Notizie ottobre 2014
L'Egitto «isola» il Sinai e la Striscia di Gaza
II Cairo crea una «zona cuscinetto» contro la minaccia islamista. Sarà lunga 14 chilometri. Svuotate 600 case, iniziata l'evacuazione dei residenti.
di Federica Zola
Lo Stato egiziano è in guerra contro il terrori-smo islamista. Il conflitto va avanti da anni, nella penisola del Sinai, ma ha raggiunto intensità inedita nelle ultime settimane. In particolare, lo scorso 24 ottobre, tre attentati in serie in diversi punti di Sheikh Zuweid hanno causato la morte di 26 agenti e il ferimento di una trentina.
Nella penisola ora è in vigore lo stato di emergenza. Il frangente è a tal punto drammatico da convincere le forze di sicurezza a designare una "buffer zone", cioè una zona cuscinetto, per separare la Striscia di Gaza dal territorio egiziano: fra i due lati del confine, infatti, mediante un fitto reticolato di tunnel sotterranei - sopravvissuto persino ai ripetuti bombardamenti aerei israeliani - i miliziani penetrano facilmente in Egitto.
La zona cuscinetto sarà lunga 14 chilometri e profonda 300 metri e permetterà all'esercito di agire contro gli uomini di Ansar beit al-maqdis (Partigiani di Gerusalemme) in modo più efficace, senza coinvolgere la popolazione civile. Per fare ciò, centinaia di abitanti stanno lasciando le proprie case per ordine dell'esercito. Non è chiaro, al momento, quanti cittadini abbiano già dovuto andarsene: testimoni sul posto parlano di migliaia.
Il premier egiziano, Ibrahim Mahlab, ha emesso un decreto per isolare i distretti nord-orientali. A Ra-fah, centro urbano tagliato in due dal confine fra Egitto e Striscia di Gaza, l'esercito ha evacuato 600 case su 805. Il governatore del Nord del Sinai, Ab-del Fatah Herhour, ha garantito che gli evacuati riceveranno un'indennità di 1.200 sterline egiziane (circa 130 euro) a metro quadro per le case in cemento armato e 600 per le altre. Le case costruite sopra i tunnel, invece, non saranno indennizzate. Chiunque si rifiuterà di lasciare la propria abitazione, secondo il decreto, sarà sgomberato forzatamente. Nel frattempo, gli abitanti della zona potranno usufruire di un corrispettivo di 42 dollari per tre mesi per pagare l'affitto delle case in cui risiederanno temporaneamente. In queste ore prosegue l'offensiva dell'esercito in tutta la penisola del Sinai: secondo quanto riporta il quotidiano alAhram, i militari hanno ucciso dieci terroristi e ne hanno catturati 28. I rastrellamenti riguardano le aree di al-Arish, Sheikh Zuweid e Rafah stessa. Vengono usati anche elicotteri Apache, grazie ai quali sono stati distrutti sette covi e tre depositi di armi. Da alcuni mesi, i jihadisti del Sinai hanno scelto di delocalizzare la battaglia con lo Stato centrale con azioni terroristiche anche nella capitale, fra cui l'ordigno esploso di fronte all'Università del Cairo (11 vittime) una settimana fa; inoltre, gli Ansar copiano le tecniche sanguinarie dei "colleghi" iracheni e siriani, decapitando i prigionieri sospettati di spionaggio a favore di Israele.
All'inizio di ottobre, infine, l'affiliazione allo Stato islamico di al-Baghdadi attraverso un comunicato ufficiale: un gesto atteso dai servizi segreti egiziani, in allerta anche per il fenomeno dell'arruolamento di giovani cittadini nelle file dell'Is. «Un complotto contro lo Stato egiziano da parte di soggetti stranieri», ha ribadito il presidente Abdel Fattah al-Sisi.
(Avvenire, 31 ottobre 2014)
Sinagoga corale di Vilnius, art nouveau lituana
di Andrea Lessona
Costruita nel 1903 in stile art nouveau, la sinagoga corale di Vilnius è l'unica della capitale lituana a essersi conservata dopo la sistematica distruzione di edifici ebraici da parte dei nazisti durante il periodo dell'Olocausto.
Sino al secondo conflitto mondiale, la presenza ebrea in Lituania era molto forte. In particolare nella sua città principale dove già nel 1633 era stata inaugurata la sinagoga grande di Vilnius, inaugurata nel 1633.
Per questo tra il 1902 e il 1903, su progetto di Dovydas Rosenhauzas, venne realizzata anche la sinagoga corale di Vilnius. L'architetto ha rivisto gli elementi moreschi e neo-bizantini in modo decorativo.
Lo ha fatto in particolare sulla facciata dove l'arco centrale troneggia sui portali da una grande finestra semicircolare. Dentro, invece, la grande cupola blu della sinagoga corale di Vilnius lascia scendere quattro pilastri che circoscrivono la sala centrale e sostengono le gallerie del matroneo.
Scampata al periodo nazista, durante quello comunista la sinagoga corale di Vilnius fu requisita e trasformata in fabbrica come impianto di lavorazione del metallo. Solo con la fine del regime sovietico, l'edificio torna di proprietà della comunità ebraica. E con il contributo del World Monuments Fund del 2008 viene restituita al suo antico splendore.
(Il Reporter Lituania, 31 ottobre 2014)
Germania - Una chiesa protestante si trasforma in sinagoga
La comunita' ebraica in espansione in ultimi anni nel Paese - Berlino, 30 ott 2014 - Un tempio protestante dell'ex Ddr, messo in vendita, diventera' una sinagoga. Lo ha annunciato la comunita' protestante di Cottbus, cittadina dell'est della Germania. La consegna ufficiale delle chiavi avverra' lunedi', ha riferito all'Afp Ulrike Menzel, che guida la Chiesa protestante di Cottbus. Siamo enormemente felici, ha commentato nel quotidiano Bild Max Solomonik, uno dei leader della comunita' ebraica locale che fino ad oggi si riunisce in dei locali affittati. Il Land del Brandeburgo, la regione che circonda Berlino e comprende la citta' di Cottbus, ha deciso di finanziare in gran parte l'acquisto dell'edificio religioso per la comunita' ebraica locale in piena espansione. E' un segnale di speranza dopo il tragico periodo nazista durante il quale la Chiesa cristiana ha mostrato troppo poca resistenza, ha di recente sottolineato il pastore della regione, Markus Droege. Cottbus, cittadina dell'ex Ddr situata a sud est di Berlino, non ha piu' una sinagoga dal 1938 quando il regime hitleriano incendio' e distrusse numerosi luoghi di culto ebraici in Germania. La comunita' ebraica fu annientata durante la Shoah. Una comunita' locale, di fatto proveniente dall'ex blocco sovietico, si e' ricostituita nel 1998 e conta oggi circa 350 membri, secondo il suo sito internet.
(ASCA, 30 ottobre 2014)
Scarta tutti e segna: è il Maradona palestinese
Numero del calciatore Omar Ordonia del Balata, nel match di Lega palestinese contro il Doura: il giocatore raccoglie la palla a centrocampo e semina gli avversari come un treno, incluso il portiere avversario, prima di appoggiare la palla in rete. Un gol che ricorda quello, storico, messo a segno da Maradona ai Mondiali messicani dell'86 contro l'Inghilterra.
(Gazzetta dello Sport, 30 ottobre 2014)
Grande Guerra: per il 4 novembre un film di Ermanno Olmi a Tel Aviv
TEL AVIV - Sara' proiettato alla Cineteca di Tel Aviv il 4 novembre in occasione del Centenario della Prima Guerra Mondiale e delle celebrazioni della Festa dell'Unità Nazionale e della Giornata delle Forze Armate, il film di Ermanno Olmi 'Torneranno i prati' sulla Grande Guerra. L'iniziativa - che e' in contemporanea in quasi 100 altri paesi sotto gli auspici della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in collaborazione con il Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale ed il Ministero dei Beni e delle Attività culturali - e dell'Ambasciata italiana in Israele, e dell'Istituto italiano di Cultura. Le Commemorazioni del Centenario della Prima Guerra Mondiale - ha spiegato l'Ambasciata - si inseriscono in ''un più ampio progetto internazionale che coinvolge tutti i paesi allora belligeranti ed è ispirato al recupero della memoria storica, anche attraverso il restauro e la valorizzazione di luoghi, monumenti e 'paesaggi commemorativi' teatro di eventi civili e militari. Si tratta di un anniversario importante per la costruzione dell'identità europea che coinvolge nazioni dapprima divise dalla guerra ed ora unite in un progetto comune. Un' iniziativa - ha concluso - volta a sensibilizzare sul valore della Pace e della fratellanza e integrazione tra i popoli''.
(ANSAmed, 31 ottobre 2014)
Troppo rumoroso il richiamo del muezzin: Un deputato israeliano propone di limitarlo
Un deputato della destra nazionalista israeliana vuole limitare il tradizionale appello del muezzin alla preghiera islamica, affermando che è troppo rumoroso. Il progetto di legge è stato presentato in questi giorni come un intervento contro l'inquinamento acustico ma rischia di esacerbare ulteriormente le tensioni fra gli israeliani e i palestinesi, la maggior parte dei quali sono di fede musulmana.
Il 20% della popolazione israeliana è araba e il richiamo del muezzin risuona in molte città d'Israele.
Diffuso tramite altoparlanti, invita i fedeli alla preghiera cinque volte al giorno, la prima delle quali all'alba. "La libertà di religione non significa poter calpestare i diritti individuali, come quello di dormire la notte", dichiara Robert Ilatov, deputato del partito Yisrael Beitenou che ha presentato il provvedimento e invita a trovare altri modi "creativi" per invitare alla preghiera. Secondo la sua proposta, spetterà al ministero degli Interni concedere l'autorizzazione alle moschee per il canto del muezzin.
Il partito Yisrael Beitenou del ministro degli Esteri Avigdor Lieberman aveva già presentato un'analoga proposta di legge nel 2011, ma allora diversi ministri del governo israeliano l'avevano bocciata nel timore di sollevare tensioni con i musulmani. Tensioni che questa volta potrebbero essere ancora più gravi, data la situazione di conflittualità di questi giorni a Gerusalemme.
(Adnkronos, 31 ottobre 2014)
La Svezia riconosce la Palestina Israele richiama l'ambasciatore
Ieri tensione con gli arabi a Gerusalemme
di Daniel Mosseri
L'annuncio era arrivato un mese fa: il nuovo governo socialdemocratico svedese riconoscerà la Palestina quale Stato indipendente. Giovedì la conferma da parte della ministra degli Esteri, Margot Wallström: «Riteniamo che sussistano i criteri internazionali per il riconoscimento dello Stato di Palestina: c'è un territorio, una popolazione e un governo». In conferenza stampa l'ex commissaria Ue ha messo le mani avanti: «Alcuni diranno che la nostra decisione è prematura (e così hanno fatto gli Usa, ndr). Temo invece che sia tardiva». E ancora: «Non scegliamo una parte contro l'altra. Scegliamo la parte del processo di pace». Di parere opposto Israele. La Svezia deve capire che le relazioni in Medio Oriente «sono più complicate delle istruzioni per montare un mobile Ikea», ha reagito il capo della diplomazia Avigdor
Un alto funzionario Usa ha rivelato a un giornalista vicino alla Casa Bianca che Obama considera Netanyahu «pomposo, codardo, miope, un arrogante cacca di pollo».
Netanyahu e Obama: chi è il codardo arrogante?
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Liberman, che ha subito richiamato l'ambasciatore a Stoccolma «per consultazioni». Per Liberman si è
trattato di «una decisione infelice, che rafforza gli estremisti». La decisione è arrivata mentre il premier israeliano Benjamin (Bibi) Netanyahu accusava il presidente palestinese Mahmoud Abbas di essere il
responsabile politico del tentato omicidio di Yehuda Glick. Colpito tre volte mercoledì sera da un arma da fuoco, Glick è il rabbino israeliano che rivendica anche per gli ebrei il diritto all'accesso al Monte del Tempio, il sito più sacro di Gerusalemme con Muro del Pianto e Spianata delle Moschee.
Netanyahu non perdona ad Abbas la propaganda in lingua araba dell'Autorità palestinese. La scorsa settimana una neonata israeliana di tre mesi e a una donna ecuadoregna di 22 anni sono rimaste uccise da un palestinese che le ha travolte alla fermata dell'autobus. Il giovane è stato ucciso a sua volta dalla polizia israeliana. Se poche ore dopo l'Anp deplorava in inglese la perdita di vite umane, Fatah, il partito del presidente, stampava poster inneggiando all'attentatore come «eroe e martire», con tanti saluti alle dichiarate intenzioni di Stoccolma di riconoscere la Palestina «per sostenere le forze palestinesi moderate». Se per Ramallah quella di Stoccolma è una decisione «storica e cora;-k;: osa, da imitare», per gran parte di Israele si tratta del goffo gesto di un governo neoinsediato per ingraziarsi il 7% di cittadini e immigrati di fede islamica; il solito tributo di «Eurabia». Brucia poi a Israele l'annuncio pro-Palestina di un rispettato Paese europeo nel momento in cui le relazioni con l'alleato americano sono ai minimi. Solo tre giorni fa un alto funzionario Usa ha rivelato al giornalista Jeffrey Goldberg, vicino alla Casa Bianca, che Obama considera Netanyahu «pomposo, codardo, miope, un arrogante cacca di pollo». Parole fatte circolare mentre Bibi dava il via libera a mille nuove unità abitative a Gerusalemme est, spiegando che «i francesi costruiscono a Parigi, gli inglesi a Londra, e noi costruiamo a Gerusalemme».
(Libero, 31 ottobre 2014)
Israele, il Medio Oriente e la diplomazia del gas che passa da Leviathan
La recente scoperta dell'importante giacimento al largo delle coste israeliane comporta nuove relazioni con i Paesi dell'area. L'Europa, finora assente, deve assicurare il suo supporto.
di Marco Carrai e Leonardo Bellodi.
Caro direttore, Golda Meir, primo ministro d'Israele dal 1969 al 1974, detta «dama di ferro» ben prima di Margaret Thatcher, diceva spesso che Mosè aveva condotto il popolo di Israele nell'unico territorio del Medio Oriente senza petrolio.
Se la signora Meir fosse stata viva il 17 gennaio 2009 avrebbe cambiato idea: quel giorno la società texana Noble ha scoperto al largo della costa israeliana un giacimento di circa 300 miliardi di metri cubi di gas. Due anni più tardi, poco lontano, è stato trovato un altro giacimento da 600 miliardi di metri cubi, che gli israeliani hanno chiamato Leviathan: un mostro marino citato nel libro di Giobbe capace di modificare a proprio piacimento l'ordine e la geografia. Mai nome fu più appropriato: queste scoperte sono destinate a creare un nuovo ordine energetico nel quale Israele può giocare un ruolo di primo piano. I numeri sono infatti di tutto rispetto: Leviathan potrebbe garantire il consumo di gas dei 28 Paesi dell'Ue per più di un anno e quello di Israele per più di 80. E nessuno sa quanto altro gas potrà essere scoperto ancora nella zona.
Le conseguenze di queste scoperte sono importanti per il mercato domestico di Israele che, dal 1948, è stato dipendente dalle importazioni di energia, spendendo più del 5% del proprio Pil, con conseguenze per il proprio bilancio e per la propria sicurezza. Oggi Israele diventa autosufficiente dal punto di vista energetico, e potrà contare in più, secondo i calcoli del gabinetto del premier Netanyahu, su 60 miliardi di dollari per la vendita del gas eccedente al proprio fabbisogno. Una cifra enorme che spaventa non pochi economisti: il valore dello shekel, la valuta nazionale, potrebbe aumentare, creando inflazione e rendendo meno competitivo l'export.
Ma la reale portata di queste scoperte consiste soprattutto nella fornitura di gas ai propri vicini. A chi, come e a quanto venderlo non sono scelte di tipo economico: sono decisioni che hanno implicazioni geopolitiche. Alcuni Paesi produttori di idrocarburi nel Medio Oriente e Nord Africa hanno in comune un problema non di poco conto: una produzione nazionale che stagna o è in declino e un aumento dei consumi interni risultato del progresso delle rispettive società civili. Poiché i consumi di idrocarburi sono sovvenzionati, produzione in declino e consumi in aumento creano un pericoloso circolo vizioso: ci sono minori entrate derivanti dalla vendita di petrolio e gas sui mercati internazionali e maggiori esborsi per sussidiare i crescenti consumi interni. Il combinato disposto di questi fattori crea disagio sociale e instabilità politica. È il caso dell' Egitto: nel 2013 le manifestazioni di piazza che hanno rovesciato il governo di Morsi sono state innescate anche dalla penuria di benzina e dalle frequenti interruzioni elettriche. L'Egitto, pur essendo uno stato produttore di idrocarburi, non ha abbastanza gas per coprire i fabbisogni domestici e non ricava abbastanza denaro dalla vendita sui mercati internazionali per far quadrare il bilancio. Circa il 7% del Pil egiziano è assorbito dai sussidi al consumo energetico che a loro volta rappresentano il 70% dell'insieme dei sussidi governativi.
Due anni fa, Israele riceveva il 70% del proprio fabbisogno di gas dall' Egitto. Morsi ha cancellato il contratto e oggi il gasdotto che portava il gas a Israele è vuoto. Basterebbe invertire il flusso, e Israele potrebbe per la prima volta nella storia esportare gas per soddisfare i consumi egiziani. Non solo: in Egitto il gas potrebbe essere trattato per essere esportato verso i redditizi mercati internazionali. Un'operazione che consentirebbe di saldare i legami tra Egitto e Israele e contribuire alla stabilizzazione di una regione che condivide minacce e pericoli derivanti da jihadismo e frammentazione di Siria e Iraq. Forse l'operazione «gas for peace» è già iniziata: Israele ha firmato a giugno un accordo per la fornitura di gas per i prossimi 20 anni alla compagnia elettrica palestinese e, sempre quest'anno, un contratto per una fornitura di gas per 15 anni alla Giordania, gas che prima Amman acquistava dal Cairo.
L'accordo tra Israele e Giordania è stato fortemente voluto, seguito e incentivato dall'amministrazione Usa. II capo della diplomazia energetica del dipartimento di Stato era presente alla firma e non era certo la prima volta che incontrava le parti. Washington ha capito l'importanza che le nuove scoperte di gas potrebbe avere per la regione. L'Europa è stata finora assente: eppure l'Europa e in primis l'Italia, vista la vicinanza geografica e culturale con i Paesi del Mediterraneo, potrebbe e dovrebbe giocare un ruolo dl primo piano. Il gas del bacino del Levante infatti potrebbe arrivare in Europa riducendo in parte la dipendenza dal gas russo. Certo i problemi non mancano: economici (si tratta di gas piuttosto caro), logistici (non è chiaro come potrebbe arrivare in Europa), politici (le infrastrutture devono attraversare le zone di interesse economico di Turchia e Cipro). Ma la sicurezza energetica europea e il contributo che il nuovo gas può dare a una regione che è a poche centinaia di chilometri dalle coste dell'Ue consigliano, anzi impongono, il massimo sforzo diplomatico e tecnico da parte dell'Europa e dell'Italia.
(Corriere della Sera, 31 ottobre 2014)
Gerusalemme, ancora alta la tensione
di Rachel Silvera
A Gerusalemme la tensione corre sul filo dopo i disordini dei giorni scorsi: mercoledì sera Yeuhda Glick, rabbino e attivista di destra è stato ferito mentre usciva dal Begin Center da un terrorista palestinese di 32 anni, Mu'taz Hijazi, che è morto poco dopo in uno scontro con la polizia. In risposta giovedì Israele ha deciso di chiudere, per la prima volta dopo quattordici anni, la Spianata delle Moschee per questioni di sicurezza. Una mossa pericolosa che ha scatenato l'ira dell'autorità palestinese e dei gruppi estremisti: se Abu Mazen ha reagito dicendo che un'azione del genere poteva generare solo una dichiarazione di guerra, Hamas ha invitato alla mobilitazione, Fatah ha invocato un Day of rage, una giornata di rabbia e la Jihad islamica ha chiesto di continuare la resistenza incitando a una nuova guerra di religione. Micky Rosenfeld, il portavoce della polizia israeliana ha spiegato: "La decisione della chiusura temporanea del sito è stata presa solo per evitare disordini ed incidenti. Oggi la Spianata delle Moschee sarà riaperta". Aperta, ma con delle restrizioni di età: potranno accedere solo gli uomini sopra i 50 anni, per le donne invece nessun limite. Gerusalemme si prepara oggi a contrastare i possibili attacchi: più di 3000 poliziotti sono dispiegati in tutta la città pronti ad intervenire in un venerdì da codice rosso. Nella notte un palestinese è stato arrestato a Sawahra perché teneva in casa due Kalashnikov e delle munizioni. Alle cinque della mattina un autobus è stato danneggiato dal lancio di sassi, due ragazzi di 22 anni sono stati inoltre arrestati mentre si preparavano a lanciare delle pietre. Bloccati altri due palestinesi che cercavano di entrare in Israele da Gaza. Al Monte del Tempio dei giovani arabi di Gerusalemme Est hanno cercato di superare il blocco della polizia al termine della preghiera di mezzogiorno, creando nuove tensioni. Gli scontri per il momento non hanno provocato feriti, quattro invece sono le persone ferite a bordo di un autobus che ha apparentemente perso il controllo vicino alla capitale. Intanto, dopo il funerale del terrorista Hijazi svoltosi ieri sera e sorvegliato dalla polizia che temeva nuove proteste violente, lo Shin Bet continua ad indagare nel sospetto che Hijazi avesse un complice. Le proteste potrebbero durare settimane se non mesi" ha dichiarato al Jerusalem Post un ufficiale di polizia, in una situazione che sembra non accennare a migliorare.
(moked, 31 ottobre 2014)
Abbas, le stragi e la responsabilità
di Khaled Abu Toameh*
Se i razzi di Hamas e gli attentatori suicidi hanno ucciso gli israeliani nel corso degli ultimi venticinque anni, la retorica dell'Autorità palestinese non è stata meno letale. In realtà, è questa retorica violenta che ha creato l'atmosfera invitante a lanciare attacchi terroristici contro Israele, come l'attentato che ha avuto luogo a Gerusalemme il 22 ottobre scorso. Chaya Zissel Braun, una neonata di tre mesi, è stata uccisa da un palestinese che con la sua auto ha travolto un gruppo di persone a una fermata del tram. Nove i feriti, tre in modo grave. Il palestinese autore dell'attentato è il ventenne Abdel Rahman al-Shalodi residente a Silwan, un quartiere di Gerusalemme Est.
Il giovane è stato colpito dagli spari [di una guardia civile, N.d.T.] ed è morto poco dopo il ricovero in ospedale. Abbas e l'Autorità palestinese (Ap) non possono sottrarsi alla responsabilità dell'uccisione della neonata. Per comprendere cosa spinge un giovane palestinese a perpetrare un attentato così letale, bisogna prendere in esame le dichiarazioni rilasciate dai leader dell'Autorità palestinese nel corso delle ultime settimane. È questo il genere di dichiarazioni che incoraggiano i giovani uomini come al-Shalodi a uscire di casa e uccidere i primi ebrei che incontrano per strada. Tali dichiarazioni si riferiscono a tre fatti legati al conflitto israelo-palestinese: l'operazione "Protective Edge" dell'estate scorsa, le visite individuali o di gruppo da parte degli ebrei al Monte del Tempio (detto anche Nobile Santuario) e gli ebrei che vanno ad abitare negli appartamenti del quartiere di Silwan. Durante il confronto militare di cinquanta giorni tra Hamas e Israele, di luglio e agosto, il presidente dell'Ap Mahmoud Abbas e i suoi alti funzionari della Cisgiordania hanno fatto diventare una pratica quotidiana la prassi di incitare il loro popolo contro Israele.
La campagna di incitamento anti-Israele ha raggiunto il suo apice con il discorso pronunciato da Abbas all'Assemblea generale delle Nazioni Unite il mese scorso, quando il presidente dell'Ap ha accusato Israele di condurre "una guerra del genocidio" nella Striscia di Gaza. Abbas non ha fatto alcun riferimento ai crimini commessi da Hamas contro gli israeliani e i palestinesi. Ora che la guerra nella Striscia di Gaza è finita, Abbas e l'Ap hanno spostato la loro attenzione sui recenti avvenimenti di Gerusalemme. Pochi giorni prima dell'attentato terroristico a Gerusalemme, Abbas ha denunciato a chiare lettere gli ebrei che si recano sul Monte del Tempio paragonandoli a "mandrie di bestiame".
Il presidente dell'Ap ha detto agli attivisti di Fatah che lo hanno raggiunto nel suo ufficio di impegnarsi "in tutti i modi" per impedire ai "coloni" ebrei di accedere al Monte del Tempio e "dissacrare i luoghi santi". Abbas ha aggiunto: "Dobbiamo impedire loro con tutti i mezzi di accedere al Nobile Santuario. Questa è la nostra al-Aqsa. Al-Aqsa è una linea rossa: Israele deve essere cosciente che i raid in corso e gli attacchi contro al-Aqsa causeranno un'esplosione vulcanica nella regione che raggiungerà Israele. Gerusalemme è la capitale eterna dello Stato di Palestina, e senza di essa, non ci sarà nessuno Stato". Abbas e la sua Autorità palestinese stanno sfruttando le visite degli ebrei al Monte del Tempio per incitare i palestinesi contro Israele. Essi bollano erroneamente queste visite come "assalti" e "incursioni" ai luoghi santi da parte degli "estremisti" ebrei.
Quarantotto ore prima dell'attentato di Gerusalemme, Abbas ha intensificato i suoi attacchi retorici allo Stato ebraico annunciando che ogni palestinese che vende, affitta, fa mediatore nelle transazioni immobiliari con [cittadini dei] "paesi ostili" (Israele) sarà punito con l'ergastolo e i lavori forzati. L'annuncio di Abbas è arrivato a seguito della notizia secondo cui alcuni palestinesi avrebbero venduto le loro case a famiglie di [coloni] ebrei nel quartiere di Silwan - dove viveva al-Shalodi. Minacciando di punire i palestinesi per la vendita di immobili agli ebrei, Abbas ha inviato il messaggio che fare da mediatori nelle transazioni immobiliari è un reato orrendo che non dovrebbe passare inosservato. Sono questi i tre fatti importanti che sono stati utilizzati dalla leadership dell'Ap per incitare i palestinesi [contro Israele]. Naturalmente, c'è anche il tragico caso di Mohamed Abu Khdeir, un adolescente palestinese rapito e ucciso da alcuni estremisti ebrei.
L'Autorità palestinese ha anche approfittato di questo fatto raccapricciante per incitare i palestinesi contro Israele. E poi c'è un altro tragico episodio, che riguarda una bambina palestinese di cinque anni, Einas Khalil, che è stata investita e uccisa dall'auto di un colono ebreo in Cisgiordania il 19 ottobre scorso. L'Ap ha utilizzato anche questa tragedia nell'ambito della sua campagna contro lo Stato ebraico. Le parole dell'Autorità palestinese non sono rimaste inascoltate. In diversi quartieri di Gerusalemme Est si sta già assistendo a ciò che i palestinesi chiamano "una mini-Intifada": gli scontri quotidiani tra i lanciatori di pietre e le forze di polizia. I palestinesi sostengono che l'uomo che ha lanciato la sua autovettura contro un gruppo di persone a una fermata del tram a Gerusalemme abbia agito per ritorsione contro i "crimini" israeliani.
Qualcuno dice che il giovane ha condotto l'attentato a causa della guerra di Gaza; altri asseriscono che l'episodio potrebbe essere collegato a quanto accade al Monte Tempio o al fatto che di recente le famiglie ebree si sono trasferite a vivere nel quartiere di al-Shalodi. Altri ancora ora ritengono che l'attentato di Gerusalemme sia stato commesso come ritorsione per l'incidente d'auto in cui era rimasta uccisa quattro giorni prima la bambina palestinese di cinque anni. A prescindere dalle sue motivazioni, è chiaro che l'uomo che ha condotto l'attentato più recente sia stato influenzato, in un modo o in un altro, dai messaggi inviati da Abbas e dalla leadership dell'Autorità palestinese alla loro popolazione. Se non si porrà fine alla dura e incendiaria retorica ci saranno nuovi attacchi terroristici.
* Tratto da Gatestone Institute
(L'Opinione, 31 ottobre 2014 - trad. Angelita La Spada)
Ormai è chiaro che larma più potente contro Israele è la menzogna, e nel suo uso Mamhoud Abbas è un maestro, avendo imparato da quel premio Nobel della menzogna che è Arafat. Menzognero è Abbas e menzogneri sono tutti coloro che hanno deciso di credergli. M.C.
I musulmani di Gerusalemme e il Monte del Tempio
Nel 1925 il Consiglio Supremo dei Musulmani di Gerusalenne, il Waqf, pubblicò una guida turistica in inglese intitolata: "Una guida succinta di al Haram-al-Sharif" in cui si dice che il luogo oggi chiamato "Spianata delle Moschee" coincide, "al di fuori di ogni dubbio", con il sito in cui si trovava il Tempio di Salomone, e a conferma viene citato il passo biblico di 2 Samuele 24:25. Naturalmente oggi Mahmoud Abbas, esperto come pochi nell'arte della dissimulazione, non direbbe la stessa cosa, ma anzi invita i suoi amministrati ad "impedire a tutti i costi" che gli ebrei possano andare a pregare sul luogo in cui si trovava il loro Tempio e dove il re Davide offriva i suoi sacrifizi molto prima che si sapesse che cos'è una moschea.
La guida musulmana del 1925. La frase riportata sopra si trova a pag. 4
(Notizie su Israele, 31 ottobre 2014)
Propaganda e manipolazione: come i nazisti raccontarono il Ghetto di Varsavia
FERRARA - Ancora un appuntamento di grande interesse promosso da Unife e aperto alla cittadinanza. Lunedì 3 novembre alle 17 nell'Aula Magna del Dipartimento di Economia e Management dell'Università di Ferrara, (via Voltapaletto, 11), si terrà una giornata di studio aperta a tutta la città sul ghetto di Varsavia, organizzata nell'ambito della collaborazione avviata già da alcuni anni tra l'Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna e il Mémorial de la Shoah di Parigi.
L'iniziativa propone una Lectio Magistralis del prof. Georges Bensoussan, storico e responsabile editoriale del Mémorial de la Shoah di Parigi e la proiezione di "A Film Unfinished" della regista israeliana Yael Hersonski, raro documentario con filmati di epoca nazista proprio sul ghetto. La giornata è realizzata grazie alla partecipazione del MEIS - Museo Nazionale dell'ebraismo italiano, con cui di recente la prestigiosa istituzione francese ha siglato un accordo di cooperazione culturale, con l'Istituto di Storia contemporanea di Ferrara e con il Pitigliani Kolno'a Festival di Roma, ed il patrocinio di Unife, Comune, Provincia, e Comunità Ebraica di Ferrara.
"La Lectio Magistralis del Prof. Bensoussan - spiegano gli organizzatori - fornirà un quadro della politica dei ghetti nazisti, analizzandola come tappa significativa nel percorso di distruzione dell'ebraismo europeo. Inoltre, focalizzando l'attenzione su fonti primarie ancora troppo poco conosciute (archivi e testimonianze delle vittime rinchiuse nel ghetto, ma anche testimonianze della visione dei carnefici che fotografarono e filmarono gli effetti della loro azione di annientamento), la lezione stimolerà una riflessione sulla conoscenza e sull'uso che oggi facciamo di tali fonti".
Alle 21 seguirà, alla Sala Boldini, (via Previati, 18), la proiezione gratuita di "A Film Unfinished", (Shtikat Haarchion, Il silenzio dell'archivio) di Yael Hersonski (Israele 2010, 89', v.o.sott.it.), preceduta da un'introduzione di Laura Fontana, Responsabile per l'Italia del Mémorial de la Shoah e Responsabile Attività di Educazione alla Memoria del Comune di Rimini.
"Si tratta di un documento originale sulla propaganda nazista nel ghetto di Varsavia - proseguono gli organizzatori - scaturito dal ritrovamento nei sotterranei di un archivio nell'ex Germania orientale, cinquant'anni dopo la fine della guerra, di quattro bobine di un film girato dai nazisti proprio nel ghetto, nel maggio 1942. Appena tre mesi prima dell'inizio delle deportazioni verso il centro di sterminio di Treblinka, le immagini mostrano una sorprendente contraddizione tra la miseria e la sofferenza di molti e il benessere di pochi fortunati. Solo in seguito furono scoperte altre bobine con le stesse scene ma riprese da altre prospettive. Ma soprattutto emerse un rozzo pre-montaggio che suggeriva l'idea di un vero e proprio film concepito alle spalle di questo footage, in sostanza di un copione che mostrava tutta la forza del messaggio manipolatorio della propaganda nazista che avrebbe voluto comunicare agli spettatori l'idea di una 'bella vita' condotta dagli ebrei nel ghetto, smentendo la drammaticità dei racconti sulla persecuzione ebraica".
Il lavoro straordinario compiuto dalla Hersonski, nipote di una sopravvissuta del ghetto di Varsavia, deriva anche dal fatto che è riuscita a rintracciare alcuni sopravvissuti di quel luogo, che ripercorrendo le immagini girate dai nazisti, raccontano cosa ricordano di quei tragici giorni e, soprattutto, svelano la finzione della pellicola. Dalle sue indagini è stato possibile ricostruire una sorta di doppio film, da un lato, un "normale" documentario delle terribili condizioni di vita nel ghetto, dall'altra la finzione imposta dai nazisti che organizzarono una vera e propria messa in scena con le vittime trasformate in attori e protagoniste di finti pranzi, ricevimenti, musica e feste, a dimostrare che gli ebrei non se la passavano poi così male.
(Ferrara24Ore, 31 ottobre 2014)
Facebook: ISRAELE360
Dalla rubrica di Beppe Severgnini sul Corriere della Sera
Non ci sono ne' vincitori ne' vinti. In guerra tutti perdono. Questo e' il mio pensiero e credo di molti altri. A due mesi dal termine dell'operazione "Protective Edge" in Israele siamo tornati a vivere, e sono sicuro anche a Gaza, dove parte del mio pensiero va alla popolazione innocente colpita e senza dimora, a causa del regime che li comanda (Hamas). Cinquanta giorni indubbiamente difficili. Ancora una volta mi rivolgo a questa rubrica un po' come fosse la rappresentante di tutti i media, tutti quei media che raccontano la "verita' parziale" su quanto accade in generale in Israele, e quanto accaduto in quest'ultima operazione. Non ho trovato sui media italiani menzione dell'ospedale organizzato da Israele fuori dal confine di Gaza per aiutare la popolazione palestinese. Non ho trovato sui media italiani informazioni relative alla cura dei civili siriani curati presso gli ospedali al nord di Israele. Non ho trovato informazioni sui media italiani notizie sul ricovero della figlia di Ismael Hanyeh (numero due di Hamas) in un ospedale di Tel Aviv per "cure mediche". Non avevo trovato neanche la stessa informazione riguardo alla cura di una sua nipote lo scorso novembre. Non ho trovato sui media italiani informazione della moglie di Abu Mazen, anch'essa, curata a Tel Aviv. Questo e' anche il motivo per cui con alcuni amici ho deciso di aprire la pagina
ISRAELE360, parlando di quanto accade in Israele, nel bene e nel male, fuori dalla politica. Mi puo' anche andar bene accusare Israele quando sbaglia, quando e' criticabile, ma mi piacerebbe avere ogni tanto, anche dall'altra parte, un'informazione piu' obiettiva e onesta. Utopia? Probabilmente.
Shalom da Tel Aviv.
Gabriele Bauer
(Corriere della Sera - blog di Beppe Severgnini, 31 ottobre 2014)
Gerusalemme, sale la tensione
Dopo l'agguato al rabbino Yehuda Glick, attivista di destra raggiunto da colpi di arma da fuoco sparati da un terrorista 32enne ucciso questa mattina in un blitz nel quartiere di Abu Tor, torna altissima la tensione tra governo israeliano e leadership palestinese.
Il sanguinoso episodo delle scorse ore, avvenuto all'ingresso del centro dedicato all'ex primo ministro Menachem Begin (Gerusalemme Ovest), ha infatti portato alla decisione del governo di chiudere temporaneamente, per motivi di sicurezza, l'accesso alla Spianata delle moschee.
"Dietro le violenze a Gerusalemme est c'è una ondata di incitamento da parte di elementi islamici radicali e del presidente dell'Anp Abu Mazen che ha dichiarato che occorre impedire con tutti i mezzi agli ebrei di entrare nel Monte del Tempio", ha affermato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. "Un'azione che equivale a una dichiarazione di guerra", ha replicato Abu Mazen.
Questa mattina, sempre a Gerusalemme, si è intanto svolto un vertice tra lo stesso Netanyahu, il ministro della Difesa Moshe Ya'alon, il ministro per la Pubblica Sicurezza Yitzhak Aharonovitch, il capo dello Shin Bet Yoram Cohen, il sindaco Nir Barkat e rappresentanti delle forze di difesa e del ministero della Giustizia.
La situazione clinica di rav Glick resta intanto grave ma stabile mentre è ormai virale un video che lo ritrae in un momento di preghiera assieme ad alcuni fedeli musulmani. Il rav è infatti un sostenitore della libera circolazione di cittadini ebrei nell'area del Monte del Tempio (dove oggi sorgono Moschea di Omar e Moschea di Al Aqsa) e vede in quel luogo un'occasione di fratellanza - ancora non sfruttata - per le due religioni. Di questo argomento, principale obiettivo della sua militanza, aveva appena finito di discutere al centro Begin.
L'attacco a rav Glick arriva dopo giorni di tensioni e violenze. La scorsa settimana un 20enne affiliato ad Hamas, proveniente da Gerusalemme Est, ha lanciato la sua auto contro alcune persone in attesa del tram mietendo due vittime tra cui una bambina di tre mesi. "Un altro morto e sarà Intifada", ha recentemente titolato il popolare quotidiano israeliano Yedioth Ahronot.
(moked, 30 ottobre 2014)
Modelle in carcere
Le foto della sfilata e del backstage in un penitenziario israeliano
A Neve Tirza, nel centro di Israele, c'è l'unico carcere femminile del paese. La struttura ospita 200 detenute tra i 18 e i 70 anni e tra i programmi di riabilitazione previsti dall'amministrazione penitenziaria c'è la formazione nel campo della moda. In queste foto una sfilata di modelle che hanno indossato abiti confezionati dalle detenute con il supporto di una scuola di design.
(RaiNews24, 30 ottobre 2014)
Scontro Israele-Svezia: lo Stato ebraico richiama il suo ambasciatore
Lo rivela "Haaretz": dura risposta di Gerusalemme dopo la decisione di Stoccolma di riconoscere lo Stato palestinese. Il diplomatico convocato in patria "per consultazioni" e vi rimarrà fino a nuovo ordine. Caustico il ministro "falco" Lieberman: "La pace in Medio Oriente è una cosa più complicata di montare un mobile Ikea".
GERUSALEMME - Israele ha deciso di richiamare in patria il suo ambasciatore in Svezia "per consultazioni". Lo rivela il quotidiano israeliano Haaretz. La clamorosa decisione è arrivata oggi in segno di protesta dopo che Stoccolma ha deciso di riconoscere ufficialmente lo Stato palestinese. Isaac Bachman, il rappresentante di Israele a Stoccolma, arriverà al più presto a Gerusalemme e vi rimarrà fino a nuovo ordine.
Il clima sarebbe così teso che, secondo Haaretz, il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman starebbe considerando di rimuovere definitivamente l'ambasciatore da Stoccolma. Una mossa che stravolgerebbe completamente le relazioni diplomatiche tra i due paesi, negli ultimi tempi messi a dura prova dopo la decisione svedese a favore del popolo palestinese. Una mossa "deplorevole" per il premier Netanyahu.
Dopo l'annuncio ufficiale di Stoccolma, Liberman aveva definito la decisione svedese "estremamente spiacevole", che "rafforzerà le forze radicali ed estremiste dei palestinesi". "L'unico modo per raggiungere un accordo vero", ha aggiunto il ministro, "è attraverso negoziati chiari tra Israele e i palestinesi. Mosse come quella di Stoccolma hanno il solo risultato di fomentare le richieste irrealistiche dei palestinesi, allontanando così la soluzione al conflitto. E' una cosa più complicata di montare un mobile Ikea".
(lFonte: la Repubblica, 30 ottobre 2014)
La Svezia riconosce lo Stato di Palestina
Come preannunciato ad inizio ottobre il governo di centro-sinista svedese riconoscerà in giornata ufficialmente la Palestina come Stato, primo membro dell'Ue a farlo. Lo ha confermato il ministro degli Esteri, Margot Wallstrom. Era stato il premier Stefan Lofven ha annunciare il passo nel suo discorso d'esordio al Parlamento. Annuncio che scatenò le ire non solo di Israele ma anche degli Stati Uniti. «Il riconoscimento è un contributo ad un futuro migliore per una regione che per troppo a lungo è stata caratterizzata da negoziati congelati, distruzione frustrazione», ha scritto Wallstrom nel quotidiano Dagens Nyheter, aggiungendo che «secondo alcuni questa decisione è prematura, ma io temo che sia invece tardiva».
Il capo della diplomazia svedese ha spiegato che l'obiettivo è sostenere i palestinesi moderati rendendo il loro status più simile a quello di Israele nei negoziati di pace.
L'Assemblea generale Onu riconobbe il 29 novembre 2012 alla Palestina lo status di osservatore permanente come Stato non membro, equivalente a quello del Vaticano. Finora solo il Parlamento britannico, con una risoluzione non vincolante e quindi pura espressione di intenti, aveva riconosciuto lo Stato palestinese.
Nell'Ue nessuno ha finora seguito l'esempio di Stoccolma ma Wallstrom si dice convinto che «noi oggi apriamo la strada» tra i Ventotto «e speriamo che altri seguiranno il nostro esempio».
Il presidente palestinese Abu Mazen ha accolto con soddisfazione la decisione. «Il presidente Abbas (Abu Mazen, ndr) dà il benvenuto alla decisione della Svezia», ha detto il portavoce Nabil Abu Rudeina, spiegando che il leader palestinese ha descritto la decisione come «coraggiosa e storica». Nel frattempo, Abu Mazen ha denunciato oggi che la chiusura della Spianata delle Moschee dopo l'uccisione di un esponente della destra israeliana a Gerusalemme è «una dichiarazione di guerra». «Questa pericolosa escalation israeliana è una dichiarazione di guerra al popolo palestinese, ai suoi luoghi sacri e alla nazione araba e islamica», ha detto il portavoce del presidente palestinese Nabil Abu Rudeina.
(Il Sole 24 Ore, 30 ottobre 2014)
Lidea di uno stato arabo palestinese è nata ed è stata portata avanti al solo scopo di arrivare a distruggere lo Stato dIsraele, di cui non si vuole accettare lesistenza e quindi gli si nega legittimità giuridica. Si riconosce il finto stato di Palestina perché non si riconosce il vero Stato dIsraele. E lultima forma storica di antisemitismo: lantisionismo come antisemitismo giuridico. M.C.
L'antisionismo, presentandosi come negazione del diritto degli ebrei ad avere una loro nazionalità, costituisce l'ultima forma di odio antiebraico. Il suo nome potrebbe essere "antisemitismo giuridico". Dopo l'antisemitismo teologico pseudocristiano e l'antisemitismo biologico pagano, quest'ultimo tipo di antisemitismo ha tutte le caratteristiche per diventare più esteso, più radicale, più viscido e di conseguenza più pericoloso di tutti gli altri.
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La destra israeliana accusa i palestinesi per l'attacco a un militante ebraico
È ricoverato in condizioni gravi un militante dell'ultradestra israeliana raggiunto ieri sera da almeno tre colpi d'arma da fuoco esplosi da un motoclista.
Si trovava nella città vecchia di Gerusalemme Yehuda Glick, noto leader del movimento che si batte perchè gli ebrei possano effettuare la preghiera nella Spianata delle Moschee.
"Quel che è accaduto questa notte è un tentato omicidio ai danni del leader della nostra organizzazione, Yehuda Glick, impegnato a guidare il popolo israeliano alla Spianata delle Moschee, al ritorno alla preghiera al Monte del Tempio" ha dichiarato il deputato Moshe Feiglin, membro del Likud alla Knesset.
Capo del Movimento Fedeli del Monte del Tempio, 50 anni, Glick aveva appena preso parte a una conferenza con parlamentari ed esponenti della destra israeliana che ha già puntato il dito sulla pista palestinese.
(Fonte: euronews, 30 ottobre 2014)
Il Cairo crea una zona cuscinetto a 14 km dal confine con Gaza
IL CAIRO - Il premier egiziano, Ibrahim Mahlab, ha emesso un decreto per isolare i distretti nord-orientali al confine con la Striscia di Gaza e scoraggiare i terroristi islamici e gli agenti di intelligence straniere a entrare e uscire dalla Penisola del Sinai. Sinora 260 abitazioni a Rafah, ai confini con la Striscia di Gaza, sono state evacuate per costruire una area cuscinetto di 14 chilometri, secondo quanto riferisce l'agenzia di stampa statale "Mena". Chiunque si rifiutera' di lasciare la propria abitazione, secondo il decreto, sara' sgomberato forzatamente. Gli abitanti della zona potranno usufruire di un corrispettivo di 42 dollari per tre mesi che consentira' loro di pagare l'affitto delle case dove abiteranno e un risarcimento di 266 dollari per metro quadro delle case da cui sono stati sgomberati. Le autorita' del Cairo stanno valutando la possibilita' di costruire una barriera di otto miglia lungo i confini con Gaza in seguito agli attentati dello scorso 20 ottobre in cui sono rimasti uccisi 34 militari. "E' un grande complotto contro l'Egitto", aveva commentato sabato scorso il presidente Abdul Fatah al Sisi, il quale ha accusato soggetti esteri di essere responsabili di questi attacchi.
(AGI, 30 ottobre 2014)
Antisemitismo e ingiurie: processo Stormfront, altri 29 indagati alla sbarrra
Nel mirino delle indagini le offese alla comunità ebraica.
di Federica Angeli
È iniziato ieri il secondo processo nei confronti di 14 persone, utenti del sito nazionalsocialista Stormfront. Il pubblico ministero Luca Tescaroli che ha istruito anche il primo processo conclusosi con la condanna per associazione a delinquere finalizzata all'incitamento alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali attraverso il sito internet Stormfront di quattro persone, ieri è tornato in aula con le stesse ipotesi nei confronti di altri personaggi. Accusati, a vario titolo, di aver diffamato personalità della Comunità ebraica, istigato a compiere azioni violente nei confronti di ebrei e persone di colore, e di aver divulgato idee razziali.
Tra i 14 imputati nel processo di ieri anche Mirko Viola, condannato nel 2012 a 2 anni e otto mesi di carcere insieme ad altri tre, ed ora di nuovo alla sbarra. Stavolta per la diffamazione nei confronti di un giornalista di religione ebraica. Viola, poco dopo la scarcerazione inviò una cartolina a Riccardo Pacifici che, secondo l'accusa, conteneva una frase minacciosa nei confronti del presidente della Comunità ebraica capitolina. La seduta di ieri è stato un pro forma, nel cuore del dibattimento si entrerà il 1 dicembre.
E intanto, un'altra tranche dell'indagine, la terza, si è conclusa e altri 29 indagati accusati in relazione alla pubblicazione, sul forum italiano di "Stormfront", di post, attraverso pseudomini, incentrati sulla superiorità o sull'odio razziale, sono stati rinviati a giudizio.
Il pm Luca Tescaroli contesta, a seconda delle posizioni, i reati di diffusione di idee fondate sull'odio razziale ed etnico e incitamento a commettere atti di violenza, diffamazione e minacce. Tra gli indagati Diego Masi, ritenuto uno dei moderatori del sito. Tra i soggetti presi di mira nei post gli ebrei, il sindaco di Lampedusa Giuseppina Maria Nicolini, lo scrittore Roberto Saviano e l'esponente politica romana Carla Di Veroli. Secondo l'accusa, seppur dietro pseudonimi, il gruppo era pronto a passare alle vie di fatto, inneggiando e rifacendosi a principi e idee in voga nel periodo nazista.
Il tenore dei post e dei commenti su Stormofront sono, secondo la magistratura romana, la prova evidente della violenza nei confronti della comunità ebraica.
(la Repubblica, 30 ottobre 2014)
Il centro di Moncalvo ritrova antichi fascini
Recuperata la facciata della Sinagoga grazie anche ad un privato
di Giuseppe Prosio
MONCALVO - Giusto il tempo di farsi bella per la 60a Fiera nazionale del tartufo, la cittadina esibisce importanti maquillage su tre singolari caseggiati del centro storico. Con oltre un milione di euro pescati dal proprio bilancio, l'Acquedotto del Monferrato ha ristrutturato attiguo alla sua lussuosa sede di palazzo Manacorda, un caseggiato dell'Ottocento di 700 metri quadrati, ex scuola materma e prima ancora istituto di accoglienza per giovani madri. Verrà utilizzato per l'ampliamento degli uffici tecnici.
In piazza Garibaldi, è stato reintonacato il palazzo fiancheggiante il Teatro civico,che fino al mese scorso era il punto meno interessante di una piazza cui la Società piemontese di Archeologia e Belle Arti aveva dedicato la foto di copertina del volume «La bellezza del Piemonte attraverso le sue piazze». Si è trattato di uno dei due interventi a beneficio di privati, che tramite il Gal Basso Monferrato Astigiano, hanno usufruito di cospicui fondi europei. L'altro intervento agevolato è il più carico di significati dei tre e non solo per Moncalvo.
Si tratta della sinagoga dell'attigua Piazza Carlo Alberto, un considerevole pezzo di storia ebraica che Claudia Debenedetti, vicepresidente dell'Unione comunità israelitiche italiane, ha più volte definito «L'unica sinagoga al mondo ad avere accesso dalla piazza principale della città». Luogo di culto fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, la sinagoga venne smantellata nel 1942 e venduta nel 1962 da un ebreo milanese alla famiglia Bergagna, che ora l'ha ristrutturata esternamente conservando sulla facciata il passo in ebraico e italiano di Isaia «La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti». La sinagoga di Moncalvo è nota a livello internazionale per aver custodito la Torah nell' «Aron ha Kodesh» un grosso armadio ligneo in oro rechino e colonne doriche in marmo ora custodito nella sinagoga di Ramat Gan, alle porte di Tel Aviv. E' purtoppo andato perduto, in Israele, lo stupendo soffitto in oro zecchino salvato dalle rapine naziste e destinato ad una scuola rabbinica di Gerusalemme. «Ringrazio la famiglia Bergagna per la sensibilità con cui ha restituto alla sua antica bellezza il Tempio ebraico di Moncalvo- puntualizza il sindaco Aldo Fara- Il loro è stato un grande verso un'altra confessione».
(La Stampa, 30 ottobre 2014)
Germania - Classe nazista che rimpiange Hitler: saluto romano e insulti agli ebrei
Ragazzi sotto inchiesta
di Federica Macagnone
«Heil Hitler». Entra in classe e alza dritto il braccio destro mentre ancora le sue parole rimbombano in aula. Uno dei compagni risponde e con questo rito può iniziare una nuova giornata di scuola nel mito del Terzo Reich.
Loro sono i 29 studenti di una classe della Landsberg School vicino Lipsia, in Germania. Hanno tutti tra i 14 e 15 anni e condividono il rimpianto per un passato che ancora oggi fa vergognare il loro Paese.
Secondo quanto raccontato dal Bild, i ragazzi, finiti sotto indagine, vivevano le loro giornate scolastiche nel culto del nazismo: sul giornale sono pubblicati slogan, saluti, foto, scambi di battute e messaggi di Whatsapp che hanno fatto inorridire genitori e insegnanti che si dicono ignari di ciò che accadeva.
Gli studenti si sarebbero esibiti ogni giorno in insulti antiebraici e avrebbero inneggiato al Führer, ritraendolo come un grande uomo. «Perché Hitler si è ucciso? - si legge in uno scambio di messaggi su Whatsapp tra due compagni - Gli ebrei gli hanno mandato la bolletta del gas».
Alcuni genitori hanno reagito dicendosi indignati dalla denuncia, sottolineando l'improbabilità che un'intera classe di adolescenti possa essere coinvolta. «Queste discussioni sulla classe nazista di Landsberg sono un mucchio di menzogne - ha dichiarato Eli Gampel, 54 anni, padre di uno dei ragazzi della 9A - Ho pensato fosse un brutto sogno quando ho aperto i giornali e ho letto l'articolo».
Tuttavia i media locali parlano del coinvolgimento di 29 ragazzi nelle chat di Whatsapp che li hanno incastrati. Gampel, ex capo della Comunità ebraica locale di Halle, ha raccontato che il figlio ha subito molestie da parte di alcuni ragazzi appartenenti a quella classe: «Lo hanno schernito e un giorno gli hanno attaccato un adesivo del partito di estrema destra alla giacca. Ho fatto una denuncia formale alla polizia ma ho dovuto convincere mio figlio a parlare perché era terrorizzato dalle possibili ritorsioni. Solo dopo una lunga insistenza mi ha confessato che quello che si leggeva sui giornali era vero».
Un portavoce del ministro dell'Istruzione si è detto scioccato e ha parlato di tolleranza zero nei confronti di questi atteggiamenti. Il preside della scuola, Lutz Feude, ha assicurato che i simpatizzanti del nazismo sono limitati a una sola classe. «Andrò a fondo su quello che è successo per colpire i responsabili» ha aggiunto.
La polizia, che ha in mano tutte le conversazioni e gli scambi di messaggi, ha già comunicato che due adolescenti sono sotto inchiesta, mentre un'indagine più ampia prenderà il via la prossima settimana, quando la scuola riaprirà dopo la pausa autunnale.
In Germania ogni manifestazione pubblica di simboli, saluti o frasi naziste è proibita ma un possibile rigurgito dell'ala estremista fa tremare il Paese: negli ultimi anni i gruppi neo-nazisti hanno infoltito le loro file trovando terreno fertile soprattutto tra gli adolescenti.
(Il Messaggero, 30 ottobre 2014)
La Jüdische Allgemeine dà voce agli ebrei italiani
"Crimini nazisti, dalla Corte una sentenza esemplare"
"Italien ist in Guter Verfassung", l'Italia è in ottima Costituzione. È un titolo forte, ironico e sferzante quello che i giornalisti dell'autorevole settimanale ebraico tedesco Juedische Allgemeine Wochenzeitung hanno assegnato all'editoriale dedicato alla sentenza della Corte Costituzionale, dove si riafferma il diritto delle popolazioni civili vittime delle violenze nazifasciste di agire nelle cause civili per il risarcimento del danno contro lo Stato tedesco.
Il giornale, notoriamente considerato molto infliente e molto ascoltato negli ambienti della Cancelleria berlinese, è presente di diritto, oltre che nelle edicole e nei locali pubblici delle principali città, in tutti gli uffici del governo tedesco, nei centri culturali, nelle biblioteche e nelle scuole statali.
Con un gesto significativo la direzione del settimanale pone in forte evidenza l'articolo, che suona come una dura messa in guardia rivolta all'esecutivo tedesco il quale già in passato aveva cercato di resistere a questa impostazione giuridica, ma ne affida anche la stesura a un opinionista ebreo italiano, Guido Vitale, il direttore della redazione giornalistica dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
Scrive Vitale, ribadendo punto per punto la linea già tracciata dal Presidente dell'Unione Renzo Gattegna: "Secondo le valutazioni emesse dalla Presidenza dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane si tratta di una sentenza esemplare, di grande valore morale, che rende giustizia alle vittime delle persecuzioni e dei genocidi e ai loro discendenti. Una sentenza che costringe tutti gli Stati a confrontarsi e a rispettare i valori contenuti nella Costituzione che l'Italia repubblicana volle darsi nel 1948 dopo la definitiva disfatta delle dittature fascista e nazista che avevano adottato il razzismo e il sistematico sterminio di intere popolazioni come pratica di conquista e di asservimento".
Gli ebrei italiani, sottolinea ancora Vitale, ritengono che questa sentenza costituisca "un ulteriore passo verso la libertà e l'eguaglianza di tutti gli esseri umani" e per eliminare "qualsiasi ostacolo al corso della Giustizia".
Nell'intervento si ricorda inoltre come il giudizio della Corte costituzionale riguardi il caso dei 244 civili assassinati dai militari tedeschi il 29 giugno del 1944 nelle località di Civitella in Val di Chiana, Cornia e San Pancrazio. Ma evidentemente, prosegue Vitale, il principio che nega l'immunità degli Stati responsabili di azioni criminali nei confronti delle popolazioni civili "rischia di scatenare numerose altre azioni legali per il risarcimento del danno subito da molti cittadini". Va quindi profilandosi un conflitto con il ministero degli Esteri tedesco, che non sembra disponibile a riconoscere i principi della Costituzione italiana, e soprattutto con la Corte internazionale dell'Aja, "che nel 2012 aveva dichiarato su richiesta del governo tedesco l'immunità degli Stati".
Come che stiano le cose la sentenza della Corte costituzionale, firmata dallo stesso presidente Giuseppe Tesauro, ha il merito - conclude Vitale - di richiamare l'attenzione sul principio che i crimini commessi dalla dittatura fascista e nazista "non devono e non possono mai essere dimenticati e coperti dall'impunità" e che la Giustizia "non deve piegarsi alle esigenze dei governi".
(moked, 30 ottobre 2014)
La Bibbia in farsi è pronta a raggiungere l'Iran
LONDRA - Presentata a Londra una nuova traduzione in lingua persiano moderno dell'intera Bibbia; alla cerimonia, organizzata dalla missione Elam (Elam Ministries), hanno partecipato oltre 500 leader cristiani di diverse confessioni.
Era presente anche Juliet Michaelian, vedova di Tateos Michaelian, presidente del Consiglio dei pastori evangelici in Iran e traduttore di numerosi libri cristiani in persiano: a lui nel maggio 1994, all'inizio del progetto di traduzione, era stato chiesto di assumere il ruolo di guida dell'opera, impegno interrotto dopo appena un mese in seguito al suo assassinio, a Teheran, per motivi religiosi. La prima copia della nuova Bibbia è stata consegnata simbolicamente proprio alla vedova di Tateos Michaelian, la seconda al nipote e le successive ai membri di altre famiglie che in questi ultimi anni hanno subito la perdita di una persona cara per la sua fede cristiana.
Coordinatore del progetto di traduzione della Bibbia, che ha visto al lavoro per più di diciotto anni una squadra di trenta traduttori, esegeti e specialisti, è stato il reverendo Mehrdad Fatehi che ha dichiarato: «È stato come crescere un figlio, diciotto anni di duro lavoro, ma ne è valsa la pena. Ogni singolo versetto - spiegano nel sito di Elam Ministries - è stato controllato per assicurare la traduzione più accurata e aderente possibile ai testi degli originali ebraici o greci».
La nuova traduzione è conosciuta negli ambienti cristiani e in quelli a loro vicini come "Versione del nuovo millennio". Il fondatore di Elam, Sam Yeghnazar ha spiegato che la sua organizzazione prevede di stampare e distribuire più di trecentomila copie della Bibbia in farsi entro i prossimi tre anni, la maggior parte per l'Iran, un paese islamico e "chiuso" che secondo alcune stime nel 1979 contava solo 500 cristiani e ora ne conterebbe almeno 750 mila.
(Evangelici.net, 29 ottobre 2014)
Israeliani e palestinesi in disaccordo anche sull'ora legale
Israeliani e palestinesi non si mettono d'accordo nemmeno sull'ora legale. Quest'anno il divario è stato solo di due giorni, con i palestinesi tornati all'ora solare nella notte fra giovedì e venerdì e gli israeliani, in linea con l'Europa, che hanno spostato le lancette degli orologi alle prime ore di domenica. Ma l'anno scorso la differenza oraria in autunno è durata per un mese, creando non poche difficoltà nella vita quotidiana di due società che di fatto sono interconnesse.
A complicare le cose, racconta il New York Times, non sono solo ragioni politiche ma anche religiose. In passato Israele ha rinviato il cambio dell'ora su pressione degli ultraortodossi per tutelare le festività ebraiche, che iniziano e terminano all'ora del tramonto. Quest'anno il governo ha scelto di allinearsi all'Europa anche perchè i partiti religiosi sono all'opposizione.
Il fattore religioso pesa anche sui palestinesi, che quest'anno sono tornati all'ora solare di venerdì, giorno di riposo e preghiera per i musulmani. Nel 2011, quando il mese sacro di digiuno del Ramadan è caduto in piena estate, i palestinesi non hanno fatto altro che spostare gli orologi: il primo agosto sono tornati all'ora solare, il 30 agosto a quella legale e il 30 settembre di nuovo a quella solare, due giorni prima di Israele. Se tutto questo sembra un pò complicato possiamo anche aggiungere che per due volte vi sono state differenze orarie anche fra la Cisgiordania, guidata dai palestinesi laici di Fatah, e la Striscia di Gaza sotto il controllo degli islamisti di Hamas.
(Adnkronos, 29 ottobre 2014)
Monte San Savino, la memoria ebraica riscoperta
di Lionella Viterbo
Il Gruppo di Studi storici della Comunità fiorentina ha iniziato il 16esimo anno di attività con un incontro dedicato al ricordo del professor Roberto Salvadori che per decenni si è dedicato con tanta passione ad approfondire e divulgare, con numerose ed apprezzate pubblicazioni, la storia della presenza ebraica in Toscana soffermandosi in particolare sulle Comunità di Firenze, Pitigliano e Monte San Savino. L'interesse per quest'ultima è scaturito come docente di Storia dell'Università di Siena nella sezione di Arezzo, dove ai primi dell'800 era nata una piccola comunità ebraica costituita proprio dagli ebrei savinesi espulsi dalla loro cittadina a seguito dell'attacco operato nel 1799 dalle bande armate al grido di "Viva Maria!".
Un numeroso e qualificato pubblico ha partecipato, nella sala della Comunità, presenti anche vari familiari, alla presentazione del bellissimo libro, riccamente illustrato "La Nazione ebrea di Monte San Savino e il suo Campaccio", ora edito dalla Giuntina, cui ha dedicato le sue ultime energie, e la cui stampa è stata curata con molta passione da Mauro Perani, Jack Arbib e Renato Giulietti .
