cominciò in via Bertora la tragica retata degli ebrei genovesi
Oggi da Galleria Mazzini la partenza della marcia della memoria
di Mario Paternostro
GENOVA - Oggi, da Galleria Mazzini alla Sinagoga sfileranno i genovesi (speriamo siano in tanti) per ricordare il 3 novembre del 1943, quando avvenne da parte delle SS occupanti il rastrellamento degli ebrei. Me lo racconta, con la sua innata sobrietà, Piero Dello Strologo, presidente del circolo Primo Levi e la sua intervista è diventata una puntata di “Terza”. Di fronte a quell’ orrenda sceneggiata di no green pass novaresi, che hanno sfilato in strada vestiti come i deportati nei lager nazisti, sono andato a rivedere la puntata della trasmissione di Primocanale. Vale la pena, oggi di ricordarlo quel giorno. Anche nella nostra città e per fortuna che la Comunità di Sant’Egidio con il Primo Levi e la Comunità Ebraica, promuove da anni questa importante celebrazione. Mi spiegava Dello Strologo che la comunità ebraica genovese nata nel Settecento (ma nel 1492 ormeggiarono al Molo tre caravelle con gli ebrei che fuggivano dalla Spagna, restarono segregati per un mese e poi furono ospitati da Alfonso di Borbone a Napoli) diventт una delle piщ importanti in Italia, dopo quelle di Roma e di Milano. “Per lo più dediti a piccolo commercio, cominciando da quello del tabacco, si insediarono al Molo e vicino alle Mura della Malapaga costruirono la prima Sinagoga che restò in funzione fino al 1935, quando fu realizzata quella attuale di via Bertora”. ”Nel Novecento, con la crescita del porto – ricorda ancora Dello Strologo nell’intervista – avvenne il grande sviluppo della comunità. Allora erano circa duemila persone e in via Roma aprirono alcuni tra i più importanti negozi della città, da Issel a Cabib a Abolaffio”. Quando la sinagoga fu inaugurata vi fu una grande partecipazione della città, anche delle autorità fasciste. Tre anni dopo cambiò tutto. Gli ebrei, dopo la guerra etiopica, diventarono una “razza diversa” fino a quel terribile 5 settembre del 1938 quando i bambini ebrei furono cacciati dalle scuole. Ricorda il presidente del Primo Levi: “Noi bambini vivemmo cinque anni in una bolla. Finché il 16 ottobre del 1943 vi fu la tremenda retata nel ghetto di Roma. Ma il 3 novembre la Sinagoga di Genova era ancora aperta. Improvvisamente arrivarono alcune SS, portarono via tutti i registri degli iscritti e andarono a cercarli nelle case. Ricordo una signora che abitava in fondo a via Bertora e vide dalla finestra di casa quello che stava accadendo. Con coraggio diede l’allarme. I tedeschi arrestarono anche lei. In conclusione furono deportati 262 ebrei e alla fine della guerra ne tornarono soltanto dodici”. E’ giusto, quindi, essere tutti anche sotto la pioggia, in Galleria Mazzini, dove fu arrestato il rabbino capo Riccardo Pacifici, morto nel campo di concentramento di Auschwitz con la moglie, a ricordare e soprattutto a non dimenticare mai. Tanto più in questi giorni, di fronte a manifestazioni che, invocando un presunto diritto alla libertà, offendono la storia. Quella purtroppo vera.
(Primocanale, 3 novembre 2021)
I residenti di Sheikh Jarrah si oppongono al compromesso della Corte suprema israeliana
GERUSALEMME - I residenti arabi del quartiere Sheikh Jarrah, a Gerusalemme, hanno respinto all’unanimità l’accordo di compromesso proposto dalla Corte suprema israeliana in merito alla proprietà delle abitazioni. Lo riferisce una nota stampa ripresa dalla stampa israeliana. In precedenza, la Corte suprema israeliana ha proposto ai residenti arabi di restare nelle loro case per almeno 15 anni, in cambio del riconoscimento della proprietà a un gruppo di coloni e del pagamento di un affitto simbolico. Oggi, durante una conferenza stampa, Muna el Kurd, ha espresso la posizione delle famiglie. “Rifiutiamo all’unanimità l’accordo proposto dal tribunale dell’occupazione (Israele, ndr)”, ha detto El Kurd, sottolineando che l’accordo “prepara la strada per l’espropriazione dei diritti sulle nostre terre”.
Secondo la proposta, le tre famiglie che rischiano lo sfratto sarebbero riconosciute come inquilini protetti di prima generazione, mentre una quarta famiglia sarebbe considerata di “seconda generazione”. Gli sgomberi pianificati a Sheikh Jarrah lo scorso maggio hanno concorso, insieme all’annullamento delle elezioni palestinesi, allo scoppio di un conflitto tra Israele e i gruppi armati presenti nella Striscia di Gaza, capeggiati da Hamas.
(Agenzia Nova, 2 novembre 2021)
“Süss l’ebreo”, il film antisemita voluto da Goebbels riproposto nelle edicole di Milano
GERMANIA - 1940. È l’anno in cui nei cinema tedeschi uscì “Süss l’ebreo”, una pellicola nazista e antisemita, divenuta caposaldo della propaganda antiebraica del Terzo Reich.
Milano, 2021. È l’anno in cui nelle edicole milanesi è possibile acquistare il dvd di “Süss l’ebreo”, senza una critica iniziale, senza un commento, senza una qualsiasi contestualizzazione in aiuto per chi non conosce un film chiaramente antisemita.
A cura di “A&R Productions”, specializzata nel recupero di vecchi film, la distribuzione della pellicola sta creando diverse polemiche, che presto sfoceranno in una interrogazione parlamentare.
Ad annunciarla è stato il deputato del PD Emanuele Fiano:
“È così come se niente fosse, in edicola a Milano si può comprare Süss l’ebreo la più importante opera di cinematografia nazista antisemita. Senza un’introduzione, senza una spiegazione, senza una storicizzazione. Così come se niente fosse. Come se i nazisti fossero ancora tra noi e vendessero liberamente i loro prodotti. Quel film che proiettavano nei cinema in Germania, per preparare il popolo all’attuazione della Soluzione Finale. Così come se niente fosse. E poi ci meravigliamo di Novara? Presenterò domani un’interrogazione ma anche una denuncia alla procura per i reati descritti dalla Legge Mancino. Non sarò mai indifferente”.
La denuncia per la distribuzione nelle edicole milanesi del film antisemita è stata fatta dall’Osservatorio democratico sulle nuove destre che ha espresso “sconcerto”:
“La pellicola fu commissionata dal ministro della propaganda nazista Joseph Goebbels, che intervenne (come dichiarò lo stesso regista) anche personalmente sulla sceneggiatura, il montaggio e la selezione degli attori. Per parte sua Heinrich Himmler ordinò che tutti i membri delle SS e della Gestapo vedessero il film. Nel personaggio di Süss, il regista, Veit Harlan, che fu al termine della guerra anche sottoposto a processo con l’accusa di “crimini verso l’umanità”, cercò di condensare tutti gli stereotipi possibili dell’ebreo, anche fisici: con il naso adunco e la barba sudicia, avido e usuraio, imbroglione e immorale, ostile verso i non-ebrei”.
2021, Milano: a 81 anni dall’uscita, un film contro gli ebrei viene riproposto in una delle città guida del nostro paese, come niente fosse.
(Progetto Dreyfus, 2 novembre 2021)
Caso Eitan Biran, nonno Peleg fa ricorso contro il ritorno del bimbo in Italia
In primo grado la giudice del tribunale di Tel Aviv aveva dato ragione alla zia paterna Aya ordinando il rientro a Pavia dell'unico sopravvissuto della strage del Mottarone.
di Sharon Nizza
TEL AVIV - Shmuel Peleg, nonno materno di Eitan, ha presentato ricorso alla Corte distrettuale di Tel Aviv, impugnando la sentenza del tribunale della famiglia che una settimana fa aveva dato ragione alla zia paterna Aya Biran. In primo grado, la giudice Iris Ilotovich-Segal ha stabilito che “Eitan è stato allontanato illegittimamente dal suo luogo di residenza abituale” e ha ordinato il rientro in Italia del piccolo, unico sopravvissuto alla tragedia del Mottarone, secondo i termini della Convenzione dell'Aja sulla sottrazione dei minori. “Sfortunatamente, il tribunale della famiglia ha scelto di non tenere conto delle circostanze eccezionali che si sono presentate e ha ignorato le azioni unilaterali intraprese apparentemente con astuzia dalla zia per ottenere la tutela, alle spalle della famiglia Peleg mentre era in lutto”, si legge in una nota diffusa dalla famiglia materna. “Ci auguriamo che il Tribunale distrettuale di Tel Aviv respinga il ricorso”, hanno risposto i Biran tramite gli avvocati Shmuel Moran, Avi Himi e Alon Amiran. “La sentenza del tribunale della famiglia parla da sé: è completa, ben fondata e approfondita”, hanno sottolineato i legali, augurandosi che Eitan possa tornare “il più rapidamente possibile alla sua famiglia, alla sua scuola, alle strutture terapeutiche da cui era stato rapito”. Nell’emettere la sentenza, la giudice ne aveva tuttavia sospeso l’esecutività immediata, per consentire la presentazione dell’appello. Saranno ora i giudici della Corte distrettuale di Tel Aviv, che si riunirà a stretto giro, a stabilire se mantenere questa decisione in piedi o ordinare l’immediato rientro del piccolo anche durante il dibattimento di secondo grado, che si stima durerà circa un mese, secondo le tempistiche serrate stabilite dalla Convenzione. Nel frattempo, la tensione tra i due rami della famiglia continua a essere alta. Dopo la sentenza lunedì scorso, Aya Biran non ha consegnato Eitan al ramo materno, facendo saltare l’accordo stabilito precedentemente dalla stessa giudice che garantiva la custodia congiunta del piccolo fino al termine delle procedure legali in Israele. Nei giorni successivi, la giudice ha accolto la richiesta dei legali dei Biran che il bambino rimanesse sotto la loro custodia esclusiva (Aya si è trasferita in Israele da oltre un mese con marito e le due figlie per seguire il processo), con possibilità di incontrare i Peleg solo alla presenza dei servizi sociali. Opzione che proverebbe “che per Aya il suo bene viene prima di quello di Eitan”, accusa la famiglia materna, che ha presentato ricorso anche contro questa decisione. “Non vediamo Eitan da una settimana”, dice a Repubblica Etty Cohen, la nonna materna. “Aya ha deciso che la famiglia della mamma di Eitan deve essere esclusa dalla sua vita e come ha cercato di impedirci di vederlo in Italia, ora sta facendo la stessa cosa qui”. “Non c’è motivo per cui si svolga in Italia il dibattimento sul futuro della vita di Eitan, cittadino israeliano la cui maggior parte dei familiari (da entrambe le parti) si trova in Israele e parla ebraico”, prosegue il comunicato della famiglia Peleg. Va specificato che il processo in corso in Israele non affronta la questione del futuro di Eitan, bensì quale sia la sede giudiziaria dove si debba svolgere questo dibattimento, determinata, secondo la Convenzione dell’Aja, da alcuni criteri specifici. Tra questi, quale sia il “luogo di residenza abituale” del minore. La giudice Ilotovich-Segal ha per l’appunto stabilito che si tratti dell’Italia ed è “in quella sede che devono continuare i procedimenti già avviati sul futuro del bambino” ha scritto. Un altro criterio fondamentale della Convenzione stabilisce che chi ne richieda l’attivazione sia l’ente o la persona che esercita il “diritto di affidamento” del minore e “in particolare il diritto di decidere riguardo al suo luogo di residenza”. Dalla sentenza di primo grado – di cui sono stati resi pubblici ampi stralci, nonostante il processo si svolga a porte chiuse – è possibile dedurre che il ricorso della famiglia Peleg verterà in particolare su questo punto, contestando che la zia Aya avesse la facoltà di “decidere riguardo al luogo di residenza di Eitan”. Per avallare la propria tesi, i legali dei Peleg hanno portato di fronte alla giudice i pareri di due esperti di diritto italiano, l’avvocato Luca Passanante, professore ordinario di diritto processuale civile dell'Università degli Studi di Brescia e il professor Mauro Paladini, ex magistrato del Tribunale di Piacenza. Negli estratti delle loro deposizioni resi pubblici, essi rilevano quelli che potrebbero essere dei vizi di forma nelle procedure legali che hanno conferito ad Aya la tutela del piccolo, avvenute a Torino due giorni dopo la tragedia e a Pavia il 9 agosto (ricorso). Nel primo caso, la mancata richiesta di applicazione dell’articolo 371 del codice civile che conferisce al tutore la facoltà di decidere il luogo dove il bambino deve vivere (il prerequisito della Convenzione). In sostanza – è la strategia legale dei Peleg – Aya in quanto “tutrice” aveva un ruolo puramente amministrativo e non di “affidatario” (termini peraltro scritti in italiano e lungamente dissertati nelle 79 pagine della sentenza, per appurarne le differenze rispetto agli equivalenti nel diritto israeliano). Nel secondo caso, viene invece contestata dai legali dei Peleg la mancata attivazione dell’articolo 741 del codice civile, che dispone che un decreto abbia efficacia immediata, nonostante l’impugnazione. Se la decisione del giudice tutelare di Pavia di agosto non è definitiva – si vuole sostenere – non si tratta di sottrazione illegale. La giudice israeliana - che ha sentito anche il parere della dottoressa Maria Cristina Canziani, ex giudice del Tribunale dei minori di Milano, portato dai legali dei Biran - ha respinto queste argomentazioni sostenendo che “non si possa negare in nessun modo che lo Stato di Israele abbia l'obbligo di rispettare i procedimenti nei Paesi che hanno aderito alla Convenzione” e “il solo fatto che una sentenza sia stata impugnata non significa che il procedimento in corso sia inesistente e deve essere consentito ai tribunali competenti, nel Paese di origine, di portare a termine il loro lavoro fino alla pronuncia di una sentenza definitiva”. I presunti vizi di forma reclamati dagli avvocati dei Peleg che emergono dalla sentenza di primo grado sembrano essere l’appiglio legale su cui si basa la ripetuta contestazione della famiglia materna per cui hanno “perso fiducia nella giustizia italiana”. Secondo diversi esperti israeliani di diritto, le probabilità che la corte distrettuale di Tel Aviv ribalti la sentenza di primo grado sono basse. Ma quanto emerge ora dagli atti del processo in corso in Israele sono alcuni dei nodi che a breve passeranno al vaglio del tribunale dei minori di Milano, che ai primi di dicembre si riunirà nuovamente per discutere il ricorso dei Peleg sulla tutela conferita ad Aya. Se la corte distrettuale di Tel Aviv confermerà la decisione di primo grado (e salvo ulteriore appello alla Corte Suprema), è in quella sede che si deciderà il futuro di Eitan.
(la Repubblica, 2 novembre 2021)
Il Negev come Marte: conclusa l'esercitazione astronautica nel cratere Ramon
di David Di Segni
Sembra di essere su Marte, ma è nel cratere Ramon del Negev Meridionale d’Israele che, settimane fa, sei astronauti provenienti da diversi paesi hanno iniziato il progetto di simulazione della vita sul pianeta rosso. Per un mese hanno condotto esperimenti per rendere sempre più vicino e concreto il viaggio dell’uomo verso Marte.
Il programma di un mese, intitolato AMADEE-20, è stato l’epilogo di una collaborazione quadriennale tra centinaia di ricercatori provenienti da venticinque paesi diversi. L'iniziativa è stata guidata dal Forum Spaziale Austriaco in collaborazione con l'Agenzia Spaziale Israeliana, attraverso l'organizzazione israeliana D-MARS.
I sei astronauti “analogici” - così chiamati perché operano in ambienti analoghi allo spazio - hanno trascorso tre settimane isolati dal mondo esterno, in condizioni fedeli a quelli riscontrabili su Marte. Comunicazioni con il centro di controllo - situato in Austria - veicolate con un ritardo di circa dieci minuti, doccia con acqua limitata e risoluzione di tutti i problemi in corso d’opera senza aiuti esterni. Gli astronauti hanno condotto numerosi esperimenti al fine di avvicinarsi sempre più all’inizio di una missione con equipaggio su Marte. Tra questi, il test delle tute spaziali - pesanti più di 50 chili- di cui sono stati equipaggiati.
Perché è stato scelto proprio il Negev come sito d’esercitazione? Il paesaggio roccioso color ruggine del cratere Ramon e le sue condizioni climatiche sono stati considerati come una sostituzione valida alle condizioni atmosferiche di Marte. “Una formidabile analogia - ha detto Gernot Gromer, direttore del Forum spaziale austriaco, durante la cerimonia di chiusura del programma - Gli astronauti non erano su Marte, ma nemmeno completamente sulla Terra".
L’esperienza, sostengono gli scienziati, è stata realistica. "Non è difficile entrare in questa mentalità - ha detto Anika Mehlis, unica donna della squadra - La mattina, quando ti svegli e guardi fuori dalle piccole finestre, e vedi questo paesaggio rosso, e non c'è nessuno, e non puoi uscire, e le uniche comunicazioni sono con un ritardo, inizi a sentirti davvero isolato”.
Un piccolo passo verso la conquista di Marte. Gli astronauti coinvolti nell’esperimento sono fiduciosi delle proprie scoperte, ed il sogno sembra non essere troppo futuro. Addirittura, è probabile che “il primissimo essere umano a camminare su Marte sia già nato” ha detto Gromer. Le imprese pubbliche e private stanno correndo verso Marte. Sia l'ex presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che il fondatore di SpaceX, Elon Musk, hanno dichiarato che gli esseri umani avrebbero camminato sul Pianeta Rosso in pochi decenni. Nel frattempo, nuovi sfidanti come la Cina si sono uniti agli Stati Uniti e alla Russia nella corsa verso Marte.
(Shalom, 2 novembre 2021)
Israele riapre le frontiere ai turisti vaccinati di tutto il mondo, dal 1° novembre 2021.
Israele è stato tra i primi paesi a lanciare la campagna di vaccinazione all'inizio di quest'anno e alla fine dell'estate ha iniziato a somministrare la terza dose di vaccino.
Ad oggi, più di 3.9 milioni di israeliani (circa il 42% della popolazione) hanno già ricevuto la dose di richiamo e le autorità hanno ripreso i colloqui per riaprire il turismo, una delle principali industrie della Terra Santa.
Dopo lunghi dibattiti e analisi avvenuti nei giorni scorsi, il Ministero del Turismo israeliano ha confermato domenica sera la riapertura delle frontiere dei turisti stranieri vaccinati contro il Covid-19 a partire da oggi, 1° novembre.
• Dal 1 novembre, i turisti vaccinati da tutto il mondo hanno di nuovo accesso in Israele
Le autorità di Gerusalemme hanno recentemente emesso un'ordinanza che sancisce la ripresa del turismo internazionale, oltre a nuove regole secondo cui i turisti di tutto il mondo potranno visitare Israele, a più di un anno e mezzo dalla chiusura delle frontiere del 9 marzo 2020. L'accesso è consentito da oggi, 1 novembre 2021, a tutti i cittadini stranieri vaccinati a regime completo negli ultimi 180 giorni con uno dei sette vaccini riconosciuti dall'OMS (Pfizer, Moderna, Johnson & Johnson, AstraZeneca, Sinovac, SinoPharm, Covishield), così come coloro che hanno avuto il COVID negli ultimi sei mesi, sono stati curati e possono dimostrare la malattia con documenti giustificativi ufficiali. Questa decisione è stata presa dopo che circa il 65% della popolazione israeliana ha già ricevuto il programma di vaccinazione completo e il 41% dei cittadini è immunizzato anche con la dose di richiamo, con Israele tra i primi paesi ad adottare la terza dose di vaccinazione.
• Condizioni di viaggio in Israele dal 1 novembre 2021: certificato di vaccinazione o prova di malattia, test COVID PCR e test PCR eseguiti all'ingresso nel paese, più PLF
Il Ministero del Turismo israeliano ha annunciato ufficialmente che, a partire dal 1 novembre 2021, i turisti di tutto il mondo potranno di nuovo viaggiare liberamente in Israele. Ci sono, infatti, restrizioni per coloro che sono stati in una lista rossa negli ultimi 14 giorni, ma in questo momento nessun paese è classificato come rosso nella lista. La maggior parte dei paesi è considerata arancione (livello di rischio medio), inclusa la Romania. Pertanto, i turisti rumeni potranno entrare in Israele se soddisfano le seguenti condizioni:
- Essere vaccinati con un programma completo almeno 14 giorni prima di entrare in Israele e un massimo di 180 giorni prima della fine del viaggio in Terra Santa OPPURE essere in grado di dimostrare il passaggio attraverso la malattia negli ultimi sei mesi OPPURE avere il dose di richiamo eseguita;
- Presentare un test PCR negativo eseguito con un massimo di 72 ore prima dell'imbarco per Israele;
- Esegui un altro test PCR all'ingresso in Israele a tue spese e attendi in isolamento per un massimo di 24 ore fino a quando non ricevi il risultato negativo. Il valore equivalente del test è di circa 100 NIS (circa 130 RON);
- Compilare un modulo sanitario da presentare all'imbarco per Israele, oltre che all'ingresso nel Paese, un modulo contenente informazioni quali la data e il tipo di vaccino somministrato, le persone con cui viaggiano o i Paesi visitati negli ultimi 14 giorni.
Tutte le informazioni ufficiali sono disponibili sul sito web del Ministero della Salute israeliano: corona.health.gov.il
(AirlinesTravel.ro, 2 novembre 2021)
Via alla raccolta di firme contro i cortei "No pass". Oggi presidio bipartisan
Una doppia rivolta contro i deliri no vax. La prima, firmata Confcommercio Milano, è una petizione-appello per dire basta ai cortei selvaggi che da 15 sabati consecutivi tengono in scacco cittadini e commercianti. La seconda è il presidio organizzato oggi alle 18 dalla Comunità Ebraica davanti al Memoriale per dire «basta alle strumentalizzazioni della Shoah». La misura era già colma prima delle immagini choc arrivate da Novara, dove un gruppo No green pass ha osato sfilare per le vie del centro storico piemontese indossando pettorine a strisce verticali bianche e grigie, alcune con un numero identificativo appuntato addosso, e tenendosi a una corda che ricordava un filo spinato, chiaro riferimento ai lager nazisti. I gruppi politici parteciperanno in maniera bipartisan, hanno aderito e saranno presenti esponenti di Pd, Lega, Forza Italia.
Partendo dal primo atto di ribellione, Confcommercio ha lanciato la raccolta firme on line sul sito change.org. «Milano produttiva - si legge - vuole dire con chiarezza che la città non può e non vuole dividersi sulle soluzioni per combattere la pandemia; che la città dà spazio e ascolta da sempre le opinioni di tutti e che tutti hanno diritto di manifestare le proprie idee ma nel rispetto delle regole democratiche e della legge».
Milano, prosegue il testo, «vuole far sentire la voce pacifica ma ferma della grande maggioranza dei propri cittadini che non condivide la paralisi ogni sabato della città per cortei ripetitivi che spesso non rispettano le regole creando disagi crescenti e rischi per la collettività. Se non c'è condivisione sullo strumento dei vaccini e sull'utilizzo del green pass ci sono tutte le modalità democratiche per far sentire le proprie ragioni e per individuare propri rappresentanti da eleggere nelle istituzioni. Ma una minoranza, qualunque essa sia, non può imporre la propria volontà e tenere sotto scacco una grande città». E «in vista del periodo natalizio Milano non può accettare, dopo tutta la sofferenza di questo lungo anno e mezzo di pandemia, che si crei un clima di contrapposizione dannoso per la società civile e per il mondo delle imprese».
Il presidente di Confcommercio Carlo Sangalli sottolinea che «la probabile estensione dell'emergenza sanitaria dimostra che la pandemia resta ancora un problema aperto e una fonte di preoccupazione. Proprio per questo è fondamentale ricordare che è il Covid il nemico comune e non le soluzioni per combatterlo. La petizione che lanciamo è un appello forte alla responsabilità da parte di tutti, nel rispetto della libertà di tutti. Dopo un anno e mezzo drammatico Milano, e il nostro Paese, hanno assoluto bisogno di tornare a crescere in sicurezza. Tutti insieme per il bene comune e per la libertà».
La Comunità ebraica dice invece «basta con le stelle gialle, le casacche a righe dei prigionieri dei campi e i simboli di Auschwitz usati dai no vax. Non accettiamo paragoni tra le cure contro il virus e lo sterminio di persone innocenti. La nostra coscienza civile si ribella al confronto tra la distruzione degli ebrei d'Europa e norme che proteggono i cittadini. Chiediamo rispetto per le vittime, coscienza della storia del nostro Paese e difesa della memoria che ci unisce». Prima del delirio a Novara c'erano stati gli attacchi a Liliana Segre, gli striscioni «Ora e sempre Resistenza» alla testa dei cortei. Alle 18 davanti al Memoriale hanno già annunciato la presenza il Pd, il capogruppo milanese della Lega Alessandro Verri e quello di Forza Italia Alessandro De Chirico che ha «invitato la commissaria cittadina e altri esponenti azzurri a venire numerosi, è importante partecipare per ricordarsi di dove la follia umana possa arrivare. É gravissimo che qualcuno paragoni il Green pass alla deportazione, sintomo di una società malata e superficiale. Chi oggi si dimentica della gravità della Shoah non è degno di alcuna solidarietà». Il capogruppo Fdi Andrea Mascaretti invia la «vicinanza e solidarietà del partito alla comunità ebraica che incontreremo a breve. C'è diritto di manifestare ma va condannato l'uso improprio di simboli della sofferenza e della deportazione nei campi di sterminio».
(il Giornale, 2 novembre 2021)
... ma va condannato l'uso improprio di simboli della sofferenza e della deportazione nei campi di sterminio». D'accordo. Con tutto il resto no. Ma è inutile parlarne. Le scelte ormai sembrano fatte e ai benpensanti non interessa certo ascoltare qualcuno che si lascia collocare nella categoria dei "no vax" per motivi di coscienza e si colloca spontaneamente in quella dei "no green pass" per motivi di ragione. E se le cose sono arrivate a questo punto, ciascuno deve fare personalmente i conti con la propria coscienza e la propria ragione. E poi scegliere. M.C.
"Se lo storico non indaga vincono le notizie false"
L’ex rettore Stefano Pivato di nuovo in libreria con un saggio sulla vicenda di Bartali e il salvataggio degli ebrei.
di Tiziano V. Mancini
Probabilmente nessuno meglio di uno storico di professione può comprendere il valore del tempo quale apportatore di verità. Perché non sempre il suo trascorrere deposita polvere e spessori di ombre sui fatti, ma consente invece che la tentazione vanità delle ideologie, della politica, dell’opportunismo sbiadisca a favore dell’emergere della sostanza delle cose.
La storia di Bartali e del suo presunto "salvataggio di migliaia di ebrei" che gli valsero il titolo postumo di “Giusto delle Nazioni“ da parte dello Yad Vashem e la medaglia d’oro al valore civile da parte del Presidente della Repubblica Azeglio Ciampi, è un caso emblematico e viene ricostruita dettagliatamente dalle voci di David Bidussa, John Foot, Gianluca Fulvietti, Carala Marcellini, Stefano Pivato e Nicola Sbetti nel volume “Il caso Bartali e le responsabilità degli storici“ (Castelvecchi, 2021) che fa da naturale e si spera definitiva conclusione alla vicenda sollevata dal libro di Stefano Pivato “L’ossessione della memoria. Bartali e il salvataggio degli ebrei: una storia inventata“ anch’esso edito quest’anno da Castelvecchi.
Ma piuttosto che una difesa della casta o un j’accuse generalizzato, il libro vuole essere una rara ammissione di colpa degli storici che offre l’occasione per riflettere sul ruolo della memoria e sul rapporto di questa con i documenti e infine con i fatti, a partire dalla testimonianza di don Aldo Brunacci, che, come si legge nella prefazione "fu stretto collaboratore del vescovo di Assisi Giuseppe Placido Nicolini, nell’opera di salvataggio di ebrei fra il 1943 e il 1944, sostituito poi da Bartali nei racconti di Alexander Ramati, scrittore e regista, allo scopo di rendere la trama del romanzo Assisi Underground (Harper and Collins, 1978) più avvincente. Un equivoco incredibilmente rimasto senza traccia fino a che, nel 2017, Michele Sarfatti non si è servito proprio di quella testimonianza per smontare tutta la leggenda. La “falsa notizia“ del ruolo di Bartali nell’opera di salvataggio degli ebrei è diventata leggenda perché, nel corso degli anni, non è mai stata indagata da nessuno storico", tanto da sfociare in una vulgata degna di quello che Pivato definisce nel suo intervento "il Paese di Vanna Marchi" nel quale neppure il positivismo che dovrebbe essere proprio degli storici, ne abbiamo avuto riprova anche questi giorni, riesce a sottrarsi a scivoloni da avanspettacolo.
(il Resto del Carlino, 2 novembre 2021)
Eitan: la famiglia della madre ricorre contro il ritorno in Italia
Secondo il nonno, Shmuel Peleg, la sentenza ha ignorato le "azioni unilaterali" della zia Aya Biran
La famiglia della madre di Eitan Biran, il bimbo di sei anni unico sopravvissuto della tragedia del Mottarone, ha fatto ricorso contro la decisione del tribunale di Tel Aviv che ha stabilito il suo ritorno in Italia presso la zia italiana. Lo riferisce l'emittente israeliana Canale 2.
Dopo aver perso i genitori, il fratellino di un anno e i bisnonni nell'incidente della funivia lo scorso maggio, Eitan era stato sequestrato e portato in Israele dal nonno materno, Shmuel Peleg, lo scorso settembre. La battaglia legale tra i due rami della famiglia si era conclusa in prima istanza con un pronunciamento a favore della zia Aya, la sorella del padre, residente in Italia, con la sentenza del Tribunale della famiglia che ha riconosciuto le ragioni della zia paterna nell'ambito della Convenzione dell'Aja sulla sottrazione dei minori.
Il nonno materno ora ha presentato ricorso alla Corte distrettuale di Tel Aviv contro la sentenza. Il portavoce della famiglia, Gadi Solomon, ha fatto sapere che nel ricorso si denuncia che il Tribunale nella sua sentenza non ha tenuto conto "delle circostanze eccezionali di fronte alle quali si trovava" ed ha ignorato "le azioni unilaterali della zia Aya Biran".
"Ci auguriamo che il Tribunale distrettuale di Tel Aviv respinga il ricorso". Questa la reazione di Shmuel Moran, Avi Himi e Alon Amiran, legali di Aya Biran. "La sentenza del tribunale della famiglia - hanno sottolineato - parla da sé ed è completa, ben fondata, approfondita e accademica". I legali si augurano che "come determinato" dal Tribunale della famiglia" di Tel Aviv, Eitan torni "il più rapidamente possibile alla sua famiglia, alla sua scuola, alle strutture terapeutiche da cui era stato rapito".
(RaiNews, 1 novembre 2021)
Iran ed Hezbollah spingono il Libano sempre più nel baratro
Che il Libano sia ormai oltre la linea del baratro è evidente a tutti, ma che nel bel mezzo della più grande crisi mai attraversata dal Paese dei cedri un Ministro di Hezbollah, pur di fare il gioco dell’Iran, rischi di mettere a repentaglio le relazioni con gli unici paesi che possono aiutare il Libano è davvero incredibile.
Il ministro dell’Informazione libanese, George Kordahi, vicino a Hezbollah e al regime siriano, nei giorni scorsi ha rilasciato dichiarazioni nelle quali equiparava i ribelli Houthi dello Yemen a Hezbollah sostenendo che ambedue i gruppi terroristici lottavano contro la prepotenza saudita e degli altri Paesi del Golfo Persico.
Tali dichiarazioni hanno provocato l’immediato ritiro dal Libano degli ambasciatori dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti (EAU), del Kuwait e del Bahrain, cioè di quei Paesi arabi che stavano cercando una soluzione per il Libano.
Il Qatar non ha ancora preso questa decisione ma ha invitato il Governo libanese a “pari passi verso i paesi fratelli” invece di perseguire gli obiettivi di Teheran che lo hanno portato sull’orlo del default finanziario.
Da più parti, anche dall’interno del Libano, sono arrivate richieste di dimissioni per George Kordahi il quale però le ha respinte al mittente confermando quanto detto precedentemente.
Sabato, persino tre ex primi ministri libanesi hanno invitato Kordahi a dimettersi per aiutare a risolvere la crisi diplomatica con le nazioni del Golfo indispensabili per l’economia del Libano, ma anche in questo caso le richieste sono cadute nel vuoto.
Orami è evidente la volontà da parte dell’Iran e quindi di Hezbollah di non volere che siano i Paesi del Golfo a salvare il Libano dal baratro del default finanziario, ma né Teheran né tantomeno Hezbollah hanno i mezzi per farlo e quindi preferiscono che il Libano vada in default piuttosto che a salvarlo siano gli arabi.
Un modo di pensare davvero criminale anche se non ci si può aspettare nulla di diverso dall’Iran e da Hezbollah.
(Rights Reporter, 1 novembre 2021)
L'oscena sfilata di No Pass che infanga la memoria della Shoah
di Fiamma Nirenstein
Non c'è affatto da stupirsi se il movimento dei No Green Pass, creatura artificialmente impallidita del movimento No Vax, produce una schifosa manifestazione antisemita come quella che ieri la povera città di Novara ci ha offerto. L'antisemitismo è un largo arcipelago, una moneta di uso comune: travestendolo un po' la puoi smerciare ovunque, il rischio è solo che riveli la miseria di chi la pratica. Qui, se c'era bisogno di rivelare la volgarità, l'ignoranza, il disprezzo per la libertà e anche per la vita umana già peraltro contenute nelle posizioni antivaccino, beh, stavolta lo spettacolo è plateale.
Gli animali che non sanno come sono stati uccisi due milioni di bambini, per esempio, nell'ambito di sei milioni di ebrei torturati e trucidati, non sono soli. Ci sono antisemiti consapevoli, «mild», nostalgici, noncuranti, antisionisti, anticapitalisti, anticomunisti, travestiti da difensore dei diritti umani. Ma sempre antisemitismo è. Se «il loro migliore amico è ebreo», beh si svegli. Una recentissima indagine su tutti i Paesi UE ci dice che l'89 per cento degli ebrei sente la pressione, 1 su 4 ha subito aggressioni. Il 51 per cento degli intervistati pensa che gli ebrei hanno troppo potere; il 71 che gli ebrei fanno ai palestinesi quello che gli hanno fatto i nazisti; il 43 che gli ebrei sfruttano la memoria della Shoah. In Texas per insegnare la Shoah devi dare spazio a libere interpretazioni contrapposte: è davvero accaduto o no? A Boston il centro Elie Wiesel, dal nome del famoso scrittore della Shoah, per la sua lettura annuale ha ospitato uno speaker che ha accusato Israele di prendere di mira i bambini palestinesi solo perché vogliono la libertà. Il gruppo «green» Sunrise per l'azione sul clima si è ritirato da un rally perché c'erano tre organizzazioni ebraiche. Da destra a sinistra, sono tutti troppo confusi per capire di essere dei vergognosi antisemiti. O è di moda?
(il Giornale, 1 novembre 2021)
"Qui, se c'era bisogno di rivelare la volgarità, l'ignoranza, il disprezzo per la libertà e anche per la vita umana già peraltro contenute nelle posizioni antivaccino", dice l'autrice. Lasciamo che queste parole risuonino nell'aria senza indagare, come ormai molti fanno, sui motivi profondi di chi le scrive. L'analogia visiva con i fatti di Auschwitz è gravemente offensiva per chi ha ricordi legati a quei fatti, ma il rigetto avrebbe dovuto fermarsi lì. Perché i fatti mostrano che ormai dire "no vax" è come dire ai bambini "cattivo". E basta. Non c'è più nulla da aggiungere, se non elencare vari tipi di cattiveria che si possono manifestare. La menzogna istituzionale ormai ha guadagnato terreno e non le resterà più molto da fare: saranno i convinti si vax a fare il lavoro che rimane. M.C.
Novara: “Giusto denunciare, ma non facciamo il loro gioco” – Intervista a Ruth Dureghello
di Ariela Piattelli
Il macabro corteo di manifestanti “no green pass” che ha sfilato a Novara, con il filo spinato e i vestiti che imitavano quelli degli internati nei campi di sterminio, ha sollevato molte reazioni del mondo politico, dell’opinione pubblica e delle comunità ebraiche. Farsi sentire, d’accordo, ma non sempre, perché quando i paragoni tra Shoah, green pass e vaccini diventano una pericolosa forma di linguaggio per attirare l’attenzione, l’indignazione a voce alta può essere rischiosa. Così la pensa la Presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello: «Ho l’impressione che l’utilizzo dei simboli della Shoah da parte dei No Green Pass sia diventato lo strumento per ottenere una visibilità che altrimenti non avrebbero. Giusto denunciarne la gravità, ma dovremmo interrogarci sull’opportunità di non cadere nella loro provocazione» scrive Dureghello in un tweet, aprendo così un dibattito. Shalom l’ha intervistata.
- Presidente, lei sostiene che quella dei fatti di Novara sia una provocazione diversa rispetto a tante altre a cui abbiamo assistito. Temo che la provocazione dei no Green Pass sia strumentale per attirare un’attenzione che altrimenti non ci sarebbe. Da un lato l’indignazione è tanta, dall’altra dovremmo chiederci se cinquanta ignoranti in un mini corteo non usino i simboli della Shoah consapevoli che quella provocazione è l’unica che gli permette di finire sui giornali. In questo senso non dobbiamo cadere nella loro trappola.
- La Comunità Ebraica di Roma in genere è molto reattiva, e fa sentire la sua voce davanti agli episodi di antisemitismo. Perché stavolta, davanti alle vicende di Novara, come presidente ha deciso di non intervenire? Noi siamo intervenuti nell’immediato, ma poi abbiamo avuto la netta impressione che dare eco e risalto alle immagini di Novara sia molto pericoloso e possa creare una dinamica perversa di emulazione rispetto a un tema che sposta l’attenzione su altri temi.
- Dunque c’è una differenza sostanziale tra l’episodio isolato di antisemitismo e la messa a sistema dei paragoni tra Shoah, green pass e vaccini. Quali sono i pericoli di questa deriva? Si tratta di una banalizzazione della memoria che diventa lo strumento per avere voce in un dibattito in cui non si riesce ad argomentare le ragioni di un dissenso. In poche parole, richiamo di sdoganare la vergogna.
(Shalom, 1 novembre 2021)
Vogliono segregare i non vaccinati
Guido Rasi (consulente del generale Francesco Figliuolo) chiede di «restringere le maglie»: chi è senza puntura verrà chiuso in casa, A Capodanno cenone con mascherina, Roberto Speranza: altri mesi di stato d'emergenza. E sono pronti a vietare le manifestazioni.
di Maurizio Belpietro
Guido Rasi, ex direttore dell'Ema e consulente del commissario straordinario all'emergenza Covid, vuoi chiudere in casa gli italiani che non si sono vaccinati, copiando l'idea lanciata dall'Austria, Secondo l'ex numero uno dell'Agenzia europea del farmaco è urgente prendere provvedimenti restrittivi contro i no vax. «Non si può tornare indietro», ha spiegato, «sarebbe oltraggioso per chi si è vaccinato». Il suggerimento dell'uomo che sussurra al generale Francesco Paolo Figliuolo in pratica è «più green pass per tutti». Anzi: più tamponi per chiunque (ovviamente a pagamento), perché il test ogni 48 ore «non è abbastanza protettivo: si dovrà imporlo a chi va al lavoro o a chi partecipa ad un evento» nel caso non si sia sottoposto al siero anti coronavirus. La ragione di questo ennesimo giro di vite, nonostante i «successi» della campagna vaccinale (l'Italia è uno dei Paesi che può vantare il maggior numero di adulti trattati con prima e seconda dose e il generale Figliuolo non si stanca di promettere il raggiungimento a breve dell'immunità di gregge), si spiega con un'escalation di contagi, che anziché decrescere aumentano. «Vanno identificati i focolai e se nascono nei luoghi di lavoro si devono restringere le maglie attorno ai non vaccinati», assicura Rasi. Insomma, si è aperta la caccia grossa ai renitenti al siero, ritenuti responsabili della diffusione della malattia, Colpa loro se il virus continua a circolare più di quanto ci si sarebbe attesi. Dunque, urge rinchiudere in casa chi rifiuta l'iniezione e, se del caso, cioè se non basta sospenderlo dal lavoro e levargli lo stipendio, proibirgli di andare al ristorante, bisogna punirlo in qualche altro modo, magari rinchiudendolo in casa e, se occorre, privarlo della gratuità del sistema sanitario nazionale, che obbliga a curare a spese della collettività anche i clandestini. Peccato che, come abbiamo spiegato nei giorni scorsi, il Covid-19 continui a infettare anche chi si è vaccinato e non in Paesi dove imperversano i no vax, ma in città dove si è raggiunto un tasso di vaccinazione che rasenta il cento per cento, Waterford, in Irlanda, è un esempio che dovrebbe far riflettere i pasdaran del siero, quelli che sono convinti che basti un certificato verde per sentirsi al sicuro dal coronavirus. Nonostante il 99,7% della popolazione abbia ricevuto sia la prima che la seconda dose, gli ospedali della provincia registrano il più alto tasso di contagiati che si sia visto da un anno a questa parte, Segno evidente che qualche cosa non ha funzionato e che la narrazione ufficiale (più vaccini e meno malati) non sempre coincide. La realtà forse è quella descritta da Carlo La Vecchia, epidemiologo e ordinario di igiene dell'Università statale di Milano, che in un'intervista a Repubblica (non a L'eco dei no vax, ma all'organo che più si è speso nell'attacco contro gli anti green pass) ha spiegato: «La tendenza della curva dei contagi Covid-19 si è invertita», nel senso che invece di calare aumenta, e per fermare il virus «andrebbe anticipato il richiamo del vaccino da 6 a 4 mesi», Il professore ha citato uno studio appena uscito sul New England journal of medicine, in cui, in base a quanto accaduto in Israele, si spiega come le coperture del vaccino tendano a calare 3 o 4 mesi dopo la somministrazione della seconda dose. Come qualsiasi persona in buona fede può comprendere, se il professore La Vecchia non si sbaglia, il green pass non solo è inutile, ma è addirittura pericoloso, perché ingenera nelle persone una falsa sensazione di sicurezza. «Sono vaccinato, dunque non ho bisogno di proteggermi» è il pensiero comune, Ma se, come ormai la maggioranza degli esperti testimonia, il siero garantisce una protezione limitata, a che serve un certificato che per un anno assicura un'esenzione dal contagio che non c'è? Perché discriminare chi si è sottoposto a un tampone (con la certezza di non aver contratto il virus nelle ultime ore) rispetto a una persona che si sia vaccinata sei o otto mesi fa e può essere portatrice del virus anche se asintomatica? Secondo la narrazione imposta da gran parte della stampa e dai principali talk show, se i contagi sono tornati a risalire la colpa è da attribuirsi a chi non si è vaccinato e per questo con insistenza i giornali raccontano le storie di persone finite in terapia intensiva perché non immunizzate. Tuttavia è ancora La Vecchia - che è favorevole ai vaccini tanto da consigliare a tutti di sottoporsi a prima e seconda dose - a spazzar via le consolanti convinzioni: non sono i non vaccinati «ad aver invertito la tendenza, visto che sono diminuiti anche i green pass per lavorare». Tradotto, è il vaccino che protegge meno di quel che ci aspettavamo. Il professore smonta anche un'altra certezza, quella della cosiddetta quota 90, che non c'entra con le pensioni, ma con la percentuale di vaccinati ritenuta congrua per evitare la diffusione del virus: «Ormai abbiamo capito che l'immunità di gregge non la raggiungeremo». Ma chi lo farà capire a Speranza e compagni, i quali, come i tori, si agitano solo di fronte al drappo rosso dei no vax, senza rendersi conto che stanno per essere infilzati da ciò che non avevano previsto? Sono quasi due anni che il ministro della Sanità le sbaglia (quasi) tutte: non sarebbe ora di congedarlo, decidendo che la salute degli italiani è più importante di un calcolo politico che, per la sopravvivenza del governo, considera indispensabile l'apporto del capo di un minuscolo partitino post comunista?
(La Verità, 1 novembre 2021)
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Il governo del cambiamento israeliano è già in difficoltà
La coalizione anti Netanyahu alla prova dei fatti
di Davide Lerner
ROMA - Chi fa dichiarazioni che provocano ricadute internazionali in maniera irresponsabile, senza coordinamento o preparazione, e approva 3.000 unità abitative in Giudea e Samaria (il termine ebraico che identifica la Cisgiordania. ndr), come possiamo dire, di sicuro non è Yitzhak Rabin». Il tweet del partito laburista israeliano, diffuso lo scorso mercoledì, era rivolto polemicamente al ministro della Difesa Benny Gantz, ex capo dell'esercito e ora leader del partito centrista Blu e bianco.
La stoccata all'alleato di coalizione allude al suo debole per il grande ex generale e primo ministro rimasto ucciso da un estremista ebreo al culmine degli accordi di Oslo coi palestinesi nel 1995 (a chi scrive, prima della prima tornata elettorale del 2019, Gantz aveva detto «essere paragonato a Yitzhak Rabin è il miglior complimento che mi si possa fare in assoluto»). E gli rimprovera l'iscrizione alla lista nera dei gruppi terroristici di sei organizzazione della società civile palestinese, ufficializzata lo scorso venerdì, nonché l'approvazione di nuove unità abitative nei territori occupati.
La condotta di Gantz contribuisce a far affiorare tensioni latenti all'interno della coalizione di governo israeliana, che ha messo fine a oltre 12 anni consecutivi di dominio di Benjamin Netanyahu Gantz non avrebbe comunicato in anticipo la decisione sulle ong agli alleati, fra cui i due altri pilastri della coalizione, il primo ministro Naftali Bennett e il ministro degli Esteri Yair Lapìd, lasciando che venissero presi alla sprovvista dalla bufera di proteste internazionali. Le organizzazioni sono Addameer, Al-Haq, Bisan Center, Defense for Children International Palestine, Samidoun Palestinian Prisoner solidarity Network, e Union of Agricultural Work Cornmittees, tutte accusate di legami col "Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina" e per esteso di attività terroristiche.
• Posizione scomoda
Le spaccature nell'esecutivo diventano palesi alla vigilia del voto decisivo sulla finanziaria 2021-2022, che potrebbe andare al vaglio della Knesset già il prossimo mercoledì o giovedì. Se la legge di bilancio, a lungo rinviata a causa della crisi politica delle quattro elezioni in due anni a cavallo della pandemia, non dovesse venire approvata entro la scadenza del 14 novembre, la Knesset, il parlamento israeliano, verrebbe automaticamente sciolto, e si andrebbe a nuove elezioni
«Non credo che si arriverà a tanto», dice Nadav Eyal, commentatore israeliano e autore di "Revolt, La ribellione nel mondo contro la globalizzazioni!'" Ma non c'è dubbio che la coalizione viva nuove lacerazioni». Ad agitare le acque c'è anche una citazione rubata del premier Bennett. «PreVedo che la rotazione (secondo cui Lapid dovrebbe sostituirlo nell'agosto 2023} non si farà. il governo verrà probabilmente dissolto fra la finanziaria e quella data per una serie di ragioni», avrebbe detto il primo ministro.