La storia della nascita di questo importante lavoro è stata brillantemente raccontata da Mauro Perani, docente nell'Università di Bologna, che si è particolarmente soffermato sui bellissimi epitaffi delle tombe del cimitero, mentre Renato Giulietti, per anni archivista del Comune di San Savino, ha ricordato i vari eventi storici che hanno portato alla presenza degli ebrei per alcuni secoli in quella cittadina ai confini con lo Stato della Chiesa. Quindi l'architetto Renzo Funaro, uno degli autori, ha parlato, proiettando anche un interessante filmato, della "riscoperta" dell'antico cimitero e dei vari lavori negli anni operati per renderlo più accessibile e protetto con l'appoggio del Comune e soprattutto con le sovvenzioni del gruppo di tripolini residenti in Israele, raccoltosi attorno a Jack Arbib, che ha lanciato l'idea di adottare questo antico "campaccio" toscano al posto dei loro cimiteri distrutti in Libia.
Ha preso la parola anche uno degli altri autori presenti, Angelo Bardelli, che ha ricostruito le genealogie di molte importanti famiglie vissute a Monte San Savino, in particolare i Passigli. A chi scrive è toccato l'onore di aprire la serata avendo da un trentennio legato una profonda reciproca amicizia con il "maestro" Roberto Salvadori, conosciuto proprio nell'archivio della Comunità quando ambedue lavoravamo sui "Viva Maria", soggetto ripreso in questo libro. Nei prossimi giorni questo volume sarà presentato da Mauro Perani a Tel Aviv insieme a Jack Arbib, lì residente, e desidero chiudere riportando parte del suo saluto da me letto:
"Coscienti del suo stato di salute, abbiamo cercato di completare questo libro, da lui largamente ispirato, al più presto possibile. Con mio grande rammarico, non riuscimmo a presentargli il volume stampato. Ma nel dicembre 2013 gli spedii le bozze e così rispose: non è senza emozioni che leggo la presentazione delle 'nazione ebrea di Monte San Savino' e la tua introduzione che mi coinvolge, scoprendo le mie 'passioni' nascoste e attribuendomi un titolo che fa tremare le vene e i polsi, e questo alle soglie della conclusione della mia lunga vita, quasi a suo sigillo. Mi colpisce, così, la tua passione analoga e diversa che ha posto il nostro rapporto sotto il segno di un'amicizia crescente.
Dopo di allora, non mi fu più possibile vederlo, perché nel marzo 2014 mi scrisse che non era più in grado di ricevere visite. La Mishnah dice: Non hai l'obbligo di portare a termine l'opera, ma non sei esente dal cercare di completarla.
Mi sembra che questo pensiero possa essere un omaggio alla memoria di Roberto Salvadori e una fonte di ispirazione a noi".
(moked, 29 ottobre 2014)
Il Questore di Roma in visita alla Comunità Ebraica
Ieri pomeriggio il Questore di Roma Nicolò Marcello D'Angelo ha incontrato il Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, e il responsabile nazionale della sicurezza delle Comunità Ebraiche italiane Giacomo Zarfati. Durante l'incontro è stata ribadita la collaborazione tra la Questura di Roma e la Comunità Ebraica. La delegazione si è prolungata nel colloquio affrontando il tema dell'importanza culturale della presenza ebraica millenaria nella Capitale e ha apprezzato il continuo lavoro di informazione alla prevenzione che viene svolto durante l'anno all'interno delle classi delle Scuole Ebraiche.
"I miei migliori auguri - ha dichiarato il Presidente Riccardo Pacifici - vanno al Questore per la sua nomina nella speranza di continuare al meglio l'attività di prevenzione e di contrasto dei fenomeni criminali. Da parte nostra continueremo ad essere al fianco delle Istituzioni, come le Istituzioni sono sempre al nostro fianco".
(Comunità Ebraica di Roma, 29 ottobre 2014)
Il canale di Al Sisi per isolare Gaza e fermare la jihad
di Maurizio Molinari.
Il presidente Abdel Fattah al Sisi pensa ad un canale d'acqua per separare il Sinai dalla Striscia di Gaza, al fine di scongiurare l'arrivo in Egitto dei jihadisti dello Stato Islamico (Isis). A rivelare quanto sta maturando al Cairo è il giornale «Al-Masry alYoum», secondo cui sono stati i capi delle tribù beduine del Nord Sinai a suggerire il progetto del canale incontrandosi con i comandi militari dopo l'attacco che, venerdì, ha causato 33 vittime fra i soldati. Fonti del ministero della Difesa del Cairo spiegano che il progetto prevede la creazione di un corso d'acqua fra la città di Rafah - divisa a metà fra Egitto e Gaza - e il villaggio arabo di Karem Abu Salem, ovvero il valico di Keren Shalom con Israele. Si tratta di un percorso di 6 km che coincide con l'area dove sono più presenti i tunnel scavati da Hamas ed altri gruppi palestinesi per gestire traffici illeciti.
«In un primo momento avevamo pensato ad una zona cuscinetto lungo il confine» affermano le fonti militari, spiegando che «davanti alla necessità di spostare migliaia di persone» si è optato per il «canale d'acqua» che obbligherà a trasferire solo «alcune centinaia di persone». La realizzazione del progetto idrico ricadrà sui genieri militari - gli stessi a cui Al Sisi ha commissionato il raddoppio del Canale di Suez - e sarà sufficientemente profondo per costituire un'imponente barriera d'acqua per i trafficanti di Gaza. Sin dall'insediamento alla guida dell'Egitto, nel luglio 2013, Al Sisi ha inasprito la guerra ai tunnel di Gaza - giudicando Hamas un'alleata dei Fratelli Musulmani egiziani - inondandoli di letame, distruggendoli con esplosivi ed ordinando alle sentinelle di Rafah di fare fuoco su ogni cosa che si muove. L'idea del «canale di Gaza» porta alle estreme conseguenze tale approccio e si spiega con il fatto che, secondo fonti militari egiziane citate dal quotidiano «El Watan», l'attacco di venerdì è stato messo a segno dal gruppo jihadista Ansar Bayt al Maqdis - che ha aderito in agosto al Califfato di Abu Bakr al Baghdadi - grazie ad attentatori addestrati a Gaza da Mumtaz Durmush, capo del gruppo salafita Esercito dell'Islam. Sebbene Hamas neghi responsabilità dirette, il timore del Cairo si riflette nelle parole del generale Sameeh Beshadi, ex comandante militare del Nord Sinai, secondo il quale «i gruppi salatiti sono in grado di portare seri attacchi alle nostre forze armate grazie a una cooperazione con cellule palestinesi» capace di consentire a Isis di entrare in Egitto.
Tanto più che Adel Habara, leader islamico condannato a morte per terrorismo, dice dalla prigione: «Isis sta arrivando anche in Egitto». Avvalorando l'opinione di chi, come il direttore del Centro di studi strategici del Cairo Sameh Seif Yazal, ritiene necessario «evacuare tutti i civili da un'area lunga 8 km lungo il confine con Gaza dichiarandola zona militare chiusa» con un provvedimento dalle conseguenze più drastiche del canale idrico. Ironia della sorte vuole che durante il conflitto di agosto a Gaza «Gaza Canal» era il titolo di un video israeliano, molto popolare sul Web, che esorcizzava i timori della guerra ipotizzando il distacco per cause naturali della Striscia dalla terraferma.
(La Stampa, 29 ottobre 2014)
Estremismo islamico: gli errori di John Kerry
di Khaled Abu Toameh*
Quanto asserito dal segretario di Stato americano John Kerry, ossia che la mancanza di "una soluzione dei due Stati" ha alimentato l'avanzata del gruppo terroristico Stato islamico, corrobora la convinzione di come l'amministrazione americana non abbia alcuna cognizione di ciò che accade nei paesi arabi e islamici. Parlando a una cerimonia per la festa religiosa di Eid el-Adha, (la Festa del sacrificio, che si celebra alla fine del pellegrinaggio annuale alla Mecca, N.d.T.), Kerry ha detto che la ripresa dei negoziati di pace tra Israele e i palestinesi è di vitale importanza nella lotta contro l'estremismo islamico, compreso lo Stato islamico.
"Non c'è un solo leader tra quelli che ho incontrato nella regione che non abbia spontaneamente sollevato la questione della necessità di cercare di garantire la pace tra Israele e i palestinesi perché questa è una causa di reclutamento [nei gruppi estremisti, N.d.T.] e di rabbia e agitazione popolare". Kerry ha inoltre asserito: "La gente deve capire il nesso esistente tra queste due cose. E ciò ha a che fare con l'umiliazione, il diniego e la mancanza di dignità". In seguito, il Dipartimento di Stato americano ha negato il fatto che Kerry avesse potuto fare una dichiarazione del genere.
Il vice-portavoce del Dipartimento di Stato, Marie Harf ha detto ai giornalisti che le parole di Kerry sono state distorte per finalità politiche, e ha puntato il dito contro il ministro dell'Economia israeliano, Naftali Bennett.
"Ciò che Kerry ha asserito è che durante i suoi viaggi volti a costruire una coalizione contro lo Stato islamico, gli è stato detto che se il conflitto israelo-palestinese fosse stato risolto, il Medio Oriente sarebbe stato un posto migliore", ha spiegato la Harf. Lo Stato islamico è uno degli effetti collaterali della "Primavera araba" che è iniziata come una rivolta laica contro la dittatura araba ed è generata in anarchia, disordini, terrorismo e massacri causando la morte di centinaia di migliaia di arabi e musulmani.
La "Primavera araba" non è scoppiata a causa del conflitto israelo-palestinese. Piuttosto, è stata il risultato naturale e inevitabile di decenni di tirannia e corruzione nel mondo arabo. I tunisini, gli egiziani, i libici e gli yemeniti che hanno rimosso i loro dittatori dal potere non lo hanno fatto per la mancanza di una "soluzione dei due Stati". Né gli arabi sono insorti a causa del fallimento del processo di pace tra Israele e i palestinesi. Questa è l'ultima cosa che gli arabi avevano in mente quando sono scesi per strada a protestare contro decenni di dittatura e malgoverno.
È stata questa "Primavera araba" e non il conflitto arabo-palestinese a portare i Fratelli musulmani al potere in Egitto. Ed è la stessa "Primavera araba" che ha visto l'avanzata di gruppi terroristici islamici come il Fronte al-Nusra, il Fronte islamico, l'Esercito dei Mujahidin, lo Jund al-Sham e più di recente dello Stato islamico dell'Iraq e della Siria. L'avanzata dello Stato islamico è un risultato diretto dell'anarchia e dell'estremismo che hanno travolto i paesi arabi e islamici negli ultimi anni.
Le migliaia di musulmani che volontariamente si uniscono allo Stato islamico (SI) non lo fanno perché sono frustrati dalla mancanza di progressi nei colloqui di pace israelo-palestinesi. Essi non bussano alla porta dello Stato islamico perché sono delusi dal fatto che la soluzione dei due Stati non si è concretizzata. Kerry è comunque ingenuo a pensare che i jihadisti credano in qualcosa chiamato "soluzione dei due
Stati". L'unica soluzione in cui lo Stato islamico crede è quella che porterebbe alla creazione di un califfato islamico sunnita in Medio Oriente dove i non musulmani sopravvissuti ai massacri sarebbero obbligati a seguire la Sharia, la legge islamica.
Non solo lo Stato islamico è contrario alla "soluzione dei due Stati", lo è anche all'esistenza di Israele e di uno Stato palestinese. Sotto il nuovo califfato islamico non c'è spazio per Israele, per la Palestina e per
Non solo lo Stato islamico è contra- rio alla "soluzione dei due Stati", lo è anche all'esistenza di Israele e di uno Stato palestinese. Sotto il nuovo califfato islamico non c'è spazio per Israele, per la Palestina e per nessuno dei paesi arabi e islamici.
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nessuno dei paesi arabi e islamici. Se Kerry avesse studiato gli obiettivi e l'ideologia dello Stato islamico, avrebbe scoperto che il conflitto israelo-palestinese non è nemmeno in cima alla lista delle priorità del gruppo. Infatti, la "liberazione di Bait al-Maqdis" (Gerusalemme) è al sesto posto tra gli obiettivi dello Stato islamico.
L'obiettivo primario del gruppo consiste nel seminare caos nei paesi arabi e islamici. In secondo luogo, il gruppo passerà a occuparsi di quello che definisce "la gestione delle barbarie" in questi paesi. In terzo luogo, esso avvierà il processo volto a creare un califfato islamico. In quarto luogo, lo Stato islamico procederà a "liberare i paesi vicini e ad espandere le dimensioni del califfato islamico".
In quinto luogo, il gruppo avvierà il processo di "liberazione dei paesi islamici" tra cui anche Bait al-Maqdis. Ovviamente, Kerry ha capito male il discorso pronunciato lo scorso luglio dal leader dello Stato islamico, Abu Bakr al-Baghdadi. Quest'ultimo non ha parlato di "soluzione dei due Stati". Non ha chiesto ai musulmani di unirsi al suo gruppo per la mancanza di progressi nel processo di pace israelo-palestinese. Piuttosto, al-Bghdadi ha detto si suoi seguaci che "ad Allah piace che noi uccidiamo i suoi nemici e che si faccia il jihad per amor suo. O Allah, concedici la vittoria sull'incredulità e sui miscredenti, e concedi la vittoria ai mujahidin, a Oriente così come in Occidente". Ciò che Kerry forse non sa è che lo Stato islamico non è affatto interessato al conflitto israelo-palestinese.
Il gruppo terroristico non si è preso nemmeno la briga di esprimere opinioni sull'ultimo confronto militare tra Hamas e Israele nella Striscia di Gaza. Il fatto che lo Stato islamico non abbia espresso la sua solidarietà ai palestinesi né a Hamas durante la guerra ha suscitato forti reazioni di condanna da parte di alcuni dei più importanti giornalisti del mondo arabo. "Ciò che è sconcertante e strano è che lo Stato islamico e gli altri gruppi terroristici che pretendono di parlare in nome dell'Islam non abbiano fatto nessuna mossa quando gli aerei israeliani bombardavano i civili nella Striscia di Gaza", ha sottolineato il giornalista egiziano Jamil al-Afifi.
"E nessuno dei suoi saggi ha condannato le uccisioni efferate (nella Striscia di Gaza)". Kerry non ha rivelato l'identità dei "leader" che gli hanno detto che la mancanza di pace tra Israele e i palestinesi è stata "una causa di reclutamento e di rabbia e agitazione popolare" nei paesi arabi e islamici. Ciò che è chiaro, tuttavia, è che gli studiosi sunniti non sembrano condividere la valutazione di Kerry. Il mese scorso, più di 120 ulema sunniti hanno sottoscritto una lettera aperta che puntava il dito contro lo Stato islamico e le sue argomentazioni religiose. "Avete male interpretato l'Islam trasformandolo in una religione di crudeltà, brutalità, tortura e omicidio", si legge nella missiva.
"Questo è un grande torto e una grave offesa fatti all'Islam, ai musulmani e al mondo intero". Naturalmente, gli studiosi non menzionano il conflitto israelo-palestinese come causa dell'avanzata dello Stato islamico. Questo perché a differenza di Kerry, gli ulema sunniti sanno che lo Stato islamico è del tutto estraneo al conflitto israelo-palestinese. E diversamente da Kerry, essi comprendono appieno che lo SI ha più a che fare con l'Islam e il terrorismo che con qualsiasi altro conflitto.
* Gatestone Institute
(L'Opinione, 29 ottobre 2014 - trad. Angelita La Spada)
Le bizzarre preferenze del presidente Obama
Strana creazione, la democrazia. Un abito che si indossa in svariati modi, a seconda delle latitudini e delle stagioni. Due anni fa il presidente Obama, temendo per la sua rielezione, esortò il governo israeliano a desistere dal fermo proposito di garantire l'incolumità della sua popolazione colpendo le installazioni nucleari iraniane. Sarebbe stato un intervento risolutivo e già sperimentato con successo nel passato (Operazione Babilonia 1981); ma l'ex senatore junior dell'Illinois, già allora in calo di consensi, preferì non aprire uno nuovo spinoso fronte di politica estera, e riuscì a dissuadere il governo di Gerusalemme - con cui non è mai andato d'accordo - promettendo un intervento successivo. Puntualmente giunto: oggi Washington è sempre più alleato; del regime di Teheran, di cui di fatto garantisce la continuazione del programma di arricchimento dell'uranio....
(Il Borghesino, 29 ottobre 2014)
Gas israeliano verso l'Egitto: 2,5 miliardi di metri cubi in 7 anni
Israele esporterà in Egitto 2,5 miliardi di metri cubi di gas naturale per i prossimi 7 anni. L'accordo è stato firmato dall'azienda israeliana Tamar con l'egiziana Delphinus Holdings. Si tratta di una novità assoluta nel mercato del gas regionale: in passato, infatti, era lo stato arabo a fornire il gas a Tel Aviv. Negli ultimi anni, però, l'Egitto ha vissuto una forte crisi energetica che ha provocato la rabbia della popolazione, spingendo le autorità a guardare a Israele per risolvere la situazione.
Secondo un comunicato rilasciato dalle autorità egiziane, l'intesa non è stata portata avanti dal governo, ma da un privato egiziano del settore energetico di nome Alaa Rafaa il quale ha dichiarato che " le importazioni di petrolio da Israele sono nell'interesse del Paese, soprattutto in termini di costi".
Nonostante la crisi energetica stia effettivamente paralizzando il paese, gli egiziani denunciano come inaccettabile l'idea di intrattenere rapporti commerciali con Israele.
Ad oggi circa l'80 % della produzione di gas naturale, circa 89 milioni di metri cubi al giorno, è destinato alle centrali elettriche. Il restante 20 % sostiene invece i settori: industriale, delle ferrovie, delle piccole e medie imprese, i consumi domestici. Nell'ultimo anno la produzione di gas naturale è passata da 165 milioni di metri cubi al giorno del 2013 a 131 milioni, a causa della parziale interruzione dell'esplorazione di nuovi giacimenti da parte delle compagnie straniere, che accusano il governo di non pagare i debiti che ammontano a circa 6,3 miliardi di dollari.
Nel mese di marzo il ministro del petrolio Sherif Ismail e il presidente regionale del BP Egitto avevano firmato tre accordi per estrarre il petrolio e i gas naturali nel Mediterraneo e nel delta del Nilo. Gli investimenti hanno un valore di 717 milioni di dollari.
(Spondasud News, 29 ottobre 2014)
Chagall, l'ultimo del Novecento a capire i colori
Duecentoventi quadri nella grande retrospettiva a Palazzo Reale di Milano fino a febbraio. Esposti anche i disegni della giovinezza.
di Carla Maria Casanova
MILANO. Marc Chagall faccetta furba, zigomi alti, occhi rastremati di lontane origini mongole, era nato ai confini con la Russia e la Lettonia, in un villaggio vicino a Vitebsk, cittadina con il permesso di insediamento permanente degli ebrei. All'inizio del XX secolo metà della sua popolazione era costituita da ebrei ortodossi. Fra questi, la famiglia Chagall. Marc, primo di nove figli di un commerciante, quando venne al mondo (7 luglio 1887) ebbe nome Moishe Segal ben Zacharias. Poi, dopo il trasferimento a Parigi, il suo nome seguirà il suono, e la conseguente grafia, della lingua francese. Lui però resterà sempre ancorato al suo villaggio, al paesaggio russo, alla fattoria, agli animali, ai fiori. E sommamente alle tradizioni ebraiche.
Ha diciotto anni, Moshes non ancora Marc, quando ottiene da suo padre il permesso di andare a San Pietroburgo per studiare pittura. Ma la capitale zarista non era protettiva come Vitebsk, soprattutto nei riguardi di un ragazzo senza un soldo e per di più ebreo (agli ebrei l'ingresso in san Pietroburgo era consentito solo con un permesso speciale). L'incontro con Léon Bakst, scenografo e costumista dei Ballets Russes, è determinante. E l'anno dopo (1909) ancora più decisivo quello con Bella Rosenfeld, figlia di un commerciante di Vitebsk. Bella sarà l'amore e la musa di Chagall per trentacinque anni, fino alla morte di lei. Poi il pittore incontrerà un'altra donna a lei molto simile, Valentina Brodsky, "Vave", che diventerà la sua seconda moglie, anche lei molto amata, anche lei ebrea di origine russa. «Nelle nostre vite, come sulla tavolozza del pittore, c'è un solo colore che dona senso all'arte e alla vita stessa. Il colore dell'amore».
La straordinaria, fiabesca, unica avventura pittorica di Marc Chagall è tutta qui. Prossimo allo spirare del secolo di vita (Chagall muore a 98 anni) il pittore continua a sognare e sorridere, con ingenuità infantile, popolando gli spazi con figure senza gravità ma piene di colori.
«Quando Matisse sarà morto, Chagall resterà l'ultimo ad aver capito davvero i colori» scriverà Picasso, abitualmente poco incline a lodare i colleghi.
A Parigi Chagall arriva nel 1910: sono già esplose le avanguardie artistiche: i fauves, il futurismo, il cubismo. Gli artisti giovani e con pochi soldi trovano alloggio in un casermone soprannominato "la ruche" e davvero a un alveare somiglia quel grande caseggiato messo a disposizione dal collezionista e mecenate Paul Guillaume.
Ancora oggi, appartata e dismessa, solo da poco riportata all'interesse della città, "la ruche" conserva gli umori del fervere di quegli anni. Chagall, inseritosi spontaneamente nell'ambiente culturale parigino, senza saperlo precede i tempi: guardando da una finestra disegna una composizione inquietante ("Parigi dalla finestra"). Sul davanzale c'è un gatto, sullo sfondo la tour Eiffel, nel cielo trascorso da segmenti geometrici vola un omino appeso a un triangolo, in basso l'abbozzo di un ritratto bifronte (la doppia identità di Chagall, divisa tra Russia e Francia). È già surrealismo. «La pittura mi era necessaria come il pane. Mi sembrava come una finestra da cui avrei potuto fuggire, evadere in un altro mondo».
Un giorno, Chagall dipinge un vaso di fiori ("Forse perché io ero povero, nella mia casa non c'erano mai stati fiori. I primi me li portò Bella
") ed è la grande scoperta. In verità, i colori erano la sua passione da quando ritraeva le tranquille isbe russe, un po' alla Gauguin, i densi prati verdi e i cieli di rosa cupo ("Il poeta giacente") o l'imprevedibile "Compleanno" dominato dal rosso, con Bella che corre in primo piano e la figura di lui, volante, che si storce per baciarla. Persino là dove la figura del viandante ebreo sorvola i tetti innevati ("Su Vitebs") c'è colore, anche se è il bianco.
Dominanti, in Chagall, i blu, e i rossi. L'artista citerà esplicitamente anche i suoi gialli, che userà soprattutto per dipingere acrobati e clowns, ma i preferiti sono gli altri due. Il blu profondo che tinge scene bibliche ("Re David in blu") e composizioni profane (la "Famiglia del pescatore", che ha tutta l'aria di una "fuga in Egitto") o quel "Mostro di notre Dame" sopra cui aleggiano i suoi eterni amanti. E il rosso delle scene circensi, delle improbabili città ("la Bastille", "I tetti rossi", "Quai de Bercy") o dei martìri del suo popolo, cui l'ebreo Chagall dedica grande spazio.
Costanti, da sempre, incontriamo gli animali: galli, cavalli, mucche, capre, i preferiti (tutti con forti riferimenti alla cultura ebraica, come l'irrinunciabile icona dell'Uomo con il violino). Chagall ammette di aver sempre dipinto cavalli che paiono mucche. Accanto a questo singolare cavallo-mucca, il pittore invita anche a pregare: "lui (l'animale) vi guarderà sempre annuendo, umilmente abbassando lo sguardo".
Nel 1937 Chagall ha preso residenza stabile in Francia. L'occupazione nazista lo fa fuggire in Costa Azzurra, poi in Spagna. Nel 1941 s'imbarca per gli Stati Uniti, da dove torna in Francia nel 1949. Ma nel frattempo Bella è morta per una infezione virale. E Parigi non va più bene a Marc Chagall, che si stabilisce in Provenza, a saint-Paul-de Vence. Il pittore è oramai celeberrimo. Viaggia molto. In Russia viene accolto trionfalmente. Si fermerà anche in Israele. La pittura non è più il suo unico linguaggio: spazia nella ceramica, scultura, arazzi, produce affreschi grandiosi (nel Parlamento di Gerusalemme, il soffitto dell'Opera di Parigi
). La sua vita (la giovinezza) l'aveva raccontata anni prima, nel 1923, in russo e in yddish, e Bella l'aveva tradotta in francese. Lui l'aveva corredata di deliziosi disegni, che avevano incominciato a dargli fama. Anche questi sono esposti nella mostra milanese.
(Il Piccolo, 28 ottobre 2014)
Netanyahu: gli Stati Uniti sono "scollegati dalla realtà"
Benyamin Netanyahu ha accusato oggi gli Stati Uniti di essere "scollegati dalla realtà". Parole molte dure verso uno stretto alleato, che il primo ministro israeliano ha usato per rispondere alle critiche degli Stati Uniti per i nuovi progetti edilizi a Gerusalemme est.
Ieri sera la portavoce del dipartimento di Stato aveva commentato la decisione israeliana di portare avanti progetti edilizi per la costruzione di 1060 case a Gerusalemme est, sottolineando che gli Stati Uniti "considerano illegittima l'attività negli insediamenti e si oppongono a passi unilaterali che pregiudicano il futuro di Gerusalemme".
"Queste dichiarazioni sono scollegate dalla realtà", ha risposto oggi Netanyahu ad una cerimonia pubblica nel porto di Ashdod, secondo quanto riferiscono i media israeliani. "Ho sentito che le nostre costruzioni nei quartieri ebraici di Gerusalemme allontanano la pace, ma sono queste critiche ad allontanare la pace", ha continuato Netanyahu, secondo il quale "così come i francesi costruiscono a Parigi e i britannici a Londra, gli israeliani fanno a Gerusalemme". Netanyahu ha poi accusato la comunità internazionale di usare due pesi e due misure in quanto "tace quando (il leader palestinese Mahmoud) Abbas incita ad uccidere gli ebrei a Gerusalemme, ma si arrabbia quando costruiamo a Gerusalemme".
(Adnkronos, 28 ottobre 2014)
Israele - L'energia cresce sugli alberi
Gli ingegneri israeliani hanno gia' presentato al mondo i numerosi sviluppi nei settori dell'energia solare e dell'hi-tech, ma Sologic, il nuovo albero solare, e' una combinazione unica di entrambi. Il nuovo eTree e' una scultura ecologica che assomiglia ad un vero albero, ma e' composto da pannelli solari; oltre a rappresentare un'area ricreativa con tanto di erogazione di acqua potabile fresca, e' anche una stazione con libero accesso WiFi, una base per ricaricare cellulari e tablet, presa elettrica per apparecchi elettrici ed e' anche dotato di un monitor che permette di chattare con amici che si trovano nei pressi di un altro eTree, oltre ad illuminare con una luce di servizio notturna.
Il nuovo albero solare verra' installato nei pressi di quartieri residenziali e centri urbani, cosi' anche nei cortili di istituti educativi, parchi e percorsi escursionistici, oltre che vicino ai musei e centri culturali.
(Tribuna Economica, 28 ottobre 2014)
Da Bormann a Mengele: in fuga per il quarto Reich
Arrigo Petacco racconta le più incredibili storie dei gerarchi che abbandonarono la Germania. Sognando la rivincita...
di Matteo Sacchi
Quando finì la Seconda guerra mondiale in Europa, con la caduta di Berlino, non tutti, nemmeno tra gli alleati, tirarono un sospiro di sollievo. Certo, il nazismo era stato debellato come entità politica.
Ma questo non significava che fossero stati debellati i nazisti. Anzi, nel grande sfascio della Germania, erano moltissimi i potenti del Reich che erano riusciti a prendere la via della fuga.
E non una fuga da miserabili, anzi.
Molti avevano preparato accuratamente le proprie mosse, e i propri conti in banca, sin dai tempi della sconfitta di El Alamein o dal rovescio di Stalingrado. Perché se il Führer era pronto a combattere sino alla morte e all'apocalisse finale molti notabili del partito e i grandi industriali che il regime aveva favorito molto meno.
Proprio di questi rocamboleschi, ma spesso riusciti, piani di fuga si occupa Arrigo Petacco nel suo nuovo volume edito da Mondadori: Nazisti in fuga. Intrighi spionistici, tesori nascosti, vendette e tradimenti all'ombra dell'Olocausto (pagg. 240, euro 19, in libreria da questa settimana). Il primo progetto per «salvare la pelle» prese corpo in una riunione che si svolse a Strasburgo, nella Francia ancora occupata, e a cui parteciparono i più importanti esponenti della Germania nazista. Tra di essi, «banchieri, finanzieri e industriali, come il re del carbone Emil Kirdorf, il magnate dell'acciaio Fritz von Thyssen, il potente Gustav Krupp von Bohlen, il banchiere Kurt von Schröder e altri personaggi rimasti sconosciuti». Tutti si erano arricchiti contribuendo a costruire la macchina bellica tedesca; ora, prevedendo la sconfitta, progettavano di separarsi da Hitler e di prendere le misure necessarie per creare un nuovo Reich postbellico, ovviamente con un altro Führer. Il summit si svolse nell'Hotel Maison Rouge e, secondo quello che è stato possibile ricostruire, sarebbe stato promosso o «protetto» dal «numero due» della gerarchia nazista, il viceführer Martin Bormann (che sicuramente cercò di fuggire dalla Berlino assediata e sulla cui morte sotto i colpi di cannone russi vi furono a lungo dubbi). Non si hanno minute precise dell'incontro ma quello che emerge con chiarezza è che, con precisione teutonica, si stavano già preparando i piani della grande fuga. Questo spiega perché subito dopo la guerra prese corpo e iniziò a funzionare la così detta ratline (detta anche via dei monasteri), ovvero quel percorso che conduceva gli alti ufficiali tedeschi in Italia con l'appoggio di alcuni esponenti della Chiesa cattolica. Le basi erano state poste molto prima.
Certo, poi resta difficile capire in che maniera si incrociassero le iniziative dei singoli per salvarsi, i piani preordinati per una grande fuga e la successiva riorganizzazione del Reich. Petacco, nel suo libro come al solito di buon livello divulgativo, fornisce molte informazioni senza però avventurarsi (per fortuna) nelle follie del complottismo. Di sicuro ci fu una rete organizzata che consentì a molti personaggi di medio livello di raggiungere l'Argentina e di formare una vera e propria comunità nazista «in villeggiatura sulle Ande» a San Carlos Bariloche. La favola racconta che lì si fosse rifugiato anche Hitler, niente affatto suicida nel Bunker. Di sicuro vi si rifugiarono Erich Priebke e Adolf Eichmann. Per assurdo fu proprio il fatto che i servizi segreti indagassero su immaginarie fughe in Uboot del Führer o dello stesso Bormann che consentì ai gerarchi di medio livello di farla franca a lungo o a semplici aguzzini da lager come il dottor Mengele di non essere mai catturati.
E nel grande incrocio di piani e di strategie personali un ruolo fondamentale, soprattutto nell'immaginario collettivo, l'hanno svolto i molti tesori nascosti dai nazisti in fuga. Il così detto «Nazi gold» a cui Petacco dedica molto spazio. Molti capitali infatti si mossero via banca e per tempo. Ma certamente durante il crollo finale del regime, e anche prima durante la convulsa situazione italiana dell'otto settembre '43, ci furono beni razziati e saccheggiati che finirono persi o nascosti. Come ad esempio il tesoro di Rommel che sparì da La Spezia e finì con tutta probabilità sommerso vicino alle coste di Bastia (per cercarlo c'è scappato il morto) o l'oro di Kesselring che forse è ancora sepolto nel ridotto del monte Soratte. E non mancherebbe nemmeno una serie di «tesoretti» sepolti di qua e di là del confine del Brennero. Leggende? In parte, ma visto quello che è accaduto con le collezioni d'arte ritrovate in un appartamento di Monaco di Baviera... Alla fine la riflessione che conta di più nel libro di Petacco, che di storie vere ma incredibili ne racconta tante, è un'altra. La fuga dei nazisti fu possibile grazie a connivenze, a un «clima» in cui l'antisemitismo aveva un grosso peso. Un «virus che, come una brace che cova sotto la cenere, potrebbe sviluppare un nuovo incendio nei momenti di crisi. È appunto sulla soluzione di questo problema che tutti dovremmo riflettere: ebrei e non ebrei».
(il Giornale, 28 ottobre 2014)
Roma - Torna il Festival del cinema israeliano
ROMA - Il meglio del cinema israeliano arriva a Roma. Il 1 novembre si apre la nuova edizione del Pitigliani Kolno'a Festival (Pkf), principale rassegna italiana di cinema israeliano e di argomento ebraico. Cinque giorni scanditi da proiezioni e incontri, tra la Casa del Cinema di Villa Borghese e l'Istituto Pitigliani, uno dei luoghi di riferimento culturale per la comunità ebraica cittadina. "In questi anni parla molto del 'miracolo' del cinema israeliano", ha sottolineato oggi Eldad Golan, addetto culturale dell'ambasciata israeliana a Roma, durante la conferenza di presentazione della rassegna. "La qualità dei nostri film, registi e attori è sensibilmente aumentata. Lo testimoniano anche le quattro nomination agli Oscar ricevute nell'ultimo decennio". Anche quest'anno la candidatura a 'Miglior film straniero' è arrivata: in corsa per la statuetta dorata c'è 'Gett' di Ronit e Shlomi Elkabetz, storia di una donna che cerca di ottenere il divorzio dal tribunale rabbinico. Ed è proprio questo il titolo scelto per aprire la rassegna, con una proiezione nella serata inaugurale presso la Casa del Cinema. "E' un'anteprima nazionale", ha precisato la direttrice artistica del Pkf, Ariela Piattelli. "E' un film duro e bellissimo, girato quasi interamente in una stanza. A Cannes ha ricevuto critiche entusiastiche". Tra gli ospiti di rilievo della kermesse brilla l'attrice Gila Almagor, definita 'la Anna Magnani del cinema israeliano', con all'attivo oltre 50 film e premi prestigiosi. Il 2 novembre presenterà insieme a Gilberto Tofano 'Matzor', girato nel 1969 proprio da Tofano, caso inusuale di regista italiano chiamato a dirigere una produzione israeliana. Il programma del festival quest'anno rende anche omaggio ad Assi Dayan (figlio di Moshe), regista e attore scomparso di recente, con la proiezione di alcuni suoi lavori, tra cui 'Life according to Agfa' - interpretato peraltro anche da Gila Almagor. Degno di nota infine il tema del Pkf Professional Lab (laboratorio di cinema per studenti, ma non solo) che in questa edizione è dedicato interamente ai film e documentari realizzati con materiale d'archivio.
(ANSAmed, 28 ottobre 2014)
Cia, la guerra sporca e quei mille nazisti arruolati contro i sovietici
Per i vertici dell'intelligence ogni mezzo era lecito per contrastare Mosca. Nel 1980 l'Fbi si rifiutò di fornire informazioni su 16 nazisti che vivevano negli Usa.
di Massimo Gaggi
Quando nel 1960 agenti israeliani catturarono in Argentina Adolf Eichmann, il regista della «soluzione finale» studiata dai nazisti per gli ebrei, il suo assistente Otto von Bolschwing, reclutato già da anni dai servizi segreti americani che ben sapevano del suo passato nelle SS, andò a chiedere protezione, temendo di essere anche lui scoperto e processato. La Cia, che a suo tempo lo aveva assunto in Europa come spia impegnata a contrastare la diffusione del comunismo e l'influenza del blocco sovietico, e che nel 1954 lo aveva addirittura fatto trasferire a New York con tutta la famiglia come segno di riconoscenza per la sua fedeltà, lo coprì in tutti i modi possibili.
Benché responsabile di crimini di guerra e autore anche di scritti politici nazisti e manuali su come terrorizzare gli ebrei, l'ex braccio destro di Eichmann non fu mai chiamato in causa nel processo e visse da uomo libero per altri 20 anni. Fino a quando la magistratura scoprì le sue malefatte e lo processò. Nel 1981 von Bolschwing dovette rinunciare alla cittadinanza Usa, ma non scontò grandi pene, dato che morì pochi mesi dopo.
Il suo non è stato un caso isolato: per decenni si è parlato di criminali nazisti usati dagli Stati Uniti come spie contro i russi. Nel 1980 l'Fbi arrivò a rifiutarsi di fornire al ministero della Giustizia informazioni su 16 nazisti che vivevano negli Usa: tutti informatori della polizia federale. Quindici anni dopo un avvocato che lavorava per la Cia fece pressioni sui procuratori federali perché smettessero di perseguire un nazista implicato nel massacro di decine di migliaia di ebrei.
Ma è solo ora, con la desecretazione di molti documenti ormai vecchi di più di 50 anni, che il New York Times è riuscito a ricostruire quasi per intero il ricorso dell'intelligence a un esercito di personaggi che avevano combattuto per il Terzo Reich. Una contabilità impressionante: nel Dopoguerra l'America reclutò quasi mille nazisti, utilizzandoli nella battaglia contro il comunismo e contro l'Urss. Un confronto che allora l'America temeva di perdere.
Per questo due arcigni combattenti - il capo dell'Fbi Edgar Hoover e quello della Cia, Allen Dulles - decisero di accantonare ogni remora morale: era più importante disporre di agenti capaci e determinati da usare contro Mosca che punire questi nazisti per i crimini contro gli ebrei commessi qualche decennio prima.
Un'altra storia imbarazzante per l'intelligence Usa, anche se stavolta si tratta di vicende ormai remote: nessuno dei criminali nazisti protetti dai servizi segreti di Washington è ancora in vita. Una brutta pagina della storia americana le cui ragioni vanno ricercate nell'angoscia e nella paranoia degli anni della Guerra fredda. Hoover in persona approvò il reclutamento di informatori con un passato nelle SS sostenendo che la meticolosità e l'anticomunismo viscerale di questi «nazisti moderati» erano armi preziose per disporre della quali l'America poteva fare qualche sacrificio sul piano etico.
Un ragionamento cinico che, a parte ogni considerazione giuridica e morale, risultò poco fondato anche sul piano pratico: ben pochi dei mille nazisti reclutati si rivelarono agenti efficaci e fedeli. I documenti ora pubblicati rivelano che molti di loro erano degli inetti, inguaribili bugiardi o, peggio, agenti doppi al servizio anche del Cremlino.
L'imbarazzo della Cia è tutto nell'ostinato rifiuto di commentare il caso: difficile giustificare il tentativo di sottrarre ai tribunali i responsabili di crimini orrendi. Il New York Times racconta che nel 1994, quando il ministero della Giustizia si preparava a processare Aleksandras Lileikis, un capo della Gestapo responsabile del massacro di 60 mila ebrei lituani, la Cia cercò di difendere la sua ormai ex spia reclutata nel 1952 con uno stipendio di 1.700 dollari l'anno più due cartoni di sigarette al mese. I giudici tennero duro e alla fine si giunse ad un compromesso: la magistratura avrebbe rinunciato a condannare Lileikis solo se nel processo fossero venute fuori questioni tali da mettere in pericolo la sicurezza nazionale Usa. Non successe e il criminale nazista finì in galera.
(Corriere della Sera, 28 ottobre 2014)
Il grido di dolore della comunità internazionale davanti alla perfidia di Israele
Il mondo appare oggi turbato per un fatto gravissimo che, secondo la comunità internazionale e il parere dei media, mette in pericolo la pace del mondo: un annuncio fatto dal Primo Ministro dello Stato d'Israele. Abbiamo raccolto un po' di titoli di giornali e note d'agenzia che oggi danno notizia del grave annuncio.
L'annuncio di Israele: "Presto altre mille abitazioni a Gerusalemme Est"
Tensione alta a Gerusalemme dopo l'annuncio di nuovi insediamenti
Tensioni a Gerusalemme Est. Israele annuncia 1000 nuove case per coloni
A Gerusalemme est 1000 case di coloni, bufera su Netanyahu
Netanyahu riaccende la sfida "Mille case a Gerusalemme Est"
Netanyahu porta avanti progetti per 1060 nuove case a Gerusalemme est
Netanyahu dà l'ok a mille nuove case a Gerusalemme Est. Fatah: "Provocherà un'esplosione"
Netanyahu inflessibile
Netanyahu vuole la guerra con i palestinesi: 1000 nuove case per i coloni in Cisgiordania
L'Unione Europea condanna Israele per i nuovi insediamenti dei coloni
Amman chiede una riunione dell'Onu sulle colonie israeliane
Colonie d'Israele, riunione d'urgenza dell'Onu
Abbas a Usa, intervenite contro l'escalation di Israele a Gerusalemme est
Abu Mazen chiede aiuto a Usa e Onu: "Fermate l'invasione dei coloni ebrei"
Questo dunque è il dramma che affligge l'umanità: non i missili che distruggono case e ammazzano quelli che ci vivono dentro, ma l'annuncio di nuove case per quelli che vogliono andarci a vivere dentro. Il profeta Zaccaria aveva detto che negli ultimi tempi Dio farà di Gerusalemme una "coppa di stordimento" per tutti i popoli. Questo tempo sembrerebbe già iniziato, perché la cosiddetta "sindrome di Gerusalemme", che fino ad ora è stata riconosciutata soltanto in quei visitatori che all'interno della Città Santa vengono presi da particolari forme di esaltazione e "impulsi a proferire espressioni visionarie", si sia estesa in forma diversa anche ai commentatori di ciò che riguarda Gerusalemme. Persone equilibrate, che in altri campi danno prova di moderazione e assennatezza, nel momento in cui iniziano a parlare di Gerusalemme sentono un "impulso a proferire espressioni idiote", catalogabili come forme di rimbecillimento se non fosse che la sindrome suddetta si è ormai globalizzata e ha raggiunto un'estensione mondiale. E pertanto non è più facilmente riconoscibile. M.C.
(Notizie su Israele, 28 ottobre 2014)
"Nessuna decisione sui confini senza un vero accordo di pace"
Netanyahu all'inaugurazione della sessione invernale della Knesset: "Israele ha il diritto di costruire a Gerusalemme come gli inglesi a Londra".
"I palestinesi chiedono la creazione di uno stato palestinese senza pace e senza sicurezza. Pretendono il ritiro, il diritto a sommergerci di profughi e la divisione di Gerusalemme. Ma intanto si rifiutano di accettare la condizione elementare per la pace tra due nazioni: il riconoscimento reciproco". Lo ha detto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu intervenendo lunedì alla riunione inaugurale della sessione invernale della Knesset, il parlamento israeliano. "Ci chiedono di riconoscerli, ma loro non intendono riconoscere noi. Israele non accetterà uno stato palestinese senza un trattato di pace vero e proprio che riconosca Israele come stato nazionale del popolo ebraico e che includa precise misure e garanzie di sicurezza a lungo termine tali da permettere a Israele di difendersi, con le proprie forze, contro ogni minaccia. Anche i palestinesi devono volere la pace - ha detto Netanyahu - Purtroppo non vedo tale volontà"....
(israele.net, 28 ottobre 2014)
Bimba palestinese curata in Italia grazie a famiglie israeliane
"La solidarietà verso i bambini sofferenti è straordinaria: due popoli in guerra non impediscono alle persone di buona volontà di fronteggiare casi umani, anche se della parte avversa". Così Benedetta Paravia, portavoce della Onlus Angels (Associazione nazionale giovani energie latrici di solidarietà), ha commentato così la collaborazione tra gli operatori sociali palestinesi ed alcune famiglie israeliane che hanno finanziato l'arrivo in Italia di Intisar, bambina di nove anni, con il suo papà, con l'obiettivo di ultimare le cure iniziate proprio a Roma quattro anni fa per un tumore.
"La piccola - prosegue Paravia - è arrivata a Roma all'età di cinque anni perchè affetta da epatoblastoma. Dopo le prime cure chemioterapiche al Policlinico Umberto I e dopo otto mesi di permanenza nella Capitale le arriva il fegato compatibile. Dopo il trapianto, avvenuto presso l'Ospedale pediatrico Bambino Gesù, si presenta una recidiva sul fegato nuovo. La bimba viene così sottoposta ad un nuovo intervento di rimozione delle cellule tumorali". Intisar, grazie al finanziamento della famiglia israeliana è ora a Roma, dove sarà sottoposta a tutti i controlli di rito presso il reparto di Oncologia pediatrica dell'Umberto I diretto da Anna Clerico. "Vorrei ringraziare la Sapienza Università di Roma, la Direzione Sanitaria del Policlinico Umberto I ed il reparto Oncologia pediatrica per l'accoglienza alla bambina; le famiglie che hanno contribuito economicamente al viaggio ed alla permanenza nella Capitale, le autorità israeliane ed il Consolato Italiano a Gerusalemme", ha concluso Paravia.
(Adnkronos, 27 ottobre 2014)
Inaugurato all'ex ghetto di Varsavia il nuovo museo ebraico
VARSAVIA - Una storia millenaria quella degli ebrei in Polonia, che è stata annientata con l'Olocausto. Oggi la testimonianza di questa comunità di ebrei ha il suo spazio a Varsavia. Dove sorgeva il ghetto è stato inaugurato il museo ebraico, proprio di fronte al monumento che ricorda l'insurrezione contro i tedeschi nel 1943.
Il viaggio nella storia degli ebrei polacchi comincia nel medioevo e racconta di una comunità che cresce e si arricchisce nel corso dei secoli. Nel 1939 vivevano in Polonia tre milioni di ebrei, il 10% del totale. Tra i gioielli del museo, la ricostruzione virtuale di una strada di commercianti, e la copia di un soffitto in legno di una sinagoga del 18esimo secolo.
"Lo hanno realizzato studenti polacchi, israeliani e provenienti da tanti altri Paesi utilizzando le tecniche di allora", ha spiegato Grzegorz Tomczewski, portavoce del museo.
Gli ebrei polacchi oggi sono qualche decina di migliaia. Il nuovo museo che sorge nel ghetto porta la testimonianza di quella che un tempo era la comunità ebraica più grande del mondo.
(Askanews, 27 ottobre 2014)
Nuovi israeliani
di Nadia Terranova
La Scuola Holden d'Israele si trova a Gerusalemme e porta il nome del produttore Sam Spiegel; gli iscritti vogliono lavorare soprattutto per il cinema e la tv, ma studiano anche i meccanismi della narrativa con Eshkol Nevo, il cui ultimo libro sarà tradotto, come gli altri, da Neri Pozza che lo pubblicherà nell'estate 2015. Qualche anno fa, Nevo si è trovato di fronte un'allieva con il blocco del primo romanzo. «Ha detto che potevo diventare una scrittrice, ma dovevo smettere di avere paura, cominciare a rischiare e darmi tempo, altrimenti per tutta la vita avrei avuto quel rimpianto», racconta a IL Ayelet Gundar-Goshen. Nevo ha fiuto, la ragazza finisce il libro e vince il premio Sapir come miglior esordio (il Sapir è il nostro Strega). Tutto ciò avveniva nel 2012. Oggi la talentuosa Gundar-Goshen ha appena pubblicato un secondo romanzo i cui diritti sono stati venduti in Inghilterra, Germania e Italia, dove uscirà per la casa editrice La Giuntina nel 2016: Waking Lions è la storia di un dottore che investe col Suv un clandestino eritreo e in seguito all'incidente entra in una profonda crisi professionale e d'identità.
ESTRANEI DEL CORNO
Intanto un altro prestigioso riconoscimento per gli esordienti, il Ramat Gan, è stato assegnato a How the World Turned White di Dalia Betolin-Sherman, quasi coetanea della Gundar-Goshen nonché prima etiope ad aver pubblicato un'opera letteraria in lingua ebraica. Betolin-Sherman è arrivata in Israele con la famiglia quando aveva cinque anni e il suo testo, che in sette episodi rielabora la vita di una bambina e poi donna scissa fra le origini e la dimensione sociale del nuovo Paese, è stato paragonato dalla critica a quel capolavoro sull'emigrazione che è Chiamalo sonno di Henry Roth. Insomma, grazie alla nuova narrativa Israele sta riscoprendo la sua anima africana, e i migranti del Corno rendono più complesso il problema dell'alterità estranea ma congenita che eravamo abituati a identificare solo con la presenza araba. «Ho scelto di parlare di quelle persone che la società israeliana non vuole guardare, mi piaceva l'idea che l'unica testimone dell'incidente fosse una donna nera, volevo sapere che cosa succede quando un invisibile vede qualcosa che improvvisamente gli dà un potere. Ma non avevo alcuna voglia di dire "poveri profughi africani, è triste il modo in cui li trattiamo". Non c'è niente di più noioso dei santi. I personaggi hanno le loro colpe, proprio come le persone reali», sottolinea Ayelet, spiegando in modo impeccabile perché la letteratura ha il dovere di tenersi lontana dal pietismo.
EMANCIPATI DAI PADRI
Ci sono plot che non passano mai di moda: l'amore tra un'israeliana e un palestinese è al centro di Borderline, l'ultimo romanzo della scrittrice di origini persiane Dorit Rabinyan. Ma più che altro oggi si scelgono nuove strade, anche per emanciparsi dalla generazione dei padri fondatori, come si è soliti chiamare la triade degli autorevoli nomi più famosi all'estero, Amos Oz, David Grossman e Abraham Yehoshua. Nei loro confronti, secondo la Gundar-Goshen, gli scrittori della sua età hanno un atteggiamento edipico, di ammirazione e rottura: «Il mio primo libro era ambientato poco prima della Seconda guerra mondiale, un periodo del quale tutti i classici israeliani si sono occupati, però noi possiamo parlarne da una certa distanza, e la distanza consente ironia e indulgenza».
NON SONO LIBRI PER VECCHI
Il 1948 e la fondazione dello Stato di Israele sono lontani, e quello che i ventenni sanno sulla Shoah viene dai libri proprio come accade nel resto del mondo. Oppure da scene di vita quotidiana, come nel libro di Yair Agmon, nato nel 1987, dall'emblematico sottotitolo No Book for Old Men: il meta-protagonista lavora come guida al museo dell'Olocausto ed è da quella fessura che entra il Novecento. Per il resto, il romanzo è iper contemporaneo: Agmon racconta una vita che si sdoppia fra il servizio di leva nei territori occupati e le giornate come studente di cinema alla Sam Spiegel School.
Liberi dal lungo sguardo retroattivo, i venti-trentenni israeliani hanno una visione forse storicamente incompleta, ma vantaggiosa in termini di libertà letteraria. Non a caso si pubblicano più gialli di un tempo, in passato far ruotare un romanzo attorno a un delitto comune era una scelta insolita, come se il concetto di crimine si dovesse associare per forza all'ultima guerra mondiale o al conflitto israeliano-palestinese.
(Il Sole 24 Ore, 27 ottobre 2014)
Commissione mista Israele-Italia seleziona progetti di ricerca e sviluppo
Nel quadro della cooperazione industriale, scientifica e tecnologica
TEL AVIV - La Commissione Mista Italia-Israele, istituita nel quadro dell'Accordo Bilaterale per la cooperazione Industriale, Scientifica e Tecnologica, si è riunita lo scorso 22 ottobre a Tel Aviv. Scopo della riunione era quello di selezionare i progetti congiunti di ricerca e sviluppo (sia in ambito industriale che in ambito accademico) da finanziare per il 2014 e di definire gli strumenti di cooperazione scientifica da realizzare nel corso del 2015, inclusi gli ambiti di ricerca dei prossimi bandi industriale ed accademico.
L'Accordo rappresenta un concreto volano offerto dalle istituzioni alla crescita del capitale umano e dell'economia italiana. Esso e' il principale riferimento del mondo scientifico e delle PMI italiano per i suoi rapporti con Israele, e consente il finanziamento di numerosi strumenti ad alto valore scientifico (bandi industriali ed accademici per progetti di Ricerca e Sviluppo congiunti, Laboratori congiunti, scambi di ricercatori e PHD tra centri di ricerca, conferenze) per promuovere l'innovazione attraverso attività di ricerca e sviluppo congiunte tra scienziati dei due paesi. La Commissione Mista ha approvato l'istituzione di un Premio Binazionale dedicato alla memoria di Rita Levi Montalcini per la cooperazione scientifica.
Al termine dei lavori, che hanno stabilito i piani attuativi della cooperazione scientifica e tecnologica tra i due Paesi, quantificabili in un finanziamento complesso di circa 5 milioni di Euro l'anno, i membri della Commissione sono stati ospitati presso la Residenza dell'Ambasciatore d'Italia in Israele Francesco M. Talò per una serata di incontri con esponenti di primo piano del mondo accademico, industriale e scientifico israeliano e italiano, alla quale ha partecipato il Ministro dell'Energia e delle Risorse Idriche di Israele, Silvan Shalom, che ha sottolineato l'eccellente livello di cooperazione tra i due paesi nel settore scientifico ed energetico.
(ANSAmed, 27 ottobre 2014)
Oltremare - Il posto della cucina
Della stessa serie:
Primo: non paragonare
Secondo: resettare il calendario
Terzo: porzioni da dopoguerra
Quarto: l'ombra del semaforo
Quinto: l'upupa è tridimensionale
Sesto: da quattro a due stagioni
Settimo: nessuna Babele che tenga
Ottavo: Tzàbar si diventa
Nono: tutti in prima linea
Decimo: un castello sulla sabbia
Sei quel che mangi
Avventure templari
Il tempo a Tel Aviv
Il centro del mondo
Kaveret, significa alveare ma è una band
Shabbat & The City
Tempo di Festival
Rosh haShanah e i venti di guerra
Tashlich
Yom Kippur su due o più ruote
Benedetto autunno
Politiche del guardaroba
Suoni italiani
Autunno
Niente applausi per Bethlehem
La terra trema
Cartina in mano
Ode al navigatore
La bolla
Il verde
Il rosa
Il bianco
Il blu
Il rosso
L'arancione
Il nero
L'azzurro
Il giallo
Il grigio
Reality
Ivn Gviròl
Sheinkin
HaPalmach
Herbert Samuel
Derech Bethlechem
L'Herzelone
Tel Aviv prima di Tel Aviv
Tel Hai
Rehov Ben Yehuda
Da Pertini a Ben Gurion
Kikar Rabin
Sde Dov
Rehov HaArbaa
Hatikva
Mikveh Israel
London Ministor
Misto israeliano
Fuoco
I cancelli della speranza
Finali Mondiali
Paradiso in guerra
Fronte unico
64 ragazzi
In piazza e fuori
Dopoguerra
Scuola in guerra
Nuovo mese
Dafka adesso
Auguri dall'alto
Di corsa verso il 5775
Volo verso casa
La guerra del Kippur
Inverno, autunno
Ritorno a Berlino
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di Daniela Fubini, Tel Aviv
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Quando si dice che intorno alla tavola si costruiscono le amicizie e le alleanze più forti, forse si dice il vero.
Ma nella mia vita non è a tavola che succedono le cose davvero importanti. È un passo prima: in cucina. Prima di tutto in casa, ma anche in cucine più grandi e frequentate da molte persone contemporaneamente. Sono cresciuta a metà fra Torino e Venezia, e provo una fitta di nostalgia ogni volta che penso alle meraviglie culinarie di semplicità estrema ed estrema bontà che escono dalla cucina del Cuore e Concordia (il centro sociale veneziano). Ogni anno al seder di Pesach, il menù fisso giustamente da secoli è uno dei segreti meglio conservati dell'Italia ebraica. Ma è ovvio a chiunque si affacci nella cucina, che tutta quella bontà è fatta tanto dal cibo quanto dalle mani, dalle storie e dalle chiacchiere che annualmente riempiono quella cucina. Di recente, durante i miei sporadici ritorni a Torino, ho notato che un intelligente rinnovo delle sale dell'Adei ha fatto spazio per una cucina doppia, di carne e di latte, che viene utilizzata con sempre maggiore frequenza per pranzi e cene sociali. La posizione stessa è strategica: a metà fra gli uffici e il centro sociale e l'entrata del Tempio piccolo, usato tutto l'anno. Per l'ultimo Shabbat, ci hanno cucinato eccezionalmente cuochi israeliani che sono arrivati a Torino in occasione del Salone del Gusto. Mentre io me ne sto qui, oltremare, dove la cucina nelle case è sempre più spesso parte del salone, parte integrante della casa, penso alla centralità di quella cucina, e di quanto sarebbe utile a tutta la comunità se, adesso che almeno la questione rabbinica sembra essersi risolta, si pensasse di fare le riunioni di consiglio sotto forma di workshop di cucina. A sudare tutti ai fornelli, ci si ricorda facilmente perché si è entrati in consiglio, e che prezzo ha il suo scioglimento. Se i cuochi abbandonano la cucina, non si mangia.
(moked, 27 ottobre 2014)
Fondazione Toaff. Opere all'asta per beneficenza
Serata di beneficenza, stasera nella sede del Museo Maxxi di Roma, il cui ricavato andrà alla Fondazione Elio Toaff per la cultura ebraica. Saranno battute all'asta da Sotheby's alcune opere d'arte contemporanea (31 lotti) firmate Giovanni Albanese, Philippe Boulakia, Jessica Carroll, Pietro D'Angelo, Marco De Logu, Sidival Fila, Giosetta Fioroni, Shay Risch, Sam Hadvatoy, Seboo Migone. Elisa Montessori, Ugo Nespolo, accanto a Fiorenzo Niccoli, David Reimondo, Roberto Schezen, Paolo Tamburella, Nico Vascellari. La raccolta fondi andrà a sostegno di tre progetti. La creazione di un archivio pubblico dedicato a Rav Elio Toaff, la ristrutturazione degli asili Elio Toaff, rinnovando, ampliando i locali con tecnologie all'avanguardia e ambienti idonei, il sostegno alla nascita di una scuola in Pakistan in collaborazione con la Comunità di Sant'Egidio. Durante la serata alla quale parteciperanno tutte le più importanti figure della società civile e culturale del Paese, atteso anche il ministro della Cultura. Parleranno il presidente della Fondazione Elio Toaff, Ermanno Tedeschi, Daniel Toaff, figlio del Rabbino capo emerito e consigliere della Fondazione. Sarà inoltre proiettato un filmato sulla figura di Elio Toaff. Come ha spiegato Ermanno Tedeschi, presidente della Fondazione Elio Toaff, «la Fondazione si propone di promuovere i progetti per la tutela e la conservazione del patrimonio ebraico. Il Rabbino capo emerito Elio Toaff, che oggi ha 99 anni ha fatto la storia di tutto l'ebraismo».
(Il Tempo, 27 ottobre 2014)
Verona - Conferenza dell'archeologo Dan Bahat
Associazione Veronese Italia-Israele - Comunita' Ebraica Di Verona
INVITO
Sulla facciata della Sinagoga di Verona il riquadro in bassorilievo posto in basso a destra del portone raffigura la "Porta d'Oro" nelle mura di Gerusalemme: è una porta a due fornici chiuse, murate, priva di qualsiasi passaggio. Ma che cosa c'è dietro quel muro, che cosa nasconde?
Di questo ci parlerà e illustrerà con immagini fotografiche l'archeologo e docente di Storia e Archeologia gerosolomitana Dan Bahat:
La Porta d'Oro di Gerusalemme
Martedì 4 novembre 2014, ore 21,00
Salone 1o piano della Comunità Ebraica
Via Portici, 3 - Verona
Incontro aperto al pubblico
"Noi arabi israeliani dovremmo condannare con forza l'ISIS"
Ignorando il fenomeno dei giovani che aderiscono al gruppo jihadista, i leader arabo-israeliani abusano della loro posizione e danneggiano la loro comunità.
Le attività della "Stato Islamico" (ISIS) nella società araba israeliana non sono visibili. L'opinione corrente è che si tratti di un fenomeno marginale che riguarda poche decine di giovani che sono andati oltre i limiti e si sono recati all'estero per unirsi al gruppo jihadista.
Ma qualcuno si è mai chiesto cosa abbia spinto questi giovani ad aderire all'organizzazione estremista nota come ISIS? E i leader della comunità araba in Israele si sono forse interessati a questo fenomeno, cercando di fermarne la propagazione?...
(israele.net, 27 ottobre 2014)
Muore una donna ferita nell'attentato in Gerusalemme
Una giovane ferita in modo grave nell'attentato avvenuto mercoledì a Gerusalemme è deceduta oggi in un ospedale. Lo riferiscono i media israeliani secondo cui si tratta di una turista straniera.
Era stata travolta con altri passanti da un'automobile guidata da un palestinese. Nell'impatto era rimasta uccisa anche una neonata di tre mesi. Stanotte si svolgeranno i funerali del palestinese, che è stato ucciso da un agente mentre tentava una fuga.
Secondo le prime informazioni la turista sarebbe una ventenne originaria dell'Ecuador convertitasi negli ultimi anni all'ebraismo.
(swissinfo.com, 26 ottobre 2014)
I Falasha: Figli di un Dio Minore
di Giulio Albanese
Sono "ebrei-afro", dunque di tradizione abramitica, anche se vengono dall'Etiopia. Chiamati, comunemente, falasha, disdegnano questo appellativo perché in aramaico, la lingua di Gesù, ha un'accezione fortemente negativa, significando "esiliato" o "straniero". Preferiscono invece sentirsi dire che sono "Beta Israel" (ביתא ישראל in ebraico). Letteralmente, significa "Casa di Israele", un'espressione che la dice lunga sul forte senso di appartenenza al popolo ebraico. Alcuni rabbini ritengono che essi siano discendenti della tribù perduta di Dan, quinto figlio di Giacobbe avuto da Bila , ancella di Rachele. Secondo altri studiosi, questa peculiare etnia deriverebbe, storicamente, dalla fusione tra le popolazioni africane e quegli ebrei fuggiti dal proprio Paese in Egitto ai tempi della distruzione di Gerusalemme nel 587 a.C. o in successive migrazioni della diaspora ebraica. La tradizione ufficiale, invece, fa risalire la loro primogenitura all'unione tra il re Salomone e la regina di Saba che diedero alla luce Menelik. Sta di fatto che, proprio per questa ragione, i falasha sono sempre stati visti con sospetto dai fautori dell'ortodossia ebraica, in quanto l'appartenenza al popolo eletto avviene in forma matrilineare, essendo la donna colei che trasmette il sangue dei padri. Ma leggendo la Bibbia, è evidente che la Regina di Saba non fosse ebrea, pertanto, in teoria, sostengono i rigoristi, neanche i discendenti africani dovrebbero esserlo. Dunque, da questo punto di vista, vi sarebbe stata una forzatura, da parte dei falasha, nel rivendicare la purezza delle loro origini, in contrasto con il pensiero inflessibile di certe scuole rabbiniche. Una cosa è certa: al di là di tutte queste disquisizioni, siamo di fronte ad un classico esempio di diaspora in terra africana. Il dato religioso che rende peculiare la loro identità, infatti, è rappresentato dal fatto che i falasha siano sempre riusciti a mantenere la fede ebraica, anche dopo la cristianizzazione del regno di Aksum, nel quarto secolo d.C., mantenendo a lungo la loro autonomia socio-politica. In seguito, purtroppo, subirono non poche persecuzioni e furono addirittura costretti a trovare riparo nei pressi del Lago Tana, nell'Etiopia settentrionale e lì riuscirono a resistere a diversi tentativi di sterminio tra il 15o e il17o.
l loro canone biblico è nella lingua etiope ge'ez, dunque non in ebraico. Inoltre, anche se non seguono rigorosamente le prescrizioni talmudiche (quelle legate alla trasmissione e discussione orale della Torah), aderiscono a tutte le consuetudini legate alla tradizione ebraica, che sono peraltro seguite in Etiopia anche dai cristiani copti, che praticano gli stessi loro digiuni e hanno abitudini alimentari simili a quelle dei falasha. Per fuggire dalle difficoltà economiche e politiche, nel corso della seconda metà del Novecento, ai tempi della "guerra fredda" il governo di Tel Aviv
li fece trasferire in massa (a metà degli anni Ottanta) dall'Africa, quando gli ebrei russi erano ancora costretti a stare al di là della Cortina di Ferro. Comunque, sebbene fossero ebrei in diaspora, con le carte in regola per essere integrati nel giovane Stato d'Israele, già a partire dagli anni Novanta vennero alla ribalta della cronaca internazionale per gravi episodi di razzismo nei loro confronti. D'allora sono state numerosissime le discriminazioni a cui questo "resto
africano d'Israele" è stato sottoposto: a scuola, nel lavoro, nei luogi pubblici. Ghettizzati nelle città di Rehovot, Kiryat Malachi, Beer Sheva e Haifa, oggi, 50 mila dei 130 mila falasha residenti in Israele vivono di assistenza sociale, in gravi condizioni d'indigenza. Come se non bastasse, sono molti i casi di proprietari
che si rifiutano di affittare i loro beni immobili a questi ebrei dalla pelle nera, giudicandoli troppo rumorosi, poco attenti all'igiene personale e domestica. Uno dei più recenti episodi di esclusione sociale, che ha fatto
davvero clamore, riguarda Pnina Tamano-Shata, primo membro della Knesset di origine etiope, a cui è stato rifiutato di donare il sangue in un'autoemoteca del Magen David Adom, la Croce Rossa israeliana. La motivazione ufficiale, stando a quanto riferito dagli stessi infermieri ", con una certa altezzosità, è che "la signora in questione avrebbe un tipo molto particolare di sangue: ebreo-etiope". Dunque, vi sarebbe una sorta di rocambolesca incompatibilità sanguinea con quei pazienti, anch'essi ebrei, che provengono da altre aree geografiche. Naturalmente, le proteste dei falasha non si sono lasciate attendere e molti parlamentari della Knesset hanno espresso solidarietà nei confronti della deputata, scioccati dalle menzogne messe in giro da certa propaganda segregazionista. Fonti giornalistiche ritengono che l'atto discriminatorio sia legato ad un controverso regolamento del ministero della Salute, secondo cui sono tassativamente proibite le donazioni di sangue da persone a presunto rischio di virus Hiv. Oltre agli israeliani residenti in Inghilterra, Irlanda o Portogallo per lunghi periodi durante l'epidemia della Mucca Pazza, o a chiunque sia appena rientrato da viaggi nell'Africa centrale, nel sud-est asiatico e nei Caraibi e agli omosessuali, nella lista degli untori vi sarebbero anche i nativi dell'Africa, dunque i falasha.
Secondo il Professor Steven Kaplan, docente di religione comparata e studi sull'Africa presso la Hebrew University di Gerusalemme, "i falasha vivono un atipico status di rifugiati nel proprio Paese, come in un limbo". Comunque, questo razzismo contro i discendenti della regina di Saba non fa onore allo Stato ebraico, soprattutto se si considera che il governo di Tel Aviv ha messo fine, il 28 agosto dello scorso anno, all'ultima campagna di rimpatrio degli ebrei d'Etiopia avviata nel 2010. Un provvedimento da cui si evince l'inasprimento della politica israeliana sull'immigrazione. Per quarant'anni, grazie soprattutto alle generose donazioni delle comunità ebraiche statunitensi, i campi di transito raggruppati nella città di Gondar, nell'Etiopia Settentrionale, hanno rappresentato il canale di accesso per tornare alla terra dei Patriarchi. Si chiude dunque un'epoca, quella della migrazione di massa dei falasha. L'ufficio del primo ministro israeliano ha fatto sapere che altre possibili candidature saranno esaminate, da ora in poi, caso per caso e che "il ricongiungimento delle famiglie e le specifiche questioni umanitarie" saranno valutate in sede di commissione. Le autorità israeliane vorrebbero così orientare le risorse finanziarie destinate agli esuli per migliorare le condizioni di vita di quei falasha che già vivono in Israele. Una spiegazione, francamente, poco convincente, che nasconde la discriminazione razziale di alcune frange della società israeliana, nei confronti di uomini e donne, figli di un Dio minore.
(Vita, 26 ottobre 2014)
13o Raduno Nazionale EDIPI di Catania: 6-7-8 dicembre 2014
Con la tematica della "Fedeltà di Dio" nella prospettiva laica, biblica e della storia di Israele,il programma del 13o Raduno EDIPI di Catania del 6/8 dicembre è stato finalmente definito, anche a seguito della recente vista che Rachel Netanel, relatrice tra le più attese, ha fatto a Padova: oltre alle due relazioni incentrate sui progressi della sua attività evangelistica sia tra gli ebrei che tra gli arabi, avremo anche i più recenti resoconti del ministero Dugit di Tel Aviv, riportati dai coniugi Mizrachi. Importante sarà il contributo della prof.essa Luciana Pepi, docente di filosofia medioevale-ebraica dell'Università degli Studi di Palermo, oltre che di Amalia Daniele di Bagni, sul mikvè di Siracusa e di Antonio Navarrino sulla ceramica. La presentazione del tema "La fedeltà di Dio" nella prospettiva biblica sarà evidenziata dal prof. Marcello Cicchese e dai pastori Corrado Maggia, Giuseppe Prinzivalli e Ottavio Prato che ci ospita nei locali della chiesa che cura a Catania.
Il lunedì 8 dicembre sarà di scena un originale thing tank condotto da Ivan Basana con importanti rappresentanti e autorità del mondo politico e culturale siciliani e dell'Ambasciata di Israele, Keren Hayesod e KKL.
Per ulteriori informazioni: info@edipi.net - 3475788106 - 049.8073447.
Locandina (più leggera)
(EDIPI, ottobre 2014)
I Paperoni del Medio Oriente
Se le autorità di un qualsiasi Paese sviluppato al mondo, fornisse sussidi ai propri cittadini nel modo con cui la comunità internazionale dispensa aiuti ai palestinesi, sarebbe messa alla berlina per palese discriminazione, se non per razzismo. Sarebbe questa perlomeno la sentenza emessa da qualunque tribunale, chiamato ad esprimersi circa gli aiuti forniti a 4,2 milioni di palestinesi (stime Banca Mondiale), rispetto ai sussidi concessi all'Etiopia - un alleato dell'Occidente - o a qualsiasi altro stato africano.
Che ci sia una discriminazione è fuori discussione. Nel 2013 l'Etiopia ricevette 3,2 miliardi di dollari di aiuti finanziari. Nello stesso anno i palestinesi hanno beneficiato di circa 2 miliardi di dollari di donazioni; e questo prima dell'ultimo conflitto fra Israele e Hamas....
(Il Borghesino, 26 ottobre 2014)
Sito neonazista. Altre minacce contro Steinhaus
BOLZANO - II sito internet antisemita «Holywar», i cui promotori sono indagati dalla Procura di Bolzano per diffusione di odio razziale, torna a colpire. Tra le figure prese di mira da «Holywar» nella sua pagina italiana è tornata a comparire contro cui i promotori del sito avevano già scagliato le proprie accuse: l'esponente della comunità ebraica di Merano Federico Steinhaus. Quest'ultimo era stato autore della denuncia che aveva portato la Procura di Bolzano a indagare sui promotori del sito internet ed è dunque tornato recentemente a essere un target del gruppo antisemita. A denunciare l'inasprimento dei toni nei confronti della comunità ebraica era stata alcune settimane fa la presidente della Comunità ebraica di Merano Elisabetta Rossi Innerhofer. Dei segnali che intimoriscono la comunità ebraica fa parte ora anche questo nuovo Internet attacco a Steinhaus. Nella pagina italiana di Holywar l'esponente meranese della comunità ebraica viene accusato di «diffondere l'odio contro tutti i non ebrei, incitando alla discriminazione del popolo cristiano per motivi religiosi». Con toni altisonanti le accuse proseguono indicando in Steinhaus un «intoccabile membro della cupola ebraica che detta legge alla magistratura italiana». Con il pretesto di «difendere» la religione cristiana, l'attacco di Holywar a Steinhaus si conclude poi con una citazione dal Vangelo di Giovanni riguardante il Regno dei cieli. Il pm Igor Secco ha chiesto il giudizio di Alfred Olsen, dell'amministratore Antonio Rino Scipione Tagliaferro, del ferrarese Paolo Baroni, definito come il principale collaboratore di Tagliaferro, di Claudio Fauci, di Nola (Na), che avrebbe tradotto in francese alcuni filmati; Aniello Di Donato, di Santa Maria Capua Vetere (Ce), secondo il pm responsabile di traduzioni.
(Corriere dell'Alto Adige, 26 ottobre 2014)
Tensioni nei rioni palestinesi di Gerusalemme
Mille agenti e dirigibili spia
Altri mille agenti israeliani sono stati dislocati a Gerusalemme est per mantenere l'ordine pubblico nei rioni palestinesi, da settimane in fermento. Ieri si sono verificati altri incidenti e la polizia ha adottato nuove tattiche. Fra queste, il ricorso ad agenti in borghese e a dirigibili dotati di telecamere, capaci di scorgere per tempo la organizzazione di disordini.
Video
(LUnione Sarda, 26 ottobre 2014)
Milano - Comunità ebraica in crisi sul bilancio
Alberto Giannoni
MILANO - La comunità ebraica è in subbuglio dopo le dimissioni in massa dell'altro giomo. Il presidente Walker Meghnagi e i suoi consiglieri hanno lasciato dopo lo scontro acceso che si è aperto con la lista di ispirazione laica «Ken». Da due anni la comunità era retta da questa alleanza trasversale fra i laici e la lista «Welcomunity» guidata da Meghnagi, l'imprenditore che alle elezioni del 2012 ha vinto, di misura per seggi ottenuti (10 a 9), ma con un grande successo personale di preferenze. Lo scontro è emerso sul bilancio discusso in Consiglio, in un momento delicatissimo per le finanze dell'ente, che sta cercando di recuperare dopo la vicenda della «maxi truffa» denunciata pochi mesi fa (si parla di milioni di euro). Il bilancio alla fine è stato approvato col voto favorevole di «Welcomunity» e l'astensione dei consiglieri di «Ken», ma i sostenitori di Meghnagi si sono dimessi e dalla loro area si è levata una polemica molto forte contro gli alleati-rivali, accusati di aver chiesto come contropartita un rimpasto in giunta. Un'accusa che viene respinta e smentita con forza dai consiglieri di Ken, che danno una versione del tutto diversa. La ricostruzione è affidata a Gadi Schoenheit, consigliere e responsabile delle relazioni esterne della Comunità: «Un mese fa abbiamo preparato un documento, scritto e mandato a Meghnagi, cui abbiamo proposto una fase nuova e un nuovo programma di governo per uscire dall'emergenza finora dettata dal dissesto finanziario». «La realtà - precisa Schoenheit - è che Meghnagi non ha più la maggioranza del Consiglio ma ciò nonostante noi non abbiamo mai chiesto nuovi posti o deleghe, e abbiamo sempre riconosciuto Meghnagi come vincitore delle elezioni e presidente. Avendo ricevuto la relazione sul bilancio il giorno prima del voto abbiamo solo chiesto una riflessione ulteriore su alcuni contenuti, niente di drammatico, solo le parti evidenziate come migliorabili dalla società di revisione che lo ha esaminato. La risposta sono le dimissioni e per noi sono un gesto di irresponsabilità».
(il Giornale, 26 ottobre 2014)
Nasce un archivio dedicato a Toaff, l'uomo del dialogo
L'annuncio domani al maxxi all'asta 35 opere di privati.
di Francesca Nunberg
Ci sono gli "scatoloni segreti", pieni di lettere indirizzate a familiari o persone che chiedevano consigli, custoditi nei magazzini della scuola ebraica, i documenti di carattere pubblico e i carteggi con le istituzioni, la raccolta "amatoriale" di testimonianze e articoli di giornali messa insieme da quel grande studioso di storia dell'ebraismo che fu Emanuele Pacifici. Tutto questo materiale, migliaia di carte, libri, fotografie, documenti, entreranno a far parte dell'Archivio pubblico dedicato al rabbino emerito di Roma Elio Toaff, che dall'alto dei suoi 99 anni, quando ha saputo dell'iniziativa ha commentato: «Bene, bene, andate avanti, se avete bisogno del mio aiuto non esitate a chiedermelo».
La creazione dell'Archivio, nonché la ristrutturazione degli asili ebraici dedicati allo stesso Toaff e il progetto di sostegno di una scuola in Pakistan assieme alla Comunità di Sant'Egidio, saranno annunciati domani sera nel corso di un evento al Mai. «Obiettivo della serata sarà quello di raccogliere i fondi necessari per queste tre iniziative - spiega Ermanno Tedeschi, curatore e imprenditore nel mondo dell'arte contemporanea, da 5 anni presidente della Fondazione Elio Toaff - Verranno messe all'asta 35 opere donate da privati e da grandi artisti, raccolte con l'aiuto di Mirella Haggiag, presidente della Jerusalem Foundation Italia. L'asta sarà battuta da Sotheby's nel corso della serata presentata da Lorena Bianchetti, alla cena parteciperà il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, i principali rappresentanti della Comunità ebraica e personaggi di rilievo del mondo culturale e imprenditoriale italiano». Ci si potrà dunque aggiudicare la menorah di Ugo Nespolo, "Paul Celan Poeta" di Giosetta Fioroni, una marina di Philippe Bolakia, le foto di Gea Casolaro, il ritratto di Toaff di DAN. REC., una terracotta dipinta di Kazumasa Mizokami ed altro ancora.
IL DIALOGO
Il titolo della serata, "Dialogo", vuole essere un omaggio all'uomo che del dialogo, tra le fedi, con le istituzioni, con la gente comune, ha fatto la sua principale ragione di vita. «L'archivio, che aprirà nel 2016 - spiega Tedeschi - conterrà un patrimonio inestimabile dal punto di vista culturale e religioso, che racconterà non solo la storia del suo mandato e dei 50 anni di rabbinato a Roma, ma sarà anche un libro di storia, sull'evoluzione dei tempi e dei costumi».
E dunque le corrispondenze con il Vaticano prima e dopo la visita di Giovanni Paolo II in sinagoga il 13 aprile dell'86, la corrispondenza con le istituzioni, in primis il Presidente della Repubblica Pertini nella difficile fase che seguì l'attentato al Tempio Maggiore, il legame con Giovanni XXIII, i documenti del periodo delle leggi razziali, del rabbinato di Ancona, poi di Venezia, la nomina infine a Roma nel 1951, carica che mantenne fino al 2001, quando gli succedette rav Riccardo Di Segni. «L'idea è quella di creare un archivio pubblico - spiega ancora Tedeschi - che diventi strumento di divulgazione e faccia conoscere anche all'esterno l'uomo che fu la massima autorità spirituale e morale del mondo ebraico dal dopoguerra agli anni duemila. E non solo: Toaff, nato a Livorno il 30 aprile del 1915, fu anche un grande patriota, partigiano in Versilia e vide con i suoi occhi le vittime della strage di Sant'Anna di Stazzema. Verrà costituita una commissione scientifica, di cui farà parte anche un rappresentante della famiglia Toaff, che analizzerà questa documentazione. E abbiamo in programma borse di studio per i giovani. La sede dell'Archivio? Forse proprio alcuni locali oggi inutilizzati degli asili ebraici».
(Il Messaggero, 26 ottobre 2014)
L'autobus israeliano che divenne casa
Gli israeliani hanno un rapporto intenso con gli autobus. Un rapporto di amore e odio, perchè li usano spesso per i loro spostamenti ma ne hanno paura, perchè sono la prima cosa che esplode durante le "intifada", quando gli attentatori suicidi compiono stragi in continuazione proprio su questi mezzi. E allora come conciliare questa dicotomia estrema?
Ci ha pensato (non poteva essere altrimenti) una psicoterapeuta residente proprio in questo Paese. La dottoressa Tali Shaul, con l'aiuto e i consigli di una scienziata specializzata nel trattamento delle acque, Hagit Morevsky. Insieme, le due donne hanno ideato qualcosa di comodo, originale, che risolve in un'unica mossa il problema della carenza di acqua e del costo delle case in Israele. Gli israeliani, infatti, stanno affrontando una grave crisi immobiliare che si intreccia con la difficoltà dell'approvvigionamento idrico
con una casa mobile, ricavata da un ex rottame, si risparmia in entrambi i campi.
L'autobus è stato sistemato, arredato dal designer Vered Drori e oggi si presenta come una casa più che completa, con salottino e cucina organizzati nella parte centrale del mezzo, lungo i due lati dove un tempo sorgevano i sedili. La zona notte è ricavata dagli "ultimi posti in fondo" e il bagno vicino l'ingresso, dal lato "guida". Non manca proprio nulla, nemmeno luce, TV, computer ed elettrodomestici. Ed ecco che qui ci si sente al sicuro, qui nessuna bomba omicida può creare paura e tristezza. E il mondo è una meraviglia da scoprire, chilometro dopo chilometro.
(Guidone.it, 26 ottobre 2014)
"Ombre al confine", un libro riapre la storia dimenticata degli ebrei in fuga
Presentata al confine di ponte San Luigi la nuova versione del libro di Paolo Veziano che riporta alla luce l'espatrio clandestino degli ebrei stranieri dalla Riviera dei Fiori alla Costa azzurra tra il 1938 e il 1940. ima pagina di storia dimenticata per oltre sessant'anni.
di Bruno Monticone
VENTIMIGLIA - Sull'estremo ponente ligure i più anziani, qualche volta, ne parlavano fra loro. Ricordavano quelle persone, straniere, che parlavano un italiano stentato, che avevano vissuto per qualche tempo tra Sanremo e il confine francese e, appena possibile, erano fuggiti in Francia. Fra mille pericoli. Perché il governo italiano, fascista, non li accettava, faceva provvedimenti di espulsione anche se, non ufficialmente, come emerge in modo ambiguo da qualche nota conservata negli archivi della Prefettura avrebbe, sotto sotto, favorito l'esodo in Francia di quella gente troppo "scomoda" per un regime alleato alla Germania nazista. Ma i pericoli erano anche dall'altra parte. La Francia non li voleva, li respingeva (e, spesso, lo ha fatto) e, quindi, il loro arrivo oltre confine era spesso un arrivo da clandestini. In mezzo tutto il resto: i rischi dell'espatrio clandestino via mare o attraverso passaggi impervi (come il tristemente celebre "passo della morte" (vicino al confine di Ponte San Luigi) ma anche i rischi di mettersi nelle mani di "passeur" a volte senza scrupoli. Perché, in quegli anni, in Riviera a volte, accanto a persone spinte da principi di solidarietà autentica, ci furono anche persone insospettabili, pescatori o non, che cercarono di trarre il massimo profitto da quel traffico d'uomini.
Una storia di cui, per decenni, non se ne è parlata quella degli ebrei stranieri, soprattutto in arrivo dall'Europa dell'est già sotto il gioco nazista (Austria, Sudeti, Polonia, dalla stessa Germania, etc) che cercavano di sfuggire alle persecuzioni raggiungendo, via Italia, la Francia, paese non soggetto ad un regime dittatoriale per poi, magari, spiccare il salto in Gran Bretagna o negli Stati Uniti. Una storia triste. Non tutti quegli ebrei erano facoltosi, molti conducevano una vita stentata, respinti dal loro paese d'origine, mal tollerati in Italia, spesso respinti dalla Francia.
A togliere il velo che ha ricoperto, per decenni, questa storia è stato Paolo Veziano, appassionato storico e studioso di Isolabona, molto attento alla storia degli ebrei sull'estremo ponente ligure. Già nel 2001 aveva raccontato questa vicenda in "Ombre di confine", volume che ripercorreva questa vicende attraverso una lunga ricerca fatta, raccogliendo testimonianze ed "esplorando" documenti sia in Italia che in Francia. Ora, tredici dopo, Veziano, ha riscritto la sua opera. Riscritta in termini letterali perché non si è trattato di una semplice riedizione o un aggiornamento. Il nuovo libro ("Ombre al confine" è il titolo leggermente modificato rispetto a quello di tredici anni fa edito da Fusta Editore) è un'opera nuova che ha approfondito il tema anche alla luce di nuove scoperte, ha ridisegnato lo schema dell'opera, ha ridimensionato argomenti che sulla prima edizione avevano avuto più spazio e dato più spazio ad altri. Il nuovo libro è stato presentato in uno scenario inedito, quello del Bar La Grotta sul confine di Ponte San Luigi. Una scelta emblematica perché quel tratto di confine fu uno degli scenari di quel difficile esodo. C'erano italiani e francesi alla presentazione dell'ultima fatica editoriale di Veziano, studiosi ed anche figli, arrivati soprattutto dalla Francia, di alcuni dei protagonisti di quella vicenda.
(La Stampa, 25 ottobre 2014)
Amici di Israele senza se e senza ma
di Pierpaolo Pinhas Punturello
Due milioni di evangelici americani, guidati dal pastore John Hagee, fanno della difesa dello Stato ebraico e degli ebrei lo scopo della loro vita religiosa.
di Pierpaolo Pinhas Punturello
Pochi giorni prima di Rosh Hashanà le strade di Gerusalemme hanno visto il passaggio di molte e diverse genti arrivate da "fuori", ognuna delle quali era presente in Israele per scopi, motivi e pensieri diversi. Tra queste diverse visite e diversi turisti c'era un gruppo di 500 americani evangelici guidati dal pastore John Hagee. Nel 2006 il pastore Hagee ha fondano una organizzazione, CUFI (Christians United For Israel) che al momento conta quasi un milione ed ottocentomila associati, arrivando ad avere al proprio interno anche
Non esiste oggi università o campus in tutti gli Stati Uniti che non abbia una sede del CUFI che rivolga i propri stimoli educativi verso la nuova generazione di studenti cristiani americani, insegnando loro un nuovo modo con il quale approcciarsi allo Stato di Israele ed all'ebraismo in genere.
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membri del Congresso americano e del Senato che lavorano, come tutti gli altri, affinché l'immagine dello Stato di Israele, la sua storia, la sua legittimità siano motivo di approfondimento e studio in molti contesti e luoghi di fede evangelica. Non esiste oggi università o campus in tutti gli Stati Uniti che non abbia una sede del CUFI che rivolga i propri stimoli educativi verso la nuova generazione di studenti cristiani americani, insegnando loro un nuovo modo con il quale approcciarsi allo Stato di Israele ed all'ebraismo in genere. Inoltre una volta l'anno, a Washington, il consiglio direttivo del CUFI organizza un congresso internazionale in onore dello Stato di Israele, congresso che è preceduto da centinaia di serate ed happenings "for Israel" nelle principali città statunitensi.
Chiaro ed incisivo è il messaggio che viene dato ad ogni nuovo membro del CUFI: "Vietato essere missionari, scopo del CUFI è la dimostrazione reale del nostro amore per i fratelli e le sorelle ebree e dare loro il massimo del nostro aiuto." E durante l'ultimo conflitto con Gaza l'aiuto del CUFI è stato tanto reale quanto prezioso: più di 14 testate giornalistiche degli Stati Uniti hanno pubblicato intere pagine di riflessioni e notizie raccolte dallo stesso pastore Hagee che non ha mai smesso di affermare a voce alta il diritto di Israele di vivere in pace, sicurezza, entro confini sicuri e non ha mai smesso di pubblicare smentite e vere fonti di notizie false sul conflitto fatte circolare da poco limpide organizzazioni propalestinesi. Cosa spinge un pastore evangelico a tenere in piedi un organizzazione del genere e cosa spinge quasi due milioni di cristiani a dichiararsi così apertamente a favore dello Stato di Israele? Prima di ogni cosa la nuova analisi dei testi sacri ed il rifiuto della teologia della sostituzione che vede nel
Cristianesimo il "nuovo Israele" contrapposto al vecchio Israele la cui alleanza è ormai superata. Per il mondo del pastore Hagee non solo l'antica alleanza non è mai stata superata o annullata dalla "nuova", teoria comune anche al mondo cattolico, ma anche il valore del legame tra Torà, terra di Israele e presenza ebraica in Israele è di fondamentale importanza teologica e non può essere ignorato. "Se nel Salmo 24 è scritto che 'la terra è di Dio con tutto ciò che è in essa' questo significa che è di Sua esclusiva proprietà e quindi Egli può darla in eredità al popolo di Israele che di fatto" - afferma Hagee - "non conquista la terra ma la riceve in dono." Affermare questo durante un conflitto in Medio Oriente di fronte all'opinione pubblica americana e farlo da pastore evangelico non è così ovvio. Non è ovvio rispetto ad un certo tipo di teologia cristiana, non è ovvio rispetto alle posizioni politiche contro Israele, non è ovvio anche rispetto alla lettura dei testi di Paolo di Tarso. Eppure il pastore Hagee continua a sottolineare con forza che leggere nell'Antico Testamento nella parola Israele un preludio all'esistenza della chiesa significa far mentire i testi così come Paolo di Tarso non ha mai sostenuto nessuna tesi sulla sostituzione tra il "vecchio" ed il "nuovo" Israele. I legami tra vecchio e nuovo testamento sono fondamentali per il mondo cristiano ma non in chiave teologica quanto in chiave storica e filosofica e vanno vissuti con gratitudine: senza Israele non ci sarebbe
"Io difendo Israele perché so che questo è giusto, ma non pretendo che la mia difesa diventi un mezzo per influenzare il volere di Dio."
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cristianesimo e questo è un dato innegabile. Ma oltre i testi e la teologia resta di fronte a noi l'attività politica del CUFI, di fatto la più grande organizzazione filo israeliana d'Occidente che pone, involontariamente, molti quesiti anche al mondo ebraico. Primo fra tutti, perché un gruppo così numerosi di evangelici ha così a cuore il destino di uno stato ebraico? Alcuni risponderebbero a questa domanda dicendo che lo scopo di questo sostegno ad Israele da parte evangelica starebbe nell'affrettare la "Fine dei Giorni" quindi una sorta di mezzo per avvicinare i tempi messianici, le guerre tra Gog e Magog e tutto quanto è scritto nei testi dell'Apocalisse.
Il pastore Hagee nega con forza questa interpretazione con un discorso molto semplice: "Noi non possiamo influenzare i progetti divini in nessun modo. Dio è il solo che decide cosa fare e quando farlo. Io difendo Israele perché so che questo è giusto, ma non pretendo che la mia difesa diventi un mezzo per influenzare il volere di Dio." Approfittando che la visita del pastore Hagee in Israele è avvenuta a pochi giorni da Rosh HaShanà, gli è stato chiesto di lasciare un augurio per il nuovo anno: "Le nostre preghiere e le nostre benedizioni sono con lo Stato ed il popolo di Israele perché sappiamo dalle Scritture, dai primi capitoli della Genesi, che chi benedice Abramo ed i suoi discendenti sarà benedetto e chi li maledice, maledetto. Vi auguriamo che possiate godere dei frutti del vostro lavoro in Israele, grande paese democratico e che i vostri figli ed i vostri nipoti possano vivere in pace e senza più alcuna minaccia da parte di nessuno. Quelle stesse minacce che oggi colpiscono anche le comunità cristiane in Medio Oriente e che dimostrano che chi minaccia non segue la strada che ci indica Dio." Ora, ascoltando queste sincere parole del pastore Hagee, un po' del mio atavico sospetto ebraico svanisce e mi chiedo, con un po' più di fiducia, se non mi convenga pensare di avere nel mondo quasi due milioni di amici evangelici piuttosto che un mondo diviso tra semiti ed antisemiti.
(Shalom, ottobre 2014)
E incoraggiante prendere atto che anche tra gli ebrei italiani si trova qualcuno che si accorge e fa notare pubblicamente che nel mondo cristiano ci sono anche gli evangelici. E naturalmente siamo contenti di vedere che la scoperta sembra far piacere. Si può essere certi però che anche in questo caso si troverà qualcuno, non solo tra gli ebrei ma anche tra gli evangelici, che si affretterà a precisare, correggere, smentire, contrastare. Niente di male, cose simili avvengono sempre in un clima di libertà, e quindi devono poter avvenire. Si spera soltanto che chi vuol farlo si assicuri di avere sufficienti elementi di conoscenza per poterne parlare con cognizione di causa, perché su argomenti come questo avviene quello che in generale avviene con la questione ebraica: molti ne parlano con disinvolta sicurezza... perché sorretti da una granitica ignoranza. Sì, adesso cè anche questo fatto ad aggravare la situazione degli ebrei: lamore che certi cristiani manifestano per loro. Tra i tanti guai che abbiamo, penserà qualche ebreo, ci tocca pure di dover intepretare questo imprevisto fenomeno che ci intriga nei pensieri e rischia di dividerci. M.C.
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La superbia dei gentili
La superbia dei gentili verso gli ebrei non è di tipo personale: non è l'orgoglio dell'intellettuale, non è l'altezzosità della bella donna, non è l'alterigia dell'uomo potente. Che cos'è allora? E' fierezza di appartenere a una certa società, unita al disprezzo commiserante per chi appartiene alla società avversa. Perché le società in gioco sono due: quella ebraica e quella cristiana. Per illustrare la cosa si può pensare alle tifoserie di due squadre di calcio della medesima città. Se il Milan vince il derby cittadino, il milanista si sente fiero della "sua" squadra e commisera l'interista che mastica amaro per la sconfitta della "sua" squadra. E questo anche se i due tifosi non sanno nemmeno tirare due calci al pallone. Non si tratta dunque di orgoglio personale, ma di un sentimento di superiorità determinato dall'appartenenza ad una società ritenuta superiore. Posso essere un pessimo cristiano e non avere difficoltà ad ammetterlo, e tuttavia dichiarare con tranquilla sicurezza che "il cristianesimo è superiore all'ebraismo" e sottolineare che "i cristiani credono in Gesù mentre gli ebrei no". E se gli ebrei che mi ascoltano si sentono colpiti, la colpa è loro. Perché da parte mia posso assicurare che, come ha detto qualcuno: "Io non sono antisemita, sono loro che sono ebrei".
Esaminiamo allora un passo biblico che mette a confronto queste due società:
"Perciò ricordatevi che un tempo voi gentili di nascita, chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi, perché tali sono stati fatti nella carne per mano d'uomo, eravate in quel tempo senza Cristo, estranei dalla cittadinanza d'Israele e estranei ai patti della promessa, non avendo speranza ed essendo senza Dio nel mondo. Ma ora, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete stati avvicinati per mezzo del sangue di Cristo" (Efesini 2:11-13).
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Villa Torlonia: aperto il primo bunker di Mussolini
Marino: presto il museo della Shoah
Uno stretto cunicolo lungo 60 metri e con appena un paio di nicchie per sistemare una branda e uno scrittoio, ma dotato di telefono, porte antigas, antisoffio e impianto di aerazione. Apre per la prima volta al pubblico il primo bunker di Mussolini nella sua residenza di Villa Torlonia.
Ricavato già nel 1940 nelle vecchie cantine dei nobili romani e abbandonato perchè non ritenuto abbastanza sicuro, il bunker sarà da oggi visitabile su prenotazione e farà parte di un percorso che rende nuovamente accessibile, dopo sei anni di chiusura, anche il bunker iper-tecnologico, ma mai ultimato, che il Duce fece scavare nel 1942 sei metri e mezzo sotto il livello del terreno, accessibile dalla residenza, con una copertura in cemento armato spessa 4 metri e pareti a forma di cilindro così da attutire le onde d'urto delle bombe.
Un'apertura, frutto della collaborazione tra Roma Capitale, Sovrintendenza capitolina e l'Associazione culturale Ricerche Speleo-archeologiche Sotterranei di Roma, che, commenta il sindaco Ignazio Marino, «ci ricorda quanto è importante coltivare la memoria, anche in un'Europa che grazie a Dio ha superato quei nazionalismi che portarono alle guerre».
«Nei prossimi giorni, la settimana prossima, verranno aperte le buste». Così il sindaco di Roma Ignazio Marino, a margine della visita al bunker di Mussolini, a chi gli chiedeva della gara per la realizzazione del Museo della Shoah a villa Torlonia.
(Il Messaggero, 25 ottobre 2014)
Israele e Turchia, una partnership commerciale
di Aviram Levy, economista
Con quale paese Israele ha raddoppiato sia nel 2012 che nel 2013 l'interscambio commerciale? Quale compagnia di bandiera straniera ha trasportato più passeggeri da e verso Israele nella prima metà del 2014? La risposta a entrambe le domande è, sorprendentemente, la stessa: la Turchia.
Come si spiega questo paradosso di due paesi i cui governi si detestano ma che intensificano sempre più i rapporti economici e commerciali?
Come è noto, da alcuni anni i rapporti diplomatici tra i due paesi sono freddissimi e sono stati punteggiati da momenti di tensione altissima, come nel 2010 in occasione del tentativo della Freedom Flotilla di approdare a Gaza, I rapporti sono peggiorati ulteriormente dopo l'intervento militare israeliano a Gaza l'estate scorsa, quando le critiche durissime e veementi mosse dal premier turco Erdogan al governo israeliano hanno scatenato un'ondata di indignazione nell'opinione pubblica israeliana: per capire il livello di indignazione, basti pensare che un gruppo Facebook con decine di migliaia di sostenitori ha invitato gli israeliani a boicottare e non bere più il "caffè turco", ignari del fatto che tale appellativo indica solo il tipo di torrefazione e di cottura, ma non la provenienza della materia prima (probabilmente sudamericana).
Nonostante il gelo diplomatico, i rapporti economici tra i due paesi si fanno sempre più stretti: nel 2013 la Turchia è il partner commerciale con cui Israele ha registrato per il secondo anno consecutivo, come sopra ricordato, il maggior incremento dell'interscambio commerciale; l'Import e l'export tra i due paesi ha raggiunto i 5 miliardi di dollari (il principale settore di interscambio è l'industria chimica), un volume di poco inferiore a quello registrato tra Israele e la Cina. I turisti israeliani hanno continuato ad affollare le località balneari turche. Come se non bastasse, dei negoziati sono in corso per collegare Israele e Turchia con un gasdotto, che consentirebbe a Israele di esportare in Turchia, un paese in rapida industrializzazione e quindi assetato di energia, il gas estratto nella piattaforma offshore "Leviathan".
Come si spiega questa situazione paradossale e quali le implicazioni? La principale spiegazione è legata alla cosiddetta "globalizzazione" del!'economia mondiale, ossia il forte aumento degli scambi e dei rapporti economici tra paesi in atto da alcuni decenni; uno degli effetti" collaterali" di questo fenomeno è il boom dell'interscambio commerciale anche tra paesi che non hanno rapporti diplomatici. Un esempio eclatante è rappresentato da Cina e Taiwan, due paesi formalmente ancora in guerra ma impegnati in un fiorente interscambio commerciale bilaterale, realizzato mediante la "triangolazione" con paesi terzi; anche tra Cina e Giappone i rapporti diplomatici sono freddi ma i rapporti economici intensissimi. Quali implicazioni ha il fenomeno del "commercio tra paesi che non si parlano"? In primo luogo l'interscambio commerciale tra Israele e Turchia crea posti di lavoro e diffonde benessere nei due paesi, il che rappresenta di solito un elemento stabilizzante. In secondo luogo la presenza di stretti rapporti economici dovrebbe in teoria indurre le autorità dei due paesi ad adottare una politica estera più moderata: i settori che beneficiano degli scambi commerciali (gli imprenditori e i lavoratori interessati) possono infatti far sentire la loro voce presso i governanti.
(Pagine Ebraiche, novembre 2014)
Israele, l'omaggio di un leader-falco alle tombe arabe
di Davide Frattini
Reuven Rivlin è stato eletto presidente dopo il carismatico Shimon Peres, i capelli argento pacifisti che tutti riconoscono in Europa. In contrapposizione con il Nobel per la pace, Rivlin (irrobustito e irrigidito nella destra israeliana) non crede alla soluzione dei due Stati - i palestinesi non otterranno l'indipendenza da Israele - eppure continua a cercare soluzioni per quella che ormai considera una società «malata». Ha girato un video muto che commuove più di mille parole contro la violenza/bullismo a scuola assieme a un bambino arabo, ha ripetuto gli appelli contro il razzismo più di qualsiasi slogan nazionalista.
Vuole provare a mettere insieme i cocci di un Paese e di una Storia fratturati, «tikkun olam» è l'espressione in ebraico. Uno dei vasi frantumati nel passato che il neo-presidente vuole ricomporre è la memoria del massacro a Kfar Kassem, villaggio arabo dove nel 1956, primo giorno della guerra del Sinai, la polizia di frontiera israeliana (fa parte dell'esercito) uccise 47 persone, tra loro 9 donne e 17 bambini, non avevano rispettato il coprifuoco.
Domani una cerimonia commemora la strage e Rivlin ha voluto esserci. Il Likud, il suo partito, lo ha attaccato. Non ha cambiato idea, ha voluto esserci, l'aveva promesso prima di ricevere l'incarico. Perché - gli riconosce Haaretz, da sempre quotidiano della sinistra israeliana - sta cercando di essere il presidente di tutti. Anche degli arabi israeliani, di quelli che vogliono essere chiamati palestinesi e hanno la cittadinanza (come minoranza) dello Stato ebraico. Sono loro ad aspettarsi che a Kfar Kassem nel discorso Rivlin dica «abbiamo sbagliato, chiediamo scusa». La diplomazia israeliana proclama un detto confermato negli ultimi 35 anni è fatta da politici di destra che firmano gli accordi di pace. Anche la pace con se stessi, quella che riconosce gli errori commessi, non solo i torti subiti.
(Corriere della Sera, 25 ottobre 2014)
I migliori soldati di Hamas? I giornalisti
L'informazione non è parte neutra del conflitto. Dovrebbe raccontare le sofferenze di entrambi, invece è schierata ideologicamente sempre in difesa dei palestinesi. Anche quando commettono crimini che vengono taciuti.
di Fiamma Nirenstein
Essere un giornalista che copre la vicenda mediorentale è un nodo identitario molto controverso. A volte sei sottoposto a una "overwhelming question" come dice Elliott: sei un giornalista degno di questo nome se tratti la questione senza metterti al servizio della "causa palestinese"? La risposta della corporazione, e di una buona parte dei lettori è no, essi vorrebbero inchiodare la tua credibilità, il tuo onore professionale a una sua banalizzazione codificata che crea da decenni circoli e sottintesi, che lega e cementa la banda, e la banda stessa altrimenti ti definisce un giornalista a metà. Anche se tu sai che la questione Israelo/araba è coperta di menzogne, che Israele è una isola sullo 0,2 per cento di un territorio tormentato da conflitti incomparabilmente più sanguinosi, che buona parte del conflitto palestinese è insieme nazionalista, religioso, fanatico e anche terrorista, che i palestinesi non mirano, per la maggior parte, alla soluzione di "due stati per due popoli", e che le cose le hanno abbondantemente dimostrate. Qualcos'altro conta per i giornalisti, ovvero una convenzione cultuale e politica che ha a che fare con scelte di clan basilari, di essere e non essere e anche con lo spirito del nostro tempo, globalista, contrario alla guerra, alla nazione, alla religione. Personalmente da decenni ho vissuto questa situazione: non vorrei essere fraintesa, mi ha dato soprattutto grandi soddisfazioni morali e anche di pubblico.
Nonostante non abbia accettato la lectio vulgaris del conflitto, pure ho ricevuto tanti premi, i miei libri sono andati molto bene, c'è un pubblico che mi segue, radio radicale trasmette un mio programma settimanale e il mio Giornale mi ascolta e mi pubblica, ho fatto due trasmissioni televisive e innumerevoli dibattiti. Inoltre solo grazie al mio ruolo di esperta di politica internazionale, ho avuto l'onore di servire per cinque anni come vicepresidente della Commissione Esteri in parlamento. Poteva andare meglio di così?
Si, poteva andare meglio: una sottile disapprovazione mi segue sempre, il discredito mi insegue anche quando non riesce a raggiungermi, sono un agente del Mossad, una ebrea fanatica, una settler, tutto fuorché una giornalista, si sa di già quello che dirà, anzi, l'ha già detto; nei vari giornali in cui sono stata qualcuno mi ha fatto la guerra fino talora a eliminarmi; ho avuto la ventura di ascoltar con le mie orecchie o da frasi riportate che le mie fonti non sono buone, che le mie letture siano viziate, che il mio lavoro insomma non è quello di una vera giornalista. La scusa, per chi ammette la libertà di opinione, perché
Non si fa alcun tentativo di delegit- timare quei giornalisti che hanno come attitudine una noiosissima, ripetitiva, ossessiva coazione a ripetere sulle ragioni dei poveri palestinesi, anche quando sono terroristi, anche quando rifiutano ogni accordo di pace, anche quando vengono alla luce prove evidenti della loro malafede, anche quando vengono fuori storie di ferocia come quelle dell'ISIS.
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invece molti altri mi offendono, mi minacciano, mi trattano di tutti i titoli, è in genere quella della ripetitività del mio punto di vista, ovvero: io tengo per Israele, ne riporto le vicende favorevolemente. Ma se posso capire che la mia tendenza naturale a cercare le ragioni di un piccolo Paese assediato da tanto odio possa a certuni apparire sbilanciata, è ben curioso che lo stesso tentativo di delegittimazione non lo si senta mai per tutti quei giornalisti che, certo non più documentati di me che ho passato una vita sulle carte, al telefono, sul campo, hanno l'attitudine opposta: una noiosissima, ripetitiva, ossessiva coazione a ripetere sulle ragioni dei poveri palestinesi, anche quando sono terroristi, anche quando rifiutano ogni accordo di pace, anche quando vengono alla luce prove evidenti della loro malafede in qualsiasi processo di pace, anche quando vengono fuori storie di ferocia paragonabile a quelle dell'ISIS. Perché un altro elemento interessante della delegittimazione è che questa avviene anche quando i fatti sono palmari: durante l'Intifada portai alla luce una serie di documenti che dimostravano i finanziamenti diretti di Arafat al terrorismo suicida, particolarmente ai Tanzim di Marwan Barghuty. Il mio giornale, allora La Stampa, lasciò con spirito liberale che scrivessi il pezzo, ma dire che da qui sia sorta una generale consapevolezza che i terroristi venivano organizzati e gestiti dall'Autorità Palestinese, niente affatto, si seguitò a considerarli schegge impazzite. Anche oggi la lectio brevis relativa a Abu Mazen è che sia un moderato carico di promesse per un processo di pace effettivo: è notevole l'irrilevanza giornalistica dei suoi mezzi di comunicazioni di massa pieni di odio, del suo sostegno pubblico, clamoroso, dei terroristi, con gesti pubblici di sostegno (accoglienza dei terroristi liberati come di eroi nazionali, piazze a loro intitolate, corsi estivi, feste, finanziamenti speciali per chi è in carcere...). In Israele approdano un gran numero di giornalisti, coccolati, iscritti a club esclusivi, nutriti in ristoranti molto buoni che fanno sconti notevoli: più sono avversi e più sono corteggiati.
Quasi gli unici giornalisti stranieri invitati a vedere le famose gallerie dall'esercito durante la guerra sono stati quelli di New York Times, giornale molto antagonista. Ma questo non ha salvato Israele durante la guerra di Gaza da un attacco concentrico. Bisogna dire che la gente, legga quel che legga, alla fine è più intelligente di mille pagine scritte: giunta in Italia dopo la guerra invece di vedermi aggredita come credevo mi sono sentita spesso chiedere: "Come fate laggiù, circondati dai terroristi?". Questa è stata la domanda che mi sono sentita rivolgere dalla gente normale, i tassisti, i negozianti, i conoscenti del quartiere: la doccia di verità sul terrorismo religioso islamico contemporaneo cui il pubblico è stato sottoposto a causa delle decapitazioni dell'ISIS, ha proiettato la sua luce su Hamas, ha coinciso con le foto dei "collaborazionisti" (pare che non lo fossero affatto) incappucciati e giustiziati in ginocchio sulla strada. Tuttavia, questa realtà, e non certo la sofferenza dell'intera popolazione del sud d'Israele sottoposta a bombardamenti quotidiani, ha risvegliato un po' di buon senso in un mare di estremismo antisraeliano che si è espresso in tutta Europa. Durante la guerra, innanzitutto bisogna capire che al di là delle immagine dei morti e dei feriti palestinesi, da Gaza non è uscito quasi niente. Non c'era che scrivere, tutto era proibito: se non raccontavi della lamentevole sorte dei palestinesi, ti cacciavano, ti minacciavano fin nella vita. Poche voci di giornalisti hanno osato, e in genere quando uscivano dalla Striscia, rivelare la verità dei fatti, cioè che Hamas ha imbastito e condotto una guerra asimmetrica in piena regola, mirando ai civili e usando i suoi civili come scudi umani, le loro case, le scuole e gli ospedali come casematte, punti di raccolta dei propri armati. Hamas ha mescolato i propri armati con i civili, ha sparato dalle finestre di edifici civili, probabilmente non sapremo mai la verità sul numero dei morti e feriti di una e dell'altra parte.
Ciò che è uscito da Gaza, salvo per gli exploit di un giornalista italiano, di uno indiano, di una finnica e di un francese che comunque hanno potuto parlare solo dopo che erano usciti, sono quattro storie sulle diecimila che avremmo dovuto conoscere, e che non sapremo mai. La minaccia è un elemento che è sempre stato basilare nella copertura della vicenda palestinese (ricordiamo la storia di Riccardo Cristiano, che addirittura si autodenunciò su un giornale palestinese temendo rappresaglie quando fu mandato in
I giornalisti sono sopraffatti da una legge non scritta, da qualcosa che è ben più del conformismo: si chiama senso di identità, la legge non scritta di ciò che un giornalista deve essere e fare. Il suo lavoro, in questa storia, è infatti descrivere le sofferenze del popolo palestinese come "main issue". I palestinesi non interessano per nessun altro aspetto.
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onda da Canale 5 il materiale del linciaggio di due soldati israeliani, o semplicemente io devo pensare a come ho passato 13 anni della mia vita sotto scorta). Ma non è solo la paura immediata, che pure penso abbia il suo effetto, è il discredito e il disprezzo della corporazione e quindi, di conseguenza, dell'opinione pubblica. I giornalisti sono soprattutto sopraffatti da una legge non scritta, da qualcosa che è ben più del conformismo: si chiama senso di identità, la legge non scritta di ciò che un giornalista deve essere e fare. Il suo lavoro, in questa storia, è infatti descrivere le sofferenze del popolo palestinese come "main issue". I palestinesi non interessano per nessun altro aspetto, chi ne sa molto di più? Sulla condizione delle donne, sulle carceri, sulla corruzione, sulla speranza di certe imprese economiche, chi scrive mai? Sulla loro politica, quella di uno Stato totalitario, sappiamo solo che Abu Mazen è arrabbiato con Netanyahu, e poco più. Durante l'Intifada, prima di Scudo di Difesa che rimise i palestinesi sulla difensiva, la sofferenza più tragicamente evidente era quella degli israeliani: ma avevo un bel fare a raccontare giorno dopo giorno cosa significa il fatto che tutto, gli autobus, i caffè, i supermarket, tutto saltava per aria per mano di terroristi suicidi. I morti, i feriti ovunque, la sofferenza atroce degli israeliani non è mai diventata issue comunicativo centrale, mentre il leit motiv della sofferenza palestinese lo restava comunque, tanto che ricordo la descrizione soprattutto anche mia della casa di Yehye Ayash dopo che fu ucciso con immagine patetica della moglie e del bambino (fotografato con il mitra del papà), l'eliminazione dello sceicco Yassin descritto come un povero paralitico, le fanciulle biancovestite, che salutavano il padre e la madre e accompagnate dal fratello andavano a compire giustificati omicidi plurimi. Erano delle povere, purissime ragazze. La sofferenza sociale dei palestinesi è rimasta erroneamente a lungo lo sfondo di quelli che invece erano delitti puramente ideologici e religiosi. I giornalisti non sono parte neutra nel conflitto, ma parte attiva: infatti essi partecipano alla guerra perché infliggono a Israele una sofferenza morale molto acuta, che si aggiunge all'aggressione continua delle parole di fuoco che ogni Paese arabo (più la Turchia e l'Iran) dedicano a Israele, e di fatto la strenua ricerca delle ragioni palestinesi anche quando non ci sono (per esempio certo, a una mente razionale, ma non a un giornalista straniero è difficile capire perché Hamas bombarda i civili israeliani se non in una logica islamista) crea uno sfondo sociale terzomondista del tutto contraddetta dai fatti. Ogni tanto un giornale pubblica qualche immagine dei mercati di Gaza, che, perbacco, sono pieni di beni e di gente che li acquista. Ma a che vale questo servizio? La storia resta una curiosità, come anche gli aiuti che a camionate entrano a Gaza ogni giorno, i malati curati negli ospedali israeliani.
Quello che conta nella cronaca è il soldato crudele che ha picchiato un bambino, o quello che con la sua testimonianza può comprovare la tesi che gli israeliani sono razzisti, predatori, persecutori. La continua disponibilità di soggetti pronti a farlo, è direttamente proporzionale alla tua buona fama di giornalista: cioè, se trovi un soldato delle riserve (cronaca di questi giorni) che rivela le inutili intromissioni nella privacy dei palestinesi alla ricerca di debolezze che consentano poi di estrarre collaborazione, il giornale ti
Molti giornalisti hanno lasciato correre l'idea che Gaza rispondesse coi missili alle ricerche degli assassini dei tre studenti rapiti e uccisi: una vera follia, perché questa ricerca si svolgeva nel West bank e non aveva avuto tratti di aggressione alla popolazione civile. Era una ricerca molto accurata, molto tragica, molto determinata, e poi Hamas ha aggredito coi missili.
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ringrazia e tutti riprendono il tuo pezzo. Se intervisti un gruppo di cristiani che affermano l'indelebile verità (cronaca di questi giorni) che Israele difende i cristiani dall'aggressione islamista, oppure racconti che Israele cura i ribelli siriani che fuggono feriti dentro i suoi confini, sono curiosità, non organica verità. A volte la menzogna raggiunge un vero apogeo, per esempio molti giornalisti hanno lasciato correre l'idea che Gaza rispondesse coi missili alle ricerche degli assassini dei tre studenti rapiti e uccisi: una vera follia, perché questa ricerca si svolgeva nel West bank e inoltre certo non aveva avuto tratti di aggressione alla popolazione civile. Era una ricerca molto accurata, molto tragica, molto determinata, e poi Hamas ha aggredito con i missili. Ed era sempre stata lei ad aver perpetrato il rapimento, e l'ha fatto dopo aver firmato con Abu Mazen per un governo di coalizione!
Già, il governo di coalizione: chi si è ricordato, fra i giornalisti che Abu Mazen aveva appena stipulato un patto con Hamas prima della guerra terrorista? Chi ha posto domande su questo punto, al "moderato" anzi moderatissimo Abbas? Di fatto tutta la storia è stata raccontata alla rovescia, nessuno ha osservato da vicino come si svolgeva la guerra in cui i palestinesi che sono morti sono stati vittime soprattutto di Hamas, di un'aggressione senza ragione (Gaza è sgomberata da tempo), dell'assedio senza vergogna non di Gaza ma di un popolo di innocenti, quello ebraico, delle famiglie che vivono nei kibbutz di confine. Non si è potuto leggere se non in accenni di cronaca, la storia della perdita, goccia a goccia, di 64 ragazzi che hanno sacrificato la loro vita senza paura, senza retorica, senza odio, senza sentimenti bellicistici uno a uno, entrando di notte a piedi fra i terroristi di Hamas per salvare la vita del proprio popolo. E' curioso quanto i media possano disinformare, quanto il conflitto arabo israeliano sia stato ignorato in tutto quello che non serviva all'immagine conformista che doveva essere onorata. Negli anni, bastava guardarsi intorno, chiedere ad Arafat se era lui a promuovere il terrorismo (ne era fiero), leggere i suoi discorsi, intervistare i suoi uomini, andare nelle case delle famiglie dei terroristi appena morti nelle esplosioni; bastava andare a Jenin per vedere che non si era trattato di una strage di palestinesi innocenti ma di una battaglia con morti da ambedue le parti; seguire attentamente la vicenda di Mohammed Al Dura per capire che si trattava di uno scontro a fuoco che forse (e ancora non è certo) aveva causato la morte di un fanciullo, ma che non si sapeva di chi fosse il proiettile. A Gaza si è riprodotta la solita situazione che ha causato tanta disinformazione: per prima cosa, i giornalisti hanno avuto il permesso di guardare solo quello che voleva Hamas, i terroristi non si potevano fotografare, solo le vittime. I guerrieri non esistevano, solo i bambini, ma soprattutto i giornalisti volevano seguitare a partecipare al picnic della verità nascosta, e ritrovarsi a cena all'American Colony di Gerusalemme.
(Shalom, ottobre 2014)
Questo articolo tocca un punto fondamentale che precede ogni altro nella trattazione del tema Israele: lonestà. E questo il motivo per cui certe argomentazioni semplici, lineari, che al di là di ogni opinione o preferenza dovrebbero essere accettate da tutte le persone ragionevoli, vengono non tanto contrastate quanto neglette, ignorate, considerate come nulle. Ma se si riconosce che in certi interlocutori il problema è questo, allora è inutile sperare di cambiare le cose e migliorare i rapporti con logiche e razionali argomentazioni. La disonestà è disturbata dalla presentazione della verità e non trova altra via duscita che attaccare o screditare chi gliela presenta. Perché questo accade in modo così vistoso col tema Israele? Perché Israele pone il problema di Dio. Dio è verità, e chi si difende da Dio dunque non può che ricorrere alla menzogna e praticare sistematicamente la disonestà. E il motto di questo sito: il problema Israele è una questione di verità. Non di come, ma di chi. M.C.
Israele: pace con chi? Quando uccidere bambini e ragazzi ebrei rende eroi
Uccidono, massacrano bambini neonati, ragazzi, intere famiglie, ma l'occidente continua a chiamarli "interlocutori per la pace". Sono gli "eroi palestinesi" con i quali l'occidente vorrebbe che Israele facesse la pace.
Il terrorista palestinese che ha ucciso la piccola Haya Zissel Braun di soli tre mesi qualche settimana fa aveva pubblicato un video nel quale elogiava Marwan Kawasme e Amar Abu Aysha, i due terroristi legati ad Hamas che avevano rapito e ucciso i tre ragazzi israeliani.
Questo infame terrorista, che si chiamava Abdel Rahman al-Shaludi, è stato unanimemente riconosciuto dai palestinesi e dai gruppi filo-palestinesi come un eroe per aver ucciso la piccola neonata israeliana, un "martire" che ha compiuto il suo dovere di buon musulmano uccidendo una ebrea in fasce e cercando di uccidere quanti più ebrei possibile. Su Facebook, anche grazie alla complicità di certi pseudo "attivisti per i Diritti Umani" questo assassino di bambini è diventato una vera celebrità. Il suo video sta facendo il giro del web....
(Right Reporters, 25 ottobre 2014)
Fondazione Beni Culturali Ebraici. Premiata la mostra sulle Artiste del '900
di Francesca Matalon
"Un grande successo dal punto di vista del pubblico, la cui partecipazione è stata molto numerosa, della critica, ma anche delle emozioni suscitate". Così Marina Bakos, curatrice assieme a Olga Melasecchi e Federica Pirani, commenta la mostra Artiste del Novecento tra visione e identità ebraica, esposta alla Galleria di Arte Moderna di Roma, all'indomani della sua chiusura lo scorso 19 ottobre dopo essere stata prolungata. Realizzata dalla Fondazione per i Beni Culturali Ebraici in Italia in collaborazione con la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali di Roma Capitale e il Museo Ebraico di Roma, la mostra ha vinto in queste ore il primo premio della sezione arti visive del XV premio di scrittura femminile "Il paese delle donne", dedicato all'artista cilena Maria Teresa Guerrero (Maitè) e congiunto al XXII Premio "Donna e poesia". "Ricordavo che mi avevano chiesto di mandare il catalogo, ma questa vittoria è stata una sorpresa del tutto inaspettata", commenta Bakos. "Sicuramente il merito va al catalogo così ben scritto, alla giuria di alto livello ma anche alla grande qualità della mostra, e abbiamo così un motivo di essere ancora più soddisfatti del suo esito", continua. "Queste donne hanno segnato con il loro valore e la loro professionalità il Novecento artistico italiano e questa mostra rende loro il giusto tributo, riaccendendo i riflettori sui loro straordinari lavori", ricordava all'inaugurazione a giugno il presidente della Fondazione per i Beni Culturali Ebraici in Italia Dario Disegni, sottolineando l'impegno della Fondazione nella promozione e tutela di patrimoni culturali legati al mondo ebraico di cui le centocinquanta opere esposte alla Gam sono un significativo esempio. Una mostra dunque sulle donne, le quindici pittrici e scultrici protagoniste le cui opere tracciano la biografia artistica e personale, ma anche integralmente per opera di donne, come evidenzia Bakos, il che dimostra secondo lei inoltre "quanto si sia compiuto in ambito femminile". E adesso l'intenzione è quella di ampliare la ricerca ad altri ambiti, "per esempio a Torino, dove Paola Levi Montalcini, le cui opere erano esposte nella mostra, non è certo l'unica artista di grande valore, ma anche a Trieste" spiega Bakos. "Essendo prima di tutto una grande appassionata queste idee di ricerca futura mi coinvolgono da vicino e mi fa piacere che si possa ancora suscitare entusiasmo attraverso il contenuto specifico ed emblematico di un campo mai indagato".
(moked, 24 ottobre 2014)
Mentre parlava così, molti credettero in lui. Gesù allora prese a dire a quei Giudei che avevano creduto in lui: Se perseverate nella mia parola, siete veramente miei discepoli; e conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi.
(dal Vangelo di Giovanni, cap. 8)
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Abu Mazen decreta: lavori forzati ed ergastolo a chi vende terreni a ebrei israeliani
Il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha emesso un decreto che modifica il codice penale palestinese in modo da aggiungere i lavori forzati, oltre al carcere a vita, ai palestinesi che vendono, affittano o fanno da mediatori nelle transazioni immobiliari con "cittadini di paesi ostili". Lo riporta l'agenzia di stampa Wafa. La decisione di Abu Mazen coincide con le polemiche suscitate fra i palestinesi dalla notizia che arabi di Gerusalemme est hanno venduto case ad ebrei nel quartiere di Silwan. Già a fine Settembre infatti era dovuta intervenire la polizia israeliana per consentire ad alcune famiglie di religione ebraica di stabilirsi nelle case che avevano regolarmente e legalmente acquistato nel quartiere: i nuovi proprietari erano stati accolti dagli altri abitanti della zona con sputi, insulti e lanci di pietre. Nel 2010 un tribunale dell'Anp ha ribadito che la vendita di terra agli israeliani è punibile con la morte. Anche se la pena di morte non è stata ufficialmente eseguita, nel corso degli ultimi quattro decenni a Gerusalemme est e in Cisgiordania sono stati uccisi in modo extragiudiziale molti palestinesi accusati di coinvolgimento in vendite immobiliari ad ebrei.
(Il Messaggero, 24 ottobre 2014)
Il cacciucco piatto protagonista all'Expo 2015 di Milano
Livorno punta sulla ricetta della tradizione ebraica.
LIVORNO - La Livorno delle Nazioni, la Livorno capitale del liberty con il suo meraviglioso lungomare, la Livorno di Modigliani e Mascagni, di Fattori e dei Macchiaioli offre a Expo 2015 il suo piatto pregiato: il cacciucco. Si apre così la sfida lanciata da Andrea Raiano, presidente della Lega dei Consumatori, per proiettare la nostra città alla grande manifestazione internazionale. «Andiamo a Milano anche con il cacciucco spiega Raiano un piatto che unisce la città e che racchiude l'essenza della nostra comunità». Di radici ebraiche, il cacciucco sarà presentato in tutte le sue diverse versioni legate alle tradizioni e alle successive contaminazioni. «Nel prossimo mese di maggio saremo anche noi nel Padiglione Italia continua Raiano che si trova proprio al centro dell'Expo. Saranno fatte proiezioni e dimostrazioni per esaltare le caratteristiche di questa pietanza». Fino al 31 ottobre, poi, si terranno iniziative in tutta la Toscana. E Livorno metterà in campo anche una gara di cacciucco alla quale saranno chiamati tutti i principali cuochi della nostra città. Ma la proposta è ancora più articolata e coinvolge l'associazione Amicizia ebraico cristiana. Sono stati proposti pacchetti turistici che comprendono itinerari con degustazioni di piatti tipici livornesi di tradizione ebraica, oltre al cacciucco anche le triglie alla mosaica e il merluzzo alla livornese. Sono previste visite alla sinagoga, alla casa natale di Amedeo Modigliani, al museo ebraico Yeshivà Marini oltre ovviamente ai cimiteri storici e monumentali. Si potrà pranzare e cenare nelle strutture con certificazione kasker.
(La Nazione, 24 ottobre 2014)
Dror Mishani vince il premio Adei-Wizo Dalla Pergola 2014
Dror A. Mishani ha vinto il premio letterario Adei-Wizo Dalla Pergola con il romanzo "Un caso di scomparsa", pubblicato in Italia da Guanda. L'autore verrà a Parma per ritirare il premio e parlare del suo libro e dell'attività di scrittore.