Secondo Eyat la vicenda delle ong dimostra come Benny Gantz si trovi in una posizione scomoda Non è lui l'architetto di questa coalizione, era andato al governo con Netanyahu che poi lo ha scaricato, e sente il proprio ruolo come inadeguato». Gantz, che prima di unirsi al «governo del cambiamento» aveva «tradito» l'ex compagno di partito Lapid accettando di allearsi con Netanyahu per mettere fine al ciclo infinito di tornate elettorali, «viene vissuto come un terzo incomodo». Anche a Washington non è piaciuta la sorpresa della messa al bando delle ong, mentre dall'Europa piovono critiche secondo cui Israele soffocherebbe la società civile palestinese usando come pretesto i rischi alla sicurezza In questi giorni una delegazione che comprende un rappresentante del ministero degli Esteri e un agente dello Shin Bet, i servizi segreti interni, è stata inviata d'urgenza negli Stati Uniti per fornire ragguagli quanto alla presa di posizione israeliana
«La delegazione andava mandata prima, non dopo la dichiarazione», dice Eyal, «è un errore di comunicazione che mi ricorda l'attacco alla torre di Gaza che ospitava gli uffici della Associated presse di Al Jazeera durante la guerra coi miliziani della striscia lo scorso 15 maggio: l'ex generale Nitzan Alon ha appena pubblicato le carte di un'inchiesta secondo cui il danno di immagine ha di gran lunga superato il beneficio strategico», spiega «È un classico errore israeliano, non c'è comunicazione fra i ministeri».
• Attacchi a Yamina
Un'altra minaccia alla coalizione è che Yamina, il partito del primo ministro Naftali Bennett, è costantemente sotto attacco da parte degli oltranzisti di destra e dei sostenitori di Netanyahu, che lo accusano di tradimento. Dal momento che l'esecutivo gode del sostegno di solo 61 deputati su 120, una sola defezione potrebbe causare la caduta del governo o perlomeno renderlo incapace di agire in maniera funzionale. Dall'altro lato la frattura ideologica con la sinistra di Meretz, favorevole a un riavvicinamento con i palestinesi, si sta acuendo sulla scorta dell'editto sulle ong e del via libera all'espansione degli insediamenti, arrivato in apertura di settimana (quella israeliana inizia la domenica, dopo lo Shabbat).
Il ministero dell'Edilizia domenica ha pubblicato il bando cli gara per la costruzione cli 1.300 nuove case, fra cui 729 a Ariel, città universitaria nel cuore dei territori occupati, 346 a Beit El, la comunità a nord cli Ramallah nota anche per la sua produzione vinicola, 102 e 96 rispettivamente negli insediamenti minori cli Elkana e Adam
Nelle giornata cli mercoledì Cogat, l'organo militare israeliano responsabile per la gestione degli affari amministrativi nei territori, ha portato avanti l'iter per l'autorizzazione cli altre L804 unità abitative. I portavoce della Casa Bianca Ned Price si è detto «molto preoccupato» per le nuove costruzioni. Giovedì una dichiarazione congiunta cli 12 paesi europei, fra cui l'Italia, ha condannato l'iniziativa, e da Washington sono arrivate altre critiche dure ed esplicite. Meretz ha protestato con gli alleati cli governo cli destra «C'è preoccupazione per una serie cli iniziative unilaterali intraprese da ministri del gabinetto, quanto a politiche nei confronti dei palestinesi nei territori e in particolare riguardo l'espansione degli insediamenti», si legge in un comunicato.
• Il ritiro di Netanyabu
Al di là delle fratture ideologiche, la maggioranza degli analisti concordano sul fatto che un possibile ritiro cli Netanyahu dalla leadership del Iikud sia il rischio più grosso per la coalizione. Diversi partner del governo, in primis le compagini della destra, non disdegnerebbero un'alleanza con il suo partito laddove venisse meno l'ingombro della sua figura «se il voto sulla finanziaria dovesse passare, come è probabile, non si può escludere che Bibi, settantaduenne, decida cli non avere tempo da perdere all'opposizione. Non è fatto per rimanerci per anni, non siamo più negli anni Novanta, dice Nadav Eyal.
Proprio in questi giorni un esponente degli ultra-ortodossi, suoi alleati tradizionali, ha criticato la politica di boicottaggio delle commissioni della Knesset I membri dell'opposizione si rifiutano cli partecipare, su ordine di Netanyahu, per protesta contro il governo. Di contro, però, perdono un'occasione per influenzare i processi decisionali, un fatto che causa malumori fra i haredi in tempi di legge di bilancio (molti vivono cli sussidi che i laici vogliono cancellare) e anche fra alcuni compagni di partito.
La buona notizia per il governo è che quello che sembrava il tallone d'Achille della coalizione, cioè la presenza per la prima volta nella storia cli una rappresentanza della minoranza arabo-israeliana. non sembra per ora causare grattacapi Con la finanziaria in programma il leader cli partito Mansour Abbas si prepara a portare a casa finanziamenti importanti per le municipalità arabe, con un piano da 9,4 miliardi di dollari per lo sviluppo socio-economico fra il 2022 e il 2026. Abbas, che avrà un ruolo nell'orientare la gestione dei fondi, ha definito «storico» il programma che prevede forti miglioramenti per le infrastrutture in zone a lungo dimenticate e per l'approvvigionamento di elettricità. A lui ora non conviene per nulla staccare la spina.
(Domani, 31 ottobre 2021)
Abu Mazen da domani a Roma in visita ufficiale
TEL AVIV - Il presidente dell'Autorità Palestinese (AP) Abu Mazen sarà da domani a Roma in visita ufficiale dove incontrerà papa Francesco, il presidente Sergio Mattarella e il premier Mario Draghi. Lo ha detto l'ambasciatore palestinese in Italia Abeer Odeh in una intervista alla radio 'Voice of Palestine' citata dall'agenzia Maan. La visita - che durerà 4 giorni - si incentrerà sugli ultimi sviluppi politici.
(ANSA, 31 ottobre 2021)
Il fascismo come il New Deal, la teoria audace dell'ebrea che amò Mussolini
La storia di Margherita Sarfatti in un libro diRrossi edito da Ruhbeitino
Gli sforzi di rendere presentabile il regime si scontreranno con la brutalità delle leggi razziali.
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Donna colta, curiosa, raffinata non fu solo una semplice ancella nella vita di Benito.
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di Antonio Cavallaro
Era davvero necessario questo libro di Gianni Scipione Rossi dedicato a Margherita Sarfatti, pubblicato da Rubbettino in occasione del cinquantesimo anniversario della morte. Il naufragio della memoria che ha interessato il Ventennio, frutto della giusta condanna dei velenosi frutti di quel periodo, ha finito per travolgere tutto ciò che in maniera più o meno diretta ha orbitato intorno alla figura di Mussolini come le tante donne che hanno goduto della sua considerazione.
Tra queste vi è senza dubbio Margherita Sarfatti che nel ricordo dei più è solo un'ancella una delle tante del Duce. Il libro di Rossi ("L'America di Margherita Sarfatti. L'ultima illusione', pagg. 84, euro 14), che non ambisce certo a fornire una biografia dettagliata del personaggio, in meno di cento pagine di godibilissima lettura riesce invece a rendere ragione della statura intellettuale di questa donna colta e curiosa a cui l'incontro (e lo scontro) con Mussolini nulla toglie. Margherita era figlia di Amedeo Grassini, uomo in vista della borghesia ebraica veneziana. Il cognome "Sarfatti" era quello del marito, avvocato socialista che la donna sposa nel 1899 e del quale userà il patronimico per tutta la vita. Margherita ricevette una formazione degna del livello sociale della famiglia avendo avuto insegnanti come l'archeologo Paolo Orsi e frequentando intellettuali in vista come D'Annunzio o Fogazzaro. Trasferitasi dopo il matrimonio a Milano dà vita a uno dei salotti culturali più attivi in città. È in questo periodo che conosce Mussolini con il quale comincia a collaborare dapprima scrivendo su « Utopia» e poi contribuendo alla fondazione de «n Popolo d'Italia» di cui diventa collaboratrice fissa.
È tuttavia la biografia di Mussolini pubblicata nel 1925 per il mercato anglosassone con il titolo "The Life of Benito Mussolini" a trasformarla in un certo qual modo nell'ambasciatrice del fascismo oltreoceano. In Italia il libro venne pubblicato l'anno successivo per Mondadori con il titolo DUX, ottenendo ben 17 edizioni. Margherita Sarfatti cercherà a lungo di ritagliarsi un ruolo all'interno della vita del regime. La stessa fondazione del movimento artistico Novecento sarà un modo per tentare di imporre una sorta di espressione artistica ufficiale del fascismo. Tanta e tante ambizioni si scontreranno però con la durezza e la brutalità delle leggi razziali del '38. Margherita espatrierà a Parigi, poi in Sud America. Il suo appassionato legame con il fascismo non servirà a salvarla dal naufragio della ragione in cui affondava buona parte dell'Europa. Il libro di Rossi, dicevamo, più che ricostruire dettagliatamente la biografia della Sarfatti, si sofferma su un aspetto della sua vita e dei suoi interessi
culturali ossia il suo rapporto con quel grande mondo fatto di nuovo e vecchio, quel crogiolo di razze e culture che è l'America.
L'America, che Margherita visita già nel 1934, rappresenta per la Sarfatti una sorta di grande occasione politica. Grazie alla possibilità di conoscere da vicino il New Deal di Roosevelt (che giudica una sorta di fascismo "minore") e probabilmente al fatto di poter constatare da vicino l'enorme potenzialità industriale del Paese, l'intellettuale veneziana crede di poter tessere le trame di una proficua alleanza con l'Italia, sottraendola allo stesso tempo all'influsso nefasto della Germania di Hitler. Mussolini tuttavia si mostrerà disinteressato. Sbagliando totalmente valutazione e credendo che gli Stati Uniti abbiano un esercito debole e che in caso di guerra non interverrebbero mai in Europa. Eppure a questo progetto di possibile alleanza con il gigante atlantico Margherita aveva lavorato alacremente, come si intuisce anche dalla lettura del libro "America. The Pursuit of Happiness" che raccoglie le impressioni del suo viaggio americano e che verrà pubblicato in Italia da Mondadori nel 1937, rimanendo in libreria pochi mesi prima di venire ritirato a causa delle leggi del '38.
È interessante leggere i suoi commenti sulle città americane visitate che Rossi riporta nel suo libro. Alcuni figurerebbero bene nel diario di un moderno Trip-Advisor, replicando tipici luoghi comuni e caratteristiche immutabili del mondo yankee, come l'osservazione ampiamente condivisa che New York - nonostante tutto - non sia l'America bensì una sorta di «città inglese. Una Londra smisuratamente alzata con la sovrapposizione dei grattacieli»; Chicago «Alta, nera e fanatica ( ... ) violenta e tragica»; Boston «sdegnosamente aristocratica». Ai microfoni della NBC la Sarfatti cercherà di spiegare l'Italia agli americani, enfatizzando quelle che a suo modo di vedere erano le affinità tra il New Deal e il fascismo, quest'ultimo descritto come niente affatto «tiranno, reazionario» e carico di «odio cieco, feroce per il cambiamento» bensì come: «un'aristocrazia democratica governata non dal popolo, ma per il popolo, per i suoi interessi, diretta da una gerarchia che è sempre aperta, cui tutti possono accedere e che è permeabile agli interessi di tutti». «Una edulcorazione della realtà - commenta Gianni Scipione Rossi - cucita con abilità dialettica per non urtare la sensibilità profondamente democratica degli ascoltatori». L'obiettivo, tutt'altro che ufficiale e per nulla condiviso dal Duce, del viaggio della Sarfatti era però, come abbiamo detto quello di tentare un avvicinamento tra Italia e USA. L'occasione più ghiotta viene fornita da un incontro che la Sarfatti riesce ad avere con la famiglia Roosevelt, grazie ai rapporti avuti in Italia con il cugino del presidente. L'incontro fu cordiale sebbene giocato a tratti sul filo di lama per via dei commenti molto poco benevoli della First Lady sul fascismo, ma non portò di fatto a nulla.
Il Presidente aveva - è vero - dimostrato di apprezzare alcuni tratti dell'autoritarismo di Mussolini ma da qui a sposarne l'antidemocraticità ne correva ... Probabilmente a causa dell'infrangersi delle illusioni coltivate, la Sarfatti descriverà nel suo libro il New Deal come una imitazione troppo timida del fascismo e osserverà «la più seria obiezione alla politica di Roosevelt è quella di aver messo il carro dell'economia dittatoriale davanti ai buoi della politica elezionista, che spingono in senso contrario». La Scarfatti - come scrive Rossi - parte per l'America da sconfitta e ancora da sconfitta fa ritorno in Europa. Il suo obiettivo di dare un corso nuovo al fascismo o per lo meno di correggerne il tiro si scontrerà con la rapidità con cui gli eventi presero la piega che tutti conosciamo.
(il Quotidiano, 31 ottobre 2021)
Salvarono una famiglia di ebrei dai nazisti
Quattro firenzuolini Giusti fra le nazioni. Giovedì la consegna del riconoscimento ai discendenti.
di Paolo Guidotti
FIRENZUOLA - Flrenzuola è terra di «giusti». Di persone, che mettendo a rischio la loro vita, aiutarono e salvarono ebrei, durante il periodo delle persecuzioni naziste. Giovedì prossimo si terrà la solenne cerimonia di consegna dell'onorificenza che lo Yad Vashem di Gerusalemme attribuisce a coloro che si sono distinti in questa azione di aiuto agli ebrei. L'ha organizzata l'Ambasciata d'Israele in Italia insieme al Comune, per onorare la memoria di due famiglie firenzuoline, Armando Matti e Clementina Angeli, Pietro Angeli e Dina Rossetti, che si presero cura della famiglia Smulevich. Il ritrovamento del diario di uno Smulevich vissuto a Firenzuola ha consentito al Centro mondiale per il ricordo della Shoah di conferire il titolo di «Giusti tra le nazioni». Già il nome di un firenzuolino, don Leto Casini, era iscritto in questo elenco, ora Firenzuola diventa uno dei comuni col più alto numero di «Giusti». Giovedì ci saranno le testimonianze dei discendenti Smulevich, e parleranno anche due familiari dei «Giusti». «Siamo onorati - dice il sindaco Giampaolo Buti - si evidenziano infatti i grandi valori di solidarietà e fratellanza presenti nei nostri concittadini che misero a rischio la vita loro e dei familiari per salvare chi era perseguitato».
(la Nazione - Firenze, 31 ottobre 2021)
Israele, la settantesima edizione di Miss Universo in diretta da Eilat
di Andrea Gussoni
La MUO – Miss Universe Organization, il Ministero del Turismo di Israele e la città di Eilat hanno reso noto che il 70° concorso Miss Universo andrà in onda in diretta da Eilat, Israele, il 12 dicembre 2021 alle 19:00. Durante l’evento è prevista un’esibizione della cantante israeliana e star internazionale Noa Kirel.
• Miss Universo in Israele
La competizione di quest’anno sarà anche caratterizzata dalla partecipazione di due concorrenti della regione: Miss Universo Emirati Arabi Uniti e Miss Universo Marocco. Sarà la prima volta che una rappresentante degli Emirati Arabi Uniti partecipa al contest. E per Miss Universo Marocco sarà un ritorno di partecipazione per la prima volta in oltre quattro decenni.
• Dichiarazioni
“Nonostante le sfide che la pandemia di COVID-19 ha posto sul nostro cammino, sapevamo come mantenere l’equilibrio tra salute ed economia, per riportare il turismo in Israele”, ha affermato il ministro del turismo israeliano Yoel Razvozov. “Avevamo bisogno di creare ancore turistiche che promuovessero e presentassero Israele al mondo come una nazione vaccinata che invogliasse i turisti a tornare. Il concorso di Miss Universo è senza dubbio un aggancio importante e significativo di questo piano”.
• Informazioni
L’organizzazione ha anche svelato i dettagli per la sede della competizione: un’arena all’avanguardia e costruita su misura. La “Universe Arena” personalizzata, importata dal Portogallo, raggiunge un’altezza di 16,5 metri e ha la capacità di contenere oltre 70 tonnellate di attrezzature. L’edificio è curato per ospitare riprese televisive e contiene un palco e circa 5.000 posti a sedere.
• Israele, Eilat
“La scelta di Eilat continuerà a rafforzare la sua posizione di città turistica internazionale leader”, ha affermato Lankri. “Centinaia di milioni di spettatori in tutto il mondo potranno godere della rara bellezza della città di Eilat e dei suoi siti spettacolari. Eilat è sempre più vicina: un luogo di vacanza tutto l’anno dove in pieno inverno sarà possibile fruire di un sole e un mare straordinario, con la possibilità di escursioni nel deserto, alla scoperta di natura, tradizione e storia. Speriamo che questa possa essere un’occasione per accogliere tanti amici italiani che qui arriveranno per tifare in favore della rappresentante italiana” ha dichiarato Kalanit Goren Perry, direttrice dell’Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo a Milano.
(Time Magazine, 31 ottobre 2021)
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La benedizione di Dio non arriva a domicilio
Dalla Sacra Scrittura
GENESI 12
- Il Signore disse ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò;
- io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione.
- Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra».
- Abramo partì, come il Signore gli aveva detto, e Lot andò con lui. Abramo aveva settantacinque anni quando partì da Caran.
- Abramo prese Sarai sua moglie e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che possedevano e le persone che avevano acquistate in Caran, e partirono verso il paese di Canaan.
- Giunsero così nella terra di Canaan, e Abramo attraversò il paese fino alla località di Sichem, fino alla quercia di More. In quel tempo i Cananei erano nel paese.
- Il Signore apparve ad Abramo e disse: «Io darò questo paese alla tua discendenza». Lì Abramo costruì un altare al Signore che gli era apparso.
- Di là si spostò verso la montagna a oriente di Betel, e piantò le sue tende, avendo Betel a occidente e Ai ad oriente; lì costruì un altare al Signore e invocò il nome del Signore.
MARCO 10
- Mentre Gesù usciva per la via, un tale accorse e, inginocchiatosi davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?»
- Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio.
- Tu sai i comandamenti: "Non uccidere; non commettere adulterio; non rubare; non dire falsa testimonianza; non frodare nessuno; onora tuo padre e tua madre"».
- Ed egli rispose: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia gioventù».
- Gesù, guardatolo, l'amò e gli disse: «Una cosa ti manca! Va', vendi tutto ciò che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi».
- Ma egli, rattristato da quella parola, se ne andò dolente, perché aveva molti beni.
- Gesù, guardatosi attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno delle ricchezze entreranno nel regno di Dio!»
- I discepoli si stupirono di queste sue parole. E Gesù replicò loro: «Figlioli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio!
- È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio».
- Ed essi sempre più stupiti dicevano tra di loro: «Chi dunque può essere salvato?»
- Gesù fissò lo sguardo su di loro e disse: «Agli uomini è impossibile, ma non a Dio; perché ogni cosa è possibile a Dio».
- Pietro gli disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato ogni cosa e ti abbiamo seguito».
- Gesù rispose: «In verità vi dico che non vi è nessuno che abbia lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi, per amor mio e per amor del vangelo,
- il quale ora, in questo tempo, non ne riceva cento volte tanto: case, fratelli, sorelle, madri, figli, campi, insieme a persecuzioni e, nel secolo a venire, la vita eterna.
- Ma molti primi saranno ultimi e molti ultimi primi».
PROVERBI 10
- Quel che fa ricchi è la benedizione dell'Eterno e il tormento che uno si dà non le aggiunge nulla.
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Cresce la guerra informatica tra gli hacker israeliani e iraniani
Cresce la guerra informatica tra gli hacker israeliani e iraniani. Ieri questi ultimi hanno colpito la società di hosting Internet israeliana Cyberserve.
Se c’è una guerra vera a tutti gli effetti in corso e in crescita tra Israele e Iran è la guerra informatica tra gli hacker israeliani e quelli iraniani. Pochi giorni fa vi abbiamo dato conto di un misterioso attacco informatico che aveva bloccato le pompe di benzina in Iran provocando gravi disagi (a quanto sembra ancora in corso). Immediatamente gli Ayatollah avevano incolpato Israele (probabilmente a ragione) e minacciato immediate ritorsioni. Ritorsioni che sono arrivate ieri quando il gruppo hacker legato a Teheran noto come Black Shadow ha bucato i server della società di hosting Internet israeliana Cyberserve, sui quali girano i maggiori siti internet dello Stato Ebraico i quali sono tutti caduti in un colpo solo. «Ciao di nuovo! Abbiamo notizie per voi», hanno scritto gli hacker in un messaggio diffuso sui social media venerdì sera. «Probabilmente potresti non riuscire a connetterti a molti siti web. La società “Cyberserve” e i suoi clienti sono stati colpiti da noi. Potresti chiederti dei dati? Come sempre, ne abbiamo tanti. Se non vuoi che i tuoi dati vengano da noi divulgati, contattaci presto». Lo scorso anno il gruppo di hacker Black Shadow ha attaccato la compagnia israeliana di assicurazioni Shirbit e ha messo in atto una vera e propria estorsione per non divulgare i dati rubati, ma la compagnia si è rifiutata di pagare portando alla vendita nel dark web delle informazioni rubate. Ormai da diversi anni Israele e Iran stanno combattendo una vera e propria guerra ombra su diversi campi che vanno dal Libano all’Iraq passando per la Siria, una guerra che comprende da parte israeliana anche importanti attacchi informatici contro il programma nucleare iraniano che lo hanno rallentato di molto. Solo di recente anche gli hacker iraniani hanno iniziato a rispondere e stanno diventando sempre più pericolosi tanto da preoccupare l’intelligence israeliana che sta mettendo in campo le sue migliori unità per individuare gli hacker iraniani e “limitare i danni” che potrebbero fare.
(Rights Reporter, 30 ottobre 2021)
Eitan, la contesa infinita e il bene superiore del bambino
In Israele il nonno materno pensa al ricorso contro la sentenza sul rientro del bimbo in Italia.
di Fiammetta Martegani
Sono giorni decisivi per il piccolo Eitan Biran. Dopo la sentenza del Tribunale della famiglia di TelAviv, che lunedì ha stabilito il ritorno in Italia del piccolo, unico sopravvissuto alla tragedia del Mottarone, i Peleg e i loro legali non sembrano darsi per vinti. Il nonno materno punta sul fatto che la decisione della giudice si sarebbe basata solo sulla questione del rientro di Eitan in Israele in modo illegittimo, senza discutere sul bene del bambino, argomentando che nell'ambito del diritto internazionale si tratta di un caso molto particolare, in cui a contendersi un minore non sono i genitori ma la famiglia allargata. E l’obiettivo resta garantire la salvaguardia e il bene del fanciullo. Lo ha spiegato un esperto in materia, Claudio Grego, che ha fornito alla Corte israeliana una dettagliata opinione sui principali temi della legge italiana nell'ambito del procedimento instauratosi, ai sensi della Convenzione dell'Aja del 1980. «È stata una decisione raggiunta nel supremo interesse del benessere fisico e psicologico del ragazzo - ha ribadito Grego -. Ora spetta alle due famiglie trovare un giusto e duraturo accordo sul suo futuro». Secondo l'avvocato italiano, la scelta di fare ricorso alla Family Court di Tel Aviv potrebbe a questo punto essere un modo per prendere tempo, tenendo bloccato il bimbo in Israele il più possibile, fino alla data della prossima udienza, prevista il primo dicembre, presso il Tribunale dei minori di Milano. Si tratterebbe in questo caso, infatti, dell'appello richiesto a seguito del verdetto dello scorso 9 agosto, quando la famiglia materna aveva cercato di ottenere la custodia del piccolo - affidata alla zia paterna dalla Corte di Torino subito dopo la morte dei genitori - che fu invece respinta, spingendo Peleg a portare il nipote con sé in Israele con un jet privato, lo scorso 12 settembre, totalmente all'oscuro della tutrice.
La questione dei rapporti internazionali tra i due Paesi coinvolti, Italia e Israele, era stata cruciale fin dall'inizio della disputa. Nello specifico, il giurista Grego ha sostenuto la regolarità e definitività della nomina della zia paterna, Aya Biran, confermando l'illiceità del trasferimento del piccolo in Israele effettuato da parte del nonno paterno, Shmulik Peleg, e l'insussistenza di cause ostative o di rischio nel caso del ritorno di Eitan in Italia.
Siamo adesso in presenza dell'ennesima corsa contro il tempo, con il rischio di procurare ulteriori danni nei confronti del già precario equilibrio del bimbo, su cui si era espressa chiaramente la giudice Iris Ilotovich Segal. «È di fondamentale importanza concentrarsi sulle condizioni emotive del minore e dargli il supporto, le cure e l'abbraccio di cui ha bisogno dopo l'enorme perdita subito».
Concorda pienamente su questo la psicologa e psicoterapeuta Anna Gruner, supervisore del sistema didattico di Gerusalemme, «al fine di consentire al piccolo di continuare la sua infanzia all'interno di un ambiente familiare già conosciuto, e superare nel migliore dei modi possibili il trauma della famiglia persa. Ma affinché questo possa avvenire con successo - conclude Gruner - sarà necessario da entrambe le parti uno sforzo per armonizzarsi con le decisioni prese dai tribunali, in modo da garantire la dovuta serenità del bambino».
(Avvenire, 30 ottobre 2021)
Covid: in Russia record di morti, in Israele siamo ormai alla quinta ondata
Situazione in peggioramento in alcune zone del mondo
Mentre l'Italia registra un deciso incremento dei nuovi casi di coronavirus, la Russia è nel pieno di una pesante ondata di contagi. Nel corso delle ultime 24 ore in Russia sono stati rilevati 40.096 nuovi casi di Covid-19 e 1.159 decessi provocati dalla malattia, i numeri più alti di casi e morti finora registrati in un giorno nel Paese dall'inizio dell'epidemia: lo riporta la Tass citando i dati del centro operativo anticoronavirus.
In totale, il bilancio ufficiale parla di 8.392.697 casi di coronavirus e 235.057 morti. Ma secondo il Moscow Time il numero reale dei decessi sarebbe decisamente più alto, fino ad arrivare a 660mila.
Ma non è l'unica zona colpita pesantemente. Come riportato da Repubblica, anche Israele si appresta a vivere un picco di contagi a causa della mutazione AY.4.2 della variante Delta, di cui è stato riportato un primo caso nel Paese su un bambino di undici anni tornato dalla Moldova. L'allarme arriva dall'immunologo Cyrille Cohen, che dirige il Laboratorio di immunologia e immunoterapia dell'Università di Bar-Ilan."Non è ancora chiaro quanto sia contagiosa questa variante, ma il fatto che abbia già raggiunto il 10% di tutti i casi in Inghilterra dovrebbe far suonare un campanello d'allarme", ha affermato.
Anche in Israele potrebbero esserci altri casi, ha detto Cohen, convinto che non sia sufficiente condurre test alle persone che entrano nello Stato ebraico nel momento del loro arrivo. "Magari una volta arrivato all'aeroporto Ben Gurion risulti negativo, ma potresti essere stato infettato sull'aereo, forse il giorno prima o il giorno dopo. Ecco perché penso che dovremmo raccomandare un altro test dopo quattro giorni dal ritorno in Israele", ha affermato Cohen.
(MeteoWeb, 30 ottobre 2021)
Da lunedì Israele riapre agli stranieri vaccinati
Dal 1° novembre Israele riapre le porte a tutti gli stranieri vaccinati. Queste le regole: non bisogna avere soggiornato o transitato in un Paese della "lista rossa" nei 14 giorni precedenti l'ingresso, che deve avvenire attraverso l'aeroporto Ben Gurion; bisogna aver fatto un vaccino approvato dall'Oms; sarà necessario fare un test Pcr fino a 72 ore prima del volo di andata. E non prima di 24 ore dalla partenza, andrà compilata una "Dichiarazione di ingresso" al
sito .
(Avvenire, 30 ottobre 2021)
Israele e Russia consolidano i rapporti
Putin e Bennett hanno avuto in incontro molto cordiale la settimana scorsa. Mosca punta a diventare sempre più centrale in Medio Oriente, approfittando delle crescenti difficoltà di Biden
di Stefano Graziosi
È stato un incontro particolarmente cordiale quello tenutosi a Sochi la settimana scorsa tra il presidente russo, Vladimir Putin, e il premier israeliano, Naftali Bennett. "Abbiamo avuto un incontro molto significativo e produttivo", ha dichiarato il capo del Cremlino al termine dei colloqui. "I legami tra Russia e Israele sono un elemento significativo nella politica estera dello Stato di Israele sia per lo status speciale della Russia nella regione e il suo ruolo internazionale, sia per il milione di russofoni in Israele, che costituiscono un ponte tra i due Paesi", ha affermato, dal canto suo, Bennett. "In generale, la politica estera e lo status internazionale di Israele si stanno notevolmente rafforzando. C'è molta energia e la direzione è molto buona", ha aggiunto il premier israeliano. Ricordiamo che Putin intrattenesse solide relazioni già con il predecessore di Bennett, Benjamin Netanyahu: segno di come il recente incontro con l'attuale premier debba essere inserito nel più ampio quadro del progressivo avvicinamento tra Israele e la Russia. Al centro del meeting, i due leader hanno parlato di collaborazione sullo spinoso dossier della Siria: come riferito dal Jerusalem Post, la grande preoccupazione degli israeliani risiede nel fatto che forze iraniane si siano posizionate in territorio siriano, per condurre attacchi contro lo Stato ebraico. In secondo luogo, è stata anche affrontata la delicata questione del nucleare iraniano. È chiaro, sotto questo punto di vista, un duplice elemento. Il primo è che Israele stia cercando di fronteggiare la minaccia di Teheran facendo diplomaticamente e politicamente leva sugli storici legami che uniscono Mosca alla Repubblica islamica. Il secondo è che la Russia voglia consolidare le proprie relazioni con lo Stato ebraico, per rendere sempre più centrale il proprio ruolo nello scacchiere mediorientale. Una strategia, questa, che Putin sta portando avanti in una fase piuttosto difficile per gli Stati Uniti. Washington ha visto incagliarsi le trattative sul nucleare iraniano, mentre il Times of Israel ha recentemente riferito che l'amministrazione Biden abbia inoltrato delle proteste a Bennett "contro i piani israeliani di costruire nuove abitazioni negli insediamenti in Cisgiordania". In tutto questo, Biden ha raffreddato anche i rapporti con l'Arabia Saudita, mentre il caotico ritiro dall'Afghanistan ha sensibilmente minato la credibilità della Casa Bianca in varie aree del Medio Oriente. Certo: non è da oggi che gli Stati Uniti stanno cercando di diminuire il proprio coinvolgimento nell'area. Già Donald Trump era di quest'avviso. Il punto è che l'allora presidente repubblicano aveva assunto una strategia differente da quella di Biden. Trump aveva infatti tentato una distensione nei confronti di Mosca per cooperare con la Russa in Medio Oriente. Il concetto stesso di cooperazione escludeva quindi quello di isolazionismo. Trump non solo coltivava stretti rapporti con l'allora premier israeliano Netanyahu, ma anche con il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman. Sempre Trump negoziò inoltre i cosiddetti "accordi di Abramo" e propose un piano per porre fine al conflitto israeliano-palestinese. Insomma, l'obiettivo del presidente americano era quello di ridurre la presenza militare americana nell'area, stabilizzare il Medio Oriente con l'aiuto dei russi, ma – al contempo – salvaguardare l'influenza politico-diplomatica di Washington su questo scacchiere. Biden, al contrario, ha fatto una serie di scelte che lo hanno condotto in un vicolo cieco. In primis, la fortissima pressione a cui ha sottoposto Mosca durante i primi mesi di presidenza ha spinto la Russia sempre più tra le braccia della Cina, rendendo quindi il Cremlino un partner più problematico in Medio Oriente. In secondo luogo, la sua repentina distensione con l'Iran ha prodotto una serie di conseguenze problematiche: ha raffreddato i rapporti con Riad e rinvigorito Hamas, contribuendo a creare le condizioni per la crisi di Gaza dello scorso maggio. Tutto questo, per ottenere poi ben poco, visto che –come abbiamo detto– i colloqui sul nucleare iraniano sembrano attualmente in stallo. Infine, la rocambolesca evacuazione afghana ha spinto svariati Paesi mediorientali a ritenere che Washington si disinteresserà sempre più di loro: il che sta aprendo ampi margini di manovra a una Russia oggi - lo abbiamo visto - sempre più legata alla Cina. Lo scenario per Biden si sta quindi facendo sempre più preoccupante.
(Panorama, 30 ottobre 2021)
Aumenta la popolarità di Fatah tra i palestinesi
Secondo un sondaggio d’opinione pubblicato mercoledì dal Palestine Center for Policy and Survey Research di Ramallah, la fazione Fatah guidata dal presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen ha migliorato la sua posizione tra i palestinesi e gode ora di maggior sostegno di Hamas. I ricercatori del Centro attribuiscono l’aumento della popolarità di Fatah a una serie di misure adottate da Israele nelle ultime settimane, tra cui l’approvazione di ricongiungimenti familiari e l’aumento del numero di palestinesi con permesso di lavoro in Israele. Un sondaggio pubblicato dal Centro il mese scorso mostrava che la maggioranza dei palestinesi vede con favore le misure di rafforzamento della fiducia con Israele.
“I risultati attuali (con 5 punti percentuali a favore di Fatah) rappresentano un netto miglioramento per Fatah rispetto ai risultati del giugno 2021 quando il divario si attestava a 11 punti percentuali a favore di Hamas” afferma il Centro, osservando tuttavia che Fatah continua a subire le conseguenze di alcuni sviluppi degli ultimi sei mesi tra cui la cancellazione delle elezioni generali palestinesi, la guerra contro Israele scatenata da Hamas a maggio e l’uccisione dell’attivista anti-corruzione Nizar Banat picchiato a morte da agenti dell’Autorità Palestinese lo scorso giugno. Il sondaggio registra anche un aumento significativo del sostegno alla soluzione “a due stati” che risulta ora del 46% rispetto al 36% del mese scorso, mentre il sostegno alla “lotta armata” contro Israele risulta diminuito dal 48% al 44%.
(israele.net, 29 ottobre 2021)
La Grecia toglie il permesso alla macellazione rituale
di Ilaria Ester Ramazzotti
In Grecia, prima di macellare un animale bisogna anestetizzarlo. Una decisione ministeriale consentiva tuttavia di macellare secondo le regole kasher e hallal, in deroga alla norma. Ma lo scorso 27 ottobre, il Consiglio di Stato ellenico, il principale tribunale amministrativo del Paese, ha annullato tale decisione, a discapito della possibilità di eseguire la macellazione secondo il rito ebraico e quello islamico. A fare ricorso alla corte amministrativa è stata la Federazione ellenica per il benessere degli animali e l’ambiente, chiedendo di annullare la decisione ministeriale che esentava la macellazione religiosa dall’obbligo di anestetizzare gli animali prima di macellarli nei mattatoi. Il Consiglio di Stato ha così stabilito che tale decisione viola la legge e non stabilisce un giusto equilibrio tra il benessere degli animali e la libertà religiosa di ebrei e musulmani. La sentenza è arrivata a meno di un mese da quella della Corte Costituzionale del Belgio, che conferma il divieto della macellazione rituale, suscitando la protesta Conferenza dei Rabbini Europei. È giunta inoltre dopo quella della Corte di giustizia dell’Unione Europea dello scorso dicembre, che permette alle nazioni europee di vietare la macellazione kasher al fine di promuovere il benessere degli animali senza violare i diritti dei gruppi religiosi. Il rabbino Menachem Margolin, presidente della European Jewish Association, ha espresso indignazione per la sentenza del tribunale greco. “La libertà di religione degli ebrei è sotto l’attacco diretto, in tutta Europa, delle stesse istituzioni che hanno promesso di proteggere le nostre comunità – ha sottolineato Margolin, riportato dal Jerusalem Post -. Già lo scorso dicembre abbiamo messo in guardia sulle pericolose conseguenze della sentenza della Corte di giustizia europea, e ora stiamo vedendo il risultato. [La questione] è iniziata in Belgio, poi è giunta in Polonia e a Cipro, mentre adesso è il turno della Grecia. Questi attacchi diretti provengono da molti di quei governi e istituzioni che hanno promesso di difendere le loro comunità ebraiche”. “Quello a cui stiamo assistendo è ipocrisia di prim’ordine – ha detto il rabbino -. Quando si tratta di antisemitismo, i governi e le istituzioni giustamente ci sostengono. Ma quando le nostre convinzioni e le nostre usanze vengono attaccate a destra e a manca dalle leggi, non si vedono da nessuna parte”. Il leader di European Jewish Association ha dichiarato infine che l’organizzazione si adopererà per chiedere risposte ai più alti livelli del governo greco, aggiungendo: “Come possono vivere gli ebrei in Europa, se si continua a legiferare contro di loro”?
(Bet Magazine Mosaico, 29 ottobre 2021)
Ritrovato il rifugio di Leopoli dove dozzine di ebrei si nascosero dai nazisti
di David Di Segni
Un gruppo di ricercatori ucraini ha rinvenuto un rifugio a Leopoli, dove vi era una fogna, in cui dozzine di ebrei si rifugiarono – in condizioni terribili - dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Come riportato dal Jerusalem Post, la squadra di studiosi ha iniziato l’esplorazione perché ispirata dalla visione del film "In Darkness", pluripremiato dramma storico sulla sopravvivenza nelle fogne di Leopoli, presentato in Polonia agli Academy Awards 2012.
I ricercatori volevano sia scoprire come delle persone fossero riuscite a vivere per mesi in un ambiente umido e infestato da malattie, sia documentare l'intera portata di una storia diventata famosa in tutto il mondo, perché simbolo della determinazione dei rifugiati a sopravvivere.
«In estate, quando entrava la pioggia, c'era molta acqua ovunque - ha ricordato Krystyna Chiger in una testimonianza nel 1947, quando aveva 11 anni - Poi abbiamo dovuto appoggiarci molto in basso sulle pietre proprio accanto al muro, così che l'acqua non scorresse su di noi».
Andriy Ryshtun, uno scavatore esperto che ha molta familiarità con il sistema fognario di Leopoli, aveva dei dubbi su quanto visto nel film. «Non ci sono posti dove le persone possono stare a lungo, perché l'acqua scorre ovunque» aveva riferito al sito d’informazione ucraino, Zaxid.
Nel corso degli anni, i ricercatori si sono avventurati nella fogna diverse volte per cercare di avvalorare e concretizzare le testimonianze dei sopravvissuti, ma non avevano trovato nessun luogo che ritenessero potesse eguagliare lo spazio descritto. Poi, progredendo dai tombini descritti dai superstiti, gli archeologi avevano mappato metodicamente il sottosuolo per oltre un anno, a partire dal 2019, per arrivare infine alla scoperta di un deposito di acqua piovana.
«Abbiamo trovato prove evidenti che le persone si nascondevano lì dai nazisti» ha detto Ryshtun, ricercatrice. Nel luogo c'erano bottiglie di birra del tempo dell'occupazione nazista, una torcia e dei chiodi conficcati nelle pietre per consentire agli oggetti di non toccare il pavimento umido. Sono state trovate anche prove di scavi pesanti: i rifugiati avevano spostato tonnellate di terra per nascondere il sito, nel caso in cui i tedeschi, che stavano scavando trincee nelle vicinanze, fossero riusciti ad entrare nei tunnel del sistema fognario.
Di tutti i nascosti, solo venti sopravvissero alla guerra. I restanti morirono per le malattie contratte nelle fogne o perché catturati ed uccisi dai tedeschi dopo esserne usciti.
«Un luogo molto umido e buio. Ero molto spaventata, tremavo, ma ho cercato di essere calma e ho chiesto a papà solo se avevamo ancora molta strada da fare – racconta Krystyna Chiger, nella testimonianza del 1947 - C'erano pietre con vermi gialli che strisciavano dappertutto. Abbiamo messo tutte le nostre cose sulle pietre e ci siamo seduti sopra. È stato terribile lì. L'acqua filtrava dalle pareti e aveva un cattivo odore. Ho visto grossi topi rossi che correvano da noi proprio come polli. All'inizio avevo molta paura, ma poi mi ci sono abituata».
Quasi tutti i 110.000 ebrei che vivevano a Leopoli nel 1939 furono assassinati. Oggi la città ne conta solo poche centinaia. Gli oggetti recuperati dai ricercatori saranno esposti al Museo Ebraico della Galizia, presso la Fondazione di beneficenza ebraica all-ucraina, che sta valutando la possibilità di aprire ai visitatori il sito esplorato.
Olga Lidovska, rappresentante della comunità ebraica di Leopoli e direttrice del museo, ha detto a Zaxid di essere commossa dalla scoperta. «I ricercatori hanno fatto l'incredibile, tali scoperte si verificano raramente in questi giorni - ha riferito – Hanno lavorato in condizioni difficili, facendo una scoperta molto preziosa.»
(Shalom, 29 ottobre 2021)
60 anni fa la scoperta della sinagoga di Ostia antica
È la più antica dell’Europa occidentale. Le fasi storiche e architettoniche ripercorse in un convegno con il rabbino capo Riccardo Di Segni.
di Mariaelena Iacovone
Sono passati 60 anni dalla scoperta della sinagoga di Ostia antica, eppure il complesso continua a essere il fulcro di ricerche e studi di carattere internazionale. Era il 1961 quando, durante i lavori per la costruzione della strada che conduce a Fiumicino, furono rinvenuti i resti della più antica sinagoga dell’Europa occidentale, le cui principali fasi storiche e architettoniche sono state ripercorse ieri, 28 ottobre, nel corso del convegno “La sinagoga di Ostia: 60 anni dalla scoperta, 20 anni di Arte in Memoria”, promosso dal Parco archeologico di Ostia antica insieme all’associazione Arte in Memoria al Multisala Cineland. Ad aprire i lavori, il rabbino capo degli ebrei della Capitale Riccardo Di Segni, la cui relazione ha evidenziato il valore della sinagoga nella vita e nella storia ebraica: «Il problema che si pone oggi è capire quando sia nata la sinagoga, edificio che non nasce con la storia dell’ebraismo: all’epoca del primo Tempio, infatti, si documenta una dinamica polemica tra la centralizzazione del culto e la possibilità di svolgerlo, in maniera periferica, intorno al sacrificio – ha spiegato -. Invece con il Secondo Tempio il culto sacrificale è centralizzato, ma viene progressivamente formalizzata la preghiera individuale, collettiva e, con essa, la necessità di un luogo dove praticarla». Le sinagoghe, che esistevano prima della distruzione del Tempio, prevedono delle «norme di rispetto, che valgono anche per ciò che resta di una sinagoga, e presentano regole fluide – ha aggiunto Di Segni -. Alcune riguardano l’orientamento dei fedeli, la presenza di finestre e l’ingresso nella sala di preghiera che non deve avvenire direttamente dalla strada». In particolare, «quella di Ostia non sembra orientata verso la terra di Israele e presenta un atrio». La prima fase dell’edificio ostiense, che sorgeva lungo la via Severiana, risalirebbe alla fine del I secolo d.C., con interventi di ampliamento e rifacimento nel IV secolo, probabilmente a seguito di un terremoto. A partire dal 2001 un team dell’Università del Texas, sotto la direzione di Michael White, ha condotto un approfondito riesame del complesso della sinagoga attraverso studi su tecniche costruttive e architettoniche: «Il progetto ha comportato 6 campagne di scavo con 44 nuovi sondaggi e 9 campagne di ricerca negli archivi di Ostia – ha riferito White -. Siamo stati in grado di correlare i nostri nuovi reperti con quelli dei primi scavi al fine di fornire una cronologia rivista e una suddivisione in fasi». I due principali risultati emersi riguardano «l’esistenza non solo di un sostanziale innalzamento del terreno datato nei decenni centrali del II d.C ma anche di tre livelli di marciapiede che collegavano la sinagoga alla via Severiana». Unendo questi dati si può affermare che l’edificio è stato trasformato in sinagoga solo in una seconda fase, nella prima metà del III secolo, e quindi a seguito della costruzione della via. «La fase finale del rinnovamento del complesso, che include la costruzione della aron (armadio sacro contenente la Torah, n.d.a), sarebbe datata al 475». Ancora, nel corso del convegno – che ha visto la partecipazione di Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma – sono intervenuti, tra gli altri, anche l’archeologa Letizia Ceccarelli, che ha presentato «il contesto di ritrovamento di un gruppo di sedici lucerne scoperte nel 1962»; Olof Brandt, del Pontificio Istituto di Archeologia cristiana, che ha riflettuto sulle «parti scomparse dell’elevato della sinagoga»; e il professor Carlo Pavolini, il quale ha analizzato l’edificio nel contesto tardo-antico della città. Nel pomeriggio, l’incontro è proseguito con una sessione dedicata alle riflessioni sul destino delle sinagoghe europee nel dopoguerra e nel paesaggio contemporaneo e con l’inaugurazione del lavoro dell’artista Paolo Icaro, parte dell’undicesima edizione di “Arte in Memoria”, la rassegna biennale di arte contemporanea che compie 20 anni, ospitata dalla sinagoga.
(RomaSette, 29 ottobre 2021)
Oltre il ghetto, Dentro&Fuori": fino a maggio 2022 a Ferrara la storia degli ebrei italiani dal 1516 alla Prima guerra mondiale
La mostra nel Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS. Un percorso che prosegue la narrazione di “Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni”. Le fasi emblematiche della bimillenaria presenza degli ebrei in Italia
FERRARA - Da venerdì 29 ottobre a domenica 15 maggio 2022, il Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS di Ferrara ospita la mostra “Oltre il ghetto. Dentro&Fuori” a cura di Andreina Contessa, Simonetta Della Seta, Carlotta Ferrara degli Uberti e Sharon Reichel e allestita dallo Studio GTRF Giovanni Tortelli Roberto Frassoni. L'esposizione racconta l'esperienza degli ebrei italiani dall'epoca dei ghetti (a partire dal 1516 con l'istituzione del primo, quello di Venezia) allo scoppio della Prima guerra mondiale.