Giunto ormai alla sua XIV edizione, il Premio Letterario Adei-Wizo Adelina Della Pergola dà appuntamento per la tradizionale cerimonia di premiazione il 29 ottobre, ore 17.00, a Parma presso la Sala Maria Luigia, Biblioteca Palatina, in Pilotta. Organizzata come sempre da Adei-Wizo , quest'anno la cerimonia si avvale della collaborazione della Comunità Ebraica della città. Alla consegna del premio sarà presente Mishani, che dialogherà con Gabriele Rubini. Ad interpretare passi dei romanzi finalisti sarà presente anche l'attrice Silvia Zoffoli.
Mishani è editor e docente di letteratura all'Università di Tel Aviv. "Un caso di scomparsa" è il suo romanzo di esordio e rappresenta una novità per Israele, luogo dalla letteratura molto fiorente, ma poco incline a frequentare i thriller o i romanzi polizieschi.
Al secondo posto si è piazzato "Quel che resta della vita" di Zeruya Shalev (Feltrinelli) e al terzo "Traducendo Hannah" di Ronaldo Wrobel (Giuntina). Nella sezione Ragazzi ha vinto "Idromania" di Assaf Gavron (Giuntina), con "Fiori nelle tenebre" di Aharon Appelfeld (Guanda) giunto secondo.
I due finalisti della sezione Ragazzi verranno presentati agli studenti delle 15 scuole italiane che hanno partecipato al Premio Ragazzi. Il 30 ottobre, sempre a Parma,
discuteranno i testi.
Il Premio letterario Adei-Wizo Adelina Della Pergola é stato istituito nel 2000 per far meglio conoscere al grande pubblico le molteplici realtà del mondo ebraico. Sono ammesse al Premio opere di narrativa di argomento ebraico, di autori viventi, pubblicate in Italia nel corso dell'anno. L'Adei-Wizo - Associazione Donne Ebree d'Italia Federazione italiana della Women International Zionist Organization, è una associazione di promozione sociale fondata nel 1927 che svolge attività di volontariato in ambiti sociali e culturali. Allo svolgimento del premio partecipano economicamente la famiglia Della Pergola e l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, con il contributo 8?1000.
(ParmaQuotidiano.info, 24 ottobre 2014)
Vera Jarach: "Una militante della memoria"
VENEZIA - A Ca' Foscari il 23 ottobre, invitata dal Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati, è intervenuta una delle fondatrici de "las madres de Plaza de Mayo". Studenti e docenti hanno incontrato Vera Jarach e ascoltato dalla sua voce ferma e gentile il racconto di una vita che si è tragicamente intrecciata alle persecuzioni razziali e alla dittatura argentina degli anni '70.
L'incontro si è tenuto giovedì 23 ottobre 2014 alle 11.30 presso la sala B del Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati (Ca' Bernardo) dell'Università Ca'Foscari.
L'iniziativa è stata organizzata dalla sezione di Iberistica del Dipartimento, con la partecipazione dell'Archivio Scritture Scrittrici Migranti dell'Università, e si colloca all'interno delle attività della Sezione in linea con la riflessione sul rapporto tra letteratura e diritti umani in relazione all'ultima dittatura militare argentina (1976-1983), riflessione già iniziata con la giornata del 27 marzo scorso. L'incontro ha voluto, quindi, integrare la discussione sul tema e offrire come controparte agli studi scientifici la testimonianza di "una militante della memoria" in bilico tra letteratura, compromesso politico e storia personale.
NOTA BIOGRAFICA
Vera Vigevani Jarach è nata a Milano nel 1928. A dieci anni dovette emigrare in Argentina perché le leggi razziali le impedivano di andare a scuola e di avere una vita normale. In Argentina sposò Giorgio Jarach e lavorò fino alla pensione come giornalista all'ANSA di Buenos Aires.
Sua figlia Franca scomparve a diciott'anni il 26 giugno 1976 e di lei non si seppe più nulla fino a poco tempo fa, quando una donna che era sopravvissuta al campo di concentramento dell'ESMA le rivelò che era stata, come molti altri giovani dissidenti, gettata dall'aereo.
A Vera Vigevani Jarach, che appartiene al movimento dele Madres de Plaza de Mayo fin dai primi mesi della sua fondazione, piace definirsi "una militante della memoria", ciò che le ha permesso di continuare a vivere è stata la caparbietà nel raccontare la sua storia.
Vera ha più volte spiegato che, continuando a portare la sua testimonianza, lotta per la creazione di una memoria condivisa, affinché nessuno dimentichi e certe cose non si possano più ripetere
(infoscari, 23 ottobre 2014)
Gerusalemme - Limitato accesso alla Spianata delle Moschee per timore di scontri
Per la preghiera del Venerdì
GERUSALEMME, 24 ott 2014 - La polizia israeliana ha limitato l'accesso alla moschea Al-Aqsa, nella Citta' Vecchia di Gerusalemme, per la preghiera del venerdi', dopo una notte di scontri a Gerusalemme Est. I palestinesi di meno di 40 anni non potranno entrare nella zona della Spianata delle Moschee
, ha indicato il portavoce della polizia Loubna Samri, spiegando che la decisione e' stata presa in base ad informazioni su possibili scontri organizzati al termine della preghiera. Il divieto arriva due giorni dopo un attacco compiuto da un estremista palestinese che ha causato la morte di un neonato di tre mesi a Gerusalemme. Nella notte due palestinesi sono stati arrestati nella Citta' Vecchia mentre gettavano pietre, bottiglie e pneumatici contro la polizia, che ha risposto con lacrimogeni e proiettili di gomma.
(ASCA, 24 ottobre 2014)
Per i nuovi terroristi l'auto è un'arma e i passanti obiettivi
Attentati fai da te. Addio bombe e mitra: la strage ora arriva con l'auto sulla folla.
di Fiamma Nirenstein
Sono le armi più vili e pericolose quelle della vita quotidiana. Le immagini del video dell'attentato di mercoledì a Gerusalemme minacciano tutti: una piccola folla scende dal tram, fra loro una coppia con una carrozzina dove Chaia Zisser vive i suoi ultimi momenti di creatura di tre mesi. La mamma si liscia la gonna, il padre spinge la carrozzina, anche loro sono quasi ragazzi. E, un attimo dopo, sui viaggiatori piomba un'auto bianca. Si avventa a tutta velocità sulla pensilina affollata, uccide Chaia, ferisce 7 persone. Niente rende un attacco più letale della sua domesticità, e che cosa può essere più usuale di un'utilitaria che si avvicina.
Eli Dayan, uno dei passeggeri del tram appena sceso, racconta che, alla vista dell'auto bianca, ha afferrato il figlio e l'ha trascinato giù dalla pensilina, mentre due donne venivano travolte. «Durante la prima Intifada, dicevo ai miei figli di guardarsi dall'autobus; poi, dopo l'attacco del 4 agosto, gli ho detto di cambiare strada alla vista di una ruspa. Ci sono stati diversi attacchi col caterpillar. Quello rovesciò un autobus e un'auto uccidendo una persona e ferendone cinque. Adesso, cerco di evitare le fermate, e occhio a qualsiasi macchina che si avvicina». «Che devo fare», dice una donna alla fermata dell'attacco, a Givat ha Tachmoshet, Gerusalemme est, «devo per forza prendere questo tram per andare a lavorare ogni mattina, aspettare con gli altri... non c'è che incrociare le dita e sorvegliare ogni macchina che si avvicina. Se corre, saltare».
Non ci aveva pensato, in Canada, Patrice Vincent, il soldato ucciso lunedì scorso a Montreal con un'automobile dal neoconvertito islamista Martin Couture Rouleau, che voleva unirsi all'Isis e glorificava il martirio sul sito del gruppo islamista. Anche il terrorista di Gerusalemme è stato esaltato da Hamas e dalla Jihad islamica, che hanno salutato con ammirazione il «martire» Abdel Rahman al Shaludi che, come Vincent, ci ha rimesso la vita.
«L'attacco a Gerusalemme è un atto di eroismo», ha detto Mushir al Masri, un importante portavoce di Hamas. Un incoraggiamento a compiere altri attacchi con tutti i mezzi a disposizione. Frase che suona sinistramente analoga a quella diffusa nei giorni scorsi dall'Isis per suggerire ai suoi adepti in Occidente: «Se non riuscite a trovare una bomba o un proiettile... usate la vostra auto e investiteli». E Rouleau ha eseguito alla lettera, puntando l'auto contro due soldati investendoli e causando la morte di uno di loro. Eppure la polizia canadese l'aveva messo sotto sorveglianza da cinque mesi e gli aveva ritirato il passaporto. Ma non è bastato: tutti possono avere un'auto e la futura moda del terrorismo sembra essere accelerare e trasformarla in un'arma letale. Quindi da oggi Londra, Roma o Parigi potrebbero essere come Gerusalemme, che in questi giorni è un campo di battaglia: città in cui ogni passante può essere un obiettivo, ogni automobilista può essere un attentatore. Ed è qui che la nostra mentalità ci impedisce di capire il punto di vista del terrorismo: gli infedeli, per motivi svariati, sia che partecipino alla coalizione che attacca l'Isis in Irak e in Siria, sia che parteggino per gli israeliani su una terra che essi ritengono proprietà dell'ummah islamica, sono nemici dell'unica soluzione auspicabile, l'islamizzazione complessiva. La scelta degli strumenti quotidiani è la nuova strategia che permette di passare dal deserto alle nostre citta. E adesso fra le armi alla portata di tutti quella che si profila più pericolosa è l'uso di malattie infettive. Uno «shahid» che porta una malattia mortale è una bomba atomica.
(il Giornale, 24 ottobre 2014)
Il "moderato" Abu Mazen, smentito dalle sue stesse parole
Definire moderato Abu Mazen è l'equivalente in diplomazia dell'affermare che Elvis Presley è ancora vivo.
di Michael Freund
Negli ultimi dieci anni, da quando nel gennaio 2005 Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha preso le redini dell'Autorità Palestinese, la comunità internazionale ha fatto di tutto per dipingerlo come un moderato.
Ignorando il suo lungo curriculum di istigatore anti-Israele e di negazionista della Shoà, presidenti americani, primi ministri europei e anche diversi leader israeliani hanno spesso parlato di Abu Mazen in termini entusiastici, descrivendolo come un idealista e un uomo di pace. Lo scorso 17 marzo, quando Abu Mazen è stato ricevuto alla Casa Bianca, il presidente americano Barack Obama ha detto ai giornalisti: "Devo complimentarmi con il presidente Abu Mazen, un uomo che ha sempre coerentemente rifiutato la violenza, che ha sempre cercato una soluzione diplomatica e pacifica che permetta a due stati, fianco a fianco, di vivere in pace e sicurezza". Più di recente, in occasione della conferenza dei donatori per Gaza tenutasi al Cairo il 12 ottobre, il Segretario di stato John Kerry si è sperticato in elogi per il capo palestinese dicendo: "Presidente Abu Mazen, grazie per la vostra perseveranza e la vostra collaborazione"....
(israele.net, 24 ottobre 2014)
Gerusalemme sotto attacco
Assalti, sassaiole, morti e feriti. I problemi del "containment"
"Gerusalemme è sotto attacco", ha detto ieri il premier israeliano Bibi Netanyahu, e si riferiva, certo, all'attentato terroristico di mercoledì, quando Abdel Rahman al Shaludi, un affiliato di Hamas con precedenti per violenza, è piombato sulla banchina di un treno urbano, alla fermata Ammunition Hill, e ha travolto i passeggeri che uscivano dal mezzo: una bambina di tre mesi è stata uccisa, sette persone sono rimaste ferite. Ma quando dice che Gerusalemme è sotto attacco, Bibi parla di una situazione che va avanti da mesi, e di cui l'attentato di mercoledì è solo l'esplosione più recente. Nella capitale, anche quando il conflitto di questa estate nella Striscia di Gaza si è spento, la violenza non si è mai fermata. Ieri a Gerusalemme est, ad appena un giorno dall'attacco, qualcuno ha iniziato a lanciare pietre nel cortile di un asilo frequentato soprattutto da bambini israeliani. I bimbi sono corsi dentro, nessuno si è fatto male, ma le pietre lanciate hanno un valore simbolico enorme. Hanno tirato dei sassi tutte le sere anche contro il treno leggero che è stato il bersaglio dell'attentato. Il treno collega il centro della città con Gerusalemme est ed è stato elogiato come un simbolo di pace, ma quando entra dentro i quartieri arabi puntualmente i suoi vetri sono rotti da grosse pietre, a volte le carrozze sono colpite da bombe molotov. E' così in tutta Gerusalemme est, almeno da luglio, e ieri Haaretz ha parlato di Intifada.
Il governo israeliano da tempo è diviso su come gestire la sicurezza nella capitale, il problema è la strategia del "containment", che cerca di prevenire l'escalation della violenza e l'estensione del conflitto, ma non cura la violenza che è già presente, la faida quotidiana che rende la vita della città un incubo di cui sembra impossibile vedere la fine e che fa di Gerusalemme il simbolo di tutte le cose che non funzionano nel processo di pace. Pochi giorni fa il presidente dell'Autorità palestinese Abu Mazen, che governa insieme con i terroristi di Hamas, ha incitato indirettamente i palestinesi ad attaccare gli ebrei di Gerusalemme, e ieri il suo portavoce ha definito l'attentato di mercoledì una "risposta naturale" alle politiche aggressive di Israele. All'interno del processo di pace, fermo da mesi, non sono previsti nuovi colloqui.
(Il Foglio, 24 ottobre 2014)
Il semplice uso del concetto di processo di pace fa entrare, in modo o ingenuo o fraudolento, in questa annosa guerra, che non è certo tra le più sanguinose della storia, ma è forse la più viscida e ipocrita che si sia mai combattuta. M.C.
Comunità ebraica di Milano: giunta in crisi
L'opposizione chiede più posti. II presidente lascia
di Alberto Giannoni
Il presidente Walker Meghnagi si è dimesso ieri dopo una burrascosa giunta che ha preso atto della spaccatura della maggioranza trasversale che governa la Comunità da due anni. Le dimissioni sono il risultato dell'offensiva della «sinistra» interna, che si è rifiutata di votare l'atto più importante, il bilancio, non tanto - lo riferiscono fonti vicine alla comunità - per problemi legati al contenuto del bilancio, ma per la richiesta di un rimpasto nell'organo esecutivo dell'ente. Questo nuovo assetto di giunta è stato rigettato, non tanto nel merito, quanto per il tono ultimativo della proposta. Meghnagi è un imprenditore, eletto nel giugno 2012 a capo di una lista dell'area «religiosa» o «conservatrice», che ha vinto le elezioni di misura (10 seggi a 9) per poi accordarsi con la formazione rivale, espressione dell'area laica, o di «sinistra», che ha ottenuto a sua volta posti e deleghe importanti. Non abbastanza, evidentemente, per la sinistra, che ha aperto la crisi in un momento che per gli ebrei milanesi è delicatissimo, anche per le note difficoltà economiche della comunità, cui Meghnagi aveva cercato di porre rimedio, appunto, con un bilancio rigoroso e - per la prima volta - anche certificato. Ora, con due anni di anticipo rispetto alla scadenza naturale, tutto torna in ballo.
(il Giornale, 24 ottobre 2014)
Risarcimenti per gli eccidi. Berlino gela ancora l'Italia
Il governo tedesco non accetta la sentenza della Consulta
di Tonia Mastrobuoni
BERLINO - «Il governo tedesco sta analizzando la sentenza. E in conseguenza di ciò saranno da decidere eventuali necessari passi per far valere l'interpretazione giuridica del governo tedesco, confermata appieno dalla Corte internazionale dell'Aja nel febbraio del 2012». Poche parole, consegnate all'Ansa dal ministero degli Esteri tedesco che rimandano a un contenzioso enorme e doloroso, quello dei risarcimenti di guerra e in particolare di uno degli eccidi più feroci compiuti dai nazisti, quello di Civitella. Una sentenza della Corte costituzionale dei giorni scorsi ha clamorosamente riaperto il caso, ma il governo tedesco non sembra voler cedere e si appella a un verdetto precedente che in effetti sembrava aver sepolto definitivamente le richieste di indennizzo.
Un massacro, quello compiuto dagli uomini di Hitler il 29 giugno del 1944 a Civitella in Val di Chiana, Cornia e San Pancrazio, che costò la vita a 244 civili. Dopo decenni di battaglie, un verdetto della Corte di Cassazione dell'autunno del 2008 riconobbe ai familiari delle vittime un milione di euro di risarcimento. I tedeschi non accettarono il verdetto che rischiava in teoria di aprire le porte a un'infinità di giudizi simili e si rivolse alla Corte internazionale di Giustizia.
Il 3 febbraio del 2012 l'Aja ne accolse il ricorso, sostenendo che un tribunale nazionale non poteva condannare uno Stato sovrano: il diritto internazionale gli garantiva l'immunità. «La Corte ritiene che l'azione dei tribunali italiani di negare l'immunità costituisca una violazione dei suoi obblighi nei confronti dello Stato tedesco» spiegò allora il giudice Hisashi Owada nel corso dell'udienza pubblica. Di conseguenza, Roma fu costretta a considerare nullo il verdetto della Cassazione.
La Consulta, tuttavia, ha determinato che non è così. La decisione di ritenere a sua volta illegittima la sentenza dell'Aja è motivata così: «Il principio dell'immunità degli Stati dalla giurisdizione civile degli altri Stati, generalmente riconosciuto nel diritto internazionale, non opera nel nostro ordinamento, qualora riguardi comportamenti illegittimi di uno Stato qualificabili e qualificati come crimini di guerra e contro l'umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona e garantiti dalla Costituzione».
In sostanza la Corte costituzionale ritiene incostituzionali norme che impediscano ai giudici di decidere sulla responsabilità civile di un altro Stato, se si è macchiato di azioni «commesse nel territorio nazionale a danno di cittadini italiani». Si tratta di leggi che violerebbero, secondo la Corte ancora presieduta da Giuseppe Tesauro, due articoli della Carta. L'articolo 2 che descrive i diritti inviolabili dell'essere umano e l'articolo 24 che garantisce il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri interessi. Limitazioni come quelle imposte dalla Corte dell'Aja in nome dell'immunità degli Stati confliggono con la costituzione perché «impediscono l'accertamento giudiziale» di eventuali responsabilità civili di un Paese per violazioni così pesanti e perché negano «eventuale diritto al risarcimento dei danni subiti dalle vittime». Una bella grana, per i rapporti tra Roma e Berlino.
(La Stampa, 24 ottobre 2014)
Sionismo e preti-pretini-spretati
Dall'Archivio storico del Corriere della Sera
Francesco Ruffini, docente di diritto ecclesiastico, liberale, antifascista, fra i pochi professori che rifiutò di giurare fedeltà al regime, fu, con la direzione di Luigi Albertini, uno dei più autorevoli collaboratori del Corriere. II 17 giugno 1920, il Corriere aveva pubblicato un suo articolo (intitolato "Sionismo") nel quale sosteneva con forza la causa sionista perché, secondo lui, la questione ebraica era risolvibile solo se impostata nel suo vero terreno, ossia quello della politica internazionale, e auspicava che l'Italia aiutasse l'impresa anche per ragioni di utilità politica. L'articolo gli attirò le ire di antisionisti e antisemiti. Il 6 Iuglio '22 Ruffini chiede ad Albertini di incontrare un esponente del movimento sionista che voleva dal Corriere un appoggio esplicito contro le richieste inglesi e si scusa scherzosamente con Albertini: "Con quell'articolo vi compromisi un po'", ma ribadisce di essere di quelle convinzioni "ad onta del chiasso che stanno facendo Preti, Nazionalisti, e quell'anima velenosa del don Preziosi (l'ex sacerdote antisemita che pubblicò la prima versione italiana dei Protocolli dei Savi di Sion, ndr): prete, spretato, dicono: ma sempre prete o pretino" . Albertini ricevette Vladimir Jabotinsky ma non poté promettere nulla poiché, scrive a Ruffini, pur rispettando la causa sionista, era prioritario iI rapporto con l'Inghilterra.
(Corriere della Sera - Sette, 24 ottobre 2014)
Docenti israeliani banditi da una conferenza in America
di Giulio Meotti
ROMA -. A rivelarlo è il Washington Post: "Evento a Los Angeles restringe la partecipazione degli israeliani". Una organizzazione accademica americana impedirà a docenti dello stato ebraico di partecipare alla propria conferenza annuale. L'American Studies Association, vecchia gloria dei college statunitensi, si riunirà a Los Angeles ai primi di novembre e non lascerà partecipare gli israeliani. L'American Center for Law and Justice ha inviato all'hotel Westin Bonaventure, dove si svolgerà il convegno, una lettera di avvertimento per cui l'albergo potrebbe essere esposto a una azione civile se gli israeliani non potranno mettere piede nell'incontro. Una petizione pubblica che invita l'hotel a non ospitare l'organizzazione è stata avviata sul sito change.org. L'associazione di professori americani con oltre cinquemila iscritti ha votato e deciso di sostenere il boicottaggio di università e scuole superiori israeliane. Si tratta del più grande gruppo negli Stati Uniti a entrare nel crescente movimento che cerca di isolare Israele. Uno dei testimonial di questo boicottaggio è Angela Davis, icona militante dell'estrema sinistra ora illustre professoressa emerita di studi femministi presso l'Università di California.
L'American Studies Association ha detto che il boicottaggio è limitato a "collaborazioni formali" con le istituzioni o studiosi israeliani che "espressamente servono come rappresentanti o ambasciatori" delle istituzioni israeliane o del governo. Un docente della Northwestern University School of Law, Eugene Kontorovich, membro dell'American Studies Association, ha spiegato che "anche un funzionario del governo in realtà, anche il primo ministro Benjamin Netanyahu potrebbe partecipare alla conferenza annuale del gruppo, a condizione che non rappresenti Israele". Dunque sarebbe ammesso "Benjamin Netanyahu", ma non "il primo ministro Benjamin Netanyahu". Lo stesso vale per i docenti israeliani. Non deve comparire l'affiliazione universitaria.
Se invece sei un professore alla Fordham University è meglio pensarci due volte prima di battersi per la libertà accademica di Israele. Lo ha imparato Doron Ben-Atar, che aveva chiesto alla sua facoltà di recidere l'affiliazione all'American Studies Association. Invece di rispondere a Ben-Atar con argomenti ragionati, il direttore degli Studi americani alla Fordham, Michelle McGee, ha presentato una denuncia. Ben-Atar si è ritrovato indagato per "discriminazione religiosa". Il New York Post titola così: "Piccola inquisizione alla Fordham".
Quando al presidente dell'American Studies Association, Curtis Marez, professore di Studi etnici presso l'Università della California, è stato fatto presente che tutti i paesi vicini di Israele si comportano molto peggio dello stato ebraico, la sua risposta è stata: "Da qualche parte si deve cominciare...". Ma è chiaro che questo boicottaggio, che inizia con Israele, si fermerà a Israele. Intanto si inizia con l'esclusione dalla conferenza accademica dei cittadini dello stato ebraico. Come scrive David French, uno degli avvocati del free speech che seguono il caso, "nessuna altra nazionalità è soggetta a tale discriminazione non i siriani che rappresentano un regime che gasa i propri nemici, non gli iraniani che rappresentano un regime che impicca gli apostati, non i russi che rappresentano un regime che invade un paese vicino. Invece l'ira è rivolta alla sola democrazia del medio oriente, una nazione sotto costante attacco terroristico, che garantisce ai propri cittadini al di là della loro religione la più grande libertà nella regione". Israele, appunto.
(Il Foglio, 23 ottobre 2014)
"Da qualche parte si deve cominciare... " E guarda caso si comincia proprio da Israele. La mala fede è evidente, ma non a quelli che hanno la stessa mala fede. E sono molti. Ma poiché pretendono di agire per motivi morali, la loro immoralità è doppiamente grave. Qualcuno dovrebbe dirglielo: "Vergognatevi!" M.C.
Auto sulla folla a Gerusalemme Est, morta una bambina di tre mesi
Shufat, quartiere di Gerusalemme Est. Mercoledì pomeriggio un'auto esce di strada e travolge dei passanti, in attesa sulla banchina del tram.
Ad avere la peggio è una bambina di appena tre mesi. Altre otto persone sono rimaste ferite in quello che le autorità israeliane non hanno dubbi sia stato un attentato.
Alla guida dell'auto si trovava Abdel Rahman a-Shaludi, un ventenne palestinese sospettato di appartenere ad Hamas e che, per questo, è stato anche in carcere. Ha tentato di fuggire a piedi, ma è stato colpito da una guardia civile ed è poi morto, dopo essere stato ricoverato.
Proteste davanti all'ospedale dove sono stati ricoverati i feriti. C'era anche il nonno della piccola vittima: "mia moglie Sarah è partita alcune ore fa. Ora si trova in aereo con mia figlia, arriverà a New York tra poco. E il primo messaggio che riceverà sarà che la sua amata nipote, che avevamo atteso così a lungo, è morta".
Il governo israeliano accusa Hamas ma anche il presidente palestinese Mahmud Abbas di avere causato questo episodio.
E si fa sempre più elevata la tensione nel rione di Silwan, cominciate giorni fa con l'incremento degli insediamenti di israeliani in una zona tradizionalmente palestinese. Diversi scontri tra ragazzi palestinesi e polizia israeliana si sono registrati in questa e altre aree di Gerusalemme Est.
(euronews, 23 ottobre 2014)
Gerusalemme, era americana la neonata morta nell'attentato alla fermata del tram
L'attentatore, colpito mentre cercava di fuggire, è poi morto in ospedale. Aumentate le misure di sicurezza a Gerusalemme: arrestato il fratello 15enne dell'attentatore.
WASHINGTON - Chaya Zissel Barun, la bambina di tre mesi uccisa ieri da un'auto pirata a Gerusalemme, era cittadina americana, riferiscono al Jerusalem Post fonti Usa. Altre sette persone sono rimaste ferite nell'attacco messo a segno da un palestinese, Abdel Rahman al Shaludi, 21 anni, che ha lanciato la sua autovettuta contro un gruppo di persone a una fermata di un tram. La piccola, Haya Zisel Braun, sbalzata fuori dalla carrozzina, ha riportato un trauma cranico fatale battendo con la testa al suolo.
L'uomo, ferito dalla polizia, è poi deceduto in ospedale, stando a quanto riportato oggi dal quotidiano Haaretz. L'attacco è stato condannato da Washington, con la portavoce del Dipartimento di Stato Jen Psaki che ha sollecitato "tutte le parti a evitare un'escalation delle tensioni".
Le autorità israeliane hanno annunciato oggi maggiori misure di sicurezza a Gerusalemme, dopo una notte di scontri, soprattutto a Gerusalemme Est. Haaretz
Ma i giornalisti italiani sanno che in Israele non esiste solo Haaretz fra i giornali? Come mai il giornale meno letto in Israele è quello più conosciuto e citato dal resto del mondo?
ha riferito oggi anche dell'arresto del fratello 15enne dell'attentatore. L'attacco ha innescato scontri in diversi quartieri di Gerusalemme est tra giovani palestinesi e polizia, proseguiti per tutta la notte. Il portavoce della polizia, Micky Rosenfeld, ha riferito che sono state arrestate diverse persone, ma non ha fornito numeri.
(Quotidiano.net, 23 ottobre 2014)
Folla a Gerusalemme per il funerale della neonata uccisa dal militante di Hamas
GERUSALEMME - Centinaia di persone, tra cui il presidente israeliano, Reuven Rivlin, il sindaco, Nir Barkat, hanno partecipato nella notte al funerale della bimba di tre mesi rimasta uccisa mercoledi' sera in un attentato a Gerusalemme. L'attacco da parte di un militante di Hamas che si e' lanciato con l'auto contro le persone in attesa a una fermata del tram ha innescato scontri in diversi quartieri di Gerusalemme est tra giovani palestinesi e polizia, proseguiti per tutta la notte. Il portavoce della polizia, Micky Rosenfeld, ha riferito che sono state arrestate diverse persone, ma non ha fornito numeri.
Dopo l'attacco, in cui sono anche rimaste ferite altre otto persone, la polizia di Gerusalemme aveva promesso "tolleranza zero" contro eventuali disordini. E' il secondo incidente mortale che coinvolge un palestinese alla guida di un veicolo in tre mesi, il che ha spinto il premier Benjamin Netanyahu ad aumentare la presenza di agenti in tutta la Citta' Santa. Al volante dell'auto impazzita c'era un palestinese 21enne, Abdel Abdelrahman Shaludeh, un abitante di Gerusalemme Est che ha tentato di fuggire, ma e' stato raggiunto da colpi d'arma da fuoco della polizia ed e' morto poco dopo. La piccola, Haya Zisel Braun, sbalzata fuori dalla carrozzina, ha riportato un trauma cranico gravissimo battendo con la testa al suolo. Ai funerali della piccola, che oggi avrebbe compiuto tre mesi, nel cimitero di Shamgar, nel quartiere ultraortodosso hanno partecipato numerosi membri della comunita', ma anche il presidendete israeliano, Reuven Rivlin, il sindaco della citta', Nir Barkat, e il rabbino capo di Gerusalemme, Shlomo Amar. Tanto la bimba che i genitori (la madre e' rimasta ferita anche lei) avevano cittadinanza anche statunitense. Il governo di Washington ha definito "spregevole" l'accaduto e ha chiesto alle parti di mostrare "moderazione" ed evitare escalation di tensione. La portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, ha parlato di "atto terrorista" e attacco "atroce".
Il governo israeliano, ha riferito una fonte, non ha chiaro se sia sia trattato dell'azione di un lupo solitario perche' non risulta che Hamas avesse ordinato attentati. Nella serata pero' il premier Netanyahu ha chiamato in causa il presidente Abu Mazen, perche' il leader palestinese avrebbe "incitato ad attaccare gli ebrei a Gerusalemme". Il riferimento e' alle parole pronunciate venerdi' scorso da Abu Mazen, che aveva invitato i palestinesi a usare "ogni mezzo" per impedire che "i coloni si approprino della Spianata delle Moschee" (il Monte del Tempio), sito sacro sia per i musulmani che per gli ebrei.
Dei sei feriti, uno versa in gravi condizioni, un altro e' e' rimasto ferito moderatamente, gli altri quattro in modo lieve. Nel mese di agosto, c'era stato un incidente analogo: un palestinese a bordo di una ruspa aveva speronato un autobus, uccidendo un israeliano e ferendone cinque. La famiglia del palestinese, che sostiene si sia trattato di un incidente, ha raccontato che Shaludi era stato da poco rilasciato da un carcere israeliano dove era rimasto 14 mesi per disturbi alla quiete pubblica (l'eufemismo con cui di solito si indica chi lancia pietre o partecipa a disordini). Silwan, il quartiere dove il giovane abitava, e' un'area densamente popolato sul lato di una ripida collina appena a sud della Citta' Vecchia, teatro frequente negli ultimi anni di disordini perche' nella zona si sono stabiliti estremisti ebrei.
(AGI, 23 ottobre 2014)
conflitto
di Sergio Della Pergola
Se un palestinese investe e ferisce con un'automobile i passeggeri in attesa a una fermata del tram e uccide una bambina a Gerusalemme, che cosa si deve fare? L'incidente è avvenuto in una via che fino al 1967 non faceva parte di Gerusalemme Ovest, nello stesso giorno in cui vengono uccisi in un attentato diversi soldati in Egitto, e dal confine egiziano parte una sparatoria verso Israele. Dunque: sgomberare immediatamente i territori occupati? Condannare l'inutilità delle guerre? Instaurare il coprifuoco nei quartieri di Gerusalemme Est da cui proveniva l'investitore? Dedicare una piazzetta al nome della piccola vittima? Distinguere fra Islam moderato e Islam estremista? Sollecitare nuove trattative di pace? Potremmo continuare con questa lista fra il cinico e lo scettico. A noi sembra evidente che vi sia una frattura grave fra la natura del conflitto e la natura del discorso sul conflitto. Non è pensabile, come ha suggerito Sergio Romano in un contesto un poco diverso, pensare che "vinceremo [contro ISIS] quando gli jihadisti saranno stanchi di morire per un obiettivo irraggiungibile". I tempi potrebbero essere molto lunghi. È necessario invece interrogarsi sulla natura della società civile che si vuole instaurare al termine del conflitto, non solo in Medio Oriente ma anche in Occidente. Ed è necessario che le persone oneste prendano inequivocabilmente posizione contro gli atti di terrorismo. Senza condizioni e senza attenuanti.
(moked, 23 ottobre 2014)
Il cannone più "green" del mondo è italiano, ma un'azienda israeliana vuole il primato
Utilizzando il "punto triplo" dell'acqua, a Trento nasce la tecnologia più pulita nel campo degli spara-neve. Ma un colosso israeliano ne ha sviluppato prima un modello meno efficiente.
di Alberto Custodero
Ecco il cannone più green del mondo, che spara neve usando energia solare. Senza inquinare. E anche quando fa caldo. È guerra tra un giovane ingegnere di Trento, Francesco Besana, e un colosso israeliano (Ide) su chi abbia inventato il cannone spara-neve più tecnologico. Davide questa volta è italiano, mentre (per seguire la storia dell'Antico Testamento), Israele, famoso in tutto il mondo per essere leader nelle tecnologie più avanzate, rischia di fare la figura di Golia.
Ma per capire quale sia la portata della guerra della neve fra Trento e Israele, bisogna fare un passo indietro, e un po' di storia. Cominciando col dire che i tradizionali cannoni che oggi imbiancano le piste dalle Alpi alle Dolomiti sparano ad altissima pressione, e a 5 o 6 metri di altezza, acqua attraverso ugelli che la nebulizzano in piccolissime goccioline. Queste, a temperature sotto zero, inferiori a meno tre gradi, si cristallizzano e cadono a terra sotto forma di neve.
Il principio utilizzato dall'Archimede Pitagorico trentino, e dalla israeliana Ide (una dei leader globali nella desalinizzazione dell'acqua), invece, fa leva sulle misteriose qualità chimiche dell'acqua. L'acqua, va
detto, si presenta sulla terra in forma o liquida, o gassosa (vapore), o solida (neve-ghiaccio). In una particolare condizione che non esiste in natura - ma riproducibile artificialmente - ovvero in assenza di pressione atmosferica e a una temperatura di zero gradi, la molecola H2O, si può dire, diventa una e trina. Si fa contemporaneamente liquida, gassosa e solida. In altre parole, bolle, emettendo vapore mentre nello stesso tempo ghiaccia, producendo neve. Il tutto, mentre la temperatura esterna può essere anche di venti gradi. Questa metamorfosi chimica sembra un miracolo, un gioco di prestigio, un'illusione ottica, invece è il fenomeno noto agli scienziati come "punto triplo" dell'acqua.
Per tornare a Besana centro Ide, al Davide e Golia delle nevi, l'azienda israeliana sembra essersi aggiudicata la partita-tempo, nel senso che è arrivata prima a produrre neve sfruttando il principio del "punto triplo". Ma la sua neve è costosissima, per produrla consuma una gran quantità di energia elettrica, e l'impianto è gigantesco, grande come una casa di due piani: nulla a che vedere con un cannone trasportabile.
L'ingegnere di Trento Francesco Besana, padre del prototipo NeveXN ("neve perenne"), pare abbia vinto per efficienza, e qualità. La sua macchina della neve, infatti, trasportabile su un carrello, è una sorta di campana di vetro all'interno della quale, alla pressione atmosferica lunare, l'acqua si solidifica prima in ice-slurry, una sorta di sorbetto, e poi in cristalli di neve. Ma la magia che gli è valso il brevetto consiste nel fatto che Besana è riuscito a produrre neve usando energia termica, non elettrica. E duqneu, anche energia solare. Si tratta dunque del cannone sparaneve più green al mondo. Nessun additivo. Zero inquinamento. Funziona a qualsiasi temperatura e umidità, e non risente del vento. NeveXN potrebbe essere estremamente utile per preparare il primo strato sulle piste in attesa delle nevicate e senza attendere che la temperatura rimanga stabilmente sotto lo zero. Ma com'è nata l'idea del cannone trentino?
La storia del NeveXN è lunga e viene da lontano. Besana, dopo aver ottenuto il dottorato in "Tecnologie per l'Ambiente", si specializza a Berkeley. Fu là, nella più famosa università californiana, che ebbe la prima intuizione. Tornato in Italia, decise di coinvolgere nell'avventura Fabiano Maturi, ingegnere delle funivie di Pinzolo, Giuseppe Franchini docente dell'Università di Bergamo e Anna Vanzo, economista, esperta di comunicazione.
Ottenuti fondi europei, dopo anni di lavoro, di notti insonni dei due giovani ingegneri Besana e Maturi, di importanti collaborazioni con Istituti di ricerca italiani e stranieri, finalmente il sogno si è realizzato: il piccolo, ecologico ed economico cannone sparaneve ha prodotto nei giorni scorsi neve a una temperatura di 15 gradi.
Adesso la start up NeveXN sta pensando al futuro. Finita la progettazione, è cominciata la fase più difficile in tempi di crisi: la ricerca di business angels che finanzino l'industrializzazione del NeveXN. Nel frattempo, che faranno gli israeliani, staranno a guardare?
(la Repubblica, 23 ottobre 2014)
Stato Islamico: i perché dell'indifferenza di Tel Aviv alla minaccia del "califfato"
di Luca Lampugnani
Mentre lo Stato Islamico e la sua avanzata sanguinosa continuano ormai da mesi a sconvolgere l'Iraq e la Siria - toccando però nel dietro le quinte tutta la regione mediorientale dalla Turchia all'Arabia Saudita -, Tel Aviv sembra avere una certa indifferenza rispetto alla minaccia rappresentata dalla marea nera dei jihadisti del "califfo" Abu Bakr al-Baghdadi.
Certo il premier Benjamin Netanyahu, così come molti dei suoi ministri hanno fatto, parla e ha parlato dell'IS (ex ISIS o ISIL), condannandone la brutalità e non perdendo occasione per paragonarlo ad Hamas ("Lo Stato Islamico e Hamas sono rami dello stesso albero velenoso", ha detto Bibi alla recente Assemblea Generale delle Nazioni Unite). Certo i media di Israele, così come quelli di tutto il mondo, seguono costantemente le vicende che tra Siria e Iraq vedono protagonista lo Stato Islamico, dall'assedio nella città frontaliera di Kobane al pressoché totale controllo del governatorato di al-Anbar. Certo, ancora, nemmeno Tel Aviv si sottrae all'infinità di Paesi dell'intero pianeta da cui jihadisti e aspiranti tali partono alla volta di Baghdad o Damasco - Athman Abed Al-Kayan, ventitreenne medico israeliano di origini arabe, è recentemente rimasto ucciso mentre combatteva sotto l'egida dell'IS -, pronti a giurare fedeltà al "califfato" e a morire per la sua esistenza.
Perché allora Israele mostra una tale freddezza nei confronti della minaccia che indubbiamente rappresenta, soprattutto regionalmente, lo Stato Islamico? Tra le molte potenziali risposte e gli infiniti ipotizzabili scenari, sicuramente di rilievo è l'aspetto militare: Tel Aviv, vista l'attuale potenza di fuoco del califfato, dispone di un arsenale che gli permette di dormire sonni tranquilli. Tuttavia, limitarsi ad una così scarna analisi non è sufficiente a fare luce sulle ragioni dell'apparente disinteresse israeliano.
Significative, volendo addentrarsi più approfonditamente in tali perché, sono le parole pronunciate lo scorso settembre da Moshe' Yaalon, ministro della Difesa del governo Netanyahu. "L'organizzazione (lo Stato Islamico, ndr) opera lontano da Israele - ha specificato -, nella Siria dell'Est", e per questo motivo "non rappresenta una minaccia per gli interessi israeliani". A tutti gli effetti, nonostante Israele e Siria siano Paesi confinanti, le zone di quest'ultimo che subiscono maggiormente l'influenza dell'IS sono a ridosso delle frontiere con la Turchia e l'Iraq, quindi a Nord, Nord-Est ed Est. Al contrario, nel Sud-Ovest della Siria, dove troviamo gli altipiani del Golan e quindi la frontiera con Israele, la battaglia è ancora per lo più tra i cosiddetti ribelli e il regime di al-Assad, le cui incessanti battaglie ridisegnano di giorno in giorno i confini delle aree sotto il controllo degli uni o dell'altro.
Inoltre non va sottovalutato il fatto che lo Stato Islamico, almeno fino a questo momento, ha mostrato un certo disinteresse per l'eterna guerra israelo-palestinese, potenziale fonte di una proficua propaganda jihadista. E finché al-Baghdadi e i suoi uomini non arriveranno a dare definitivamente fuoco ad una polveriera costantemente in fiamme (sempre ammesso che riescano o vogliano farlo), Israele difficilmente si preoccuperà più di tanto del "califfato".
Ancora, guardando Tel Aviv dall'interno, non è difficile trovare altre potenziali motivazioni del disinteresse israeliano. Il Paese di Netanyahu, ad esempio, non è logorato da una guerra civile né militare né politica, e questo allontana i rischi di un terreno particolarmente fertile per un'eccessiva influenza dello Stato Islamico. La chiusura pressoché ermetica della frontiera che corre tra Israele e Siria, tutto sommato breve se paragonata ad esempio al confine turco-siriano, ha inoltre permesso a Tel Aviv di tenere sotto controllo l'afflusso di eventuali rifugiati da Damasco, bloccando così in toto anche il passaggio e la possibile correlata diffusione jihadista. In ultimo, benché non manchino tra le fila dello Stato islamico cittadini israeliani, questi sono troppo pochi per poter rappresentare una vera e propria minaccia per il Paese. Basti pensare, in tal senso, che secondo il Soufan Group il numero di combattenti di Tel Aviv presenti in Siria si aggira attorno ai 20, una briciola rispetto, ad esempio, agli oltre 2.000 giunti dalla Giordania.
Insomma, ciò che emerge piuttosto nettamente è che Israele ritiene lo Stato Islamico una minaccia per altri, un pericolo lontano che, se proprio dovesse arrivare nei pressi di Tel Aviv, sarebbe solo ed esclusivamente con la capitolazione finale di uno dei Paesi adiacenti all'avanzata jihadista - si guardi alla già citata Giordania, che più di altre spaventa, ma solo come scenario più che futuro e soprattutto assolutamente di difficile realizzazione. Al contrario, non va escluso che Israele possa guadagnare, almeno politicamente e mediaticamente, dall'avanzata (per come è oggi) dello Stato Islamico. L'attenzione e le paure dell'Occidente permettono infatti a Tel Aviv di premere sull'acceleratore di una nuova campagna anti-palestinese, volta principalmente ad allontanare ogni discussione su di una risoluzione definitiva delle ostilità e a paragonare indistintamente e senza filtri il nazionalismo dei gruppi armati di Gaza e della Palestina con il jihadismo del "califfato" di al-Baghdadi.
(International Business Times, 23 ottobre 2014)
Attentato a Gerusalemme: auto contro la folla, muore una bimba di tre mesi
Un palestinese vicino ad Hamas e con precedenti si lancia contro la gente che scende dal tram. Anche due feriti gravi. Poi tenta la fuga e viene colpito dagli agenti: è ricoverato.
GERUSALEMME - La sterzata, improvvisa, e il piede che spinge sull'acceleratore, puntando sulla folla in attesa del tram. È la dinamica di quello che il governo israeliano definisce atto terroristico e che è avvenuto oggi a Gerusalemme. Un palestinese legato ad Hamas ha travolto alla guida di un'automobile una decina di passeggeri ad una fermata: una bambina di tre mesi è rimasta uccisa e altri due israeliani sono stati feriti in modo grave.
Il palestinese - Abdel Rahman al-Shaludi, 20 anni, con alle spalle un periodo di detenzione in Israele - che guidava il veicolo è stato colpito dagli spari di una guardia civile. Secondo una prima ricostruzione, al-Shaludi ha accelerato verso la fermato quando il tram si è fermato alla stazione della Collina delle Munizioni, a breve distanza dal comando della polizia di Gerusalemme. L'auto ha superato un marciapiede ed ha investito in pieno i passeggeri che stavano scendendo. Dopo l'impatto l'autista ha cercato di darsi alla fuga a piedi, ma agenti nelle vicinanze gli hanno sparato e abbattuto. Le sue condizioni sono gravi.
Il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha ordinato l'invio immediato di rinforzi di polizia a Gerusalemme. "Ecco come si comportano i partner del presidente palestinese Abu Mazen, che ancora pochi giorni fa ha incitato a colpire gli ebrei a Gerusalemme", ha esclamato Netanyahu in un comunicato. Si riferiva fra l'altro alla radicalizzazione seguita ad una ondata di disordini palestinesi a Gerusalemme est: in particolar modo nella Spianata delle Moschee e nel vicino rione di Silwan, dove è in corso un'accresciuta attività di colonizzazione ebraica.
A-Shaludi è originario di quel quartiere.
Hamas ha subito emesso un comunicato di compiacimento per l'attentato che, a suo parere, "è una conseguenza naturale" della politica israeliana sulla Spianata delle Moschee, a Gerusalemme est. I servizi di sicurezza israeliani si chiedono se al-Shaludi sia stato inviato in missione da Hamas o se, come appare più probabile, abbia agito di propria iniziativa. Il rischio, hanno detto i responsabili della polizia a Netanyahu, è che dopo mesi di estese violenze a Gerusalemme, la situazione rischi di degenerare. Per questa ragione il premier ha ordinato l'invio di rinforzi e anche il ricorso a sistemi tecnologici sofisticati di protezione, fra cui il monitoraggio dei tram con telecamere appostate su uno zeppelin per prevenire nuovi attacchi palestinesi.
(la Repubblica, 22 ottobre 2014)
Vittime del nazismo, la Consulta: possibili risarcimenti a carico della Germania
Sentenza cancella tutte le norme del nostro ordinamento che garantivano immunità. "Non si applica a casi di crimini di guerra o contro l'umanità"
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ROMA - Dalla Consulta arriva una picconata a quelle norme italiane che impedivano alle vittime delle stragi naziste di chiedere risarcimenti a paesi stranieri, ovvero alla Germania. La decisione della Suprema Corte sancisce che i giudici sono competenti sulle istanze di risarcimento perché "il principio dell'immunità degli Stati dalla giurisdizione civile degli altri Stati, generalmente riconosciuto nel diritto internazionale, non opera nel nostro ordinamento, qualora riguardi comportamenti illegittimi di uno Stato qualificabili e qualificati come crimini di guerra e contro l'umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona e garantiti dalla Costituzione".
La Consulta, dunque, nel corso della camera di consiglio di oggi ha dichiarato l'illegittimità costituzionale delle norme che impediscono al giudice italiano di accertare l'eventuale responsabilità civile di un altro Stato per "tali gravissime violazioni - si legge nella nota della Corte - commesse nel territorio nazionale a danno di cittadini italiani".
Tali norme, secondo i 'giudici delle leggi', violano i principi dettati dalla Costituzione con gli articoli 2 (diritti inviolabili dell'uomo) e 24 (diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri interessi), perché "impediscono l'accertamento giudiziale" di eventuali responsabilità civili di uno Stato per violazioni così gravi, nonché del "eventuale diritto al risarcimento dei danni subiti dalle vittime.
La questione dei risarcimenti chiesti alla Germania dalle vittime del nazismo era stata trattata in udienza pubblica il 23 settembre scorso, ma la decisione è giunta soltanto oggi. Il caso era stato sollevato con tre distinte ordinanze dal tribunale di Firenze, che aveva espresso dubbi di legittimità delle norme con le quali si negava la giurisdizione del giudice italiano sulle istanze risarcitorie avanzate nei confronti della Repubblica federale tedesca.
La questione dei risarcimento sembrava essere ormai chiusa dopo la pronuncia con cui la Corte internazionale dell'Aja che, nel 2012, aveva stabilito la carenza di giurisdizione del giudice italiano. Precedenti sentenze della Cassazione, invece, avevano riconosciuto ad alcuni familiari di vittime del nazismo il diritto ad essere risarciti dallo Stato tedesco.
I processi da cui è scaturito l'invio degli atti alla Consulta riguardano istanze risarcitorie avanzate da italiani che vennero deportati in campi di concentramento in Germania.
(la Repubblica, 23 ottobre 2014)
La moschea di Al-Aqsa sarà spartita tra musulmani ed ebrei
di Stefania Rizzo
Un membro arabo della Knesset, Arab MK Masoud Ghanayim, ha rivelato che il mese prossimo verrà votata una legge, elaborata da una commissione del parlamento israeliano, che prevede la spartizione della Moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme tra musulmani ed ebrei.
Secondo questo testo, come rivela il quotidiano palestinese Felesteencome, "gli ebrei potranno liberamente pregare nella moschea di Al-Aqsa in luoghi a loro dedicati". Musulmani ed ebrei avranno dunque parità di diritti nell'accesso e nell'utilizzo del sito sacro. E 'importante notare che sia la legge rabbinica che quella israeliana vietano attualmente agli ebrei di pregare ad Al-Aqsa a causa della "santità del sito per la religione ebraica".
La maggior parte degli ebrei che oggi si reca a pregare nella moschea sono "coloni con un programma di destra". La Città Vecchia di Gerusalemme, dove si trova di Al-Aqsa è internazionalmente riconosciuto come terra occupata. Le autorità di occupazione israeliane spesso impediscono ai musulmani di pregare in questo sito.
Secondo Ghanayim, il disegno di legge vieterà l'organizzazione di proteste e di manifestazioni intorno alla moschea e stabilirà le punizioni per eventuali violazioni. Per il deputato si tratta di "un'evidente aggressione dei diritti religiosi dei musulmani di tutto il mondo" che rientra in un piano di "giudaizzazione della città di Gerusalemme".
La legge, secondo il parlamentare arabo della Knesset, "si basa esclusivamente su una legittimità costruita su miti storici e religiosi sostenuti con il potere dell'occupazione e dell'oppressione."
"La Moschea di Al-Aqsa è parte del mondo islamico e arabo e non può essere spartita. Fa parte delle terre arabe e palestinesi, oggi occupate dai sionisti e l'occupazione non ha il diritto di imporre le sue leggi." Per Ghanayim il governo israeliano è dietro tutti i tentativi dei coloni estremisti di destra di estendere la sovranità israeliana su Al-Aqsa: "Il governo israeliano pagherà il prezzo di questa aggressione ai diritti degli arabi e dei Musulmani".
(Spondasud News, 22 ottobre 2014)
La città di Gerusalemme non ha bisogno di essere giudaizzata: è giudea. Va detto inoltre che lautrice sembra confondere, non si sa se per leggerezza o ignoranza, la moschea di Al-Aqsa con lintera area del Monte del Tempio, detta dai musulmani Spianata delle moschee. E certo che gli ebrei non anelano ad entrare in una moschea per adorare, ma vorrebbero poter pregare su quello che per loro è il luogo più sacro. M.C.
Ferrara - Una giornata di studio sul Ghetto di Varsavia
Nell'aula magna Unife si parla di manipolazione e di propaganda dei nazisti
Lunedì 3 novembre la città di Ferrara sarà sede di un'importante giornata di studio aperta a tutta la cittadinanza sul ghetto di Varsavia, frutto della collaborazione avviata già da alcuni anni tra l'Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna e il Mémorial de la Shoah di Parigi.
Una lectio magistralis di Georges Bensoussan, storico e responsabile editoriale del Mémorial de la Shoah di Parigi e la proiezione di "A Film Unfinished" della regista israeliana Yael Hersonski, rarissimo documentario con filmati di epoca nazista proprio sul ghetto, saranno i momenti cardine di questa iniziativa, realizzata grazie alla partecipazione del Meis-Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah, con cui di recente la prestigiosa istituzione francese ha siglato un accordo di cooperazione culturale, con l'Istituto di Storia contemporanea di Ferrara e con il Pitigliani Kolno' a Festival di Roma, e con il patrocinio di Comune, Provincia, Università degli Studi e Comunità Ebraica di Ferrara.
Il Ghetto di Varsavia fu il più grande degli oltre mille ghetti istituiti dai nazisti tra l'autunno 1939 e l'agosto 1944 nei territori occupati dell'est europeo (principalmente in Polonia, ma anche in Lituania, Lettonia, Ucraina) per rinchiudervi gli ebrei in attesa di "risolvere definitivamente la questione ebraica". Creato il 12 ottobre 1940 nella parte più povera della città e subito circondato da un alto muro di cinta per evitare ogni contatto con la parte "ariana" di Varsavia, il ghetto arriverà in pochi mesi a imprigionare più di 450.000 persone. Le condizioni di prigionia in cui gli ebrei furono costretti a vivere furono talmente spaventose da rendere, di fatto, il ghetto di Varsavia e tutti gli altri ghetti (pur con sensibili differenze) l'anticamera della morte, ovvero una tappa intermedia nella politica di sterminio messa in atto dal regime di Hitler. Il sovraffollamento, la denutrizione, le terribili condizioni igieniche provocarono la morte di centinaia di migliaia di persone, soprattutto bambini e anziani, al punto che almeno un terzo della popolazione del ghetto di Varsavia morì di fame e di stenti.
Il 22 luglio 1942, i tedeschi diedero il via alle cosiddette "Aktionen" (procedure di svuotamento progressivo del ghetto mediante deportazioni sistematiche), trasferendo gli ebrei, a gruppi di migliaia alla volta, verso il centro di sterminio di Treblinka dove trovarono una morte immediata nelle camere a gas. Due mesi più tardi, nel settembre 1942, nel ghetto rimanevano circa 50.000 persone, di cui almeno 20.000 in condizioni di clandestinità per scampare alle deportazioni. Dopo la rivolta eroica e disperata della primavera successiva (aprile-maggio 1943), il ghetto venne definitivamente liquidato, raso al suolo e le ultime migliaia di ebrei rimasti in vita furono deportati e uccisi a Treblinka. Solo un piccolo gruppo di persone riuscì a mettersi in salvo fuggendo clandestinamente attraverso le fogne.
Allo stesso modo, già dalla fine del 1941, tutti i ghetti istituiti dai nazisti vennero progressivamente svuotati e i loro abitanti uccisi nei camion a gas di Chelmno o nei tre centri di messa a morte per gli ebrei di Treblinka, Sobibor e Belzec.
La lectio magistralis di Georges Bensoussan, in programma alle 17 presso l'Aula Magna dell'Università degli Studi di Ferrara, Dipartimento di Economia e Management, offrirà elementi di comprensione sulla politica dei ghetti nazisti, analizzandola come una tappa significativa nel percorso di distruzione dell'ebraismo europeo. Inoltre, focalizzando l'attenzione su fonti primarie ancora troppo poco conosciute (archivi e testimonianze delle vittime rinchiuse nel ghetto, ma anche testimonianze della visione dei carnefici che fotografarono e filmarono gli effetti della loro azione di annientamento) si cercherà di stimolare una riflessione sulla conoscenza e sull'uso che oggi facciamo di tali fonti.
Alle 21 seguirà presso la Sala Boldini la proiezione gratuita di A Film Unfinished (Shtikat Haarchion, Il silenzio dell'archivio) di Yael Hersonski (Israele 2010, 89', v.o.sott.it.), preceduta da un'introduzione di Laura Fontana, responsabile per l'Italia del Mémorial de la Shoah e responsabile Attività di Educazione alla Memoria del Comune di Rimini.
Si tratta di un documento originale sulla propaganda nazista nel ghetto di Varsavia, scaturito dal ritrovamento nei sotterranei di un archivio nell'ex Germania orientale, cinquant'anni dopo la fine della guerra, di quattro bobine di un film girato dai nazisti proprio nel ghetto, nel maggio 1942. Appena tre mesi prima dell'inizio delle deportazioni verso il centro di sterminio di Treblinka, le immagini mostrano una sorprendente contraddizione tra la miseria e la sofferenza di molti e il benessere di pochi fortunati.
Solo in seguito furono scoperte altre bobine con le stesse scene ma riprese da altre prospettive. Ma soprattutto emerse un rozzo pre-montaggio che suggeriva l'idea di un vero e proprio film concepito alle spalle di questo footage, in sostanza di un copione che mostrava tutta la forza del messaggio manipolatorio della propaganda nazista che avrebbe voluto comunicare agli spettatori l'idea di una "bella vita" condotta dagli ebrei nel ghetto, smentendo la drammaticità dei racconti sulla persecuzione ebraica.
Il lavoro straordinario compiuto dalla Hersonski - nipote di una sopravvissuta del ghetto di Varsavia - deriva anche dal fatto che è riuscita a rintracciare alcuni sopravvissuti di quel luogo, i quali, ripercorrendo le immagini girate dai nazisti, raccontano cosa ricordano di quei tragici giorni e, soprattutto, svelano la finzione della pellicola. Dalle sue indagini fu possibile ricostruire una sorta di doppio film, da un lato, un "normale" documentario delle terribili condizioni di vita nel ghetto, dall'altra la finzione imposta dai nazisti che organizzarono una vera e propria messa in scena con le vittime trasformate in attori e protagoniste di finti pranzi, ricevimenti, musica e feste, a dimostrare che gli ebrei non se la passavano poi così male.
Se per molti anni il documentario è stato utilizzato come fonte primaria senza metterne in discussione l'autenticità assoluta, quanto possiamo fidarci delle immagini e ritenerle vere?
(estense.com, 22 ottobre 2014)
Iran - Tre cristiani evangelici condannati a sei anni di prigione
TEHERAN - Tre pastori evangelici (Behnam Irani, Matthias Haghnejad e il collaboratore Silas Rabani) che in precedenza avevano visto archiviato il rischio di subire la pena capitale, sono stati condannati a sei anni di prigione da una corte iraniana, da scontarsi presso le prigioni di Zabol ( dove è stato destinato Irani) e dell'Isola di Minab (dove dovrebbero essere inviati gli altri due). Tutti e tre i condannati hanno annunciato ricorso contro la sentenza. Irani aveva già subito una precedente condanna nel 2011 per "azione contro lo Stato" e "azione contro l'ordine". Andy Dipper, Direttore operativo dell'organizzazione Christian Solidarity Worldwide (CSW), ha espresso viva preoccupazione per le condanne comminate ai tre cristiani, e per il fatto che i condannati saranno costretti ad espiarle lontano dalle proprie famiglie e dalle proprie città. "Sollecitiamo il governo iraniano" si legge in un comunicato di CSW pervenuto all'Agenzia Fides, "a liberare senza indugio tutte le persone imprigionate per la loro fede. La loro incarcerazione contravviene le convenzioni internazionali che garantiscono libertà di religione e di credo, alle quali partecipa anche l'Iran".
(Agenzia Fides, 22 ottobre 2014)
Per l'ONU se i crimini li commette Hamas non sono "crimini di guerra"
Altro scandaloso espisodio anti-israeliano andato in onda ieri al Consiglio di Sicurezza dell'Onu dove si discuteva dei presunti "crimini di guerra" commessi da Israele a Gaza durate l'operazione Margine Protettivo. I crimini commessi da Hamas per l'Onu non sono crimini.
Come si definisce l'atto di sparare migliaia di missili in maniera deliberata contro abitazioni civili? Come si chiama usare deliberatamente i civili come scudi umani? Come si chiama usare deliberatamente scuole e ospedali per nascondere arsenali militari? Come si definisce il fatto di non indossare una divisa e di nascondersi deliberatamente tra i civili? Secondo il Diritto Internazionali tutte queste azioni si definiscono crimini di guerra....
(Right Reporters, 22 ottobre 2014)
Suor Maria Vittoria, salvò gli ebrei. Proclamata «Giusta fra le nazioni»
Consegnata l'onorificenza al nipote della religiosa che nel 1944 a Trastevere aiutò una famiglia a mettersi in salvo dai rastrellamenti nazisti.
di Giovanna Maria Fagnani
MAGENTA - «Suor Maria Vittoria disse a mio padre: "per qualsiasi cosa il nostro convento è aperto. Porti sua moglie e i suoi bambini". Mio padre ne fu sorpreso e disse che la situazione era tranquilla e che non avevamo bisogno di nulla. Non poteva minimamente immaginare che da lì a pochi mesi sarebbero cominciati i rastrellamenti da parte delle SS. E che sei persone della nostra famiglia sarebbero state assassinate, a Auschwitz. Noi invece ci siamo salvati, perché Suor Maria Vittoria ci nascose nel suo convento. Io avevo 4 anni quando vi entrai, insieme a mia madre, mia sorella, mia nonna, i miei due cugini ». Salvatore Terracina, ebreo romano, oggi 75enne, ricorda così il giorno che ha sancito la sua salvezza e quella di una parte della sua famiglia. A decidere di accogliere alcune famiglie ebree nel convento delle suore dell'Immacolata Concezione, in piazza Santa Rufina in Trastevere, fu l'allora superiora, Suor Maria Vittoria Morani, originaria di Magenta e scomparsa nel 1982. Martedì, la religiosa è stata proclamata «Giusta fra le nazioni» e il suo nome iscritto nello Yad Vashem, il memoriale dell'Olocausto.
- La consegna dell'onorificenza
La cerimonia è stata celebrata al municipio di Magenta. Rafi Erdreich, ministro consigliere degli affari pubblici e politici dell'Ambasciata d'Israele ha consegnato l'onorificenza nelle mani del nipote della religiosa, Giuseppe Morani, spiegando che «Chi salva un essere umano è come se salvasse il mondo intero. Sia benedetta la memoria di questi giusti». E a assistere alla cerimonia c'era anche Salvatore, che ha raccontato la sua esperienza. «Ero piccolo, ma ricordo tutte le suore del convento: suor Vittoria, suor Daniela, suor Zeffirina. Ci ospitavano in una grande stanza, ci facevano coraggio e più di una volta rinunciavano al loro magro pasto per darlo a noi bambini. Molte volte suor Zeffirina, la portinaia del convento, riuscì a sviare l'attenzione degli sgherri nazisti, per evitare che entrassero. Ci hanno salvato da una morte certa e atroce». Ad ascoltare la storia di Salvatore c'erano anche gli studenti della classe VD del liceo linguistico «Salvatore Quasimodo», che hanno letto un messaggio. A loro si è rivolto il sindaco di Magenta, Marco Invernizzi: «Nei momenti di crisi economica e di valore spesso si privilegiano le divisioni. Gesti come questi invece richiamano la dimensione umana, che va oltre le apparenti barriere e le divisioni. I Giusti hanno saputo aiutare persone che non erano necessariamente dalla loro parte. E' il vero patriottismo, una solidarietà non clamorosa ma fondamentale».