La narrazione lungo un percorso bimillenario. Un percorso che prosegue la narrazione di “Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni” curata da Anna Foa, Daniele Jalla e Giancarlo Lacerenza e di “Il Rinascimento parla ebraico”, a cura di Giulio Busi e Silvana Greco. Due mostre temporanee ora condensate nella permanente del MEIS “Ebrei, una storia italiana”. Il nuovo capitolo che si apre copre una delle fasi più emblematiche della bimillenaria presenza degli ebrei in Italia e lo fa accostando opere d'arte, documenti d'archivio, multimediali di approfondimento, oggetti rituali e di uso quotidiano, tramandati da secoli di famiglia in famiglia.
Il dialogo tra opere d'arte. Quadri come “Ester al cospetto di Assuero” (1733), prestito del Quirinale, e “Interno di sinagoga” di Alessandro Magnasco (1703), proveniente dalla Galleria degli Uffizi, dialogano con testimonianze come la chiave di uno dei portoni del ghetto di Ferrara (XVIII secolo), il “Manifesto di Sara Copio Sullam” (1621) della Biblioteca del Museo Correr e la porta dell'Aron Ha-Qodesh, l'Armadio sacro (fine del XVIII- inizio del XIX secolo) che venne donato nel 1884 dalla Università Israelitica locale al Museo Civico di Torino.
Attraverso macro e microstorie. Un viaggio dentro e fuori dal ghetto che, attraverso macro e microstoria, si interroga su temi ora più che mai attuali come l'integrazione e l'esclusione dalla società; l'identità di gruppo e quella individuale; la capacità di trovare un “fuori” nel quale evadere nonostante i limiti imposti dal potere e un “dentro” nel quale tornare nei momenti di smarrimento.
La medaglia del presidente Mattarella. La mostra ha ricevuto la Medaglia del Presidente della Repubblica, prestigioso premio di rappresentanza, ed è realizzata con il sostegno di Intesa Sanpaolo, The David Berg Foundation, Fondazione Guglielmo De Lévy, TPER e il patrocinio del Ministero della cultura, della Regione Emilia-Romagna, del Comune di Ferrara, dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e della Comunità Ebraica di Ferrara. Si ringraziano la Fondazione CDEC e il compianto Ambasciatore Giulio Prigioni.
(la Repubblica, 29 ottobre 2021)
Insediamenti: c'è tensione fra Usa e Israele
Il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, ha protestato duramente con il ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, in merito ai piani di costruzione di 3 mila nuove case per coloni in Cisgiordania, definiti «inaccettabili». Lo ha riferito il sito Walla, citando tre fonti israeliane a conoscenza della telefonata tesa avvenuta ieri tra i due.
Il capo della diplomazia americana ha condannato come «inaccettabile» l'iniziativa israeliana, puntando il dito sia contro il numero di nuove abitazioni sia la loro localizzazione nella parte interna della Cisgiordania. Blinken ha quindi chiesto a Gantz di tenere in considerazione in futuro la posizione di Washington sugli insediamenti. Il ministro della Difesa israeliano, da parte sua, ha sottolineato di aver ridotto il numero delle unità abitative e ha messo in luce i piani per l'approvazione di 1.300 case per i palestinesi, così come le critiche da lui ricevute per aver incontrato il leader dell'Anp, Abu Mazen, il primo esponente di governo a farlo dal 2010.
Sul tema era già intervenuto il portavoce del dipartimento di Stato Ned Price, con i termini più duri mai usati prima da quando è entrata in carica l'amministrazione di Joe Biden: «Siamo profondamente preoccupati per i piani del governo israeliano di costruire migliaia di unità negli insediamenti, molte delle quali nel profondo della Cisgiordania». «Inoltre, siamo preoccupati per la pubblicazione di bandi di gara per 1.300 unità in una serie di colonie in Cisgiordania. Ci opponiamo fermamente all'espansione degli insediamenti».
Libero, 28 ottobre 2021)
Il triangolo del fuoco
di Lorenzo Vita
Quella tra Israele e Iran è una guerra ombra che non ha zone franche. Il mare, dal Golfo Persico al Mediterraneo orientale passando per Mare arabico e Rosso, è solo uno dei domini in cui si contendono le due forze. Ma il conflitto si proietta su diversi fronti, dal territorio iraniano a quello israeliano, dal dominio cyber a quello di spie. E abbraccia nel suo gioco mortale tutto il Medio Oriente. Uno dei teatri di questa guerra ombra, non dichiarata ma senza esclusione di colpi, è la Siria. Terra martoriata che stenta a conoscere la parola “pace”. All’inizio di questa settimana, gli organi ufficiali di Damasco hanno parlato di un attacco israeliano nella zona di Quneitra. La versione è stata confermata anche dall’Osservatorio siriano per i diritti umani, il gruppo con base in Inghilterra legato alle frange ribelli. Da Israele non arrivano conferme né smentite. Una tradizione ormai consolidata dall’inizio del conflitto siriano, in cui i raid delle Israel Defense Forces (Idf) non hanno mai ricevuto conferme se non in via del tutto eccezionale. Ma è il segnale che dai comandi dello Stato ebraico l’allerta nei confronti delle mosse iraniane in Siria non sia mai cessata. Un problema anche per gli Stati Uniti, che negli ultimi giorni hanno lanciato l’allarme. Una fonte dell’amministrazione Usa ha rivelato all’emittente Cbs che il Pentagono è certo che vi sia proprio Teheran dietro l’attacco che mercoledì scorso ha investito la base di Al Tanf, nella parte meridionale della Siria. Centcom, il comando centrale Usa, ha parlato di un attacco “deliberato e coordinato” condotto con cinque droni: un raid che non ha causato vittime, ma che ha dimostrato che questi mezzi senza pilota possono arrivare fino all’avamposto dove sono ancora dislocati 200 soldati delle forze armate statunitensi. Un segnale che se vale per Washington, tanto più è importante per Gerusalemme. L’Iran, che si è detto pronto a tornare sul tavolo dei negoziati per trovare un accordo sul programma nucleare, è un avversario temibile che le Idf non hanno mai rimosso. Gli alleati sciiti al confine con il territorio israeliano sono uno dei principali problemi strategici dei suoi comandi. E questa spada di Damocle che pende sullo Stato ebraico è una delle armi più efficaci in mano alla Repubblica islamica, insieme alle capacità tecnologiche e militari manifestate in questi anni di conflitto. Tra queste, particolare rilevanza hanno proprio di droni: armi che stanno assumendo un ruolo sempre maggiore nel panorama bellico mondiale e che sono diventati fondamentali anche in tutti i conflitti che coinvolgono il Medio Oriente. L’attacco ad Al Tanf (così come il raid israeliano a Quneitra) conferma che quell’area tra Siria e Israele è ancora al centro dello scontro. Israele non vuole soltanto che le forze iraniane siano lontane dai suoi confini, ma vuole anche evitare che le basi in territorio libanese e siriano e le milizie irachene legate a Teheran possano colpire il Paese da punti ancora più distanti proprio attraverso i droni. Il Times of Israel ha scritto a tal proposito che le Idf hanno avviato un programma di potenziamento di tutte le difese aeree, in particolare quelle settentrionali, per far fronte alla minaccia dei droni di fabbricazione iraniana. Secondo il quotidiano israeliano, il punto di non ritorno è stato il devastante attacco agli impianti Aramco in Arabia Saudita nel 2019: quell’episodio, in cui droni e missili investirono gli impianti petroliferi sauditi devastando uno dei principali centri del Paese, fu chiaro che la minaccia dal cielo era ben diversa da quella dei razzi della Striscia di Gaza. “È stato un attacco sofisticato che è riuscito a eludere sia le difese statunitensi che saudite. Chiunque dica che non può succedere a noi non è un professionista”, ha detto al media israeliano il maggiore Aharon Haliva. La guerra intanto continua e lo fa, come detto su diversi domini. In quello aereo è un duello che vede droni e missili iraniani contrastare aerei e scudi antimissile israeliani. Mentre sul fronte cyber, la questione si fa ben più complessa e in questi casi gli autori degli attacchi sono ancora più difficili da scovare: un campo in cui le accuse restano tali e in cui la matrice può essere solo individuabile, ma mai accertata. Le unità delle Idf e del Mossad si muovono continuamente per colpire i centri nevralgici del programma missilistico e nucleare iraniano. Teheran sa rispondere, ma le sue capacità sembrano ancora orientate su come riuscire a non essere colpiti. Difficile capire quando l’attacco sia reale o presunto o quando sia solo frutto di propaganda per evitare di mettere in mostra le proprie lacune. Ma la lunga scia di esplosioni nelle centrali nucleari del Paese così come l’omicidio “da remoto” di Moshen Fakhrizadeh sono prove eloquenti che i nemici di Teheran sanno come condurre attacchi mirati: chirurgici e letali. L’ultimo, in ordine di tempo, sembra essere quello che ha paralizzato la rete di distributori di carburante in tutto il territorio iraniano. La televisione di Stato ha riferito che per il Consiglio supremo di Sicurezza nazionale si è trattato di un attacco informatico. Dello stesso avviso anche il presidente iraniano, Ebrahim Raisi. La guerra continua.
(Inside Over, 28 ottobre 2021)
La città di Assisi «casa di vita». Diede salvezza a trecento ebrei
Attribuita dalla Fondazione Wallenberg alle realtà che li ospitarono evitando così la loro deportazione
di Antonella Porzi
«Assisi è un inno alla vita». Lo ha detto la vice presidente della Fondazione internazionale Raoul Wallenberg, Silvia Costantini, ieri durante la cerimonia di svelamento della targa "Casa di vita'' (House of Life) attribuita alla città di Assisi dalla Fondazione Wallenberg, per la grande opera di salvezza degli ebrei posta in essere durante le persecuzioni razziali. La cerimonia nel programma delle iniziative organizzate nell'ambito dello spirito di Assisi di cui ieri ricorreva il 35° anniversario, ha avuto luogo in via Borgo San Pietro, dove si trova il monastero di Santa Colette, uno dei conventi che hanno ospitato e nascosto gli ebrei durante gli anni bui della Seconda guerra mondiale. «Da oltre sette anni portiamo avanti il progetto "Case di vita'' - ha spiegato la vice presidente Costantini-. Ad oggi in Italia abbiamo identificato circa 300 "Case di vita'' e per ora ne abbiamo riconosciute circa 31, di cui due in Francia, una in Grecia, Polonia, Austria e Danimarca. La Fondazione è orgogliosa di essere qui oggi a rendere omaggio a questa città per avere accolto e salvato 300 ebrei dagli orrori nazifascisti. La targa ricorderà a tutti che mentre l'Olocausto era uno dei periodi più bui dell'umanità molte persone si sono opposte e hanno fatto la differenza». L'ideatrice e curatrice del "Museo della memoria, Assisi 1943-1944", Marina Rosati, riferendosi all'importanza del museo, ha spiegato che «questo piccolo scrigno di storia e di valori incomincia ad essere un punto di riferimento importante per la città e per il mondo. Assisi è città della pace, della bellezza, dell'arte e ora anche città della vita. Penso che più bel titolo non ci possa essere».
Dopo il saluto del sindaco di Assisi, Stefania Proietti, sono stati letti i messaggi dell'ambasciatore d'Israele presso lo Stato italiano, Dror Eydar, di Noemi Di Segni, presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, e di Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma. Il vescovo di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino e di Foligno, l' arcivescovo Domenico Sorrentino, ha detto che «l'umanità in tutte le sue espressioni culturali e religiose deve sentire la radice fraterna che condividiamo perché essa in realtà è l'unica paternità di Dio».
(Avvenire, 28 ottobre 2021)
Eitan, disposta la sorveglianza negli incontri con la famiglia materna
Avvocati della zia: 'Accolte le preoccupazioni sulle visite con i nonni'
Oggi il Tribunale israeliano "su istanza della tutrice" di Eitan, la zia paterna Aya, "ha accolto le sue preoccupazioni ordinando che venga negoziato un nuovo accordo che preveda la sorveglianza di terza parte per le visite di Eitan alla famiglia Peleg", ossia quella dei nonni materni.
Lo hanno chiarito all'ANSA i legali italiani di Aya, gli avvocati Grazia Cesaro e Cristina Pagni, in relazione "alle accuse rivolte alla zia paterna, apparse ieri sulla stampa, di non rispettare gli accordi di alternanza nella custodia del minore" dopo la sentenza di due giorni fa che ha dato ragione alla zia riconoscendo la sottrazione del minore.
"Rispetto alle accuse rivolte alla zia paterna, apparse ieri sulla stampa, di non rispettare gli accordi di alternanza nella custodia del minore - scrivono i legali di Aya - precisiamo che in data 27 ottobre 2021, il tribunale in Israele, su istanza della tutrice, ha accolto le sue preoccupazioni ordinando che venga negoziato un nuovo accordo che preveda la sorveglianza di terza parte per le visite di Eitan alla famiglia Peleg". Gli accordi precedenti, spiegano ancora, "sono stati dunque caducati da tale decisione del tribunale e la zia si sta attenendo alle indicazioni dell'autorità giudiziaria israeliana, che ritiene evidentemente necessaria una supervisione di terzi nel caso di contatti tra Eitan e la famiglia Peleg".
Stando a quanto denunciato ieri dai Peleg al Tribunale israeliano, sulla base della intesa temporanea tra le famiglie raggiunta nelle scorse settimane, prima della sentenza di lunedì, e che prevedeva una permanenza alterna del bambino di tre giorni tra Aya e il nonno Shmuel Peleg, la zia avrebbe dovuto riportare il piccolo al nonno e invece non lo ha più fatto. Secondo quanto riferito da fonti legali della famiglia Peleg, la zia non ha più risposto al telefono e non ha più riportato il minore ai Peleg anche se erano stati emessi dei solleciti. La stessa Aya, però, si è rivolta al Tribunale per chiarire di aver scelto di tenere con sé il nipote, dopo la sentenza, perché non si fida più dei Peleg, dopo che il piccolo è stato portato via dal nonno da Pavia l'11 settembre, e soprattutto in assenza di controlli nel corso degli incontri.
Oggi i legali della tutrice hanno spiegato che, su disposizione del giudice, potranno esserci incontri tra il bimbo e la famiglia Peleg ma con una supervisione esterna. La zia, ad ogni modo, per ora non potrà tornare in Italia col bimbo, perché deve attendere il termine (7 giorni al massimo da lunedì) entro il quale il nonno può presentare ricorso contro il verdetto, con la possibilità, tra l'altro, di chiedere in prima battuta la sospensione dell'esecutività della decisione.
(ANSA, 27 ottobre 2021)
Il Regno Unito non finanzierà più l’istruzione palestinese
di Paolo Castellano
Il 21 ottobre, il Regno Unito ha annunciato che smetterà di finanziare direttamente le associazioni che si occupano dell’istruzione degli studenti palestinesi. La decisione è stata presa dopo aver visionato un’inchiesta sull’utilizzo dei fondi britannici elaborata dal deputato laburista Andrew Gwynne e dal Segretario di Stato per il Medio Oriente e il Nord Africa James Cleverly. Londra ha riscontrato che i fondi stanziati per l’educazione dei giovani palestinesi venivano invece utilizzati per realizzare libri di testo contenenti frasi antisemite e la glorificazione del martirio attraverso atti terroristici. Il problema del materiale scolastico palestinese era già stato sollevato da un rapporto dell’Unione Europea che aveva riscontrato le medesime criticità rilevate dal Regno Unito. Dunque, il governo di Boris Johnson ha scelto di tagliare i fondi agli operatori dell’istruzione e della sanità che operano all’interno dei territori dell’Autorità Palestinese. Secondo il Jerusalem Post, si stima che negli ultimi cinque anni il Regno Unito abbia donato 137 milioni di dollari per pagare gli stipendi agli educatori palestinesi responsabili della pubblicazione di testi scolastici antisemiti e incitanti all’odio. Nonostante questa mossa, Londra continuerà a finanziare l’UNRWA, l’agenzia ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi.
(Bet Magazine Mosaico, 27 ottobre 2021)
Ambasciatore d'Israele: l'Italia non ci tratti come Hamas
Eydar, per poter negoziare i palestinesi devono riconoscerci.
ROMA - "L'Italia è una grande amica, gli israeliani preferiscono l'Italia tra tutti i Paesi europei, ma l'astensione dell'Italia" nelle risoluzioni contro Israele all'Onu, e in particolare sull'ultima rispetto alle operazioni a Gaza, "è stata la più dolorosa per noi", perché "per noi l'astensione significa trattare Israele e Hamas in maniera simile". Lo ha detto l'ambasciatore israeliano a Roma, Dror Eydar, in un Forum all'ANSA.
"Gli israeliani invitano ancora oggi i palestinesi al tavolo dei negoziati, ma gli accordi di Oslo sono basati sul concetto che ci sono due movimenti nazionali, e mentre noi abbiamo riconosciuto il loro, loro ancora oggi non riconoscono la nostra legittimità", ha proseguito l'ambasciatore. "In ogni caso Israele deve vivere con i palestinesi. Noi diamo loro lavoro, tecnologia, sanità e sicurezza, perché noi ci proteggiamo dalle azioni terroristiche e così proteggiamo anche loro", ha aggiunto.
Dror Eydar ha poi evocato gli accordi di Abramo: "i Paesi arabi moderati hanno capito ciò che l'Europa non ha capito: che il loro futuro non poteva restare nelle mani dei palestinesi, perché hanno visto gli errori dei palestinesi e che" le politiche adottate in passato per sostenerli "erano contro i loro interessi. Hanno deciso di non aspettare più, e da questo derivano gli accordi di Abramo, una svolta storica", ha detto.
L'ambasciatore ha espresso infine preoccupazione per il programma nucleare iraniano. "Il pensiero che gli iraniani possano rispettare un pezzo di carta firmato con gli occidentali" come l'accordo sul nucleare del 2015 (Jcpoa) "è uno scherzo triste, e un segno della cecità degli occidentali", ha affermato.
((ANSAmed, 27 ottobre 2021)
Emiliano inaugura la mostra sui profughi ebrei a Lecce
LECCE – “È un momento di grande emozione e commozione poter condividere insieme alla Città di Lecce e al Salento i contenuti di questa mostra”. Così il Presidente della Regione Puglia Michele Emiliano intervenendo nel pomeriggio presso il Museo Ebraico di Lecce alla conferenza stampa di presentazione della mostra “Dalla Terraferma alla Terra Promessa: Aliya Bet dall’Italia a Israele, 1945-1948”, organizzata in collaborazione con Pugliapromozione, Museo EretzIsrael di Tel Aviv e Fondazione Museo della Shoah di Roma e patrocinata da Regione Puglia, Provincia di Lecce, Comune di Lecce, Ambasciata d’Israele in Italia, UCEI e Università del Salento. “È una mostra – ha continuato il Presidente Emiliano – che è nata durante la nostra ultima visita a Tel Aviv. Una visita straordinaria, ricca di contenuti e di emozioni. Quando siamo andati a vedere il museo più importante della città, accanto al personale e ai dirigenti di questo Museo abbiamo immaginato di fare qualcosa anche in Puglia, ricordando con grande orgoglio il contributo che il Salento ha dato per il ritorno a casa di tanti ebrei, che sono stati sostenuti e sono stati aiutati a ricostruire una patria e un luogo dove poter vivere. Uomini e donne del Salento che hanno dimostrato che la radice del popolo italiano non coincideva con la vergogna delle leggi razziali e del nazifascismo. E oggi la nostra responsabilità è ancora più grande e più determinata.”. “Sono particolarmente orgoglioso – ha commentato l’Assessore regionale alla Cultura Massimo Bray – che Lecce ospiti questa mostra. Credo sia un segno di attenzione doveroso verso una delle pagine più dolorose dell’umanità. Un momento importante per avvicinare le nuove generazioni alla storia dei profughi sopravvissuti alla Shoah, la necessità, come ci ricorda sempre la senatrice Segre, di difendere il valore della memoria”. Inaugurata nel 2016 presso il Museo Eretz Israel di Tel Aviv, in Israele, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la mostra è stata ospitata a Milano, Roma e La Spezia, ottenendo largo consenso di pubblico. Nel 2021 arriva al Museo Ebraico di Lecce. La mostra narra, attraverso un suggestivo percorso di immagini d’epoca con estese didascalie, uno dei più importanti periodi della storia ebraica, successivo alla tragedia della Shoah e annunciatore della costituzione dello Stato d’Israele. Le belle foto in bianco e nero documentano la permanenza dei profughi ebrei, per la maggior parte sopravvissuti ai campi di sterminio, nei campi di transito (DP Camps) organizzati in Italia, soprattutto in Puglia, nel periodo seguente la loro liberazione e la loro partenza per l’emigrazione clandestina (Aliya Bet) in Terra d’Israele. “Questa mostra – ha affermato Smadar Shapira, rappresentante dell’Ambasciata d’Israele – è parte della realizzazione di un sogno, il sogno sionista di tutti coloro, gli ebrei, che pensavano di tornare nella propria terra. Anche mia nonna era una ebrea profuga che arrivò in Israele attraversando il Mediterraneo in una barca. È ammirevole la generosità del popolo italiano che ha aiutato i profughi ebrei ad emigrare nella terra che poi sarebbe diventata quella di Israele”. “La mostra che abbiamo inaugurato oggi – ha dichiarato invece Fabrizio Lelli, Direttore del Museo Ebraico di Lecce – parla di un aspetto estremamente significativo della storia dei rapporti tra l’Italia e il nascente Stato di Israele. In realtà i fatti si rapportano soprattutto alla presenza di numerosissimi profughi perlopiù scampati alla Shoah, che si trovarono a transitare dai campi profughi allestiti nell’area pugliese e soprattutto salentina, ma anche in altri centri d’Italia. Passando dalla Puglia e in particolare dal Salento queste persone riconquistarono in parte questi diritti e si rianimarono dalla volontà di salpare verso la Terra d’Israele”. “La Fondazione della Shoah – ha sottolineato Micaela Felicioni della Fondazione Museo della Shoah di Roma – è onorata oggi di questa mostra, soprattutto perché veicola un tema ancora poco noto. Un tema che parla della solidarietà e dell’accoglienza di un Paese. La Fondazione museo della Shoah è impegnata su questo fronte soprattutto perché riteniamo sia un tema attualissimo, di civiltà, che riguarda tutti noi ancora oggi”. “Per me è un grande onore inaugurare a Lecce questa mostra – ha commentato la curatrice della mostra Fiammetta Martegani – che racconta la storia dei ventunomila profughi ebrei scampati alla Shoah che dai porti italiani sono riusciti a raggiungere il nascente Stato di Israele. In questa epopea la Puglia ha avuto un ruolo fondamentale non solo perché dieci delle trentaquattro navi partirono dai porti pugliesi, ma soprattutto perché nel Salento molti di questi sopravvissuti vennero accolti nei campi profughi”. “Abbiamo immediatamente aderito al progetto di questa mostra – ha detto Luca Scandale, dirigente Pugliapromozione – perché le iniziative culturali sono il volano delle nostre attività di promozione del turismo. Grazie a questa esperienza ho conosciuto tutte le forze che sono in campo qui al Museo ebraico di Lecce, una forza per il Salento e per la Puglia. Questa mostra sicuramente valorizza l’intero territorio e l’avvio del volo diretto che collegherà la Puglia a Tel Aviv potrà essere foriero di nuovi scambi e prospettive di crescita”. Alla conferenza stampa erano presenti: Alessandro Delli Noci (Assessore regionale allo Sviluppo Economico), Fabiana Cicirillo (Ass. Cultura, Comune di Lecce), Andrea Romano (Capo di Gabinetto della Provincia di Lecce).
(Salentolive24, 27 ottobre 2021)
Israele-Dubai, se il Paese delle startup scopre l'hub globale del Medioriente
di Jonathan Pacifici*
Nei tanti anni da frequent flyer sarò decollato dall'aeroporto Ben Gurion centinaia di volte. Il decollo è sempre stato lo stesso, qualche secondo sopra le torri di Tel Aviv e poi il mare, verso chissà quale destinazione. Il blocco aereo dei paesi arabi non consentiva grandi alternative ed il risultato è che anche per andare verso l' oriente, si doveva decollare per forza verso ovest e .poi girare attorno ai paesi arabi. E anche per questo che Israele è sempre stata un po' un' isola proiettata idealmente e culturalmente verso occidente. Da poco più di un anno, con gli Accordi di Abramo, questa prospettiva è cambiata radicalmente anche se, per via del covid, i viaggi sono stati pochi. La scorsa settimana, per la prima volta, ho visitato gli Emirati Arabi.Ho colto l'occasione del Gitex Global, uno dei principali eventi tecnologici del pianeta per provare a capire, al di là della geopolitica, cosa significa questa pace per un imprenditore come me.
Tutti restano impressionati, giustamente, dalla Dubai «terrestre». Le torri sfavillanti, la metro da film di fantascienza, l'opulenza e la cacofonia di abiti e colori di gente dalle provenienze più disparate che hanno fatto di Dubai uno dei principali hub del pianeta. A me interessava, se così si può chiamarla, la Dubai «celeste». Mi interessava capire l'attitudine della gente, la genuinità dei rapporti. Ebbene se la Dubai «terrestre» mi ha impressionato, la Dubai «celeste» mi ha semplicemente sbalordito. Non mi sarei mai aspettato tanta cordialità. Bastano quattro passi nel Dubai Mall, dopo una cena al ristorante Kasher dentro il Burj Khalifa per capire che il mondo è cambiato. La mia kippà non è più un oggetto da nascondere, come purtroppo accade in tante parti d'Italia e d'Europa, ma uno status symbol catalizzatore di simpatia ed amicizia. La gente seduta ai bar agita un saluto da lontano Shalom, Salam. In fiera, un alto funzionario emiratino prende coraggio e mi chiede se gli posso spiegare cosa rappresenti la kippà. E un segno di umiltà, spiego, ci ricorda che l'uomo finisce qui, sopra c'è solo il Signore, Allah. Il suo sorriso sgorga naturale ed improvvisamente capisci che questa non è una pace di interessi nonostante le religioni, ma che qui la fede, la comune fede monoteista nel rispetto dell'altro, è il cemento sul quale la pace economica e tecnologica può fiorire.
Al Gitex incontro Omar bin Sultan Al Olama, giovane ministro dell'Intelligenza Artificiale (si, il governo Uae include un Ministero dedicato all' Al!). Il suo discorso è di una lucidità straordinaria. Parla venti minuti spiegando la loro visione per un Medioriente di innovazione, investimenti, infrastrutture tecnologiche ed attrazione di cervelli. Dubai è solo lo snodo di una visione regionale di progresso e benessere. E su questa visione che la sinergia con Israele diventa lampante. La Startup Nation cresce a ritmi da capogiro. Il record dei 10 miliardi di dollari di investimenti in venture capitai del 2020 è stato stracciato in pochi mesi. Al terzo trimestre 2021, siamo a 18 miliardi, che indicano una chiusura annuale oltre il raddoppio. Unicorni, spac ed acquisizioni non si contano più. Questo ecosistema, altamente integrato verso la Silicon Valley ed il Nasdaq, improvvisamente, trova dietro casa un hub globale con un'enorme liquidità ma soprattutto con simili ambizioni. Cosa genererà questo matrimonio è tutto da vedere e da scoprire, ma l'eccitazione è palpabile.
«Non vedo l'ora di venire finalmente in Israele» mi dice la moglie del principe ereditario di uno degli emirati in un incontro riservato, «boker tov» (buongiorno, in ebraico) il concierge dell'albergo che da ragazzo aveva lavorato all'Hilton di Taba. Dall'alto al basso c'è una gran voglia di conoscersi e questo sentimento non si ferma agli Emirati. La proiezione regionale di Dubai è ben percepibile all'Expo visitato da tanti stranieri, soprattutto dei vicini paesi arabi, su tutti i sauditi. Dopo aver partecipato all' inaugurazione del padiglione israeliano decido di fare una visita all'enorme padiglione dell'Arabia Saudita, uno dei più belli dell'Expo. E qui, forse, che la mia kippà ha destato più interesse. «Grazie di essere venuto» mi ha accolto il responsabile, tra gli occhi un po' stupiti dei visitatori. Gli ho detto che spero di visitare il suo Paese un giorno, «sei sempre il benvenuto». E che ci sia presto anche con voi la pace, ho aggiunto. Inshallah (se Dio vuole) abbiamo detto all'unisono.
E questo Inshallah che mi accompagna mentre il mio volo di ritorno attraversa il Giordano ed entra nello spazio aereo israeliano sopra Gerico. «Alla vostra sinistra la Città Santa di Gerusalemme» dice il pilota mentre tutti ammirano quest' inedito atterraggio da est. Ed io ho l'impressione, dalla mia «Gerusalemme celeste», che il nuovo assetto regionale ci regalerà grandi soddisfazioni. Inshallah!
* Presidente Jewish Economie Forum e Generai Partner di Sixth Millennium Venture Partners
(MF, 27 ottobre 2021)
Eitan, il nonno e i tanti motivi di uno sbaglio
di Fiamma Nirenstein
Non ho nessuna intenzione di sostenere che Shmuel Peleg abbia ragione, e nemmeno la moglie Esther, anche se il loro strazio è così sincero ed evidente. Le loro ragioni di genitori, figli e nonni deprivati di tre generazioni di affetti, cui ora viene strappato anche l'ultimo virgulto, spezzano il cuore ma non giustificano il rapimento. La legge è chiara: non si può ottenere la custodia di un bambino rapendolo e il tribunale israeliano ha fatto bene ad agire secondo la legge. Così del resto fa abitualmente: Israele è un Paese ubbidiente alla legge internazionale, al contrario di quello che si vocifera. Spiegare però non vuol dire giustificare; è giusto comunque cercare di capire perché Peleg abbia violato le norme in modo, alla fine, masochistico. Per farlo si può avventurarsi cautamente senza conoscere il soggetto, fra le possibili colonne psicologiche di una persona come lui, sempre tenendo ferma l'idea che il suo gesto forzoso è frutto di un tratto particolare.
E tuttavia, pensiamo. Israele non è un Paese qualunque; non è come se Eitan fosse stato trasportato che so, dalla Danimarca all'Olanda. Ci sono voluti secoli, decine di migliaia di morti, guerre senza fine, fame incommensurabile, lavoro miracoloso, rischi e audacie inimmaginabili per farne un Paese dove il popolo ebraico finalmente «torna». Questa è la parola chiave. Ci si torna anche quando non ci è mai stati, è il Paese del ritorno del popolo ebraico, religioso o laico, dall'esilio. Per Peleg è del tutto logico, anche contro il senso comune, che Eitan «torni» a casa; e «casa» è per lui in Israele, qui è la sua naturale radice secondo la logica di un uomo della sua generazione, la sua vita. Esther, la moglie, ha anche spiegato che qui il bimbo ha una famiglia molto vasta e adorante con cui è stato sempre in contatto, dove la figlia voleva tornare, e che, secondo lei, nel suo abbraccio di Shabbat, di ogni festa comandata, è l'indispensabile cemento per guarigione di Eitan dal dolore. «Famiglia» è una parola chiave in Israele.
La terza parola chiave per capire (non per giustificare) è «conversione»: non necessariamente e non soltanto conversione religiosa, ma ogni cancellazione forzosa, ambientale, dovuta a assimilazione o a educazione, o a forzatura, dell'identità di un ebreo. Questo è insopportabile per chi appartiene a un popolo che si è tentato di cancellare tante volte, di convertire, di assimilare, di considerare superato, archeologico, destinato a sparire. Magari in Italia Eitan riceverà un'educazione ebraica nel senso del popolo ebraico... Ma è ovvio, per il nonno, che il suo nido naturale sia Israele, che esiste per questo: gli ebrei sono stati minacciati di scomparsa totale molte volte, in molti esilii, e restare un popolo unito è stata la grande sfida fino nella Shoah. Cristiani, musulmani e anche Napoleone hanno immaginato che fosse indispensabile per gli ebrei cambiare strada. Ma un ebreo anche se non è religioso resta fedele al suo popolo. È un istinto indispensabile alla sopravvivenza. Infine il gesto pazzoide dell'aereo privato: per carità, nessuna giustificazione. Ma si chiama sfida estrema. Israele a fronte di avventure fatali si è avventurato spesso in gesti in cui l'audacia sfida il senso di realtà, tipo l'operazione segreta che ha riportato gli ebrei etiopi in Israele. Niente in comune, sia chiaro, ma spero così di spiegare una mentalità di sopravvivenza. Peleg ha sbagliato, ma non è stato solo: i giudici italiani, la zia, tutti hanno tirato la corda sin dall'inizio nell'affidare, nel pretendere, nello strapparsi una creatura che ha bisogno solo di un amore che metta tutti d'accordo. La storia biblica di re Salomone insegna. Le due famiglie si devono avvicinare, per Eitan.
(il Giornale, 27 ottobre 2021)
Se i parenti israeliani avessero espresso il loro dolore per quello che è successo nel passato, il loro disagio per quello che sta avvenendo nel presente, il loro desiderio di quello che vorrebbero vedere nel futuro in Israele, e se avessero considerato che il bene del ragazzo non poteva essere il coinvolgerlo in quel trauma familiare che poi è stato, avrebbero certamente trovato la comprensione di molti. E potrebbero trovarla ancora se almeno smettessero di insistere, anche perché non trovano intorno a loro persone che li "comprendono" anche per quello che hanno fatto. M.C.
Giustizia resa a Eitan. Un'altra prova della civiltà d'Israele
Lettera a “La Verità”
Il tribunale di Tel Aviv era chiamato a giudicare sulla legittimità dell'espatrio forzato del piccolo Eìtan ad opera del nonno paterno. Con un rapido procedimento ha stabilito che Eitan deve tornare in Italia, ritenendo illegittimo il sostanziale sequestro di persona operato dal nonno paterno. L'esecuzione della sentenza è sospesa per i prossimi sette giorni, termine entro il quale il nonno paterno potrà presentare ricorso. Di fronte a un tribunale che si pronuncia in maniera così rapida e chiara c'è solo da essere ammirati: chapeaul Soprattutto c'è da constatare che Israele costituisce l'unico faro di civiltà in una regione del mondo dominata da governi teocratici e dittature che si prefiggono di annientare il popolo ebraico, con tutto quello che rappresenta per la storia dell'umanità. Se Eitan fosse stato orfano di genitori musulmani e fosse stato portato in un qualsiasi Paese arabo dal nonno musulmano, non ci vorrebbe molta fantasia per ipotizzare una sentenza di segno opposto. Eppure nei salotti televisivi imperversano gli intellettuali radical chic che discettano sulla civiltà dei Paesi islamici e sui valori che incarnano.
Riccardo Mastroianni
(La Verità, 27 ottobre 2021)
Ambasciatore d'Israele, sentenza Eitan prova l'indipendenza dei giudici
"La decisione della corte in Israele" sul ritorno in Italia di Eitan Biran, il piccolo sopravvissuto alla tragedia del Mottarone, "è una testimonianza dell'indipendenza del sistema legale in Israele. Aspettiamo l'appello, ma intanto auguro a lui buona vita".
Lo ha detto l'ambasciatore israeliano a Roma, Dror Eydar, in un Forum all'ANSA.
"Dal momento in cui questa tragedia è successa, abbiamo accompagnato le due famiglie. Sono andato a Torino per essere accanto alle famiglie e aiutarle. Quando ho visto il piccolo Eitan che è uscito dalla stanza d'emergenza non potevo restare lontano, ho chiesto di avvicinarmi e gli ho dato una benedizione. Tutti erano insieme in quella stanza, ebrei e cristiani hanno pregato insieme per questo bambino", ha raccontato l'ambasciatore Eydar.
(ANSA, 27 ottobre 2021)
Stati Uniti, il rapporto sullo stato dell'antisemitismo
"Un ebreo su quattro è stato preso di mira nell'ultimo anno"
NEW YORK - Negli Stati Uniti un ebreo su quattro è stato preso di mira nell'ultimo anno mentre quattro su dieci hanno modificato i propri comportamenti per nascondersi. Numeri che dovrebbero suonare allarmanti per tutti gli americani, sottolinea il Ceo dell'American Jewish Committe (Ajc) David Harris. L'organizzazione ebraica tra le più antiche e importanti negli Stati Uniti ha descritto il suo ultimo rapporto sullo "Stato dell'antisemitismo in America nel 2021" come "il più grande sondaggio di questo genere mai condotto": con dati di più di 1.400 intervistati della comunità ebraica analizzati in parallelo a quelli raccolti nel resto della popolazione.
Anche se tra gli intervistati la maggioranza degli ebrei americani e del pubblico americano concorda sul fatto che la diffusione dell'antisemitismo sia un problema molto serio negli Stati Uniti - con il 90% degli ebrei che lo considera un grave problema rispetto al 60% del resto delle persone consultate - o almeno un problema, la percezione che il fenomeno stia peggiorando è diversa. L'82% degli ebrei americani crede che l'antisemitismo sia aumentato negli Stati Uniti negli ultimi cinque anni, mentre solo il 44% del resto degli intervistati è d'accordo.
Nell'ultimo anno un ebreo americano su quattro, il 24%, è stato vittima di antisemitismo. Il 17% è stato oggetto di osservazioni antisemite di persona, mentre il 12% ha dichiarato di essere stato bersaglio online o sui social media. Ad aver subito attacchi fisici sono stati il 3% degli intervistati. Secondo il sondaggio dell'Ajc, tutto questo ha spinto molti a cambiare le proprie abitudini, limitando le proprie attività. Quattro ebrei su dieci, il 39%, affermano di aver evitato di pubblicare contenuti online o opinioni sulle questioni ebraiche, alcuni non hanno indossato o mostrato pubblicamente oggetti che avrebbero consentite ad altri di identificarli come ebrei. Altri hanno preferito evitare certi luoghi, eventi o situazioni in cui avrebbero messo a rischio la propria sicurezza, a essersi nascosti sono soprattutto i giovani: il 52% degli intervistati tra i 19 e i 29 anni.
La paura nella comunità si è maggiormente diffusa in seguito agli attacchi alla comunità ebraica di maggio. Il 72% degli intervistati ha detto di essersi sentito meno sicuro nel Paese da quei giorni, tra il 10 e il 22 maggio, in cui l'esplosione del conflitto fra Israele e Gaza ha causato violenze antisemite nelle strade di diverse città americane come Los Angeles e New York. Gli attacchi nei confronti di persone, negozi e sinagoghe sono stati così numerosi che il sindaco della Grande mela Bill de Blasio ha intensificato la sorveglianza nelle zone di culto e nei centri ebraici. "L'odio antisemita non ha diritto di cittadinanza né qui né altrove", aveva detto invece il presidente Joe Biden in suo intervento.
"Gli ebrei americani vedono l'antisemitismo nell'estremismo di destra e sinistra, tra gli estremisti che agiscono in nome dell'Islam e altrove in tutta l'America”, ha detto Harris. “È il 2021 e un numero inquietante di ebrei in America ha paura di identificarsi apertamente come ebreo per paura di un attacco. Dov'è l'indignazione? Dov'è il riconoscimento che l'antisemitismo inizia con gli ebrei ma, prende di mira il tessuto e la fibra di qualsiasi società democratica?". Il 53% degli ebrei intervistati approva la risposta di Biden, ma per molti le violenze nei confronti della comunità ebraica sono prese meno sul serio rispetto ad altre forme di odio e fanatismo.
Un anno fa, quasi la metà degli americani intervistati da Ajc non sapeva neanche cosa fosse l'antisemitismo, o non aveva mai nemmeno sentito il termine. Quest'anno, due terzi degli intervistati ha affermato di sapere cos'è e di averlo visto con i propri occhi. Il fatto che quattro americani su dieci abbiano assistito all'antisemitismo è inquietante, ma indica anche che si stanno sensibilizzando a questi temi,secondo le conclusioni dell'indagine. Allo stesso tempo, però, la discrepanza tra ebrei e non ebrei americani sul fatto che fenomeni di odio razziale stiano peggiorando e le violenze dell'ultimo anno che hanno accresciuto il senso di insicurezza per molti ebrei indicano che c'è ancora molto lavoro da fare.
(la Repubblica, 27 ottobre 2021)
Francia, apre il primo museo del mondo dedicato all’Affaire Dreyfus
di David Di Segni
Il presidente francese Emmanuel Macron ha inaugurato il primo museo al mondo dedicato all’Affaire Dreyfus, la persecuzione illecita ed antisemita attuata nei confronti del capitano ebreo dell'esercito Alfred Dreyfus. Sita nel sobborgo parigino di Médan, la struttura presenta almeno cinquecento reperti, tra cui fotografie, documenti del tribunale e oggetti personali che rappresentano il lungo calvario (1894 – 1906) concluso con l'esonero di Dreyfus dalle false accuse per spionaggio, come riporta il The Times of Israel.
Il Museo Dreyfus fa parte della Zola House, istituzione culturale dedicata a preservare la memoria del celebre scrittore francese che ebbe un ruolo chiave nel guidare l'opposizione e le proteste contro l'ingiustizia fatta a Dreyfus. Chiusa per lavori di ristrutturazione per oltre un decennio – lavoro stimato intorno ai 6 milioni di dollari, in gran parte provenienti da sussidi governativi, secondo CNews – la struttura, nonché originale abitazione in cui visse lo scrittore, riaprirà con l'aggiunta del Museo Dreyfus, il prossimo 28 ottobre.
All’interno, appesi alle pareti, ci sono dei testi giganti che nominano concetti come "Giustizia, "Tradimento" e "Innocenza", ed anche copie di caricature antisemite pubblicate sui principali quotidiani francesi dell’epoca. Parte espositiva è dedicata a Emile Zola, al suo ruolo nel processo Dreyfus, immortalato nel 1898, quando scrisse "J'accuse" (Io accuso): una lettera aperta con cui criticava la persecuzione antisemita in atto. Dopo la pubblicazione dell'articolo, lo scrittore francese fu processato per diffamazione e fuggì dal paese vivendo i suoi ultimi anni in esilio. Nel 1899, Dreyfus fu graziato dal presidente francese e scarcerato, e nel 1906 una commissione militare lo esonerò ufficialmente. Il processo ebbe ampie implicazioni sul secolo successivo del pensiero ebraico: Theodor Herzl, che molti considerano il padre del moderno sionismo laico, seguì il processo come giornalista e in seguito descrisse l’Affaire Dreyfus come un momento spartiacque nel suo sviluppo ideologico da ebreo assimilazionista a sionista.
Il museo originariamente prevedeva di aprire nel 2019, ma una serie di battute d'arresto, tra cui la pandemia di COVID-19, ha ritardato l'apertura. Il direttore del museo e dell'istituzione, Louis Gautier, ha detto a CNews che il nuovo spazio “mostrerà e racconterà la vicenda, ma porrà anche domande su questioni vitali di tolleranza, alterità, diritti umani, diritti delle donne, separazione tra chiesa e stato e il contratto tra la repubblica e i suoi cittadini”.
(Shalom, 27 ottobre 2021)
Israele, i piani di attacco contro l'Iran potrebbero richiedere più di un anno per essere pronti
Mentre imperversa il dibattito sull’ulteriore incremento di budget delle Difesa, in previsione di un possibile attacco contro gli impianti nucleari dell’Iran.
Il Times of Israel ha riferito lunedì di "aver appreso" che alcuni aspetti del piano sono attualmente in fase di "bozza" e potrebbero essere pronti per l’attuazione entro l'inizio del 2022, mentre le parti più complesse dell'operazione potrebbero richiedere più di un anno per rendere l’operazione "completamente attuabile". La forza di difesa israeliana dovrebbe prima affrontare tutta una serie di aspetti chiave di tale operazione, quali raggiungere le strutture iraniane nascoste in profondità, sopravvivere alla sofisticata e avanzata rete di difesa aerea e prepararsi per le previste ritorsioni contro Israele e i suoi alleati in tutta la regione, ha osservato l'outlet online. I regolari attacchi aerei contro obiettivi siriani, che Israele spesso afferma essere iraniani, stanno aiutando l'IAF (Israeli Air Force) a prepararsi anche per un'operazione contro lo stesso Iran. Attraverso questi attacchi segreti e illegali, i piloti israeliani stanno familiarizzando con alcuni dei radar avanzati, dei sistemi missilistici e dei centri di comando che potrebbero incontrare in Iran. "Alla luce di queste migliorate capacità difensive siriane e iraniane di recente impiego, l'IAF negli ultimi mesi ha aggiornato i suoi metodi, utilizzando formazioni più grandi con più aerei per condurre attacchi su più bersagli contemporaneamente, invece di effettuare più attacchi utilizzando formazioni più piccole”, ha scritto il Times of Israel. Come riportato da Sputnik, alcune di queste tattiche includono il lancio di attacchi aerei, mentre aerei civili - o anche aerei russi, come in un attacco del 2018 - si trovano nello spazio aereo vicino, impedendo ai sistemi di difesa aerea siriani di reagire per paura di colpire gli astanti. Gerusalemme ha negato di usare tali tattiche. Il rapporto del Times of Israel apparentemente contraddice un rapporto precedente di Channel 12 News, secondo il quale il capo di stato maggiore dell'IDF, Aviv Kochavi, aveva ordinato all'IAF di addestrarsi "intensamente", per un attacco alle strutture centrali del programma nucleare iraniano, facendo pensare a qualcosa di imminente. Nonostante il pessimismo israeliano sui colloqui a Vienna, volti a ripristinare il Piano d'azione globale congiunto 2015 (JCPOA), di cui Israele ha sempre avuto una visione sbiadita, gli Stati Uniti e l'Iran hanno entrambi espresso il desiderio di tornare a raggiungere un accordo duraturo. Un settimo round dei colloqui dovrebbe iniziare la prossima settimana, il primo da quando il nuovo presidente iraniano Ebrahim Raisi si è insediato ad agosto. L'amministrazione Trump si era ritirata unilateralmente dall'accordo nucleare nel 2018, sulla base di affermazioni mai dimostrate, secondo cui l'Iran lo stesse segretamente violando. Il JCPOA limita fortemente la qualità e la quantità di uranio che l'Iran può arricchire, consentendone una piccola quantità per alcune centrali nucleari e per la ricerca medica. Tuttavia, dopo la mossa degli Stati Uniti, che ha riportato sanzioni economiche distruttive e ha peggiorato la pandemia di COVID-19 nel Paese, l'Iran ha iniziato a ridurre i suoi impegni nei confronti di quell'accordo oramai stracciato. Lunedì, l'Associazione internazionale per l'energia atomica (AIEA) ha affermato che l'Iran ha iniziato ad aumentare il suo arricchimento di uranio presso l'impianto di Natanz oltre il limite autoimposto del 20%, osservando, tuttavia, che in realtà sarebbe molto lontano dai livelli di purezza necessari a scopi militari, che è del 90% almeno.
(Sputnik Italia, 26 ottobre 2021)
Alle Canossiane aspettano Eitan in classe. E a Travacò sono pronti a fare festa
Nella scuola di Pavia il piccolo è iscritto alla prima elementare. Intanto la bella notizia corre sulle chat dei genitori.
di Sandro Barberis
PAVIA - Da settimane i suoi compagni di scuola lo aspettano, il suo banco è vuoto da maggio. Ma tra una settimana potrebbe tornare occupato. Dopo la sentenza del tribunale israeliano, le maestre e i compagni attendono il ritorno di Eitan nella scuola delle suore Canossiane di corso Garibaldi a Pavia.
Dall’istituto c’è poca voglia di parlare. «Aspettiamo comunicazioni ufficiali, abbiamo sentito dai media della notizia: quando tutto sarà definito ci organizzeremo», spiegano dalla direzione della scuola. Anche tra i genitori dopo settimane di silenzio, comunque si è tornato a parlare di Eitan Biran anche nella chat dei genitori. «Lo aspettiamo, è mancato ai suoi compagni» spiegavano ieri i genitori della scuola.
La notizia del ritorno di Eitan, ordinato dal tribunale di Tel Aviv, è arrivata ieri quando la giornata scolastica volgeva già al termine. Non c’erano ancora cartelli o segnali tangibili davanti all’istituto di corso Garibaldi a testimoniare la gioia per il rientro in Italia di un compagno che tanto mancava ai suoi amici che nei mesi gli hanno fatto pervenire disegni e messaggi di vicinanza.
Eitan è stato iscritto regolarmente alla prima elementare nella scuola privata di matrice cattolica che frequentano anche le sue cuginette, figlie di sua zia Aya e Or Nirko. L’unico superstite della strage del Mottarone aveva già frequentato tutta la scuola materna nell’istituto religioso di corso Garibaldi, a settembre avrebbe dovuto quindi proseguire nel suo percorso scolastico. Ma proprio alla vigilia dell’inizio delle lezioni è avvenuto il “fattaccio”, quando il nonno materno Shmuel Peleg ha prelevato il bambino da Travacò e l’ha portato in auto a Lugano e poi con un jet privato a Tel Aviv.
Mentre la scuola si prepara a riabbracciare Eitan Biran, lo stesso sta facendo anche Travacò. Il bambino, prima della strage del 23 maggio in cui ha perso genitori, fratellino di due anni e due bisnonni, viveva in Borgo di Pavia. Ma dal 10 giugno, quando è stato dimesso dall’ospedale pediatrico Regina Margherita di Torino dove era ricoverato dal pomeriggio della tragedia del Mottarone, vive alla frazione Rotta di Travacò a casa degli zii Aya Biran (sorella di suo padre) e Or Nirko con le loro due figlie che hanno circa la stessa età di Eitan. A poca distanza, sempre a Travacò, vivono anche i genitori di Aya.
Ieri i nonni di Eitan erano a casa, ma non hanno voluto parlare. L’auto famigliare con cui gli zii Aya e Or spesso si spostavano era parcheggiata in cortile, la buca delle lettere della casa degli zii era piena e le finestre sbarrate. Aya è in Israele e negli scorsi giorni è stata raggiunta anche dal marito Or Nirko. Poche ore dopo la notizia della sentenza di Tel Aviv davanti alla villetta sono tornate le telecamere delle televisioni nazionali.
«Finalmente Eitan potrà tornare in quella che era la sua casa, è cresciuto qui - spiegano Giuseppe Ciurleo ed Elena Milanesi, che gestiscono una frequentata lavanderia proprio davanti alla casa degli zii Aya ed Or -. Il bambino l’abbiamo visto fino a prima del rapimento, già si deve portare dietro un peso enorme per la tragedia che ha vissuto. L’importante è che possa costruirsi una vita dove è cresciuto. Siamo felici per gli zii e i nonni, persone per bene che in questi mesi si sono impegnati per aiutare Eitan».
Davanti all’abitazione della frazione Rotta è arrivata anche la sindaca del paese, Domizia Clensi. «Una notizia positiva, Eitan è un cittadino di Pavia dove viveva con i suoi genitori e il suo fratellino morti nella tragedia, e poi di Travacò dove è venuto a vivere a casa della zia Aya - ha detto Clensi -. Non sappiamo ancora quando tornerà, di sicuro voglio portare il mio saluto agli zii quando saranno tranquilli. Tutto ciò che hanno vissuto è stato una tragedia, abbiamo sempre rispettato al massimo la loro volontà di avere privacy intorno a questa vicenda. Però se lo vorranno siamo pronti ad organizzare una festa per Eitan, quando tornerà a Travacò. Questa è casa sua, come ha ribadito anche il tribunale di Tel Aviv».
(la Provincia Pavese, 26 ottobre 2021)
Sono un cristiano evangelico che ha sempre preso distanze nette dalla Chiesa Cattolica istituzionale. I miei figli hanno frequentato solo scuole statali e sono stati esentati anche dall'ora di religione. E tuttavia in questo caso dico che sono contento se Eitan tornerà in Italia per cominciare la scuola elementare nell'istituto in cui i genitori avevano deciso di iscriverlo. Lo scippo compiuto dai parenti israeliani del bambino è vergognoso, e fa onore alla magistratura israeliana di non aver derogato alle norme giuridiche previste in questi casi. Sono i difensori dello scippo che devono vergognarsi, tanto più quanto invocano a pretesto il mantenimento dell'«ebraicità israeliana». Fanno fare miglior figura alle suore. M.C.
Chi rapisce un uomo, sia che lo venda, sia che gli si trovi fra le mani, sarà messo a morte.
Esodo 21:16
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La crisi economica irrisolta potrebbe portare il generale al Burhan a frenare sulle aperture
di Michele Giorgio
GERUSALEMME - Silenzio. Nessun commento ufficiale israeliano al colpo di stato in Sudan. Almeno fino a ieri sera. Dietro le quinte, comunque, i vertici politici e militari israeliani seguono con attenzione, e qualche timore, gli sviluppi da un paese arabo con il quale lo Stato ebraico, appena un anno fa, ha normalizzato le relazioni. Il golpe è giunto mentre Tel Aviv intensifica gli sforzi per stringere legami più forti con Khartoum con risultati modesti. «La sua situazione interna ha messo alla prova la capacità del Sudan di far progredire i legami con Israele come hanno fatto gli altri paesi», ha detto una fonte diplomatica israeliana al quotidiano Haaretz riferendosi agli Accordi di Abramo tra Israele e quattro paesi arabi. IL SUDAN È STRATEGICO per gli interessi israeliani come Emirati e Bahrain. Se questi due paesi hanno portato Israele sulle rive del Golfo, proprio di fronte al nemico iraniano, il Sudan è centrale per il controllo dell'area tra il Mar Rosso e l'Oceano Indiano. Le ultime settimane hanno visto ripetuti contatti tra i funzionari sudanesi e le loro controparti israeliane. Malgrado ciò, Khartoum questo mese ha contestato l'assegnazione a Israele dello status di osservatore all'Unione africana. Quindi a Tel Aviv si pongono interrogativi sulle mosse del generale Abdel Fattah al Burhan, l'uomo dietro al golpe. In apparenza al Burhan resta favorevole alla normalizzazione con Israele. I rapporti con lo Stato ebraico sono la chiave che il Sudan ha a disposizione per garantirsi possibili finanziamenti statunitensi oltre a quelli internazionali. Il comandante militare sudanese lo sa e lo scorso gennaio ha incontrato a Khartoum il ministro dell'intelligence israeliana, Eli Cohen, dichiarando il suo appoggio alla normalizzazione dei rapporti con Israele. Avrebbe però nascosto agli americani la decisione di andare al colpo di stato. Ma è da provare, perché a sostenerlo è l'ambiguo inviato speciale degli Stati Uniti Jeffrey Feltman - già spargitore di guai tra Libano e Siria - che ieri ha riferito dell'allarme degli Usa per gli ultimi sviluppi. SEGNALI CHE TURBANO gli israeliani. Anche perché a parte le intese sulla sicurezza, i progetti agricoli e tecnologici tra Israele e Sudan non sono stati attuati come previsto e l' accordo di un anno fa attende ancora la ratifica dal parlamento sudanese. L'opinione pubblica sudanese è spaccata sui rapporti con gli israeliani, pro e contro gli accordi di Abramo. E i militari potrebbero congelare la questione ritenendo la ratifica non urgente poiché la normalizzazione non ha portato risultati tangibili al Sudan che pure in politica estera si è allontanato dall'Iran per abbracciare Usa, Israele e i loro alleati arabi. L'ECONOMIA SUDANESE è stata particolarmente colpita dal Covid si è contratta del 3,6% nel 2020 e il Fondo monetario internazionale prevede che crescerà quest'anno dello 0,9% e del 3,5% nel 2022. Livelli che non permetteranno al Sudan di creare lavoro sufficiente per i giovani e di contenere la povertà. Condizioni che, non si può escludere, potrebbero spingere Al Burhan e gli altri capi militari a frenare l'apertura all'Occidente e a Israele se nel frattempo non otterranno gli aiuti per il loro paese. Sul Sudan non ci sono in queste ore solo gli occhi di Israele e Stati uniti. L'Egitto, ad esempio, ha stretto i rapporti con Khartoum dopo la caduta nel 2019 del leader sudanese Omar al Bashir alleato dei Fratelli musulmani nemici del regime di Abdel Fattah el Sisi. E ha investito non poche risorse nell'assistenza alle forze armate di Khartoum. Si aspetta perciò che il generale Al Burhan ricambi il favore adottando una posizione più rigida e più fedele a quella del Cairo nella pericolosa controversia con l'Etiopia che si prepara, nei prossimi mesi, a proseguire il riempimento della diga Gerd sul Nilo. Un progetto che Addis Abeba ritiene fondamentale per lo sviluppo dell'economia etiope e che il Cairo invece considera una minaccia alla sua esistenza perché ridurrà nei prossimi anni la quota di acqua destinata all'Egitto. KHARTOUM HA APPOGGIATO solo fino ad un certo punto le ragioni dei «fratelli egiziani», pare su indicazione del premier deposto Abdallah Hamdok contrario a una rottura traumatica con l'Etiopia. Adesso con il potere tutto nelle mani di Abdel Fattah al Burhan le cose potrebbero prendere un'altra piega.
(il manifesto, 26 ottobre 2021)
I telegrammi dal Bunker: l'urlo finale di Hitler
Dagli ordini alle divisioni fantasma all'appunto di Bormann sul "tradimento" di Göring, ecco i documenti salvati da un soldato francese
di Roberto Giardina
Un giovane ufficiale francese nella Berlino in macerie si portò via un pezzo di storia come souvenir, e lo conservò in soffitta fino alla morte. Dopo 76 anni, due storici, Xavier Aiolfi e Paul Villatoux, pubblicano quei documenti, lettere e telegrammi di Adolf Hitler, spediti e ricevuti nelle ultime ore del Reich, nel Bunker di Berlino. Finora le decisioni finali del Führer erano state ricostruite grazie a tre testimonianze ritrovate in altri luoghi in Germania. Alla fine dell'aprile 1945, i nazisti avevano cercato di bruciare gli archivi, le poche carte rimaste furono portate via dai soldati sovietici, i primi a conquistare Berlino, e a irrompere nel Bunker, non lontano dalla Cancelleria. Trovarono anche i resti semicarbonizzati di Hitler e di Eva Braun. Il Führer si era tolto la vita insieme con la compagna, sposata in extremis, dando ordine che i loro corpi venissero bruciati. Ma quel che accade è confuso e contraddittorio, tanto che nacquero leggende, a cui molti si ostinano ancora a credere. Hitler era riuscito a fuggire dalla sua capitale in fiamme, per nascondersi in Sud America? Il capitano Michel Leroy, non ancora trentenne, giunse a Berlino qualche mese dopo la fine della guerra, ln novembre, e volle andare a visitare il Bunker. In una stanzetta in fondo a un corridoio, a dodici metri di profondità, sotto un cumulo di detriti, calcinacci e mobili a pezzi, trovò un fascio di carte e se le portò via, in tutto una settantina di documenti. Non cerco di venderle ai cacciatori di souvenirs, anche se avrebbe ottenuto una piccola fortuna. Leroy è morto più che novantenne, e i nipoti hanno trovato quel "bottino di guerra" dimenticato in soffitta nel novembre del 2016. E lo hanno consegnato ai due storici, che lo pubblicano nel libro The Final Archive of the Führerbunker (editore Casemate). «È una testimonianza storica importantissima», dichiara Xavier Aiolfi. Il documento più importante è il telegramma del Führer all'Alto Comando della Wehrmacht, il 16 aprile, in cui dà ordini per organizzare l'ultima difesa di Berlino, sposta divisioni ormai accerchiate dagli Alleati, o impartisce istruzioni a divisioni fantasma, annientate da un paio di anni. La prova della follia di Hitler che sperava ancora di bloccare l'Armata Rossa, per costringere americani e inglesi o concedergli un armistizio, per non favorire l'Unione Sovietica. È incredibile che qualcuno gli obbedisse e gli credesse ancora. Quando i reparti sovietici erano giunti a poche decine di metri del Reichstag, le SS costringevano le ultime reclute, ragazzi di quindici anni, a affrontare con i fucili i panzer dell'Armata Rossa, e impiccavano ai lampioni quelli che cercavano di mettersi in salvo. In un messaggio alla moglie Gerda, che si trovava nelle Alpi Bavaresi con i dieci figli, Martin Bormann, il segretario del Fùhrer, scrive: «Ormai è finita, ma il capo rimarrà qui qualunque cosa accada». Lui rimane fedele. Nel Bunker alle 15 del 23 aprile giunge il dispaccio di Hermann Gòrinq, che chiede di prendere il comando del Reich: «Se lei rimane a Berlino, e non sarà più in condizione di agire». Se entro le 22, non riceverà risposta, Göring si considererà l'erede legittimo di Hitler. Bormann blocca tutta la posta in arrivo, e corre da Hitler per denunciare il «tradimento». Il Führer è preso da un accesso di ira, e ordina (consigliato dal segretario) di mettere Göring agli arresti, in attesa del processo e della condanna a morte. Un altro ordine che non può essere eseguito. Tra tanti documenti, anche un disegno a pastello mandato a Bormann, 45 anni, da una delle sue figlie: fiori variopinti e farfalle, che il padre appese alla parete della sua stanzetta. Il simbolo di un mondo pacifico e felice, il sogno di una bambina. Hitler si uccise il 30 aprile, Bormann tentò di lasciare il Bunker il 2 maggio, e scomparve. A lungo si credette che vivesse nascosto in Argentina, ma i suoi resti furono trovati nel '72. Forse si tolse la vita, o fu ucciso da un soldato. Non è stato possibile distruggere il Bunker, dalle pareti spesse quattro metri. Oggi è nascosto sotto un parco giochi per bambini.
(ItaliaOggi, 26 ottobre 2021)
Arabia Saudita-Israele: oggi primo volo diretto tra Riad e Tel Aviv
Si tratta di un ulteriore passo verso la normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi
Il primo volo diretto tra Arabia Saudita e Israele, operato dalla compagnia emiratina Emirati Royal Jet airline, partirà questo pomeriggio dall’aeroporto di Riad e atterrerà in serata a Tel Aviv. Lo riferisce il sito web d’informazione israeliano “Kan News”. Il volo, il primo diretto tra i due Paesi, rappresenta un ulteriore passo verso la normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi. Secondo il sito di analisi “Axios” , a fine settembre il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan ha posto il dossier della normalizzazione con Israele durante il suo incontro con il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, il quale non l’avrebbe rifiutata a priori, ponendo una serie di condizioni, tra cui un miglioramento delle relazioni tra l’amministrazione di Joe Biden e la Casa reale saudita. Qualsiasi mossa saudita per normalizzare le relazioni con Israele sarebbe molto probabilmente parte di un accordo più ampio che potrebbe includere passi da parte israeliana, sulla questione palestinese, e da parte Usa per ripristinare le relazioni tra l’attuale presidenza Biden con il principe ereditario saudita che, a differenza dell’amministrazione di Donald Trump, è visto dall’attuale inquilino della Casa Bianca con sospetto a causa delle accuse di violazione dei diritti umani e per il suo presunto coinvolgimento nell’omicidio dell’editorialista del quotidiano “Washington Post”, Jamal Khashoggi. Secondo i media statunitensi, il tema della normalizzazione dei rapporti con lo Stato ebraico sarebbe stato affrontato anche nell’incontro tra il ministro degli Esteri saudita, Faisal bin Farhan e il segretario di Stato Usa, Antony Blinken lo scorso 14 ottobre a Washington, il giorno dopo l’incontro trilaterale a Washington tra i responsabili della diplomazia di Usa, Emirati e Israele.
(Nova News, 25 ottobre 2021)
Bennett annuncia grossi investimenti nel settore arabo
Il governo israeliano ha approvato un piano quinquennale con cui intende chiudere il divario fra il settore ebraico e quello arabo in Israele. A questo fine sono stati stanziati 30 miliardi di shekel (8,6 miliardi di franchi) da investire negli anni 2022-2026.
Il governo israeliano ha approvato un piano quinquennale con cui intende chiudere il divario fra il settore ebraico e quello arabo in Israele. A questo fine sono stati stanziati 30 miliardi di shekel (8,6 miliardi di franchi) da investire negli anni 2022-2026.
Lo ha reso noto il premier Naftali Bennett secondo cui il suo governo è determinato a far avanzare il settore arabo. «Tanto più investiremo nell'educazione, nella matematica, e nelle scienze nel settore arabo – ha osservato fra l'altro – tanto più la partecipazione araba nel mercato high-tech crescerà e tutti ne beneficeremo».
Il piano prevede investimenti per 1,4 miliardi di shekel da destinarsi a corsi di aggiornamento professionale e di istruzione dell'ebraico. Altri fondi saranno dedicati al potenziamento dei servizi medici e della prevenzione delle malattie. Il governo sosterrà inoltre nel settore arabo progetti edili che già nel 2022 riguardano la costruzione di 5000 alloggi.
Queste decisioni giungono mentre il governo è impegnato in parallelo a misurarsi con una forte ondata di criminalità sviluppatasi nel settore arabo ed imputata fra l'altro a radici sociali.
(blue News, 25 ottobre 2021)
Tragedia della funivia, Eitan deve tornare in Italia. La sentenza della corte israeliana
Il bambino era stato portato in Israele dal nonno materno, che nel nostro Paese è indagato per rapimento
di Sharon Nizza
Eitan deve tornare in Italia: è la decisione della giudice Iris Ilotovich-Segal del tribunale della famiglia di Tel Aviv. La sentenza è stata emessa oggi, nel rispetto delle tempistiche stabilite dalla Convenzione dell'Aia su minori sottratti. "Il nonno ha allontanato illecitamente il bambino dal suo luogo di residenza abituale, violando i diritti di custodia della zia del minore" ha scritto la giudice, stabilendo quindi che il piccolo Eitan dovrà tornare in Italia sotto la tutela della zia paterna Aya Biran. "Pur accogliendo con favore la sentenza della giudice, in questa vicenda non c'è vincitore né perdente. C'è solo Eitan", hanno dichiarato i legali della famiglia Biran, Shmuel Moran e Avi Chimi. "Tutto ciò che chiediamo ora è che Eitan ritorni presto a casa sua, dai suoi amici a scuola e dalla sua famiglia, e soprattutto nelle strutture terapeutiche ed educative di cui ha disperatamente bisogno". Ancora non è chiaro se il bambino dovrà fare rientro immediato in Italia, o se l'esecutività della sentenza verrà sospesa in vista di un ricorso che potrebbe essere presentato al Tribunale distrettuale di Tel Aviv dai legali di Shmuel Peleg, il nonno materno che l'11 settembre ha prelevato il nipotino dalla casa di Pavia, conducendolo in Israele all'insaputa della tutrice legale. La Corte ha ordinato a Peleg di pagare le spese legali per un importo di 70.000 Nis (circa 20.000 euro). La giudice ha rigettato tutte le contestazioni della difesa dei Peleg. Ha respinto la possibilità che Israele potesse essere considerato un secondo luogo di residenza abituale del bambino - uno dei prerequisiti richiesti dalla Convenzione dell'Aia così - come l'affermazione dei Peleg per cui proprio in considerazione della morte dei genitori del minore, andrebbe attribuita particolare importanza alla loro intenzione di tornare a vivere in Israele ai fini di determinare il normale luogo di residenza del minore. Il luogo di residenza "abituale" del minore è Pavia, insieme a sua zia, dove vive da quando aveva un mese. Ricostruendo la vicenda dal tragico incidente del 23 maggio scorso che ha portato alla morte di 14 persone sulla funivia del Mottarone, tra cui i genitori, il fratellino e i bisnonni di Eitan, la giudice si sofferma sulle contestazioni da parte dei legali dei Peleg circa la legittimità dell'affidamento del piccolo alla zia paterna due giorni dopo la tragedia, mentre le parti si trovavano all'ospedale di Torino dove Eitan allora era in rianimazione. La decisione dell'affidamento alla zia è stata presa da due tribunali in Italia, scrive la giudice, ed è tuttora in discussione nelle corti italiane (venerdì si è svolta la prima udienza del ricorso dei Peleg al Tribunale dei Minori di Milano, e le udienze sono state aggiornate ai primo di dicembre). "Pertanto, va consentita la prosecuzione della controversia legale in Italia. Il tribunale in Israele non si riunisce come Corte d'appello su decisioni e sentenze rese in una corte italiana". L'11 settembre ha continuato scrivendo: "Nell'ambito dei tempi di visita che il nonno aveva con il minore, e senza il consenso o la conoscenza della zia, il nonno guidava con il minore nella sua auto, attraversando il confine tra Italia e Svizzera". "Il caso è insolito nel panorama di tali cause perché le parti non sono i genitori naturali del minore ma sua zia, e la persona che lo ha 'rapito' - a sua detta - è suo nonno", ha scritto il giudice. La giudice si è anche detta non convinta "dalle affermazioni del nonno secondo cui il rientro del minore in Italia viola il dovere di protezione del minore". In chiusura di sentenza la giudice auspica il raggiungimento di una conciliazione tra i due rami della famiglia, per adempiere a quella che sarebbe "l'eredità spirituale dei suoi genitori defunti" nell'interesse del bambino. Intanto l'avvocato Cristina Pagni, che assiste la zia paterna Aya, tutrice del piccolo ha dichiarato di non sapere ancora "con certezza la data del rientro di Eitan in Italia" poiché la sentenza del Tribunale della Famiglia di Tel Aviv "può essere impugnata".
(la Repubblica, 25 ottobre 2021)
E' una bella notizia per Israele. E naturalmente anche per Eitan, anche se in questo caso la soddisfazione è mitigata dall'indignazione che si prova per l'ignobile strumentalizzazione, affettiva o finanziaria, che si è fatta di un ragazzo così fortemente colpito dai fatti. M.C.
Israele, sei ong "umanitarie" sotto indagine per terrorismo
Le organizzazioni, finanziate da Onu e Ue, sono il volto presentabile del Fronte popolare di liberazione palestinese
di Fiamma Nirenstein
La disputa in atto dovrebbe far tremare tutto il mondo: tu chiamalo terrorismo, io lo chiamo organizzazione per i diritti umani, e lo finanzio coi nostri soldi. Il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha collocato sei fra le maggiori organizzazioni non governative palestinesi nella lista delle organizzazioni terroriste. Questo significa che i loro traffici bancari e i movimenti dei loro leader e affiliati sono adesso sotto controllo. Le informazioni: molto accurate. L'accusa è servire da mano pubblica all'organizzazione terrorista Fronte popolare per la liberazione della Palestina, Fplp, fornendole un'identità ibrida, e rastrellare così consenso e denaro dall'Onu e dall'Unione europea. Questi soldi alimentano, secondo Gantz, il fiume di sangue; le organizzazioni accusano Israele di persecuzione e rivendicano un ruolo caritativo. Certo, anche gli Hezbollah, Hamas, i talebani si prendono cura di bambini, vedove, vecchi. Così sorride il professor Gerald Steinberg, che con costanza ha indagato il tema col suo Ngo Monitor. Sul sito troviamo tutti i particolari: «Dieci anni fa presentammo i risultati all'Unione europea, la Mogherini ci disse che le prove non bastavano». E oggi il Dipartimento di Stato Americano, protesta di non essere stato informato. Israele nega l'accusa.
Le organizzazione nella lista terrorista sono: Adameer, Al Haq, Bisan, Difesa dei bambini-Palestina (Dci-P) Unione delle donne (Upwc); Unione degli Agricoltori (Uawc). Il punto di partenza è l'Fplp, un vulcano di attività terrorista, che ha ucciso il ministro israeliano Rehavam Ze'evi nel 2001, ha compiuto sei attacchi suicidi nell'Intifada con 13 vittime, tre al mercato a Gerusalemme; ha tentato di uccidere il rabbino capo Ovadya Yossef; ha ucciso a colpi d'ascia cinque persone alla sinagoga Har Nof nel 2014. Terribile anche l'assassinio della 17enne Rina Shnerb nell'agosto del 2019, in cui il padre e il fratello vennero feriti. Gli assassini sono parte dell'organizzazione degli agricoltori, finanziata dall'UE. L'Fplp, paleomarxista, radicata a Ramallah, in competizione con Fatah che non osa metterla ai margini, è stata, come spiega bene Steinberg, capace di mettere in piedi, priva dei finanziamenti di Abu Mazen, una rete autonoma di organizzazioni non governative che l'alimenta autolegittimandosi. Così che i documenti provano, dice Steinberg, con le foto, che i diplomatici in visita dei vari Paesi, di fatto si incontrano con leader del Fplp.
Un paradosso per cui negli ultimi dieci anni gli sono stati dati dall'Europa circa 200 milioni euro del contribuente, sostiene Steinberg.
Il direttore amministrativo degli «agricoltori» è stato arrestato, e così anche il contabile, per bombe, attentati, reclutamento di terroristi. Hashem Abu Maria, il leader dell'organizzazione per i bambini, è morto in uno scontro a fuoco con l'esercito, il presidente dell'assemblea dei soci è stato direttore della rivista dell'Fpl. Questa organizzazione è finanziata anche direttamente dall'Italia. Le leader dell'Unione femminile sono quasi tutte membri del comitato centrale e del direttivo dell'Fplp; il Centro palestinese per i diritti umani, già nella lista, ha un vicepresidente che è stato capo dell'ala militare dell'Fplp di Gaza, condannato all'ergastolo: Al Haq ha un direttore, Shawan Jabarin, che fu accusato di reclutare e organizzare il training dei membri del Fplp. L'Italia finanzia direttamente anche al Haq.
La lista è lunga, ma parla chiaro: ammantarsi di diritti umani è un'abitudine consolidata per chi vuole distruggere Israele, e il cinismo della politica internazionale fa finta di non capire, anzi, aiuta questo sistema. Per cui il diritto va in polvere, la vittima diventa persecutore, il terrorista che ignora ogni principio democratico diventa il protagonista dell'era delle organizzazioni non governative.
(il Giornale, 25 ottobre 2021)
Spy story. 007 turchi arrestano 15 presunte spie al soldo del Mossad
L’organizzazione d’intelligence turca MIT, dopo quasi un anno di indagini, pedinamenti, rilievi ambientali e il coinvolgimento di 200 agenti è riuscita a far arrestare il 7 ottobre scorso 15 persone con l’accusa di spionaggio a favore dei servizi israeliani del Mossad. L’obiettivo del sodalizio segreto era quello di spiare studenti palestinesi residenti in Turchia. Venerdì scorso, il quotidiano turco Sabah ha pubblicato una lunga intervista fatta ad una delle 15 presunte spie. Il giornale, che è politicamente allineato con il governo del presidente Recep Tayyip Erdoğan, ha fatto riferimento alla presunta spia usando le sue iniziali “M.A.S.“, affermando che è un cittadino turco reclutato dal Mossad. La spia ha detto, durante l’intervista, di essere stata contattata per la prima volta nel dicembre 2018 da “un agente chiamato A.Z.” tramite l’applicazione del telefono WhatsApp. Dopo aver fornito a questa persona informazioni sulle università turche, gli sono stati inviati fondi tramite bonifici Western Union. Altre volte è stato pagato da un uomo in un mercato di Istanbul, dopo avergli mostrato la sua carta d’identità, insieme ad una ricevuta che gli era stata inviata da A.Z. Alla fine, M.A.S. è stato incaricato di recarsi in Svizzera, dopo aver ottenuto un visto da una società chiamata European Student Guidance Center. Il quotidiano Sabah sostiene che il viaggio di M.A.S. in Svizzera sia stato pagato dal Mossad. Mentre era lì, M.A.S. ha incontrato i suoi presunti coordinatori, che gli hanno insegnato come utilizzare la crittografia avanzata per l’invio di documenti e altre informazioni tramite applicazioni di posta elettronica sicure. Secondo il Sabah anche altri turchi appartenenti al gruppo di spie hanno incontrato i loro capi all’estero, principalmente in Svizzera e Croazia. La maggior parte di loro è stata pagata con criptovaluta, trasferimenti di denaro con bonifici internazionali e talvolta con gioielli preziosi o valuta estera. Il popolare giornale turco Sabah non ha spiegato però come i suoi giornalisti siano stati in grado di intervistare M.A.S. dopo il suo arresto da parte delle autorità turche mentre Istambul non ha rilasciato dichiarazioni ufficiali su questi arresti. Venerdì scorso personaggi pubblici israeliani, uno fra tutti Ram Ben-Barak, ex vicedirettore del Mossad e attuale presidente della commissione per gli affari esteri e la difesa della Knesset, hanno affermato che “nessuno dei nomi pubblicati in Turchia appartenevano a spie israeliane“. Ben-Barak ha anche messo in dubbio la professionalità e le capacità del controspionaggio turco.
(PRP Chanel, 25 ottobre 2021)
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Miss Iraq invita le concorrenti di Miss Universo a Eilat a non ascoltare gli attacchi sui social
L’ex Miss Iraq Sarah Idan ha detto ai concorrenti dell’imminente concorso Miss Universo che si terrà a dicembre a Eilat, in Israele, di non lasciarsi scoraggiare dalle molestie che potrebbero ricevere sui social media per aver visitato lo stato ebraico. Lo riporta The Algemeiner. “Vorrei avvertire le reginette di bellezza di prepararsi per un esercito di bot che probabilmente molesteranno i loro post sui social media mentre [sono] in Israele con hashtag ‘fine dell’occupazione’ e ‘Palestina libera’. Non dovrebbero preoccuparsi, quelle non sono nemmeno persone reali, ma account falsi usati da alcuni propagandisti per intimidirli”, ha detto venerdì a The Algemeiner. “Questa è una tattica a buon mercato per cercare di metterli a tacere. Continuate a fare quello che state facendo. Restate fiduciosamente belle.” I commenti di Idan sono arrivati dopo che il nipote dell’ex presidente del Sudafrica e il defunto attivista per i diritti civili Nelson Mandela ha invitato i paesi a boicottare il 70° concorso di Miss Universo perché si terrà in Israele. Nkosi Zwelivelile “Mandla” Mandela ha iniziato a sostenere il boicottaggio del concorso di quest’anno mercoledì, giorni dopo che Lalela Mswane, 24 anni, è stata incoronata Miss Sudafrica 2021, mettendola in rotta per rappresentare il suo paese nella competizione. In una dichiarazione che ha condiviso su Instagram, Mandela ha accusato Israele di un’“occupazione atroce” e ha affermato che il Paese “viola i diritti umani fondamentali del popolo palestinese e commette crimini contro l’umanità”. “Tutto quello che posso dire è: come osi?” ha detto Idan nella clip, rivolgendosi a Mandela. “Come osi, come uomo, provare a dire a un’organizzazione per le donne e l’emancipazione femminile cosa fare? Questa è un’opportunità che milioni di donne sognano di avere, di salire sulla scena mondiale e rappresentare la loro gente, la loro nazione e la loro cultura. Non i governi, non la politica e sicuramente non la tua agenda politica”. Idan ha anche criticato Mandela per aver usato il termine “apartheid” per “attaccare Israele”, sostenendo che la parola è stata usata contro Israele da “islamisti radicali, organizzazioni terroristiche e il regime iraniano, tutti quanti odiano le donne e i diritti delle donne”. “Per favore, permetti a Miss Sudafrica di andare a vivere Israele da vicino, sul campo, e lascia che sia lei stessa a decidere”, ha aggiunto. “Sono sicuro che, proprio come me, sarà scioccata nel vedere che il governo israeliano è composto da musulmani, ebrei, arabi e cristiani. Quelle persone non solo possono votare sulle politiche, ma fanno anche parte della Knesset, hanno partiti politici e alcuni di loro sono persino ambasciatori israeliani nel mondo”. Idan ha concluso il suo video dicendo a Mswane: “Spero che ti godrai il tuo viaggio e imparerai non solo su Israele, ma su altri bellissimi paesi. Ecco di cosa tratta il concorso di Miss Universo”.
• Bandita dal paese per un selfie con Miss Israele
La Miss Sarah Idan era stata bandita dall’Iraq dopo che, nel novembre del 2017, aveva pubblicato una foto con Miss Israele Adar Gandelsman, con un messaggio che auspicava “pace e amore”. Per questo – e per alcuni scatti in bikini – era stata presa di mira dalle contestazioni. Nel luglio del 2019 Sarah Idan ha pronunciato un vigoroso discorso contro i pregiudizi antisemiti del mondo arabo durante un incontro al Consiglio dei diritti umani alle Nazioni Unite (UNHRC) presso la sede di Ginevra. La Idan ha inoltre accusato i media del suo paese di manipolare la realtà per scopi propagandistici e diffamatori nei confronti dello Stato ebraico.
(Bet Magazine Mosaico, 25 ottobre 2021)
Processo Bensoussan: ''La guerra ideologica non è mai stata così violenta"
Il suo crimine? Aver denuncialo l'antisemitismo arabo-musulmano. Messo in croce e trascinato davanti alla giustizia: per razzismo. La libertà ha un prezzo angosciante e costoso, è il coraggio. Il magistero mediatico ora appare seriamente contrastato.
Scrive Valeurs Acruelles (30/9)
Lo storico Georges Bensoussan analizza gli anni di processo che ha subìto e spiega perché sono stati il riflesso di un male francese. Il suo crimine? Aver denunciato nel 2015, durante una trasmissione di France Culture, l'antisemitismo arabo-musulmano. Per aver denunciato ancora una volta una spiacevole verità, Bensoussan è stato messo in croce e trascinato davanti alla giustizia per razzismo. Un'esperienza dolorosa raccontata nel suo ultimo libro "Un exil français" (L'Artilleur).
- Valeurs Actuelles - La sua opera racconta le tappe del processo intentato contro di lei nel 2017, dopo le dichiarazioni del 2015, i quattro anni di procedure e la sua assoluzione definitiva (nel 2019). Quale motivo l'ha spinta a raccontare questo episodio della sua vita?
Georges Bensoussan - Questo processo è stato lo specchio di un certo numero di crisi (. .. ). Crisi delle associazioni di difesa dei diritti dell'uomo, che si sono unite al Collectif contre l'islamophobie en France (Ccif) sul banco delle parti civili. Un Ccif dissolto dopo l'assassinio di Samuel Paty e che depone la sua "segnalazione" soltanto cinque mesi dopo i fatti, quando si pensava che l'affaire fosse già chiuso. Infine una procura che dà seguito alla segnalazione del Ccif e fa ricorso in appello dopo la prima assoluzione. Questo processo mette anche in luce le spaccature all'interno della società ebraica di Francia. Se da una parte la stragrande maggioranza del mondo ebraico ha manifestato nei miei confronti una solidarietà costante, dall'altra una piccola parte delle élite ebraiche, piuttosto sconnessa dalla realtà sociali del paese, ha preso paura e si è "separata da me". Né sospensione né licenziamento, piuttosto il non rinnovo del contratto che stava per scadere. Quindi, sembrava dare ragione a quelli che mi accusavano di razzismo, come ha notato di recente e non senza malizia il giornalista Dominique Vidal: "Il Mémorial de la Shoah di Parigi ha deciso di fare a meno dei servizi di Georges Bensoussan". Una frase che suona come la conferma della fondatezza delle accuse di razzismo. Di questi anni, resta un'irreparabile negazione di giustizia. Vincitori al termine della prova giudiziaria, sarete tuttavia considerati con sospetto, e nei milieu della postura del Bene vi considereranno come una figura "divisiva", parola che da sola vale come una dissuasione dall'invitarvi e dal leggervi. Resta anche il ricordo della rabbia epuratrice di questi ardenti delatori, "progressisti" con tutta evidenza, che René Char chiamava nel 1962 "petainisti invertiti". Questi settari del goscismo culturale hanno definitivamente dimenticato le parole di Rosa Luxembourg, secondo cui "la libertà è sempre la libertà di colui che la pensa diversamente".
- Qual è la sua opinione sul dibattito pubblico a vent'anni dall'uscita del libro "Les Territoires perdus de la République"?
Si è un po' sbloccato grazie a un lungo lavoro di riconquista condotto dalla società e da una parte del mondo intellettuale. Nel 2002, i media della borghesia culturale "di sinistra" non erano lungi dal qualificare "Les Territoires perdus de la République" come un libro "razzista" e "vicino al Front national". Oggi, non è più così, anche perché la guerra ideologica non è mai stata così violenta, una guerra dove il goscismo culturale che impregna una parte della classe politico-mediatico-giudiziaria è irritato per l'apparizione di nuovi poli di parola. Che vuole dunque vietare. Infatti conduce una campagna dietro le quinte per cancellare Répliques, l'emissione di Alain Finkielkraut su France Culture, per impedire a Marcel Gauchet di esprimersi ai Rendez-vous de l'histoire di Blois, per mettere alla gogna Kamel Daoud e Olivier Pétré-Grenouilleau ... E' la sua vera natura, quella di un ordine morale che, di natura clericale ieri, riguarda oggi le questioni di società (maternità surrogata, "scrittura inclusiva", "migranti"), che stigmatizza, condanna al silenzio con l'invettiva ("estrema destra!"), dissuade dall'invitare certe persone ("divisive") e sterilizza il dibattito intellettuale, ossessionato non dalla ricerca della verità, ma dalla sua unica preoccupazione che è quella di sapere se i vostri discorsi fanno o no il "gioco del Rassemblement national".
- Come si lotta contro il terrorismo intellettuale?
La libertà ha un prezzo angosciante e costoso, è il coraggio. Tanto più necessario perché il magistero mediatico della borghesia culturale "di sinistra", ancora potente, inizia a inalberarsi perché, per la prima volta, appare seriamente contrastato. Bisogna dunque avere il coraggio di parlare.
Il Foglio, 25 ottobre 2021)
Israele: tornano a soffiare i venti di guerra con l’Iran
L’aviazione israeliana ha ripreso quelle che vengono descritte come esercitazioni “intense” per esercitarsi ad attaccare i siti nucleari iraniani, dopo aver interrotto questa pratica per due anni. Una mossa che probabilmente darebbe inizio a una grande guerra. Questa notizia arriva pochi giorni dopo la notizia secondo la quale il governo israeliano ha approvato un aumento del budget da 1,5 miliardi di dollari in spese militari per pagare esplicitamente i preparativi bellici con l’Iran. Il ministro della Difesa Benny Gantz ha difeso la spesa, affermando che è necessario prepararsi per l’attacco pianificato all’Iran. Ciò dovrebbe includere l’acquisizione di nuovi aerei per partecipare all’attacco. Alla base della pianificazione del nuovo attacco di Israele, ci sono decenni di sforzi per convincere gli Stati Uniti ad attaccare invece l’Iran. Di solito l’aumento delle proprie opzioni unilaterali da parte di Israele è un mezzo per fare pressione sugli Stati Uniti. Non molto tempo fa il segretario Anthony Blinken aveva aderito alla richiesta della diplomazia israeliana di valutare l’intervento militare contro Teheran. Sembrava che questo avesse già realizzato i desideri di Gerusalemme, ma ora Israele si prepara all’intervento autonomo. Nel frattempo il primo ministro israeliano Naftali Bennett è a Mosca per discutere di Siria e Iran con il presidente Putin. Sicuramente il tema iraniano avrà fatto parte dei colloqui. Israele teme che, una volta che l’Iran abbia raggiunto l’armamento nucleare, si scateni una vera e propria corsa, fra le medie e piccole potenze nell’area, a procurarsi un’arma nucleare. Questo fenomeno sicuramente farebbe avvicinare, e di molto, il momento del loro utilizzo.
(Scenarieconomici, 24 ottobre 2021)
Israele fa un altro passo avanti verso le macchine volanti (e senza ali)
Macchine volanti che sembrano macchine, non aerei. In Israele scaldano i motori, e sono pronti a fare sul serio a partire già dal 2022.
Quasi ogni volta che parliamo di concept di VTOL (velivoli a decollo e atterraggio verticale), ci troviamo davanti la versione ridotta di un aereo che può trasportare quattro-cinque persone e alcune merci. Una società con sede in Israele, Urban Aeronautics, è determinata a creare la prima tra le macchine volanti che sembrano automobili, senza ali. E sembra stiano facendo un ottimo lavoro.
L’anno scorso mi sono passati davanti alcuni modelli di VTOL: SkyDrive, City Hawk e Cyclocar. La caratteristica che li accomuna è che la loro forma ricorda il design tradizionale di un’automobile. A parte la promessa di trasportare più persone per viaggi più brevi, il più grande vantaggio di queste macchine volanti sarebbe che non richiedono piste specifiche per l’atterraggio.
(Futuro Prossimo, 24 ottobre 2021)
Cosa si muove dentro l’intelligence di Israele
di Giuseppe Gagliano
Ronan Bar è stato nominato capo del servizio di intelligence interno israeliano, Shin Bet, in sostituzione di Nadav Argaman, il 13 ottobre.
Il servizio è alle prese con un importante passaggio dalla tradizionale raccolta di informazioni umane verso un uso molto più ampio della cyber intelligence. Oltre a supervisionare questa trasformazione, che è stata evidente nella riuscita cattura di prigionieri evasi da parte di Israele il mese scorso, Bar dovrà affrontare anche una serie di sfide, tra cui la crescente violenza nella popolazione araba israeliana.
Bar, 55 anni, ha prestato servizio nell’unità d’élite delle forze speciali delle forze di difesa israeliane Sayeret Matkal nel 1983-1987, insieme al suo amico e vicino David Barnea, che è stato nominato capo del Mossad il 1 giugno. Agente dello Shin Bet dal 1991, Bar ha trascorso molti anni nel dipartimento operativo, di cui è stato nominato capo nel 2005, con la responsabilità di monitorare le fazioni palestinesi in Cisgiordania e a Gaza.
Durante la sua carriera, ha preso delle pause per studiare politica all’Università di Tel Aviv e amministrazione pubblica ad Harvard. È diventato vice capo del servizio nel 2018 dopo due anni alla guida delle risorse umane.
La scelta di Bar da parte del nuovo primo ministro israeliano Naftali Bennett, che, a differenza di lui, non è religioso, è un’ulteriore indicazione della crescente preminenza delle forze israeliane alla guida dell’apparato di sicurezza del Paese, insieme ad Aharon Haliva, il nuovo capo di Aman, il servizio di intelligence militare e Aviv Kochavi, capo di stato maggiore delle forze di difesa israeliane.
Dopo i suoi molti anni nella parte operativa dello Shin Bet, Bar continuerà il delicato monitoraggio dei gruppi palestinesi come Hamas, che ha rivelato l’identità di Bar il 27 settembre nei media , garantendo nel contempo che la cooperazione in materia di sicurezza con le autorità palestinesi continui. Questa partnership è regolarmente messa in discussione, nonostante la sua natura essenziale a causa della fitta rete di risorse umane che la Sicurezza Preventiva, guidata da Majed Faraj ha a sua disposizione in Cisgiordania.
(Startmag, 24 ottobre 2021)
Spunti dal lunario 1934 per il “Modello ebraico Italiano”
di Rav Scialom Bahbout
Da qualche tempo ho tra le mani un Lunario ebraico per l’anno 5694, corrispondente all’anno 1934, pubblicato a Venezia per la Comunità locale (vedi figura). E’ opera abbastanza pregevole e soprattutto contiene molte notizie sulle quali vale la pena fare una riflessione. Accanto all’anno dell’Era volgare, viene ricordato anche l’anno dell’Era fascista e più avanti tra le feste civili e nazionali vien segnalata anche la data della Marcia su Roma: così si usava allora! Sfogliando il lunario della Comunità di Venezia scopriamo che: si facevano ancora i digiuni di Shovavim (12 tra Gennaio e Febbraio!), si segnalavano l’ora della Luna nuova e della Luna piena e il giorno e l’ora esatta della Tecufà. Inoltre per ogni mese veniva segnalato un breve midrash. Troviamo ancora che la cerimonia per la confirmazione religiosa delle giovinette aveva luogo il 1° giorno di Sciavugnod alle ore 15 e che la benedizione dei bambini veniva fatta il settimo giorno di Pasqua, il 2° giorno di Sciavuot e Sceminì Atzeret. Vi sono poi le annotazioni sugli orari delle tefillot per i giorni feriali (Shachrit variava tra le 8 e le 7 a seconda delle stagioni) e per il sabato e le feste, oltre agli orari per la Levantina e la Spagnola, veniva segnalato che alla Scuola Canton, di rito tedesco, si ufficiava i Sabati, le feste solenni, Purim e Tishnà beav. Vi sono poi informazioni su pensioni e ristoranti kasher in Italia (a Venezia Lido c’era la Pensione Kirschbaum). Numerose sono le pubblicità lungo tutto il lunario e, tra queste, quella della Fabbrica di Taledot di Seta di prima qualità a Milano (in Italia si producevano Taledot!) e naturalmente quella dei Fratelli Canal che offrivano carni macellate secondo rito ebraico con prosciutti e salumeria d’oca, nonché grasso d’oca puro colato. A parte una breve nota sulla storia della Comunità di Verona, l’attenzione è dedicata soprattutto a Venezia e alle altre Comunità italiane: una prima lista è dedicata alle Comunità corredate delle relative consistenze numeriche e dei rabbini capi, e una seconda lista ai Templi Israelitici, in parte funzionanti regolarmente e in parte saltuariamente. Sia la pima lista che la seconda sono piene di sorprese. Scopriamo località in cui non si ufficiava più regolarmente, ma ve ne sono molte in cui le ufficiature avvenivano regolarmente. La situazione demografica merita particolare attenzione: siamo alla vigilia delle leggi razziali e della Shoà e la popolazione ebraica italiana subirà un tracollo dal quale non si rialzerà senza una immigrazione postbellica da altri paesi: deportazione nei campi di sterminio nazisti e eliminazione da parte dei fascisti della Repubblica di Salò; emigrazione verso la Palestina e le Americhe; conversioni per sfuggire alle leggi razziali. Non ho i numeri precisi, ma ritengo che l’ebraismo italiano abbia perso con quanto accadde prima e durante la Shoà circa il 50% dei suoi membri. Lo sforzo per ricostruire le Comunità nel dopoguerra è stato immane, ma la verità che noi osserviamo oggi è che di fatto molte comunità o non esistono più o sono oggi virtuali. Purtroppo la mancanza di una massa critica di iscritti ha cancellato di fatto alcune comunità, la cui esistenza è solo sulla carta, in quanto non si svolgono preghiere di shabbath e anche in molte festività, non ci sono corsi di studio regolari ecc. Questa situazione, lungi dall’abbatterci, dovrebbe essere un’occasione per rilanciare e ridefinire gli obiettivi che dobbiamo proporci. Vista la meticolosità dei numeri indicati nella lista l’autore doveva essere bene informato (probabilmente per “merito” delle autorità fasciste): esisteva una presenza capillare nelle regioni del Centro e Nord Italia ed è probabile che anche in diverse località minori ci fosse una qualche vita ebraica seppure limitata. Pur se in condizioni disperate, spesso per la mancanza di una guida, quegli ebrei cercavano di resistere. Arrigo Levi mi raccontava che quando lasciarono Scandiano, dove secondo la lista vivevano 5 ebrei, portarono via in Argentina la lampada a olio della Sinagoga. Cosa è possibile fare oggi? Ecco alcune iniziative che dovrebbero essere prese dalle Comunità assieme all’Unione delle Comunità:
- Adottare un deportato. La Memoria è sempre uno degli argomenti che attira la nostra attenzione. Il libro della memoria di Liliana Picciotto raccoglie i nomi di tutte le persone che sono state deportate dall’Italia: ognuno potrebbe assumersi l’onere di conservarne la memoria con azioni positive per affermare la continuità ebraica.