- I «Giusti» di Magenta
Oltre al nome di Suor Maria Vittoria, i nomi di sei altri magentini sono iscritti nello Yad Vashem. Una di loro, Dina Cerioli, 88 anni, l'unica ancora in vita, ha assistito alla cerimonia insieme a Dino Molho, 85 anni, l'uomo che lei stessa contribuì a salvare, nel 1944. Il padre di Dino era il titolare della fabbrica di Magenta dove lavoravano i genitori e atri famigliari di Dina. Gli operai della fabbrica costruirono un nascondiglio, dove la famiglia Molho visse per 13 mesi, fino alla Liberazione . Nel 2011, invece, anche monsignor Francesco Bertoglio è stato proclamato "Giusto fra le nazioni", per aver salvato la vita a 65 ebrei nel 1943, facendoli rifugiare nel Seminario Lombardo di Roma di cui era rettore.
(Corriere della Sera - Milano, 21 ottobre 2014)
Yad Vashem: ricordata la razzia di ebrei dell'ottobre 1943
GERUSALEMME - 'Il negazionismo non ha vinto e non vincera"'. Lo ha detto l'ambasciatore italiano in Israele Francesco Maria Talo' nella cerimonia che a Yad Vashem, il Sacrario della Memoria di Gerusalemme, ha ricordato oggi la deportazione e lo sterminio degli ebrei italiani. "Per noi italiani, per lo stato italiano, l'inizio del tunnel - ha sottolineato Talo' - e' stato il varo delle Leggi Razziali nel 1938, quando una componente importante dei cittadini e' stata divisa dal resto della popolazione. La razzia degli ebrei di Roma, il 16 ottobre del 1943 e' stato il momento culminante che ci ha fatto capire quanto fosse profondo quel tunnel".
'Ricordare quel giorno, significa fare di quella data una condivisione della Memoria - ha concluso - per gli altri 364 giorni dell'anno". Vito Anav presidente dell'organizzazione degli ebrei italiani in Israele ha messo in luce il rapporto "tra antisemitismo e antisionismo" come "due aspetti dello stesso obiettivo: colpire gli ebrei". Nel corso della manifestazione e' stato proiettato anche il film "Da Auschwitz, il ritorno a casa" - il viaggio della famiglia Piperno alla ricerca delle sue radici": storia di deportati romani del 16 ottobre. Prima degli interventi, una folla numerosa ha partecipato ad una cerimonia di ricordo nella Sala della Rimembranza di Yad Vashem dove arde la fiamma perenne in onore dei sei milioni di ebrei uccisi dai nazisti.
(informazione.it, 21 ottobre 2014)
I filosofi di Hitler di Yvonne Sherratt
di Francesco Roat
Da oltre settant'anni il mondo e la Germania fanno i conti col nazismo - constata Yvonne Sherratt nel suo provocatorio saggio I filosofi di Hitler (Bollati Boringhieri), notando che all'interno del Terzo Reich quasi nessuna categoria sociale - dagli operai agli imprenditori, dagli insegnanti ai giudici, dagli impiegati ai medici - finì col restare immune al morbo nazionalsocialista, contribuendo a tollerare o sostenere l'autoritarismo del dittatore. Però a tutt'oggi nessuno ha ancora analizzato il ruolo e la funzione svolta da un gruppo particolarmente schivo e tranquillo: i filosofi. Eppure la filosofia è un elemento chiave per comprendere la cultura tedesca della prima metà del Novecento. Ma chi sarebbero, almeno secondo l'autrice, questi filosofi del Führer?
Un primo gruppo preso in esame dalla Sherratt fa riferimento a quella folta serie di pensatori e docenti universitari che gravitarono intorno a Hitler prima, durante e dopo l'Olocausto. Un secondo gruppo minoritario era costituito dagli accademici ebrei e dagli intellettuali che si opposero o cercarono di opporsi alle direttive del regime. Infine il saggio si occupa anche del nutrito gruppo di ambiziosi collaboratori filo-hitleriani, i quali "fecero a gara per coprire con un velo di responsabilità le efferatezze dei nazisti". A questa vasta ed eterogenea compagine parteciparono filosofi illustri come Martin Heidegger o giuristi di prima fama come Carl Schmitt; ma pure efficienti gregari quali Alfred Bäumler ed Ernst Krieck.
La seconda parte del libro s'incentra sulla vita di quegli scrittori o studiosi che divennero ben presto vittime della croce uncinata o perché facenti parte della razza ebraica considerata inferiore e ostile a quella ariana o perché si opposero ideologicamente al nazismo. Quasi superfluo accennare al fatto che tali persone furono tutte perseguitate: finirono nei lager, furono giustiziate o costrette a fuggire in esilio. Si vedano le figure esemplari di Walter Benjamin, di Theodor Adorno e di Hannah Arendt.
Va ricordato altresì come, non a caso, lo stesso Hitler millantava di essere un leader filosofo, sostenendo l'importanza fondamentale del pensiero lucidamente e scientificamente razionale che, a suo dire, doveva esser posto alla base d'ogni organizzazione statale. Nel libro Mein Kampf, infatti, egli non scorda di celebrare a più riprese i padri fondatori della speculazione tedesca, quali Kant, Hegel, Schopenhauer e Nietzsche. Ovvio che le affermazioni di tali grandi autori venissero spesso distorte dal retore nazista, anche se purtroppo va preso atto che una certa dose più o meno accentuata di antisemitismo è davvero presente in tutti questi filosofi.
Per giustificare prima l'avversione e poi la criminalizzazione nei confronti degli ebrei, Hitler fece dunque riferimento a personaggi del sapere apprezzati e venerati dai tedeschi, appellandosi pure ai j'accuse antiebraici di Fichte, di Feuerbach e persino dell'amatissimo Wagner. Ma è impossibile per via di spazio enumerare tutti i docenti, i saggisti, gli uomini di scienza le cui opere e i cui proclami vennero utilizzati dal regime per plagiare la coscienza del popolo; tuttavia non posso fare a meno di citare alcune altre figure di spicco dello Zeitgeist: dello spirito del tempo allora dominante in Germania. Ad esempio Ernst Haeckel, zoologo e filosofo sociale, sostenitore della preminenza della razza ariana sulle altre e favorevole all'eugenetica e all'eutanasia. O lo storico Oswald Spengler, fautore del cosiddetto darwinismo sociale: dottrina per cui non solo il dominio della razza superiore era auspicabile, ma necessario in quanto esso costituiva una vera e propria legge di natura secondo la quale i più forti fatalmente dominano i più deboli.
La conclusione cui Yvonne Sherratt giunge è perciò inquietante. Alla fine della prima guerra mondiale l'antisemitismo avrebbe pervaso ogni ambito della realtà tedesca. "Uomini di logica o di passioni, idealisti o darwinisti sociali, volgari o sofisticati: tutti fornirono a Hitler le idee con cui rafforzare e mettere in atto il suo sogno", giacché "il passato della nazione brulicava di teorie riguardanti lo Stato forte, la guerra, il Superuomo, l'antisemitismo e, infine, il razzismo biologico".
E ben presto i frutti avvelenati di quest'ambiente culturale iniziarono ad apparire. In linea col decreto Badenese del 1933, per ripulire gli atenei dagli insegnanti semiti, persino Husserl - padre della fenomenologia - venne espulso dall'università di Friburgo. Non fu né il primo né l'ultimo: oltre 1600 studiosi in breve tempo vennero cacciati dai loro incarichi. Quindi fu la volta dei libri messi al rogo, essendo ritenuti deleteri per l'animo tedesco. Così, tra moltissimi altri, finirono bruciati Marx ed Einstein, Lessing e Mendelssohn, Freud e Husserl; persino Spinoza e Heine. Non vi fu alcuna protesta per questo delitto; o meglio una sola vibrò con veemenza: occorreva bruciare molte più opere corruttrici di quanto non si fosse fatto.
In tale rivoluzionario clima pedagogico la figura di maggior rilievo - che nel 1933 aderì al partito nazista per rimanervi iscritto sino al 1945 - fu Martin Heidegger, uno dei più noti filosofi del XX secolo, il quale, fin dalla nomina a rettore dell'università di Friburgo, esortò gli studenti a confidare in Hitler che, secondo le parole dell'autore di Essere e tempo, "Unico e solo il Führer è l'odierna e futura realtà tedesca e la sua legge".
Circa una decina d'anni dopo il falò purificatore dei libri contaminati dall'ebraismo e l'espulsione dei professori non ariani, Hitler e i suoi gerarchi pensarono bene di architettare un annichilimento di più vasta portata. Ai nazisti non era infatti bastato rinchiudere oppositori, omosessuali ed ebrei nei lager. Soprattutto per questi ultimi serviva una soluzione drastica e finale. Così ad Auschwitz e altrove iniziarono tristemente a fumare senza sosta i camini dei crematori. Ma questa è un'altra storia. Anche se rimane da chiedersi quanto di essa sia da porre in relazione coi filosofi conniventi col regime.
(Wuz - Il libro nella rete, 21 ottobre 2014)
Netanyahu fiuta la crisi: si va al voto?
GERUSALEMME - Al sesto anno continuato da primo ministro, e con alle spalle un'esperienza politica senza eguali in Israele, Benyamin Netanyahu (Likud) fiuta adesso nell'aria un'imminente crisi politica e si sta muovendo per affrontare nuove elezioni politiche già nel 2015, con due anni di anticipo sul previsto.
La sua coalizione di governo è eterogenea e litigiosa. Include alcune "colombe" e molti "falchi"; esponenti laici militanti ma anche nazional-religiosi vicini ai coloni
. Per le profonde rivalità ideologiche, su diverse questioni cardinali il governo si vede condannato all'immobilismo. Occorrerà dunque cercare una formula nuova.
Netanyahu - azzardano oggi alcuni commentatori - potrebbe scaricare presto o tardi i centristi laici Tzipi Livni e Yair Lapid per far spazio a due partiti ortodossi oggi all'opposizione. Uno sviluppo che non dispiace al leader laburista Yitzhak Herzog che sogna (malgrado oggi guidi in parlamento una sparuta lista di opposizione di appena 15 deputati su 120) di poter formare il prossimo governo, con l'aiuto delle forze centriste.
I venti di crisi avvertiti da Netanyahu non sono legati né al recente conflitto a Gaza con Hamas (che la settimana prossima sarà al Cairo per riprendere i negoziati sulla tregua) né alla frattura con l'amministrazione di Barack Obama, che allarma invece gli osservatori locali.
L'occasione immediata per il ripensamento in corso nell'ufficio del premier è stata fornita da una legge sulla conversione all'ebraismo di impostazione liberale, che trova resistenza nell'establishment rabbinico. Su quella legge la centrista Livni ha posto il proprio peso politico; ieri, a sorpresa, ha appreso da Netanyahu che le ritirava il sostegno. La settimana prossima la Livni darà egualmente battaglia alla Knesset (parlamento), con o senza il placet del primo ministro.
Altri scogli riguardano la legge finanziaria per il 2015, che Netanyahu spera di superare in qualche modo. Ma la coalizione gli si sta sfaldando fra le mani. Poi ci sono i sondaggi. Da un lato Netanyahu resta anche oggi il personaggio politico ritenuto più idoneo alla carica di premier; dietro di lui c'è il vuoto.
Ma il suo partito, Likud, perde colpi e non riesce per ora a garantirsi quel largo margine di vantaggio che consentirebbe di dar vita ad una coalizione più ristretta ed efficiente. Nei sondaggi altri cinque partiti (i laburisti, i centristi di Yesh Atid, gli ortodossi di Shas, e i nazionalisti di Israel Beitenu e Focolare ebraico) ricevono fra 13-18 seggi ciascuno. Nuove elezioni porterebbero forse ad una instabilità ancora maggiore.
In questo contesto si è appreso oggi che l'ex ministro della difesa Ehud Barak - che ha lasciato la politica attiva due anni fa - sembra adesso interessato a sfidare Netanyahu. Nelle settimane scorse si era sparsa voce che fosse bloccato in casa da una grave malattia. "Voci malevoli messe in giro dai miei rivali", ha replicato adesso l'interessato attraverso un collaboratore.
(Corriere del Ticino, 21 ottobre 2014)
Economia e religione: dialogo tra confessioni e culture
VALMADRERA (LC) - L'incontro si terrà il 28 ottobre alle ore 14.30 presso la sede del CIS (Centro Studi Impresa) a Valmadrera (via Privata della Rocca 20).
"Economia e religione: dialogo tra confessioni e culture", questo il titolo dell'incontro che si terrà il 28 ottobre alle ore 14.30 presso la sede del CIS (Centro Studi Impresa) a Valmadrera (via Privata della Rocca 20). Si propone di ascoltare le risposte dei Padri delle diverse Chiese presenti nel nostro Paese in un confronto aperto con le visioni delle grandi religioni sul tema dell'economia e stimolando una riflessione sull'idea di bene comune.
Interverranno:
Mons. Luca Bressan, Vicario per la cultura, la carità e la missione sociale
Rav. Giuseppe Laras, Presidente Tribunale Rabbinico del centro nord Italia e Rabbino capo emerito della Comunità ebraica di Milano
Paolo Branca, Docente di lingua araba e islamica Università cattolica S. Cuore Milano
Imane Barmaki, Ricercatrice di finanza islamica, blogger
Leonid Sevastianov, Dirett. Esecutivo della Fondazione S. Gregorio di Mosca
(ResegoneOnline, 21 ottobre 2014)
Come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri e non cercate la gloria che viene da Dio solo? (Giov: 5:44)
Monte del Tempio: una polveriera
Il Monte del Tempio si potrebbe definire una bomba a orologeria innescata. Basta una piccola scintilla per provocare un'ondata di violenza in tutta la regione. Al momento la situazione è tutt'altro che tranquilla.
Il Monte del Tempio è una zona sensibile sotto ogni aspetto. Ci vuole poco perché qui tutto venga sconvolto, come ben sappiamo dal passato. Incidenti che avvengono in questo luogo hanno sempre conseguenze di vasta portata. Così è stato nel 1929, quando alcuni ebrei si sono diretti verso il Muro del Pianto con la bandiera sionista: alla loro azione è seguito un massacro nel quartiere ebraico della città vecchia di Gerusalemme. Anche l'anno 2000 ne ha fornito un altro esempio, quando la visita di Ariel Sharon sul Monte del Tempio è stata la miccia che ha acceso la seconda intifada. La lista in realtà è molto più lunga e comprende vittime umane da entrambe le parti. Al momento sembra che ci sia di nuovo qualcosa che bolle in pentola. Un alto funzionario della polizia israeliana ha descritto la situazione nei seguenti termini: «Due parti, che perseguono interessi contrari, provocano in modo mirato e cercano lo scontro. Così purtroppo non si può fare a meno di riconoscere che sul Monte si sta preparando qualcosa di spìacevole.»
Il Monte del Tempio e gli avvenimenti legati a questo luogo sacro sono strettamente connessi con avvenimenti e sviluppi politici. Anche adesso è così. Le trattative, che per molto tempo sono rimaste bloccate e sembravano portare solo in un vicolo cieco, hanno attivato gli elementi radicali di entrambe le parti. Tanto ebrei quanto palestinesi tentano di usare la situazione a proprio vantaggio. Sul fronte palestinese ci sono da nominare soprattutto le attività di Hamas. Questa organizzazione islamica radicale ha riconosciuto il potenziale insito nel Monte del Tempio per il raggiungimento dei propri scopi. Mentre Hamas nella striscia di Gaza è impegnato a mantenere il cessate il fuoco con Israele, i seguaci di Hamas in Cisgiordania sono intensamente occupati a provocare più disordine possibile. Sperano di provocare così l'inizio della terza intifada, che danneggerebbe Israele in modo duraturo, come avvenne per l'intifada del 2000. Inoltre contano sul fatto che tali azioni indeboliscano il partito Fatah, col quale non sono in rapporti amichevoli, nonostante l'accordo di riconciliazione.
Anche sul fronte israeliano, però, si fanno sentire le attività degli elementi radicali. Mentre in passato solo pochi attivisti politici sognavano di una rinnovata presenza ebraica sul Monte e della costruzione di un terzo tempio, nel frattempo il loro numero è aumentato notevolmente. Oggi sono circa trenta le organizzazioni ebraiche che si occupano del Monte del Tempio. Esse sono affiancate da vari deputati della Knesset, fra cui persino due ministri dell'attuale governo Netanyahu. Tra l'altro organizzano giri guidati che stanno diventando sempre più popolari. Anche la dìscussione pubblica su tale argomento ha subito un cambiamento. In passato questi ambienti chiedevano un ripristino della sovranità ebraica sul Monte del Tempio. Oggi parlano del fatto che anche agli ebrei dovrebbe essere riconosciuto il diritto del libero esercizio della loro religione sul Monte. In altre parole: chiedono che le preghiere degli ebrei religiosi siano autorizzate anche su questa area, il che rappresenterebbe un cambiamento dello Status Quo fissato nel 1967, che riconosce tale diritto soltanto ai musulmani. Permettere agli ebrei di pregare sul Monte del Tempio provocherebbe indubbiamente la decisa opposizione dei musulmani.
Durante l'ultima festa di Pesach, ossia nel corso di aprile, ci sono stati quotidiani tentativi di praticare la preghiera ebraica sul Monte del Tempio. Ciò ha provocato degli scontri che hanno spinto la polizia israeliana a mandare 2000 agenti a calmare le acque.
La situazione però non si è davvero tranquillizzata e gli episodi di violenza hanno continuato a ripetersi. Nel frattempo la situazione si è talmente aggravata che il Monte del Tempio assume un ruolo centrale nella politica di sicurezza. Anche i servizi segreti israeliani si occupano della cosa, visto che eventuali attentati terroristici potrebbero sconvolgere tutta la regione, a prescindere da quali ne siano gli autori. Nonostante tutti gli sforzi, sembra essere soltanto una questione di tempo prima che da questo luogo sacro parta nuovamente un'ondata di violenza che investirà tutta la regione.
(Chiamata di Mezzanotte, ottobre 2014)
Gerusalemme Est, molotov contro un edificio di ebrei israeliani
GERUSALEMME - Alcuni palestinesi hanno lanciato bottiglie molotov e pietre stanotte contro un edificio che ebrei israeliani avevano appena occupato nel quartiere palestinese di Silwan. L'attacco non ha provocato feriti o danni, ha riferito la polizia. Ma l'episodio illustra le tensioni provocate dalle iniziative che secondo i palestinesi mirano alla giudaizzazione di Gerusalemme est. L'incidente riguardava uno degli edifici nei quali ebrei isrealiani hanno preso ieri sera possesso di dieci alloggi nuovi. Il 10 settembre nello stesso quartiere ebrei israeliani si erano gia' impadroniti di 25 appartamenti, alcuni dei quali con la forza. Il loro arrivo aveva provocato un'ondata di critiche da parte dei palestinesi e di una parte della comunita' internazionale. La comunita' internazionale non riconosce l'annessione di Gerusalemme est, dove i palestinesi vogliono stabilire la capitale dello Stato al quale aspirano. Israele considera invece Gerusalemme la sua capitale unificata e indivisibile. La questione e' ancora piu' delicata dato che Silwan, quartiere popolare a stragrande maggioranza palestinese, e' molto vicino alla Citta' vecchia e alla spianata delle Moschee, sacra sia agli ebrei sia ai musulmani. La spianata e alcuni quartieri di Gerusalemme est sono teatro da mesi di crescenti tensioni.
(Fonte: ASCA, 21 ottobre 2014)
Questa notizia, da noi modificata sostituendo ogni volta il termine sbagliato, ingiusto ed offensivo di "coloni", va presa per quello che è: una presentazione dei fatti pregiudicata a priori da una valutazione gravemente errata, anche se o proprio perché proveniente dalla "comunità internazionale", della questione di Gerusalemme. Sul piano biblico questo accanimento internazionale, quindi non solo islamico, sulla parte più significativa di Gerusalemme corrisponde al tentativo diabolico, cioè di Satana, di impedire che i suoi tempi giungano al termine: ..." e Gerusalemme sarà calpestata dai gentili, finché i tempi dei gentili siano compiuti" (Luca 21:24). Ma questo alla lunga non sarà possibile. M.C.
Gli ebrei antisionisti hanno trovato la loro terra promessa: Berlino
di Giulio Meotti
ROMA - Alcuni anni fa Benny Ziffer, responsabile delle pagine culturali di Haaretz, fece una proposta: per salvare lo spirito critico, tendenza antisionista, di Israele, bisognava che gli ebrei si trasferissero a Berlino. "Per salvare il popolo ebraico bisogna pensare seriamente a elaborare un piano di trasferimento di ebrei laici a Berlino, affinché vi costituiscano un polo alternativo a Israele", scrisse Ziffer. E' quello che sta accadendo adesso con la storia del budino. Naor Narkis, giovane israeliano che sviluppa smartphone, ha invitato i suoi concittadini a seguirlo a Berlino. Lo ha fatto con la pagina Facebook anonima dal titolo "Olim Le Berlin", immigrati a Berlino, scimmiottando lo slogan ebraico comunemente usato per invitare le persone a trasferirsi in Israele. Si tratta di una guida pratica per tutti gli ebrei che vogliono espatriare da Israele e andare a vivere a Berlino, compreso il dizionario su come districarsi fra termini e concetti impronunciabili come "Haftpflichtversicherung" e "Sozialversicherungsnummer".
Narkis vuole portare "200 mila ebrei israeliani" a Berlino. Il ministro delle Finanze, Yair Lapid, ha detto che "queste persone sono antisioniste", mentre il ministro Yair Shamir, figlio dell'ex primo ministro, ha scritto: "Mi fanno pena gli israeliani che non ricordano la Shoah e abbandonano Israele per un budino". Secondo il Canale Due, il trenta per cento tra gli israeliani è però tentato dall'idea di emigrare. Scrive Ben Caspit, firma del quotidiano Maariv: "Il costo della vita è scandaloso. E allora? E' una ragione sufficiente per scappare e piantare le radici nella terra che si è imbevuta del sangue degli ebrei? Avete deciso di rinunciare a un sogno diventato realtà per riempire il carrello della spesa. Un popolo che ritorna dove è stato macellato ha perso l'autorispetto". Nel 1996 l'appello al tradimento e alla fuga venne dalla rock star Aviv Gefì'en: "Dovete partire. Subito. Non sto scherzando. Non sono mai stato tanto serio: fate le valigie e lasciate immediatamente Israele".
Un invito alla diserzione che in ebraico si chiama "yerida", la discesa, ovvero il contrario della salita, l'aliyah. Uno studio della Bar llan University rivela che 100 mila israeliani hanno ricevuto il passaporto tedesco. In caso decidano di partire. "E' il più grande gruppo di tedeschi all'estero", dice Emmanuel Nahshon, vicecapo della missione diplomatica israeliana a Berlino. Più della metà vive all'est, in quello che negli anni Venti era una leggenda: lo Scheunenviertel abitato soprattutto da emigrati orientali, da un sottoproletariato poi decimato dalla povertà e dal nazismo. Rifiorisce sull'Oranienburgerstrasse la sinagoga dove si ricorda ancora l'ultimo concerto, il 29 gennaio del 1930, quando fra i suonatori, nel magnifico tempio illuminato da luce fioca, c'era anche Albert Einstein, che assieme a un medico suo amico esegui musiche di Händel e di Bach. L'editorialista israeliano Pinchas Landau ha scritto un articolo dal titolo: "La sindrome dell'esodo". Ci sta pensando anche il professor Manuel Trajtenberg, l'economista a cui il governo israeliano ha commissionato lo studio sul costo della vita: "Berlino è più attraente di Tel Aviv", ha detto l'accademico. "Nel corso della storia non si era mai visto un gruppo così numeroso di ebrei che abbia scelto di sradicarsi da casa". scrive Landau. Yitzhak Rabin ebbe a definire gli israeliani che emigrano "una massa di buoni a nulla". Era il 1981 e lo choc fu enorme: "L'emigrazione ha decimato le Forze armate israeliane", si leggeva sulla stampa israeliana. In quattro anni erano state perse sei divisioni. Quell'anno emigrarono da Israele in 30 mila. Molti erano soldati della riserva.
Oggi l'emigrazione non è un fenomeno di massa, ma di qualità, e di propaganda antisraeliana. La storia di Berlino arriva nell'anno del numero più basso di sempre d'immigrati che raggiungono Israele. Nel 1990, al culmine della aliyah degli ebrei dai paesi della Cortina di ferro, 199.516 arrivarono in Israele, 43 nuovi immigrati ogni mille abitanti. Quest'anno sono stati 16.884, ovvero 2,1 abitanti ogni mille. Nel 2011 sono arrivati soltanto 16.893 immigrati, mentre 16.200 lasciavano lo stato ebraico per un anno o più. Intanto ogni anno la Germania da sola rilascia settemila passaporti a Israele. Duro Aluf Benn, direttore di Haaretz, rifugio della bohème pacifista israeliana: "La gente si trasferisce dove Hitler ha messo a punto la Soluzione finale e lo fa felicemente?". Il tredici per cento della popolazione totale, fra 800 mila e il milione di israeliani, già oggi vive all'estero: il sessanta per cento in nord America, un quarto in Europa e il resto distribuito in altre regioni. Sul budino di Berlino arriva anche il commento al vetriolo di Yisrael Ha-Yom, il primo quotidiano ebraico: "Ci vediamo nelle camere a gas". Il prossimo anno nella capitale tedesca potrebbe arrivare anche un sindaco di origine palestinese, Raed Saleh. Cosa c'è di meglio per suggellare l'alternativa all'assurdo progetto sionista?
(Il Foglio, 21 ottobre 2014)
Israele: ritrovata un'iscrizione dedicata all'imperatore Adriano
GERUSALEMME - Gli archeologi israeliani hanno rivelato il ritrovamento di un frammento di pietra con un'iscrizione di 2.000 anni fa in latino dedicata all'imperatore Adriano. Si tratta, secondo gli esperti, di uno dei ritrovamenti piu' importanti dell'eta' dell'Impero romano nella capitale israeliana. Il frammento e' stato localizzato in uno degli scavi che l'Autorita' di antichita' di Israele sta portando avanti nell'ultimo anno, a nord della Porta di Damasco e fu impiegato come parte di una struttura il cui uso era diverso dall'originale. "Abbiamo trovato l'iscrizione vicino all'entrata di una profonda cisterna", hanno segnalato in un comunicato i direttori degli scavi Riva Avner e Roie Greenwald.
Nell'antichita', come oggi, era una cosa normale riciclare materiali da edifici antichi per ridargli nuova vita, cosi', in modo che la pietra che conteneva l'iscrizione si adattasse alla copertura della cisterna, e' stata tagliata parte della stessa.
La grandezza e la chiarezza delle lettere incise indicano l'importanza storica del ritrovamento.
Le iscrizioni consistono in sei righe in latino incise in pietra calcarea dedicate ad Adriano dalla Decima Legione Fretense nell'anno 129/130 d.C., come spiega uno dei traduttori, Avner Ecker.
L'analisi posteriore ha rivelato che il frammento e' solo la parte destra di una iscrizione di maggiori dimensioni, il cui frammento sinistro fu scoperto nel XIX secolo dall'archeologo francese Charles Clermont-Ganneau ed e' oggi esposto al museo Biblico Francescano di Gerusalemme.
(AGI, 21 ottobre 2014)
«All'improvviso, la guerra. Ma Israele mi ha dato tanto»
Paola Laurino, ricercatrice, ha vissuto per tre anni a Rehovot: «Era bello». Il 30giugno l'inizio del dramma: «Sentivo le sirene e le parole di mia nonna».
di Chiara Frangi
Quella di Paola Laurino a Varese è solo una piccola pausa italiana, in una vita da ricercatrice che ha già deciso di vivere il proprio futuro lontano da casa. E che, guidata dalla sua carriera, ha anche sfiorato l'orrore della guerra.
«Mi sono laureata in Chimica Farmaceutica a Milano, e ho deciso subito di partire: un anno a Leiden, in Olanda, per un'esperienza post laurea tramite un programma europeo, poi ho deciso di intraprendere un dottorato in chimica organica».
Paola finisce a Zurigo, quindi segue il suo professore, chiamato a Berlino per la direzione di un importante istituto.
Conclusa dopo qualche anno anche quest'esperienza Paola decide di intraprendere un post doc, la fase successiva del percorso accademico, dedicandosi alle biotecnologie, in particolare all'ingegneria delle proteine. E l'università che più l'attira è quella di Weizmann Institute , con il professor Dan Tawfik.
Arriva in Israele nel novembre 2011, e da subito si sente a proprio agio. «In Israele, come in molti altri paesi al mondo, fare ricerca è molto meglio che in Italia. Non è solo una questione di stipendio più alto, ma di condizioni in cui è possibile fare ricerca: mezzi migliori, più fondi per portare avanti i progetti, più libertà d'azione. Insomma, l'ambiente ideale».
I primi tre anni a Rehovot, poco distante da Tel Aviv, passano tranquilli: Paola porta avanti il proprio lavoro accanto a colleghi che vengono da tutto il mondo, i risultati del suo impegno arrivano, la ricerca procede bene.
Ma il 30 giugno vengono ritrovati i corpi dei tre studenti di una scuola rabbinica rapiti il 18 giugno.
Pochi giorni dopo viene rapito e ucciso un ragazzo palestinese, quindi Israele chiude il distretto di Hebron e il valico di Harez in Cisgiordania, arrestando duecento palestinesi presunti affiliati ad Hamas. In pochi giorni, la tensione fa esplodere una nuova fase della guerra tra Israele e Palestina.
«Per noi la guerra è scoppiata quasi all'improvviso. Anche i colleghi israeliani, pur essendo quasi abituati, sono stati colti di sorpresa». Presto diventa impossibile lavorare: Tel Aviv è una delle città israeliane più vicine alla Striscia di Gaza, da cui iniziano a partire i razzi in risposta agli attacchi dell'esercito israeliano.
«I razzi non sono caduti in città, grazie all'imponente sistema di difesa israeliano. Ma le sirene continuavano a suonare, le corse verso i rifugi sono diventate continue. Per me, italiana, sembrava di essere stata catapultata nei racconti dei miei nonni sulla Seconda Guerra Mondiale».
I colleghi israeliani, racconta, «sembravano più abituati. Saranno i tre anni di servizio militare che tutti, uomini e donne, devono affrontare dopo le scuole superiori, o sarà che non è la prima volta che la loro città subisce attacchi di questo genere, fatto sta che reagivano meglio di noi stranieri alla situazione drammatica».
La decisione di Paola è sofferta ma inevitabile: ad agosto torna in Italia. «All'Insubria sono stata accolta nel laboratorio di Loredano Pollegioni, membro del Senato Accademico e del Presidio di Qualità dell'Università dell'Insubria, che da anni si occupa di argomenti simili a quelli della mia ricerca. Da qui continuo a collaborare con il professor Tawfik in Israele».
Nel suo futuro, però, l'Italia non c'è: «Per ora sto cercando in Germania».
Restare in Italia, a casa, è il sogno di tutti i "cervelli in fuga", ammette Paola, ma «per riuscirci dovrei trovare un'offerta competitiva. Non solo in termini di stipendio, ma soprattutto di posizione, di libertà d'azione. E di disponibilità di fondi e strumentazioni».
(La Provincia di Varese, 21 ottobre 2014)
Interessarsi di politica e non interessarsi di Israele
per un credente in Gesù è una contraddizione.
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La task force di ex sovietici al servizio di Israele. L'esercito toglie il segreto sull'unità "Yiftach"
Durante l'operazione a Gaza hanno affiancato le truppe offrendo soluzioni a problemi operativi nell'arco di 12 ore: fondata nel 1957, l'unità speciale è all'origine della creazione di alcune invenzioni tecnologiche che hanno segnato la storia di Tsahal.
di Maurizio Molinari
GERUSALEMME - L'esercito israeliano toglie il segreto sul ruolo dell'unità composta da 30 ingegneri militari, in gran parte di origine russa, che durante l'operazione a Gaza hanno affiancato le truppe offrendo soluzioni a problemi operativi nell'arco di 12 ore. Si tratta di "Yiftach", fondata nel 1957 e all'origine della creazione di alcune delle invenzioni tecnologiche che hanno segnato l'esercito israeliano - come i pontoni che Ariel Sharon adoperò nel 1973 per attraversare il Canale di Suez, rovesciando le sorti della Guerra del Kippur - ma divenuta negli ultimi anni un autentico "start up" militare grazie alla possibilità di dialogare in maniera digitale, e dunque in tempo reale, con le unità impegnate in combattimento.
Il recente conflitto nella Striscia, durato 51 giorni, ha così visto le truppe speciali - Golani, Givati, paracadutisti e le "Sayeret" di ogni corpo - recapitare a "Yiftach" necessità molto specifiche che hanno generato soluzioni creative. A cominciare dalla "cornice esplosiva", di dimensioni variabili, che consente ad un soldato di creare una finestra di passaggio nel muro di una casa minata. Sempre per superare zone urbane disseminate di trappole esplosive è stato ideato il "passaggio dorato", una catena di micro-detonatori che può essere lanciata da un fucile qualsiasi, per dar brillare ogni "IED" nascosta in percorsi angusti, come i vicoli. Il maggior vanto di "Yiftach" è aver identificato quella che fonti militari definiscono la "soluzione contro i tunnel offensivi di Hamas" ovvero il metodo per neutralizzare chi li usa per combattere. Ma su quest'ultima trovata hi-tech resta il più rigido top secret. L'unità "Yiftah" è conosciuta dai militari come il "mini-start up di Tzhaal" ed a guidarla è un ufficiale di nome Evgheny che, assieme a molti suoi commilitoni, viene dall'ex Urss.
(La Stampa, 21 ottobre 2014)
Museo della Shoah, ecco come cambierà Villa Torlonia
L'immagine del progetto di Luca Zevi racconta come la struttura sarà inserita nell'area adiacente alla residenza di Mussolini. Apertura delle buste il 29 ottobre.
di Alessandro Capponi
Il Museo della Shoah così non si era mai visto. L'immagine inedita, pubblicata dal mensile Pagine ebraiche, svela come il Museo sarà inserito nell'area adiacente alla residenza di Mussolini. E racconta quale sarà l'impatto anche nel contesto circostante. Con l'apertura delle buste per la gara «il 29 ottobre», come rivela l'assessore Paolo Masini, la fotografia mai pubblicata fino a oggi illustra, così, il futuro prossimo di Villa Torlonia.
«Roma avrà il suo Museo della Shoah e la struttura, fondamentale per l'intera società italiana, troverà sede nell'area di Villa Torlonia»: è l'incipit dell'articolo di Adam Smulevich su Pagine ebraiche , che mostra dunque anche il futuro prossimo dell'area, grazie all'immagine qui sotto. Le novità riguardano anche gli interni, visto che il sindaco Ignazio Marino ha reso noto che per il museo di Roma «sono di ispirazione i padiglioni del museo di Auschwitz. Ad esempio le ombre sui muri, il racconto attraverso le vite delle famiglie, il suono del treno in movimento che ricorda la deportazione».
Il progettista, Luca Zevi, nell'articolo torna sulle polemiche: descrive «la sottovalutazione del ruolo che è chiamato a svolgere lo spazio architettonico che ospiterà il Museo nel processo di elaborazione della storia e della Memoria della Shoah. Una sottovalutazione che ha fatto pronunciare frasi come "l'importante è il contenuto, l'edificio è indifferente", quando trent'anni di elaborazione progettuale proprio in questo campo - da Washington a Berlino a Gerusalemme - hanno dimostrato in maniera inoppugnabile la complementarietà inevitabile fra messaggio espositivo e organismo architettonico».
(Corriere della Sera - Roma, 21 ottobre 2014)
Netanyahu forse favorevole a nuove elezioni
Si moltiplicano in Israele le indiscrezioni - riportate dai media - sul fatto che il premier Benyamin Netanyahu intenda andare entro maggio a nuove elezioni per cambiare la maggioranza del suo governo, inserendo i partiti religiosi. Secondo la Radio Militare, il premier avrebbe anche convocato per domani i leader dell'attuale maggioranza. La scintilla della possibile crisi, oltre il bilancio statale, la decisione del premier di non appoggiare una legge dei partiti di centro che facilita le conversioni, avversata dai rabbini.
La proposta di legge e' stata presentata dal ministro della Giustizia e leader di centro Tizpi Livni: se venisse approvata, abolirebbe in pratica il monopolio del rabbinato centrale ortodosso sulla validità delle conversioni. In un quadro politico in movimento, segnato anche dai contrasti sulla legge di bilancio da approvare entro dicembre, secondo una fonte politica del Likud (lo stesso partito di Netanyahu) citata da Ynet, "ci sono tutti i segni che il premier si stia preparando alle elezioni". A giudizio della stessa fonte Netanyahu avrebbe deciso di avviare da subito le primarie del partito, nonostante l'opposizione dei suo stessi compagni di schieramento. Dopo la probabile investitura - per la quale non sembrano esserci rivali - Netanyahu andrebbe cosi' al voto per il cambio di maggioranza.
Non piu' i partiti centristi di Livni e Yair Lapid, bensi' quelli religiosi ortodossi. Resterebbero invece "Focolare ebraico" formazione di destra religiosa, vicina ai coloni, guidata da Naftali Bennett e Avigdor Lieberman alla guida dei nazionalisti di destra.
(ANSAmed, 21 ottobre 2014)
L'amara festa degli ebrei curdi che vivono in Israele
L'annuale celebrazione della Saharana è stata segnata dalle inquietanti notizie che giungono da Siria e Iraq
Un corpo di ballo composto da ebrei curdi siriani alle celebrazioni della Saharana 2014. A destra, Sima Levy
Come ogni anno, gli ebrei curdi che vivono in Israele si sono riuniti in occasione della festività di Sukkot per celebrare la loro festa della Saharana. L'antica comunità si è riunita per cantare, ballare, pasteggiare e condividere le storie dell'antico paese nella loro tradizionale lingua aramaica. Ma quest'anno, tra la musica e i balli nella città settentrionale di Yokne'am, incombeva sulle conversazioni un forte senso di preoccupazione. Nei discorsi ufficiali e nelle chiacchiere private attorno alle fumanti scodelle di zuppa di kubbeh, i curdi israeliani hanno dato voce al senso rabbia e frustrazione per la situazione dei loro fratelli curdi che combattono contro lo "Stato Islamico" (ISIS) in Siria e in Iraq....
(israele.net, 21 ottobre 2014)
Gerusalemme, silenzio, parlano i muri
Dai Maccabei a Erode, dai Crociati agli Ottomani ai Templari nazisti: un viaggio insolito alla scoperta dei luoghi più inaccessibili della città.
di Elena Loewenthal
La salita è incerta. Bisogna andare piano, guardare bene dove si mettono i piedi per non rotolare giù nell'intrico di canne ed elastici. Ma una volta in cima, il panorama ripaga dello sforzo e dissipa i dubbi: Gerusalemme si dispiega sotto lo sguardo con le sue macchie di verde, la selva di gru della città moderna in continua costruzione, l'ombra dei monti di Moab in una lontananza irreale e bluastra, oltre il Mar Morto.
E soprattutto la pietra onnipresente fra cielo e terra: chiara, quasi bianca, qua e là striata di ocra. La pietra di cui sono fatti i suoi innumerevoli muri, alcuni celebri, altri discussi, la più parte inosservati in questa città che è il simbolo stesso dell'eternità. Ma che dall'alto del Big Bambù, installazione creata al Museo d'Israele da Doug e Mike Starn, assume un volto nuovo. Questa enorme, fragile e provvisoria struttura che è non tanto un'opera d'arte quanto una sfida al tempo fermo di Gerusalemme, alla sua natura di pietra, è l'ideale punto di partenza per un viaggio diverso dal solito nella città, complice l'iniziativa «Open Houses » che ha consentito di visitare centinaia di edifici pubblici ma soprattutto case private di particolare significato - e suggestione.
Sono i muri, in fondo, a raccontare questa città. Come quello della Kishle, straordinario esempio di tempo adagiato a strati su questa terra. Accanto all'edificio, c'è la stazione di polizia della Città Vecchia. Qualche volante parcheggiata, un silenzioso cortile interno. Sul tetto piatto si affaccia il cancello arrugginito della vecchia prigione ottomana, con il perimetro delle celle quasi intatto. Su un muro, accanto a un angusto spioncino, sono ancora riconoscibili una scritta in ebraico e una mappa della terra d'Israele: opera di un prigioniero ebreo, militante sionista, che Amit Reem, responsabile degli scavi archeologici, è riuscito a identificare. La sua squadra ha sventrato l'edificio, portando alla luce una strabiliante stratificazione: sotto la prigione i resti crociati, quelli del palazzo di Erode il grande, e sotto ancora dell'epoca dei Maccabei. Ma ancora più in basso ecco le tracce del regno di Ezechia (VIII-VII secolo a. C.).
Come ere geologiche sulla pietra, questa successione di epoche a vista sarà visitabile in un prossimo futuro, entro il percorso del museo «Torre di Davide» - anche se il re biblico qui non c'entra. Ma a Gerusalemme è sempre un po' così: muri, nomi, tempi sembrano fatti apposta per confondere la memoria.
Come quando si va a trovare Rachel Netanel nella sua casa di Ein Kerem: un verde sobborgo della città alla cui fonte i Vangeli narrano l'incontro fra Maria ed Elisabetta. La casa si affaccia su un vecchio cimitero islamico, e buona parte dei suoi muri ha ottocento anni. Il salotto è pieno di luci, ombre e simboli ebraici. Bisogna solo fare attenzione a non battere la testa contro lo spunzone di ferro che un tempo serviva per tenerci legato l'asino. Rachel è un fiume in piena quando ti racconta di come ha voluto questa casa, contro tutto e tutti. Vicini ebrei e musulmani, archeologi e autorità. Nel giardino c'è sempre un gran viavai di gente, racconta con slancio. Si definisce «ebrea messianica», nel senso che da ebrea crede in Gesù messia, e propone a tutti il suo sincretismo entusiasta e in vago odore di New Age, mitigato dalla saggia accoglienza delle mura quasi millenarie.
Decisamente più recenti sono quelle della «Casa Hansen», che è un modo gentile per dire «lebbrosario», usando il nome dello scienziato che studiò la cura per questa sindrome. Solo quattro anni fa l'ultimo
malato ha siglato la totale riconversione della casa in sede distaccata della Bezalel School, l'accademia di
arti di Gerusalemme. La lebbra è ormai memoria del piccolo museo, ma le mura circostanti incutono
ancora un certo timore nella gente del quartiere, che si teneva alla larga per evitare un improbabile contagio.
Ci sono muri e muri, a Gerusalemme. Anche se la pietra è sempre la stessa. Varcato quello della soglia di casa Efklides, non lontano dalla via chiamata «Emek Refaim» («valle degli spettri»...) ci si ritrova catapultati in un altro mondo. Il custode della residenza parla perfettamente ebraico e greco, ed è membro della piccola comunità di greci legati al patriarcato ortodosso. Cimeli dell'epoca ottomana, paesaggi di mare, patenti in ebraico, ninnoli in perfetto stile mediterraneo costellano i muri e raccontano la storia di una delle tantissime presenze di questa città cosmopolita ante litteram. Così come il vicino cimitero dei Templari, con il basso muro di cinta e le lapidi in gotico. I Templari dell'era moderna erano protestanti tedeschi convinti che fosse imminente il ritorno del Messia e partiti per la Terra Promessa ad aspettarlo e allestire i «templi» per la sua accoglienza nei luoghi dove era già passato. Il cimitero è suggestivo per il suo essere così fuori luogo in questa città. Qualche decennio dopo il loro arrivo, i pacifici e operosi templari fondarono a Tel
Aviv la prima sezione del partito nazista fuori della Germania
e furono cacciati dagli inglesi che all'epoca governavano la Palestina.
Ma quando si dice muri di Gerusalemme non si può non dire Città Vecchia, rinchiusa entro l'imponente cinta voluta dal Saladino. Qui, nel quadrante ebraico che insieme a quello arabo, cristiano e armeno popola lo spazio millenario, Miriam Siebenberg apre le porte di casa sua e per prima cosa ti porta in cantina. Dove, invece dei vini a invecchiare, lei tiene un museo archeologico con muri vecchi quasi tre millenni, venuti alla luce con il cantiere di casa, negli Anni Settanta. Sopra i resti dell'epoca del primo Tempio di Gerusalemme l'architetto ha giocato con la luce, di cui questa città è particolarmente generosa. Le bianche pareti movimentate e una sequenza di scale portano al tetto terrazza dal quale sembra di poter toccare la cupola d'oro, sulla spianata. Poco più in là, il monte degli Ulivi con la sua macchia verde e senza soluzione di continuità la distesa di tombe del cimitero ebraico. Pietra su pietra, Gerusalemme parla con la luce, con i muri, con le voci di chi la abita, un po' per devozione e un po' per un genere tutto speciale di follia che non è propriamente una sindrome ma un effetto collaterale di questa sua bellezza che toglie il fiato e allarga il cuore.
(La Stampa, 20 ottobre 2014)
Hamas: stiamo ricostruendo i tunnel distrutti da Israele
Il leader delle Brigate Ezzedin al-Qassam, braccio armato di Hamas, ha annunciato che il movimento palestinese sta ricostruendo la rete di tunnel distrutta da Israele durante l'offensiva di questa estate sulla Striscia di Gaza. Il responsabile della squadra degli scavi, Abu-Khaled, ha dichiarato al giornale di Gaza al-Resalah che i lavori per riparare i tunnel sono iniziati ''durante uno dei cessate il fuoco umanitari raggiunti durante la guerra'' della scorsa estate.
(Adnkronos, 20 ottobre 2014)
Quell'assurdo paragone tra ebrei e nazisti
di Valerio Morabito
- Se un concetto del genere arriva anche a Gerusalemme
Forse fa male soltanto parlarne. È doloroso per chi è cresciuto leggendo i libri di Primo Levi, il diario di Anna Frank e "La notte" di Elie Wiesel. È un colpo al cuore per chi ha visitato i campi di sterminio nazisti disseminati per l'Europa. È una ferita che si riapre per chi ha visto la propria famiglia decimata dalla barbarie e dall'antisemitismo nazifascista. Eppure bisogna affrontare la questione, senza troppi giri di parole. Occorre farlo, perché è emersa in tutta la sua tragicità nella giornata di ieri anche in vari punti della Spianata delle Moschee a Gerusalemme. Si tratta di graffiti di alcune svastiche paragonate alla Stella di Davide. Le immagini sono state riportate dal quotidiano israeliano "Jerusalem Post" e lo Stato d'Israele, tramite il Primo ministro Benjamin Netanyahu, non ha esitato a definire il gesto opera degli «estremisti palestinesi che incitano alla violenza». Una provocazione insopportabile per il popolo ebraico e per questo tirata in ballo dai suoi accusatori.
- In Italia siamo abituati a un simile accostamento
Adesso succede anche a Gerusalemme, dopo la lunga serie di incidenti e scontri lungo la Spianata delle Moschee. Un parallelismo, in verità, a cui siamo abituati in Italia. Nei momenti di tensione dell'ultimo conflitto di Gaza, per esempio, nelle piazze italiane sono comparsi striscioni che mettevano in luce un simile accostamento. Lo stesso vale per la politica. L'estrema destra si guarda bene dal paragonare gli odiati ebrei ai loro idoli nazisti, ma nell'estrema sinistra la relazione tra Stato d'Israele e nazisti è all'ordine del giorno. Alcuni blogger di dichiarata fede "progressista", che oscillano tra Vendola e Ingroia, quando si festeggia l'annuale Giorno della Memoria, non si tirano indietro nel paragonare quello che gli ebrei «stanno facendo» ai palestinesi a ciò che il popolo di Davide ha subito nella seconda guerra mondiale. Uno schiaffo doloroso per un ebreo, un voler riaprire, con una certa cattiveria, vecchie ferite del passato. Inoltre si pronunciano simili parole senza possedere alcun documento giornalistico e storico attendibile.
- Un paragone che conviene a qualcuno
Per filtrare le notizie di un eventuale "massacro" si utilizzano i comunicati di militanti dell'estrema sinistra (e non quelli di commentatori dei più grandi giornali nazionali) che si trovano in Medio Oriente e dicono di difendere il popolo palestinese. In realtà, però, non fanno altro che strumentalizzare i problemi di quel popolo per proprio tornaconto personale. La speranza, volesse il cielo, è quella di tornare in patria come eroi e ottenere qualche poltrona politica. Un atteggiamento che in primis fa male ai palestinesi, che dovrebbero liberarsi dall'odio contro Israele e dialogare con i vicini per realizzare l'obiettivo di due popoli in due stati. Serve a poco, invece, l'odio diffuso dai militanti che giungono a Gaza. Non avvicina certo l'idea di pace, che molte di queste figure hanno la presunzione di rappresentare. Tornando alla Stella di David e alla svastica nazista, si potrebbe affermare che anche da un punto di vista simbolico sono due disegni inconciliabili. Il primo rappresenta il popolo più perseguitato della storia e il secondo, nel Novecento, ha mostrato al mondo la brutalità e l'orrore razionale del regime nazionalsocialista. Serve rispetto per costruire qualcosa di positivo in futuro. Porre sullo stesso piano ebrei e nazisti è un'inutile provocazione, un vessillo post-ideologico che punta a ridimensionare il campo della diplomazia e distruggere qualsiasi tentativo di confronto fra le due parti. Chi ha interesse a mantenere tutto così com'è?
(Blogtaormina, 20 ottobre 2014)
Oltremare - Ritorno a Berlino
Della stessa serie:
Primo: non paragonare
Secondo: resettare il calendario
Terzo: porzioni da dopoguerra
Quarto: l'ombra del semaforo
Quinto: l'upupa è tridimensionale
Sesto: da quattro a due stagioni
Settimo: nessuna Babele che tenga
Ottavo: Tzàbar si diventa
Nono: tutti in prima linea
Decimo: un castello sulla sabbia
Sei quel che mangi
Avventure templari
Il tempo a Tel Aviv
Il centro del mondo
Kaveret, significa alveare ma è una band
Shabbat & The City
Tempo di Festival
Rosh haShanah e i venti di guerra
Tashlich
Yom Kippur su due o più ruote
Benedetto autunno
Politiche del guardaroba
Suoni italiani
Autunno
Niente applausi per Bethlehem
La terra trema
Cartina in mano
Ode al navigatore
La bolla
Il verde
Il rosa
Il bianco
Il blu
Il rosso
L'arancione
Il nero
L'azzurro
Il giallo
Il grigio
Reality
Ivn Gviròl
Sheinkin
HaPalmach
Herbert Samuel
Derech Bethlechem
L'Herzelone
Tel Aviv prima di Tel Aviv
Tel Hai
Rehov Ben Yehuda
Da Pertini a Ben Gurion
Kikar Rabin
Sde Dov
Rehov HaArbaa
Hatikva
Mikveh Israel
London Ministor
Misto israeliano
Fuoco
I cancelli della speranza
Finali Mondiali
Paradiso in guerra
Fronte unico
64 ragazzi
In piazza e fuori
Dopoguerra
Scuola in guerra
Nuovo mese
Dafka adesso
Auguri dall'alto
Di corsa verso il 5775
Volo verso casa
La guerra del Kippur
Inverno, autunno
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di Daniela Fubini, Tel Aviv
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La rivoluzione del Milky, la chiamano. Tutto è diventato la rivoluzione di qualcosa, dalla lontana estate del 2011, quando Boulevard Rothschild si è riempito di tende canadesi e giovani famiglie o single hanno passato l'estate in strada, per protestare contro il rincaro dei consumi nella Israele ormai post-post-kibbutzistica. All'epoca, si era chiamata inizialmente la rivoluzione del 'cottage', il formaggio fresco a fiocchi che in Israele è fondamentale alla nutrizione quotidiana almeno quanto il cappuccino per gli Italiani.
Risultato: manifestazioni con centinaia di migliaia persone ogni sabato sera, e i prezzi del 'cottage' calmierati, in effetti. Adesso tocca al Milky, un budino al cioccolato con sopra la panna, venduto nei supermercati israeliani in confezioni da due o da quattro, il prezzo del quale pare essere il doppio di un prodotto consimile a Berlino. E apriti cielo. La rivoluzione del Milky tiene banco ormai da settimane. Tutti a discutere come e perché a Berlino, meta prescelta da migliaia di giovani e famiglie israeliane alla ricerca di un tenore di vita più accettabile, sia tanto meno cara e più adatta alla costruzione di una vita e di un futuro per le belle famigliole Zabar che si fanno riprendere nelle loro casette tedesche con giardino, che in Israele non si sarebbero mai potute permettere. Ci ho messo un po', ma ho identificato l'origine dell'orticaria che mi prende ogni volta che sento l'argomento Milky. Oltre al fatto che tutti possiamo vivere senza snack fatti per il 90% di surrogati ed additivi che non fanno neanche bene alla salute. È la chutzpa di chi vuole tutto, dimenticandosi che ogni giorno arrivano al Ben Gurion dozzine di nuovi immigrati che pur di vivere qui, nel nostro paese, sono disposti a un numero altissimo di compromessi. Compreso pagare prezzi assurdi per beni di consumo molto più basilari di qualunque Milky.
Se invece di andare a irrobustire le fila degli israeliani a Berlino rimanessero qui a fare opposizione alle scelte dei nostri legittimi governi, farebbero davvero un servizio a se stessi e ai propri figli. Altro che ritorno a Berlino.
(moked, 20 ottobre 2014)
Stati Uniti - Ex nazisti rientrati in Europa ricevono ancora la pensione
Un'inchiesta dell'Associated Press rivela che Ss e guardie nei campi di concentramento, fuggiti oltreoceano dopo la guerra e poi rientrati in Europa, continuano a ricevere i pagamenti e non sono mai stati davanti ad un tribunale.
Milioni di dollari in pensione a decine di sospetti criminali di guerra nazisti, anche dopo essere stati costretti ad abbandonare gli Stati Uniti. Secondo un'inchiesta della Associated Press dal 1979, almeno 38 membri del Partito nazista, comprese alcune guardie delle Ss nei campi di sterminio, hanno continuato a ricevere la loro pensione anche se erano stati allontanati dal paese ed erano tornati in Europa. Di questi 38 quattro sono ancora vivi e stanno raccogliendo i benefici della previdenza sociale americana. Solo in dieci invece hanno dovuto rispondere dei loro crimini di guerra.
- La pensione dell'ex guardia di Auschwitz
Il caso più eclatante è quello dell'ex guardia di Auschwitz Jakob Denzinger. Finita la seconda guerra mondiale, Denziger si è trasferito in Ohio dove ha avviato un'azienda di materie plastiche. Nel 1980 i cacciatori nazisti scoprirono la sua identità e nove anni dopo perse la cittadinanza americana. Denziger lasciò il paese per tornare a Osijek, in Croazia, dove vive ancora oggi, a 90 anni, ricevendo 18mila dollari ogni anno di pensione. Una storia simile a quella di un altro ex nazista, Martin Hartmann. Fuggito in Montana dopo la caduta del Terzo Reich, Hartmann, 95 anni, vive a Berlino, dove si è strasferito nel 2007, quando Washington ha tolto la cittadinanza a stelle e strisce ma continua a percepire la sua pensione.
- Il boia di Varsavia
Un altro ex nazista ancora vivo e residente in Europa è Wasyl Lytwyn, 93 anni. Era nelle Ss che distrussero il ghetto di Varsavia nel 1943, uccidendo fino a 13.000 ebrei. Emigrato nel 1957 negli Stati Uniti, è tornato nel Vecchio continente, in Ucraina, nel 1995. Come Peter Mueller, 90 anni, che ha ammesso di aver indossato la divisa delle SS nel campo di concentramento di Natzweiler, in Francia. Si trasferì negli Stati Uniti nel 1956 ed ha vissuto fino al 1994 a Skokie, in Illinois. Adesso è in Germania,in una casa di cura a Worms.
- La legge americana e l'invito a lasciare il paese
William Jarrett, un portavoce del Social Security Administration, ha spiegato che per la legge statunitense "non è permesso divulgare informazioni perché gli individui interessati sono criminali di guerra nazista" e il suo ufficio si è rifiutato di dare informazioni sul numero totale di sospetti nazisti che ricevono ancora - o hanno ricevuto - i pagamenti.
- Il Dipartimento di Stato precisa
Il Dipartimento di Stato di Washington invece ha diffuso una nota che spiega come l'Office of Special Investigations (Osi) ha indagato nel corso degli anni su circa 10.000 ex nazisti che vivono negli Stati Uniti, invitandoli a lasciare il paese volontariamente. I nazisti sospetti non potevano essere processati in tribunali degli Stati Uniti, dal momento che i loro presunti crimini erano avvenuti fuori dal territorio degli Stati Uniti. Così a molti di loro è stato consigliato di lasciare il paese con i loro passaporti statunitensi per rinunciare poi alla cittadinanza americana, una volta all'estero. Una pratica soprannominata "Nazi-dumping."
(RaiNews24, 20 ottobre 2014)
In Israele ho navigato col miglior wi-fi libero. E ora dobbiamo liberare davvero il nostro
di Giovanni Menduni
Cambiare aria aiuta a chiarirci le idee sulle cose di casa nostra. Sono stato in Israele per una settimana. Incontri, lezioni e conferenze. Ci sono stato in questi tempi travagliati, con la tregua su Gaza appena firmata e la questione ISIS che già bussa alle frontiera del nord. Paese di per sé emozionante e dove, dunque, il problema della sicurezza a 360 gradi non è proprio una bazzecola. È divertente, entrando in un ministero qualsiasi, farsi ritirare il documento dalla ragazza in portineria che, con sorridente naturalezza, porta a tracolla il suo nero TAR 21, il micidiale fucile mitragliatore delle truppe d'assalto israeliane. La security, si capisce, non è esattamente presa sottogamba per un popolo affamato di normalità.
Eppure laggiù il wifi, è libero e funziona. Certo, dove meglio o dove peggio. Ma chiamare casa con Facetime, sul lungomare di Jaffa da un hot spot pubblico bevendosi una birra al tramonto, si fa tranquillamente.
Tranquillamente vuol dire senza troppi continui attacca e stacca. Ma anche senza doversi accreditare, proporre o subire password, perder tempo con i captive portal che ti vogliono vendere questo o quello. Vuol dire che il telefonino, il PC o l'Ipad si agganciano e buonanotte. Esattamente come succede a casa o in ufficio. Per la gente è normale, e il paese è sostanzialmente connesso, e non proprio malaccio. Anche perché la rete pubblica è forte ed e sussidiata da una galassia di punti di accesso forniti, anche questi liberi e gratuiti, dai caffè o dai negozi. Per cui, nei posti più frequentati, si ha un tappeto quasi continuo: se ne perde uno e si trova l'altro. Anche in questo caso niente pubblicità, portali, password: tutto semplice.
L'ITALIA DEL WIFI COL FRENO A MANO TIRATO
Torno a casa partendo dal Ben Gurion, arrivo con tre ore di anticipo per via dei controlli, dei quali ho diligentemente letto sul sito del nostro MAE. Li sbrigo in mezz'ora e mi trovo davanti due ore e mezzo di tempo per scrivere, lavorare, vedere posta e social. Anche lì, in uno degli aeroporti più sorvegliati al mondo, c'è wifi "a palla" come si dice da noi. Libero, tranquillo. Basta agganciare la rete e via. No password, no credenziali, no captive portal, regole, avvertenze, pubblicità.
Non racconto queste cose in senso assoluto, perché probabilmente sarebbero di scarso interesse. Il problema è che dal Ben Gurion sono sbarcato a Fiumicino, anche qui in attesa di un altro volo. Un'ora da aspettare. Ci sono i cartelli, wifi libero, gratuito ecc
Certamente molti di voi hanno fatto la stessa esperienza. Non voglio dir troppo, andate e provate. Diciamo che non è esattamente la stessa cosa del Ben Gurion, e per averne un'idea navigatevi questo link dove si spiega come connettersi: "Accendete il vostro dispositivo, scegliete la rete, avviate il vostro browser, sarete automaticamente rediretti verso la pagina di accoglienza, seguire le istruzioni per effettuare l'accesso selezionando l'opzione Free
". Tutto un programma. Seguite le istruzioni mentre dovete rispondere a una mail tra un aereo e l'altro, facendo lo slalom tra questa offerta o quella, tra la richiesta del tuo indirizzo di mail e la dichiarazione sulla privacy. Ripeto, provare per credere.
Il guaio è che tutto questo, intendo il problema dell'identificazione certa di chi si connette a internet, è per il nostro Paese un'autentica ossessione sulla quale il quadro normativo non è nemmeno di facilissima interpretazione.
Eppure qui, pur con tutti i problemi che abbiamo, non piovono razzi Quassam che sembra la sagra del paese, né si gira portando a spasso il Tavor Assault Rifle come fosse il cagnolino. È una ossessione le cui ragioni, che senz'altro ci sono, andrebbero bilanciate con i problemi che ne derivano. E non parlo dello stagno nel quale nuotano decine di imprese che vendono servizi con questa scusa e che invece li potrebbero vendere ugualmente, di più e meglio puntando sulla infrastruttura e sulla capacità innovativa di incontrare i bisogni dell'utente. Parlo dei cento freni a mano che l'Italia tira caparbiamente sulla connettività del proprio territorio. Eppure l'uscita dalla crisi, guarda caso, passa proprio da lì.
(Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2014)
Merate: grande match di volley tra l'A.S. U19 e i 'Boys' della nazionale Israeliana
L'incontro di pallavolo tra i ragazzi della Under 19 dell'A.S. Merate e i pari grado della nazionale Israeliana svoltosi sabato sera presso il Centro Sportivo Comunale di Via Matteotti a Merate non ha mancato di entusiasmare i presenti: persone sugli spalti, giocatori in campo e addetti ai lavori. Al di là del risultato - che ha visto i pallavolisti israeliani imporsi per 3 set a 1 (25-16; 25-23; 21-25; 25-20) - l'incontro di sabato sarà ricordato per la fantastica atmosfera creatasi tra gli atleti.
I ragazzi di mister Paolo Castellini hanno dovuto piegarsi di fronte alla maggiore tecnica e prestanza fisica degli avversari, guidati da mister Jakob Herchko, ma hanno avuto occasione di mostrare il buon livello di gioco acquisito, il carattere e l'affiatamento come 'gruppo'.
"E' stata una grande soddisfazione - ci ha spiegato mister Paolo Castellini - aver potuto affrontare una formazione nazionale così preparata. Sono contento di come i miei ragazzi si sono mossi in campo. Si sono dimostrati all'altezza della situazione. E il secondo set siamo arrivati vicini a vincerlo. Questo match è stato un importante test in vista del nostro campionato, che ormai è alle porte. Per la nostra squadra l'ideale sarebbe bissare il risultato dello scorso anno, arrivando in semifinale nella fase regionale. Conto molto sul mio gruppo. Sono ragazzi in gamba, capaci di organizzare il proprio tempo in maniera intelligente. Studiano tutti, frequentano scuole impegnative come il Liceo e al tempo stesso devono fare quattro allenamenti alla settimana più la partita. E arrivano puntuali agli allenamenti e... vanno bene a scuola! Aver lavorato sul gruppo mi permette di fare i cambi in tutta tranquillità, perchè so di avere una panchina composta da ottimi elementi."