- I Media: Utilizzare i nuovi mezzi di comunicazione digitale per fare una indagine per cercare quanti si sono allontanati a causa delle leggi razziali per scoprire dove esistono ancora focolari ebraici, e cercare di attivarli mettendoli in contatto con altri centri più grandi: questo lavoro di ricerca rafforzerebbe anche coloro che, hanno una solida identità ebraica, perché li costringerebbe a mettersi in gioco, escogitando nuove strategie per valorizzare i messaggi dell’identità ebraica.
- Ottopermille: L’Unione delle Comunità riceve il contributo dell’Ottopermille: da un’analisi anche superficiale si rimane esterrefatti per il numero dei contribuenti e per le località da cui provengono le dichiarazioni. Sarebbe utile fare un’analisi accurata per intervenire in quelle località e per cercare di capire il motivo di tanto interesse.
- Torà ‘im derekh eretz. Una società ebraica con una identità forte non solo può essere più accogliente, ma può costituire un punto di riferimento esemplare per chi vuole avvicinarsi alla Torà e alla mizvoth. La società moderna ha un’influenza enorme soprattutto sui più giovani e sulle famiglie attraverso i media, la strada e i gruppi di pressione. I modelli culturali dell’ebraismo sono ovviamente le mizvoth che permeano tutta la vita: così come è importante lo studio per la professione che si vuole praticare, altrettanto vale per lo studio dei modelli ebraici e del loro significato, per evidenziare la differenza con quelli della società in cui viviamo. Molti ebrei hanno una cultura generale di buon livello, ma dal punto di vista della propria cultura ebraica sono quasi analfabeti: infatti la loro cultura si è fermata a quanto appreso per il Bar e Bat Mizvà, e sarà difficile che riescano a identificarsi con i contenuti e i messaggi ricevuti a quell’età.
- Hazòn: visione. Il successo di un progetto dipende innanzi tutto dal fatto di avere una propria visione, un proprio Hazon, che non si limita a ciò che si vede con i propri occhi, hic et nunc, ma essere capaci di rischiare e andare molto oltre. Tuttavia, accanto al Hazòn è necessario possedere una preparazione specifica: anche il leader migliore ha bisogno di seguire dei corsi professionali. Quindi bisognerà investire di più in corsi di alto livello e preoccuparsi di formare un maggior numero di maestri e animatori, magari appoggiandosi a quanto si fa in altri paesi europei e in Israele, per trasmettere un ebraismo che dia risposte adeguate ai tempi.
- Vincere l’immobilismo: Il problema dell’Italia ebraica è simile a quello della società italiana: un sostanziale immobilismo per cui ogni tentativo di innovazione non viene visto di buon occhio e non viene discusso nel merito, perché sembra quasi un attentato di lesa maestà. La domanda è quali potrebbero essere gli strumenti per rafforzare quelli che sono comunque già vicini e per richiamare gli ebrei più lontani. E’ quindi necessaria innovazione nel campo della cultura e della sua trasmissione, non solo con nuovi strumenti, ma con iniziative nel campo sociale, del gioco, della creazione di tornei a distanza ecc.
- Allargare le comunità. Un ridotto numero di membri di una Comunità è uno dei problemi che fa spesso naufragare un progetto, motivo che dovrebbe indurre i capi delle Comunità a trovare momenti di incontro e collaborazione. Uno dei temi che è in un certo senso tabù è quello della creazione di incontri per facilitare la creazione di nuove famiglie. Anche in questo caso, siamo profondamente influenzati dall’ambiente e dalla tendenza a non formare nuovi nuclei famigliari (al massimo “si convive”, si ha “un compagno/a), a non avere figli ecc. E’ necessario un progetto educativo e occasioni ad hoc sia in Italia che all’estero per facilitare la conoscenza di persone in generale e di persone che possano anche essere a loro volta interessate alla ricerca di un partner. Nella società di oggi questo è un tabù difficile da superare, ma è necessario trovare nuovi sistemi…
- Gli ebrei di passaggio. Ci sono molti docenti e studenti ebrei che passano per l’Italia, bisogna trovare il modo per trovarli e coinvolgerli nei nostri progetti. Spesso si tratta di docenti di materie ebraiche che potrebbero fornire una visione diversa e sempre interessante.
- I Musei. Ogni comunità cerca di creare un proprio museo, ma purtroppo il più delle volte si finisce per trasformare la comunità stessa in Museo. Per essere ebraico un museo deve essere uno strumento attraverso cui un ebreo scopre e recupera la propria identità: per questo motivo ogni museo dovrebbe avere degli animatori – docenti capaci di fare questo lavoro di recupero e di scoperta maieutica delle radici.
Infine, qualcosa sull’epidemia di Covid 19 che ha colpito noi assieme a tutto il mondo. Come ogni triste evento, sta all’uomo cercare di trasformare quella che è una disgrazia in un qualcosa di positivo, cioè sta a noi fare quello che si chiama il Tikun, cioè la riparazione. Sarebbe un vero peccato, una colpa, se noi non imparassimo che anche quando si sta lontani si può e si deve essere vicini: usiamo quando è possibile la strumentazione per celebrare insieme quelle feste in cui l’uso dei mezzi elettronici è permesso, facciamo partecipare a un minian qualcuno che non vi può partecipare perché abita in un posto dove non c’è un minian regolare. Si possono portare molti esempi, e in questo caso le Comunità che posseggono ancora una struttura funzionante hanno delle responsabilità verso i dispersi o i piccoli nuclei. Chiudo quindi raccontando una storia. C’era a Lippiano (una piccola cittadina tra la Toscana e l’Umbria) un piccolo nucleo che non ce la faceva a fare minian (mancavano un paio di persone per completarlo): per celebrare le feste si rivolsero a Pisa, che a quel tempo (siamo nel 1800) era una comunità importante. La risposta che ricevettero fu che loro non avevano mezzi e tempo per occuparsi degli ebrei di Lippiano. Noi oggi sappiamo che ci sono molte piccole Comunità e piccoli nuclei nella situazione di Lippiano: le Comunità maggiori hanno una responsabilità e devono aiutarle: kol Israel ‘arevim ze bazè, tutti gli ebrei sono garanti gli uni per gli altri. Ai tempi dell’episodio narrato non c’erano strutture nazionali (come l’Unione delle Comunità e l’Assemblea dei Rabbini): quindi le possibilità di assistenza oggi sono certamente più disponibili. Ci vuole Hazòn, volontà di vincere l’immobilismo e capacità di accogliere e allargare la Comunità nazionale.
(Kolòt, 24 ottobre 2021)
Pietro Frenquellucci dà voce ai Coloni
ROMA – Il conflitto israelo-palestinese visto in un’ottica nuova e originale, dando voce ai “Coloni” che vengono considerati uno dei principali ostacoli alla pace tra israeliani e palestinesi. È questo l’obiettivo del libro “Coloni. Gli uomini e le donne che stanno cambiando Israele e cambieranno il Medio Oriente” (LEG edizioni, collana La Clessidra, pagine 272) frutto di un complesso lavoro svolto sul campo dal collega Pietro Frenquellucci – giornalista professionista ed ex caposervizio del Messaggero – tra il 2018 e il 2021 e aggiornato agli eventi legati all’ultimo sanguinoso conflitto di Gaza del maggio 2021.
Nel corso di tre lunghi soggiorni in Israele, Frenquellucci – che segue e studia da oltre quarant’anni i problemi mediorientali – ha raccolto testimonianze, riflessioni e altro materiale originale e inedito, incontrando direttamente i “Coloni” che vivono nei territori occupati della Cisgiordania. Dalle montagne che circondano Nablus, alle colline a sud di Gerusalemme, “Coloni” è un viaggio nel cuore di una delle realtà più controverse, forse la più controversa, e dibattute del Medio Oriente.
L’obiettivo del lavoro è quello di far conoscere come vivono e cosa pensano, quali sono le ragioni che spingono uomini, donne, giovani e meno giovani, intere famiglie a trasferirsi negli insediamenti costruiti nei territori conquistati da Israele con la guerra dei sei giorni del 1967 e che vengono chiamati ancora con i nomi biblici di Giudea e Samaria.
«Dopo l’inattesa e fulminea vittoria di Israele su Egitto, Siria e Giordania nella guerra dei sei giorni del giugno 1967, un crescente numero di ebrei israeliani si è trasferito nei territori occupati – esordisce così la prefazione del libro - Una situazione che Israele non aveva mai preso in considerazione e che, riferita ai territori conquistati (della Cisgiordania, ndr) avrebbe portato allo scoperto quello spirito messianico, rimasto sopito fino ad allora in una parte minoritaria della popolazione, che sarebbe poi esploso dando il via al processo degli insediamenti nei territori occupati. All’inizio furono coinvolte alcune decine di persone, poi centinaia, quindi migliaia, e oggi gli ebrei israeliani che abitano in Giudea e Samaria hanno raggiunto l’importante numero di 463mila».
Frenquellucci affronta il tema senza filtri e intermediazioni, con un linguaggio al tempo stesso ricco di suggestioni e riferimenti, ma chiaro e accessibile. Nel libro, i “Coloni” parlano liberamente anche dei rapporti con i palestinesi, della situazione politica attuale, delle prospettive della pace e dell’eventualità della nascita di uno Stato palestinese indipendente.
A raccontare le loro storie, i pensieri, le convinzioni e le motivazioni delle loro scelte sono i leader attuali e i padri fondatori dei movimenti dei coloni, oltre a imprenditori, intellettuali, uomini e donne che vivono negli insediamenti costruiti nei territori occupati.
Dalle loro parole emerge un complesso di convinzioni che parte dal rapporto storico con la terra di Israele, così come definita nella Bibbia, prosegue con il legame millenario con la religione dei padri, si consolida con il prezzo in termini di vite e di sangue pagato oggi da chi vive negli insediamenti ebraici in Cisgiordania.
«Terra, fede e sangue – sottolinea Pietro Frenquellucci – si ritrovano in ogni valle, su ogni rilievo, dietro ogni curva delle sinuose strade che collegano luoghi e storie, contemporanee e antiche come l’uomo, dietro ogni panorama struggente che scopre i colori e le infinite prospettive di un fazzoletto di terra a cui il mondo intero guarda. Da sempre».
Chi conosce quell’angolo di mondo, nel racconto di Frenquellucci – ricco di suggestioni e riferimenti storici, culturali e naturalistici – riscopre emozioni e scenari conosciuti, chi non ha ancora avuto modo di visitarlo non può non sentire il forte richiamo della terra culla delle tre grandi religioni monoteiste dove la storia dell’umanità ha avuto inizio.
Il libro contiene una dettagliata cronologia e alcune mappe che agevolano la lettura e la comprensione degli eventi storici e di quelli attuali, insieme ad una bibliografia che fornisce utili riferimenti per l’approfondimento dei temi trattati.
Concludono il lavoro due approfondite interviste all’ex vice sindaco di Gerusalemme, David Cassuto, e al professor Sergio Della Pergola, massimo esperto mondiale di demografia ebraica.
(Giornalisti Italia, 18 agosto 2021)
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Ammonimenti a considerare le conseguenze dell'adulterio
Riflessioni sul libro dei Proverbi. Dal capitolo 7.
- Or dunque, figlioli, ascoltatemi,
state attenti alle parole della mia bocca.
- Il tuo cuore non si lasci trascinare
nelle vie di una tale donna; non ti sviare per i suoi sentieri;
- perché molti ne ha fatti cadere feriti a morte,
e grande è il numero di quelli che ha uccisi.
- La sua casa è la via del soggiorno dei defunti,
la strada che scende in grembo alla morte.
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Or dunque, figlioli, ascoltatemi,
state attenti alle parole della mia bocca.
Dopo aver raccontato il fatto, il maestro si rivolge ai suoi discepoli e ancora una volta li invita non solo ad ascoltare le sue parole, ma anche ad essere attenti (4.1), perché le parole di chi mette in guardia contro qualcosa che piace e attira vengono facilmente ricevute come un rumore di fondo da sopportare con pazienza ma da non prendere in seria considerazione.
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Il tuo cuore non si lasci trascinare
nelle vie di una tale donna; non ti sviare per i suoi sentieri;
Il maestro torna ad usare il singolare per rendere più diretto e personale il suo ammonimento, che potrebbe suonare così: "Sorveglia il tuo cuore, non permettere che i tuoi sentimenti siano il punto di aggancio che altri potranno usare per trascinarti verso una sciagura; non deviare dalla via che ti ho indicato, non permettere cioè che i tuoi pensieri e le tue decisioni si indirizzino verso obiettivi diversi da quelli che hai imparato".
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perché molti ne ha fatti cadere feriti a morte,
e grande è il numero di quelli che ha uccisi.
Il ragazzo potrebbe rispondere: "Ma fanno tutti così!", rifacendosi in sostanza al sottinteso principio che se molti fanno una certa cosa, questa non può essere sbagliata. Ma la verità di una parola e la giustizia di un atto non dipendono dal numero delle persone che dicono quella parola o eseguono quell'atto. E' vero che molti "fanno così", ma è anche vero che per questo motivo molti sono stati feriti a morte e grande è il numero di quelli che sono rimasti uccisi. L'alto numero delle persone in gioco non deve quindi costituire una spinta, ma un deterrente.
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La sua casa è la via del soggiorno dei defunti,
la strada che scende in grembo alla morte.
Una donna che pratica l'adulterio vive nel peccato e la Scrittura afferma che "il salario del peccato è la morte" (Romani 6.23). Chi cammina sulla via della morte di solito non vuole restare solo e quindi cerca quasi sempre la compagnia di qualcuno. Spesso l'argomento usato per indurre un altro ad avvicinarsi è quello del "cuore", dell'"amore". Ma si tratta di menzogna, anche se non sempre chi la usa ne è chiaramente consapevole. Anche se per un certo tratto il cammino percorso su quella via può apparire piacevole, la realtà è che esso conduce verso la morte (2.18-19, 5.5).
M.C.
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Caso Eitan, i giudici prendono tempo. Unica decisione: far calare il silenzio
Il Tribunale per i minorenni valuta il reclamo dei nonni materni sulla nomina a tutrice della zia paterna. Il loro avvocato: ci sono diverse questioni da sollevare. Udienza a porte chiuse, poi la consegna ai contendenti. Restano in sospeso le conclusioni sul rientro o meno del bambino nel Pavese.
di Manuela Marziani
PAVIA - È tornato in un'aula di tribunale il caso Eitan, l'odissea del bambino di 6 anni unico superstite della tragedia del Mottarone conteso dalla famiglia materna e dal ramo paterno. Ieri i giudici del tribunale per i minorenni di Milano hanno discusso il reclamo presentato dai nonni materni Shmuel ed Ester Peleg contro la nomina della zia Aya Biran come tutrice legale del minore. Secondo i legali dei Peleg nel procedimento ci sarebbero una serie di irregolarità, dai tempi alle modalità, che hanno portato il giudice di Torino a nominare in 20 minuti, la zia come tutrice e senza nemmeno la presenza di un interprete. «Allora - ha detto la nonna Etty Cohen Peleg presenziando alle udienze che si sono tenute fino al 10 ottobre al tribunale della famiglia di Tel Aviv - ero a lutto per mia figlia e non mi hanno dato possibilità di esprimermi». Nonno Shmuel che chiede di essere nominato lui tutore del bambino che sulla funivia ha perso i genitori, il fratellino e i bisnonni, contesta anche la gestione che la zia ha avuto del piccolo, perché in quanto tutrice, e non affidataria, non avrebbe potuto portarlo a casa a vivere con lei a Travacò Siccomario. Da qui la richiesta presentata prima al tribunale di Pavia (che l'ha respinta) e poi a quello per i minorenni di Milano di rivedere la decisione. «Siamo qui per evidenziare la verità giudiziaria di questo procedimento - ha spiegato l'avvocato Sara Carsaniga che tutela gli interessi del nonno materno prima dell'udienza a porte chiuse -, ci sono diverse questioni da sollevare». A rappresentare zia Aya e a dare battaglia l'avvocato Cristina Pagni che ha puntato l'attenzione su quanto è accaduto l’11 settembre, quando il nonno materno è andato a prendere il barnbino per una visita concordata e lo ha portato a casa sua in Israele a bordo di un volo privato. Da quel momento, Eitan che a Pavia aveva iniziato l'inserimento alla prima classe della scuola primaria all'istituto delle Canossiane, si trova nel suo Paese d'origine in attesa della decisione del giudice del tribunale della famiglia chiamato a stabilire se il nonno abbia o meno violato la Convenzione dell'Aja e se il bambino debba o meno rientrare in Italia. In attesa del verdetto israeliano, l'udienza davanti al tribunale dei minori di Milano è stata rinviata al primo dicembre. Nel frattempo i giudici del tribunale per i minorenni di Milano (presidente Maria Stella Cogliandolo, giudice a latere Paola Ortolan e due esperti) hanno invitato gli avvocati e i famigliari di Eitan a non parlare con i giornalisti. E i legali dei due schieramenti familiari non hanno rilasciato dichiarazioni rispettando l'invito dei giudici a mantenere il silenzio stampa sul procedimento in corso.
(Il Giorno - Pavia, 23 ottobre 2021)
Israele preoccupato che gli ebrei haredim fuggano in Iran
Il gruppo ebraico ultraortodosso Lev Tahor, con base in Guatemala, continua ad essere perseguitata dai sionisti e dai loro gruppi di pressione. La pressione contro i membri di questa comunità ha costretto un gran numero di seguaci ad emigrare in Canada e poi in Guatemala nel 2005. Altri gruppi di questi ebrei sono presenti negli Stati Uniti e in Giordania e affrontano problemi simili. Il media israeliano in lingua spagnola Yedioth Ahronot nei giorni scorsi ha riferito che decine di famiglie di quel gruppo sono state viste all'aeroporto del Guatemala, apparentemente progettando di recarsi nella regione di confine tra Iraq e Iran, e ha evidenziato preoccupazioni per il trasferimento di centinaia di membri di questo credo nel paese persiano. The Times of Israel, dal canto suo, ha raccontato che "la scorsa settimana, è stato riferito che Israele e gli Stati Uniti stavano cercando di impedire ai membri della setta ortodossa di emigrare in Iran perché temevano che Teheran li possa usare come moneta di scambio." . "Raggiungere il confine tra Iran e Kurdistan iracheno potrebbe segnare un importante evento politico e di sicurezza", hanno avvertito i parenti dei membri della setta alle autorità di Israele, Stati Uniti e Guatemala, chiedendo di impedire la partenza di queste famiglie. A tal proposito, funzionari aeroportuali guatemaltechi hanno reso noto che nei giorni scorsi le autorità del Paese centroamericano hanno arrestato diversi ebrei haredi, su richiesta degli Usa, che erano cittadini statunitensi e che avrebbero avuto intenzione di recarsi in Iran. Secondo quanto riferito, inizialmente la setta aveva pianificato di recarsi nella regione irachena di Erbil, che confina con il paese persiano. "La polizia lavora per Israele e per gli Stati Uniti, il governo guatemalteco è d'accordo con tutto ciò che vogliono i sionisti ", ha dichiarato uno dei membri della setta in un'intervista al quotidiano El Espectador . Il primo gruppo ha già viaggiato nella regione e molti altri membri stanno ora cercando di volare dal Guatemala, o prima in Messico ed El Salvador, e da lì nell'area dell'Asia occidentale.
(l'AntiDiplomatico, 23 ottobre 2021)
Il certificato ci costringe a scegliere tra la necessità e i nostri principi
Di questo articolo riportiamo soltanto l'inizio e la fine. La parte intermedia porta esempi che rafforzano la tesi dell'autore. NsI
Martedì 19 ottobre, per poter accedere agli studi televisivi dove registro un mio programma, ho dovuto sottopormi a un tampone. Il motivo è noto a tutti: un governo tirannico e oppressivo, che scatena idranti e lacrimogeni contro pacifici cittadini che manifestano pubblicamente il loro dissenso, ha emanato una legge ingiusta e infame che impone una certificazione sanitaria come requisito per godere del diritto costituzionale al lavoro. Siccome io non sono vaccinato né mai mi vaccinerò (ci tengo alla pelle), la mia unica opzione, se volevo lavorare, era il tampone. Non è stata una decisione facile e, sebbene non sia né interessante né opportuno dilungarsi qui sulle specifiche considerazioni di carattere personale che l'hanno determinata, credo sia invece interessante e opportuno portare alla luce i parametri e fattori generali che inquadrano ogni decisione del genere.
In un articolo precedente avevo spiegato che nella nostra tradizione esistono due tipi di teorie etiche: teleologico e deontologico. Il primo identifica un fine ultimo e, in ogni circostanza, definisce giusta l'azione che, meglio di ogni altra opzione disponibile, ci permette di approssimare il fine; l'etica teleologica di gran lunga più popolare oggi è l'utilitarismo, per cui il fine ultimo è il miglior saldo possibile fra piacere e dolore per tutti gli esseri senzienti. Il secondo stabilisce invece norme di comportamento e chiede, in ogni circostanza, di applicare la relativa norma. Io, avevo detto, non sono un utilitarista e in generale non ho un' etica teleologica; per me conta fare la cosa giusta, quali che ne siano le conseguenze. Nel caso in questione, dunque, sembrerebbe che la decisione sia semplice: obbedire a una legge ingiusta è a sua volta un atto ingiusto, quindi non si obbedisce, punto e basta. Purtroppo però non è così semplice; vediamo perché.
[...]
Chi è chiuso in un dilemma è costretto a scegliere un male. Spera che sia il male minore ma, anche se avesse ragione, un male per essere minore non diventa un bene e bisogna comunque farsene carico, assumersene la responsabilità. Per mantenere aperto il mio spazio di comunicazione con migliaia di persone e offrire loro strumenti per affrontare l'orrore che stiamo vivendo io ho scelto il male di obbedire a una legge ingiusta. Voglia il fato (non dico «dio» perché non ne ho uno) che sia davvero il male minore. Ma, comunque vada, per me un governo che mette i suoi cittadini davanti a scelte simili vale quanto l'ufficiale nazista di La scelta di Sophie, o gli altri nazisti (e fascisti) contro cui si armavano i partigiani.
(La Verità, 23 ottobre 2021)
Nel mitico anno 1968 della contestazione giovanile, un gruppo di cattolici del dissenso si presentò davanti al suo vescovo enumerando i misfatti della Chiesa Cattolica a cui appartenevano, sostenendo di dover trasgredire certe regole della loro istituzione rivendicando il loro diritto morale ad agire secondo coscienza. " Ma che coscienza e coscienza... - replicò alla fine il vescovo - cos'è tutto questo parlare di coscienza. La vostra coscienza sono io!" E aveva ragione, stando alla dottrina cattolica. Lui era il vescovo, quindi l'ultima parola in fatto di coscienza non poteva che essere la sua. Noi italiani facciamo ancora un po' di fatica a capirlo, ma quello che l'attuale governo vuol farci intendere è che per la salvezza della nazione abbiamo bisogno di avere tutti una sola coscienza unita: Draghi. E chi avesse qualche difficoltà ad accettarlo può trovare rimedio nelle parole di Trilussa: "... e poi, pensava, in fatto coscienza, male che vada se ne po' fa senza". M.C.
Israele afferma che la Russia ha accettato di non ostacolare la campagna aerea dell’IDF in Siria
di Tacito Udinese
Il primo ministro Naftali Bennett e il presidente russo Vladimir Putin hanno concordato durante il loro incontro a Sochi venerdì che i due paesi continueranno ad attuare il cosiddetto meccanismo di deconflitto che funziona per impedire alle forze israeliane e russe di impegnarsi in Siria, ha detto un alto funzionario israeliano. Il ministro degli alloggi Ze’ev Elkin, che ha accompagnato Bennett a lavorare come traduttore e consulente, ha affermato che i colloqui ruotavano attorno al tema del mantenimento della continuità delle relazioni tra i due paesi dopo che Bennett è stato sostituito dal primo ministro Benjamin Netanyahu all’inizio di quest’anno. Secondo Elkin, ciò includeva assicurarsi che i paesi continuassero a lavorare per evitare il conflitto sulla Siria, dove la Russia svolge un ruolo chiave nel sostenere il governo siriano e dove Israele ha condotto una campagna di attacchi aerei durata anni contro i combattenti filo-iraniani. Elkin ha affermato che ci sono stati colloqui “molto ampi” sulla situazione in Siria volti a “proteggere il meccanismo di coordinamento”. “Il primo ministro ha presentato al mondo la sua visione sui modi per fermare gli sforzi nucleari dell’Iran e il trinceramento dell’Iran in Siria”, ha affermato in una nota. “Si è deciso di mantenere in vigore le politiche nei confronti della Russia (per quanto riguarda gli attacchi aerei sul territorio siriano).” “La Russia è un attore molto importante nella nostra regione, ed è una specie di vicina al nord”, ha detto Bennett dopo che i leader si sono incontrati in una località del Mar Nero. Da quando Bennett è entrato in carica quest’anno, in riferimento alla grande presenza militare russa in Siria. “In quanto tale, il nostro rapporto con la Russia è strategico, ma anche su base quasi quotidiana, e dobbiamo mantenere questo discorso diretto e intimo”, ha scritto Bennett in un post su Facebook. Il primo ministro Naftali Bennett parla con il presidente russo Vladimir Putin accompagnato dal ministro degli alloggi Ze’ev Elkin che ha lavorato come interprete presso la residenza di Putin a Sochi, in Russia, il 22 ottobre 2021 (Kobi Gidon/GPO) Negli ultimi anni, Israele e Russia hanno istituito una cosiddetta linea diretta di deconflitto per evitare che le parti si impiglino e si scontrino accidentalmente sulla Siria. L’ex primo ministro Benjamin Netanyahu ha incontrato Putin in diverse occasioni per discutere la questione e ha affermato che il loro rapporto personale è stato un fattore chiave nel mantenimento del meccanismo. Israele ha effettuato centinaia di attacchi aerei all’interno della Siria nel contesto della guerra civile del paese, prendendo di mira quelli che si dice siano sospettati spedizioni di armi destinate al gruppo libanese sostenuto dall’Iran Hezbollah, che sta combattendo a fianco delle forze governative siriane. Israele raramente riconosce o discute tali operazioni. Nel frattempo, la Russia è uno stretto alleato di Bashar al-Assad, ha forze di stanza e opera in Siria, e fornisce anche alla Siria le sue difese aeree cercando di abbattere aerei e missili israeliani. I funzionari israeliani generalmente non discutono l’intera portata di questo coordinamento, ma sottolineano che l’IDF non chiede il permesso russo prima di svolgere le operazioni. Lo stato della hotline per la prevenzione dei conflitti è incerto dal 2018, quando i mitraglieri della difesa aerea siriana, prendendo di mira gli aerei israeliani mentre li bombardavano, hanno invece preso dal cielo un aereo militare russo, uccidendo tutte e 15 le persone a bordo. La Russia ha risposto fornendo alle forze siriane batterie avanzate di difesa aerea S-300, che si ritiene abbiano il potenziale per limitare in modo significativo la libertà di Israele di operare nei cieli del Paese. Mosca mantiene gli ultimi sistemi di difesa aerea S-400 per proteggere i suoi beni in Siria, ma non li ha mai trasferiti su aerei israeliani. Gli analisti militari israeliani di Channel 12 e 13 hanno detto venerdì che Putin ha concordato durante l’incontro che Israele manterrà la sua libertà d’azione in Siria, ma ha richiesto un ulteriore preavviso di attacchi. Non ci sono state conferme dal Cremlino o commenti russi dopo l’incontro. La Russia in passato non ha nascosto di non essere soddisfatta degli attacchi israeliani in Siria. In una dichiarazione riassuntiva congiunta di Russia, Turchia e Iran dopo la 16a Conferenza di Astana di giugno, le tre parti hanno condannato i continui attacchi militari israeliani in Siria che violano il diritto internazionale, il diritto umanitario internazionale e la sovranità della Siria e dei paesi vicini e mettono in pericolo la stabilità e sicurezza nella regione.
La Russia ha anche ripetutamente accusato Israele di usare aerei civili come “scudo” contro le difese aeree siriane, tra la rabbia continua per l’incidente del 2018. Di norma, Israele non commenta attacchi specifici presumibilmente effettuati in Siria, ma generalmente riconosce che sta effettuando operazioni contro gruppi legati all’Iran nel Paese al fine di impedire il trasferimento di armi avanzate e prevenire attacchi contro Israele. Dalla Siria.
(SDI Online, 23 ottobre 2021)
Bennett incontra Putin a Sochi sul Mar Nero. Un colloquio delicato e importantissimo per Israele
di Ugo Volli
Poche settimane dopo aver incontrato Biden a Washington, il primo ministro israeliano Bennett ha avuto oggi il suo primo incontro con Vladimir Putin a Sochi, la località sul Mar Nero dove il presidente russo ha una residenza. Non si è trattato di un incontro più facile dell’altro e non sembra che abbia maggiori risultati concreti. Nella conferenza stampa finale si è parlato del tradizionale rapporto fra i due popoli, in particolare Bennett ha lodato Putin per la sua amicizia, si è sottolineato l’obiettivo dell’aumento dell’interscambio commerciale, si è accennato a uno scambio di opinioni su Iran e Siria, ma nulla di più. E però dopo molti anni di intensi rapporti di stima e amicizia personale fra Putin e Netanyahu, era naturalmente importante per Bennett cercare innanzitutto di annodare una conoscenza e discutere dei problemi operativi fra i due paesi.
Già prima di partire, Bennett aveva distribuito alla stampa una dichiarazione che spiega le ragioni dell’importanza della relazione con la Russia, che è assai diversa ma quasi altrettanto importante di quella con gli Usa: “I legami tra Russia e Israele sono un pilastro significativo della politica estera di Israele, sia per la posizione speciale della Russia nella regione e il suo status internazionale, sia perché ci sono un milione di russofoni in Israele che sono un ponte tra i due paesi." E anche questo tema è tornato nella conferenza stampa: “Israele, ha detto Bennett, ha un milione di suoi ambasciatori per la Russia.”
La presenza di molti cittadini israeliani che parlando russo, in realtà di ebrei fuggiti prima dalle persecuzioni zariste e soprattutto poi dalla dittatura comunista, è naturalmente importante, perché la Russia si considera protettrice di tutti coloro che appartengono in qualche modo alla sua cultura anche se cittadini di altri stati. Ma il punto significativo è l’altro, la grande presenza della Russia in Medio Oriente. Vi sono qui dei punti di attrito e degli accordi, soprattutto delle ambiguità politiche significative.
La Russia è stata tradizionalmente, già da settant’anni fa quando era URSS, la protettrice della Siria e l’ha considerata la sua base più sicura nel Mediterraneo. Questa politica continua oggi, con l’insediamento della flotta russa nel porto di Lataka e l’uso di molte basi aeree nell’Ovest del paese (mentre gli americani sono insediati a Est e i turchi a Nord). Su questo Israele non ha obiezioni. Il problema viene dal fatto che il regime siriano è stretto alleato (o meglio subordinato) dell’Iran e ospita truppe iraniane, di Hezbollah e di Hamas, che sono state - almeno le prime due - essenziali per la vittoria di Assad nella guerra civile. Inoltre la Siria costituisce l’anello centrale tanto del “ponte terrestre” che l’Iran cerca di stabilire col Mediterraneo, quanto dell’offensiva strategica che l’Iran cerca di portare contro Israele. Dunque è il territorio della controffensiva aerea israeliana (la “guerra fra le guerre”, come si usa dire) che tenta di impedire i rifornimenti iraniani di armi missilistiche di precisione a Hezbollah e in generale il dispiegamento militare iraniano ai confini dello stato ebraico. Di qui i bombardamenti molto frequenti che Israele compie su obiettivi militari iraniani in Siria. Ma essi pongono quantomeno in imbarazzo la Russia, che non solo è protettrice del regime di Assad, ma è anche la sua fornitrice di armi antiaeree e deve dimostrare che queste servono a qualcosa, anche perché l’esportazione di armamenti in tutto il mondo è una delle poche voci positive della bilancia russa dei pagamenti, quasi altrettanto importante degli idrocarburi. Di qui i numerosi annunci di parte russa che i siriani sarebbero riusciti a sventare con i suoi sistemi antimissile bombardamenti israeliani - annunci spesso smentiti dalle foto satellitare dei danni provocati dall’aviazione israeliana.
A complicare le cose vi è la relazione della Russia con l’Iran, che è un grande acquirente delle sue armi e anche un partner politico-militare: non proprio un alleato, però, perché sulla Siria vi è competizione e anche rispetto a Egitto, Libia, Caucaso le posizioni non coincidono. La Russia ha dunque tenuto un atteggiamento ambiguo sulla difesa israeliana in Siria: non usando le proprie armi, i propri radar e i propri aerei per impedirla, ma aiutando la Siria a contrastarli, rinnovando le sue attrezzature e fornendo esperti e consulenti. In questo quadro complicato vi sono stati parecchi problemi, come l’abbattimento di un aereo di ricognizione russo da parte dell’antiaerea siriana che cercava di contrastare i bombardieri israeliani, alcuni anni fa. I militari russi avevano dato la colpa a Israele, minacciando rappresaglie. Per evitare altri incidenti in questo difficile gioco è stata istituita una “linea rossa” di comunicazione immediata e diretta su cui spesso gli israeliani avvertono delle missioni in corso sui cieli siriani; ma era decisivo il rapporto di fiducia fra Putin e Netanyahu. Il primo compito di Bennett è ora confermare questi accordi informali e mantenere la libertà d’azione di Israele in Siria. Il secondo è quello di convincere Putin che l’armamento atomico che l’Iran sta preparando è pericoloso per tutti, anche per la Russia e persuaderlo dunque a moderare l’appoggio al regime degli ayatollah.
Sono temi delicatissimi, accordi informali non scritti, in buona parte tenuti segreti agli occhi degli altri soggetti politici, innanzitutto degli Usa e dell’Iran. Bisogna sperare che Bennett sia riuscito ad essere convincente e affidabile agli occhi di Putin come lo fu Netanyahu, perché su questo rapporto si gioca una fetta consistente della sicurezza di Israele. Ma proprio per la delicatezza del tema, era impossibile trovarne le tracce in comunicati e dichiarazioni. La controprova reale sarà il comportamento russo sul terreno nei prossimi mesi.
(Shalom, 22 ottobre 2021)
Israele, la Difesa aumenta il budget per possibili operazioni contro il nucleare iraniano
di Francesco Paolo La Bionda
Martedì 19 ottobre il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz si è presentato in audizione davanti alla Commissione affari esteri e difesa della Knesset per spiegare le ragioni della richiesta da parte del governo di aumento del budget della Difesa. Quest’estate infatti il governo aveva annunciato di aver trovato un accordo per fissare il budget per la Difesa nel 2022 a 17,5 miliardi di dollari, in aumento dal precedente fissato nel 2019 e che era rimasto in vigore poiché l’esecutivo non era riuscito a farne approvare uno nuovo. Nel suo intervento, Gantz ha dichiarato che la principale minaccia a Israele, per la quale le Forze di difesa israeliane devono con più urgenza allocare i nuovi fondi, è rappresentata dall’Iran e dal suo programma nucleare. “Vediamo che l’Iran sta avanzando verso la capacità di arricchimento [dell’uranio] che gli permetterebbe, se volesse, di diventare uno stato nucleare, e stiamo facendo ogni sforzo per prevenirlo”, ha spiegato il ministro. Gantz ha poi aggiunto che il budget è necessario anche per preparare l’esercito a una potenziale guerra su due fronti, per rinforzare le difese interne e per aumentare i salari dei soldati di leva e per fornire migliore assistenza ai militari di professione. “Stiamo aumentando e migliorando i nostri esercizi bellici, definendo blocchi di obiettivi, sviluppando capacità contro Hezbollah e Hamas, tutte cose che rafforzeranno la deterrenza dello Stato di Israele e la sua abilità nel sconfiggere i nemici se necessario”, ha aggiunto. L’audizione si è svolta il giorno dopo che il canale televisivo Channel12 aveva riportato indiscrezioni secondo cui il governo progetta di destinare 1,5 miliardi di dollari specificatamente per attaccare l’Iran, di cui 620 milioni presi dal nuovo budget e il resto dal rimanente. Sempre secondo le fonti, questi fondi sarebbero destinati in particolare all’acquisto di diverse tipologie di aerei, droni da ricognizione e armamenti specializzati per queste operazioni, che dovrebbero colpire siti sotterranei pesantemente fortificati. Il Capo di Stato Maggiore Aviv Kohavi aveva dichiarato a gennaio che le forze armate stavano approntando nuovi piani operativi per un attacco militare di grande potenza, e ad agosto aveva aggiunto che i progressi del nucleare iraniano avevano impresso un’accelerata a questi sviluppi, contando appunto su un nuovo budget dedicato. Nel suo discorso alle Nazioni Unite dello scorso mese, il premier israeliano Naftali Bennet aveva avvertito: “il programma nucleare iraniano è arrivato a un punto critico, così come la nostra pazienza. Le parole non fermano le centrifughe. Non permetteremo che l’Iran si doti di armi nucleari”.
(Bet Magazine Mosaico, 22 ottobre 2021)
Nella Gomorra d'Israele in mano alle gang arabe: "Siamo in guerra"
Tra le madri coraggio di Umm al-Fahm nel cuore di una comunità che ha visto morire 104 persone per omicidio. La criminalità organizzata qui prospera grazie al pizzo.
di Sharon Nizza
UMM AL-FAHM – Per Kifah Aghbariah questa è la sesta volta in due anni che la sua famiglia allargata siede a lutto. Khalil Ja’u, 25 anni, è l’ultimo parente freddato martedì in pieno giorno a Umm al-Fahm, così come altri due uomini che nel giro di una settimana si sono aggiunti al tragico conteggio tra gli abitanti di questa città sovraffollata, capoluogo del Triangolo, il distretto dove vive una grande fetta della minoranza arabo-israeliana, il 21% della popolazione del Paese. Le strade sono semi deserte per lo sciopero generale convocato in segno di lutto: 104 morti in dieci mesi (113 vittime nel 2020, un aumento del 20% dei casi rispetto all’anno precedente); 8 erano figli di questa città e per le loro morti, finora, non c'è stato nessun arresto. Le statistiche indicano che solo il 20% degli omicidi di cittadini arabi israeliani sono risolti, a fronte di un 60% tra i cittadini ebrei e che il coinvolgimento degli arabi nei crimini gravi (in primis omicidi con armi da fuoco ed estorsioni) supera il 40%, il doppio della loro percentuale demografica.
• La promessa elettorale
“Una guerra”, nelle parole del ministro della Giustizia Gideon Saar nell’ultima riunione del gabinetto speciale volto a contrastare la piaga del crimine organizzato nella società araba. Una delle sfide principali della variegata coalizione guidata da giugno dal premier Naftali Bennett, che per la prima volta comprende un partito islamico, Ra’am di Mansour Abbas, che ha fatto dello sradicamento del fenomeno la sua promessa elettorale ai cittadini che gli hanno dato il mandato di unirsi a un governo guidato da un leader della destra nazionalista.
Kifah Aghbariah è una delle donne coraggiose che ha aderito al “Forum Madri per la Vita”, nato l’anno scorso quando Mona Khalil, il cui unico figlio è rimasto vittima di un omicidio ancora irrisolto, ha percorso a piedi i 145 chilometri che separano Haifa da Gerusalemme per chiedere giustizia. A oggi fanno parte del Forum 20 madri, che manifestano senza sosta in tutto il Paese, sensibilizzano l’opinione pubblica e incalzano i politici per chiedere soluzioni concrete, “per restituire la sicurezza personale ai cittadini arabi, che si sentono abbandonati dallo Stato”, ci spiega Maisan Jaljuli, tra le fondatrici del Forum, direttrice del board dell’associazione ebraico-araba Sikkuy, attiva nella promozione delle pari opportunità tra i cittadini arabi israeliani. “Ci siamo rivolte a tante famiglie, ma molte rifiutano. I criminali sono ancora in circolazione, c’è paura di ritorsioni”.
La mancanza di cooperazione con la polizia viene menzionata dagli addetti ai lavori come uno dei problemi principali che mina la risoluzione dei casi. Ma si tratta solo di uno degli ostacoli. “Bisogna andare a fondo: il dilagare della criminalità è il risultato di anni di negligenza verso la minoranza araba in Israele da parte delle istituzioni”. Il 40% dei cittadini arabi tra i 18 e i 23 anni è considerato “nullafacente”: l’esenzione dal servizio militare e civile, la bassa percentuale di accesso all’istruzione accademica, la mancanza di opportunità lavorative sono fattori che creano quel bacino ideale per le organizzazioni criminali che offrono ai giovani soldi facili e l’illusione di un riscatto sociale, spiega Jaljuli. “La maggior parte della criminalità che oggi inonda le strade arabe è innescata da questioni economiche: il basso tasso di prestiti concessi dalle banche ai cittadini arabi fa si che in molti si rivolgono al mercato nero”. Un altro campo fertile per la criminalità organizzata è quello della “protezione”, il pizzo nel gergo mafioso, per cui non manca giorno che in Galilea non vada in fiamme un business.
“Dopo decenni in cui lo Stato ha mancato di fare il suo dovere nel settore arabo, solo nel 2007, quando era in trattativa per l’ingresso all’Ocse, ha cominciato a capire che era necessario fare investimenti significativi e ha creato l’Autorità per lo sviluppo economico delle minoranze”, ci dice Jalal Banna, editorialista del quotidiano Israel Hayom. “La riduzione del divario sociale con la popolazione ebraica è necessaria per contrastare il crimine, ma è un percorso ancora in salita. Quello che va fatto nell’immediato è portare il colpo di grazia alle organizzazioni criminali, così come è stato fatto con i boss ebrei”. Nei primi anni 2000 un’ingente operazione di polizia ha sradicato con successo le mafie ebraiche che detenevano il primato del racket locale, e il vuoto è stato immediatamente occupato dalle famiglie arabe che fino ad allora erano principalmente gli esecutori del lavoro sporco.
Il governo mercoledì ha approvato un piano interministeriale per il contrasto del fenomeno su più fronti, che si aggiunge ai 30 miliardi di Nis (circa 8 miliardi di euro) nella finanziaria a beneficio della minoranza araba (in primis infrastrutture, educazione e mancanza di alloggi). Tra le misure approvate, alcune hanno diviso l'opinione pubblica (ma ottenuto l’approvazione degli esponenti dei partiti arabi al governo, oltre ad Abbas anche del ministro Issawi Frej della sinistra di Meretz): la possibilità di perquisire senza mandato in casi eccezionali e l’introduzione di strumenti tecnologici dello Shabak (l’intelligence interna) per localizzare le armi illegali – che si stimano siano centinaia di migliaia, per la maggior parte rubati dalle basi militari nel sud del Paese o contrabbandati dalla Giordania.
• Un problema per tutto il Paese
“Il crimine non paga”. Nel 2009, Shahir Kabaha sintetizzava così il messaggio di Ajami, acclamato film candidato all’Oscar che lo ha visto protagonista. Ajami è un quartiere di Giaffa, il sobborgo storico di Tel Aviv, ribattezzato allora la “Gomorra” del Medioriente: auto di lusso con musica a tutto volume, droga, sparatorie in pieno giorno, regolamenti di conti, il tutto a tre chilometri dal cuore pulsante della “Start up Nation”. Voleva essere un campanello d’allarme contro l’indifferenza – ci dice oggi Kabaha – trasportare sul grande schermo storie di vita quotidiana che sarebbero potute diventare le vite di tutti. Ed è esattamente quello che è successo: dodici anni dopo, la piaga della criminalità colpisce la società araba israeliana come mai in passato. “Le cose cambieranno solo quando qui capiranno che non è un problema ‘degli arabi’, ma è una piaga sociale che riguarda il futuro di tutti. C’è ancora strada da fare”.
(la Repubblica, 22 ottobre 2021)
Putin, durante il suo incontro con Bennett
Ha detto che mira a continuare le calde relazioni che sono state stabilite sotto Netanyahu
di Ovidio Casto
Il primo ministro Naftali Bennett e il presidente russo Vladimir Putin si sono incontrati venerdì mattina a Sochi per i loro primi colloqui faccia a faccia da quando Bennett è entrato in carica a giugno. Putin ha detto a Bennett che la coppia aveva “molte questioni problematiche” da discutere, ma anche molti “punti di contatto e opportunità di cooperazione, in particolare quando si tratta di antiterrorismo”. Ha anche detto al presidente russo Bennett – che è diventato primo ministro a giugno e ha estromesso Benjamin Netanyahu 12 anni dopo – che spera e si aspetta che le relazioni israelo-russe continuino senza intoppi. “Spero davvero che, nonostante le inevitabili battaglie politiche interne in ogni Paese, il vostro governo persegua una politica di continuità nelle relazioni russo-israeliane”, ha detto Putin, riferendosi ai suoi stretti rapporti con l’ex governo israeliano. Nei suoi commenti, Bennett ha osservato che la coppia stava per “discutere della situazione in Siria e degli sforzi per fermare il programma di armi nucleari dell’Iran”. Il Primo Ministro ha aggiunto che i colloqui tra i due Paesi “saranno basati sulla profondità delle relazioni tra i due Paesi. Ti consideriamo un vero amico del popolo ebraico”. Bennett ha detto a Putin che si aspetta di “discutere con voi di tutta una serie di questioni attuali, per rafforzare i legami tra le nazioni in materia economica, tecnologica, scientifica e culturale”. Il primo ministro ha anche informato il presidente russo sugli sforzi per costruire un museo in Israele per commemorare i soldati ebrei che hanno combattuto in vari eserciti durante la seconda guerra mondiale, inclusa l’Armata Rossa russa. Bennett è partito per la Russia da Israele alle 5 del mattino di venerdì, è atterrato circa tre ore dopo e trascorrerà circa cinque ore nel paese prima di tornare in Israele prima che inizi il sabato al tramonto. I suoi colloqui con Putin dovrebbero concentrarsi su Iran e Siria, e sarà accompagnato dal consigliere per la sicurezza nazionale Eyal Holata, dal consigliere diplomatico Shimrit Meir e dal segretario militare generale del primo ministro Avi Gil. Anche il ministro degli alloggi Zeev Elkin, di lingua russa, ha accompagnato il primo ministro per fornire traduzioni e consigli. “Le relazioni tra Russia e Israele sono una componente importante della politica estera dello Stato di Israele sia per il posto speciale della Russia nella regione e il suo ruolo internazionale, sia per i milioni di russofoni in Israele, che formano un ponte sull’asfalto prima della sua partenza venerdì mattina. In generale, la politica, la posizione estera e internazionale di Israele è notevolmente migliorata. C’è grande energia e la direzione è molto buona”. Putin e Bennett hanno parlato due settimane fa quando Bennett si è congratulato con Putin per il suo 69° compleanno. “I due discuteranno una serie di questioni diplomatiche, di sicurezza ed economiche che coinvolgono i due Paesi, oltre a importanti questioni regionali, primo fra tutti il programma nucleare iraniano”, ha dichiarato l’ufficio del Primo Ministro all’annuncio della visita alcuni giorni fa. Il suo portavoce ha detto che il viaggio è avvenuto su invito di Putin. Netanyahu si vantava di una stretta relazione con Putin, che secondo lui aveva creato lo spazio per consentire a Israele di lanciare una campagna aerea di anni contro i combattenti sostenuti dall’Iran in Siria. Quella campagna continuò sotto la guida di Bennett. Rapporti recenti hanno indicato tensioni nelle relazioni israelo-russe sulle politiche verso la Siria.
• Secondo Rapporto All’inizio di questa settimana, Netanyahu ha promesso a Putin che sarebbe “presto tornato” in carica dopo essere stato estromesso a giugno. Netanyahu, che ha ripetutamente cercato di delegittimare Bennett e il suo nuovo governo, ha a lungo sostenuto che solo i suoi rapporti personali con Putin hanno impedito a Israele di scontrarsi con la Russia in Siria, dove operano i loro militari. La Russia è anche un membro del gruppo cinque più uno di paesi che hanno negoziato l’accordo nucleare iraniano e i colloqui sull’adesione degli Stati Uniti all’accordo moribondo probabilmente riprenderanno presto, secondo i funzionari. Israele ha fatto pressioni contro la ripresa dell’accordo e ha fatto pressione per uno sforzo internazionale concertato per impedire all’Iran di sviluppare armi nucleari. Giovedì, il ministro delle finanze Avigdor Lieberman, la cui base politica è costituita in gran parte da portavoce russi dell’ex Unione Sovietica, ha affermato che uno scontro militare con l’Iran “era solo una questione di tempo”. L’altro punto all’ordine del giorno dovrebbe essere il riconoscimento israeliano del vaccino russo Sputnik tra i turisti in arrivo. Giovedì Israele ha annunciato che i turisti saranno vaccinati Per entrare in Israele dal 1 novembre, ma solo coloro che hanno vaccini approvati dall’Organizzazione mondiale della sanità, che non includono il vaccino Sputnik. La visita di Bennett segue quella del ministro degli Esteri Yair Lapid a Mosca il mese scorso, dove ha incontrato il suo omologo russo, Sergei Lavrov. Il sito di notizie Walla ha poi riferito che durante quell’incontro, Lavrov ha chiesto a Israele di spingere gli Stati Uniti ad accettare di tenere colloqui a tre sul conflitto in corso in Siria. Israele ha effettuato centinaia di attacchi aerei all’interno della Siria nel contesto della guerra civile del paese, prendendo di mira quelli che si dice siano sospetti spedizioni di armi destinate al gruppo libanese sostenuto dall’Iran Hezbollah, che sta combattendo a fianco delle forze governative siriane. Israele raramente riconosce o discute tali operazioni.
(Telecentro di Bologna, 22 ottobre 2021)
La prima metropolitana di Tel Aviv completa il test drive
Dopo oltre sei anni di lavoro, la nuova metropolitana leggera ha completato la sua prima corsa di prova lungo la Linea Rossa. La linea in questione avrà 34 stazioni su 24 km, di cui 10 stazioni saranno completamente sotterranee. La metropolitana andrà da Petah Tikva a Bat Yam passando per Bnei Brak, Ramat Gan, Tel Aviv e Jaffa. La data ufficiale dell’apertura è prevista per novembre 2022, dopo 13 mesi di ritardo. E sebbene sia prevista la figura di un macchinista, nei tunnel, il treno si guiderà da solo. Il progetto però non si ferma qui e ambisce a competere con le grandi capitali europee. Ci sono infatti altre due linee attualmente in costruzione: le linee Verde e Viola, che dovrebbero aprire nel 2026-2028, con treni autonomi nelle gallerie. Saranno dotate di 109 stazioni e 150 km di tunnel. La Linea Rossa dovrebbe avere oltre 70 milioni di passeggeri all'anno I due treni, gestiti dalla NTA - Metropolitan Mass Transit System, hanno lasciato mercoledì sera il complesso del deposito di Petah Tikva alle 00:30, si sono fermati su Jerusalem Boulevard e sono arrivati allo stadio Bat Yam alle 3:00, su un percorso di 24 chilometri. L'operazione notturna è stata accompagnata da un anello di sicurezza della polizia, il cui compito era impedire ai residenti di avvicinarsi al treno. Tuttavia, anche la tarda ora notturna non ha impedito a molti residenti di scattare foto per condividere il singolare evento. Per quanto riguarda il test drive, sono stati testati numerosi componenti dell'intero treno, comprese le comunicazioni, la segnalazione, l'elettricità, i binari, le telecamere, le carrozze stesse e i meccanismi di propulsione e sicurezza."Oggi abbiamo fatto la storia, viaggiando da Petah Tikva a Bat Yam. Per la prima volta abbiamo aperto la linea da un capo all'altro attraverso un sistema perfetto in termini di elettricità, auto e binari - ha spiegato Haim Glick, CEO di NTA - abbiamo ancora molto lavoro di coordinamento da fare, ma questo è un giorno storico per noi" Nella fase successiva, che verrà fatta nei prossimi giorni, la metropolitana leggera inizierà una serie di corse di prova a Bat Yam, e tra circa due settimane per le strade di Jaffa. Con la sua piena operatività tra circa un anno, questo viaggio diventerà di routine, con un treno che passerà con la frequenza di 3,5 minuti in 24 stazioni sopraelevate e dieci stazioni della metropolitana, tra cui la stazione di Allenby, scavata a una profondità di circa 35 metri. Ogni treno potrà trasportare un numero di circa 500 passeggeri. Tre mesi fa, NTA ha iniziato a organizzare viaggi di prova su metropolitana leggera per la prima volta. La corsa si è dipanata tra le strade Orlov e Shenka, città stata scelta per la corsa iniziale, una tratta accolta con applausi dai residenti increduli per la nuova attività di trasporto.
(Shalom, 22 ottobre 2021)
Riconoscere Israele, l'Arabia ci pensa
Gli Usa stanno discutendo con l'Arabia Saudita la possibilità che aderisca agli Accordi di Abramo e normalizzi le relazioni con Israele. Lo ha riferito il giornalista Barak Ravid su Walla News, precisando che il consigliere per la Sicurezza Nazionale, Jake Sullivan, ha sollevato la questione con il principe ereditario Mohammed bin Salman il 27 settembre durante la sua visita a Riad.
MbS non ha respinto in modo assoluto la possibilità ma ha sottolineato che una simile mossa richiede tempo e ha dato a Sullivan una lista di passi che dovrebbe essere presi prima; alcuni di questi riguardano un miglioramento delle relazioni tra Washington e Riad. L'eventuale adesione agli Accordi di Abramo del Regno custode dei luoghi santi dell'islam sarebbe una svolta per Israele.
Libero, 21 ottobre 2021)
Israele: Herzog lancia il Forum israeliano sul clima
Il presidente israeliano
Isaac Herzog
ha annunciato la formazione del
Forum israeliano sul clima
, che si occuperà del potenziale ruolo di Israele nella risoluzione dei problemi causati dal cambiamento climatico.
“La creazione del forum simboleggerà l’impegno dello Stato di Israele a stare in prima linea nella discussione globale sulla crisi climatica”, ha affermato l’annuncio del presidente, secondo quanto riportato dal sito di notizie israeliano Walla.
Il forum lavorerà per aumentare la consapevolezza della crisi tra i leader israeliani e comprenderà rappresentanti di tutte le parti della società israeliana, inclusi il governo, la Knesset, il mondo accademico, le autorità locali e la comunità imprenditoriale.
Il forum sarà guidato dall’ex MK
Dov Khenin,
che ha commentato: “Noi, nel mondo e in Israele, siamo in una corsa contro il tempo per affrontare una crisi climatica che mette in pericolo la vita di tutti noi. Qui, il presidente sta facendo quello che può con il potere del suo ufficio: coinvolgere tutte le autorità per una discussione onesta e seria delle sfide e delle soluzioni”.
Ha invitato tutti i decisori israeliani a “imparare da questo esempio, a chiedersi cosa possono fare ed esercitare la propria autorità per portare avanti i cambiamenti urgenti di cui abbiamo bisogno ora”.
Il primo ministro israeliano
Naftali Bennett
parteciperà al prossimo vertice delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a Glasgow, a cui si uniranno il ministro dell’Energia Karine Elharrar e il ministro dell’Ambiente Tamar Zandberg.
(Bet Magazine Mosaico, 21 ottobre 2021)
Stati Uniti e Israele sono in trattativa per la riapertura del consolato americano a Gerusalemme
di Tacito Udinese
Gli Stati Uniti e Israele hanno in programma di formare una squadra congiunta per discutere la riapertura del consolato americano a Gerusalemme [una specie di "ambasciata" degli Usa presso l’Autorità Palestinese, ndr], secondo un nuovo rapporto. Durante il loro incontro a Washington la scorsa settimana, il ministro degli Esteri Anthony Blinken e il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid avrebbero discusso della questione del consolato chiuso dall’ex presidente Donald Trump nel 2019, Secondo Axios, Che ha citato funzionari israeliani. Gli alti funzionari del primo ministro israeliano Naftali Bennett sarebbero preoccupati per la riapertura del consolato, suggerendo che potrebbe destabilizzare la loro coalizione ideologicamente diversificata. “Non so come tenere insieme questa coalizione se riapro il consolato”, ha detto Lapid la scorsa settimana, nel rapporto. Secondo quanto riferito, Blinken avrebbe detto al Segretario di Stato di essere a conoscenza della loro posizione e di voler avviare una discussione verso una soluzione. Il segretario di Stato ha suggerito di creare una squadra composta da lui e Lapid e uno o due assistenti da entrambe le parti per ulteriori discussioni, secondo il rapporto. La squadra avrà “massima libertà di azione”. Mentre Lapid presumibilmente era d’accordo, sta cercando di fermare le discussioni sul consolato fino a quando Israele non avrà approvato il bilancio federale a novembre. Le discussioni arrivano nel mezzo di un anno di divisione in Israele, in particolare tra israeliani e palestinesi a Gerusalemme. Gli Stati Uniti si sono impegnati a ripristinare l’impegno diplomatico con i palestinesi, che in precedenza aveva sede fuori dal consolato. La mossa ha sollevato le preoccupazioni degli israeliani, che credono che la mossa possa violare la loro sovranità su Gerusalemme, mentre i palestinesi stanno cercando di rafforzare le loro pretese su una parte della città.
(SDI Online, 21 ottobre 2021)
Tensioni tra Israele e Usa - Gli israeliani hanno una pessima opinione delle politiche di Biden
di Ugo Volli
La maggior parte degli israeliani non è affatto contenta dell’Amministrazione Biden. Lo rivela un sondaggio appena uscito: “Solo il 10,9% degli israeliani, e in particolare il 9,9% degli ebrei israeliani, afferma che Israele sta meglio con la presidenza Biden, rispetto al 52,9% degli israeliani (e al 58,2% degli ebrei israeliani) che affermano che Israele stava meglio con l'amministrazione Trump. Poco più di un terzo (36,2%) degli israeliani afferma che non ci sono cambiamenti significativi dalla fine dell'amministrazione Trump.”).
È una notizia significativa, perché segnala una tensione fra Israele e il suo principale alleato non solo al livello del governo, ma dell’opinione pubblica. Ma non è una sorpresa: a differenza degli ebrei americani, sempre in maggioranza democratici, gli israeliani col doppio passaporto, che nella popolazione di Israele non sono pochi, l’anno scorso avevano votato assai più per Trump che per Biden.
Al di là delle buone parole, le politiche della nuova amministrazione hanno confermato il giudizio negativo degli israeliani, soprattutto su due punti. Il primo e più importante è l’Iran. In dieci mesi l’amministrazione Biden non ha fatto nulla per fermare la corsa degli ayatollah verso l’armamento atomico, a parte qualche vuoto ammonimento. La diplomazia americana ha cercato in tutti i modi di rimettere in piedi il disastroso accordo JCPOA concluso da Obama sei anni fa e poi abbandonato da Trump. E se non sono ripresi i finanziamenti americani e non sono stati tolte la sanzioni, ciò dipende solo dal fatto che gli ayatollah ora hanno interesse a realizzare il loro armamento nucleare prima di riaprire le trattative. Questa politica di sostanziale accondiscendenza mette Israele in grave difficoltà, anche perché i promessi aiuti militari americani necessari per attaccare le istallazioni nucleari di Teheran (bombe anti-bunker, aerei cisterna per rifornire in volo i bombardieri) non sono mai arrivati. E, a proposito, non sono arrivati neppure i rifornimenti per il sistema Iron Dome, nonostante tutte le promesse bipartisan. La causa in apparenza è il dissenso di un solo senatore, contrario a tutti gli aiuti all’estero.
Il secondo punto è il rapporto col mondo arabo. L'amministrazione Biden ha in sostanza rigettato la rivoluzione strategica di Trump, che privilegiava il rapporto con i paesi arabi come via alla pace, trovando inefficace la ripetizione dei vecchi inutili tentativi di portare l’Autorità Palestinese al tavolo della trattativa. Ha mostrato dunque poco interesse per lo sviluppo degli “accordi di Abramo”, che - bisogna ricordare - si erano realizzate grazie al sostanzioso intervento dell’America di Trump. E insiste invece sui soliti temi: blocco degli insediamenti, finanziamenti all’Autorità Palestinese e all’UNRWA. C’è un punto di scontro che sta diventando acuto, che è la riapertura del consolato americano a Gerusalemme, che in sostanza fungeva da ambasciata degli Usa presso l’Autorità Palestinese. Trump l’aveva chiusa, Biden vuole riaprirla, la maggior parte degli israeliani e perfino Bennett non vuole assolutamente farlo, perché non si tratta di fornire servizi diplomatici agli arabi dell’Autorità Palestinese, ma in sostanza di tornare indietro rispetto al riconoscimento che Trump aveva garantito di Gerusalemme come capitale di Israele. Gli americani infatti si sono categoricamente rifiutati di riaprire il consolato a Ramallah, come sarebbe logico, e perfino ad Abu Dis, un sobborgo di Gerusalemme escluso dal territorio municipale.
Sembra che il ministro degli esteri israeliano e uomo forte del governo Lapid avesse personalmente promesso agli americani che l’apertura del consolato a Gerusalemme si sarebbe potuta fare, ma solo dopo l’approvazione del bilancio, per evitare che cadesse il governo: il suo solo voto di maggioranza non sarebbe bastato perché certamente qualche deputato di destra si sarebbe rifiutato di votarlo di fronte a un atto simbolico così grave. Ora, “secondo fonti americane citate dal giornale palestinese Al Quds, la sede diplomatica sarà aperta ‘poco’ dopo l'approvazione del bilancio il prossimo mese, cioè già a novembre o all'inizio di dicembre. Sembra che l'amministrazione Biden ‘sia furiosa con le politiche israeliane’ sull'espansione degli insediamenti in Giudea e Samaria e preoccupata per le tensioni sulla sicurezza in Cisgiordania[...]. Secondo queste fonti, in una prima fase la Casa Bianca prevede di raggiungere un accordo con Israele sulla questione. Se questi sforzi dovessero fallire, il governo potrebbe fare il passo unilaterale di riaprire il consolato una volta che il bilancio sarà approvato.” () Ma Lapid non ha fatto i conti con l’opposizione di Bennett (che si è detto “sconvolto” dalla posizione americana) e anche di Saar e dunque c’è il rischio di uno scontro diplomatico molto duro. In nessuna capitale al mondo un paese straniero ha mai aperto un consolato per gli abitanti di un terzo paese. E certamente un paese può aprire una sede diplomatica senza il consenso del paese dove essa è collocata. Farlo sarebbe violare la sovranità del paese, trattarlo come una colonia.
Non a caso nel sondaggio citato sopra, Lapid ottiene un giudizio estremamente negativo dal pubblico israeliano: “Il governo ha ricevuto un punteggio netto di 5,29 su 10 in politica estera: solo il 24% gli ha attribuito un punteggio soddisfacente. In confronto, l'anno scorso, il governo Netanyahu aveva ricevuto un punteggio di 6,05. Lapid ha ricevuto un punteggio di 4,88, con il 36% degli intervistati insoddisfatti del suo lavoro, rispetto al 24% che si è detto soddisfatto.
(Shalom, 21 ottobre 2021)
“Diritto ed ebraismo. Italia, Europa, Israele. Sessant’anni di interventi e battaglie civili” di Giorgio Sacerdoti
Prof. Giorgio Sacerdoti, Lei è autore del libro "Diritto ed ebraismo. Italia, Europa, Israele. Sessant’anni di interventi e battaglie civili" edito dal Mulino: come si sono sviluppati i rapporti tra l’ebraismo e la società italiana dal Risorgimento ai giorni nostri
È opportuno distinguere tre periodi. Il primo dall’Unità d’Italia al 1938 è stato caratterizzato dalla piena partecipazione degli ebrei italiani, anche se pochi di numero, alle vicende civili, sociali e politiche dalla nazione. Dopo un’attiva partecipazione al Risorgimento molti di loro sono entrati a far parte della classe dirigente del regno d’Italia, contribuendo allo sviluppo del paese, nella guerra 1915-18 e anche durante il primo periodo del fascismo.
Il secondo periodo è purtroppo quello triste delle persecuzioni razziste, iniziate nel 1938, con cui gli ebrei italiani sono stati relegati al ruolo di cittadini di seconda classe, esclusi dalle scuole, dalle professioni, dagli impieghi pubblici. Con l’occupazione nazista dopo l’8 settembre 1943, è iniziato il periodo più buio, con la caccia all’ebreo, complice il regime di Salò. Dopo la Resistenza, che ha visto molti ebrei nei suoi ranghi, gli ebrei sono stati evidentemente tra i sostenitori della Repubblica e dell’assetto costituzionale.
- Quale appello giunse, da parte dei giuristi ebrei, al diritto internazionale contro le persecuzioni razziali?
All’epoca la tutela dei diritti dell’uomo da parte del diritto internazionale era praticamente inesistente. La resistenza alle discriminazioni avrebbe dovuto venire dal ceto dei giuristi italiani, nel rispetto dei principi di uguaglianza sanciti da quasi un secolo dallo Statuto del Regno d’Italia. Ma, come noto, resistenza e opposizione non ci furono.
- Quali vicende hanno segnato la reintegrazione nei diritti e le riparazioni economiche per gli ebrei dopo il 1945?
La reintegrazione formale nella parità dei diritti fu immediata dal 1944 (nel Sud Italia) e poi in tutta Italia con la Liberazione il 25 aprile 1945, solennemente sancita infine dalla Costituzione repubblicana del 1948. La reintegrazione economica fu invece timida e i risarcimenti avari, difficili da ottenere e richiesero molto tempo. Si pensi che gli ultimi “aggiustamenti” alla legislazione sono stati fatti nel…2020, con poche vittime ancora in vita. Per molto tempo non ci fu la coscienza della peculiarità e della incidenza della persecuzione, rispetto, per fare un esempio, ai danni di guerra.
- Quale contributo hanno fornito gli ebrei alla nascita della Costituzione repubblicana?
Ci furono parecchi ebrei alla Costituente (si pensi al suo presidente Umberto Terracini) che agirono però come cittadini italiani, rappresentanti del popolo, eletti nei vari partiti. L’Unione delle Comunità ebraiche fece però sentire la sua voce nel senso che fossero eliminata ogni discriminazione (in particolare quelle derivanti dal concordato del 1929) e si espresse anche contro l’uso della parola “razza” all’art. 3 del testo..
- Come si sono articolati i rapporti tra ebrei e Chiesa cattolica a partire dal papato di Pio XII?
Solo col Concilio Vaticano II indetto da Giovanni XXIII e la Dichiarazione conciliare “Nostra Aetate” del 1965, la Chiesa ha cambiato registro, ha ripudiato la dottrina del “deicidio” e l’ “insegnamento del disprezzo” verso gli ebrei. È così iniziato un percorso di rispetto e approfondimento delle radici ebraiche del cristianesimo, di cui le visite dei papi successivi alla sinagoga di Roma, fraternamente accolti, sono stati un segno pubblico evidente.
- Quale posizione mantenne l’ebraismo italiano nel processo di revisione del concordato lateranense?
L’Unione delle Comunità, ed io personalmente come suo esponente, è intervenuta pubblicamente ripetutamente e in molte sedi, politiche e culturali, perché la revisione abolisse ogni privilegio per la religione cattolica e segnatamente cessasse il regime dell’ora di religione cattolica di fatto obbligatoria che discriminava gli alunni ebrei.
- Quale regime giuridico possiedono le Comunità israelitiche nel nostro Paese e come si sono andati definendo i rapporti con lo Stato italiano?
In base alla intesa, cioè l’accordo stipulato dallo Stato con l’Unione delle Comunità ebraiche nel 1987, in parallelo con analoghe intese con altre confessioni non cattoliche, una volta sostituito il concordato del 1929 con nuovi accordi del 1984, è stato garantito il pieno rispetto della religione e dei riti ebraici nell’ambito dello Stato italiano all’insegna del pluralismo dei culti.
- Quale attuazione ha ricevuto l’intesa del 1987?
La sua attuazione non ha dato luogo a problemi di sostanza. Va dato atto della crescente attenzione delle autorità pubbliche alle particolari esigenze, specie in tema di sicurezza, delle Comunità ebraiche e alla lotta all’antisemitismo.
- Come si è evoluta la normativa per il contrasto di razzismo, antisemitismo e negazionismo?
La normativa chiave anti-discriminatoria in genere è quella del 1993, la così detta legge Mancino, successivamente completata da ultimo nel 2016 con la estensione della sanzione penale al negazionismo della Shoah, in attuazione di una direttiva europea del 2008.
- Quali questioni di diritto internazionale coinvolgono lo stato di Israele?
Sono parecchie. Lo Stato d’Israele da un lato è tra i pochi nati proprio sulla base di una decisione della comunità internazionale, la risoluzione dell’Assemblea generale dell’ONU del 1947 sulla suddivisione della locale amministrazione britannica in uno stato ebraico, proclamato nel 1948, e in uno arabo, che non venne mai ad esistenza. Dall’altro lato per molti anni l’ONU ha assunto un atteggiamento antiisraeliano fomentato dall’Unione sovietica e dai paesi arabi mentre si sono ripetute delle guerre tra Israele e i vicini nel 1956, 1967, 1973.. Solo di recente si assiste ad atteggiamenti più equilibrati ma essendo il Medioriente un’area di tensioni geopolitiche, infestato dal terrorismo, è inevitabile che le contrapposizioni abbiano un’eco più vasta. La questione palestinese, cioè il pieno riconoscimento dei diritti di questo popolo, attende ancora una definizione.
Giorgio Sacerdoti, avvocato, professore emerito dell’Università Bocconi, dove ha insegnato Diritto internazionale ed europeo, è stato giudice all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) dal 2001 al 2009. Già presidente della Comunità ebraica di Milano, presiede attualmente la Fondazione CDEC-Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano e l’AGE-Associazione Italiana Giuristi e Avvocati Ebrei.
(Letture.org, 21 ottobre 2021)
Gli Usa accelerano. In Israele serve per il Green Pass
Israele è stato il primo Paese, il 30 luglio, a dare il via alla terza dose, estendendola a tutti. Oggi l'hanno ricevuta in 3,8 milioni e il Paese ha deciso che sarà obbligatoria per avere il Green Pass e accedere ai luoghi pubblici al chiuso come bar e ristoranti. In Europa l'Ema ha dato il via libera a inizio ottobre, mentre la Gran Bretagna è partita il 16 settembre con over 50, sanitari e fragili. Negli Usa è autorizzata per gli over 65 ma il governo si prepara a estenderla agli over 40 che hanno ricevuto Moderna o Pfizer.
(La Stampa, 21 ottobre 2021)
Miracolo della rivoluzione pandemica: per il green pass tutto il mondo adesso guarda a Israele. Se ne vantano gli israeliani? M.C.
Covid Israele, scoperto primo caso di mutazione variante Delta
E' stato scoperto in Israele il primo caso della nuova mutazione della variante Delta del coronavirus (Ay4.2), riscontrata in un numero crescente di casi nel Regno Unito. Lo ha riferito il ministero della Salute di Tel Aviv, secondo quanto riportato dal Times of Israel. La mutazione è stata individuata su un ragazzo di 11 anni tornato da un viaggio in Moldavia ed al momento, secondo le autorità israeliane, questo è l'unico caso accertato.
(Adnkronos, 20 ottobre 2021)
Hamas rivela le sue vere intenzioni sul territorio di Israele: uno stato islamico, stragi, schiavitù
di Ugo Volli
Un movimento politico si giudica dalla propria ideologia, che spesso si trova iscritta nel suo statuto, e dai programmi che produce per applicarla. Nel caso di movimenti rivoluzionari o terroristi, spesso però questi programmi non sono elaborati o resi espliciti, per non scontentare o allarmare nessuno. Capita così anche coi movimenti “palestinisti”, che lasciano scritto nei loro statuti che il loro obiettivo è la distruzione di Israele e la sostituzione con uno stato arabo musulmano, o addirittura con la nazione araba unificata, ma poi spesso fanno intendere che sono disponibili ad accordi di pace. In questa maniera la sinistra anche israeliana e la “comunità internazionale” possono illudersi che ci sia un “processo di pace” e sostenere che Israele debba compiere “gesti di buona volontà” ed essere disponibile a “dolorosi sacrifici”, pur di sgomberare la strada a quella prospettiva di pace che si attribuisce ai “palestinisti”.
Ma qualche volta capita che essi raccontino quali sono i loro programmi effettivi, al di là della propaganda e allora la prospettiva cambia. Lo fece Arafat in un celebre discorso in arabo tenuto in Sud Africa dopo la firma degli accordi di Oslo, spiegando di ispirarsi a Maometto, quando, avendo meno uomini e armi dei suoi nemici, strinse una tregua con i politeisti che tenevano la Mecca, ma la ruppe appena si trovò in situazione migliore, conquistando la città. Lo fanno i libri di scuola e la televisione dell’Autorità Palestinese, che spesso indica i confini del futuro stato di Palestina comprendendo tutto il territorio che oggi è di Israele.
E l’ha fatto Hamas un paio di settimane fa, andando al di là del suo statuto che già prevede la distruzione di Israele e tenendo una conferenza programmatica sulle “Promesse del futuro”, in cui stabiliva i programmi per il tempo successivo alla prossima “vittoria” sull’ “Entità sionista”. Anche se viene da trattare questa cose come sogni o piuttosto incubi, bisogna invece considerare tali piani, perché rendono esplicite le intenzioni di Hamas, fanno capire quale sarebbero le conseguenze di una sconfitta. Ci sarà un nuovo stato pienamente islamico, dice Hamas, che erediterà tutto ciò che oggi appartiene a Israele e che, sostengono, è stato già completamente inventariato da loro: case, fabbriche, campi, paesi, infrastrutture. Tutta questa ricchezza sarà espropriata dal nuovo stato, che deciderà che cosa farne sulla base dei principi dell’Islam e stabilirà anche quali trattati internazionale conservare e quali annullare, a quali organizzazioni internazionali aderire e così via.
Per quanto riguarda la popolazione di Israele, come si legge nel documento finale, "nel trattare con i coloni ebrei in terra palestinese, ci deve essere una distinzione nell'atteggiamento a seconda delle categorie: i militari devono essere uccisi; un [ebreo] che fugge può essere lasciato andare o essere perseguito per i suoi crimini; a un individuo pacifico che si arrende e può essere concessa una forma di integrazione o lasciato il tempo di andarsene. Questo è un problema che richiede una profonda riflessione e una dimostrazione dell'umanesimo che ha sempre caratterizzato l'Islam. Gli ebrei istruiti e gli esperti nei settori della medicina, dell'ingegneria, della tecnologia e dell'industria civile e militare dovrebbero però essere trattenuti [in Palestina] e non dovrebbero essere autorizzati a lasciare e portare con sé la conoscenza e l'esperienza che hanno acquisito vivendo nella nostra terra e godendo della sua generosità, mentre noi ne pagavamo il prezzo in umiliazioni, povertà, malattie, privazioni, uccisioni e arresti".
Insomma lo scenario è quello di una strage generale, dato che la grande maggioranza dei cittadini ebrei di Israele fa il servizio militare, con l’eccezione di qualcuno cui sarà consentito scappare e del soggiorno obbligato (cioè la schiavitù) per tecnici, medici, ingegneri. Magari ci sarà spazio anche per la sottomissione di qualcuno, secondo i modelli tradizionali islamici dei “dhimmi”. Tutto ciò naturalmente non ha alcuna probabilità di realizzarsi, ma è il progetto di Hamas, il suo obiettivo politico. Coloro che pensano che si tratti di un “movimento di liberazione” o di un “partito popolare” con cui bisognerebbe parlare e che innanzitutto andrebbe “liberato dall’assedio israeliano”, farebbero bene a pensarci. Ma è assai improbabile che lo facciano.
(Shalom, 20 ottobre 2021)
4.000 immigrati privi di documenti in Cisgiordania ricevono documenti di identità
di Cirillo Lombardi
I palestinesi il cui status è stato legalizzato appartengono a diversi gruppi. Alcuni sono nati nel paese ma non sono mai stati registrati perché i loro genitori non avevano un permesso di soggiorno. Altri sono emigrati dalla Striscia di Gaza in Cisgiordania prima che il movimento islamista Hamas prendesse il potere nel 2007 e non ottenesse l’approvazione delle autorità israeliane per cambiare indirizzo.
Persone coinvolte non potevano andare all’estero, perché non potevano tornare. Non sono stati in grado di trovare lavoro o sponsorizzazione nello stesso Israele ed erano spesso riluttanti a recarsi anche in altri luoghi della Cisgiordania, perché rischiavano la deportazione a Gaza o in Giordania se fossero rimasti bloccati in un posto di blocco.
L’iniziativa di riforma è arrivata dopo un incontro tra il presidente palestinese Mahmoud Abbas e il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ad agosto.
L’ex primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha favorito Hamas a Gaza durante i suoi 12 anni al potere, a spese dell’autonomia di Abbas a Ramallah. L’idea era che Hamas, che rifiuta di riconoscere Israele e rifiuta di negoziare, è innocuo per Israele, diplomaticamente parlando. Abbas, che combatte il terrorismo, è aperto al negoziato ed è sostenuto dal mondo esterno, pone una sfida ancora più difficile al campo nazionalista israeliano, nell’analisi di Netanyahu.
La nuova coalizione israeliana ha cambiato e affinato il suo atteggiamento nei confronti di Hamas e ha cercato di rafforzare l’impopolare regime di Abbas. Il razionamento è una delle numerose misure in questa direzione.
Un aspetto importante dell’occupazione è che il registro della popolazione palestinese è sotto il controllo di Israele. Ogni bambino nato nella Striscia di Gaza o in Cisgiordania deve essere registrato in Israele. Secondo il cosiddetto processo di Oslo, i negoziati di pace degli anni ’90, ai palestinesi verrà gradualmente affidata la responsabilità di un numero sempre maggiore di posti di lavoro gestiti dal governo militare israeliano. Ma il processo di Oslo è stato interrotto nel 1998 e molte delle previste autorità statali palestinesi rimangono sotto il controllo israeliano.
(TecnoSuper.net, 20 ottobre 2021)
Odessa, il massacro dimenticato
Sono passati 80 anni esatti dallo sterminio di gran parte della popolazione ebraica nella città ucraina «I miei nonni sono riusciti a sfuggire. Siamo qui per testimoniare come hanno provato a cancellarci».
di Francesca Ghirardelli
ODESSA - E una pagina nera della storia europea del Novecento, una di quelle pressoché dimenticate, mai veramente conosciute. Sono passati ottant'anni esatti da uno dei più feroci episodi dell'Olocausto, e per l'anniversario, nella città ucraina di Odessa, c'è chi con ostinazione non rinuncia a raccontare. È la storia collettiva a venire rievocata, ma anche quella individuale, di due vite risparmiate proprio mentre altre decine di migliaia andavano perdute: la storia di Galis Manya, ragazzina ebrea di 15 anni, e di Kris Gersh, anche lui ebreo, di tre anni più grande di lei. Il loro nipote Pavel Kozlenko, oggi direttore del Museo dell'Olocausto della città, racconta del destino che li ha uniti, e intanto accompagna i visitatori sala dopo sala. Mentre fa loro da guida, cerca di incrociare lo sguardo di ciascuno, per assicurarsi che abbiano davvero compreso la portata della tragedia. «La gente non sa granché di questo capitolo della Seconda Guerra mondiale», ci spiega il direttore. «Qui però viene in visita gente da tutto il mondo e qui invitiamo gli studenti locali, soprattutto nel mese di ottobre per l'anniversario dei massacri». Il riferimento è alla data del 23 ottobre 1941, ottant'anni esatti questa settimana, e alla terribile strage messa in atto dagli occupanti rumeni insieme ai nazisti tedeschi, dopo lo scoppio di una bomba che aveva ucciso 130 dei loro soldati: «Quel giorno in ogni strada di Odessa si potevano incontrare morti impiccati. A venti minuti d'auto da qui sorgevano nove depositi di armi: al loro interno l'esercito rumeno aveva concentrato 25mila ebrei, donne, vecchi e bambini, oltre a 3mila prigionieri di guerra», racconta, scandendo ogni parola. «I soldati sono arrivati con taniche di carburante, l'hanno versato attorno ai depositi, e hanno appiccato il fuoco. Testimoni hanno raccontato che l'odore dei corpi bruciati era talmente intenso da non permettere di rimanere nelle vicinanze. Quella è stata la Babij Jar di Odessa», dice, riferendosi al più noto massacro nazista avvenuto qualche settimana prima nella capitale Kiev. Nei mesi successivi altre stragi sono seguite, nella vicina Dalnik e lungo la cosiddetta Strada della Morte: «La nostra regione non aveva camere a gas come Auschwitz, così la gente veniva forzata a camminare anche 200 chilometri al gelo, verso il campo di Bogdanovka. Si moriva di fame, di malattie o uccisi a colpi di arma da fuoco. Così sono scomparsi altri 56.000 ebrei, da dicembre fino ad aprile». È in quella primavera del 1942 che troviamo i due giovanissimi Galis e Kris rinchiusi in un ghetto fuori città. «Allora i miei nonni non si conoscevano. A distanza di qualche giorno l'una dall'altro, riuscirono a sfuggire ai rastrellamenti dei soldati rumeni e delle SS tedesche, messi in salvo e tenuti nascosti dentro una chiesa da due preti ortodossi», racconta il direttore.
Gli chiediamo della ricostituita comunità ebraica e se oggi abbia trovato pace: «Si assiste a qualche caso di antisemitismo, ma non in percentuali significative. Gli ucraini sono in generale rispettosi nei confronti degli ebrei», risponde. «Certo resta complessa la questione del collaborazionismo della polizia ucraina con i nazisti. La società oggi non è pronta ad ammettere questo tipo di responsabilità. Occorre il lavoro degli storici, a loro deve essere affidata questa materia, ed è un bene che i politici non si siano addentrati troppo in queste vicende». Nel 1939 un terzo della popolazione di Odessa, circa 200mila persone, era costituito da ebrei. Alla fine del conflitto, tra esodi e massacri, nell'area urbana «ne rimanevano solo 600», conclude il direttore. «Per questo siamo qui, per mostrare alle nuove generazioni in che modo la comunità ebraica, ottant'anni fa, qui, sia stata quasi del tutto cancellata». È rifiorita grazie a persone come Galis e Kris, ai tanti che sono rimasti o rientrati in città. E anche la memoria di chi non c'è più torna a rivivere non appena Pavel Kozlenko incomincia a raccontare.
(Avvenire, 20 ottobre 2021)
“Collaboriamo con Roma per il bene dell’ebraismo italiano”
Intervista a Walker Meghnagi, neopresidente della Comunità Ebraica di Milano
di Ariela Piattelli
«Bisogna trovare risorse per i giovani e riacquistare l’armonia all’interno della nostra comunità. Walker Meghnagi dosa bene franchezza e diplomazia mentre parla con Shalom a poche ore dalla sua elezione come Presidente della Comunità Ebraica di Milano (CEM). La sua lista “Beyachad” ha vinto con 300 voti di scarto, mentre “Milano Ebraica”, guidata dal Presidente uscente Milo Hasbani, è arrivata seconda. «Abbiamo vinto con uno scarto minimo, ma che ci permette di governare» commenta Meghnagi, nato a Tripoli nel 1950, imprenditore immobiliare, con 3 figli, e impegnato nelle istituzioni comunitarie da più di un decennio. Meghnagi ha già guidato la CEM dal 2012 al 2014, e adesso torna in pista con nuovi obiettivi, perché le sfide, come ci spiega, sono cambiate.
- Come considera il risultato dalle elezioni della CEM?
Noi siamo chiaramente contenti del risultato raggiunto. Siamo preoccupati però per la scarsa affluenza, sintomo di allontanamento degli iscritti alla comunità. Questo lo consideriamo un grave sintomo al quale bisogna porre rimedio.
- Da cosa è causato l’allontanamento degli iscritti alla comunità milanese?
La comunità di Milano è diventata troppo “politica” in questi anni. È una comunità spaccata. Una parte di essa tiene prima alla politica, poi all’ebraismo. E la politica c’è chi la fa anche su Israele, mettendo in discussione le sue scelte, lo abbiamo visto anche in tempi recenti. Io credo che chi entra nella dirigenza comunitaria debba mettere da parte la politica e portare avanti i valori ebraici. E l’appoggio a Israele è per me un valore ebraico. Insomma, bisogna recuperare l’unità attorno a questi valori.
- Questa sua visione ha a che fare con il fatto che lei sia un ebreo di origine libica? Cosa le ha insegnato la storia in questo senso?
Assolutamente sì. Io sono andato via prima del ’67, quando ci fu la cacciata degli ebrei dalla Libia con la Guerra dei Sei Giorni, ma la storia ci ha insegnato che l’antisemitismo e l’antisionismo sono la stessa cosa. In Libia abbiamo perso molto, e tanti di noi hanno perso tutto e tutti, affetti, sentimenti, luoghi. E abbiamo ancora le ferite, in tutti i sensi, anche sul corpo, io per esempio ne ho molte.
- Come è il dialogo con Milano Ebraica, lista arrivata seconda alla tornata elettorale?
Siamo molto distanti, c’è all’interno una deriva politica. Non voglio governare da solo, e gli offrirò dei posti in giunta, perché è giusto così. Io credo che il dialogo aiuti a crescere. Per questo parlo con tutti i politici, tranne con quelli che si esprimono contro Israele.
- La sua famiglia è impegnata molto nella vita comunitaria. Ad esempio suo nipote Ilan Boni è appena entrato con Beyachad nel nuovo Consiglio. Da dove arriva questa volontà di mettersi in gioco?
Si tratta di un’eredità di mio padre, che metteva sempre Israele e l’ebraismo al primo posto. Mi ha insegnato i valori che deve avere un ebreo. È un impegno in cui credo, e che ho cercato di trasmettere a figli e nipoti.
- La comunità milanese, come quella di Roma, è composta da varie anime. Anche a Milano c’è una presenza molto importante dei Chabad.
I Chabad per me sono importantissimi, nell’aiuto del prossimo, nella cucina sociale, sono sempre presenti nelle ricorrenze, nell’educazione dei giovani, sono impegnati in prima linea. Oggi è una presenza essenziale, senza di loro non ci sarebbe una vita veramente ebraica in questa città.
- Lei è già stato Presidente della CEM. Quali sono le nuove sfide della Milano ebraica rispetto al suo primo mandato?
Bisogna ritrovare la concordia, spegnere l’animosità tra i diversi gruppi, recuperare chi si è allontanato. Vorremmo aumentare i servizi sociali, sono molte le famiglie che non ce la fanno. I giovani non sanno cosa fare, e dobbiamo occuparcene, facendo ritrovare i ragazzi anche tra diverse comunità, come Torino, Milano, Genova etc. Servono risorse per i giovani, per aiutarli a crescere, e qui entra in gioco l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, che stanzia pochi fondi: bisogna investire sul futuro, questo è l’importante. L’Unione ha realizzato alcuni progetti, ma non è abbastanza. Bisogna fare di più.
- La lista Beyachad è vicina, sia per visione che per valori condivisi, a Per Israele, che a Roma è arrivata prima alle elezioni del nuovo Consiglio dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Come vede questo risultato?
Noi siamo vicini a coloro che condividono i nostri ideali e i nostri valori. Il successo di Per Israele e di Dor va Dor, alla sua prima tornata elettorale in Ucei, è molto importante, e credo che insieme possiamo fare molto. Il contesto dell’Ucei è fondamentale per l’ebraismo, perché ci rappresenta tutti, e proprio per questo andrebbe “restaurato” nei suoi meccanismi. Io vorrei alleggerire la burocrazia e creare un sistema più snello e più rappresentativo. Dovremmo guardare a modelli organizzativi più moderni, e spero di trovare una sponda negli amici romani.
(Shalom, 20 ottobre 2021)
In Israele le startup si scoprono «circolari»
di Fiammetta Martegani
La chiamano Startup Nation perché è la nazione con la più alta percentuale di startup pro-capite e il cui governo contribuisce in modo sostanziale allo sviluppo dell'innovazione e dell'hi-tech. Non sorprende che negli ultimi anni stia indirizzando parte dei propri investimenti nell'economia circolare, a cui è stato dedicato anche un insegnamento apposito presso l' Afeka Academic College of Engineering di Tel Aviv. Avi Blau, responsabile del Corso, nonché consulente governativo per lo sviluppo di questo nuovo settore in espansione, ci racconta che sono tre i progetti principali a cui Israele, assieme anche ad altri partner stranieri, sta dedicando le proprie risorse. Nell'Imminente, l'Istituto per cui insegna, in collaborazione con la Camera del Commercio Israele-America, ha creato un programma internazionale per connettere imprese israeliane (da multinazionali a compagnie di bandiera, fino ad aziende a conduzione familiare) con circular innouators e circular designer provenienti da tutto il mondo, alfine di adottare competenze specifiche già sviluppate all'estero e adattarle alle esigenze locali. Sul medio termine, il ministero del Tesoro ha già messo in atto un progetto di industriai symbiosis con lo scopo di connettere settori diversi in modo che gli scarti degli uni possano essere al meglio sfruttati dagli altri, creando così una micro-economia su scala nazionale. Inoltre, sul lungo periodo, il Ministero dei Beni Ambientali sta sviluppando un piano di no waste strategy, da implementare entro il 2030, per garantire che l'intero sistema di rifiuti del Paese sia organizzato per potersi rigenerare da solo, garantendo l'ecosostenibilità come modus vivendi. Se l'esecutivo sta principalmente investendo sull'innovazione e sul flusso dei materiali tecnici, alcuni imprenditori privati, invece, si stanno specializzando su quelli biologici. Un esempio di successo, che ha già varcato i confini nazionali ottenendo numerosi investimenti stranieri, è sicuramente UBQ: «Sta per "ubiquitous": un materiale unico con un'infinita possibilità di adottarlo. È sia il nome della nostra compagnia che del nostro prodotto - spiega la vicepresidente Rachel Barr -. Si tratta di una "plastica organica" realizzata al 100% da rifiuti, di ogni sorta. Una volta che il prodotto ha terminato la sua funzione i materiali di cui è composto vengono nuovamente reintrodotti nel ciclo economico e possono essere continuamente riutilizzati all'interno del ciclo produttivo generando ulteriore valore». Ciò che rende unica questa tecnologia carbon neutral è il fatto che, a differenza di altri prodotti simili, può essere combinata con qualsiasi altro tipo di plastica per poi essere nuovamente riciclata in un processo potenzialmente illimitato, garantendo una scalabilità senza precedenti e, di conseguenza, anche un notevole abbassamento dei costi che li rende competitivi su scala globale. A questo si aggiunge il significativo impatto sociale di questa tecnologia, poiché implementata in un kibbutz collocato a pochi chilometri da Gaza, Tse' elim, dove la maggior parte di chi ci lavora fa parte delle comunità beduine locali, da sempre oberate dal problema dei rifiuti. «Adottare UBQ in un contesto come quello della Striscia (uno dei luoghi con la più alta densità di popolazione al mondo per chilometro quadrato, ndr) sarebbe un sogno che diventa realtà - continua - permettendo di attivare circuiti virtuosi di riciclo e riuso». Barr sottolinea anche come la circular economy, in un contesto conflittuale come quello del Medio Oriente, oltre ad essere un eccellente modello di produzione e consumo, attento alla riduzione degli sprechi delle risorse naturali, porti con sé anche un enorme potenziale sul piano sociale e politico, in quanto basato su condivisione e cooperazione. In questa cornice si colloca un programma pilota, che sta prendendo piede proprio in questi mesi, con un duplice scopo: da un lato incentivare la collaborazione tra cittadini israeliani arabi ed ebrei, dall'altro accelerare, soprattutto all'interno della comunità araba, l'imprenditoria femminile, specie nel settore del tessile, dove sono molte le donne a essere già coinvolte. Si tratta del progetto guidato dall' AEJI (Association of Environmental Justice in Israel) e messo in piedi dalla Direttrice Esecutiva Carmit Lubanov, con il patrocinio di alcune istituzioni sul territorio, in particolare la municipalità di Um El Fachem, villaggio arabo della Galilea - assieme ad altri partner stranieri, tra cui l'Università belga di Gent Belgio - già coinvolta in questo pilot, poiché particolarmente interessata a questo modello economico di gender e local empowerment. Come spiega Lubanov, «la maggior parte delle Organizzazioni non governative che lavorano per il processo di pace si occupano quasi sempre della risoluzione del conflitto. Ma prima ancora è necessario creare ponti. Questo è uno degli scopi principali del nostro progetto, indipendente da fondi governativi, e volto, in modo pratico, ad incentivare dialogo, eguaglianza e partnership. Perché la terra in cui viviamo - prosegue - è la stessa per entrambi i popoli. E il rispetto degli uni verso gli altri deve cominciare dal rispetto per l'ambiente che ci circonda. In questo processo di presa di coscienza e valorizzazione delle risorse, le donne sono, e saranno sempre più, le figure chiave per questa svolta non solo economica, ma anche politica».