Il reciproco rispetto tra le due formazioni non si è manifestato solo nello scambio di magliette e nella cena post-partita alla 'Cà di Mat', ma anche in campo, dove i pallavolisti, in occasione delle azioni difensive a muro, non hanno esitato ad ammettere anche quegli impercettibili tocchi che l'arbitro non può vedere.
Prima dell'inizio della sfida l'assessore allo sport del comune di Merate Silvia Sesana ha consegnato all'allenatore degli israeliani Jakob Herchko, a nome dell'amministrazione comunale, una pubblicazione con materiale fotografico relativo a Merate. La nazionale israeliana, in tournée nel nostro Paese per preparare la partecipazione ai campionati europei che si svolgeranno nel 2015 in Germania, incontrerà nei prossimi giorni formazioni di Bergamo, Monza e Padova.
(Merate online, 19 ottobre 2014)
L'ex deportato Modiano agli studenti: "Siete voi a darmi la forza di continuare a raccontare"
Sono 144 i giovani delle scuole romane partiti per il Viaggio della Memoria organizzato dal Campidoglio e dalla Comunità ebraica di Roma. I liceali, accompagnati dal sindaco Marino e dal presidente della Comunità Pacifici, visiteranno i campi di concentramento di Auschwitz e Birkenau.
di Gabriele Isman
CRACOVIA- "Voi ragazzi mi date la forza di continuare". Le parole commosse di Sami Modiano sono state la prima scossa nel viaggio della memoria. Il sopravvissuto al campo di Auschwitz non ha nascosto la commozione davanti ai 144 studenti di 24 scuole romane parlando nella sinagoga Tempel, che i nazisti avevano trasformato in stalle in segno di odio verso gli ebrei di Cracovia. Era stato il presidente della Comunità ebraica romana, Riccardo Pacifici, a parlare per primo e definendo questi viaggi promossi dal Campidoglio per la prima volta oltre 20 anni fa "esercizio di memoria per costruire anticorpi per le sfide di oggi". Pacifici non ha mancato di ricordare il Museo della Shoah che nascerà a Villa Torlonia.
Poi è stato il sindaco Marino a prendere la parola: "Quei nazionalismi che hanno portato alla tragedia della Shoah in forme diverse esistono ancora. A Birkenau e ad Auschwitz si è perso il senso delle cose". E anche la sua voce è sembrata incrinarsi quando ha ricordato suo padre, imprigionato in un campo della Polonia dell'Est dopo l'armistizio dell'8 settembre. "Era alto come me che peso 76 chili. Quando tornò lui ne pesava 41". A seguire, le ragazze del Cecilia Chamber Group - quartetto d'archi, fisarmonica e soprano, diretti dal maestro Alfredo Santoloci, direttore del Conservatorio di Santa Cecilia - hanno eseguito quattro brani di Ilse Weber, poetessa ebrea morta ad Auschwitz. Poi Modiano ha commosso i ragazzi e i 24 professori: tra loro anche Gianfranco Goretti, docente del Rossellini e fresco di trascrizione delle sue nozze gay sabato in Campidoglio.
(la Repubblica - Roma, 19 ottobre 2014)
Il 75% degli israeliani contro uno stato palestinese sui confini del 1967
76% contrario a uno stato che comporti la divisione di Gerusalemme
ROMA - Tre israeliani su quattro sono contrari alla creazione di uno Stato palestinese lungo i confini del 1967. E' quanto emerge da un sondaggio condotto dal Jerusalem Center for Public Affairs e pubblicato oggi dai media israeliani. Stando ai risultati della ricerca, condotta su un campione di 505 israeliani dal 12 al 14 ottobre, il 74,3% delle persone interpellate e' contrario alla creazione di uno Stato palestinese lungo i confini del 1967; il 74,9% si e' detto contrario a uno Stato palestinese che comporti il ritiro di Israele dalla Valle del Giordano e il 76,2% a uno Stato palestinese che comporti una divisione di Gerusalemme
(ASCA, 20 ottobre 2014)
Il papà israeliano della marijuana: un tesoro medicinale ancora da scoprire
di Davide Frattini
La pianta di cannabis disegnata da Pedanius Dioscorides durante uno dei viaggi al seguito dell'esercito romano fa sorridere il professor Raphael Mechoulam. Di ammirazione. «È il più grande farmacologo degli ultimi duemila anni», commenta. Il volume (uno dei cinque) della sua De Materia Medica schiaccia il leggìo nel piccolo studio ricavato dalla stanza-rifugio che ogni appartamento israeliano deve avere e il suo peso mette in difficoltà anche questo neuroscienziato-chimico di 84 anni. È stato rettore dell'Università ebraica a Gerusalemme, continua a lavorare nel laboratorio dell'ospedale Hadassah, è conosciuto come «il padre della marijuana terapeutica» (nonno ironizza lui adesso che di nipoti ne ha sette). Perché esattamente cinquant'anni fa quando nessuno la studiava ed era finita nel dimenticatoio della ricerca a espiare l'associazione a delinquere con l'oppio e la coca è riuscito a isolare e a definire la struttura del tetraidrocannabinolo (Thc), il principio psicoattivo dell'erba. L'anno prima aveva scoperto il cannabidiolo (Cbd), altro elemento fondamentale, però non tossico, senza effetti stupefacenti.
Gli Stati Uniti la proibiscono nel 1937, le Nazioni Unite la inseriscono nella lista delle sostanze illegali nel 1961. Mechoulam decide di occuparsene, si sa poco di questa pianta originaria dell'India (Cannabis Indica): i riferimenti nei documenti scarseggiano («è un francese ad aver scritto il primo trattato sui suoi effetti psicotropi dopo che i soldati di Napoleone l'avevano portata a Parigi dall'Egitto»), la materia prima non è facile da recuperare per un istituto scientifico. «Ho chiesto a un amico che conosceva il capo della narcotici. Lo ha chiamato, gli ha detto: ti puoi fidare, è un bravo ragazzo. Sono andato a recuperare cinque chili di hashish sequestrati al confine con il Libano, li ho riportati a casa in autobus, nessuno capiva che cosa fosse quell'odore che traspirava dalla mia borsa».
Assieme a Yechiel Gaoni, il giovane scienziato è ormai in grado di estrarre e sintetizzare il Thc, dosarlo, sperimentarlo sugli animali e sugli esseri umani. «Non sapevamo come funzionasse, quali effetti avesse sul cervello. Così abbiamo preparato una torta con 10 milligrammi di Thc puro. L'abbiamo fatta assaggiare a dieci amici, cinque avevano già fumato, cinque no. Mia moglie non ha sentito nulla, un altro non riusciva a smettere di parlare, era un parlamentare, tipico per un politico. Abbiamo provato una dose più forte e in due hanno sviluppato sintomi paranoidi molto pesanti. È stato sorprendente vedere come uno stesso prodotto avesse risultati così diversi sugli individui».
La moglie Dalia da allora non ha più provato, lui dice di non averlo mai fatto. Considera pericoloso l'uso (o abuso) della cannabis fuori dal controllo medico, «come l'alcolismo, il gioco d'azzardo, il tabacco. Legalizzarla è questione sociale e politica. Io mi occupo dei benefici che può dare usata come terapia». In Israele i pazienti che ricevono la marijuana sono ormai 18 mila, è il secondo Paese al mondo per distribuzione. I casi sono definiti dalla legge («non basta presentarsi e dire: ho mal di schiena»): soprattutto dolori «cronici» causati dal cancro o altre condizioni, la sclerosi a placche, per contrastare la nausea da chemioterapia, il Parkinson, la sindrome di Tourette. «Uno studio recente ne ha dimostrato l'efficacia contro il disturbo da stress postraumatico, un aiuto fondamentale in un Paese come questo dove le guerre non finiscono mai e i soldati sono ragazzi di 18 anni».
Mechoulam è immigrato adolescente (il padre era sopravvissuto a un campo di concentramento nazista), in fuga dalla Bulgaria finita sotto il dominio sovietico. Arrivano quando lo Stato d'Israele è appena nato, tutto è da costruire, anche i laboratori di ricerca. Famiglia della borghesia europea, Raphael conosce il francese, il tedesco, l'inglese. Sceglie la facoltà di chimica, si appassiona alle sostanze naturali, diventa ricercatore all'Istituto Weizmann, vicino a Tel Aviv. «Avevo bisogno di fondi, gli americani continuavano a respingere le mie richieste, la marijuana era considerata poco interessante dalle case farmaceutiche perché sulle piante è difficile stabilire i brevetti e restava bollata come "droga". I finanziamenti sono arrivati dopo che mi ha contattato un dirigente del National Institute for Health: un senatore l'aveva interpellato perché aveva sorpreso il figlio a fumare e voleva sapere se distruggesse il cervello. Da allora hanno sempre sovvenzionato i miei studi».
Il professore viene consultato dal ministero della Sanità israeliano per decidere come strutturare e far evolvere la distribuzione di marijuana terapeutica. «È fondamentale che i medici, una ventina quelli autorizzati in Israele, sappiano esattamente quello che prescrivono e i pazienti quello che prendono, come per tutti i medicinali. Ormai i coltivatori sono in grado di produrre piante con precise percentuali di Thc e Cbd. La terapia e l'efficacia sono diversi».
I trafficanti e gli spacciatori smerciano lo sballo, così l'erba illegale è inzuppata di tetraidrocannabinolo e viene ridotta la quantità di Cbd, che però serve ad attenuare gli effetti negativi del Thc. «Il cannabidiolo è un tesoro ancora da esplorare per la farmacologia. È un anti-infiammatorio, sembra funzionare per l'artrite reumatoide, l'epilessia nei bambini, la schizofrenia. Non è una droga. Solo che immettere un preparato sul mercato costa tantissimo gli studi di tossicità, la sperimentazione e per ora nessuno sembra interessato a investire nell'erba migliore».
(Corriere della Sera, 19 ottobre 2014)
Othman, l'aspirante medico, dagli ospedali israeliani all'Isis
Lo aspettavano al Soroka Hospital di Beersheva, nel cuore d'Israele, lo scorso maggio. Aveva deciso di continuare lì il suo praticantato in medicina. Ma lui, Othman Abed Elkian, un'età che si aggira tra i 20 e i 30 anni, non s'è fatto mai vedere. Sparito nel nulla. Fino a quando, pochi giorni fa, non è riapparso. Morto. Negli ultimi cinque mesi era stato in Siria. Si era arruolato con gli estremisti dell'Isis.
Dalle corsie degli ospedali ai campi di battaglia. In mezzo una vita a Hura, un villaggio beduino nel deserto del Negev, studi in Medicina in Giordania, una licenza ottenuta anche in Israele, tre mesi - sempre come praticante - al Barzilai Hospital di Ashkelon, a due passi dalla Striscia di Gaza, una famiglia tranquilla e un fratello ora arrestato perché avrebbe aiutato Othman e un altro a metter piede in Siria attraverso la Turchia.
Othman Abed Elkian, l'aspirante medico, passato dalle corsie degli ospedali israeliani all'Isis in Siria
Gli investigatori cercano di capire cosa sia successo a questo aspirante medico in quei pochi giorni tra gli ospedali di Ashkelon e Beersheva. Chi l'ha convinto a cambiare vita? C'è qualcuno che ha controllato i suoi movimenti all'interno delle strutture di ricovero? Esiste una rete di reclutamento nello Stato ebraico che ha portato dall'altra parte del confine almeno una trentina di arabo-israeliani?
«Quello che possiamo dirvi è che la sicurezza israeliana ci ha contattati e ha fatto domande su Othman Abed Elkian. È a quel punto che abbiamo scoperto che era morto combattendo per l'Isis», spiegano dal Barzilai Hospital di Ashkelon. I genitori, intervistati dai giornali israeliani, hanno confermato che il figlio aveva deciso di cambiare vita. «Evidentemente salvare vite umane non gli interessava», hanno commentato sui social network diversi israeliani. «Voleva proprio uccidere».
(Falafel Cafè, 19 ottobre 2014)
Somewhere over the rainbow
All'Oscar 2014 è stato celebrato il 75o anniversario dell'uscita del "Mago di Oz" con Pink che ha cantato "Somewhere Over the Rainbow," mentre sullo sfondo scorrevano immagini salienti del film. Ma ciò di cui poche persone si sono rese conto, durante l'ascolto di quella canzone indimenticabile eseguita da quella incredibile interprete, è che la musica è profondamente radicata nell'esperienza ebraica.
Non è un caso, per esempio, che le più grandi canzoni di Natale di tutti i tempi furono scritte da ebrei. Ad esempio, "Rudolph, la renna dal naso rosso" è stata scritta da Johnny Marks e "White Christmas" è stata scritta dal figlio di un cantore ebreo, Irving Berlin.
Ma forse la canzone più toccante emersa dall'esodo di massa dall'Europa è stata "Somewhere Over the Rainbow". Il testo è stato scritto da Yip Harburg, il più giovane di quattro figli di immigrati ebrei russi. Il suo vero nome era Isidore Hochberg ed era cresciuto in una casa ebraica ortodossa di lingua Yiddish a New York. La musica è stata scritta da Harold Arlen, figlio di un cantore. Il suo vero nome era Hyman Arluck e i suoi genitori venivano dalla Lituania. Insieme, Hochberg e Arluck hanno scritto "Somewhere Over the Rainbow," che è stata votata come canzone numero uno del ventesimo secolo dalla Recording Industry Association of America (RIAA) e dal National Endowment for the Arts (NEA).
Nello scriverla, i due uomini hanno scavato in profondità nella loro coscienza di ebrei immigrati - contornata dai pogrom del passato e dall'Olocausto ormai imminente - e hanno scritto una melodia indimenticabile con parole quasi profetiche. Leggete i testi nel loro contesto ebraico e improvvisamente non parlano più di maghi e di Oz, ma della sopravvivenza ebraica:
Da qualche parte lassù sopra l'arcobaleno, c'è una terra di cui ho sentito una volta in una ninna nanna. Da qualche parte sopra l'arcobaleno, i cieli sono blu e i sogni che osi sognare si realizzano davvero ["im tirtzu"
ndb].
Un giorno esprimerò un desiderio su una stella e mi sveglierò dove le nuvole sono lontane dietro di me.
Dove i problemi si sciolgono come gocce di limone sopra le cime dei camini, è lì che mi troverai.
Da qualche parte sopra l'arcobaleno volano gli uccelli azzurri. Gli uccelli volano sopra l'arcobaleno. Perché allora, oh perché io non posso? Se gli uccellini azzurri possono volare felici oltre l'arcobaleno perché, oh perché io non posso?
Gli ebrei d'Europa non potevano volare. Non potevano fuggire di là dell'arcobaleno. Harburg è stato quasi profetico quando ha parlato di voler volare via come un uccello azzurro dalle "cime dei camini". Dopo Auschwitz, le cime dei camini hanno assunto un significato completamente diverso da quello che avevano all'inizio del 1939. La madre di Pink è Judith Kugel, ebrea di origine lituana. Mentre Pink cantava a voce spiegata la canzone di Harburg e Arlen dal palco agli Academy Awards, non stavo pensando al film: pensavo agli ebrei perduti d'Europa e agli immigrati in America.
Poi mi ha colpito l'ironia del fatto che per duemila anni la terra di cui gli ebrei avevano sentito parlare "una volta in una ninna nanna" non era l'America, bensì Israele. La cosa notevole è che meno di dieci anni dopo che "Somewhere Over the Rainbow" è stata pubblicata per la prima volta, l'esilio era finito e lo stato di Israele era rinato. Forse "i sogni che osi sognare si realizzano davvero".
(ilblogdibarbara, 19 ottobre 2014)
Roma - Collegio rabbinico, lezioni al via
In una aula magna stracolma inaugurato l'anno accademico 5775 del Collegio Rabbinico Italiano. Dietro la cattedra il rabbino capo di Roma e direttore del Collegio Riccardo Di Segni con una lezione dedicata al trattato talmudico di Sotà che presentava alcuni elementi di connessione con il corso dello scorso anno. A seguire il coordinatore del Collegio rav Gianfranco Di Segni ha illustrato poi le linee generali del programma delle varie classi: il corso dei liceali, il corso medio per il titolo di maskil, il corso per il titolo di bagrut, il corso superiore, i corsi per adulti. A questi corsi, che si svolgono nella sede centrale, si affiancano quelli che si tengono al Liceo ebraico, organizzati in collaborazione con la direzione della scuola. Le materie principali sono quelle usuali per il curriculum di studi ebraici: Torà con Rashì e altri commentatori, Tanakh, Mishnà, Talmud, Halakhà, Lingua ebraica, Storia e pensiero, Tefillà. Quest'anno verrà attivato anche un corso per mashghichim e chazanim. I corsi sono annuali e proseguiranno fino a Shavuot, per poi avviarsi al ripasso e agli esami. Commenta rav Gianfranco Di Segni: "L'anno scorso il Collegio ha visto la partecipazione di un numero di allievi complessivo superiore al centinaio e ci si aspetta lo stesso numero quest'anno. BeHatzlachà a tutti!".
(moked, 19 ottobre 2014)
Né spiegazione né scuse
di Fiamma Nirenstein
Non c'è spiegazione né scusa per quello che Kerry ha detto sul legame fra il conflitto israelo-palestinese, e anzi, la sua causalità, e l'orribile, crudele svolta dell'islamismo con le decapitazioni dell'ISIS. È chiaro anche a un asino: se mai ci fosse, il nesso risiede nel desiderio arabo dominante di spazzare via anche Israele, considerato un Paese occidentale e quindi infedele, e il disegno di uno Stato Islamico onnicomprensivo e onnipotente. Eventualmente Kerry avrebbe dovuto invitare i palestinesi ad abbandonare i loro sogni imperialistici e dominatori.
Ma Kerry non ha mai capito niente di Medio Oriente e di Islam, ha pensato con Obama che la Fratellanza Musulmana fosse un'organizzazione moderata da sostenere, con lui immagina che compiacere il mondo islamico fosse la chiave del progresso e della pace mentre i morti aumentavano a centinaia di migliaia in scontri tribali, intra-religiosi, è passato sopra agli orrori di Assad e dei suoi avversari, salvo ora a costituire una fragile coalizione internazionale.
Il suo eterno colpevolizzare Israele è un regalo agli assassini, ed è un anello di congiunzione con la tradizione antisemita di colpevolizzare gli ebrei. Adesso manca solo che, come accadde nel Medio Evo con la peste nera, vengano accusati di propagare Ebola. Ha fatto contenti gli antisemiti antisraeliani di tutto il mondo.
Un geniale link da contrapporre all'asineria colpevole di Kerry è quello fatto da Angelo Panebianco su Il Corriere della Sera fra il falso progressismo e la strana "distrazione" di quelli che vanno in piazza contro Israele e si ritrovano a gridare "morte agli ebrei". E' successo in tutta Europa, e sembra che tale distrazione sia tipica anche di Kerry.
(fiammanirenstein.com, 18 ottobre 2014)
Klinghoffer ucciso una seconda volta: Opera razzista e antisemita al Metropolian di New York
di Massimo Gaggi
NEW YORK - Insieme agli attivisti dei movimenti ebraici, a due ex governatori, George Pataki e David Paterson, a diversi parlamentari repubblicani e democratici (da Peter King a Eliot Engel), ci sarà anche l'ex sindaco di New York, Rudy Giuliani, domani, a guidare la protesta contro la prima di The Death of Klinghoffer, il controverso melodramma scelto dal Metropolitan per inaugurare la sua stagione operistica. Da giorni il celebre teatro è sotto assedio: un picchetto dopo l'altro, alcuni dei quali organizzati da personaggi di rilievo della scena culturale della città, come il «trustee» della City University of New York, Jeffrey Wiesenfeld.
Opera razzista e antisemita, «propaganda travestita da arte» come urlano I manifestanti che vorrebbero bruciare il palcoscenico? O interpretazione, discutibile ma lecita, del dramma dell'Achille Lauro la nave attaccata nel 1985 da terroristi palestinesi e l'assassinio dell'ebreo Leon Klinghoffer, un anziano invalido, poi gettato in mare da un punto di vista che tiene conto anche dei motivi storici del conflitto israelo-palestinese?
L'opera, rappresentata la prima volta più di vent'anni fa, ha sempre irritato la comunità ebraica fin dal titolo (perché «morte di Klinghoffer e non assassinio?»), ma non si era mai arrivati a un'ostilità così brutale. Le contestazioni iniziali all'opera che è considerata la migliore del maestro minimalista John Adams, avevano segnato la prematura fine della carriera di librettista di Alice Goodman. Dopo un primo periodo di proteste accalorate, però, le acque si erano calmate e l'opera è stata rappresentata negli anni scorsi più volte senza incidenti in California, a Londra, a St Louis e anche alla Juilliard di New York. Quando il Metropolitan ha deciso di aprire la stagione con questo melodramma sapeva che avrebbe fatto discutere, ma non immaginava fino a che punto.
A chi accusa l'opera di giustificare il terrorismo, il general manager della grande istituzione musicale newyorkese, Peter Gelb, replica che qualunque lavoro artistico dedicato a un conflitto deve esplorare le motivazioni di tutte e due le parti, senza per questo sostenere o giustificare i crimini commessi.
ll Metropolitan non aveva, però, tenuto conto del fatto che il mondo ebraico reagisce oggi con molta più emotività alla diffusione di opere come quella di Adams perché allarmato dal clima di antisemitismo che si è diffuso di recente, soprattutto in Europa. E il teatro di New York è un formidabile megafono.
Così, quando l'Anti Defamation League gli aveva chiesto di cancellare "The Death of Klinghoffer" dal cartellone, Gelb aveva proposto un compromesso: eseguire ugualmente l'opera a teatro, ma cancellando la tradizionale trasmissione della «prima» in 2000 teatri sparsi per il mondo.
Abraham Foxman, il presidente della Lega, aveva accettato questa soluzione. Ebreo anche lui, considera l'opera discutibile ma non antisemita.
Foxman temeva soprattutto che la sua rappresentazione nei teatri di città come Vienna, Amsterdam e Berlino potesse alimentare sentimenti ostili verso gli ebrei. Il compromesso di giugno che doveva raffreddare la polemica ha, invece, finito per scaldare ancora più gli animi: Adams ha protestato definendo «pura intolleranza» la cancellazione della trasmissione televisiva della sua opera, mentre i movimenti ebraici hanno visto in questa scelta la conferma della pericolosità dell'opera: perché a New York sì e altrove no? Così sono riprese le contestazioni più intolleranti, tracimate anche in raffiche di minacce via Internet a tutti i protagonisti: dallo stesso Foxman, definito un «kapo», al baritono Alan Opie, interprete di un Klinghoffer evidentemente non troppo simpatico, sommerso di insulti: «Per tutta la vita ti porterai addosso l'etichetta del fascista».
(Corriere della Sera, 19 ottobre 2014)
Trastevere, fiaccole e silenzio. In centinaia alla marcia della Memoria
La manifestazione organizzata dalla Comunità di Sant'Egidio e dalla Comunità ebraica di Roma per ricordare la deportazione nei lager degli ebrei della capitale. In corteo anche il ministro Pinotti.
Fiaccole, striscioni, commozione e silenzio. Poco dopo le 19 da piazza Santa Maria in Trastevere è partita la marcia della Memoria, organizzata dalla Comunità di Sant'Egidio e dalla Comunità ebraica di Roma per ricordare la deportazione degli ebrei nei campi di sterminio nazisti. La marcia ha percorso a ritroso la strada fatta dagli ebrei romani che il 16 ottobre 1943 furono rastrellati dal ghetto e portati al collegio militare di Trastevere, prima di essere rinchiusi nei treni con destinazione Auschwitz.
Portando cartelli con i nomi dei lager nazisti, da Auschwitz a Bergen Belsen, da Mauthausen a Flossenburg, i partecipanti alla marcia hanno sfilato tra le strade di Trastevere fino a raggiungere largo 16 ottobre 1943, accanto al Tempio Maggiore. Tra i manifestanti, centinaia di studenti universitari e liceali. Alla marcia hanno preso parte anche il ministro della Difesa Roberta Pinotti e l'assessore al
Sostegno Sociale di Roma Capitale, Rita Cutini. Ad attenderli, al Portico D'Ottavia, c'era Enzo Camerino, sopravvissuto alla deportazione del '43. "E' importante essere qui per ricordare questa che è una ferita incancellabile nella storia di questa città - ha commentato l'assessore Cutini - Questa città deve coltivare gli anticorpi contro ogni forma di antisemitismo, razzismo e intolleranza: nemici mai sconfitti del tutto e sempre in agguato".
(la Repubblica - Roma, 18 ottobre 2014)
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Che cosè lantisemitismo?
L'antisemitismo è una malattia dello spirito la cui cura non è nota. Consiste nella convinzione coatta che la colpa per tutti i problemi di questo e dell'altro mondo possa venire data a un gruppo di persone che dunque viene fatto soffrire (quasi in ogni Paese e quasi in ogni secolo) in forza di questa convinzione irrazionale. La malattia assume molte forme: vi sono casi in cui gli ebrei sono biasimati per il fatto che esistono, altri casi in cui sono biasimati perché non esistono più. Sono incolpati contemporaneamente di essere pigri e perché comandano il mercato del lavoro.
Un antisemita è qualcuno che tranquillamente incolpa tutti gli ebrei per la loro ricchezza e si lamenta per i mendicanti ebrei; biasima gli ebrei in quanto capitalisti e in quanto comunisti; crede che gli ebrei abbiano un piano segreto per "impossessarsi del mondo", che comandino la stampa, i media, le banche ... tutto. C'è gente che considera gli ebrei come una vera e propria sottospecie, strettamente imparentata più coi roditori che con l'homo sapiens.
Per molto tempo gli ebrei credettero che sarebbero stati completamente accettati e che l'antisemitismo sarebbe arretrato e poi scomparso se essi avessero assunto completamente la "civilizzazione del Paese ospitante", identificandosi con essa. Questa istanza di soluzione è nota come assimilazione. Sfortunatamente divenne poi evidente che alcuni non riuscivano a distinguere la differenza tra un uomo e i suoi nonni, e dunque erano pronti a tormentarlo e a ucciderlo a causa della presunta identità che ebbe un suo antenato. Alcuni ebrei credettero che si sarebbero risparmiati altri problemi se avessero rinunciato alla loro religione per abbracciare il cristianesimo, ma la storia degli "ebrei battezzati" è stata altrettanto sanguinaria e deludente. Altri credevano di poter eliminare la malattia integrandosi e spendendo generosamente per cause non-ebraiche, o diventando più patriottici degli altri cittadini del Paese in cui vivevano, ancorché questi cittadini sovente derivassero da un insieme di popoli a loro volta invasori ... Altri ebrei credettero poi di poterla eliminare andandosene dal Paese ospite per creare un Paese loro, però scoprirono che proprio quelli che dicevano agli ebrei "tornate da dove siete venuti", si lamentavano amaramente se quelli lo facevano.
Sfortunatamente conosciamo altre "malattie" la cui cura consiste, per il primo passo, nel riconoscimento, da parte del malato, della propria malattia. Finora vi sono pochi segnali che gli antisemiti abbiano mai riconosciuto quanto sono malati. Persino nei casi di grave "epidemia" non è garantito che una data civilizzazione sappia produrre degli anticorpi capaci di resistenza. La prognosi è brutta e deprimente.
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La deportazione degli ebrei di Roma, fra storia e memoria. Intervista a Gabriele Rigano
di Filippo Sbrana
La deportazione degli ebrei di Roma è un evento che ha segnato tragicamente la storia della Capitale. Se ne farà memoria sabato 18 ottobre con l'ormai tradizionale marcia cittadina, promossa dalla Comunità di Sant'Egidio e dalla Comunità ebraica di Roma, che ripercorre la strada degli oltre mille ebrei romani che ne furono vittime. Prenderanno parte alla manifestazione un ex deportato e i rappresentanti delle istituzioni nazionali e locali, insieme a migliaia di cittadini. Lo scorso anno, in occasione dei 70 anni della deportazione, "Notizie Italia News" ha intevistato Gabriele Rigano, docente di storia contemporanea all'Università per stranieri di Perugia e autore di importanti studi sul tema.
A Roma il 16 ottobre non è una data come le altre. Nel 1943 l'esercito nazista deportò dalla capitale oltre mille ebrei, in maggioranza donne e bambini. Vennero portati ad Auschwitz e morirono quasi tutti, solamente in 16 tornarono dal campo di sterminio. La città si prepara a celebrare il settantesimo anniversario di quel triste avvenimento. Ne abbiamo parlato con Gabriele Rigano, storico dell'età contemporanea e autore di importanti studi sul tema (uno dei quali nel volume La resistenza silenziosa curato da Marco Impagliazzo, da poco ripubblicato in versione ampliata).
- Professor Rigano, cosa rappresenta questa data nella storia di Roma?
È una delle date più nere nella storia plurimillenaria della città: il 16 ottobre 1943 più di mille romani innocenti vennero arrestati e deportati nei campi di concentramento. Fu la più grande operazione contro gli ebrei in Italia durante la seconda guerra mondiale. Nonostante questo, per lungo tempo la memoria di questo avvenimento è rimasta circoscritta alla Comunità ebraica della capitale. Nell'immediato dopoguerra, quando era forte la tradizione antifascista, pur non essendoci una larga partecipazione di romani, le autorità cittadine prendevano parte alle manifestazioni celebrative. Ma dagli anni Sessanta anche questa consuetudine cominciò a venire meno.
- Oggi la deportazione viene considerata una memoria cittadina. Cos'è accaduto? È stata importante una manifestazione pubblica, una marcia, iniziata a metà degli anni Novanta per l'iniziativa congiunta della Comunità di Sant'Egidio e della comunità ebraica. Negli anni Ottanta la comunità cattolica trasteverina aveva colto i germi di un risorgente antisemitismo, allacciando rapporti di vicinanza con la comunità ebraica romana. Il rabbino capo di allora, Elio Toaff, fu un interlocutore importante e con lui si pensò di organizzare una manifestazione in memoria della Shoà. Dal 1994, una marcia silenziosa attraversa ogni anno la città la sera del 16 ottobre, compiendo il percorso inverso a quello fatto dai deportati. Il corteo è aperto da una frase di Primo Levi: "Coloro che non hanno memoria del loro passato, sono condannati a ripeterlo".
- Sono passati quasi vent'anni dalla prima marcia e molto sembra cambiato. Nel 1994 la manifestazione fu significativa ma con una partecipazione contenuta. Di anno in anno si sono aggiunti nuovi compagni di strada. Tanti romani hanno iniziato a considerare questa marcia come un appuntamento importante per la città, in particolare molti giovani, colpiti dalle parole degli anziani ebrei che hanno testimoniato quelle dolorose vicende. Penso a Settimina Spizzichino, unica donna tra i superstiti della deportazione, che negli anni Novanta fu una presenza assidua alla manifestazione. Si sono fatti compagni di strada anche molti religiosi di Roma, i cui ordini hanno avuto un ruolo importante a difesa di tanti ebrei negli anni dell'occupazione tedesca, e non pochi nuovi romani - gli immigrati - hanno compreso il rilievo di questa memoria. Con loro numerosi Rom, che come gli ebrei furono vittime del razzismo nazista. È cresciuta nel tempo anche l'attenzione delle istituzioni: in una prima fase erano soprattutto cittadine, poi hanno aderito anche quelle nazionali. Lo scorso anno è intervenuto il presidente del Consiglio, Mario Monti, esprimendo idealmente l'adesione di tutto il Paese.
- Perché ricordare?
La deportazione degli ebrei romani è una memoria cittadina, in cui riflettere sulla storia ma anche sul presente, su chi oggi è vittima del disprezzo e dell'odio. Mercoledì prossimo ci ritroveremo in tanti (Piazza Santa Maria in Trastevere, ore 19 ndr), per marciare insieme verso l'antico Ghetto dove si terrà la cerimonia conclusiva, per affermare che chi è diverso non deve mai essere considerato una minaccia. Gli errori del passato non vanno ripetuti. In questo senso è importante stigmatizzare sempre il razzismo: come quello verso i Rom, purtroppo ancora diffuso, non dimenticando che tanti di loro furono uccisi nei campi dai nazisti. Ricordare non serve solo a fare memoria del passato, ma a costruire un futuro diverso in cui non ci sia più spazio per discriminazioni e razzismo.
(Notizie Italia News, 17 ottobre 2014)
Nava Semel agli studenti: la memoria è l'unica arma per diventare persone responsabili
La scrittrice israeliana ospite della scuola "Perna - Alighieri"
AVELLINO - «Non bisogna mai dimenticare che ognuno di noi è un uomo che deve guardare all'altro come a se stesso, senza chiudere gli occhi di fronte alle sofferenza dell'umanità in nessun momento». Parole semplici e chiare, così come richiedeva la platea. Nema Semel ha spiegato il suo concetto di "fare memoria" agli alunni dell'Istituto comprensivo "Perna Alighieri" protagonisti del progetto "Educazione alla memoria: ricordare il passato per costruire il futuro". La scrittrice israeliana, autrice di diciassette testi tra romanzi, raccolte di poesie e di racconti, tra questi "Gershona" (La Casa Usher 1989), "Lezioni di volo" (Mondadori 1997), "L'esclusa" (Mondadori 1999), "I segreti del cuore" (Edizioni Sonda 2007), "E il topo rise" (Atmosphere 2012) fino alla sua ultima opera "Testa storta" (Belforte editore), è stata ospite della dirigente scolastica Ida Grella, insieme al professor Ottavio Di Grazia, docente di Culture, Identità, Religioni all'Università "S.Orsola Benincasa" di Napoli. Lei che la Shoah non l'ha vissuta personalmente ma solo attraverso il racconto dei suoi genitori, survivor dei campi di concentramento nazisti, parla attraverso i suoi personaggi «inventati ma specchio della realtà vissuta in quegli anni», si concentra sull'atrocità più grande, quella «perpetrata da uomini contro altri uomini. Non è stata fantascienza - dice la scrittrice - e mi rammarica vedere spesso ragazzini in visita ad Auschwitz ridere dinanzi ai cancelli come se stessero andando a vedere uno spettacolo qualsiasi. Quando si entra nei luoghi della Shoah bisogna farlo con lo spirito giusto». Per questo Nava Semel scrive, perché «un libro da solo può fare poco, racconta del passato, di ciò che è stato. Ma la memoria è l'unica medicina che abbiamo per diventare persone responsabili del presente e del futuro». La banale normalità del male è al centro della ricerca della scrittrice israeliana: «i nazisti erano persone normali, come noi mangiavano, bevevano, ridevano, piangevano. Per questo nei miei testi, attraverso i miei personaggi, cerco di indagare le circostanze che hanno portato a simili atrocità. Per comprendere cosa porta ad etichettare l'altro come diverso da eliminare». Le storie di Semel sottendono tutte la speranza, ma non la certezza, di un'umanità pronta ad aiutare, e si basano tutte sui racconti che sua madre le ha consegnato. «Lei - racconta Semel - non si è mai soffermata sulle atrocità subite nei campi di concentramento, ma sui gesto di umanità che ha ricevuto. Ricordo in particolare il suo viaggio sul treno della deportazione. Giorni passati senza cibo né acqua all'interno di un vagone buio e affollato di disperati. Una fermata e la sua richiesta di acqua, la sua mano tesa fuori dalle grate del treno toccata da una mano sconosciuta che le ha passato un bicchiere con un po' di acqua. Bisogna ricordare i giusti, gli uomini che mettendo a rischio la propria vita hanno salvato quella degli ebrei. Città come Assisi, dove trecento famiglie italiane hanno nascosto nelle proprie abitazioni un ebreo per nasconderlo ai nazisti». E i "giusti" sono i protagonisti di "Testa storta", storia ambientata in Piemonte, nel cuneese e precisamente a Borgo San Dalmazzo, località che vide il tragico passaggio di disperati in fuga dalla barbarie nazi-fascista. «Questo libro, ai cui personaggi italiani sono molto affezionata perché nella realtà tanti "buoni cristiani italiani" hanno messo a repentaglio tutto per salvare vite umane durante il nazi fascismo, è un invito a non abbassare mai lo sguardo di fronte alle sofferenze del mondo. Penso - ha concluso la scrittrice - a quello che sta vivendo l'Africa in questo momento, ai tanti profughi che arrivano in Italia. Noi abbiamo il dovere di aiutarli, di imitare leader della pace come Papa Francesco, di unirci al suo abbraccio immenso».
(ilCiriaco, 18 ottobre 2014)
Nell'ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù si alzò in piedi ed esclamò: «Chi ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me, come ha detto la Scrittura, fiumi d'acqua viva sgorgheranno dal suo seno». Or egli disse questo dello Spirito, che dovevano ricevere coloro che avrebbero creduto in lui; lo Spirito infatti non era ancora stato dato, perché Gesù non era stato ancora glorificato. Molti dunque della folla, udite queste parole, dicevano: «Costui è veramente il profeta». Altri dicevano: «Costui è il Cristo». Alcuni invece dicevano: «Viene forse il Cristo dalla Galilea? Non dice la Scrittura che il Cristo viene dalla progenie di Davide e da Betlemme, villaggio dove stava Davide?». Ci fu dunque dissenso fra la folla a motivo di lui.
(dal Vangelo di Giovanni, cap. 7)
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Roma Passeggiata nel Ghetto per conoscere la storia delle "Pietre d'inciampo"
di Giuseppe Serao
L'Associazione "Arte in memoria" - promotrice dal gennaio 2010 delle cinque edizioni di "Memorie d'inciampo a Roma" nel corso delle quali sono state installate 216 Stolpersteine in memoria dei deportati razziali, politici e militari - intende ricordare l'anniversario della razzia al Ghetto di Roma il 16 ottobre 1943 con una visita guidata alle pietre d'inciampo del quartiere ebraico. Come avviene già da alcuni anni a Berlino, per l'anniversario della "Notte dei cristalli", l'iniziativa prevede un percorso tra le pietre d'inciampo per verificarne la conservazione: "lustrarle" e, contemporaneamente, "illustrarle" attraverso la lettura delle storie delle vittime. Protagonisti saranno gli studenti e i docenti che si sono già impegnati nelle diverse edizioni di "Memorie d'inciampo".
L'appuntamento è fissato per lunedì, alle ore 10, in largo 16 ottobre 1943.
Per informazioni: info@arteinmemoria.it, tel. 333-7178483
(la Repubblica - Roma, 18 ottobre 2014)
L'antisemitismo in veste cristiana fa rabbrividire
di Peter Malgo
Riprendiamo questo articolo da "Chiamata di Mezzanotte", una rivista evangelica che ha sede in Svizzera ed è diffusa in molte parti del mondo. Il periodico ha un particolare interesse per le profezie bibliche, e quindi necessariamente anche per Israele, in relazione sia al futuro sia al presente. Non è strano quindi che la redazione, sempre attenta a quello che accade oggi intorno al mondo ebraico, si sia accorta di un crescente antisemitismo anche fra i cristiani. Riportiamo quindi volentieri questo editoriale, ambientato in Germania, ripromettendoci di continuare a monitorare questo particolare tipo di antisemitismo, perché se fa rabbrividire quello in veste genericamente cristiana, quello in veste evangelica ci impressiona ancora di più. NsI
Vicinissimo a casa nostra, ho avuto modo di osservare la seguente scena: su un autobus di linea alcuni passeggeri salgono e improvvisamente un gruppo di giovani che si trovava già nel veicolo inizia a gridare: «Un ebreo, un ebreo! Guardatelo ... !» Dicono parolacce e indicano con disprezzo l'ebreo ortodosso appena salito. l'uomo è esposto a una palese ostilità antisemita ma reagisce ignorando quella gentaglia. Che cosa starà provando? Nessuno nell'autobus sembra infastidito da ciò che sta accadendo. L'ostilità nei confronti degli ebrei in molti ambienti è di nuovo tollerata; l'antisemitismo è presente in tutti gli strati della popolazione e non viene più nascosto. Le discussioni relative l'olocausto si accendono periodicamente in molti paesi. Ciò non è dovuto solo all'elaborazione storica della Seconda Guerra Mondiale e alla questione dei soldi di riparazione (in tedesco: Wiedergutmachung), ma è la dimostrazione di una nuova forma di antisemitismo: la relativizzazione dell'olocausto e l'affermazione che, in fondo, non è stato poi tanto grave. Non mi riferisco qui alle persone che negano fondamentalmente l'olocausto e con esso il dolore indicibile provocato al popolo ebreo, ma piuttosto alle persone che affermano che sia ora di smettere di parlare dei terribili avvenimenti del passato. Il frutto di tale atteggiamento sono poi i tristi episodi come quello osservato nell'autobus. Come possono i nostri figli e nipoti sapere cosa è successo davvero, se questa parte della storia viene rimossa? In Germania è salita al ventiquattro per cento la parte di popolazione che ha adottato questo cliché antisemitico come reazione all'olocausto. Oltre alle critiche «classiche» rivolte agli ebrei dai fautori dell'antisemitismo - per esempio che gli ebrei abbiano troppo influsso e che siano responsabili in prima persona della loro persecuzione a causa del loro comportamento - secondo gli esperti sono ormai altri pregiudizi e accuse ad essere diventati molto più frequenti, come il fatto che gli ebrei traggano vantaggio dall'olocausto e lo sfruttino ai propri scopi a spese degli interessi dei tedeschi. Anche la critica contro Israele, motivata da una buona dose di antisemitismo, viene espressa in modo sempre più aperto.
Oggi è quanto mai evidente e preoccupante che l'antisemitismo stia uscendo sempre più dall'anonimato anche fra i cristiani. C'è forse anche fra noi chi sta provando una crescente e nascosta insofferenza nei confronti degli ebrei, del fatto che si parli tanto di loro e che ci sia in gioco del denaro?! In realtà molti cristiani sono stanchi di sentir parlare dell'olocausto e vi si oppongono con grande fervore. Confrontati con argomentazioni contrarie, distolgono il più possibile l'attenzione dai fatti. L'antisemitismo in veste cristiana fa rabbrividire perché con esso ci si oppone consapevolmente al primo amore di Dio. "Perché proprio Israele, perché proprio gli ebrei?», chiedono in molti. In Deuteronomio 7:7-8 sta scritto: «II SIGNORE si è affezionato a voi e vi ha scelti, non perché foste più numerosi di tutti gli altri popoli, anzi siete meno numerosi di ogni altro popolo, ma perché il SIGNORE vi ama: il SIGNORE vi ha fatti uscire con mano potente e vi ha liberati dalla casa di schiavitù, dalla mano del faraone, re d'Egitto, perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri» In questa rivista abbiamo parlato più volte della teologia della sostituzione che si sta diffondendo sempre più nelle chiese e che, in realtà, contiene anche delle idee molto vicine all'antisemitismo. Che Dio ci preservi da esse! Non sta a noi giudicare Israele o altre nazioni. Senza dubbio, da un punto di vista puramente umano, gli ebrei non sono migliori degli altri. Eppure sono il primo amore di Dio. Hanno la promessa, come sta scritto nella lettera ai Romani. Sono il popolo del futuro, la terra della Bibbia. Proprio in un periodo in cui sulla scena politica Israele è sempre più emarginato, in cui la nazione mediorientale una volta popolare viene messa sempre più in discussione, è importante che come cristiani assumiamo una posizione chiara. Senza pregiudizi, liberi da qualsiasi idea antisemita, dovremmo amare Israele, aiutarlo e metterci dalla sua parte.
(Chiamata di Mezzanotte, ottobre 2014)
II nuovo "tradimento dei chierici"
Quelli che chiedono un boicottaggio di Israele fingendo di non sapere che la forza propulsiva dell'antisemitismo europeo è l'estremismo islamico.
di Angelo Panebianco
Dopo la caduta del fascismo, in età repubblicana, una gran parte degli intellettuali italiani ha fatto continua professione di antifascismo. La spiaggia" antifascista è sempre stata molto più affollata (per tutto l'anno, e per oltre sessant'anni) delle spiagge romagnole a Ferragosto. C'era però qualcosa che non funzionava in tutto questo antifascismo parolaio. Il sospetto nasceva dal fatto che, secondo tutte le testimonianze, durante il fascismo il grosso degli intellettuali stava in silenzio, appartato, oppure era allineato, succube del regime, entusiasticamente schierato con il duce. Si consideri, ma è solo un esempio, quella magnifica testimonianza che è L'elogio della galera di Ernesto Rossi, le lettere che Rossi inviò alla moglie e alla madre nella sua ventennale reclusione. Si potrà facilmente constatare quanto forte fosse il senso d'isolamento di quei "quattro gatti" che osarono sfidare il fascismo trionfante.
ANTIFASCISTI A BABBO MORTO
Dunque, quattro gatti antifascisti all'epoca del fascismo e, per contro, legioni di antifascisti a babbo morto, a fascismo finito. Non è strano? I sospetti trovano oggi una conferma. Una parte almeno (speriamo che alla fine non risulti troppo grande) dei suddetti intellettuali antifascisti-a-fascismo-finito, si sta preparando per un nuovo "tradimento dei chierici". Guardate quante dichiarazioni sono state fatte e quanti manifesti sono circolati e circolano, in Italia e in Europa, con richieste di boicottaggio di Israele, quante firme, illustri e non illustri, di accademici, artisti eccetera, si sono prestate e si prestano con entusiasmo a fiancheggiare il rinato antisemitismo europeo. Costoro fingono di non sapere che nelle manifestazioni di piazza antilsraeliane tenutesi in Europa in occasione della recente guerra, si gridava "a morte gli ebrei". Fingono di non sapere che la forza propulsiva del nuovo antisemitismo europeo è l'estremismo islamico. E mentre chiedono il boicottaggio della più solida democrazia del Medio Oriente tacciono sugli orrori di cui si macchiano i jihadisti. Niente manifesti contro lo Stato islamico o Al Quaeda, niente mobilitazioni, niente dichiarazioni. Niente di niente. E si capisce. È pericoloso mettersi contro l'estremismo islamico e gli antifascisti-a-fascismo-finito possiedono, in genere, un ben sviluppato senso delle convenienze. Dopo tanta retorica contro il totalitarismo fascista nell'epoca in cui non c'erano serie minacce fasciste, ora che sta dilagando un nuovo, sanguinario totalitarismo, essi fischiettano, guardano da un'altra parte. È difficile dismettere l'idea che se fosse ancora vivo uno di quei quattro gatti, gli antifascisti veri, non guarderebbe questi signori con approvazione.
(Corriere della Sera - Sette, 17 ottobre 2014)
E questo sarebbe il Monte del Tempio "nelle mani di Israele"
Una giornata di ordinaria follia, nella video-testimonianza di un giornalista "infiltrato".
La coincidenza di festività ebraiche e musulmane di quest'anno e l'aumento delle tensioni nella regione hanno riportato in evidenza l'atmosfera già di per sé instabile nel complesso del Monte del Tempio, a Gerusalemme.
Agli occhi di un estraneo in visita, il complesso del Monte del Tempio con la Moschea di al-Aqsa sembra caratterizzato da una sorta di balletto tra i diversi fedeli e le forze di sicurezza israeliane. Ma un esame più attento rivela quella che appare piuttosto una polveriera pronta ad esplodere: da una parte, fedeli ebrei che cercano di accedere al complesso; dall'altra, fedeli e funzionari religiosi musulmani che si battono contro la loro presenza; in mezzo, stuoli di spaesati turisti cristiani. Tutti insieme, sembrano il set di un film abbastanza surreale....
(israele.net, 17 ottobre 2014)
Se il "Klinghoffer' in musica rischia di ammazzare ancora l'odiato ebreo
Contestata ia prima al Metropolitan, tempio della lirica americana, dell'opera di Adams. Arte o antisemitismo?
di Giulio Meotti
ROMA - Lunedì al Metropolitan Opera ci sarà la prima del "Klinghoffer" di John Adams. Il tempio della lirica americana non si apriva in un tale stato di polemiche dai tempi della "Salomè" di Richard Strauss nel 1907 (la première venne cancellata per le proteste). Il sequestro, nell'ottobre 1985, della nave da crociera Achille Lauro da parte del Fronte di liberazione palestinese di Abu Abbas, l'assassinio del passeggero ebreo disabile Leon Klinghoffer. Quella sanguinosa vicenda ha ispirato il compositore statunitense Adams, stimato solista di clarinetto prima di dedicarsi alla composizione, che divenne noto con la sua prima opera "Nixon in China", che gli valse l'ambigua definizione di "Beethoven dei minimalisti". Il sovrintendente del Met, Peter Gelb, non ha ceduto alle richieste di parte ebraica di sospendere l'opera. "Non basta cancellare la diffusione televisiva mondiale, l'opera non deve neppure andare in scena a teatro", aveva intimato Betty Ehrenberg, direttrice del World Jewish Congress. E' nato anche un sito web di protesta: stop-deathofklinghoffer.com.
La campagna di boicottaggio dell'opera di Adams ha comunque sortito effetti senza precedenti nella storia del Met: è stata annullata la versione cinematografica simulcast in duemila cinema di sessantasei paesi, è stato cancellato un incontro pubblico sull'opera per "ragioni di sicurezza" e il libretto in sala lunedì porterà una nota della famiglia Klinghoffer, che disconosce il lavoro di John Adams. Per i fan di Adams e Gelb, l'opera, basata sul libretto di Alice Goodman, è un dramma religioso, come la tragedia greca, le Passioni di Bach, il Taziyeh persiano, un Oratorio di Händel. Apre il coro dei "palestinesi esiliati" ("la casa di mio padre è stata rasa al suolo dagli israeliani nel 1948"). Ognuno canta le proprie cicatrici, che sempre si riaprono. Ai palestinesi segue il coro degli ebrei esiliati. Il proscenio è ricoperto di terra giallastra. E' la "sabbia di Palestina". Per i critici, è "antisemitismo mascherato da arte". Ci sono due graffiti: "Varsavia 1943, Betlemme 2005".
Il musicologo Richard Taruskin sul New York Times ha scritto che uno dei problemi del "Klinghoffer" di John Adams è che la scena del coro palestinese è seguita da quella dei vicini di casa dei Klinghoffer, che si pregustano la crociera nel Mediterraneo. "Il ritratto dei palestinesi sofferenti nel linguaggio musicale del mito e del rito è giustapposto al ritratto triviale dei materialisti ebrei americani", scrive Taruskin, che ha parlato della presenza nell'opera di "pregiudizi antiamericani, antisemiti e antiborghesi". La comunità ebraica americana teme che inciti all'odio fra le lunghe arcate dei violini e pizzicati dei violoncelli. Il direttore della produzione del Met, Tom Morris, ha detto che accusare l'opera di giustificare l'uccisione di Klinghoffer è come accusare il "Macbeth" di Verdi di legittimare il regicidio.
"Sono stato attaccato per strada come un ebreo che odia se stesso, un fascista", ha detto Gelb al New York Times. Tante le frasi incriminate del libretto di Goodman. "Ovunque ci siano dei poveri che si riuniscono, gli ebrei ingrassano", fa dire a un terrorista palestinese. "America is one big Jew", dice un altro. Ma per Lisa e Ilsa Klinghoffer, le figlie della vittima, non è neppure quello il problema, quanto il fatto che "l'opera razionalizza, romanticizza e legittima l'uccisione di nostro padre". Dice un terrorista, Molqui: "Non siamo criminali né vandali, ma uomini di ideali".
Due settimane fa sono iniziati i picchetti di fronte al Met. "Metropolitan Nazi Opera", "Basta con l'odio, tagliate i fondi" e, in una domanda al direttore Gelb: "Stai prendendo dollari dei terroristi?". A protestare c'erano anche l'ex governatore di New York George Pataki, deputati come Eliot Engel, l'ex Attorney general Michael Mukasey, il padre di Daniel Pearl, il giornalista del Wall Street Journal decapitato dai talebani nel 2002. Il rabbino Avi Weiss ha guidato i momenti di preghiera fuori dal Met. A un baritono è stato dato del "fascista". Minacce telefoniche sono arrivate ai membri del cast, come Alan Opie, che ricopre il ruolo di Klinghoffer. Anche i leader dell'ebraismo riformato, solitamente in disparte in queste battaglie ideologiche, hanno condannato l'opera di John Adams. Il miglior commento viene forse da un editoriale del Wall Street Journal di Manuela Hoelterhoff, che accusa il "Klinghoffer" di "trasformare l'uccisione di un vecchio ebreo in sedia a rotelle in una gelida meditazione sul significato e il mito, la vita e la morte".
Il terrorismo antiebraico non dovrebbe essere mai edificante. Per questo l'opera di lAdams ha creato tali polemiche (non è certo la prima opera d'arte critica di Israele). Il finale sommesso crea tensione, un senso inquieto di attesa, che sfocia in una liberazione, una fatale e sinistra catarsi nutrita di equivalenza morale. Ieri un editorialista israeliano ha scritto: "Ricordate: si suonava musica anche ad Auschwitz".
(Il Foglio, 17 ottobre 2014)
Israele annuncia un incremento di misure di sicurezza sull'Ebola
GERUSALEMME - Israele ha annunciato un incremento delle misure di sicurezza sull'Ebola, con controlli delle temperature sui viaggiatori in arrivo dalle zone a rischio. Le misure sono state ordinate dal primo ministro Benjamin Netanyahu, dopo colloqui con responsabili sanitari e aeroportuali giovedi' sera. Il suo portavoce Mark Regev ha detto che entreranno in vigore immediatamente.
Un'esercitazione e' stata condotta all'Aeroporto internazionale Ben Gurion, in principale punto di entrata nello stato ebraico, in cui e' stato simulato l'arrivo di pazienti malati di Ebola. L'esercitazione includera' alcune domande iniziali, oltre a sgomberi e terapie ospedaliere, ha detto un funzionario di governo.
(ASCA, 17 ottobre 2014)
Col moschetto e la bambolina
La trovarono così, caduta in battaglia accanto al fucile e al giocattolo. Aveva 23 anni, Rita Rosani, ebrea e partigiana triestina, arruolatasi dopo la deportazione dei suoi amici.
di Anna Foa
Rita Rosani è l'unica partigiana italiana insignita di medaglia d'oro a essere morta in combattimento. Era di Trieste, era ebrea, aveva ventitré anni e i capelli rossi ed è caduta settant'anni fa, il 17 settembre del 1944, a nord di Verona, con una bambolina accanto al moschetto.
Ne narra la storia Livio Isaak Sirovich in un libro intenso e rigorosamente documentato, in cui si intrecciano strettamente due piani, quello del destino di Rita e quello dell'incontro dello storico con la sua vicenda. Lo scavo di Sirovich è al tempo stesso interiore e esteriore: interiore attraverso le lettere scritte da Rita al fidanzato, negli anni fra il 1940 e il 1943, quando il giovane si trovava al confino, e ritrovate grazie all'aiuto del collezionista Gianfranco Moscati; esteriore indagando i personaggi che le ruotarono intorno, i suoi percorsi di vita partigiana, il destino della sua memoria. Un libro bello e innovativo, proprio in questo intreccio di piani temporali e concettuali e nel disordine creativo che lo caratterizza e che ci rimbalza senza sosta dalla Trieste ebraica degli anni Trenta all'Italia del dopoguerra, da Ferramonti ad Auschwitz.
I genitori di Rita erano nati in Moravia ed erano emigrati a Trieste all'inizio del secolo. Nel 1927 avevano ottenuto la cittadinanza italiana e cambiato il nome da Rosenzweig in Rosani. Una famiglia tranquilla della borghesia triestina, integrata e pur consapevole della propria identità ebraica. Era Trieste una città complessa, percorsa da forti tensioni con gli sloveni e fortemente fascista, eredità della parte più nazionalista del suo irredentismo. Non dimentichiamo che è a Trieste che Mussolini annunciò per la prima volta le leggi antisemite il 18 settembre 1938. I migliori amici dei Rosani erano i Nagler, di origine galiziana, il cui figlio Kubi era fidanzato con Rita. Le leggi del 1938 incidono pesantemente sulla vita delle due famiglie, che perdono la cittadinanza e il lavoro e tirano avanti alla meno peggio, rifiutando però di accettare l'idea di emigrare di nuovo, questa volta verso le Americhe, come fanno molti loro parenti. Poi Kubi e suo padre vengono internati, prima nel campo di Ferramonti in Calabria, poi in Abruzzo, e a questi anni risalgono le lettere tra i due fidanzati, Rita e Kubi. Abbiamo solo quelle di Rita, lettere un po' frivole, piene di riferimenti a vestiti e balli. Non sono lettere colme di passione amorosa, fra i due in realtà esiste soprattutto una salda amicizia, tanto è vero che a un certo punto si lasciano, pur continuando a scriversi. Rimasto con i suoi al confino, Kubi sarà deportato ad Auschwitz sul convoglio partito dal binario 21 di Milano il 30 gennaio 1944, dove era anche Liliana Segre. Morirà nel campo con i suoi.
Diverso il destino di Rita, che alla fine del 1943, dopo varie peripezie, entra a far parte di una banda partigiana che opera nel veronese, ed è diretta dal colonnello Ricca, un monarchico, che sarebbe diventato suo compagno. Perché questa scelta di guerra, così anomala in una persona che avevamo conosciuto incline alle frivolezze? Sirovich fa balenare l'ipotesi che si tratti di una reazione alla notizia della deportazione di Kubi, le testimonianze non ci dicono molto del suo ruolo, sappiamo solo che era il ruolo di una combattente. Nel settembre 1944 i membri della banda vengono accerchiati dai fascisti. Ferita, Rita viene finita da un ufficiale repubblichino mentre invoca pietà. Tutti particolari emersi al processo tenutosi contro di lui nel dopoguerra per la morte di Rita in cui fu assolto.
«Non era una donna, ha detto dopo averla uccisa, era un bandito». Nel 1948, la medaglia d'oro a Rita, poi il silenzio. Fino alla scoperta, nel 1999, delle sue lettere e a questo bel libro.
Livio Isaak Sirovich, Non era una donna, era un bandito, CR Edizioni, pp. 400 € 18.00
(Avvenire, 17 ottobre 2014)
Cinema - A Napoli l'opera di quattro artisti israeliani
Documentario ad Artecinema dei registi premio Oscar Simon e Goodman
NAPOLI - Quattro grandi artisti israeliani contemporanei, il loro lavoro in atelier, la preparazione e l'inaugurazione di importanti mostre nei luoghi più alti dell'arte, dalla Biennale di Venezia al Louvre. E' questo il mondo in cui lo spettatore viene portato in "Four Israeli Artists", il documentario diretto dai registi israeliani Kirk Simon e Karen Goodman, vincitori dell'Oscar per "Strangers non more" sulla multiculturalità dei figli dei lavoratori immigrati in Israele. Il documentario sarà proposta stasera nel corso di Artecinema, la rassegna di film sull'arte contemporanea in corso a Napoli. I due registi si sono concentrati sui quattro artisti Sigalit Landau, Micha Ullman, Barry Frydlender e Michal Rovner. Lo spettatore condivide il loro punto di vista, li osserva creare, ascolta i commenti dei colleghi e dei curatori. Durante il film si torna al 2011, per osservare l'artista visuale Sigalit Landau impegnata nell'inaugurazione del padiglione israeliano alla Biennale di Venezia che ospitò le sue opere multimediali raccolte sotto il titolo "One man's floor is another man's feelings", una variazione scelta dall'artista del modo di dire "One man's floor is another man's ceiling" (il pavimento di uno è il soffitto di un altro, ndr). L'occhio dei registi si sposta poi sull'istallazione dell'artista Michal Rovner durante la costruzione della sua opera "Histories" commissionata dal Louvre nel 2011 ed esposta nella piazza accanto alla grande piramide del museo francese. L'artista in 'Histories' esplorò il tema dell'archeologia della memoria e del territorio con un'opera profondamente influenzata dai conflitti socio-politici in Medio Oriente, e con video proiettati sui muri che ricreavano l'ambiente di un sito archeologico. Gli altri due artisti seguiti nel documentario sono Barry Frydlender, fotografo che vive e lavora a Tel Aviv, ripreso mentre presenta le sue foto in una galleria di New York e Micha Ullman, durante l'inaugurazione di una grande retrospettiva all'Israel Museum.
(ANSAmed, 17 ottobre 2014)
Israele, tutti i 'turismi' possibili
Israele dai mille volti turistici: design, moda, musica, sport e altre occasioni di visita per un Paese che non è solo terra di pellegrinaggi. È questa la muova mission del ministero del Turismo israeliano, che il direttore generale Amir Halevi ha illustrato agli operatori nel corso della sua recente visita in Italia.
«Siamo il sesto Paese per numeri di crescita dall'Europa - ha sottolineato Halevi - e con l'aiuto degli operatori partner italiani possiamo mantenere la nostra posizione e forse conquistare qualche posizione in più».
La nuova offerta turistica d'Israele comprende tra l'altro il cicloturismo con gare nel deserto e in tutto il Paese, e ancora sport con quattro maratone: la prima nel deserto tra poche settimane e poi la Tiberias Marathon a gennaio, la Tel Aviv Marathon e la Maratona internazionale di Gerusalemme.
Focus anche sul turismo musicale, con vari festival come il Festival di Tamar in calendario a ottobre, la "Tosca" del prossimo giugno 2015 a Masada e la performance della Israel Opera Festival a Gerusalemme ed Akko. A completare l'offerta israeliana, il design e la moda con gli appuntamenti della Tel Aviv Holon Fashion and Design Week prevista a novembre: evento creato per promuovere una delle eccellenze più apprezzate d'Israele.
(Agenzia di Viaggi, 17 ottobre 2014)
«Israel, we love you!»
GERUSALEMME - Cristiani di tutto il mondo hanno dimostrato martedì pomeriggio la loro solidarietà con Israele nel centro di Gerusalemme. L'occasione è stata la tradizionale marcia per la festa delle Capanne. Decine di migliaia di persone si sono radunate in strada per assistere allo spettacolo.
Erano presenti anche rappresentanti delle forze di polizia, vigili del fuoco ed esercito, la compagnia aerea israeliana El Al, diverse banche e compagnie di assicurazione. Con cartelloni e buon umore si sono presentati organizzatori e "fans" di ogni raggruppamento.
La parte maggiore dei manifestanti era costituita da diverse migliaia di cristiani provenienti da circa 80 paesi, che sono venuti alla conferenza annuale della Ambasciata Cristiana Internazionale di Gerusalemme. In costumi colorati e con bandiere di vari paesi hanno marciato allegramente per le strade di Gerusalemme e distribuito bandiere nazionali e dolci tra gli spettatori. E continuamente hanno ripetuto "Chag Sameach" (Buona Festa!) o frasi come "La Cina vi ama".
Era rappresentata anche una delegazione delle isole Fiji: oltre ai 33 pellegrini, hanno preso parte anche i 45 dipendenti delle Nazioni Unite che alla fine di agosto sono caduti nelle mani degli estremisti islamici siriani di "Al-Nusra-Front". All'inizio di settembre sono stati liberati e adesso sono di stanza sul lato israeliano del Golan.
- "Inconcepibile, che questi siano cristiani!"
La Festa delle Capanne è una delle tre feste di pellegrinaggio che risale alla Bibbia. Amy, un partecipante che veniva dall'America, ha esclamato: "Zaccaria 14 invita le nazioni a celebrare la festa delle Capanne. E' una benedizione essere qui! "
Mentre alcuni israeliani sono rimasti piuttosto scettici davanti a un così appassionato amore per Israele - la diffidenza verso i cristiani a volte è molto forte - altri erano entusiasti. Jael, una studentessa dell'Università Ebraica di Gerusalemme, guardava insieme ad amici quello che stava accadendo: "Non so se ridere o a piangere. Durante tutto l'anno avvertiamo che il mondo intero è contro di noi. Una volta all'anno arrivano così tante persone da tutto il mondo e ci dicono che sono per noi. Inconcepibile, che questi siano cristiani! E' davvero toccante!"
Salih, un diciannovenne arabo,
... a proposito di apartheid!
appartiene a una delle forze di sicurezza. Ha fatto fatica a trattenere i disordinati presenti dietro la barriera. "Ma io voglio solo arrivare dall'altra parte", ha detto una donna anziana che tornava con i suoi acquisti dal mercato e aveva rimosso le barriere per arrivare al suo appartamento sul lato opposto della strada. Salih ha respinto la passante dicendole, nel suo fluente ebraico, che avrebbe dovuto aspettare circa un'ora. Alla domanda su quello che pensa davanti a tanto amore dei manifestanti per Israele, ha risposto: «Trovo che non è male. Quello che dicono in inglese non lo capisco, ma con gli ebrei comunque ci capiamo."
- Il saluto del Presidente Benjamin Netanyahu
(israelnetz.com, 16 ottobre 2014 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
Si possono avere riserve e valutazioni diverse su un avvenimento strano come questa periodica manifestazone di solidarietà cristiana con Israele, ma il tacerla sistematicamente non sembra essere un buon segnale di onestà. Diciamo grazie a Netanyahu che invece ha dato segno di accorgersene. Ha fatto questo solo per calcolo politico? Non siamo noi che possiamo dirlo, ma anche se fosse (e non è affatto dimostrato) ha fatto un buon calcolo. M.C.
Ebrei italiani, «ancora oggi tocca difendersi dall'ignoranza»
Ottimo articolo. Da diffondere
di Valerio Morabito
- Passano le stagioni, ma il pregiudizio non abbandona l'Europa
«Di passaggio a Fiumicino sento due turisti dire, sfogliando un giornale: "Fra guerre e attentati non si parla che di ebrei, che scocciatori". È vero, siamo dei rompiscatole, sono secoli che rompiamo le balle all'universo. Che volete. Fa parte della nostra natura». Con questa frase provocatoria Herbert Pagani, nel 1975 introduceva "Arringa per la mia terra". Un monologo che criticava la curiosa mozione dell'Onu, la quale paragonava il sionismo al razzismo. Gli anni passano, ma il pregiudizio nei confronti del popolo ebraico rimane. Sta lì, pronto a mostrarsi a fase alterne e in ogni settore della società. Lo trovi nella comicità francese, nei campi di calcio, nelle affermazioni di alcuni politici, nell'atteggiamento del signore o della ragazza che si trova vicino a te sul treno. E' un germe, un virus invisibile da cui il vecchio continente, in particolar modo, non è mai riuscito a guarire. Sono cambiate le dominazioni, si è conclusa l'egemonia medievale della chiesa cattolica, è calato il sipario sui nazionalismi ottocenteschi e sulle dittature del Novecento, ma la diffidenza verso l'ebreo e il suo modo di vivere, di guardare il mondo è sempre motivo di odio e violenza.
- «Nell'ultimo periodo c'è stato un incremento di aliyah»
Ad agosto il settimanale americano "Newsweek" aveva denunciato l'antisemitismo europeo nei giorni della guerra di Gaza. Un reportage che aveva fatto il giro del mondo. Parole e foto in grado di impressionare. Si, perché quando si leggeva «morte agli ebrei» e nei servizi dei telegiornali si assisteva alle manifestazioni in cui si urlavano slogan antiebraici, c'era l'impressione di essere tornati indietro nel tempo. Invece è accaduto oggi, nel nuovo millennio. Nell'epoca della globalizzazione e dei tecnologici mezzi di informazione. Stephen Kramer, dell'America Jewish Committee, ha ribadito che «in Europa la minoranza ebraica non è più al sicuro». La stessa aria si respira in Italia. A confermalo è una donna ebrea di Roma, che per questioni di privacy preferisce rimanere anonima: «Molte persone che conosco sono preoccupate per il clima che sta prendendo piede in Europa e nell'ultimo periodo c'è stato un incremento di aliyah», ovvero l'immigrazione ebraica nella terra di Israele.
- Se per mangiare una pizza serve la sicurezza
Un profondo mutamento sociale sta avvenendo sotto i nostri occhi e non riusciamo ad accorgerci di nulla? Probabilmente è così. Le donne e gli uomini della Comunità ebraica di Roma, e in generale di tutto il Paese, devono pensare ogni giorno alla loro sicurezza. L'incolumità, se si è ebrei, non è scontata. Questa signora romana racconta la presenza della camionette delle forze dell'ordine nella zona ebraica, «che presidiano l'entrata al ghetto e alla Sinagoga. Ormai fanno parte del paesaggio, però a rifletterci bene, è agghiacciante che debbano esserci». Anche per mangiare una pizza, per esempio, gli ebrei romani sono costretti a contattare la sicurezza della comunità, che deve presidiare la serata. Nell'ultimo periodo, infatti, succede che ebrei, simpatizzanti e appassionati di Israele si incontrino per stare insieme e manifestare in maniera pacifica e allegra la loro solidarietà allo Stato mediorientale, tramite l'evento "Pizza for Israel". Ecco, in questo caso il ristorante deve essere controllato.
- «Internet ha grosse responsabilità»
Gli ebrei si sono insediati in Italia da molti secoli. Hanno partecipato e partecipano alla vita pubblica e sociale della nazione. Alcuni di loro si sono contraddistinti in vari campi, eppure, racconta l'interlocutrice, «ancora oggi tocca difendersi dall'ignoranza di chi ti vede come uno straniero». A volte «dobbiamo replicare a certi politicanti che si svegliano la mattina e decidono che i tuoi riti, come la circoncisione e la kasherut, dovrebbero essere vietati». Il clima non è ottimo, anzi è peggiorato e una delle cause è la crisi economica, «che ha portato a una tale esasperazione che bisogna per forza trovare un colpevole e da sempre l'ebreo è il capro espiatorio perfetto». Già, e non è un discorso di destra o sinistra. L'antisemitismo è bipartisan, trasversale e non si annida soltanto nelle frange estreme dei diversi movimenti. Pier Paolo Pasolini, a tal proposito, era stato sin troppo esplicito in tempi non sospetti. Una questione mai risolta e in questo non possono giungere in soccorso le rinnovate tecnologie comunicative: «Internet - afferma la donna di Roma - ha grosse responsabilità, perché se da una parte rappresenta una grande finestra sul mondo, dall'altra ha dato il via libera a un fenomeno difficilmente arginabile, quello della diffusione di pagine che dispensano odio e pregiudizi a profusione. E, ahimè, sono molto seguite». E' normale, in un contesto del genere, che gli ebrei italiani riflettano se sia meglio emigrare. Hanno già sofferto molto in passato e il ricordo della Shoah è sempre vivo. «I giovani - sottolinea la donna - sono sensibilizzati fin da piccoli su ciò che ha significato la Shoah, anche perché molti fanno parte di famiglie che sono state decimate». Soprattutto per un simile motivo, assistere alla riedizione di vecchi slogan e gesti violenti è qualcosa di inaccettabile, incomprensibile.
(Blogtaormina, 16 ottobre 2014)
In mostra in più antico libro ebraico di preghiere o Siddur
Fino al 18 ottobre presso il Museo delle Terre della Bibbia di Gerusalemme.
Il più antico libro della liturgia ebraica - di 1200 anni fa - è stato esposto all'interno della mostra internazionale "Il Libro dei Libri" presso il Museo delle Terre della Bibbia di Gerusalemme dal 19 settembre fino al 18 ottobre, giorno di chiusura della mostra che, per la sua eccezionalità, è stata prolungata di 6 mesi.
Il testo, di 50 pagine, è scritto su pergamena in ebraico antico e include parti delle preghiere del Sabato (Sabbath) mattina, inni liturgici, e l'Haggadah della Pasqua ebraica. Il libro è stato fatto risalire al periodo geonico in Babilonia ed è stato preso in prestito dalla Green Collection, una vasta collezione di manufatti biblici di proprietà di Steve Green, Presidente del Museo stesso.
ll libro di preghiere, che è lungo circa 50 pagine, è scritto in ebraico ed è ancora nella sua rilegatura originale e proviene dal Medio Oriente. Utilizzando sofisticati metodi di datazione al carbonio si è scoperto che si tratta del più antico libro ebraico di preghiera esistente, datato alla prima metà del IX secolo d.C. durante il periodo dei Geonim babilonesi, che erano i capi spirituali generalmente accettati dalla intera comunità ebraica nei primi anni del Medioevo. Lo studio del testo è in corso e dovrebbe concludersi nel 2015.
Fu durante questo periodo che Amram Gaon, uno dei principali Geonim, scrisse per la prima volta una liturgia ordinata per l'uso in sinagoga e in casa. Questo innovativo libro di preghiere serve ancora come base per il servizio di preghiera nelle comunità ebraiche in Israele e nel mondo. Il libro di preghiera contiene tre parti principali, il servizio di mattina, le poesie liturgiche e l'Haggadah, la lettura durante il Seder della Pasqua Ebraica.
Il libro di preghiere è stato acquistato lo scorso anno per la Green Collection con sede a Oklahoma. La collezione, che ha costituito una parte importante della mostra "Il Libro dei Libri" presso il Museo delle Terre della Bibbia di Gerusalemme, sarà ospitata permanentemente presso il Museo della Bibbia, che è attualmente in costruzione a Washington D.C.
La mostra "Il Libro dei Libri", presentata in collaborazione con Verbum Domini, espone i più importanti testi biblici mai visti in Israele in un'unica esposizione. La mostra, che ripercorre le radici ebraiche del Cristianesimo e la diffusione della fede monoteistica, presenta, tra gli altri, i frammenti dei Settanta, le prime Scritture del Nuovo Testamento, splendidi manoscritti miniati, rari frammenti provenienti da Geniza del Cairo e le pagine originali della Bibbia di Gutenberg .
(Master Viaggi, 16 ottobre 2014)
Museo della Shoah. Intesa nella Comunità ebraica per Villa Torlonia
Il Museo della Shoah di Roma sarà a Villa Torlonia. Lo ha deciso all'unanimità il collegio della Fondazione.
di Claudia Voltattomi
Ci sono voluti dieci anni dal primo annuncio. Ci sono voluti polemiche, attacchi frontali, appelli, dimissioni (poi ritirate). Ma da ieri Roma avrà il suo Museo della Memoria a Villa Torlonia. L'ok definitivo alla sede è stato dato all'unanimità dal collegio dei fondatori della Fondazione Museo della Shoah. I lavori dovrebbero cominciare entro gennaio, appena il Campidoglio affiderà l'appalto. Nel frattempo, la Casina dei Vallati, offerta dal Comune come sede della Fondazione, diventerà il luogo per la formazione di studenti e professori. «Un successo per la città e l'Italia», esulta il sindaco Ignazio Marino, e il governatore Nicola Zingaretti parla di «una bella pagina della storia della città di Roma». Anche Renzo Gattegna, presidente delle Comunità ebraiche d'Italia, esprime «soddisfazione per la delibera all'unanimità».
La decisione di ieri è arrivata dopo mesi di polemiche culminate con le dimissioni dalla Fondazione del presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici che si faceva carico delle richieste dei sopravvissuti di «fare presto». Dimissioni ritirate proprio ieri pomeriggio durante il Cda. Già domenica sera, il consiglio della Comunità aveva chiesto a Pacifici di tornare sulla sua decisione. E poi ieri è arrivata la lettera aperta di Marino e Zingaretti. Un vero e proprio appello in cui sindaco e governatore ribadiscono il loro «impegno comune per combattere ogni forma di antisemitismo, per restituire alle vittime della Shoah, romane e non solo, il giusto tributo, per onorare i sopravvissuti». E ricordano «d'impegno del progetto del Museo assunto con la città, con la Comunità ebraica e con le nostre coscienze civili». Per questo, scrivono, «malgrado le tante difficoltà, siamo nelle condizioni di pensare serenamente al futuro». E per farlo, continuano «abbiamo bisogno anche del tuo sostegno e della tua passione umana e civile».
Così Pacifici torna sui suoi passi. E lo fa nel giorno in cui si ricorda il rastrellamento nazista nel Ghetto. Ieri è stata celebrata la giornata del ricordo di quel 16 ottobre 1943, quando 1.024 ebrei romani furono arrestati e deportati dal nazisti nei campi di sterminio. Diverse corone sono state deposte sulle mura della Sinagoga e anche Matteo Renzi ha inviato una lettera «affettuosa» a Pacifici: «È importante che il premier tenga a cuore una ferita ancora così aperta». E propone l'idea di viaggi della Memoria «anche nei luoghi della Liberazione, come in Normandia, per non ricordare solo l'annientamento, ma per onorare quanti hanno perso la vita». Intanto, domenica prossima circa 200 studenti romani partiranno per Auschwitz e Birkenau.
(Corriere della Sera - Roma, 16 ottobre 2014)
Fondo Monetario Internazionale: economia israeliana a +2,8% nel 2015
Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha previsto per il 2015 una crescita del 2.8% dell'economia israeliana. Piu' caute le previsioni del Central Bureau of Statistics israeliano che aveva stimato una crescita del 2%. Le previsioni del FMI collimano, invece, con quelle della Banca d'Israele e del Ministero delle Finanze che si aspettano una crescita oscillante tra il 2.8% e il 3%. Il FMI ha stimato, inoltre, che nel 2014 l'inflazione si chiudera' con un +0.8%, il piu' basso aumento dal 2007. Il tasso di disoccupazione, invece, dovrebbe rimanere stabile al 6%.
(Tribuna Economica, 15 ottobre 2014)
IV edizione del Bird Festival presso la Valle di Hula
ROMA - 15 ott Ai nastri di partenza la quarta edizione del Bird Festival della valle di Hula Valley che si terrà dal 16 al 23 novembre 2014 e metterà in evidenza la magnifica valle di Hula e il nord di Israele, decisamente una delle più incredibili destinazioni nel mondo per il birdwatching. Centinaia di birdwatcher provenienti da una dozzina di paesi hanno già partecipato al festival, registrando più di 200 specie diverse di uccelli, così come 12 specie diverse di mammiferi. I partecipanti al Festival potranno fruire di un programma completo di birdwatching che comprende visite all'interno dell'area condotte da birdwatcher esperti e da guide turistiche, tutti specializzate e con una profonda conoscenza del territorio e degli uccelli. I momenti salienti dell'esperienza di birdwatching comprenderanno visite guidate e dimostrazioni sonore nella valle di Hula e in tutto il nord di Israele. Il programma completo di birdwatching può essere consultato online.
Mentre le giornate saranno piene di attività dall'alba al tramonto, durante le serate si svolgeranno presentazioni sugli uccelli nel salone dell'hotel Pastoral Hotel Kfar Blum; saranno anche disponibili pacchetti di birdwatching per quei partecipanti che desidereranno organizzare autonomamente il proprio soggiorno. La valle di Hula è al suo meglio autunno inoltrato quando sono presenti decine di migliaia di gru comuni e di pellicani così come oltre 25 specie di rapaci. Inoltre, gli osservatori possono godere della rara e ambita opportunità di vedere specie come il Picchio Rosso Maggiore e le E. Aquile imperiali, l'Albanella pallida e molte altre ancora. Specie locali come il Francolino nero, il Cormorano minore e tre specie di Martin Pescatore offrono straordinarie opportunità di spettacolo e di foto. Il festival è un'iniziativa congiunta tra il Centro Ornitologico Israeliano del SPNI, il Ministero Israeliano del Turismo, il Centro Internazionale per lo Studio della Migrazione dei Volatili, il Latrun e la Fondazione Upupa.
(Prima Pagina News, 15 ottobre 2014)
Israele pronto a svendere i porti
di Abele Carruezzo
Domenica scorsa il Governo di Israele ha approvato la proposta del primo ministro, Benjamin Netanyahu, di svendere i porti statali. Una proposta strategica che mira a ridurre il debito pubblico dello Stato, sempre impegnato a sostenere spese continue per la difesa.
La proposta è stata formulata dal Ministero delle Finanze israeliano e si articola in un piano triennale di vendite di beni dello Stato, tra cui i suoi due principali porti, Ashdod ed Haifa. Detto piano che servirà principalmente per rafforzare il suo mercato dei capitali intende fare cassa per ridurre il debito nazionale del Paese; in più tale proposta di riforma dei beni dello Stato consentirà una maggiore trasparenza per le aziende di Stato.
Infatti, "questo è un altro passo che mira a fermare la politicizzazione delle aziende pubbliche e a ridurre la corruzione nelle imprese", ha detto il ministro delle Finanze Yair Lapid, aggiungendo che la vendita al massimo del 49% del capitale delle imprese di proprietà statale porterà circa 4 miliardi di dollari in entrate extra nel bilancio dello Stato. Nel 2015 il Governo israeliano cercherà di vendere il secondo porto del Paese, Ashdod, unitamente ad un pacchetto di azioni minoritarie di Israele nella società di distribuzione del gas naturale e l'Azienda Statale delle Poste.
Tra le aziende in programma per la privatizzazione nel 2016 ci sarà il porto di Haifa e la Industrie Aerospaziali Israeliane. Il Ministro delle Finanze ha detto inoltre che "mentre alcune aziende, come le Ferrovie e l'Azienda Postale, le cui azioni, saranno vendute tramite la Borsa di Tel Aviv, altre società tra cui quelle che gestiscono i porti saranno vendute a privati in un unica soluzione/fase o in più fasi". Ricordiamo che i porti israeliani stanno subendo una ristrutturazione ed ammodernamento nelle infrastrutture e nei servizi ad opera di una ditta cinese che si è garantito l'appalto.
(il Nautilus, 15 ottobre 2014)
Shoah: al Tempio Maggiore il ricordo della deportazione del 16 ottobre 1943
Tre corone per non dimenticare quella tragica mattina del 16 ottobre 1943. Alla vigilia dell'anniversario della deportazione degli Ebrei romani dal ghetto, i massimi esponenti della comunità ebraica e della Regione si sono riuniti di fronte al Tempio Maggiore per ricordare quel tragico evento che ha segnato drammaticamente la storia della seconda guerra mondiale. Un momento da accostare anche alla rinascita della democrazia dalle ceneri di Auschwitz come ricorda il Presidente della Comunità scientifica di Roma Riccardo Pacifici. Zingaretti, presente alla commemorazione, ha tenuto ha ribadire l'importanza a livello mondiale, del Museo romano della Shoa. (Servizio di Cristina Pantaleoni - Agenzia MeridianaNotizie)
(Il Messaggero, 15 ottobre 2014)
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Renzi a Pacifici, impegno a far tacere il negazionismo
"I sopravvissuti all'inferno dei campi di sterminio, - scrive Renzi a Pacifici - solo a distanza di anni dalla liberazione, sono riusciti a trovare la voce per raccontare le sevizie fisiche e psicologiche inferte loro. Queste testimonianze - prosegue il premier - portate in tante scuole o direttamente negli stessi campi, sono accolte dai ragazzi in un silenzio assordante per rimanere come come un segno indelebile nei loro cuori". "E' importante - prosegue il premier nella lettera - continuare a diffondere questo messaggio ai giovani affinché capiscano a quali tragiche ed inimmaginabili conseguenze possano condurre i germi dell'intolleranza che spesso si annidano nell'animo umano"."Con questo pensiero - conclude Renzi - mi rivolgo a lei, presidente, per trasmettere a tutta la Comunità romana il mio commosso saluto e per rinnovare l'impegno, non solo mio ma di tutto il governo, a coltivare la memoria di quanto è avvenuto, a fare in modo che razzismo e intolleranza siano sempre combattuti con il massimo sforzo e che le voci negazioniste siano messe a tacere con tutti i mezzi possibili".
(Sassari Notizie, 15 ottobre 2014)
Parlamento britannico "riconosce" lo stato palestinese. Lo Spectator: mossa arrogante e inutile
Il Parlamento britannico ha approvato, quasi all'unanimità (274 a favore contro 12), una mozione che invita il Regno Unito a riconoscere lo stato palestinese. Per Douglas Murray, editor dello Spectator, «questa non è solo una mossa arrogante, ma inutile, non da ultimo perché il governo Cameron ha già detto che ignorerà il voto».
La mozione della Camera dei Comuni, arrivata a pochi mesi dalla fine dei reciproci bombardamenti fra Hamas e stato di Israele, ha un valore simbolico e non impegna il governo a riconoscere alle istituzioni palestinesi la piena sovranità sui territori di Gaza e Cisgiordania. La scelta dei parlamentari britannici «può sembrare una mossa positiva - spiega Murray - ma in realtà è soltanto una decisione presa da un gruppo di stranieri che afferma di conoscere la situazione degli israeliani e dei palestinesi meglio di loro e dei loro governi».
MOSSA INGENUA - Murray parla di «mozione preoccupante». Secondo la penna del settimanale britannico, il voto di Westminster «dimostrano una sorprendente ingenuità». Da una parte, «spinge verso la nascita di un nuovo status quo per Israele e per la Palestina, senza l'accordo dei partner sul terreno», dall'altra, riconoscere lo "stato palestinese" è tanto assurdo quanto lo sarebbe riconoscere il califfato islamico di Isis. «Lo "stato palestinese" consiste infatti in un "governo di unità nazionale", anche se litigioso, tra l'Autorità palestinese (Ap) guidata da Mahmoud Abbas e i terroristi di Hamas (il ramo palestinese dei Fratelli Musulmani)».
CALIFFATO IN PALESTINA - Questo governo di unità, probabilmente, non durerà molto: «Nel 2007, Hamas espulse l'Autorità palestinese da Gaza e lo stesso aspira a fare in Cisgiordania». Già ad agosto «Abbas ha accusato Hamas di contrabbandare denaro e munizioni in Cisgiordania per organizzare un colpo di stato contr0 l'Autorità palestinese». Riconoscere lo stato palestinese significa dunque riconoscere Hamas, un'organizzazione che oltre a invocare la distruzione di Israele, si è augurata in passato la conquista di Roma e dell'Andalusia. «Il riconoscimento dello stato palestinese sarà inevitabilmente visto, dai popoli della regione, come l'approvazione di queste aspirazioni».
LA SOLUZIONE? I COLLOQUI - «C'è una soluzione alla situazione israelo-palestinese». Secondo Murray, si deve basare sugli accordi di pace fra le due parti, «sulla fiducia di entrambi gli attori nel fatto che l'altro cercherà di giungere ad una soluzione comune». «Senza un accordo bilaterale, non ci potrà mai essere una vera pace». Murray ricorda che il motivo per cui gli israeliani non possono attualmente concordare una soluzione con la Autorità palestinese è proprio perché «si è alleata con un gruppo terrorista che cerca di fare, in Palestina, ciò che l'Isis sta cercando di fare in Siria».
(Tempi, 15 ottobre 2014)
Londra riconosce la Palestina. E piovono miliardi su Hamas
Israele furente per il voto del Parlamento inglese spinto dai laburisti Così i fondi donati dall'Occidente per ricostruire finanzieranno i violenti.
di Fiamma Nirenstein
I palestinesi sono di ottimo umore in questi giorni: al supermarket della storia hanno comprato alcuni grossi successi in cambio di niente. E «niente» non è una merce che a un tavolo delle trattative possa essere scambiata. Se chiedi 4 miliardi di dollari per riparare i guai che tu hai combinato, senza nemmeno offrire una garanzia di gestione, e invece una cinquantina di Stati al Cairo si affrettano a mettertene in mano 5 e mezzo per la ricostruzione di Gaza, perché mai dovresti cercare di trattare la pace? Puoi avere tutto senza dare niente.
Inoltre, sono giorni davvero dorati: un Paese come l'Inghilterra (preceduto pochi giorni fa dalla Svezia) ha votato in parlamento il riconoscimento di uno Stato palestinese i cui confini e i cui doveri non sono mai stati definiti, uno Stato non democratico che predica la violenza. Dunque perché mai i Palestinesi dovrebbero trattare confini che l'Inghilterra stabilisce per loro ai confini del ?67, perché dovrebbero rinunciare alla violenza e ad Hamas, un'organizzazione terrorista che dichiara senza problemi che distruggerà lo Stato d'Israele? Sono 138 gli Stati che riconoscono la Palestina, ma Svezia e Inghilterra sono le prime in Europa.
Una cosa è certa: è più facile che ne esca una guerra che una pace; di nuovo l'America, e a ruota l'Europa, sbagliano strada, proprio come quando Obama ha ritirato i suoi uomini dall'Iraq: da un gesto pacifista, è uscita fuori l'Isis. Ovviamente, nessuno vuole ammettere che questi miliardi saranno alla fine gestiti dal reale padrone della Striscia, Hamas, l'organizzazione terrorista che ha causato il disastro di Gaza e che, nonostante le distruzioni e i morti, ne tiene le chiavi. Il mondo, e anche noi, desidera la salvaguardia della popolazione, ma non di Hamas: invece, Abu Mazen e Fatah, il guardiano del tesoro che controllerà il passaggio del denaro e dei materiali da costruzione, sono parte di un governo di coalizione con Hamas, travestito da esecutivo tecnico. Intanto, comunque, dei 5 miliardi, 1,5 è dono del Qatar, e questo sarà certo depositato nelle mani di Hamas, finanziata e ospitata da quel Paese, che potrà comprare altri missili e costruirà nuove gallerie.
Nel 2012, dopo l'operazione israeliana «Pilastri di Difesa», Gaza ricevette 5 miliardi e 400mila dollari: la quantità di infrastrutture belliche e soprattutto l'infinita rete di gallerie per introdurre terroristi costruiti con quel denaro disegnano il futuro. I soldi che verranno donati, compresi i venti milioni dell'Italia, forse saranno gestite dal Pegase, il meccanismo ad hoc per i Palestinesi: l'agosto scorso ha versato 31 milioni e seicentomila euro, di cui 23 sono andati a Gaza. L'Unrwa, l'organizzazione Onu per i profughi palestinesi, è uno dei grossi destinatari del denaro: nonostante gli scopi educativi, l'Unrwa è un sistema gigantesco di reclutamento e militanza, i suoi lavoratori appartengono a Hamas e a Fatah, i suoi sistemi educativi sono antisraeliani, le sue strutture, rifugi segreti. L'erogazione regolare di enormi somme è stata giudicata da una commissione dell'Unione Europea stessa «corrotta» e «approssimativa».
I milioni versati per gli impiegati di Fatah sono andati incontrollabilmente anche a uomini di Hamas. Molto denaro è usato per versare stipendi mensili di 3000 o 4000 euro a terroristi nelle carceri palestinesi. In più, le Ong che l'Europa finanzia spesso sono basi di incitamento, e invece di aiutare donne e bambini ne fomentano l'odio. Insomma un quadro che promette guerra, e non pace.
Lo stesso per il voto del parlamento inglese, spinto dai Laburisti (con l'astensione del governo) per ammiccare a quella parte dell'opinione pubblica scesa in piazza per Gaza: è triste che la più antica democrazia del mondo tratti così la democrazia più eroica nel mezzo del terremoto mediorentale.
(il Giornale, 15 ottobre 2014)
Chi ha detto che con quei soldi Hamas non costruirà case per i palestinesi? Le costruirà, le costruirà. E trattandosi di case nuove, nel progetto potrà essere previsto fin dallinizio lo spazio per collocarvi le rampe dei missili. Il loro lancio servirà a colpire Israele, la successiva distruzione delledificio per reazione, con relativa morte di inquilini, soprattutto bambini, servirà ad ottenere le simpatie della comunità internazionale e i fondi per mandare avanti il processo di pace. Come lintende Hamas, ovviamente. M.C.
"Eliminate Israele da quella mappa!"
di Khaled Abu Toameh *
Di recente, il canale televisivo saudita MBC è stato costretto a chiedere scusa alle sue centinaia di milioni di telespettatori per aver usato il nome Israele invece di Palestina. Le scuse sono arrivate dopo che i telespettatori hanno fermamente condannato il network, minacciando di boicottare i suoi programmi per aver utilizzato una mappa recante il nome di Israele. Il motivo per cui Israele è apparso su questa mappa è stata la partecipazione di due giovani arabi israeliani al popolare talent show Arab Idol. Il programma, la versione mediorientale del britannico Pop Idol, è il più visto nel mondo arabo.
I due arabi israeliani, la 25enne Manal Moussa e il 24enne Haitham Khalilah, vengono da villaggi del nord di Israele. Fanno parte dei numerosi concorrenti provenienti da tutto il mondo arabo che interpretano canzoni su un palco di fronte a quattro giurati e al pubblico. Questa è la prima volta che degli arabi israeliani partecipano al popolare show. A metà settembre, quando ha avuto inizio il programma di questa nuova stagione, l'emittente televisiva ha presentato una mappa con i nomi dei paesi di appartenenza dei concorrenti. Quest'anno, ovviamente, è stata mostrata la mappa di Israele, essendo uno dei paesi presenti allo show.
La MBC e i registi di Arab Idol hanno rapidamente capito di aver commesso un grave e imperdonabile crimine. In pochi minuti, sono stati inondati di richieste per eliminare Israele dalla mappa e chiedere scusa agli arabi per questa "grave offesa". Parole di condanna sono arrivate non solo dai palestinesi, ma da quasi tutti i paesi arabi. I contestatori hanno chiesto all'emittente di sostituire immediatamente "Israele" con "Palestina" altrimenti avrebbero dovuto far fronte a una massiccia campagna di boicottaggio. Gli attivisti arabi non hanno nemmeno aspettato la risposta della MBC e hanno lanciato la loro campagna online per boicottare l'emittente televisiva. Un gruppo ha avviato una campagna su Twitter intitolata "Fermiamo Arab Idol". Una terza campagna online è stata intitolata "Tutti insieme contro Arab Idol".
E naturalmente ci sono stati gli attivisti più estremisti intenti a lanciare minacce contro il canale televisivo e i suoi proprietari sauditi, che hanno soprannominato "arabi sionisti". Non sorprende che gli assediati manager della MBC si siano precipitati a rilasciare una dichiarazione per chiedere scusa di aver mostrato un mappa che indicava Israele come uno Stato esistente. La MBC ha asserito che Israele è apparso sulla mappa per un "errore tecnico". Il nome di Israele è stato rimosso dalla mappa, che ora utilizza solo il nome Palestina.
Ma anche così facendo, la storia non è finita. Messi sotto pressione dai telespettatori, i due cantanti arabi israeliani sono ora indicati come palestinesi. Non si menziona affatto che Moussa e Khalailah sono cresciuti in Israele e hanno un passaporto israeliano. Il pandemonio scoppiato in tutto il mondo arabo per una mappa sulla quale c'era scritto il nome di Israele serve a ricordare che molti arabi non accettano l'esistenza di Israele - e a quanto pare non sono interessati a farlo.
Questo rifiuto non è legato alla recente guerra tra Israele e Hamas o alla costruzione degli insediamenti. Piuttosto, esso è la trama dominante nel mondo arabo dal 1948 - una visione che considera Israele un'entità aliena che si è insediata brutalmente in Medio Oriente e che va rimossa. Il caso del programma Arab Idol è scoppiato proprio mentre circolavano presunte voci riguardo la disponibilità di alcuni paesi arabi a fare pace con Israele, alla luce della crescente agitazione e anarchia che serpeggiano nel mondo arabo e della guerra mossa al gruppo terroristico dello Stato islamico.
Ogni tanto, qualche paese amico di Israele gli consiglia di prendere in considerazione la possibilità di sostenere l'iniziativa di pace saudita del 2002, che in seguito è stata ribattezzata iniziativa di pace araba. In base a questa iniziativa, i paesi arabi asseriscono che se Israele si ritirasse ai confini antecedenti al 1967 essi prenderebbero in considerazione la possibilità di mettere la parola fine al conflitto arabo-israeliano, firmerebbero un accordo di pace e stabilirebbero relazioni normali con Israele.
Queste, naturalmente, sono solo promesse fatte dai capi di Stato e dai monarchi, la maggior parte dei quali non sono mai stati eletti, e difficilmente rappresentano la comune opinione degli arabi. Se un potente network televisivo come MBC non ha potuto fronteggiare le pressioni e le intimidazioni e ha dovuto eliminare Israele dalla sua mappa, come ci si può seriamente aspettare che i leader arabi saranno in grado di ottenere il sostegno dei propri cittadini a un'iniziativa che intende "stabilire relazioni normali" con Israele?
E come ci si può seriamente aspettare che, se Israele si ritirasse ai confini antecedenti al 1967, il mondo arabo prenderebbe in considerazione "la possibilità di mettere la parola fine al conflitto arabo-israeliano?" I contestatori che hanno costretto la MBC a eliminare Israele dalla sua mappa non hanno invocato una soluzione dei due Stati e un ritiro israeliano dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza. Essi hanno protestato contro l'esistenza di Israele, che è ciò che realmente li preoccupa.
Essere riusciti a costringere l'emittente televisiva a eliminare Israele dalla mappa è una vittoria simbolica per chi vuole la distruzione di Israele. Ma serve anche a ricordare che questo conflitto non riguarda un accordo, un posto di blocco o un recinto di sicurezza - ma la stessa esistenza di Israele. Per fare pace con lo Stato ebraico, il mondo arabo deve preparare la gente a un simile passo e non istigare alla violenza contro Israele e chiedere che esso venga eliminato dalle mappe. In caso contrario, le prospettive di una pace reale rimarranno remote come sempre.
* Gatestone Institute
(L'Opinione, 15 ottobre 2014 - trad. Angelita La Spada )
Hamas vuole lo Stato Islamico
di Stefano Magni
Dopo la breve guerra a Gaza contro Israele, Hamas cantava vittoria. Adesso può ben dirsi vincitore. Da un punto di vista diplomatico, ma soprattutto economico, è come se avesse fatto jackpot al Casinò.
La Svezia ha già, di fatto, riconosciuto lo Stato Palestinese. Il neo-eletto premier socialdemocratico Stefan Lofven, nel suo discorso inaugurale, ha subito posto in agenda il riconoscimento ufficiale della Palestina. In Gran Bretagna, Ed Miliband, leader del Partito Laburista, ha promosso e ottenuto una risoluzione analoga, votata a gran maggioranza dal Parlamento a Londra. Gran Bretagna e Svezia, come tutti gli altri Paesi dell'Unione Europea, si erano finora astenuti sulla questione, tutte le volte che era arrivata all'Onu. Ora la musica è cambiata, completamente. L'Europa si schiera dalla parte della Palestina, per ora per fare pressioni su Israele, ma in futuro potrebbe esserci un allineamento dei Paesi Ue a favore del riconoscimento dell'indipendenza palestinese, unilaterale e senza alcun accordo sui confini con lo Stato ebraico.
Da un punto di vista economico, il presidente dell'Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen) chiedeva 4 miliardi di dollari per la ricostruzione di Gaza dopo il conflitto estivo. Ne ha ottenuti ben 5,4. I maggiori finanziatori sono i Paesi arabi, con il Qatar in testa che si piazza primo nella classifica dei donatori, con ben 1 miliardo di dollari. Ma anche i fondi dall'Ue sono consistenti: 450 milioni di dollari. E gli Stati Uniti, dal canto loro, invieranno 212 milioni, pur essendo i maggiori, ormai praticamente unici, alleati di Israele. Quei 212 milioni di dollari, benché relativamente pochi rispetto alla maxi-donazione del Qatar, sono comunque di più rispetto agli aiuti forniti a Israele per il suo programma di difesa anti-missile.
Unione Europea e Stati Uniti sono convinti che l'aiuto economico e l'apertura diplomatica servano a calmare le acque. Ragionando da occidentali, pensano infatti che combattendo la povertà della Striscia di Gaza, ricostruendo le case e le infrastrutture distrutte durante la guerra e magari riconoscendo anche l'indipendenza a cui aspira Abbas (ufficialmente) si aiutino le correnti più moderate all'interno dell'Autorità Palestinese. Hamas, però, ancora prima di ottenere la promessa dei miliardi arabi e occidentali, aveva già dichiarato quali fossero le sue intenzioni. Durante la cerimonia di commemorazione dei poliziotti palestinesi uccisi nell'ultima guerra, uno dei leader di Hamas, Mahmoud al Zahar lo ha spiegato in modo inequivocabile: "Alcuni dicono che Hamas voglia creare un emirato islamico a Gaza. Non vogliamo questo: noi vogliamo creare uno Stato Islamico in Palestina, in tutta la Palestina". Per "Palestina", è bene ricordarlo, non si intende l'insieme dei territori di Cisgordania e Gaza, su cui Abu Mazen accampa le sue pretese di indipendenza, ma tutto il territorio dal Giordano al Mediterraneo, compreso lo Stato di Israele. La cui distruzione è preliminare, nel progetto di Hamas. "Noi sappiamo esattamente come liberare la terra di Palestina - continua al Zahar - e sappiamo come colpire ogni singolo centimetro di essa, con le nostre mani, le nostre menti e i nostri soldi". Che gli forniamo noi, contribuenti europei, americani, occidentali.
A bu Mazen c'entra, in tutto questo progetto sanguinario che ricorda (anche nei termini) quello dell'Isis in Iraq e Siria? C'entra eccome, perché prima e durante la guerra il presidente palestinese e il suo partito Fatah avevano formato un governo di unità nazionale con Hamas. Tuttora il patto non è stato violato. E alle operazioni contro Israele hanno partecipato anche i miliziani del braccio armato di Fatah, oltre a quelli di Hamas.
Riassumendo: Hamas, con il pieno appoggio di Fatah, ha deliberatamente provocato il conflitto con Israele, rapendo e assassinando tre ragazzini ebrei (che non centravano nulla con la guerra) e poi lanciando razzi contro i civili israeliani. La guerra ha causato gravi distruzioni a Gaza e più di 2000 morti. E così facendo, la Palestina si è accaparrata 5,4 miliardi di dollari "per la ricostruzione" e il riconoscimento preliminare di Svezia e Gran Bretagna. Il tutto dichiarando esplicitamente, per bocca di un leader di Hamas, di voler proseguire nella sua aggressione ad Israele. Con i nostri soldi.
(L'Opinione, 15 ottobre 2014)
Dai Comuni di Londra alla Fiera di Francoforte, grande assalto a Israele
Parlano Samuels e Cassuto: "Il male della Shoah viene fuori". Il console cacciato dal festival del cinema a Carpentras.
di Giulio Meotti
ROMA - Lunedì notte i parlamentari inglesi, riuniti nella Camera dei Comuni, si sono guardati per un attimo, mentre un loro collega, il laburista Gerald Kaufman, esclamava: "L'antisemitismo oggi in Inghilterra è causato dalle azioni di Israele". Poche ore dopo, Londra diveniva il primo Parlamento d'Europa a riconoscere lo "stato di Palestina". Non c'è stata partita: soltanto dodici i voti contrari. Tira una brutta aria per Israele e gli ebrei in Europa. Un'aria di abbandono e di esclusione.
Nella stessa settimana, al celebre Festival del Cinema di Carpentras, vicino Marsiglia, il console israeliano Barnéa Hassid e la regista israeliana Hilla Medalia venivano assaltati da una cinquantina di attivisti filo palestinesi al grido di "criminali di guerra", interrompendo la proiezione del film "Dancing in Jaffa". Ma soprattutto, alla Fiera del Libro di Francoforte andava in esposizione la peggiore letteratura antisemita. Lo stand del Qatar aveva "The Battles of Mohammed", finanziato dall'emiro, che racconta come gli ebrei di Khaybar cercarono di avvelenare il Profeta dell'islam. C'erano "Le vene di Gerusalemme" di Munir Akash e Fouad Moaghrabi, sempre pagate da Doha, in cui la presenza ebraica a Gerusalemme è descritta come una cospirazione antislamica. Nello stand egiziano c'era "The Buraq Wall" di Jehad al Ayesh e Bait Almaqdes, dove anche il Muro del Pianto viene descritto come di proprietà dell'islam.
C'erano i "Protocolli dei savi anziani di Sion", il falso antisemita prodotto dalla polizia zarista e usato dal nazismo. Per superare il vaglio di Francoforte, il libello è sotto il titolo "Dizionario dell'inganno sionista". L'Iran punta molto, per le edizioni Revayat Fath, sull'elogio di Samir Kunar, il terrorista di Hezbollah che sterminò una famiglia israeliana. A una bambina venne spaccata la testa sugli scogli, un'altra morì soffocata dalla madre nel tentativo di non fare rumore. "I libri possono essere buoni o cattivi, quelli esposti a Francoforte sono strumenti d'odio", dice al Foglio Shimon Samuels, direttore delle Relazioni internazionali del Simon Wiesenthal Center. "Presentano gli assassini di bambini ebrei come eroi".
"Se si uccide un ebreo a Parigi quello è antisemitismo; se Israele come stato e popolo viene messo in discussione quello non è più antisemitismo", commenta al Foglio il professore di Architettura David Cassuto, già vicesindaco di Gerusalemme, il padre Nathan ucciso ad Auschwitz e la madre, reduce dai campi di concentramento, assassinata dagli arabi in un agguato sul Monte Scopus durante la guerra di Indipendenza del 1948. "Non mi sarei mai aspettato nulla di buono dall'Europa e quanto vedo oggi mi dà ragione", prosegue Cassuto. "Il pentimento della Shoah è durato poco, e oggi viene fuori di nuovo l'antisemitismo, rialza la testa come se non fosse successo nulla. Da Londra, Parigi e Berlino arrivano manifestazioni di puro antisemitismo.
Questo si salda con un aspetto che mi preoccupa quanto il vecchio odio europeo, ovvero il discorso della sinistra israeliana che sostiene apertamente questo trend antisemita. Per noi ebrei, sopravvivere non vuol dire fare la 'pace' di cui parla Londra, ma essere pronti alla guerra", conclude David Cassuto. "L'Europa ha bisogno di Israele, ce lo dicono i dati commerciali, ma non vuole ammetterlo. Nonostante tutto sono ottimista, perché quanto è successo nel 1942-'43 non accadrà mai più. Israele avrà la forza di resistere".
Rispetto a Cassuto, Samuels del Centro Wiesenthal fa notare una differenza: "I governi, come quello tedesco o francese, stanno facendo bene sull'antisemitismo. Ma non seguono le rispettive opinioni pubbliche, che sono molto antisemite". Per usare la formula dello studioso Manfred Gerstenfeld, autore di "Demonizing Israel and the Jews", "oggi 150 milioni di europei hanno una visione demoniaca di Israele".
(Il Foglio, 15 ottobre 2014)
"L'antisemitismo oggi in Inghilterra è causato dalle azioni di Israele". Quindi, cari ebrei, ricordatevi che ora come sempre se vi trattano male è colpa vostra. E non vatteggiate a vittime, perché a voi saddice il detto: la ferocia dei carnefici è la dimostrazione evidente della malvagità delle vittime. M.C.
Michael Sfaradi da Israele a Ferrara
Il reporter di guerra racconterà la sua esperienza in prima linea
"La guerra e la paura, quando il reportage diventa narrativa" è il tema dell'incontro in programma giovedì 16 ottobre alle 17 presso la collezione-sala permanente dello scultore Mario Piva in via Cisterna del Follo 39 che ospiterà il giornalista-scrittore israeliano Michael Sfaradi dell'association Journalists di Tel-Aviv, specializzato in politica mediorientale e analisi militari.
All'incontro, introdotto dalla curatrice della collezione a Laura Rossi e moderato dal docente Sergio Gessi, parteciperanno anche la giornalista Monica Forti, lo storico ferrarese Andrea Rossi e l'artista friulana Rosj Domini, curatrice delle copertine dei romanzi. L'appuntamento sarà diviso in due parti: nella prima si susseguiranno gli interventi degli ospiti e la proiezione di foto e filmati, nella seconda si svolgerà il dibattito con le domande proposte direttamente dal pubblico.
Michael Sfaradi da circa un anno collabora alla pagina degli esteri per il quotidiano Libero. È stato reporter di guerra durante l'operazione Margine Protettivo al seguito delle truppe israeliane all'interno della striscia, in prossimità degli scontri a fuoco. Ha collaborato con Opinione e Libertà, con il quotidianoLiberal e con il settimanale Tempi.
Ha inoltre seguito la vicenda del Cargo Arctic Sea, ritrovato con le stive vuote a largo di Capo Verde e dell'abbordaggio da parte di forze speciali della marina israeliana del Cargo Francop a largo di Cipro, commentando e unendo le due vicende come parti della stessa guerra di spie in atto intorno al nucleare iraniano.
Nel 2009 è stato reporter di guerra durante l'operazione Piombo Fuso, sia dai confini fra Israele e Gaza sia al seguito delle truppe israeliane all'interno della striscia in prossimità delle zone degli scontri a fuoco. Ha pubblicato i seguenti romanzi: Il sorriso della morte, Gli amori diversi, Mosaico Mortale e La Catena dell'Orrore.
(estense.com, 15 ottobre 2014)
Alla ricerca della Palermo ebraica
Il macello, la sinagoga, il bagno rituale il viaggio nel tempo con gli studiosi dell'Isse. Da via Calderai alla Meschita per rintracciare la città perduta.
di Amelia Crisantino
Per ricostruire la storia della comunità ebraica di Palermo bisogna affidarsi agli indizi, eppure l'itinerario per la recente visita realizzata a cura dell'Isse l'Istituto siciliano studi ebraici riconosce ben sedici luoghi: Franco D'Agostino e Chiara Utro guidano la passeggiata inserita nell'ambito della manifestazione "Le vie dei tesori", e raccontano di una Palermo da percorrere con occhio attento a cogliere ogni traccia. Se al residuo elemento urbano sommiamo poi la testimonianza dei documenti, ecco che la comunità ebraica diventa meno misteriosa: i primi dati risalgono all'anno 598, quando papa Gregorio I Magno invia un'epistola contro il vescovo palermitano Vittore che ne aveva occupato le sinagoghe e depredato i sacri arredi, consacrando gli edifici al culto cristiano.
Quella palermitana è fra le più antiche comunità dell'area mediterranea, il momento più sereno coincide con la dominazione araba quando gli ebrei sono alla pari coi cristiani. Sono cioè dhimmi: sudditi protetti che assieme ai musulmani formano il "popolo del libro", seguaci di una religione monoteista basata sulla rivelazione e in possesso di sacre scritture. Nella tollerante Palermo araba gli ebrei vivono la loro fede, hanno pochi doveri. Pagano la tassa stabilita per i non musulmani, portano un distintivo sugli abiti e i loro luoghi di culto non possono superare in altezza le vicine numerose moschee.
Il quartiere ebraico è appena fuori le mura punico-romane, sulle rive del torrente Kemonia oggi interrato. Vi si accede oltrepassando la Porta di ferro o Judaica, abbattuta poi nel Cinquecento per far posto alla chiesa di San Giuseppe dei Teatini. E' un insediamento dall'impianto allungato verso il mare, comprende le due contrade della Meschita e della Guzzetta separate da una pubblica via. Il quartiere è moltopopoloso, con due diverse tipologie urbane. Alla Guzzetta fervono le attività commerciali. Fonditori e fabbri utilizzano le acque del Kemonia per le officine di via Calderai, nelle botteghe del mercato di Lattarini le merci esposte rimandano a una comunità benestante. II cibo è stato nei secoli uno dei più forti elementi identitari del popolo ebraico, e anche a Palermo l'abbattimento degli animali segue le regole della macellazione rituale: il macello era nella Guzzetta, nell'area oggi occupata dal teatro Santa Cecilia. La Meschita rimanda alla presenza di un luogo di culto, la sinagoga, che per analogia con l'arabo "moschea" diventa "meschita". La contrada occupava l'area oggi delimitata dalle vie Ponticello, Calderai e del Giardinaccio e aveva caratteri subito riconoscibili, il suo territorio coincideva con il centro della comunità. Nella Meschita troviamo gli spazi legati alla sinagoga, cioè la corte rabbinica, la scuola, l'ospedale per poveri e forestieri e infine il miqweh, il bagno rituale obbligatorio sempre al di sotto del piano stradale e colmo d'acqua pura: di sorgente o di fiume o anche piovanapurché non fosse stata raccolta da mano umana con un recipiente dove le donne si immergevano per purificarsi dopo il ciclo mestruale o il parto. Il miqweh palermitano è stato identificato nel complesso di Casa Professa, sotto l'atrio di Palazzo Marchesi, in un luogo sempre attraversato dalle acque del fiume Kemonia. Importante era anche il cimitero, dove i corpi venivano seppelliti nella nuda terra avvolti in un sudario: a Palermo il cimitero ebraico era fuori porta Termini, a metà dell'attuale via Lincoln.
Al momento della conquista normanna gli ebrei combattono a fianco degli arabi, poi riprendono la loro vita. Sono ancora cittadini con tuffi i diritti, hanno privilegi, statuti, magistrati e notai. Stanno cosi bene che spesso accolgono immigrati dal Maghreb, dalla Spagna, dalla Tunisia e dalla Grecia. Non devono però possedere schiavi cristiani né curare ammalati cristiani, e nel complesso il loro status risulta diminuito: per la prima volta pagano una tassa da cui sono esentati cristiani e musulmani, un tributo collettivo che la comunità provvede a riscuotere ripartendolo in base al reddito. Gli ebrei palermitani hanno il monopolio della lavorazione della seta e sono esperti tintori, adoperano materie prime locali come l'henné di Partinico e negli opifici annessi al palazzo reale creano prodotti di lusso esportati in tutto il Mediterraneo.
Nel 1492, come avviene in tutti i regni della corona di Spagna, anche in Sicilia gli ebrei vengono cacciati: è l'ultimo atto di un'ondata antisemita che ha prodotto distruzioni, morte, povertà. Il quartiere ebraico viene lentamente assimilato, se ne smarrisce la memoria; i tagli della via Maqueda e poi della via Roma sconvolgono la struttura dell'intera area e ne cancellano l'architettura. Qualcosa però rimane nello spirito dei luoghi, per chi sa leggere i segni.
Un tempo l'antica sinagoga era in piazza della Meschita, nella stessa area dov'è stata poi insediata la chiesa di san Nicolò da Tolentino con annesso convento. E certo non è un caso se tante chiese e conventi vengono edificati sui vecchi spazi sacri della comunità ebraica. Ma a fine '800 il convento è riconvertito nell'odierno Archivio comunale con ingresso da via Maqueda. L'architetto Giuseppe Damiani Almeyda viene chiamato a realizzarne l'Aula Grande e crea uno spazio molto suggestivo, che in ogni suo particolare rende omaggio all'antica sinagoga: nello slancio verticale, nei quattro pilasti che simboleggiano l'albero della conoscenza, nelle pareti divise in tre parti ognuna con un'ampia finestra per un totale di dodici aperture. Come le dodici porte del Tempio di Salomone, che a loro volta rappresentano le dodici tribù d'Israele.
(PalermoWeb.com, 15 ottobre 2014)
Alfano incontra il ministro degli Esteri israeliano Lieberman
ROMA, 14 ott - Il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, ha incontrato oggi al Viminale il ministro degli esteri dello Stato d'Israele, Avigdor Lieberman. Il colloquio - si legge in una nota del Viminale - ha offerto l'opportunità di approfondire la già consolidata collaborazione bilaterale nei settori di specifico interesse. Nel corso dell'incontro sono stati affrontati diversi temi tra i quali la cooperazione in materia di sicurezza ed in particolare nel settore della prevenzione e contrasto al terrorismo internazionale e nella lotta alla criminalità organizzata. I due ministri hanno inoltre approfondito le questioni legate alla presenza di migranti con particolare riferimento all'esperienza italiana in materia di contrasto ai flussi irregolari e alla organizzazione e gestione dell'accoglienza dei migranti sul territorio.
(il Velino, 14 ottobre 2014)
La casa natale di Hitler resta vuota, nessuno vuole abitarci
Nonostante a prima vista possa sembrare un palazzo storico come tanti altri, questa casa stenta a trovare affittuari o compratori che vogliano viverci. Il motivo è che in questa abitazione austriaca di Braunau-am-Inn è nato e vissuto i primi anni della sua vita Adolf Hitler. Negli anni '70 le istituzioni hanno deciso di affidare il palazzo a privati per evitare che diventasse un luogo di culto di nostalgici e neonazisti. L'edificio, inutilizzato dal 2011, quando ospitava un centro di formazione per disabili, non è stato trasformato in un'università popolare o in un centro d'accoglienza per immigrati, per volontà del concessionario dello stabile che allo stesso tempo non è riuscito a trovare nessuno disposto ad andarci a vivere. Oltre alla memoria storica, potrebbe contribuire all'assenza di affittuari il prezzo: l'edificio dove il dittatore nazista è nato nel 1889 e ha vissuto fino all'età di tre anni costa 4600 euro al mese. Inoltre il contratto di locazione firmato nel 1972 stabilisce che l'edificio può essere utilizzato solo per "attività sociali ed educative". Una targa commemorativa, incisa su una pietra dell'ex campo di concentramento di Mauthausen è stata messa nel 1989 sul marciapiede davanti alla casa dal comune di Braunau-am-Inn per mettere in guardia la cittadinanza contro il fascismo .
(la Repubblica, 14 ottobre 2014)
Italia-Israele, l'amicizia si celebra in ambasciata
TEL AVIV, 14 ott - Un evento per celebrare l'amicizia che unisce l'Italia e Israele: lo organizzano l'ambasciata d'Italia e l'Istituto italiano di cultura di Tel Aviv in occasione delle celebrazioni della 14esima edizione della "Settimana della Lingua Italiana nel Mondo". In occasione dell'apertura della manifestazione, che si terrà dal 20 al 25 ottobre, l'ambasciata e l'Iic dedicheranno la serata del 20 ottobre all'Associazione Amitei Italia, che dal 2005 riunisce centinaia di ex studenti israeliani delle università italiane. A celebrare questo legame tra Italia e Israele, nel corso della serata, ospitata presso la residenza dell'ambasciatore, alcuni di questi giovani israeliani si esibiranno in lingua italiana nello spettacolo teatrale "Io, Alfredo e Valentina" di Oreste De Santis con la regia di Elico Levi, uno degli allievi dell'Istituto italiano di cultura. Sul palco Adriana Meloni, Elico Levi, Léa Stein, Tal Aviv e Yagal Israel. Saranno presenti l'ambasciatore Francesco Maria Talò, la direttrice dell'Iic Simonetta De Felicis e il presidente dell' Associazione Amitei Italia Arieh Chen.
L'EVENTO
L'evento inaugurale - spiegano dall'ambasciata italiana a Tel Aviv - vuole sottolineare l'importanza della lingua come veicolo di comunicazione ma anche strumento di conoscenza e legame tra popoli e culture. Tra gli invitati alla serata figurano molti tra i più prestigiosi professionisti israeliani dei più svariati settori (medici, architetti, chef, designer, restauratori, ecc) che, dopo aver studiato nel nostro Paese, continuano a farsi naturali e appassionati messaggeri dell'Italia in Israele. Si calcola che ogni anno vi siano circa 3000 studenti israeliani che frequentano corsi universitari di vario livello presso gli atenei italiani, con una media di circa 500 nuove iscrizioni all'anno. Inoltre, oltre 1000 studenti israeliani si iscrivono ogni anno ai corsi di lingua tenuti dall'Istituto italiano di cultura in Israele.
(9colonne, 14 ottobre 2014)
Londra riconosce la "Palestina" senza fare i conti con Israele
A castigare la House of Commons ci ha pensato ieri un editoriale del Times: "Qual è l'argomento urgente che discute oggi il Parlamento inglese? Il sostegno a un Kurdistan indipendente, forse? I legami della Gran Bretagna con i sostenitori dello Stato islamico come il Qatar? No. Una mozione proposta da un gruppo di parlamentari vuole che il governo 'riconosca lo stato di Palestina accanto allo stato di Israele'".
E' un voto storico e trasversale quello che ieri si è tenuto al Parlamento di Londra. Le conseguenze di questo voto non sono di incidere nell'immediato sulla politica estera britannica. Ma sicuramente, nella stessa settimana in cui la Svezia ha riconosciuto la "Palestina", avrà conseguenze politiche in medio oriente. Dopo la guerra di Gaza, l'Autorità palestinese di Mahmoud Abbas sta cercando di trasformare la diplomazia in un'arma di guerra con la costruzione di un asse internazionale per isolare Israele. E' questo il significato della decisione palestinese di tornare all'Onu per farsi riconoscere quello che i palestinesi hanno rifiutato nel 1937, nel 1948, 2000 e 2008. Ovvero in tutte le partite negoziali con Israele. Non riescono a liquidare Israele con le armi. Allora si rivolgono alle cancellerie e alle Nazioni Unite. Per questo è importante che Londra non faccia il gioco del fronte del rifiuto.
Cent'anni fa la diplomazia inglese varò il primo documento politico per la nascita dello stato ebraico. Era la Dichiarazione Balfour. Il voto della House of Commons è da alcuni inteso come una nuova Balfour. Ma stavolta, anziché per costruire un focolare ebraico, servirebbe a disfarlo e a darlo in pasto al mondo islamico.
(Il Foglio, 14 ottobre 2014)
Riportato alla luce un tempio misterioso in Israele
Un luogo di culto risalente a 3300 anni fa è stato scoperto a Tel Burna in Israele insieme a una serie di oggetti e reperti di straordinaria importanza.
Riportato alla luce un tempio misterioso in Israele - Importante scoperta quella avvenuta nello stato di Israele e precisamente a Tel Burna dove è venuto alla luce un misterioso tempio risalente a 3300 anni fa. Una struttura di grandi dimensioni dal momento che soltanto il cortile si estendeva su 16 per 16 metri. Particolarità dell'edificio di culto è il fatto che oltre alla struttura sono stati trovati diversi oggetti come tazze, vasi alti come una persona, ossa di animali bruciate e frammenti di maschere. Non è ancora chiaro quale divinità venisse adorata nel tempio anche se secondo alcuni esperti potrebbe trattarsi del dio cananeo della tempesta, Baal oppure la dea della guerra Anat.
(Centro Meteo Italiano.it, 14 ottobre 2014)
Leader di Hamas: "Costruiremo lo stato islamico in tutta la Palestina"
Secondo Al-Zahar, se Hamas trasferisse in Cisgiordania una parte dei mezzi di cui dispone a Gaza distruggerebbe rapidamente Israele.
Se Hamas riuscisse a stabilire una testa di ponte militare in Cisgiordania potrebbe distruggere Israele e stabilire uno stato islamico al suo posto. Lo afferma l'alto esponente di Hamas Mahmoud al-Zahar, membro del politburo dell'organizzazione islamista palestinese, citato lo scorso primo ottobre dal quotidiano palestinese Al-Ayyam, edito a Ramallah.
L'articolo, tradotto in inglese da Palestinian Media Watch, attesta l'intenzione di Hamas, finora celata, di prendere il potere in Cisgiordania come già fece nel 2007 nella striscia di Gaza. "Hanno detto che Hamas vuole creare un emirato islamico a Gaza - spiega Mahmoud al-Zahar - Noi non lo faremo. Noi costruiremo piuttosto uno Stato islamico in tutta la Palestina"....
(israele.net, 14 ottobre 2014)
Israele - Londra e quel voto scomodo
di Daniel Reichel
Iniziativa prematura che mette in difficoltà le trattative per raggiungere la pace. Da Roma, dove ha incontrato il ministro degli Esteri italiano Federica Mogherini, Avigdor Lieberman, capo della diplomazia israeliana, esprime il suo disappunto per la decisione del parlamento britannico di approvare una mozione in cui si chiede al governo di Londra di riconoscere la Palestina come stato. Un documento non vincolante ma votato dall'ampia maggioranza dei parlamentari presenti ieri alla Camera dei Comuni: 274 sì contro 12 no, su 650 membri totali. E ora Israele, che ha più volte ribadito come ogni iniziativa unilaterale sia di inciampo al cammino verso la pace, valuta quali possano essere gli effetti della decisione britannica. Il voto di Westmister ha valore simbolico, non potendo condizionare la politica del governo guidato da David Cameron, il quale si è astenuto dal voto e ha ribadito come nulla cambi nei rapporti tra Regno Unito e Israele. Nonostante le rassicurazioni di Cameron, nelle file della diplomazia israeliana trapela una certa inquietudine. "Credo sia giusto essere preoccupati per il significato che questa mozione ha in termini dell'orientamento dell'opinione pubblica", ha dichiarato alla radio israeliana l'ambasciatore di Israele nel Regno Unito Matthew Gould. Ancora più dure le considerazioni dell'ex ambasciatore israeliano negli Usa Michael Oren, preoccupato per l'allargarsi dell'appoggio alle iniziative diplomatiche palestinesi. Intervistato da Ynet, Oren ha sottolineato come "la Gran Bretagna sia membro del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. A novembre i palestinesi andranno all'Onu e vogliono ottenere almeno nove voti del Consiglio (per costringere Israele a impegnarsi in un piano per ritirarsi dalla West Bank). C'è la possibilità che l'America si astenga, ma molto dipende da noi". Per Oren Israele deve prendere delle contro misure di fronte alle azioni palestinesi. "La Gran Bretagna è una dei nostri amici e alleati più stretti e comunque 274 parlamentari hanno supportato la mozione con soli 12 contrari". Oren sembra guardare dietro al voto, indirizzando la sua preoccupazione a una possibile conseguenza della spinta arrivata da Westmister: una crescita del movimento che auspica il boicottaggio di Israele. Se parliamo di Regno Unito, il paese rimane il secondo partner commerciale dello stato ebraico e nell'ultimo anno solare, come ricorda il Times of Israel, le esportazioni da Israele direzione Uk sono cresciute del 38%. Dal punto di vista economico, la partnership dei due paesi è dunque solida, ma a preoccupare, come ha sottolineato l'ambasciatore Gould, è l'orientamento dell'opinione pubblica d'Oltremanica. Per Gould, sempre più anti-israeliana. E le manifestazioni di queste estate contro l'operazione israeliana a Gaza (denominata Margine Protettivo), ne sono la testimonianza con un altrettanto preoccupante quanto significativo aumento di episodi antisemiti.