(Avvenire, 20 ottobre 2021)
"Bimba, sai leggere? Niente gelato agli ebrei"
Livorno: la testimonianza di Edi Bueno che fuggì dai campi di sterminio. La sua storia in un libro a fumetti di Emmanuel Pesi
di Michela Berti
"Ero andata a prendere il gelato con una mia amica. Ero ghiotta di gelato. Avevo una piccola stella di David sul golfino e la commessa mi disse che non poteva darmi il gelato. Allora andai dal proprietario per lamentarmi ma lui disse con fare brusco ’Bimba sai leggere? Guarda cosa c’è scritto su quel cartello: non si dà gelato agli ebrei". Da questo rifiuto la piccola Edi Bueno, oggi arzilla 91enne, prese consapevolezza di cosa stava accadendo. "La mia è stata una vita in fuga – racconta Edi mentre in compagnia di alcune amiche frequenta il circolo Arci Colline per partecipare al torneo di tombola – dal 1943 quando con i miei genitori e i miei due fratelli Sirio e Dino siamo fuggiti da Livorno per raggiungere Santa Caterina a Marlia. Pensavo di essere al sicuro invece un giorno di dicembre arrivò l’ordine che tutti gli ebrei dovevano radunarsi nel centro del paese".
Piano piano, mentre il nastro della memoria si riavvolge, gli occhi di Edi si velano di una grande tristezza. "Mio padre mi fece nascondere con il mio fratellino Sirio in uno stanzino – ricorda – mentre mia madre e Dino salirono su quel treno diretto ad Auschwitz. Mia madre pensava che sarebbe andata a lavorare, invece non sono mai più tornati a casa". Un dolore infinito che Edi si è portata dietro per tutta la via: "Nascosta nello stanzino, sentivo una grande confusione – riprende il racconto – poi il camion è partito e allora ho detto a Sirio scappiamo, corriamo più velocemente e lontano possibile. Ci siamo tolti le scarpe per correre meglio e porto ancora i segni di quella fuga".
Una fuga per la vita, in una fredda notte di dicembre. "Sì, ricordo che faceva un grande freddo, ci siamo nascosti sotto un ponticello. Era buio e ad un certo punto abbiamo visto spuntare due occhi che ci guardavano. Impaurita ho detto ’non siamo ebrei’. Ma erano i partigiani che ci hanno portato a Marlia. Ci hanno salvato la vita". Edi da bambina viveva con i genitori in via della Coroncina, dove ora ci sono le pietre d’inciampo con i nomi della sua famiglia, a ricordare il dramma che hanno vissuto tanti ebrei anche nella nostra città. "Siamo stati sempre perseguitati. Le bimbe non volevano giocare con me perché avevo la stella di David". Edi si è sposata, ha una bella famiglia con figli e nipoti. Vive da sola in un piccolo appartamento in centro. Ci accoglie con il grembiule, sta cucinando la pasta mentre aspetta i nipoti. Sorride, ma gli occhi si inumidiscono con il ricordo di quello che ha passato. Una storia, che Edi ama raccontare alle scolaresche: "Io vado nelle scuole perché i nostri ragazzi devono sapere. Devono sapere che io ho sofferto tanto. Io sono ebrea ma siamo tutti uguali e quando accadono purtroppo episodi di razzismo io dico sempre ai ragazzi ’Pensate a Edi’".
La sua storia non poteva non diventare un libro. Ci ha creduto Emmanuel Pesi prof di storia contemporanea che ha pubblicato il libro ’Come into my house. Nove storie di fuga e resistenza’ immagini di Luca Lenzi, editore Pacini Fazzi. L’obiettivo è quello di far conoscere queste storie ai più giovani; Edi è diventata uno del testimonial del periodo più drammatico del secondo scorso.
"La memoria – dice Eni – è importante perché non dobbiamo dimenticare cosa è successo. E dobbiamo far crescere i nostri ragazzi in maniera consapevole perché certe cose non devono più accadere". A rendere ancora più ricco e toccante il libro sono i disegni di Lenzi, spesso crudi, ma molto significativi come l’immagine dei piedi nudi di Edi che corrono e si feriscono. Ferite che raccontano la sua storia, la persecuzione di un popolo, l’emarginazione, il dolore, la morte.
(Il Telegrafo, 20 ottobre 2021)
Israele, un sub trova la spada appartenuta a un cavaliere crociato
Il ritrovamento dopo oltre 900 anni nei fondali marini
di Alessia Benincasa
Una spada appartenuta a un cavaliere crociato è stata ritrovata da un sub dopo essere rimasta 900 anni in fondo al mare. Con un’elsa di 30 centimetri e una lama lunga un metro, l’arma è stata rinvenuta. Si è conservata in perfette condizioni, è un ritrovamento bello e raro.
• I tesori delle acque della costa del Carmelo Le acque della costa del Carmelo sono ricche di tesori archeologici, grazie alle numerose calette dove le navi si rifugiavano dalle tempeste sin dall’antichità. L’arma è stata trovata per caso dal sub Shlomi Katzin che l’ha portata a riva temendo che altri potessero rubarla o che la sabbia potesse di nuovo nasconderla. Katzin l’ha poi consegnata alle autorità, che gli hanno dato un certificato di “buon cittadino”. Il sito del ritrovamento era probabilmente usato come ancoraggio fin dall’età del bronzo, 4mila anni fa.
• 150 metri al largo in acque profonde Il sub si trovava a circa 150 metri al largo della costa in acque profonde cinque metri quando ha rinvenuto i reperti. “È emozionante incontrare un oggetto così personale, che ti riporta indietro nel tempo di 900 anni in un’era diversa, con cavalieri, armature e spade”, ha detto Distelfeld, sottolineando che sulla spada, fatta di ferro, erano incrostati organismi marini. La spada deve essere pulita e ulteriormente analizzata.
(L'Occhio, 19 ottobre 2021)
Per mettere in sicurezza
E' ormai evidente a chi non vuole autoimbrogliarsi che l'imposizione del green pass non è dovuta a preoccupazioni di salute pubblica, ma all'intenzione di questo governo a trazione Draghi di piegare i cittadini abituandoli a sottomettersi ad una sorveglianza invasiva, estesa e costante. Ma quanto più questo diventa chiaro, tanto più il governo diventa deciso nell'imporre le sue regole senza preoccuparsi troppo di essere convincente. Quanto durerà la carta verde? chiede qualcuno: "Resterà valida finché serve" ha detto un sostenitore autorevole di questo governo. Serve a che cosa? In un articolo del Corriere della Sera di oggi si trova scritto [risalto aggiunto]: "Di fatto, dopo il voto di ieri si apre, non si chiude una nuova fase. Se ne cominceranno a vedere i contorni a partire dall’elezione del presidente della Repubblica, a febbraio del 2022. In quel momento si materializzeranno altre alleanze. E si capirà se il premier Mario Draghi potrà mettere in sicurezza gli aiuti europei senza essere frenato o, peggio, boicottato da partiti a caccia di rivincite o di scorciatoie elettorali". Ecco dunque che cosa vuol "mettere in sicurezza" il nostro capo di governo, di certo non la salute dei cittadini. Del resto, il nostro premier è un tecnico dei soldi, non delle malattie. Tutta l'operazione è un imbroglio. Qualcuno dirà che è a fin di bene, e così l'imbroglio si raddoppia. In politica le menzogne sono moneta corrente, ma quando la menzogna diventa alta, unitaria a livello governativo, e sostenuta da una buona parte della popolazione, per la nazione le cose si mettono male. Che l'imposizione del vaccino, con l'annesso obbligo di green pass, sia un ricatto, è stato riconosciuto abbastanza presto da alcuni, ma la cosa è stata negata da molti. Ma più il ricatto è diventato chiaro, più alto è diventato il numero di coloro che si sono adeguati alle imposizioni del governo.
PARABOLA
Al telefono. • Non pago, non è giusto, gli accordi non erano questi. - Come non paghi? Perché non vuoi pagare? E' giustissimo. L'accordo è conveniente anche per te. • Non pago, tu cerchi di imbrogliarmi. - Ti avverto però che se non paghi ne avrai conseguenze spiacevoli. • Che vuol dire spiacevoli? Io sono a posto, sono nel mio diritto. Non pago. - Guarda che se non paghi potrebbe capitarti qualcosa di molto, molto brutto! • Che vuoi dire con questo? E' un ricatto quello che mi fai? Eh! E' un ricatto? - Sì, è proprio un ricatto! • Va bene, allora pago. Non avevo capito, pensavo che fosse un'altra cosa.
M.C.
(Notizie su Israele, 19 ottobre 2021)
Il tesoro culturale ebraico
I nazisti non deportarono solo gli ebrei di Roma ma saccheggiarono le idee della comunità Chi avesse tentato di salvare un libro sarebbe stato fucilato
di Arnaldo Benini
Dopo l'armistizio, l'8 settembre 1943, dell'Italia con gli Angloamericani lo stato maggiore tedesco intendeva ritirarsi dall'Italia del Sud. Joseph Goebbels, capo della propaganda nazista e teorico, dal 1943 in poi, della «guerra totale», scrisse nel diario il 10 settembre che «Non siamo in grado di difendere l'Italia del Sud, dobbiamo ritirarci a Nord di Roma». Hitler ordinò invece la resistenza. Da Roma in su l'Italia era sotto l'arbitrio dei tedeschi, che l'avevano invasa dopo la caduta di Mussolini il 25 luglio del 1943. Ufficialmente l'Italia del centronord, a partire dal 23 settembre 1943, era una Repubblica sociale, nel cui manifesto programmatico Mussolini decretava che «gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica». La legge antiebraica del 1938 aveva emarginato gli ebrei, che, dall'asilo infantile in su non avevano accesso ad istituzioni pubbliche e private ma, tranne rare eccezioni, non c'erano state violenze verso di loro. L'11 settembre 1943 il feldmaresciallo Albert Kesserling dichiarò l'Italia, Roma compresa, territorio militare sotto controllo tedesco. La Repubblica fascista di Mussolini non aveva alcun potere. Il 23 settembre 1943 il capo delle SS Ernst Kaltenbrunner ordinò alle truppe d'includere gli ebrei italiani nelle misure antirazziali stabilite nelle conferenza dei capi nazisti a Wannsee il 21 gennaio 1942. Dovevano essere sterminati. La decisione di Hitler di resistere in Italia ha comportato la morte di migliaia di ebrei: il loro tributo di sangue, dal 1943 al 1945, è stato enorme. Nel Corriere del Ticino del 27 aprile scorso si è parlato del libro 16 ottobre 1943 dell'ebreo Giacomo Debenedetti sullo spietato rastrellamento di milleduecento ebrei nel ghetto di Roma, trasferiti ad Auschwitz, da dove ne tornarono una decina. Fu l'inizio della tragedia. I nazisti alla caccia di libri ebraici. La comunità ebraica pagò un tributo d'altro genere al furore antisemita, non paragonabile alla perdita di vite umane ma nondimeno pesante. Nel 1940, su mandato di Hitler, il «filosofo» del nazismo e feroce antisemita Alfred Rosenberg istituì una squadra di una trentina di persone per coordinare la confisca in Germania e nei paesi occupati di materiale librario ebraico. Serviva, si disse, per confermare che gli ebrei erano sempre stati e continuavano ad essere una minaccia per la Germania e per il mondo. I membri della squadra indossavano una divisa, descritta da Giacomo Debenedetti: «attillata, di un'eleganza schizzinosa, astratta e implacabile, che inguaina la persona, il fisico ma anche e soprattutto il morale, con un ermetismo da chiusura lampo». Alla fine del 1941 la Historische Zeitschrift (Rivista di storia) poteva annunciare che a Francoforte era sorta la più grande biblioteca del mondo per lo studio della Judenfrage (problema ebraico) con circa 350mila volumi, rastrellati in Germania e continuamente alimentata da saccheggi in tutta Europa, specie a Parigi, Amsterdam, Bruxelles, Belgrado, Salonicco, Vienna, Riga, Vilnius, Ferrara, Roma. Fra il 1943 e il 1945 nell'Europa occidentale furono razziati circa 3 milioni di libri. Nel gennaio 1944, all'approssimarsi del fronte, per impedire che finisse sotto uno dei frequenti bombardamenti, una parte della biblioteca fu trasferita nel vicino castello di Hungen. Si salvò, come anche il resto rimasto in città. Fu presa in consegna dagli Americani. Una parte del patrimonio librario era finito anche nella biblioteca della polizia nazista a Berlino, che voleva documentarsi circa i «nemici» del nazismo. Alla fine del '43 una parte dei libri fu evacuata da Berlino e conservata in Slesia e nei Sudeti.
• IL SACCHEGGIO A ROMA
Il 30 settembre e il 1° ottobre 1943 due azzimati tedeschi, membri della squadra di Rosenberg, che si qualificarono come orientalisti e uno come professore di lingua ebraica, esaminarono la biblioteca comunitaria ebraica di Roma, che comprendeva manoscritti, 4.728 volumi, 28 incunaboli, 183 cinquecentine, alcune delle quali provenienti da Costantinopoli, e testi sei e settecenteschi da Venezia e Livorno, in tutto 7 mila opere, non catalogate. Poi i «professori» misero le mani nella biblioteca del Collegio Rabbinico, nello stesso edificio. Conteneva circa 10 mila volumi di testi liturgici, di Talmud, di filosofia e bibliografia, catalogati a metà degli anni '30. Gli aguzzini ammonirono che l'asportazione anche di uno solo dei libri sarebbe stata punita, racconta Giacomo Debenedetti, «secondo la legge di guerra tedesca», cioè con la morte. L’11 ottobre iniziò il saccheggio. Dall'11 al 14 ottobre 1943 la squadra di Rosenberg vuotò la biblioteca comunitaria ( con l'eccezione di codici biblici, alcuni libri e sette incunaboli, conservati nella cassaforte della Sinagoga) e asportò buona parte della biblioteca del Collegio Rabbinico. I libri furono sigillati in due carri ferroviari e spediti a Monaco d.B. Un terzo vagone, con i libri dal Collegio Rabbinico, partì in dicembre.
• DOPO LA GUERRA
Che cosa ne è stato dopo la guerra di quell'immenso patrimonio culturale? Nel marzo 1946 gli Alleati, di fronte all'enormità del saccheggio, crearono a Offenbach un deposito-archivio in cui storici, bibliotecari, curatori di musei e archivisti erano impegnati a recuperare, identificare, e restituire libri, incunaboli, manoscritti. Il compito era arduo perché moltissimi libri, durante i traslochi, s'erano mescolati senza conservare traccia della provenienza. Fino alla chiusura, nel 1949, l'archivio trattò circa 3 milioni e mezzo di pubblicazioni in 35 lingue, restituite a più di 14 nazioni. Gli Americani mandarono alla Biblioteca del Congresso a Washington circa diciannovemila pubblicazioni antisemitiche provenienti da biblioteche e istituti tedeschi. Da Offenbach tornò a Roma nel 1948 la biblioteca del Collegio Rabbinico. Arrivarono 6.580 volumi e 1760 brossure. Non si rintracciò il catalogo, per cui non si sa esattamente quanto materiale sia scomparso. Le tracce della biblioteca comunitaria si sono in parte perdute. Nel 2002 fu istituita presso la Presidenza del Consiglio italiana una commissione per il recupero del patrimonio bibliografico della comunità ebraica di Roma, che nel 2009 ha pubblicato un rapporto dettagliato. Di una parte del materiale, depositato a Berlino nella zona russa, se ne è perduta ogni traccia. Le ricerche, con le immaginabili difficoltà, continuano.
(ItaliaOggi, 19 ottobre 2021) |
Alla sbarra l'ex segretaria nazista: è accusata di complicità in migliaia di omicidi
Alla fine, è stata portata di fronte ai giudici in ambulanza e su una sedia a rotelle Irmgard Furchner.
La 96enne ex segretaria del campo di concentramento nazista di Stutthof è stata prelevata dalla stessa casa di riposo a nord di Amburgo da cui era fuggita alla fine di settembre, per evitare l'apertura del processo, nel quale pesano su di lei oltre 11mila capi di imputazione. Tanti sono gli omicidi nei quali, secondo l'accusa, la donna avrebbe avuto un ruolo importante tra il giugno del 43 e l'aprile del 45.
Nel lager polacco, non lontano da Danzica, Furchner - prima donna alla sbarra per crimini nazisti dopo decenni - era responsabile di dattilografare e siglare gli ordini di condanna a morte di ebrei, partigiani polacchi e prigionieri di guerra sovietici, oltre a contabilizzare gli strumenti utilizzati per la loro soppressione.
Il mese scorso la sua fuga avvenuta nel giorno dell'apertura del processo era durata appena 5 ore: dichiarata latitante, la polizia l'aveva rintracciata e messa in arresto mentre vagava per la città di Amburgo. Rimasta in detenzione per 5 giorni, prima di essere rimandata nella struttura assistenziale in cui risiede, ai giudici Furchner aveva spiegato in una lettera di "non voler essere messa alla gogna dall'umanità".
(euronews, 19 ottobre 2021)
Da arabo dico agli arabi: bisogna abbandonare l’odio
Troppe volte la decisione araba di scendere in guerra appare guidata non dalla necessità ma da odio irrazionale, confermando una celebre citazione attribuita a Golda Meir.
Di recente mi sono sorpreso a pensare al giorno in cui l’allora neoeletto presidente libanese Bashir Gemayel venne assassinato. Accadde il 14 settembre 1982, ma non ne seppi nulla fino alla mattina dopo, quando accesi la radio. Ero devastato. Non che fossi un sostenitore del partito guidato da Gemayel né di nessuna delle parti coinvolte nella guerra civile (che imperversava in Libano ndr). Ma Gemayel aveva promesso la pace e aveva promesso di unire il popolo libanese. Dopo sette anni di guerra civile, il Libano sembrava voler voltare pagina sotto la sua guida, fare pace con Israele e fare pace con se stesso. Speravo che avrebbe mantenuto le sue promesse. La sua morte pose fine a tutto questo.
(israele.net, 19 ottobre 2021)
Il 16 Ottobre e la bomba atomica
di Rav Riccardo Di Segni
Tra gli ebrei romani catturati il 16 ottobre, e gassati all’arrivo ad Auschwitz, vi sono tre nomi di persone anziane che forse si conoscevano, ma che a loro insaputa rimangono legati tra di loro per un’altra vicenda drammatica, quella della fabbricazione della prima bomba atomica. Sono Lionello Alatri, Augusto Capon e Amelia Treves in Segré.
Il progetto Manhattan fu la grandiosa operazione con la quale gli Stati Uniti d’America arrivarono a costruire i primi ordigni nucleari, due dei quali furono sganciati sul Giappone costringendolo alla resa e mettendo fine alla seconda guerra mondiale. A promuovere il progetto furono per primi dei fisici ebrei profughi dall’Ungheria, con l’appoggio di Einstein; convinsero molto lentamente il governo americano del rischio che la Germania nazista fabbricasse le bombe e che bisognava precederla; con il progredire del conflitto gli USA intensificarono le operazioni, concentrando nel massimo segreto il fior fiore degli scienziati di allora nel deserto del New Mexico, a Los Alamos. Un’altra ampia rete di scienziati e tecnici collaborò a distanza a varie fasi dell’operazione, spesso del tutto ignara della destinazione dei loro sforzi.
In questa grande operazione ebbero un ruolo non indifferente tre italiani, fuggiti a causa delle leggi razziali e approdati negli Stati Uniti: Enrico Fermi, fisico, premio Nobel nel 1938, sposato all’ebrea Laura Capon; Emilio Segré fisico nucleare, che il Nobel l’avrebbe ricevuto negli anni ’50; Marco Giorgio Salvadori, geniale ingegnere. Fermi e Segré furono isolati a Los Alamos, insieme alle famiglie, e fu loro interdetto, come agli altri, qualsiasi contatto con l’esterno. Salvadori fu consultato e collaborò ad alcuni progetti specifici senza sapere la loro utilizzazione reale.
Il padre di Laura era un ammiraglio di carriera deposto a causa delle leggi razziale, costretto su una seggiola a rotelle; rimaneva di simpatie fasciste (ha lasciato un diario) e conservava una lettera di lodi di a lui scritta da Mussolini. Avvisato per telefono dell’imminente arrivo dei tedeschi per catturarlo, mentre la sorella fece in tempo a scappare, lui si rifiutò di farlo, e quando bussarono alla porta mostrò la lettera del Duce, che fu assolutamente inutile. Arminio Wachsberger, preso anche lui nella retata e usato dai nazisti come interprete (cosa che gli permise di aiutare molte persone) raccontò a Enrico Fermi, durante un suo viaggio in Italia agli inizi degli anni ‘50, le circostanze della morte di Capon, sulla quale la famiglia sapeva ben poco.
Emilio Segré racconta nelle sue memorie che nell’estate del 1944 a Los Alamos fu convocato da Julius Hoppenheimer, che dirigeva i laboratori, e da lui ricevette la notizia della cattura della madre Amelia e del salvataggio del padre Giuseppe (che pochi mesi dopo sarebbe morto di malattia). Evidentemente Segré aveva fatto chiedere notizie sulla famiglia quando l’esercito americano era arrivato a Roma ai primi di Giugno 1944. I Segré, suoi genitori, avevano abitato a Tivoli, dove i loro famigliari si erano insediati come imprenditori nella fabbricazione della carta, che Tivoli facilitava per la sua abbondanza di acque. Durante la guerra abitavano a Roma a Corso Vittorio. C’è una lettera indirizzata in Vaticano nella quale Giuseppe Segré all’arrivo dei nazisti a Roma chiese rifugio, che effettivamente ottenne molto rapidamente nel convento delle Oblate Agostiniane di S. Maria dei sette dolori in via Garibaldi; per rendere un’idea della situazione, che non era ancora quella dei fuggiaschi disperati, i Segré si portarono in convento una dama di compagnia e una domestica. Non si sa perché, probabilmente perché quel giorno era uscita dal nascondiglio, Amelia fu comunque catturata dai nazisti. Era nata a Firenze nel 1869. Una via a Tivoli ne ricorda il nome.
La terza corrispondenza riguarda Marco Giorgio Salvadori, di padre non ebreo ma di madre ebrea, Ermelinda Alatri (di Marco e Elvira Cave), e sposato con Giuseppina Tagliacozzo (di Pio Sabatino e Laura Uzielli). Il nonno di Ermelinda era Samuele Alatri, mitica guida dell'ebraismo romano dell'ottocento.
Ermelinda si salvò dalla razzia, ma non si salvò suo fratello Lionello, nato nel 1878, catturato il 16 ottobre insieme alla moglie Evelina Chimichi (anch’essa gassata all’arrivo); un’altra sorella di Ermelinda, Vittoria sposata Sacuto, fu catturata nel febbraio del 1944 a Firenze, deportata e uccisa ad Auschwitz.
Gli intrecci della storia sono a volte incredibili. Qui i tre protagonisti italiani del progetto Manhattan sono stati colpiti nei loro affetti più cari e vicini dalla razzia del 16 ottobre.
(Shalom, 18 ottobre 2021)
Chi sono gli ebrei? Che posto hanno nella storia e nella vita della società contemporanea?
A queste domande, Amos Luzzatto, scomparso un anno fa, ha risposto con il saggio “Il posto degli ebrei”, che Garzanti ha recentemente ripubblicato.
di Eliana Pavoncello
Una scelta felice per un saggio imperdibile (scritto nel 2005 e ora saggiamente riedito) che ci conduce per mano nella comprensione non solo della multisfaccettata identità del popolo ebraico, della diaspora e delle sue conseguenze, ma anche dei fenomeni di antisemitismo che da tutto ciò derivano. Il che rende “Il posto degli ebrei” attualissimo, visto il tentativo di far risorgere i peggiori fantasmi della storia da parte di una destra che si dice moderna, ma che in realtà stenta a fare i conti con un passato scomodo e ad allontanare le frange più estreme e pericolose. Diciamo subito che Luzzatto (1928-2020) ha utilizzato sapientemente le sue competenze di medico e politico di alto livello. Ne viene fuori una trattazione agile, chiara e determinata, senza fronzoli e ammiccamenti, che apre squarci nella conoscenza della storia, così come è codificata sui libri di storia, e nella coscienza di molti. Alla base di tutto c’è un problema di metodo, che sfugge ai più e che porta troppo spesso a generalizzazioni dalle tragiche conseguenze. Per esempio, come definire chi è ebreo, visto che non tutti gli ebrei hanno le stesse caratteristiche fisiche, come ad esempio il famigerato naso grosso, non tutti provengono direttamente dal Medio Oriente, non tutti sono rispettosi delle regole religiose in ugual misura. Luzzatto svela, tra l’altro, che molte delle credenze su cui si basa l’antisemitismo, provengono proprio dall’impossibilità di approcciarsi a questo tema in modo più aperto e flessibile. E da lì nasce l’antisemitismo, da una definizione (non solo in termini etimologici) che mette un confine tra un noi percepito come nucleo separato da chiunque abbia caratteristiche diverse. Da lì ad attribuire complotti e azioni malevole agli “altri” il passo è breve, come mostrano i famigerati Protocolli dei Savi di Sion, ovvero la base dell’antisemitismo europeo. Luzzatto porta a ridiscutere la validità del mantra delle radici ebraico-cristiane da cui sarebbe nata l’Unione Europea, tema anch’esso di grande interesse, proprio alla luce della nostra storia, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alle nuove derive, come le leggi antiebraiche e le campagne antisemite di molti Paesi dell’est. Insomma, un saggio che isola gli stereotipi ai quali siamo purtroppo abituati, li individua e li identifica in una prospettiva utile per leggere la storia e la cronaca attraverso un occhio più vigile e disincantato.
(Riflessi Menorah, 18 ottobre 2021)
Israele - Consegne, cibo e medicine li porta il drone
di Fabio Scuto
Tra lo stupore dei bagnanti nel fine settimana dei droni hanno consegnato sushi, birra e gelato ai rappresentanti di stampa e tv in attesa sulla spiaggia di Hatzuk - a nord di Tel Aviv - come parte di un'iniziativa guidata dal governo per creare una rete nazionale di droni per consegne in tutto Israele. La "National Drone Initiative" è entrata nella terza delle otto fasi previste nel programma pilota, con una dimostrazione di 10 giorni per testare i voli dei droni sopra le aree urbane di Tel Aviv, Jaffa, Ramat Sharon, Herzliya e Hadera, dove la seconda fase del progetto è stato avviato a fine giugno. In questa nuova fase, i droni hanno effettuato circa 300 voli al giorno sopra aree aperte per diversi compiti come testare i sistemi autonomi, analisi del comportamento in aria, trasportare cibo in un determinato punto e persino consegnare sangue donato dalla banca del sangue Magen David Adom nell'area di Tel Aviv allo Sheba Medical Center. L'obiettivo è mettere a punto la tecnologia e le procedure dei droni e, in definitiva, aiutare a ridurre la congestione stradale e migliorare la qualità dell'aria creando una rete di corridoi aerei per le consegne di medicinali, esami medici e attrezzature, abbigliamento, cibo e merce in genere. Il programma è nato lo scorso anno come collaborazione tra il Centro israeliano per la quarta rivoluzione industriale (C4IR) presso l'Autorità per l'innovazione, l'Autorità per l'aviazione civile (ICAA) e la Smart Transportation Authority, il Ministero dei Trasporti attraverso società private israeliane e straniere. Al momento, i droni hanno un raggio di 5 km con un carico di circa 2,5 kg. In futuro potranno trasportare merci più pesanti e percorrere distanze maggiori. Secondo l'Israel Innovation Authority il prossimo anno i droni saranno in grado di effettuare missioni con un raggio di 100 km. I voli sono attualmente gestiti da otto compagnie che lavorano a stretto contatto con la polizia israeliana, i servizi antincendio e di soccorso e il comando dell'esercito dell'IDF Home Front Command.
(il Fatto Quotidiano, 18 ottobre 2021)
Esercitazione Blue Flag nel deserto del Negev per due settimane
Blue Flag 2021, la più grande e avanzata esercitazione aerea multinazionale mai ospitata dall’aeronautica israeliana, ha preso avvio domenica con un simbolico sorvolo congiunto sopra la Knesset effettuato da aviazione israeliana e Luftwaffe tedesca col titolo “Ali della storia”. E’ stata la prima volta che aerei militari tedeschi hanno sorvolano Gerusalemme dopo la prima guerra mondiale. “Il sorvolo esprime la forte partnership tra le due forze aeree e i due paesi e l’impegno per la cooperazione futura”, hanno dichiarato le Forze di Difesa israeliane. L’esercitazione Blue Flag si svolgerà nel deserto del Negev per due settimane, fino al 28 ottobre, con la partecipazione di otto forze aeree: oltre a Israele e Germania, vi prendono parte Italia, Gran Bretagna, Francia, India, Grecia e Stati Uniti. E’ la prima volta che caccia britannici prendono parte a un’esercitazione in terra d’Israele dopo la fine del Mandato Britannico. Lanciata nel 2013, l’esercitazione aerea Blue Flag si tiene ogni due anni per rafforzare la cooperazione tra i paesi partecipanti.
(israele.net, 18 ottobre 2021)
Aria nuova in Medio Oriente
Gli Accordi di Abramo un anno dopo
di Lorenzo Vidino*
Il Medio Oriente è più tranquillo. Non è certo quello che siamo abituati a sentire in riferimento a quella che da decenni è la regione più turbolenta del mondo. E non vuole assolutamente dire che i conflitti e le tensioni da cui è endemicamente flagellato siano evaporati. Ma negli ultimi mesi è ben visibile una generale tendenza che sta portando pressoché tutti i governi mediorientali ad adottare politiche estere meno aggressive e a dirimere le mutue divergenze attraverso la diplomazia.
Anche tra nemici storici si urla, ci si minaccia e ci si attacca meno. È cosi tra Arabia Saudita e Iran, la cui rivalità politica e settaria (si erge a rappresentante dei sunniti la prima, degli sciiti il secondo) ha spaccato il Medio Oriente negli ultimi 40 anni. Dall'inizio dell'anno Riyadh e Teheran hanno per la prima volta in anni iniziato a dialogare e si parla della riapertura delle reciproche ambasciate. Hanno riaperto le relazioni anche Egitto e Turchia, per anni divise alacremente dal supporto dato da Ankara alla Fratellanza Musulmana. Quasi tutti i Paesi arabi hanno riallacciato i rapporti con il regime di Bashar al Assad, constatandone la capacità di essere sopravvissuto alla guerra civile siriana. Ed è poi finito l'embargo del Qatar, con il quale gli altri Paesi del Golfo hanno riaperto relazioni diplomatiche e commerciali dopo anni di tensioni dovuti ai rapporti di Doha con la Fratellanza e con l'Iran.
Ed è proprio lo sviluppo commerciale la molla che spinge i Paesi della regione. Creare economie sostenibili per una regione che oltre alla drammatica situazione attuale negli anni a venire dovrà affrontare nuove criticità, tra cui boom demografico, diminuzione della produzione petrolifera e cambiamento climatico e conseguente desertificazione, è la priorità. E ciò porta ad accantonare o perlomeno a gestire differenze ideologiche per cercare accordi commerciali. In tal senso, anche chi nella regione vi si oppone non può non notare che uno degli effetti principali degli Accordi di Abramo, che hanno appena festeggiato il primo anniversario, è stato il boom di affari in ogni settore tra Israele e i Paesi arabi che li hanno sottoscritti. Gli Emirati Arabi Uniti incarnano perfettamente questa nuova stagione politica della regione. Se nella scorsa decade si erano guadagnati l'appellativo di "piccola Sparta" per l'impegno militare in vari teatri, dalla Libia allo Yemen, ora mirano dichiaratamente a diventare la Singapore del Medio Oriente - in pace con tutti e hub mondiale di commercio e innovazione.
In questo "nuovo" Medio Oriente potrebbe giocare un maggior ruolo anche l'Italia. Il nostro Paese ne ha le potenzialità: una vicinanza geografica e culturale maggiore rispetto ad altri Paesi europei, i quali scontano anche un passato coloniale tendenzialmente più pesante del nostro; un appeal del "brand Italia" che va dalla moda e il cibo a industrie più pesanti; e buoni rapporti con pressoché tutti i governi della regione (al netto di alcuni passi falsi diplomatici degli ultimi mesi, quali le tensioni inutilmente create con Arabia Saudita ed Emirati). Manca però la capacità di "fare sistema", di proporsi come un attore univoco con una partnership attiva tra pubblico-privato, come invece fanno bene francesi, inglesi e tedeschi.
* L'autore è il direttore del Programma sull'Estremismo alla George Washington University.
(la Repubblica, 18 ottobre 2021)
«Antisemitismo? L'ho subìto da sinistra»
Il portavoce della sinagoga di Milano: «Inutile sciogliere le sigle come Fn» . Intervista a Davide Romano
di Alberto Giannoni
MILANO - Davide Romano, lei è portavoce della sinagoga Beth Shlomo ed è stato assessore alla Cultura della Comunità di Milano, cosa pensa di questo «allarme fascismo» che torna a essere agitato dopo l'assalto di estrema destra alla Cgil di Roma?
«Penso che in questo momento la situazione sociale sia problematica. Che sfoci in violenza è grave, la violenza va fermata in modo rapido ed efficiente, che sia di destra o di sinistra è meno rilevante.
- Il suo mondo è molto attento a questa minaccia. Sta dicendo che non è rilevante ciò che sono quei gruppi ma ciò che fanno.
«Dico che non mi interessa la battaglia simbolica. Mi interessa che le persone violente vengano fermate, isolate, eventualmente punite per quel che fanno. Poi certo, io provo odio per fascisti e nazisti, per quel che hanno fatto ai miei nonni e bisnonni, ma se penso a mente fredda dico: facciamo ciò che è utile, non per istinto o partito preso. Se li chiudo cosa succederà».
- Cosa succede secondo lei?
«Magari andiamo a letto tranquilli se sciolgono una sigla, ma se cambia nome o i militanti si aggregano ad altre siamo punto e a capo. Forse la priorità è un canale preferenziale e veloce per perseguire i fatti di violenza politica».
- Meglio far emergere le realtà estremiste?
«Le forze dell'ordine, dicono che è meglio sapere chi si ha di fonte. Se finiscono in clandestinità non sai dove sono, dov'è la sede. Anni fa non c'erano social, oggi esistono canali irraggiungibili. Mi interessano risultati concreti e non si ottengono facendo scomparire le sigle».
- La rassicura di più una realtà polverizzata?
«Sono ben contento che l'estrema destra sia divisa in mille gruppi. Invece potrebbe esserci un' eterogenesi dei fini, magari i militanti di Forza Nuova vanno su altre formazioni rafforzandole. Parafrasando Andreotti, meglio avere venti gruppi dello 0,1% che uno del 2».
- Parlarne tanto è utile?
«La sinistra è forte su questo tema e insiste pensando che sia sentito da tutti in Italia. Non so, è stato molto usato».
- Una destra integrata nelle istituzioni è un bene? Fini?
«A Fini, all'epoca della svolta l'intero ebraismo strinse la mano. Ma non voglio parlare di politica. Posso dire che il Pdl di Berlusconi era una cosa, FdI un'altra. Dentro Fdi ci sono personalità democratiche e amiche di Israele e delle comunità, ma anche frange più inquietanti. Meloni dovrebbe accelerare le "pulizie", è interesse suo e del Paese. Di Salvini, tutto si può dire tranne che non sia amico di Israele».
- Comunque, l'antisemitismo non è solo di destra.
«Se devo essere sincero, io nella mia vita sono stato aggredito sempre dai centri sociali, gente di sinistra o estrema sinistra. Parlo di Milano. Alla fine degli anni Ottanta da qualche fascista, poi tutti gli attacchi, al Gay pride con la bandiera israeliana o al 25 aprile con la Brigata ebraica, sono arrivati da sinistra».
- Un sondaggio, due anni fa, ha rilevato che l'antisemitismo alberga più nell'elettorato di sinistra e «grillino».
«Non mi sorprende. Nelle istituzioni no, ma sui social, dietro certi svarioni su Israele tipici di una certa sinistra ci sono stereotipi sulla Shoah. Mi dispiace ma è così».
(il Giornale, 17 ottobre 2021)
Discutere in nome del cielo
Una prospettiva originale sul rapporto incandescente tra ebraismo, cristianesimo e islām. Il dialogo nasce in Grecia e la sua polifonia è una regolata forma di lotta. Nella Bibbia non incontriamo una teoria del dialogo, ma una sua particolare pratica, non conoscitiva ma etica, tesa a interpellare l’interlocutore, chiamandolo in causa. Tuttavia, i primi dialoghi che troviamo nella Torah sono quelli con il serpente, sotto forma di seduzione, l’inquietante dialogo ‘abortito’ tra Caino e Abele e il celeberrimo e serrato confronto tra Dio e Abramo, un appello a un’assunzione reciproca di responsabilità. Vi è poi la forma caratteristica di dialogo strutturante l’identità ebraica: la disputa rabbinica, con discussioni, opposizioni e dissensi. Esplorando i testi antichi con uno sguardo rivolto alla tesa attualità dei nostri giorni, Ugo Volli e Vittorio Robiati Bendaud prendono per mano il lettore e lo guidano su sentieri che la contemporaneità ci impone di riscoprire e comprendere.
AUTORI:
Vittorio Robiati Bendaud coordina il Tribunale Rabbinico del Centro-Nord Italia e da numerosi anni è impegnato nel dialogo ebraico-cristiano a livello internazionale. Allievo di Giuseppe Laras, approfondisce lo studio del pensiero ebraico e dei rapporti tra genocidio armeno e Shoaḥ Autore e traduttore, collabora con numerosi giornali e riviste. Per Guerini e Associati ha scritto La stella e la mezzaluna. Breve storia degli ebrei nei domini dell’Islām (2018).
Ugo Volli, semiologo e filosofo del linguaggio, è stato docente di Semiotica all’Università di Torino. Ha scritto di teatro, comunicazione, cultura su la Repubblica, L’Europeo, Epoca, l’Espresso, Il Mattino. Fra le sue opere si ricordano Manuale di semiotica (2002), Lezioni di filosofia della comunicazione (2008), Il resto è interpretazione. Per una semiotica delle scritture ebraiche (2019). Per le nostre edizioni ha curato, con Martina Corgnati, Il genocidio infinito (2015).
(goWare, 17 ottobre 2021)
Incontrarsi a Gerusalemme
Il mondo è piccolo e Israele lo è sicuramente ancora di più. Così capita che un padovano che vive da moltissimi anni a Gerusalemme, grande amico del Magen David Adom, possa imbattersi in una delle moto mediche arrivate sulle strade di Israele grazie al Maghen David Adom - MDA - Italia, e proprio quella dedicata a un uomo straordinario che conosceva bene. È successo a Alessandro Viterbo, fondatore e dirigente di Tsad Kadima che da decenni si occupa di aiutare i bambini israeliani che soffrono di lesione cerebrale.
“C’era una festa per l’inaugurazione di un nuovo giardino proprio vicino a casa nostra - racconta Viterbo, che tutti conoscono come Alex - mio figlio ed io abbiamo deciso di fare un salto. Lì abbiamo incontrato il volontario del MDA che presta servizio nel nostro quartiere, è stata una bella occasione per raccontargli chi fosse Rav Elio Toaf z.l. a cui era dedicato il mezzo su cui era in sella”.
Lo scooter utilizzato dal volontario è un Piaggio MP3, donato proprio dall’azienda di Ponterdera nel 2020 tramite Magen David Adom Italia ETS. Per la sua versatilità e capacità di portare i primi soccorsi dove servono è uno dei mezzi più impiegati da MDA in Israele che ne ha in forza circa 500. “Il rabbino Toaff z.l. era scomparso già da qualche anno quando abbiamo avuto l’opportunità di inviare questa moto medica in Israele, ricorda Sami Sisa, Presidente di MDA Italia ETS - ci è sembrato importante che fosse ricordato su un mezzo destinato a salvare quotidianamente la vita delle persone in Israele.
Magen David Adom Italia si sta impegnando ora per inviare un altro mezzo fondamentale per l’attività di MDA, un’ambulanza che anche questa volta sarà dedicata a una figura fondamentale dell’ebraismo rav Elia Richetti z.l..
(Shalom, 17 ottobre 2021)
Il peso della libertà
«Senza di noi essi non sapranno sfamarsi mai, mai! Nessuna scienza potrà dare loro il pane, finché saranno liberi; ma finirà che deporranno la loro libertà ai nostri piedi e ci diranno: 'Fateci schiavi, ma sfamateci!' Alla fine lo capiranno da sé, che libertà e pane terreno in abbondanza per tutti sono due cose che non possono stare insieme... e alla fine diventeranno anche docili. Essi ci ammireranno e ci guarderanno come dèi, per aver accettato di metterci alla loro testa e di dominarli, sopportando il peso di quella libertà che a loro faceva paura... tanto diventerà terribile per loro, alla fine, essere liberi!»
(Fëdor Dostoevskij, "I fratelli Karamazov")
impauriti, ingannati, sedotti e schiavizzati (ma contenti)
il diavolo sta preparando il mondo
ad accogliere l'anticristo
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Papa Bergoglio, la lettera di Paolo Apostolo ai Galati e il mondo ebraico
di Tommaso Todaro
La Galazia, provincia romana aspra e montuosa nel cuore dell’antica Anatolia, era stata raggiunta dal Vangelo molto prima della distruzione di Gerusalemme, avvenuta ad opera delle falangi romane comandate da Tito, nell’anno 70. In quell’occasione Gerusalemme fu devastata, il Tempio raso al suolo e il vessillo dei legionari innalzato sulla Porta Orientale (checché ne vogliano dire le solite Jene ridens che imperversano sul web). La Provincia era stata attraversata da Paolo Apostolo nel corso del suo secondo viaggio missionario, che lo aveva condotto ad Atene e a Corinto (Atti 16:6) e ancora nel terzo viaggio, quando aveva percorso «di luogo in luogo il paese della Galazia e la Frigia, confermando tutti i discepoli». (Atti 18:23) Il Nuovo Testamento contiene una lettera di Paolo indirizzata alle Chiese della Galazia, composta di sei capitoli, presumibilmente scritta intorno alla metà del primo secolo....
(Nuovo Monitore Napoletano, 17 ottobre 2021)
Tecnicamente kashèr, ma vietato
L’Impossible pork e l’ebraismo. La strana storia del maiale vegetale
di Rav Scialom Bahbout
La prima rivoluzione industriale, con lo sviluppo economico e ambientale che ha prodotto, ha creato molti problemi di cui oggi lentamente i governi si rendono conto: quale impatto ha avuto questa rivoluzione sul mondo ebraico e sulla Halakhà, che è il modo ebraico con cui l’ebraismo risponde ai cambiamenti. La rivoluzione digitale e le nuove tecnologie, assieme alla creazione di nuovi prodotti alimentari, hanno creato non pochi problemi, ma hanno anche permesso di risolverne altri e creare nuove opportunità. Gli ambiti in cui la Halakhà è stata chiamata a cercare una soluzione ai problemi che via via sono sorti sono vari: lo shabbath, la kasheruth, Pèsach, l’utilizzazione dei sistemi di comunicazione nelle riunioni di Beth din, partecipazione alle tefilloth, l’alimentazione ecc.
Per quanto concerne l’alimentazione, gli ebrei sono stati i primi a occuparsi in maniera professionale della certificazione degli alimenti: la Orthodox Union – l’azienda di certificazione alimentare più nota e maggiormente diffusa di cui si occupa da oltre cento anni, ha rifiutato recentemente di certificare una richiesta di kasheruth da parte di un’azienda che produce, tra l’altro, ciò che chiama “Impossible pork”: un prodotto che ha il sapore del maiale, ma che contiene solo ingredienti che sono tutti kasher. Quale principio ha indotto i responsabili della OU a rimandare al mittente la richiesta?
Penso che possano essere applicati in questo caso, il concetto “
Simanà miltà hi
”: cioè un simbolo può avere un’influenza pratica sulla vita. Questo è il senso dei vegetali che si mangiano la sera di Rosh hashanà, come simbolo che possa influenzare l’anno che sta per iniziare, oppure il principio “
Halakhà veen morim ken
”, cioè una certa cosa potrebbe essere permessa, ma viene proibita perché può generare confusione tra il pubblico.
Per quanto concerne il primo principio, non c’è dubbio che nell’esperienza ebraica di tutti i giorni, mangiare qualcosa che porta su di sé il nome Pork ha un’influenza sul linguaggio e sulla fantasia di chi ne fa uso. Insomma sembrerebbe quasi che si voglia mangiare quell’alimento in quanto non si può fare a meno di mangiare carne di maiale: esiste il pericolo che si possa andare ben oltre l’alimentarsi dell’Impossible pork, per sentirsi completamente simili agli altri. Insomma i Maestri non si soffermano solo sugli aspetti tecnici, ma guardano anche agli aspetti psicologici, collegati con ciò che si mangia: il nome non è “kasher” e ciò è che lo rende immangiabile. Si accusa la Halakhà di essere formalista, mentre vediamo che la Halakhà si occupa anche degli aspetti spirituali e psicologici delle persone.
Il concetto “
Halakhà veen morim ken
” ha un’applicazione ampia in vari ambiti e ha lo scopo di evitare che le persone, a partire da qualcosa che viene permesso, possano poi arrivare a essere più indulgenti nell’osservanza dello shabbat, nell’impegnarsi a studiare o insegnare Torà. Alcuni esempi: in linea di principio si potrebbe rispettare l’obbligo di studiare Torà anche con la sola lettura dello Shemà, alla sera e al mattino, ma questo non si insegna perché questa idea potrebbe diffondersi ed essere applicata anche all’educazione dei figli; sarebbe permesso mettere i Tefillin anche alla sera, ma non lo si fa perché ci si potrebbe addormentare e la cosa sarebbe disdicevole per la santità dei Tafillin.
L’uso della tecnica e le nuove tecnologie che la scienza mette a nostra disposizione sono viste con favore dall’ebraismo. Ecco alcuni esempi in cui c’è stata (e c’è ancora) discussione.
A) La produzione delle mazoth con macchinari ad hoc: la produzione fatta a mano è essenziale per garantire la kavvanà (ricordo che la signora che faceva le mazzoth a Tripoli mentre le lavorava diceva sempre mazzà mazzà); le impastatrici e le altre macchine usate non potevano garantire la pulizia necessaria per evitare che grumi di hamez rimanessero nelle macchine (motivo per cui a rigore bisogna fermare e pulire le macchine ogni 18 minuti per evitare la formazione di hamez); l’uso dei macchinari avrebbe ridotto il numero delle persone (specie donne) che si occupavano della preparazione delle mazzot, che per molte famiglie costituiva un’importante entrata economica che le avrebbero messe in grave difficoltà;
Che i Maestri non si occupavano solo di aspetti tecnici, è quanto viene raccontato a proposito della produzione di mazzoth in una cittadina lituana: Gli allievi di Rabbi Israel Salanter (fondatore del movimento Musar, “morale”) chiesero al loro maestro che era malato e non poteva assistere di persona alla preparazione delle mazzoth, a cosa dovevano fare attenzione durante la lavorazione per evitare di fare hamez, rispose: Non sgridate quella signora anziana che fa le mazzot! A questo dovete stare attenti!
Lo shabbath (e il giorno di festa) è stata l’istituzione in cui le nuove tecnologie hanno avuto un impatto più importante. Intanto bisognava decidere se l’energia elettrica poteva essere paragonata al fuoco. E’ chiaro l’energia elettrica veniva a sostituire quella prodotta dalla legna o dal carbone e che in sostanza al suo uso dovevano essere applicate le stesse norme del fuoco, ma questo doveva essere il prodotto di una analisi approfondita del fenomeno. Analisi successive hanno richiesto approfondimenti sulla natura della produzione della luce, sulle lampadine con filamenti incandescenti, le lampade al neon, le lampadine Led, i sensori di ogni tipo e i piani cottura che funzionano con induzione magnetica di più recente produzione. La situazione si è via via complicata a seguito dell’introduzione dei semiconduttori (ampiamente usati nei sensori e nelle lampade Led): in certi casi si potrebbero trovare elementi per permettere determinate azioni; tuttavia in questi casi si applica il principio per cui il pericolo che il sabato possa divenire una giornata simile agli altri giorni della settimana impone la cautela e non viene permesso, secondo il principio “
Halakhà veen morim ken
” o meglio ancora non si fanno di shabbat cose che possono essere considerate feriali (Uvda dekhulin), in modo da trasformare l’atmosfera dello shabbat.
Tuttavia, l’uso dell’energia elettrica – se preparato prima dello shabbat – ha permesso di sostituire i forni a carbone con la platta, la piastra che funziona con l’energia elettrica per tenere in caldo i cibi, cosa decisamente più semplice; riscaldare o arieggiare gli ambienti con l’uso di un timer cosa che ha reso lo shabbath più piacevole (ma che taluni avevano proibito). Ricordiamo che, accanto alla mizvà
Shamòr
– osserva – e quindi astieniti dalle opere proibite di shabbat – c’è anche la mizvà
Zakhòr
(ricorda) che ci chiede di trasformare lo shabbath anche in una giornata piacevole (Vekaràta lashabbat ‘onegh).
L’applicazione della Halakhà presuppone una conoscenza ampia di molti aspetti e soprattutto una sensibilità tale da impedire di incorrere in facilitazioni o rigori che non sono necessari e possono creare danni all’insieme delle mizvoth.
Uno degli aspetti non trascurabili della mancata approvazione dell’Impossible pork è il messaggio che si vuole dare a ebrei e non ebrei: l’ebraismo viene spesso criticato per essere troppo formalista. Questo e molti altri esempi dimostrano che i Maestri della Halakhà (i Poskim) hanno a cuore l’immagine della Torà e che le scappatoie non sono sempre percorribili. Le relazioni tra le singole mizvoth sono innumerevoli: solo chi non ha una visione parziale, ma una visione completa della Torà e dell’Halakhà sia nel suo insieme che nei particolari, è in grado di dare una risposta corretta ai nuovi problemi.
Non solo le azioni, ma anche le parole hanno una loro valenza, superiore agli ingredienti: la storia di una parola non può essere stravolta e perdere quei connotati negativi che l’avevano contraddistinta.
(Kolòt, 17 ottobre 2021)
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Le trappole della donna estranea
Riflessioni sul libro dei Proverbi. Dal capitolo 7.
- Ero alla finestra della mia casa,
dietro la mia persiana, e stavo guardando;
- vidi, tra gli sciocchi,
scòrsi, tra i giovani, un ragazzo privo di senno,
- che passava per la strada, presso l’angolo dov’essa abitava,
e si dirigeva verso la casa di lei,
- al crepuscolo, sul declinare del giorno,
quando la notte si faceva nera, oscura.
- Ecco farglisi incontro una donna
in abito da prostituta e astuta di cuore,
- turbolenta e proterva,
che non teneva piede in casa:
- ora in strada, ora per le piazze
e in agguato presso ogni angolo.
- Essa lo prese, lo baciò
e sfacciatamente gli disse:
- «Dovevo fare un sacrificio di riconoscenza;
oggi ho sciolto i miei voti;
- perciò sono uscita per incontrarti e poterti vedere,
e ti ho trovato.
- Ho abbellito il mio letto con morbidi tappeti;
con coperte ricamate con filo d’Egitto;
- l’ho profumato di mirra,
di aloè e di cinnamomo.
- Vieni, inebriamoci d’amore fino al mattino,
sollazziamoci in amorosi piaceri;
- poiché mio marito non è a casa;
è andato in viaggio lontano;
- ha preso con sé un sacchetto di denaro,
non tornerà a casa che al plenilunio».
- Lei lo sedusse con le sue molte lusinghe,
lo trascinò con la dolcezza delle sue labbra.
- Improvvisamente egli le andò dietro, come un bue va al macello,
come uno stolto è condotto ai ceppi che lo castigheranno,
- finché una freccia gli trapassi il fegato;
come un uccello si affretta al laccio,
senza sapere che è teso contro la sua vita.
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Ero alla finestra della mia casa,
dietro la mia persiana, e stavo guardando;
Gli ammonimenti che il giovane sta ricevendo non sono il frutto delle paure immotivate di una persona che vede rischi e pericoli da tutte le parti. Il padre saggio può raccontare quello che ha visto con i suoi occhi e che potrebbe accadere a ogni giovane che pensa di poter fare a meno degli avvertimenti di chi ha più esperienza e più saggezza di lui.
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vidi, tra gli sciocchi,
scòrsi, tra i giovani, un ragazzo privo di senno,
Nell'originale il termine tradotto con sciocchi viene anche reso con "semplici" (1.4), "ingenui" (1.22), "insensati" (1.32). Come in 1.4, anche qui vengono nominati contemporaneamente gli sciocchi (o "semplici") e i giovani. In questo contesto quindi il termine non esprime un giudizio, ma indica l'inevitabile inesperienza di chi è giovane di età. In questo gruppo di inesperti il saggio ne individua uno che è privo di senno, perché non vuole rendersi conto della sua inesperienza e crede di non avere bisogno del consiglio di nessuno. La sua colpevole insensatezza sarà resa evidente dal racconto delle sue azioni.
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che passava per la strada, presso l’angolo dov’essa abitava,
e si dirigeva verso la casa di lei,
La mancanza di senno del ragazzo viene fuori. Parlando della donna estranea, il padre saggio aveva detto al figlio: "Tieni lontana da lei la tua via e non ti accostare alla porta della sua casa" (5.8). E' proprio quello che il giovane fa. Dall'atteggiamento che assumerà la donna non sembra che l'incontro sia stato premeditato. Forse il giovane non aveva una precisa cattiva intenzione, ma resta il fatto che il suo ozioso bighellonare a tarda ora lo porta proprio nelle vicinanze di una persona pericolosa. Qualcuno ha detto: "Al pigro che se ne sta senza far niente, Satana trova sempre qualche tranquillo peccato da commettere".
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al crepuscolo, sul declinare del giorno,
quando la notte si faceva nera, oscura.
Scende la notte sul giovane, e non solo in senso fisico. Le tenebre spirituali l'avvolgono sempre più strettamente. E' privo di senno perché privo di pietà, quindi empio nel vero significato del termine. Per lui si compie letteralmente la parola: "La via degli empi è come il buio; essi non scorgono ciò che li farà cadere" (cfr. 4.19).
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Ecco farglisi incontro una donna
in abito da prostituta e astuta di cuore,
L'abito da prostituta può essere diverso a seconda dei tempi e dei paesi, ma un fatto li accomuna: deve rendere il corpo sessualmente provocante. L'elemento esterno dell'abito ha poi un importante collegamento interno: la donna è astuta di cuore. Il contrasto tra l'astuzia della donna e l'ingenuità del giovane verrà messa in evidenza dal successivo svolgimento dei fatti.
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turbolenta e proterva,
che non teneva piede in casa:
E' l'immagine di una donna che oggi si direbbe "emancipata". In casa si annoia, non vuole subire passivamente il suo destino. Quindi si muove, discute, decide, contrasta, aggredisce. Potrebbe sembrare un quadro positivo, se non ci fosse il seguito del racconto. Quello che la donna sostanzialmente rifiuta è la sua posizione di moglie. Tutto il resto non è che una conseguenza di questa fondamentale ribellione all'ordine stabilito da Dio.
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ora in strada, ora per le piazze
e in agguato presso ogni angolo.
La donna "emancipata" è anche inquieta. Il vuoto che è dentro di lei le impedisce di rimanersene tranquillamente a casa; si agita freneticamente perché è alla ricerca di qualcosa che non ha; crede di trovare un rimedio alla sua insoddisfazione assumendo l'atteggiamento del cacciatore. Sembra una persona decisa che sa come muoversi; ma in realtà non conosce "la via della pace" (Romani 3.17).
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Essa lo prese, lo baciò
e sfacciatamente gli disse:
Per conquistare la sua preda la donna non segue le consuete vie femminili: non cerca di attrarre l'attenzione su di sé e di affascinare il ragazzo. Con energica decisione prende l'iniziativa: lo afferra, lo bacia e sfacciatamente (lett. "con faccia impudente") gli rivolge per prima la parola. Si verifica "una cosa nuova sulla terra: la donna che corteggia l’uomo" (Geremia 31.22)
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«Dovevo fare un sacrificio di riconoscenza;
oggi ho sciolto i miei voti;
Il sacrificio di riconoscenza (Levitico 3; 7.11-36) aveva come caratteristica di essere accompagnato da un pasto comune che si consumava in presenza del Signore. La carne della vittima doveva essere mangiata il giorno stesso o al massimo il giorno dopo. Era un'occasione festosa a cui si invitavano parenti e amici. Considerate le reali intenzioni della donna, non è il caso di prendere in seria considerazione le circostanze che descrive, potendo essere tutte o in parte inventate. La vernice religiosa del suo discorso doveva servire soltanto ad aggirare eventuali resistenze morali del giovane. Poco dopo gli argomenti persuasivi della donna diventeranno di altra natura. Per arrivare ai sensi in certi casi bisogna prima ingannare la spiritualità. Purtroppo spesso questo viene capito meglio e prima da chi serve il peccato che non da chi vuole servire Dio.
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perciò sono uscita per incontrarti e poterti vedere,
e ti ho trovato.
Dopo il riferimento pio al dovere religioso, la donna si avvicina all'obiettivo assumendo toni più personali. Seduce il giovane lusingando il suo amor proprio, facendogli credere che proprio lui, e non altri, è l'oggetto dei suoi desideri e delle sue attenzioni. In realtà quello che probabilmente stava cercando era qualcuno che fosse abbastanza ingenuo da farsi irretire dalle sue moine. E in quel senso l'ha trovato. Ma il giovane non avrebbe nessun motivo di rallegrarsene.
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Ho abbellito il mio letto con morbidi tappeti;
con coperte ricamate con filo d’Egitto;
L'azione seduttiva della donna si rivolge a tutti gli aspetti della persona: spirito, anima e corpo. Dapprima parla allo spirito del giovane accennando al dovere religioso del sacrificio di riconoscenza (7.14); poi si rivolge all'anima inducendolo a credere di essere persona molto desiderata e ricercata (7.15); e infine aggredisce direttamente il corpo attraverso lo stimolo dei sensi. L'immaginazione visiva viene sollecitata con la rappresentazione di un'alcova lussuosa e accogliente.
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l’ho profumato di mirra,
di aloè e di cinnamomo.
La sensualità del giovane inesperto viene poi risvegliata dal riferimento a profumi esotici e costosi: mirra, aloè e cinnamomo. Trattandosi di aromi che sono nominati anche in quell'inno all'amore che è il Cantico dei Cantici (Cantico dei Cantici 4.14), forse la donna con le sue parole voleva far credere al giovane inesperto che i piaceri sensuali che stava per proporle erano giustificati dal loro "amore".
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Vieni, inebriamoci d’amore fino al mattino,
sollazziamoci in amorosi piaceri;
Terminata la cauta e progressiva marcia di avvicinamento, il linguaggio della donna diventa esplicito e diretto: Vieni, andiamo a letto insieme. Non dice proprio così, ma solo perché la crudezza della proposta deve ancora una volta essere attenuata da parole che si riferiscono a qualcosa di superiore e più nobile: l'amore. Il giovane non deve essere trattenuto da scrupoli di coscienza che potrebbero indurlo a credere che i piaceri a cui è invitato siano peccaminosi. No, la donna lo invita a sollazzarsi in amorosi piaceri. Il piacere che proverà sarà frutto dell'ebbrezza d'"amore" che i due sperimenteranno insieme. Il riferimento all'amore, che nella Bibbia non è mai disgiunto dalla verità, viene qui usato come efficace strumento di menzogna.
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poiché mio marito non è a casa;
è andato in viaggio lontano;
Superati gli scrupoli di coscienza davanti all'offerta di inebrianti piaceri, il giovane potrebbe ancora essere trattenuto da comprensibili timori di conseguenze spiacevoli provenienti dal marito. La donna, confermando in questo di essere "astuta di cuore" (7.10), previene queste paure assicurando che l'uomo (così si deve tradurre letteralmente il testo originale) è in viaggio. Dopo aver eccitato la parte sensuale del giovane, la donna si preoccupa di rassicurare la sua parte razionale con argomenti rassicuranti.
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ha preso con sé un sacchetto di denaro,
non tornerà a casa che al plenilunio».
Il marito è andato lontano, ha detto la donna, ma il ragazzo potrebbe temere di vederselo ritornare a casa da un momento all'altro. La donna lo rassicura dicendogli che sa quando tornerà: non prima del plenilunio; e come prova concreta porta il fatto che ha preso con sé molto denaro: segno evidente che doveva rimanere fuori casa per molto tempo.
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Lei lo sedusse con le sue molte lusinghe,
lo trascinò con la dolcezza delle sue labbra.
L'originale del termine lusinghe viene anche tradotto con "dottrina" (4.2), "sapere" (9.9, 16.21, 16.23), "istruzione" (Isaia 29.24). Bisogna quindi immaginare una donna che si intrattiene a lungo con il giovane uomo per "istruirlo", dall'alto della sua esperienza di donna navigata, su come vanno le cose nel mondo e convincerlo, con parole dolci e rassicuranti, che la sua proposta è nello stesso tempo ragionevole e attraente. Il suo atteggiamento non è diverso da quello dei falsi dottori che "con dolce e lusinghiero parlare seducono il cuore dei semplici" (Romani 16.18).
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Improvvisamente egli le andò dietro, come un bue va al macello,
come uno stolto è condotto ai ceppi che lo castigheranno,
Il continuo parlare della donna, la sua ricerca di argomenti convincenti, il suo tono dolce e suadente fanno pensare che il giovane abbia resistito a lungo all'opera di seduzione. Ma improvvisamente il ragazzo cede e decide di andarle dietro. Il termine "improvvisamente" nell'originale viene usato quasi sempre in relazione a catastrofi e sciagure (ved. 24.22; Isaia 47.11; Geremia 4.20, 6.26, 51.8). E di questo infatti si tratta, anche in questo caso.
La donna aveva detto che doveva fare un sacrificio di riconoscenza, e in un certo senso questo avviene. Per il sacrificio di riconoscenza infatti la legge prescriveva di offrire un bue o un montone (Levitico 9.4). In questo caso la vittima sacrificale è il ragazzo stesso, che viene trascinato dalla donna come un bue va al macello.
Il riferimento ai ceppi non è del tutto chiaro, ma in ogni caso vuol far capire che il giovane sta dirigendosi verso un luogo in cui riceverà il suo meritato castigo.
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finché una freccia gli trapassi il fegato;
come un uccello si affretta al laccio,
senza sapere che è teso contro la sua vita.
Le parole con cui si chiude il racconto non sono certo come quelle che normalmente vengono usate per descrivere una piccante "avventura". Il linguaggio è tragico. Il giovane sta per essere ferito in punti vitali e imprigionato in modo irreversibile. La sua vita è in pericolo, ma lui procede inconsapevole senza sapere quello a cui va incontro. Ancora una volta viene quindi sottolineata la mancanza di sapienza. Non ha voluto ascoltare la voce del padre saggio, non ha chiamato la sapienza "amica mia" (7.4), e di conseguenza la falsa amica è diventa la sua "sapienza". Chi non ascolta la voce della saggezza è condannato ad ascoltare prima o poi la voce della follia.
M.C.
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La lite per Eitan, la nonna in Israele denuncia per furto la zia italiana
Il tentativo di ostacolare il ritorno del bimbo
di Davide Frattini
GERUSALEMME - La giudice ha ascoltato i testimoni per tre giorni di fila la settimana scorsa, fino a notte fonda e anche il sabato sera alla fine del giorno di riposo sacro per gli ebrei. I legali hanno presentato le memorie giovedì, ora il tribunale si è dato una settimana per decidere. Una procedura accelerata perché la vita di Eitan possa tornare per quel che è possibile a una piccola stabilità quotidiana. Così gli strateghi che consigliano la famiglia Peleg, lato materno, hanno ideato un'altra mossa che toglie alla battaglia per l'affidamento del bambino qualsiasi possibilità di compromesso o intesa, un ultimo colpo per provare a dirottare - o almeno a rinviare - dove e con chi il bimbo di sei anni vada a vivere. La nonna Esther Cohen Peleg (tutti la chiamano Etty, è la madre di Tal morta nell'incidente sul Mottarone) ha sporto denuncia alla polizia di Tel Aviv contro Aya Biran: sostiene - racconta il telegiornale del Canale 12 - che la zia patema avrebbe rubato gioielli, un tablet e macchine fotografiche dall'appartamento dei genitori di Eitan (il padre Amit, anche lui scomparso nella strage del 23 maggio, è fratello di Aya) e che avrebbe usato il loro computer e i telefonini illegalmente. La accusa anche di aver utilizzato i soldi raccolti con il crowdfunding in Italia per l'assistenza legale invece che per le cure psicologiche a Eitan. L'obiettivo sembra chiaro: gli avvocati della famiglia Biran - che respingono la denuncia come ìnfondata - si sono rivolti alla Corte per la famiglia a Tel Aviv e hanno chiesto che applichi la Convenzione de L'Aia e ciò che prevede sul sequestro di minori: Eitan è stato portato in Israele l'11 settembre dal nonno materno Shmuel, ex marito di Esther, su un volo privato via Lugano senza avvertire e avere avuto il consenso di Aya che è tutrice legale del bimbo dopo una decisione del tribunale italiano. Su questo punto - spiegano gli analisti locali - è difficile che la giudice Iris Ilotovich Segal non dia ragione ai Biran. Ecco allora la denuncia alla polizia contro Aya che rischierebbe di non poter lasciare il Paese con un'indagine in corso, mentre tra le richieste al tribunale di Tel Aviv c'è il ritorno immediato di Eitan in Italia con lei. I Peleg e i loro consulenti cercano di controllare la narrativa attorno alla storia. È stato il nonno Shmuel - indagato in Italia per sequestro di persona e interrogato anche dalla polizia israeliana - ad andare in tv per una lunga intervista in cui ha detto di aver portato via il nipote «dopo aver perso la fiducia nella giustizia italiana». Ancora più pesante la nonna Etty che uscita dal tribunale ha urlato: «L 'Italia ha ucciso mio padre, mia figlia e l'altro mio nipote, adesso non può prendersi Eitan». In queste settimane il piccolo ha passato metà del tempo a casa del nonno - «è felice e non vuole andarsene» ha detto lui - e metà con Aya che è arrivata da Travacò Siccomario, provincia di Pavia - dove il bambino è cresciuto, è anche cittadino italiano - per partecipare alle udienze e stargli vicino. Prima di questa condivisione il fratello di Aya era riuscito a vederlo una volta: i legali dei Biran avevano dichiarato che Eitan «era in buona salute» ma che era in atto «un lavaggio del cervello» da parte dei Peleg.
(Corriere della Sera, 16 ottobre 2021)
La notte del ghetto di Roma: il grande racconto di Alberto Angela
Il 16 ottobre 1943 le SS invadono il Portico di Ottavia e catturano più di 1000 persone tra cui 200 bambini. Solo in 16 si salveranno. Ecco il racconto di quelle ore. Per non dimenticare mai.
di Alberto Angela
ROMA - 15 ottobre 1943, poco prima della mezzanotte cade una pioggia sottile sulle strade vuote. L'umidità si srotola sul selciato come un tappeto sottile e si arrampica sui muri delle case. Dietro quei muri, occhi spalancati di persone - donne, uomini, bambini - spaventate dal rumore improvviso di spari e di detonazioni. Più della paura è l'incredulità a stringere una morsa al collo degli abitanti dell'ex ghetto di Roma.
Un cattivo presentimento inquieta più di una tragica consapevolezza, soprattutto se si fa parte di un popolo che da tempi antichissimi ha dovuto scendere a patti col dolore, le persecuzioni, gli addii forzati. Persone che dopo la promulgazione delle leggi razziali in Italia non possono andare a scuola e hanno forti limitazioni sul lavoro. Cittadini di serie b, privati delle libertà che noi tutti riteniamo fondamentali e naturali. Una comunità così stanca di stare all'erta, che forse quella terribile notte ha sperato di non dover fare nuovamente i conti con un destino infausto.
Eppure in giornata, una donna in preda al panico giunta all'ex ghetto da Trastevere sotto la pioggia, aveva raccomandato agli abitanti di fuggire. Era venuta a sapere, nella casa di una signora dove sbrigava le faccende domestiche, che i tedeschi avevano stilato una lista di duecento capifamiglia ebrei da portar via insieme ai loro cari. Nessuno ha creduto a quella sorta di Cassandra vestita di nero, adesso però le sue parole riecheggiano come un presagio inascoltato tra le vie del Portico di Ottavia.
Che succede? Perché drappelli di soldati stanno sparando all'impazzata verso un cielo senza stelle? Sono tedeschi? E contro chi sparano se per strada non c'è nessuno? Di dormire non se ne parla. Un neonato scoppia a piangere per via del trambusto. La mano della mamma posata sulla dolce curva del suo capo lo rassicura e lui ricade nel sonno profondo e vulnerabile delle piccole creature.
Dalle fessure delle persiane qualcuno cerca di scrutare fuori e subito si ritrae, le schegge dei proiettili stridono troppo vicino ai telai delle finestre e il loro bagliore getta una luce effimera nelle stanze fredde. Poi d'improvviso il fracasso viene inghiottito dal silenzio della notte. Cos'è stato? Cercavano dei balordi? Allora noi non c'entriamo niente? Forse, per un attimo, gli ebrei tirano un sospiro di sollievo e l'ansia smette di premere sui loro ventri. Meglio accarezzare l'idea di stendersi qualche ora, convincersi che la donna vestita di nero altro non è che un'esagitata.
Purtroppo la Cassandra inascoltata non si sbagliava. Quello che accadrà qualche ora dopo è noto. Il destino di migliaia di vite segnato. La lucidità e la brutalità delle azioni commesse, implacabili e ingiustificabili. L'unico modo per rendere nelle nostre coscienze meno atroce il rastrellamento degli ebrei a Roma è continuare a raccontarlo. Sembra una contraddizione, ma sui ricordi, maggiormente su quelli più bui, va gettata la luce del presente. Per tenerli vivi, per evitare che nessuno dimentichi oppure osi emularli, contestarli o distorcerli.
Di sicuro, ripensando agli spari improvvisi e al monito della donna, ci si chiede perché nessuno abbia preso la via della fuga. Forse in quella mancanza di reazione c'entravano i fatti accaduti circa un mese prima. Era accaduto infatti che due rappresentanti della comunità ebraica erano stati invitati a villa Wolkonsky, allora sede dell'ambasciata tedesca e oggi residenza dell'ambasciatrice inglese, e lì erano stati ricevuti dal maggiore Herbert Kappler, il responsabile delle SS a Roma. Dopo i primi convenevoli, Kappler aveva accusato gli ebrei di essere doppiamente traditori. Innanzitutto perché erano italiani e, dopo l'8 settembre del 1943, tutti gli italiani erano considerati dei traditori. E poi perché erano ebrei e quindi ostili alla Germania. Con questo pretesto Kappler aveva imposto una sorta di riscatto, cinquanta chili d'oro da raccogliere e consegnare entro trentasei ore, altrimenti duecento ebrei della comunità di Roma sarebbero stati catturati e inviati in Germania. Sembra un'impresa impossibile, ma gli ebrei si mettono subito all'opera.
Scelgono come centro di raccolta dell'oro un locale adiacente alla sinagoga. Chi può accorre e porta con sé oggetti d'oro, gioielli e monete. A dare una mano anche persone che non sono di religione ebraica. Poi, col cuore in gola, quanto raccolto viene portato a villa Wolkonski, dove il maggiore Kappler non si fa trovare e fa dire alla sua segretaria che il tutto va portato in via Tasso, sede della polizia di sicurezza tedesca. Con la consegna dell'oro gli ebrei si credono in salvo. Ma il mattino seguente reparti delle SS si presentano al ghetto e sequestrano archivi, registri, manoscritti rari e documenti appartenenti alla Comunità. In tal modo viene portata via la memoria storica degli ebrei romani. Un altro duro colpo da digerire. Però, forse, questo ennesimo oltraggio può garantire almeno per un po' una relativa tranquillità. E invece no!
Prima dell'alba del 16 ottobre del 1943, qualche ora dopo gli spari della notte, gli ebrei dell'ex ghetto, ma anche quelli di altre zone di Roma, sentono dei rumori che stavolta non sono equivocabili. Quelli dei passi cadenzati e dei calci dei fucili contro le loro porte. Il suono di una lingua straniera che non parlano ma che riconoscono benissimo: raus, fuori! Chi non apriva si ritrovava con la porta di casa sfondata. Un'intrusione violenta e inflessibile volta a scovare donne e uomini, bambini e vecchi. E allora mentre la paura comincia a rosicchiare i nervi, non rimane che uscire, con gli occhi sbarrati, il cuore che batte forte nel petto. Venti minuti di tempo soltanto. Non uno di più per l'umiliazione di vestirsi davanti ai soldati, raccogliere le proprie cose, viveri per almeno otto giorni, chiudere a chiave l'appartamento dove si è vissuto per anni e ricordarsi che nessuno, nemmeno gli ammalati gravi, deve rimanere indietro.
Nessuno ha saputo raccontare quei tragici momenti come Giacomo Debenedetti nel suo 16 Ottobre 1943: "Le madri o talvolta i padri, portano in braccio i piccini, conducono per mano i più grandicelli. I ragazzi cercano negli occhi dei genitori una rassicurazione, un conforto che questi non possono più dare. Ed è anche più tremendo di dire non ce n'è ai figli che chiedono il pane". Il tutto avviene molto velocemente, in una maniera accuratamente pianificata. Vengono rastrellate le persone che si trovano in casa, sfuggono alla cattura quei pochi che si trovano già per strada. Nonostante la metodicità, la concitazione è palpabile. Si levano grida, avvisi e raccomandazioni. In pochi secondi ci si può mettere in salvo o sparire per sempre.
Il destino decide di sfilacciare la sua maglia in fili così ingarbugliati da sovvertire qualsiasi logica. E del resto che logica si potrebbe trovare in un inferno da dove non si alzano fiamme ma lamenti? Dove gli sguardi impietriti e rassegnati fendono l'aria pungente del mattino e i silenzi parlano? Allora accade che la salvezza giunga inaspettata su chi era in pericolo e la condanna piombi invece su chi aveva una condizione all'apparenza più favorevole. Come quella di una donna avvisata per tempo, ma che risale in casa per vestire il suo bambino. Entrambi verranno catturati. Entrambi moriranno.
Durante le fasi di preparazione di una puntata di Ulisse - Il piacere della scoperta, dedicata a questa pagina infausta della nostra storia, mi hanno lasciato attonito le parole di chi quel mattino era lì. Un atto di solidarietà inaspettato ha messo in salvo Emanuele di Porto, all'epoca solo un bambino. "Mia madre era uscita, era andata ad avvisare mio padre che facevano la retata. Quando è ritornata, da casa mia io stavo in finestra e ho visto un tedesco che se la prendeva. Allora sono sceso e sono andato là, da mia madre. Lei mi faceva cenno di andarmene, ma io non mi volevo muovere. Poi il tedesco se ne è accorto e ha preso pure me. Mi ha portato sul camion e, non so come ha fatto, mia madre m'ha dato una spinta e io me ne sono andato. E so' arrivato a piazza Monte Savello e so' montato sul tram, c'era quello che spezzava i biglietti là e gli ho detto guarda, so' ebreo me stanno a cerca' i tedeschi. Questo me fa: "mettete qua vicino a me". Poi, a 'na cert'ora me dà pure un pezzo de pane. Due giorni so' stato sul tram, e questi dell'Atac m'hanno aiutato. Se vede che se l'erano detti uno coll'altro, insomma, che io stavo là. E giravo sempre co 'sto tram, era la circolare. Pensavo a mia madre, il pensiero mio stava su mia madre, insomma. È morta lì ai campi di sterminio. Però io volevo anna' co lei".
Sono parole che ci raccontano l'ultimo, straziante gesto d'amore di una madre verso il figlio e della solidarietà dei tranvieri verso Emanuele. Solidarietà che non era affatto scontata, visti i tanti delatori che in quei giorni denunciavano gli ebrei. Qualcun altro non conosce invece il nome di chi lo ha salvato da una morte certa. È il caso di Mario Mieli: "Al momento di montare sul camion, è passata una signora che era andata al mercato, aveva fatto la spesa e stava con dei fagotti. Ha detto "questo è figlio mio, io l'ho lasciato perché, sa, abitiamo vicino ...". E questo tedesco non capiva, non sapeva. A un certo punto ha acconsentito a darmi in braccio a questa donna".
La zia del bambino che ha assistito alla scena si avvicina per prendere lei il nipote. La sconosciuta la mette in guardia: i tedeschi capirebbero che quello non è suo figlio e che lei ha mentito. Allora la zia fa un passo indietro, andrà a prendere il nipotino solo più tardi e gli farà da mamma per il resto dei suoi giorni. Della sconosciuta invece si perdono per sempre le tracce. Purtroppo in tanti, più di mille e duecento, non trovano nessuno che li aiuti a fuggire. In fila vengono spinti verso la palazzina che oggi è quella dell'Antichità e delle Belle Arti e poi radunati ai piedi del Portico d'Ottavia. Lì ci sono parcheggiati dei camion color fango, sormontati da teloni scuri. Gli abitanti dell'ex ghetto vengono fatti salire con la forza, le spinte e le minacce. Intanto, continua a scendere una pioggia sottile, la luce cruda di una mattina senza sole illumina lo scempio. I bambini vengono lanciati sui camion come pacchi postali, i vecchi sospinti da mani impazienti, un disabile scaraventato con tutta la sua carrozzina.
Da quel momento non sono più persone. Sono un materiale umano da usare a proprio piacimento, da smaltire secondo un piano tanto folle quanto vergognosamente lucido. E quando i camion accendono i motori, la vita di queste persone si arresta senza essere preceduta da una brusca frenata del mezzo che le trasporta. Perché la morte in certi casi comincia prima di emettere l'ultimo respiro. Dalle strette fessure dei camion getteranno impaurite un'ultima occhiata verso il cielo sotto il quale erano vissute, avevano amato, costruito una famiglia.
Poi, al Collegio Militare di Trastevere, gli uomini vengono separati dalle donne, tra queste due partoriranno in un cortile perché portarle in clinica per i tedeschi significava una possibilità di fuga. Dopo due giorni tutti, anche i neonati, vengono trasferiti alla Stazione Tiburtina e per loro comincerà un viaggio senza ritorno. Un viaggio verso Auschwitz. Un viaggio verso le camere a gas. Solo in sedici si salveranno. E per loro vivere non sarà meno difficile che morire. Così come per tutti coloro che in Europa, su altri treni, in altre nazioni, stipati come bestie, vanno verso quei campi di morte travestiti da campi di lavoro. Ebrei, zingari, oppositori politici, omosessuali. Tutti quegli individui che non rientravano nel Gleichschaltung nazista, l'allineamento volto a esercitare il totale controllo degli esseri umani a ogni livello pubblico e privato.
Il regime nazista inizialmente voleva liberarsi degli ebrei favorendone l'espatrio in altri Paesi. Ma quando alcune nazioni chiusero le loro frontiere, decise di sterminarli. Una "soluzione finale", presa nel 1942 durante la Conferenza di Wannsee, un lago vicino a Berlino. Una decisione che riguardava anche gli ebrei italiani. Tra essi una bambina che non è partita da Roma, ma da Milano. Oggi ha novantuno anni: Liliana Segre. Da anni, da molto prima di essere stata nominata senatrice a vita dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha raccontato la sua tragica storia nelle scuole, nei convegni, nelle piazze. La sua voce, così come quella degli altri sopravvissuti alla tragedia della Shoah, è una voce che non bisogna smettere di udire mai.
È la voce della coscienza di tutti: di chi ha patito e di chi ha ferito, di vittime e aguzzini. Una voce che ha denunciato non solo il dolore ma l'indifferenza sotto la quale la tragedia dell'Olocausto si è svolta. E le domande, le riflessioni, non sembrano cessare nella sua mente: "Sento tutto il peso degli anni oggi, ho milioni di domande a cui in realtà non ho trovato risposta e questo è forse il tormento più grande della mia vita", ha dichiarato dopo aver ricevuto dall'ambasciatore Viktor Elbing l'onorificenza dell'Ordine al merito della Repubblica tedesca, per lo straordinario impegno nel ricordare la Shoah e l'instancabile lotta contro l'odio e l'intolleranza.
Stati d'animo i cui germi rivivono ogni giorno: in un'azione squadrista volta a intimidire, in un bullo che vessa una persona fragile, in una minoranza sociale schiacciata da una maggioranza di idioti. La violenza è violenza. L'odio è odio, senza sfumature. E come nei versi della poetessa Wislawa Szymborska meglio non sottovalutarlo mai: "Guardate come è sempre efficiente, come si mantiene in forma nel nostro secolo l'odio/ Lo dicono cieco. Cieco? Ha la vista acuta di un cecchino". Sì è vero, l'odio vede bene, non è cieco di rabbia. Valuta e premedita. E lascia fuori dal suo campo visivo solo quello che non gli conviene vedere.
Noi però abbiamo gli occhi: teniamoli aperti! Andiamo nei luoghi di questa tragedia, di tutte quelle perpetuate da tutte le dittature. Leggiamo i libri e le testimonianze di chi ha vissuto questa terribile esperienza. Una volta di più facciamo un giro al ghetto, guardiamo in basso, verso quelle pietre d'inciampo dove ci sono i nomi e i cognomi di chi è stato strappato alla vita senza avere colpa alcuna. Per capire meglio, per dare abbrivio al cuore, per comprendere che il passato è fondamentale se si vuole leggere il presente. Per mettere a fuoco che i tanti oggetti custoditi nelle teche del museo di Auschwitz non sono oggetti. Sono ricordi. E i ricordi hanno un'anima. Perché sono appartenuti a gente che stava vivendo come noi adesso. L'onta bruna sotto le suole delle scarpe accatastate ci racconta di passi che non avrebbero voluto fermarsi. Le valigie vuote erano pronte per riempirsi di speranza, di sogni nati morti fatti a occhi aperti da donne e uomini un tempo felici.
(la Repubblica, 16 ottobre 2021)
In Israele ora il sushi lo consegna il drone
di Maicol Mercuriali
Siete in spiaggia a Tel Aviv e vi viene un certo languorino? Il pensiero corre a quei gustosi hosomaki e vorreste assaggiare anche temaki e uramaki? Niente paura, un ordine online e a stretto giro vicino al vostro lettino atterrerà un drone con tutte le prelibatezze che avete prenotato. In Israele sta prendendo forma la nuova frontiera del sushi delivery e i protagonisti sono proprio i velivoli a guida autonoma, come è stato mostrato nei giorni scorsi durante un'esercitazione su larga scala, la terza tappa delle otto in programma, nell'ambito dell'Israel's National Drone Initiative, un'iniziativa congiunta tra diversi soggetti tra cui l'Autorità per l'innovazione di Israele, il ministero dei trasporti e che gode del supporto del Forum economico mondiale. «Stiamo cercando di creare una rete nazionale. Non è un drone che vola da un punto all'altro.Vogliamo creare un sistema di gestione che permetta a molti droni appartenenti a molte aziende di volare insieme in area urbana per usi diversi», ha spiegato a Franceinfo Daniella Partem, dell'agenzia di innovazione israeliana. Sciami di droni per effettuare consegne dal cielo ed alleggerire in questo modo la congestione del traffico stradale, migliorando la qualità dell'aria (i droni sono elettrici) e riducendo i rischi di incidenti a terra. Il percorso a tappe è propedeutico a testare il sistema. «Lo stiamo facendo in modo incrementale per verificare la tecnologia, per dimostrare che è sicura e sotto controllo», ha affermato Eyal Billia, responsabile dei sistemi di trasporto intelligenti alla Ayalon Highways, società che gestisce il progetto. Il food delivery è sicuramente un campo di applicazione interessante per questo tipo di logistica: un mercato in crescita su cui i droni possono essere competitivi. Ma i piccoli veicoli controllati a distanza potranno avere altri compiti in futuro, dalla consegna di medicinali e dispositivi medici, fino al trasporto di merci più pesanti. Al momento i viaggi sono limitati ad un raggio di cinque chilometri dal punto di decollo e con un carico da 2,5 chilogrammi, ma entro il prossimo anno, secondo i piani della Israel Innovation Agency, i droni potranno coprire un raggio di cento chilometri e avere carichi maggiori. «Stiamo lavorando su questa opzione e sarà la prossima fase di questo progetto», ha detto un entusiasta Reut Borochov, che all'interno della Ayalon Highway sovrintende alla divisione dei droni. Ciò renderebbe questa forma di trasporto competitiva e commercialmente interessante: poter volare cento metri sopra il traffico, senza code e semafori a rallentare le consegne, sarebbe un bel passo avanti nel servizio. Almeno fino a quando il cielo non sarà affollato di droni.
(ItaliaOggi, 16 ottobre 2021)
Cari scrittori, noi israeliani non ci suicideremo per farvi contenti"
Intervista al giornalista Ben-Dror Yemini
di Giulio Meotti
ROMA - "Hanno mai boicottato la Cina? Perché boicottano solo un paese, l'unico stato ebraico al mondo?". Ben Dror Yemini, giornalista di punta del principale quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, è orripilato dall'ipocrisia del ceto letterario che decide di non farsi tradurre in Israele. Il primo caso di una lunga serie è quello di Sally Rooney, romanziera irlandese best seller nel mondo anglosassone, che ha chiesto che il suo ultimo libro, "Beautiful World. Where are you", non uscisse nello stato ebraico. "Ma anche se Israele avesse commesso delle violazioni e la Cina ne avesse commesse di più gravi, non è questo il punto", dice al Foglio Ben-Dror Yemini, che è anche scrittore e commentatore di origine yemenita.
"Il punto è che dicono che Israele è uno stato apartheid. Ma non lo è. Ha giudici della Corte suprema che sono musulmani, il 40 per cento dei suoi medici non è composto da ebrei, ma da arabi e musulmani. Non puoi chiamarlo così quando il presidente della più grande banca israeliana è un arabo. Dire che Israele è uno stato di apartheid significa ignorare completamente la storia. Mi auguro che in Irlanda, in Francia, in Inghilterra gli arabi abbiano gli stessi diritti che hanno da noi in Israele.
Negli anni Trenta c'erano molte menzogne contro gli ebrei e oggi ce ne sono molte contro lo stato ebraico. Troppi cosiddetti 'illuminati' preferiscono credere alle proprie menzogne contro lo stato ebraico. E sta diventando pericoloso. I fatti sono solo uno scomodo fastidio per gli opinionisti politicamente corretti, e in occidente i manifestanti rivolgono la loro rabbia contro Israele".
Rooney e gli altri risponderebbero che loro boicottano la presenza israeliana nei Territori conquistati da Israele nella Guerra dei Sei giorni. Ma anche questo argomento è orrendo secondo Ben-Dror Yemini. "Non possiamo dimenticare che, a seguito delle trattative, noi israeliani abbiamo offerto molto ai palestinesi, da Bill Clinton a John Kerry e Barack Obama tutti hanno sempre detto di no. Quindi, Israele non può ritirarsi dai Territori perché nel momento stesso in cui lo farà l'unico risultato sarà uno stato jihadista, come a Gaza o in Afghanistan dopo il ritiro degli americani. Quando lasci un territorio ai talebani nasce sempre uno stato jihadista. Quindi questi scrittori cosa vogliono? Un altro stato iraniano davanti a Tel Aviv? L'occupazione è un fatto positivo? No, ma l'alternativa è peggiore. Qui parliamo sempre del nostro paese, ma non ci suicideremo perché alcuni 'illuminati' dicono che dovremmo farlo. Noi sosteniamo la pace, questi scrittori no. Sono i nemici della Palestina, vogliono solo sterminare gli ebrei".
Ben-Dror Yemini dice che il Boycott, Divestment and Sanctions (Bds), il movimento per il boicottaggio di Israele, ha un obiettivo poco nobile: "Lo sterminio di Israele. Fateci un favore, non servite il jihad, ma i diritti umani. Io vorrei che i palestinesi vivessero in pace e prosperità, ma ogni volta che i jihadisti prendono il controllo il risultato è la distruzione e la morte. Questi scrittori occidentali sono gli utili idioti del jihad. Non vedono la realtà? Preferiscono essere ciechi, come negli anni Trenta. Allora si chiamavano nazisti, oggi woke".
Il Foglio, 16 ottobre 2021)
Ebrei, metamorfosi dell'odio
L' antisemitismo è sempre più globale e riguarda anche chi lotta per i diritti umani e la libertà. La denuncia nel pamphlet di Fiamma Nirenstein: contro Israele disinformazione, pregiudizi e bugie.
di Simone Innocenti
Jewish Lives Matter. Diritti umani e antisemitismo è il titolo dell'ultimo libro che giornalista Fiamma Nirenstein ha scritto per la casa editrice Giuntina nella collana Schulim Vogelmann. Un libro che porta avanti una tesi ben precisa: l'odio per gli ebrei è diventato l'odio per Israele. Il volume - che sarà presentato domani alle 17 alla Fondazione Spadolini - è in realtà un pamphlet nato quasi di getto, dopo il secondo attacco che la Palestina ha mosso nei confronti di Israele. «Dopo aver già scritto tanti libri ho notato che le cose sono peggiorate - spiega Nirenstein - Da episodi di antisemitismo tutto sommato locali, siamo passati a un momento storico in cui sono diventati globali: si va dagli Stati Uniti all'Europa. E il problema è che dal popolino alle élite istituzionali fino alle istituzioni più importanti si sta andando verso quella direzione. Io penso all'Onu che nonostante sia uscita con un protocollo con antisemitismo, non riesce a salpare le ancore da questo mondo». Quello che la Nirenstein descrive è un problema profondo che tocca, ad esempio, «tutte le classi sociali che si proclamano per i diritti umani - e penso anche al popolo dei Me Too - e ritengono di poter rendere parte della loro guerra quella allo stato del popolo ebraico, a Israele che è la sua più importante espressione», spiega la giornalista. Sembra dunque quasi automatico lo schema usato da chi odia Israele: «Collezionano mostruose bugie, non c'entra nulla la vicenda di due Stati: si vuole la distruzione dello stato ebraico accusandolo di essere uno stato di apartheid dove si pratica la pulizia etnica che occupa illegalmente il territorio. Lo si paragona a quello che era il Sud Africa anni fa: solo che quello lo era davvero ma Israele è tutto il contrario. È un Paese che cerca soltanto di difendersi da terribili nemici, sono quelli che hanno messo in piedi questa macchina propagandistica che produce menzogne senza senso». Di antidemocratico in Israele non c'è nulla. E non si può dire che sia razzista. Spiega la Nirenstein: «Uno dei tre giudici che condannarono il presidente israeliano Katsav era arabo. Negli ospedali israeliani ci sono malati arabi. E ci sono medici arabi e ebrei che sono fianco a fianco nella battaglia contro la malattia: sono tutti assieme quando lo Stato salva i siriani da Assad o rifugia i perseguitati del Medio Oriente. C'è una tale pulizia etnica verso i palestinesi che sono quintuplicati...». L'odio verso gli ebrei che viene da lontano, continua con le sue metamorfosi. «Durante la Shoah hanno ucciso sei milioni di ebrei ... Nel mio libro si spiega perché tutto questo odio», continua l'autrice che ha deciso di dare alle stampe il pamphlet dopo «l'ultima operazione di Gaza- 4.500 missili di Hamas in pochi giorni. Piovevano missili in mezzo alle solite dichiarazioni nei confronti di Israele, successe come durante la seconda intifada: ondata di odio non per i terroristi ma per le vittime del terrorismo. Ci furono manifestazioni in tutto il mondo contro questo popolo. E mozioni che chiedevano a Israele di smettere di difendersi: siccome c'erano pochi morti tra gli israeliani allora lo Stato doveva smettere di usare lo scudo di difesa per far pari con gli aggressori». La Nirenstein è «stanca» di tutta questa disinformazione: «Il New York Times ha pubblicato le foto dei palestinesi dei bambini morti sulle quali io per prima piango. Ma nessuno dice che quei razzi erano gli stessi usati dai terroristi o che quei bambini sono stati usati da Hamas come scudi umani». A livello europeo non va meglio:«Dopo gli accordi di Oslo, anche l'Unione Europea stabilisce linee guida per spingere i palestinesi a negoziare situazioni che devono essere negoziate, ma condanna sempre Israele». E in Toscana c'è antisemitismo? «Non vedo ancora delle manifestazioni di antisemitismo folgorante ma sento questa cosa del senso comune delle classi intellettuali, vale a dire che Israele abbia elementi di indegnità. Indegnità che poi si trasferisce sugli ebrei. Mi sembra circoscritto come fenomeno e spero che questo libro serva in qualche modo ad eliminarlo». Se si arriverà a un cambiamento è presto per saperlo: «Certo è che questo nuovo pensiero ha disegnato un universo di oppressori, dove Israele è accomunata con i suprematisti bianchi. Fa parte del circolo dell'oppressione bianca, imperialista, capitalista e colonialista. Questa è la visione alla rovescia che non deve diventare dilagante perché destruttura il nostro mondo democratico».
(Corriere fiorentino, 16 ottobre 2021)
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