E intanto anche in Italia il Movimento Cinque Stelle si propone di seguire le orme britanniche e proporre una mozione in Parlamento perché il governo si impegni a "riconoscere formalmente o Stato della Palestina nei confini del 1967". "Si tratterebbe - spiegano dal Movimento di Beppe Grillo - di un atto concreto verso la pace in Medio Oriente, a garanzia della sicurezza e della libertà del popolo palestinese ed israeliano". "Per questo, accogliendo il parere espresso dalla Camera dei Comuni e il riconoscimento formale giunto dall'esecutivo svedese, presenteremo in questi giorni una mozione che impegna il governo a prendere una posizione chiara sulla questione - annunciano i deputati -, a fronte dell'immobilismo mostrato sino ad ora dal ministro Mogherini". Sull'iniziativa Cinque stelle non si registrano al momento reazioni da parte israeliana, nonostante la presenza a Roma del ministro degli Esteri Lieberman. Ma difficilmente la sua linea si sposterà da quella già ribadita in precedenza: le azioni unilaterali non servono. Lo stesso Lieberman, intervistato ieri da skytg24, aveva aperto al dialogo con il mondo arabo moderato in particolare per contrastare la minaccia e violenza dell'Isis. "Tutto ciò che dipende da noi, noi lo facciamo", ha dichiarato il ministro.
(moked, 14 ottobre 2014)
Come a suo tempo molti ebrei fecero una grande fatica ad accettare il pensiero che il governo tedesco si proponesse davvero di sterminare il popolo ebraico, così oggi molti ebrei, e anche non ebrei, fanno fatica ad accettare il pensiero che il mondo si stia davvero unendo nel proposito di far sparire lo Stato d'Israele. Fanno fatica perché, per motivi più o meno onesti, fanno finta di non capire che proprio quello è il proposito dei governi palestinesi e di chi li appoggia. La crescente, inarrestabile voglia di riconoscere quel simulacro che è lo "Stato di Palestina" dovrebbe essere una conferma di quello che il mondo davvero desidera. Dovrebbe, ma è evidente che per molti non lo è. O forse lo è per le menti più fini, ma quelle stanno solo aspettando il momento di poter spiegare al pubblico incolto i veri motivi per cui lo Stato d'Israele, naturalmente per colpa sua, è dovuto scomparire. Non possiamo che tornare a sottolineare il punto 6 che compare nei nostri "Sette punti" qui a lato:
"Il costituendo Stato arabo sulla Terra d'Israele non nasce con l'intenzione di vivere accanto allo Stato ebraico, ma - al contrario - con il solo scopo di arrivare a distruggerlo. Chi pensa di dar prova di moderazione parlando di "due stati per due popoli che vivano l'uno accanto all'altro in pace e sicurezza" contribuisce, che lo voglia o no, al raggiungimento dell'obiettivo arabo." M.C.
"Sinagoghe in Italia"
Riceviamo e volentieri trasmettiamo
Con la presente abbiamo il piacere di annunciarvi la pubblicazione del volume "Sinagoghe in Italia" edito dall'editore Mattioli 1885. Con questo volume abbiamo cercato di mettere a disposizione del grande pubblico una guida il più possibile completa dei luoghi del culto e della tradizione ebraica in Italia. Il volume è inserito nella fortunata collana di Mattioli 1885 "Viaggi nella storia", singolare esempio di coniugazione tra la divulgazione storica e la guida turistica.
CARATTERISTICHE DEL VOLUME
L'ebraismo italiano rappresenta un unicum e vanta una presenza bimillenaria e ininterrotta. Di questa secolare storia sono rimaste tracce significative nelle città e nei piccoli centri, nei quali gli ebrei hanno avuto un particolare radicamento. E la sinagoga rimane l'elemento più rappresentativo di questa presenza.
In Italia 50 sono gli edifici sinagogali: concentrati prevalentemente nel centro-nord della penisola, offrono interni riccamente decoranti secondo gli stili architettonici del tempo, dal barocco, al rococò, al neoclassico. Nell'area degli antichi ghetti rimangono alcune delle più belle sinagoghe italiane, in particolare nel Veneto (Venezia, Padova), in Piemonte (Casale, Carmagnola, Cherasco), in Emilia Romagna (Ferrara), in Toscana (Siena, Pitigliano) e nelle Marche (Ancona, Pesaro, Senigallia).
Nel clima di libertà seguente all'emancipazione degli ebrei dal 1848, fu possibile la costruzione di grandi edifici monumentali. Talora antiche sinaghoghe si dotarono di rinnovate facciate e ingressi (Asti, Pisa), in altri casi si costruirono grandiosi nuovi templi nell'area dell'ex ghetto (Modena, Vercelli, Roma, Firenze) o nei nuovi quartieri di residenza. La Guida nasce anche dall'esigenza di portare al grande pubblico il significato e la consapevolezza di un'eredità culturale, che per il suo valore si inserisce a pieno diritto all'interno del patrimonio storico-artistico italiano.
Responsabile Divisione Libri Mattioli 1885 srl
Strada della Lodesana 649/sx
43036 Fidenza (PR)
Tel. 0524-530383, Fax 0524-82537
e-mail: massimilianofranzoni@mattioli1885.com
(Notizie su Israele, 14 ottobre 2014)
Roma - Il 20 ottobre al ghetto a 'lustrare e illustrare' le pietre d'inciampo
di Diego Amicucci
ROMA - L'Associazione "Arte in memoria" - promotrice dal gennaio 2010 delle cinque edizioni di "Memorie d'inciampo a Roma" nel corso delle quali sono state installate 216 Stolpersteine in memoria dei deportati razziali, politici e militari - intende ricordare l'anniversario della razzia al Ghetto di Roma il 16 ottobre 1943 con una visita guidata alle pietre d'inciampo del quartiere ebraico.
L'iniziativa ha il patrocinio dell'Assessorato alla Cultura, Creatività e Promozione Artistica di Roma Capitale, del Municipio Roma 1 e della Comunità ebraica di Roma.
Come avviene già da alcuni anni a Berlino, in occasione dell'anniversario della "Notte dei cristalli", l'iniziativa prevede un percorso che segua le pietre d'inciampo già installate con lo scopo di verificarne la conservazione, di "lustrarle" e, contemporaneamente, di "illustrale" attraverso la lettura delle storie delle vittime.
Protagonisti saranno gli studenti e i docenti che si sono già impegnati nelle diverse edizioni di "Memorie d'inciampo". L'incontro è rivolto anche alle famiglie dei deportati e a tutti i cittadini.
(AgenParl, 14 ottobre 2014)
Balbo Avenue, la strada della discordia
Italoamericani e comunità ebraica fanno i conti con la storia
di Alberto Guarnieri
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Per la Crociera vennero utilizzati gli idrovolanti "Savoia Marchetti". Avevano un'apertura alare di 24 metri, erano lunghi 16 metri e mezzo e alti 5; potevano raggiungere i 5.000 metri di quota. Balbo vi fece apportare alcuni ritocchi. I due motori FIAT "A 24 R" furono sostituiti con altrettanti "Isotta Fraschini Asso" a 18 cilindri a V, dotati di una potenza di 880 cavalli ciascuno. La capacità dei serbatoi di benzina fu portata a 5.070 litri, per un'autonomia di 4.000 chilometri. La velocità massima fu così elevata a 280 chilometri orari, quella di crociera a 225: il consumo di carburante, a velocità ottimale, era di poco superiore ad un chilo per chilometro. L'equipaggio era costituito da due piloti, un motorista e un marconista. Ma il particolare del quale bisogna tenere assolutamente conto per giudicare quell'impresa è l'ossatura principale degli idrovolanti, di compensato di legno, di cedro e di betulla, ricoperto di tela imbevuta di catrame per renderla impermeabile.
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Un'idea davvero geniale potrebbe portare a una riconciliazione tra la comunità italiana e quella ebrea di Chicago. L'annuale parata del Columbus day degli italo-americani è stata i fatti dedicata agli "Italiani eroi dell'Olocausto". Da Giorgio Perlasca ai tanti che come lui salvarono decine di migliaia di ebrei dai campi di sterminio. Un atto di omaggio che certo non è dispiaciuto al sindaco Rahm Emanuel, già capo di gabinetto del presidente Obama e attivissimo, dopo la crisi di Gaza, nel difendere in America le ragioni dello stato di Israele. Tanto da chiedere, suscitando lo sdegno della comunità italiana, di cambiare nome a Balbo Avenue e Balbo drive, le grandi strade della terza città degli Stati Uniti che ricordano l'impresa aviatoria di Italo Balbo, che condusse 24 idrovolanti dall'Italia ali Usa inaugurando la rotta che attualmente tutti gli aerei percorrono.
La vicenda è annosa. Balbo venne accolto con grande entusiasmo all'Expo mondiale di Chicago nel 1933 (se ne riparlerà anche all'Expo milanese). Nel paese di Lindbergh la sua impresa fece scalpore e allora i rapporti tra politica sociale del fascismo e del New Deal roosveltiano erano fecondi. Poi arrivarono gli orrori della guerra e si cominciò a discutere se cambiare nome alle strade. Nel 1960 l'allora sindaco di Chicago tagliò la testa al toro alle richieste della comunità israelitica. "Se mi dimostrerete che l'impresa è stata compiuta da un altro cambieremo nome a Balbo Avenue, se no tutto resta com'è" disse. E così fu. Salvo periodici rilanci della protesta ebraica che ora Emanuel vuole accogliere.
Così Robert Allegrini, responsabile per il Midwest della Niaf, l'associazione più potente degli italo-americani, ha rilanciato con la parata di domenica scorsa. E parlerà di Balbo, e del problema della Memoria di tutti i popoli, anche a Washington, il 25 ottobre prossimo, in occasione del congresso annuale della Niaf, cui abitualmente partecipa anche il premier italiano in carica. Un'occasione importante per fare il punto anche sui nostri 'conti con la storia', come si intitola l'ultimo libro di Paolo Mieli, che sul fascismo offre nuove prospettive di lettura. Guarda caso parallelamente all'operazione che fa col suo nuovo romanza un altro famoso giornalista e storico italiano, Giampaolo Pansa.
Niente revisionismi, ma un approccio che, a distanza, sappia leggere i singoli fatti all'interno della visione e del giudizio globale. Intanto le guide turistiche di Chicago hanno risolto il problema a modo loro. Quando i loro bus attraversano le strade dedicate a Balbo raccontano, a tutti, non solo agli italiani, di "Un grande aviatore fatto uccidere da Mussolini"
(L'Huffington Post, 14 ottobre 2014)
Serata Israele con Twizz a Padova
L'operatore Twizz, in collaborazione con il ministero del turismo di Israele, invita gli agenti di viaggio al prossimo Twizz Cocktails - Speciale Israele che si terrà all'hotel Nh Mantegna di Padova mercoledì 29 ottobre alle ore 19,30. Si tratta di un incontro formativo gratuito che ha lo scopo di fornire informazioni su Israele grazie alla presenza di un rappresentante del ministero del turismo. Gli agenti di viaggio che parteciperanno all'incontro avranno una priorità per la partecipazione ai fam trip che verranno organizzati nei prossimi mesi per far loro conoscere la destinazione e verificare quanto sia sicuro viaggiare in Israele. L'evento, riservato ad una trentina di agenti di viaggio, avrà la durata di circa due ore e sarà seguito da un cocktail. Gli agenti di viaggio presenti parteciperanno, inoltre, all'estrazione di premi tra cui un viaggio aereo in Israele messo a disposizione da Meridiana il cui rappresentante sarà presente all'incontro. Inoltre verrà consegnato un buono sconto a tutti i presenti da utilizzare su tutte le prenotazioni per Israele realizzate entro il 31 marzo 2015 che darà diritto all'abbuono di tutte le spese di apertura pratica.
(Travel Quotidiano, 14 ottobre 2014)
Comunità ebraica di Roma: vince la mediazione
Museo e Ucei: nessuna separazione. Delibera del Consiglio: rimanere nella Fondazione.
di Alessandro Capponi
ROMA - Il Consiglio della Comunità ebraica sceglie la via della mediazione: prima ancora dell'inizio viene cambiato l'ordine del giorno che chiedeva di «avviare la procedura per uscire dall'Unione delle comunità ebraiche»e invita «il presidente della Comunità a ritirare le dimissioni dalla Fondazione». Alle dieci della sera, a Consiglio appena terminato, Pacifici fa sapere che accoglierà la richiesta.
La delibera votata ieri, inoltre, «esorta i componenti del collegio dei Soci Fondatori e del Cda ad operare affinché il museo veda la luce nelle modalità e nei tempi previsti». Certo, «il Consiglio della Comunità esprime apprezzamento per la proposta del sindaco Ignazio Marino per la realizzazione del Museo e gratitudine per la disponibilità della Casina dei Vallati quale sede della Fondazione» e contemporaneamente «ribadisce la necessità che Roma si doti in tempi rapidi di un Museo della Shoah il cui valore è indiscutibile per l'intero Paese».
La vicenda, com'è noto, va avanti da mesi: in estate era circolata l'ipotesi di una sede definitiva per il Museo all'Eur, poi scavalcata dalla possibilità offerta dal Comune (Casina dei Vallati e sede definitiva a Villa Torlonia). Ringraziamento del presidente dell'Ucei, Renzo Gattegna, al sindaco Marino per quanto fatto «a seguito della macabra messa in scena in ricordo del criminale nazista Erich Priebke».
(Corriere della Sera - Roma, 13 ottobre 2014)
Oltremare - Inverno, autunno
Della stessa serie:
Primo: non paragonare
Secondo: resettare il calendario
Terzo: porzioni da dopoguerra
Quarto: l'ombra del semaforo
Quinto: l'upupa è tridimensionale
Sesto: da quattro a due stagioni
Settimo: nessuna Babele che tenga
Ottavo: Tzàbar si diventa
Nono: tutti in prima linea
Decimo: un castello sulla sabbia
Sei quel che mangi
Avventure templari
Il tempo a Tel Aviv
Il centro del mondo
Kaveret, significa alveare ma è una band
Shabbat & The City
Tempo di Festival
Rosh haShanah e i venti di guerra
Tashlich
Yom Kippur su due o più ruote
Benedetto autunno
Politiche del guardaroba
Suoni italiani
Autunno
Niente applausi per Bethlehem
La terra trema
Cartina in mano
Ode al navigatore
La bolla
Il verde
Il rosa
Il bianco
Il blu
Il rosso
L'arancione
Il nero
L'azzurro
Il giallo
Il grigio
Reality
Ivn Gviròl
Sheinkin
HaPalmach
Herbert Samuel
Derech Bethlechem
L'Herzelone
Tel Aviv prima di Tel Aviv
Tel Hai
Rehov Ben Yehuda
Da Pertini a Ben Gurion
Kikar Rabin
Sde Dov
Rehov HaArbaa
Hatikva
Mikveh Israel
London Ministor
Misto israeliano
Fuoco
I cancelli della speranza
Finali Mondiali
Paradiso in guerra
Fronte unico
64 ragazzi
In piazza e fuori
Dopoguerra
Scuola in guerra
Nuovo mese
Dafka adesso
Auguri dall'alto
Di corsa verso il 5775
Volo verso casa
La guerra del Kippur
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di Daniela Fubini, Tel Aviv
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Finalmente autunno. Spuntano come funghi le Sukkot, capanne, a ogni angolo di strada, in cui mangiare e chicchierare; una brezza fresca la sera ci fa perfino mettere un golfino, e dubitare se magari abbandonare temporaneamente i sandali per un paio di scarpe chiuse. No, non esageriamo, finché non arriva la pioggia vera, quella a scrosci, non c'è motivo di chiudere i piedi interamente in gabbia.
L'autunno porta la fine delle festività, con un certo sollievo per i negozianti e per gli uffici, e ovunque questi ponti obbligati non sono di grande aiuto dopo l'estate in apnea che si è passata. Forza, entro il prossimo weekend ne siamo fuori, e poi fino a Hannukka filiamo dritti senza ulteriori distrazioni. Ma non si pensi che in autunno qui ci si rinchiuda nelle case, anzi: il fatto che non fa troppo caldo spinge tutti ad uscire, a stare fuori piuttosto che dentro, almeno fino alle piogge e a volte anche durante. Il vero israeliano, si sa, è atermico e non si bagna quando piove. Provato.
Personalmente, ancora in ottobre e novembre l'unica cosa che davvero mi attira in un interno è un buon film. E quest'anno, il cinema israeliano (a ognuno le sue dipendenze, e lo sanno tutti che non fumo, quindi..) promette molto, troppo bene. Sarà meglio rinnovare presto quell'abbonamento che mi fa pagare i film quasi a metà prezzo, che avevo lasciato finire con l'inerzia dell'estate di guerra: "questi sono gli ultimi due biglietti scontati, vuoi rinnovare?" - mah, vedremo, dissi verso fine agosto, e pensai "ma chi ha la testa per programmare quanti film vedrò nelle prossime settimane?". Ecco, il tempo è arrivato, portato dal vento autunnale ritorna anche il cinema.
E vedere un film israeliano in una sala israeliana con altri spettatori israeliani rumorosi e sempre ritardatari e il tappeto di pop corn che sono (siamo) in grado di produrre in meno di due ore, fa cadere nel dimenticatoio ogni estate e puntare allegri verso l'inverno.
(moked, 13 ottobre 2014)
La ricostruzione di Gaza: «In arrivo miliardi di dollari»
IL CAIRO - Una pioggia di denaro sta per investire la Striscia di Gaza, per ricostruirla dopo l'ultima sanguinosa guerra con Israele: è il risultato della conferenza dei donatori organizzata al Cairo, alla presenza di 50 tra ministri degli Esteri e rappresentanti delle organizzazioni internazionali. L'ultima vampata di guerra, quest'estate, ha ucciso oltre 2.200 palestinesi e 73 israeliani, ha distrutto decine di migliaia di case e messo in ginocchio l'economia palestinese, nella Striscia di Gaza come in Cisgiordania. Servono 4 miliardi di dollari per la ricostruzione: la comunità internazionale ne ha promessi 5,4 con il Qatar - che ha addirittura promesso da solo un miliardo -, gli altri Paesi arabi, l'Unione europea e gli Usa tra i maggiori finanziatori. Dalla capitale egiziana, ha avvertito il ministro Federica Mogherini, «occorre mandare anche un messaggio politico», perché lo status quo di un conflitto decennale non è più accettabile.
(La Nazione, 13 ottobre 2014)
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Nozze gay, Marino annuncia: "Sabato le trascriverò io stesso"
ROMA - «Sarò io, sabato prossimo, a trascrivere nei registri del Comune le prime unioni gay celebrate all'estero». Parola del sindaco di Roma, Ignazio Marino, in un'intervistaa Maria Latella per SkyTg24. E i primi gay a essere registrati come coppia nello stato civile del Campidoglio saranno Dario De Gregorio e Andrea Rubera, 50 e 49 anni. Con l'annuncio della sua "disobbedienza civile" il primo cittadino ha lanciato il guanto di sfida al ministro Angelino Alfano (Interno ) che, in una circolare, aveva prescritto ai Comuni di non trascrivere le unioni tra omosessuali celebrate all'estero, pena «l'annullamento d'ufficio degli atti illegittimamente adottati». Una sfida a tutto campo: «Il Parlamento, timido su tutti i temi che riguardano la vita delle persone, è rimasto indietro nell'Europa continentale».
(Fonte: la Repubblica, 13 ottobre 2014)
Due fatti apparentemente senza alcuna relazione fra loro attraggono oggi in modo spropositato linteresse amorevole del mondo occidentale: la situazione dei palestinesi e quella degli omosessuali. Confrontati con altri argomenti di politica internazionale e di governo nazionale di ben altra gravità, questi due temi meriterebbero soltanto qualche nota nelle seconde pagine dei giornali, ma non è così. Come mai? Considerata la libertà che oggi si concede allespressione di tutte le più strampalate interpretazioni delluniverso, speriamo che ci sia ancora concesso di dire la nostra, ricavata dalla riflessione sui testi biblici. In entrambi i casi il motivo profondo di questo strano interesse dellumanità sta nella fondamentale ribellione delluomo a Dio: nel primo caso si rifiuta la sovranità di Dio nella storia, nel secondo caso la sovranità di Dio nella creazione. In entrambi i casi è ribellione, ma in forma amorevole: buoni verso i poveri palestinesi, buoni verso i disprezzati omosessuali. Buoni, molto buoni, più buoni di Dio. Presentarsi come più buoni di Dio è lessenza della primordiale tentazione satanica.
M.C.
Ricostruzione Gaza: pioggia di miliardi su Hamas. Finanziata la prossima guerra
Esiste solo una cosa al mondo che riesce veramente a mettere tutti d'accordo: i poveri palestinelli. Ne abbiamo avuto una ulteriore conferma ieri durante la Conferenza dei donatori per la ricostruzione di Gaza. L'Onu aveva previsto una spesa di 1,6 miliardi di dollari, i palestinesi chiedevano invece 4 miliardi (si sa, le commissioni di Abu Mazen sono care), la comunit? internazionale non ha badato a spese e ha concesso ben 5,4 miliardi di dollari....
(Right Reporters, 13 ottobre 2014)
"Le Vie dei Tesori", la diaspora degli ebrei attraverso "I canti della Mosquita"
di Rosalia Bonfardino
PALERMO - Un viaggio che ha inizio nel marzo 1492 con l'Editto di Granada, il decreto di espulsione emanato da Isabella di Castiglia e Ferdinando II di Aragona, con i due re cattolici di Spagna decidevano l'espulsione coatta delle comunità ebraiche dai regni spagnoli.
Un viaggio forzato, raccontato in modo magistrale dalle parole, dalle melodie e dal canto seducente di Alejandra Bertolino Garcia. Percussioni, strumenti a fiato, chitarra, harmonium (organo costituito da una tastiera manuale e da due pedali) e santur (strumento a corde della musica classica Iraniana a forma di trapezio) hanno intrattenuto sabato sera un folto pubblico all'interno dell'Archivio storico comunale di Palermo, luogo che conserva quel famoso editto e che fu costruito nei pressi della sinagoga distrutta. Ad accompagnare Alejandra, Salvo Compagno, Silvio Natoli e Antonio Putzu. Idee, cordinamento e testi di Silvio Tessitore.
L'ardore e la disperazione di un popolo in fuga narrato dalla melodia sefardita de I canti della Mosquita. Un iter fatto di suoni e parole per ricordare la diaspora siciliana, come momento che cambiò in modo radicale la storia dell'Isola.
Si tratta di uno dei tanti eventi organizzati all'interno de Le Vie dei Tesori, ma che - tra quelli che ho avuto finora la possibilità di vivere - mi ha presa più degli altri, trascinandomi e catapultandomi in un mondo antico ma di cui oggi portiamo tante tracce. Forse a tratti sconosciute.
Note che si intrecciano, canti tramandati e arricchiti nel tempo da influenze arabe, turche, greche e balcaniche, suoni che si sposano con l'armonia e il pathos di chi, dopo la fuga, spera di costruire una nuova vita.
Potrei provare a raccontarvi di più, ma nulla riuscirebbe a farlo meglio di quelle stesse melodie.
Lascio la "parola" a loro. Ho provato a catturarle per condividerle con voi.
Buon ascolto!
(Younipa, il blog dell'Università degli Studi di Palermo, 13 ottobre 2014)
Diplomatico arabo israeliano esorta ad abbandonare il concetto di Nakba
"La commemorazione della 'catastrofe' non ha a che vedere col ricordare quello che è successo, ma col rancore verso l'esistenza stessa dello stato di Israele".
George Deek, vice ambasciatore d'Israele in Norvegia, un arabo cristiano figlio di profughi da Jaffa, ha esortato ad abbandonare la nozione di Nakba ("catastrofe"), il termine con cui mondo arabo e palestinesi si riferiscono alla nascita dello stato di Israele nel 1948.
Nel corso di una serie di conferenze che ha recentemente tenuto in vari paesi d'Europa, Deek ha parlato della storia della sua famiglia e ha invitato coloro che dopo il 1948, come la sua famiglia, abbandonarono o furono costretti a lasciare Jaffa, a lasciar perdere il concetto di Nakba. "Quando cammino per Jaffa, la mia città natale - ha detto Deek in una conferenza diffusa lo scorso settembre su YouTube - ripenso alla spiaggia dei pescatori del 1948, alla mia casa nel quartiere Ajami e a tutte le storie che ho sentito raccontare su quegli anni. Mio nonno George, da cui ho ereditato il nome, viveva a Giaffa con la sua famiglia da 400 anni. Sposò Vera, mia nonna, e pochi mesi più tardi tutti i loro progetti cambiarono. Le Nazioni Unite avevano approvato la nascita di Israele e pochi mesi dopo veniva fondato lo Stato di Israele. I leader arabi avvertirono che chiunque fosse restato sarebbe stato assassinato dagli ebrei, esortandoci a fuggire. Dissero che gli eserciti di cinque nazioni arabe avrebbero distrutto Israele e saremmo potuti tornare entro pochi giorni alle nostre case. La guerra si concluse con la sconfitta degli arabi, che non riuscirono a distruggere Israele"....
(israele.net, 13 ottobre 2014)
Ebola: Israele aumenta i controlli sui viaggiatori
Israele ha deciso di aumentare i controlli sui viaggiatori in arrivo nel paese dalle aree più colpite dal virus Ebola: Liberia, Guinea e Sierra Leone. Lo ha stabilito oggi una riunione di governo presieduta da Benyamin Netanyahu incentrata sul diffondersi del virus, dopo i casi verificatisi in Spagna e negli Usa.
(ANSA, 12 ottobre 2014)
Cinque mesi di carcere per l'antisemita
Un cinquantenne è stato riconosciuto colpevole a Ginevra di discriminazione razziale in seconda istanza.
GINEVRA - Un cinquantenne, che aveva pubblicato tra il 2010 e il 2013 una cinquantina di articoli di carattere antisemita su internet, è stato condannato in seconda istanza da un tribunale ginevrino a cinque mesi di prigione per discriminazione razziale.
"Si tratta di una sentenza molto importante nella misura in cui è la prima volta che un revisionista viene condannato a una pena detentiva a Ginevra", ha indicato oggi all'ats Philippe Grumbach, avvocato del Coordinamento intercomunitario contro l'antisemitismo e la diffamazione (CICAD), confermando una notizia in tal senso pubblicata oggi da "Le Matin Dimanche". Secondo Grumbach, finora soltanto il vodese Gaston-Armand Amaudruz ha dovuto scontare tre mesi di prigione per discriminazione razziale.
La pena pronunciata la scorsa settimana dalla Camera penale è più severa rispetto alla prima sentenza del Tribunale di polizia del luglio 2013. In quell'occasione l'uomo era stato condannato a sei mesi con la condizionale, mentre il procuratore aveva chiesto quattro mesi da scontare. Quest'ultimo aveva poi interposto ricorso.
Il cinquantenne è stato inoltre riconosciuto colpevole di calunnia, d'impedimento dell'esercizio di una funzione ufficiale e di disobbedienza a decisioni dell'autorità. Aveva definito in particolare la CICAD "organizzazione ignobile".
Nonostante gli fosse stato intimato a più riprese di ritirare gli articoli controversi, l'uomo si era rifiutato di farlo. Aveva unicamente modificato taluni termini per non violare la norma penale contro la discriminazione razziale. Molto seccato per il procedimento nei suoi confronti e umiliato per una perquisizione non comunicatagli preventivamente, il cinquantenne aveva sputato contro un magistrato obbligando quest'ultimo ad interrompere un'udienza.
(Corriere del Ticino, 12 ottobre 2014)
Il pensiero ebraico dal Talmud a Martin Buber
Due volumi del rabbino Giuseppe Laras
di Cristiano Bendin
Due corposi volumi sulla storia del pensiero ebraico, scritti da uno dei più autorevoli rabbini italiani ed europei, editi dalla casa editrice cattolica Dehoniane di Bologna, con una prefazione del cardinale Carlo Maria Martini. Basterebbe questo inedito mix di elementi per spiegare l'unicità dell'ultima opera di Giuseppe Laras, rabbino e intellettuale tra i più apprezzati in Europa e pioniere del dialogo ebraico-cristiano. Un dialogo che, dalla Milano degli anni 80, quando era arcivescovo lo stesso Martini, si è propagato fino ai giorni nostri, aprendo una stagione di confronto che, tra alterne fortune, dura tutt'oggi.
Articolata in due torni (storia del pensiero ebraico dalle origini all'età moderna e dall'illuminismo all'età contemporanea), l'opera, intitolata "Ricordati dei giorni del mondo" (una citazione dal Deuteronomio), accompagna il lettore in un affascinante viaggio attraverso i momenti e le figure fondamentali del pensiero ebraico. Preferendo l'espressione pensiero' anziché filosofia', Laras restituisce le principali coordinate della riflessione religiosa e intellettuale ebraica, radicata nella Bibbia e nel Talmud, la cui anima sopravvive fino ad oggi. Non solo, il rabbino, in entrambi i volumi, spiega come il pensiero ebraico dimori alla confluenza tra l'esegesi biblica e rabbinica e i suoi sviluppi, la normativa giuridica (halakhah) e l'etica. Partendo dai testi sacri, l'autore dedica numerose pagine all'incontro tra il pensiero talmudico e quello greco, quest'ultimo veicolato dal pensiero islamico. La teologia ebraica medievale, la cui influenza fu fondamentale per teologi cristiani come Tommaso d'Aquino, seppe ispirarsi anche alla coeva teologia islamica. La successiva espulsione degli ebrei dalla penisola iberica e dal meridione d'Italia - sottolinea Laras sembrerebbero rendere inquietantemente contraddittori gli afflati universalistici rinascimentali. Nonostante ciò, da quel momento in poi, il pensiero ebraico visse una stagione feconda che durò per secoli anche in Italia: si pensi al qabbalista mantovano Yochanàn Alemanno, all'umanista Leone Ebreo a Venezia, al medico e rabbino di Cesena Ovadyah Sforno. In queste pagine appare evidente il contributo dell'ebraismo italiano alla strutturazione dell'ebraismo per come oggi esso è. Altrettanto determinante appare l'apporto ebraico alla formazione della civiltà europea e occidentale. Si pensi al lascito di Moses Mendelssohn, Ilermann Cohen, Martin Buber e Hans Jonas, come pure al pensiero sionistico. Si tratta di un'opera della maturità, composta dopo anni di studio, docenza universitaria e leadership rabbinica. E' la prima volta che un tale lavoro appare in Italia, ai fini di una ragionata comprensione dell'ebraismo.
(La Nazione, 12 ottobre 2014)
«Museo e uscita dall'Ucei»
Per la Comunità ebraica di Roma stasera il Consiglio decisivo
«Avvio della procedura per l'uscita della Comunità ebraica romana dall'Unione delle comunità ebraiche italiane; uscita della comunità ebraica dal consiglio d'amministrazione del Museo della Shoah». Sono i due punti choc all'ordine del giorno del Consiglio della comunità ebraica romana, che si riunirà questa sera. Le polemiche - non solo sotterranee - non sono mancate: così quella di oggi s'annuncia come una discussione lunga e sfibrante: all'ordine del giorno anche il bilancio della Comunità e la gestione dell'ospedale. Intanto, appare chiara la scelta della lista «Hazalc», pur se in minoranza rispetto alla «Per Israele» del presidente Riccardo Pacifici: «Si tratta di argomenti decisivi per il futuro dell'ebraismo in Italia», dicono alcuni consiglieri. E, in riunioni e lettere e appelli, invitano a considerare che «la prospettiva dell'uscita dall'Ucei mette a repentaglio l'unità dell'ebraismo». Una scelta che sarebbe in ogni caso «impraticabile» anche perché fuori dall'Ucei «non ci sarebbero le tutele garantite dall'intesa (con lo Stato italiano) anche per gli iscritti».
Oltre al Consiglio della comunità ebraica di questa sera, nei prossimi giorni, per la precisione mercoledì, ecco la riunione decisiva del cda della Fondazione Museo della Shoah: secondo indiscrezioni in quell'occasione Riccardo Pacifici dovrebbe confermare le sue dimissioni, anticipate con una lettera al sindaco Ignazio Marino. L'uscita della Comunità dal Cda della Fondazione - argomento del Consiglio di questa sera - arriva al termine di altre polemiche, terminate con la scelta del Campidoglio di destinare la Casina dei Vallati alla sede temporanea del Museo e di procedere con l'apertura delle buste per il progetto di Villa Torlonia, sede definitiva. Secondo i consiglieri di minoranza ostacolare questa soluzione, e quindi uscire dal Cda della Fondazione, sarebbe «inaccettabile, perché vanificherebbe il faticoso lavoro collettivo e ormai decennale, mettendo forse fine alle speranze di avere il Museo della Shaoh a Roma». Bocciano anche questa come «proposta irresponsabile».
(Corriere della Sera - Roma, 12 ottobre 2014)
L'eccezione Marocco
Un modello antifanatismo. Un re «protettore» di tutte le fedi, un governo islamico moderato e la fiducia in un futuro «africano». Così il Paese è diventato un modello di stabilità e (timido) pluralismo dove il fanatismo non sfonda.
di Ernesto Galli della Loggia
Corne può una società povera e tradizionale del mondo islamico compiere un tragitto verso la modernizzazione e la partecipazione politica senza cadere in uno dei due opposti pericoli classicamente in agguato su questa strada: la dittatura militare da un lato (tipo Egitto e Algeria) o il plebiscitarismo islamo-populista (tipo Iran) dall'altro? In Marocco si toccano con mano i fattori che rendono possibile una simile impresa che visto il panorama generale ha quasi del miracoloso), anche se al tempo stesso ci si rende conto di come questi fattori siano spesso irriproducibili, dipendendo soprattutto dalla storia.
La storia del Marocco ne ha messi in campo almeno due di questi fattori, entrambi rivelatisi decisivi: innanzitutto la circostanza che il Paese tra l'altro il solo del mondo arabo a essersi sottratto al dominio ottomano gode da oltre tre secoli dell'ininterrotta presenza di un'effettiva statualità sotto una medesima dinastia, capace a suo tempo di rivendicare l'indipendenza nazionale anche contro il colonialismo francese. In secondo luogo il fatto che da tempo il re, in quanto insignito del titolo di «Signore dei credenti» si considera non solo il capo religioso dei suoi sudditi islamici, ma anche il protettore dei sudditi che si riconoscono nelle altre due grandi fedi monoteiste. Ciò che non solo permette l'esistenza di una tolleranza religiosa a favore di cristiani ed ebrei (la comunità ebraica in Marocco è antichissima con molti discendenti degli ebrei scacciati dalla Spagna nel 1492) oggi, a differenza di ogni altro Paese della regione, garantita anche dalla nuova Costituzione del 2011- ma che, cosa forse ancora più importante, costituisce la premessa perché il sovrano (e cioè lo Stato) eserciti una forte funzione di guida e di controllo sull'intera sfera religiosa islamica e in particolare sul clero. In questo antico Stato, governato da una specie di «giuseppinismo» arabo, il fondamentalismo, insomma, trova un muro difficilmente valicabile.
Protetta su questo versante decisivo, e legittimata nazionalmente dalla sua storia, la monarchia, con l'attuale re Mohammed VI di orientamento decisamente liberaleggiante, mira a svolgere un suo forte ruolo nel processo di democratizzazione, cercando di porsi intelligentemente come istanza di garanzia, di mediazione e di moderazione. Da questo punto di vista il Marocco si presenta come un caso da manuale circa la funzione che può avere un «potere neutro» in una situazione di elevata potenzialità conflittuale, qual è certamente quella di un Paese impegnato in una transizione complessa. Nel quale oggi si assiste, per l'appunto, al rodaggio appena timidamente iniziato di un sistema costituzionale pluralistico e pluripartitico, e contemporaneamente sullo sfondo di una notevole crescita economica e di un'altrettanto forte emigrazione in Europa a un'impetuosa trasformazione culturale e sociale (nascita di una
Nonostante la presenza di un governo a base parlamentare regolarmente eletto, il potere appare tuttora saldamente nelle mani del monarca, non per nul- la fatto puntualmente oggetto su quasi tutta la stampa di altisonanti formule di omaggio.
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nuova borghesia, diffusione dell'istruzione anche femminile, crollo del tasso di fertilità, urbanesimo, abbandono dei valori tradizionali, ecc...).
Nonostante la presenza di un governo a base parlamentare regolarmente eletto (dominato da una lista ispirata a un islamismo moderato), il potere appare tuttora saldamente nelle mani del monarca, non per nulla fatto puntualmente oggetto su quasi tutta la stampa di altisonanti formule di omaggio. Che a orecchie occidentali possono certo dare un suono alquanto stridulo, ma che qui servono soprattutto a ribadire il ruolo che il re esercita, avendo cura di apparire peraltro quanto più possibile super partes. Un ruolo protetto sì da una capillare vigilanza poliziesca (lungo le strade nazionali vi è un posto di blocco in pratica ogni decina di chilometri) e intinto certamente di una buona dose di paternalismo, anche se di un paternalismo esplicitamente illuminato, dal tono quasi progressista, volto in ogni modo a promuovere la crescita del Paese.
Si veda per esempio la fondazione di una modernissima università residenziale come quella di Al Akhawayn, o quella di un Istituto di studi strategici, a Rabat, impegnato a esplorare in maniera indipendente gli scenari futuri del Paese e a farne oggetto di periodiche discussioni allargate ai rappresentanti di tutti i partiti. La scommessa principale è, come si capisce, quella dello sviluppo economico. Ma anche qui, sospinto dalle rimesse dei suoi oltre tre milioni di emigranti in Europa (di cui oltre mezzo milione in Italia) e dalle entrate apportate dalla decina di milioni di turisti che arrivano ogni anno, il Marocco sembra poter guardare con un certo ottimismo al suo futuro, avendo fatto segnare dall'inizio del Duemila una crescita del Pil tra il 3,5 e il 6 per cento annuo. Chi visita oggi il Paese si trova di fronte a un fervore d'iniziative, a una voglia diffusa di migliorare, a scenari di grandi lavori in corso (come quelli per il gigantesco nuovo porto commerciale alle porte di Tangen), che ricordano un po' l'Italia degli anni 50-60. II che non toglie che si tratti tuttora di un Paese alle prese con gravi problemi di disoccupazione, con circa un quarto della popolazione in condizioni di povertà, con un'agricoltura troppo spesso in balia degli eventi meteorologici e gravata da troppi addetti, con un livello di importazioni che è quasi il doppio di quello delle esportazioni.
Per il suo futuro esso guarda sì all'Europa (anche all'Italia, oggi tuttavia decisivamente latitante), ma soprattutto all'Africa, pur dovendosi guardare attentamente dalle ondate migratorie provenienti da Sud, nelle quali può nascondersi di tutto, a cominciare dalle cellule del terrorismo fondamentalista, mentre sempre a Sud, nel Sahara occidentale ex spagnolo (la cui annessione da parte del Marocco non è mai stata riconosciuta da alcuno Stato) è sempre più o meno latente la rivolta del Fronte polisario, appoggiata dall'Algeria, con la quale i rapporti diplomatici sono interrotti da decenni, anche se negli ultimi tempi non mancano segnali di riconciliazione.
Proprio alla riscoperta di una vocazione africana a lungo messa un po' daparte dalla non partecipazione all'Unione Africana a causa della questione del Saharaparallela però al mantenimento di una posizione sostanzialmente filo-occidentale nel quadro di uno sviluppo intemo in senso costituzionale, proprio a questo peculiare equilibrio, il Marocco sembra affidare oggi il suo futuro, singolarmente diverso da quello di tutti gli altri Paesi della regione.
(Corriere della Sera, 12 ottobre 2014)
Un seminario per gestire le emergenze
Anche quest'anno l'Associazione Medica Ebraica, in collaborazione con l'Associazione Amici del Maghen David Adom Italia, offre la possibilità a tre giovani di partecipare, con una borsa di studio, all'International Seminar in Emergency Responsability che si svolgerà in Israele dal 30 novembre al 5 dicembre 2014. Il bando di partecipazione è riservato a due medici e un operatore sanitario laureati che operano in strutture sanitarie di Pronto Soccorso. Un'occasione che permetterà di incontrarsi e confrontarsi con medici di ospedali israeliani, di conoscere staff e volontari del Maghen David Adom e visitare la Banca del Sangue. Ma anche di assistere lezioni sulla gestione di emergenze, catastrofi naturali e terrorismo. Fino a discutere sulle differenze con il proprio paese d'origine ed a celebrare insieme la festa di Chanukkah. Per poter presentare la propria candidatura al bando del seminario (che sarà in lingua inglese) c'è tempo fino al 30 ottobre: la richiesta andrà inviata all'indirizzo info@amdaitalia.org oppure ameitalia@yahoo.it e il responso verrà dato entro il 10 novembre, inoltre per ulteriori informazioni si potrà scrivere a: info@amdaitalia.org / ameitalia@yahoo.it. Un viaggio che segue le orme della celebre frase del Talmud: Chi salva una vita salva il mondo intero.
(moked, 12 ottobre 2014)
Il "genocidio" ignorato dei palestinesi
Il genocidio comincia sempre con il silenzio, è stato scritto da qualche parte, ad opera di gente che evidentemente ha a cuore le sorti di chi soffre inascoltato. Secondo un'organizzazione internazionale, sono oltre 2500 i palestinesi uccisi finora: 2512, per l'esattezza, decimati dall'aviazione e dall'artiglieria di Assad, che prende di mira deliberatamente i campi profughi di Yarmouk, in Siria.
Per essi non ci saranno paginoni a pagamento sul New York Times, non ci saranno denunce alle Nazioni Unite, nessun parlamentare presenterà interpellanze al governo, nessun consigliere regionale o comunale o circoscrizionale si prenderà la briga di prenotare un albergo nel Vicino Oriente per attestare la sua pelosa solidarietà, nessuna ONG di quelle che fanno notizia denuncerà la repressione brutale, nessuno strampalato comico o vignettista raffigurerà il sangue sparso e la tragedia ignorata dei palestinesi di questa terra funestata da una guerra civile che ha prodotto oltre 190.000 morti....
(Il Borghesino, 12 ottobre 2014)
Israele - Record mondiale di nuoto: 380 km nel Mediterraneo
Dalla costa cipriota a Tel Aviv: la traversata per chiedere un Mare Nostrum meno inquinato
Trecentottanta chilometri da Cipro a Israele: è questa l'impresa di sei nuotatori per sensibilizzare l'opinione pubblica sul problema dell'inquinamento del mar Mediterraneo. Questi israeliani, tra i 44 e i 66 anni, sono partiti dalla costa greca di Cipro della cittadina di Pafo, fino a giungere alla costa israeliana di Tel Aviv, ottenendo così un nuovo record del mondo. Ci avevano provato anche lo scorso anno ma avevano dovuto rinunciare a metà tragitto a causa del mare troppo agitato. Quest'anno, invece, tutto è andato liscio fino alla destinazione dove sono stati accolti dal ministro dell'ambiente israeliano, Amir Peretz, che ha salutato i nuotatori presso il porto di Herzliya a nord di Tel Aviv.
(CorriereTV, 11 ottobre 2014)
Comune di Palizzi: collaborazione con il mondo ebraico
"Documento programmatico per una collaborazione degli Enti locali e delle istituzioni ebraiche del meridione d'Italia in area Grecanica".
E' questo il contenuto del documento firmato da Walter Scerbo, Sindaco di Palizzi, Attilio Funaro, Presidente Istituto Internazionale di Cultura Ebraica, ed Baruch Triolo, Presidente Charta delle Judeche di Sicilia.
«La costituzione della Charta delle Judeche della Provincia di Reggio Calabria, con la partecipazione di molte municipalità e con il coordinamento della Provincia, ha avviato un dialogo tra istituzioni ebraiche del meridione d'Italia e le realtà locali, - dichiarano - già ampiamente collaudato nella regione Sicilia, ove si stanno realizzando lusinghieri progetti di sviluppo sia in ambito culturale che di evoluzione economica dei territori aderenti alle iniziative.
Forti di tali esperienze, riteniamo che l'Area Grecanica costituisca un valido momento per innescare un rapporto di concreta e costruttiva osmosi, sia in area mediterranea che di risveglio culturale ed economico dei suoi territori».
I tre aggiungono che
«appare necessario coordinare uno sforzo di solidarietà sia in ambito culturale, che di evoluzione in forma neodemocratica, che soprattutto di sviluppo economico internazionale, che possa favorire un più ampio dialogo tra i paesi interessati.
In tale ambito, la neo instaurata collaborazione delle citate istituzioni con le realtà delle autonomie locali, costituisce un primo tessuto connettivo su cui innescare le migliori iniziative sostenute oltre che dagli enti, dalle migliori intelligenze che i territori possano offrire.
A tale proposito sarà necessario coinvolgere, in un tavolo congiunto, le associazione delle categorie produttive e le università, al fine dello sviluppo di proficue progettualità, che possano proiettare i nostri territori e le istituzioni, in un costante e fattivo confronto con le corrispettive realtà dei Paesi dell'area mediterranea, prime tra tutte lo stato di Israele.
Le Istituzioni ebraiche, la neo costituita Charta delle Judeche della Provincia di Reggio Calabria ed il nostro comitato scientifico, auspicano una proficua attività di coordinamento e di sviluppo che possa contribuire per un proficuo dialogo del quale, oggi più che mai, necessità l'area Mediterranea, volto alla collaborazione tra i popoli per il principale obiettivo della pace e socialità tra gli stessi.
L'approvazione del presente documento in seno al Consiglio comunale di Palizzi è la manifestazione espressa dell'impegno solenne di dare luogo, in sinergia con altri Comuni, Enti e soggetti giuridici, portatori di interessi collettivi, nonché col tessuto imprenditoriale e produttivo ad un progetto pilota, di cui Palizzi costituisce il laboratorio di sperimentazione dell'Area Grecanica.»
(NTACALABRIA.it, 11 ottobre 2014)
Dagli Usa un film su Bartali, il campione che salvò gli ebrei
di Francesco Gallo
Ancor più che un grande campione di ciclismo Gino Bartali fu un eroe, un giusto, e soprattutto uno che non amava far sapere le sue gesta. My Italian Secret. Gli eroi dimenticati film documentario di Oren Jacoby, evento speciale in apertura del Festival Internazionale del Film di Roma, racconta appunto il suo coraggioso impegno a favore degli ebrei perseguitati. È lui il vero protagonista di questo film dove ci sono le testimonianze del figlio Andrea Bartali e di personaggi testimoni e vittime come Riccardo Pacifici, Pietro Borromeo, Gaia Servadio, Charlotte Hauptman, Piero Terracina, Ursula Korn Selig, Ugo Sciamanno, Mercedes Virgili, Grazia Viterbi, Giorgio Goldenberg, Wanda Lattes e Suor Benedetta. II tutto con la voce narrante di Isabella Rossellini. Di scena insomma non solo il racconto del ciclista Gino Bartali, ma anche del medico Giovanni Borromeo che si inventò addirittura un morbo (il morbo k) nel suo ospedale romano sull'isola Tiberina per rifugiare ebrei «contaminati» e così protetti dalla paura di questa malattia.
Ma, com'è noto, furono tanti gli italiani che lavorarono segretamente per salvare ebrei e fuggiaschi dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Bartali, il vincitore del Tour de France del 1938, lui che era per il fascismo «il campione ariano» fece centinaia di viaggi trasportando documenti falsi nascosti nel telaio della sua storica bicicletta Legnano e nascose anche un'intera famiglia nella sua cantina.
My Italian Secret segue anche con ritmo e la giusta discrezione il ritorno in Italia di alcuni dei sopravvissuti che raccontano le loro storie e ringraziano le persone che offrirono la loro vita per salvare degli sconosciuti. La cosa che comunque spicca di più in questo film-documentario è il rispetto del figlio di Bartali, Andrea, verso il padre ancora oggi. Con grande umiltà Andrea parla del lascito paterno di quelle vicende. «Un giorno mio padre mi ha raccontato cosa aveva fatto per gli ebrei subito dopo le leggi razziali fasciste, ma la cosa che mi raccomandò più volte è di aspettare a comunicare queste cose. Mi diceva, ci sarà un momento giusto nel quale capirai che sarà giusto dire queste cose. E aggiungeva: «il bene si fa, ma non si dice».
Divertente, infine, come il regista è arrivato a fare questo lavoro. «Vivo a New York e da 20 anni vado a tagliarmi i capelli sempre dallo stesso barbiere, Salvatore Macri Un giorno - dice -, mentre mi stavo alzando dalla sedia mi ha presentato l'uomo che stava per sedersi al posto mio: si trattava di Joseph Perella, un finanziatore. Salvatore doveva aver detto qualcosa sul fatto che ero stato nominato all'Oscar (Constantinès Sword nel 2007). "Che coincidenza!" disse Joseph, "mi serve un regista". Nessuno dei due aveva idea delle coincidenze che avremmo poi ritrovato man mano che ci conoscevamo. Così è nato il progetto».
(la Gazzetta del Mezzogiorno, 11 ottobre 2014)
Appello su Facebook:"Berlino più economica di Tel Aviv, immigriamo". Polemiche a Israele
A far discutere è la pagina Facebook "Olim le-Berlin" creata da un anonimo cittadino residente in Germania. Punta sul cibo costa meno e sulla mancanza di antisemitismo.
di Maurizio Molinari
GERUSALEMME - "Immigriamo a Berlino, dove il cibo costa meno e l'antisemitismo non c'è". A far discutere Israele è la pagina Facebook "Olim le-Berlin" - Immigrati a Berlino - creata tre settimane fa da un anonimo cittadino residente in Germania per documentare, fatture alla mano, quanto il costo del cibo nella capitale tedesca sia inferiore rispetto a una grande città come Tel Aviv. In particolare, spiega l'anonimo utente di Facebook, il budino al cioccolato a Berlino costa "appena 19 centesimi di euro" mentre in Israele il prezzo sugli scaffali è da capogiro.
Se la provocazione fa notizia è perché nello Stato ebraico infuria la polemica sui rincari alimentari, al punto da spingere il ministro della Finanze Yair Lapid a definire "Olim le-Berlin" come l'"espressione di un sentimento anti-nazionale" che "mina dal di dentro la nostra nazione". Ma il titolare della pagine Facebook rilancia la sfida, con una serie di post nei quali spiega di aver ricevuto "migliaia di adesioni e grande sostegno alla denuncia" fino al punto da sentirsi titolato a "rivolgere alla cancelliera Angela Merkel" un singolare appello: garantire ai cittadini israeliani almeno 25 mila visti di lavoro annui "per andare incontro ad una richiesta di immigrazione in crescita" da parte di "una delle nazioni più ricche ed avanzate del Pianeta". E per avvalorare tale appello, "Olim le-Berlin" spiega che "la capitale tedesca &2grave; una città ospitale per gli israeliani, perché non c'è l'antisemitismo aggressivo che si respira in altri luoghi in Europa e la memoria della Shoà è talmente condivisa dagli abitanti da farla assomigliare a Tel Aviv".
(La Stampa, 11 ottobre 2014)
Riparte la truffa miliardaria degli aiuti a Gaza
Da domani riparte la truffa miliardaria degli aiuti a Gaza, riparte cioè la maggiore fonte di finanziamento per il gruppo terrorista di Hamas che, al di la delle promesse, gestirà completamente il flusso di denaro che arriverà ufficialmente nelle casse della ANP.
La Conferenza dei Donatori che si svolgerà a partire da domani al Cairo, in Egitto, si prefigge di ricostruire le abitazioni per 100.000 abitanti di Gaza che, secondo l'Onu, non avrebbero un tetto sopra la testa.
In merito all'importo che serve per questa "ricostruzione" ci sono già i primi dati discordanti. Secondo l'Onu la somma necessaria sarebbe di 1,6 miliardi di dollari, secondo l'Autorità nazionale Palestinese servirebbero invece 4 miliardi di dollari solo per iniziare la ricostruzione, una differenza non da poco. Evidentemente la ANP calcola anche il denaro che finirà nei loro conti svizzeri e quello necessario ad Hamas per ricostruire i tunnel del terrore....
(Right Reporters, 11 ottobre 2014)
Sartre in nero
Galster svela l'ipocrisia dell'intellettuale durante l'occupazione nazista di Parigi. Al Lycée Condorcet il professor Sartre prese la cattedra di un ebreo cacciato, il nipote del capitano Dreyfus. Mise in scena "Les mouches" in un teatro "arianizzato" di Parigi, e dopo aver passato il vaglio della censura nazista. Ancora nel 1944 scriveva per Comoedia, la rivista antisemita e collaborazionista finanziata dall'istituto tedesco. Abbandonò al suo destino Bianca Lamblin, la studentessa ebrea che andava a letto con lui e Simone de Beauvoir.
di Giulio Meotti
Jean-Paul Sartre che lavora a un tavolino di caffè con l'immancabile sigaretta tra le labbra, Sartre a passeggio per Parigi e per le capitali di tutto il mondo con Simone de Beauvoir, Sartre drammaturgo circondato da attori famosi, Sartre che rifiuta il Nobel, Sartre con i potenti della terra, Sartre alle assemblee alla Sorbona, Sartre alle manifestazioni per il Vietnam, Sartre che fa strillonaggio per la Cause du peuple, Sartre davanti ai cancelli della Renault, Sartre il comunista inquieto che conia "la moralità nella politica" e confessa "stima incondizionata per Mao". E' il professore borghese che si è trasformato in filosofo e scrittore universale, con una parabola personale che ha rappresentato un esempio e uno stimolo per due generazioni d'intellettuali. Sartre finì con l'accreditarsi come instancabile chansonnier della rive gauche, interprete di un sinistrismo ripetitivo, fuggito dalla filosofia, come amava dire Lucio Colletti, verso "le scorciatoie della letteratura". Con quella sua faccia sabbiosa, la voce metallica, gli occhi vigili dietro a lenti strette, il maglione nero girocollo e il giubbottino chiaro che indossava nei giorni delle manifestazioni, Jean-Paul Sartre è stato il simbolo dell'impegno a sinistra, un campione del Bene. Ma anche un paradosso. Soldato senza aver voluto esserlo e senza averlo rifiutato, prigioniero senza aver combattuto, intellettuale che corre nella notte dietro al proletariato senza avere acceso la propria lanterna, che mendica la prigione vendendo per le strade un giornale proibito. Adesso gli cade addosso l'accusa di essere stato un cinico profittatore dell'occupazione nazista della Francia.
Adorazione isterica e denigrazione hanno sempre accompagnato Sartre. Ma adesso l'accusa viene da una sartrologa di fama internazionale, Ingrid Galster, autrice del nuovo libro "Sartre sous l'Occupation et après. Nouvelles mises au point", pubblicato dall'Harmattan. Sono quelli che l'Express chiama, nel numero in edicola questa settimana, "les années noires" di Sartre. Gli anni neri che smontano il mito sartriano.
L'accusa è pesante: "Attentisme". Dunque né collabo né résistant. Ma neppure "résistance de plume", come si beavano gli intellettuali sartriani dopo la guerra, rispetto a chi, come Jean Cavaillès e Jean Gosset, filosofi colleghi di Sartre alla Normale, imbracciarono le armi pagando con la vita il loro impegno. Sartre invece beneficiò in molti modi dell'occupazione nazista di Parigi e del regime di Vichy. Archivi sorprendenti sono stati rinvenuti negli ultimi anni. Galster, docente all'Università di Paderborn (Germania) e curatrice fra gli altri del saggio sartriano "Réflexions sur la question juive", ha dato forma a queste scoperte.
Il suo libro non si occupa dei celebri letterati collaborazionisti felici di "separarsi dagli ebrei en bloc'', come Drieu La Rochelle o Louis-Ferdinand Céline. Galster decifra e smonta l'autore della "Nausea", l'icona del Café de Flore che nel primo numero della sua rivista Les Temps modernes denunciò l'''homme de lettres'', gli scrittori borghesi e collaborazionisti, come una antitesi, l'incarnazione di qualità negative, la sentina del male.
"Durante la guerra, Sartre non era né un santo né un criminale, o un resistente o un 'collaborazionista''', scrive Galster. "Prima della guerra, lui e Simone de Beauvoir erano 'spettatori' delle notizie. Sartre non ha nemmeno votato nel 1936, l'anno del Fronte Popolare. Sotto l'occupazione, non ha rinunciato alla sua vocazione di scrittore. E ha ricoperto la carica di un professore ebreo licenziato da Vichy".
E' l"'Affaire du Lycée Condorcet". O, per dirla con il Sunday Times di questa settimana, "come Sartre ha beneficiato dell'antisemitismo". Nel settembre del 1941, Sartre fu nominato professore di Filosofia in
Sartre, che fino a quel momen- to aveva insegnato in un liceo di Neuilly, ottenne una prestigio- sa cattedra assegnata in precedenza a Henri Dreyfus-Le Foyer, un ebreo cacciato in ottemperanza allo Statut des juifs, nonché nipote del famoso capitano Dreyfus.
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quell'istituto di Parigi, che avrebbe dovuto preparare gli studenti alla Ecole Normale Supérieure. Una promozione per il professore, allora trentaseienne, che fino a quel momento aveva insegnato in un anonimo liceo di Neuilly, L'unico problema è che quella prestigiosa cattedra in precedenza era assegnata a Henri Dreyfus-Le Foyer, un ebreo cacciato in ottemperanza allo Statut des juifs, nonché nipote del famoso capitano Dreyfus. Il figlio di Dreyfus-Le Foyer ha detto a Galster che il padre dopo la guerra, a cui sopravvisse per miracolo, morì con l'amarezza di non aver mai ricevuto il minimo segno, per non parlare di scuse, da parte di Sartre.
Alcuni anni fa Ingrid Galster aveva pubblicato un saggio sulla rivista Commentaire con l'eloquente titolo "Réponse à une diffamation". Galster è dura: "Sartre teorizza la cattiva fede (a proposito de 'L'essere e il nulla') nel momento stesso in cui la pratica, e se può scrivere i suoi testi contro Vichy è unicamente perché ha il tempo di farlo grazie all'esclusione antiebraica".
Quanto al ruolo di Sartre nella Resistenza, Galster taglia corto. Il filosofo, la De Beauvoir e i loro amici avevano creato un gruppo chiamato "Socialisme et Liberté", che prevedeva di resistere a Vichy e al nazismo attraverso degli incontri intellettualoidi a cui partecipavano quattro gatti. Nel corso dell'estate 1941, Sartre e Beauvoir avvicinarono diverse personalità, tra cui André Gide e André Malraux. Tutti declinarono l'invito a unirsi al loro gruppo.
Dopo la Liberazione, questo e altri episodi hanno contribuito a costruire la reputazione di Sartre come membro della Resistenza. Georges Canguilhem e Jean Cavaillès furono due eroi della Resistenza. Sartre a dir poco uno spettatore. Tutti i membri della Resistenza avevano documenti falsi. Sartre non ne ebbe mai bisogno. Ma ebbe bisogno invece dell'autorizzazione di Otto Abetz, il plenipotenziario culturale del Terzo Reich a Parigi, per pubblicare il suo primo importante testo filosofico, "L'ètre et le néant" (in italiano "L'essere e il nulla").
Poi emerge un documento in cui Sartre dichiara di non aver mai fatto parte della massoneria. Sotto l'occupazione, gli autori avevano l'obbligo di sottoscrivere di non essere né ebrei né massoni - e Sartre rimproverò duramente la compagna, Simone de Beauvoir, di averlo fatto, assicurando che lui non sarebbe mai sceso a un simile compromesso. Ora gli archivi lo smentiscono. Ipocrita. E' lo stesso Sartre che il 1o novembre 1946, alla Sorbona, tenne il discorso "La responsabilité de l'écrivain" (la responsabilità dello scrittore), in cui affermava che ogni tedesco che non aveva protestato contro il nazismo era responsabile di quanto accaduto. "Nella Germania nazista i professori avrebbero potuto lasciare l'università o dimettersi quando un ebreo veniva cacciato", scriveva Sartre, rimproverando agli insegnanti tedeschi di non aver fatto quello che lui stesso non solo non aveva saputo fare, ma peggio che aveva alimentato prendendo il posto dell'ebreo al liceo.
Su Libération del 1986, il filosofo ebreo Vladimir Jankélévitch ebbe parole durissime su Sartre, la cui retorica resistenziale non faceva i conti con la sua condotta a Vichy. E' la stessa accusa che gli rivolgerà Gilbert Joseph nel libro "Une si douce occupation" (una così dolce occupazione), a proposito del suo carrierismo. Carrierismo comune ad altre icone, come Cocteau, Miro, Matisse, Braque e Kandinsky, Tutti esposero quadri a Vichy, mentre l'editore Gallimard triplicava il suo fatturato e in quattro anni si girarono duecento film. E il paradosso ultimo fu che tanti artisti finirono per preferire la censura tedesca a quella di Vichy. Molto più liberi sotto l'occupante germanico ossessionato dagli ebrei.
Nel 1943, l'anno in cui Sartre divenne Sartre, lo scrittore mise in scena il suo "Les mouches" al teatro Sarah Bernhardt. Soltanto che il teatro era stato "arianizzato" e il nome dell'ebrea cancellato dalla facciata per far posto al più scarno "Théàtre de la cité". Eccolo Sartre, che si vantava di non essere un intellettuale prigioniero nella "torre d'avorio", ma lo studioso collegato "alle masse" a un rapporto di solidarietà e di critica. Uno che si vanterà di non essersi mai iscritto al Partito comunista perché "non ho voluto abbandonare la mia libera ricerca".
E' lo stesso Sartre, spiega Ingrid Galster, che scrisse per Comoedia, un settimanale collaborazionista finanziato da Berlino. Il suo primo articolo fu su "Moby Dick", ma nello stesso numero appariva un attacco
Sartre era arrivato addirittura ad accompagnare René De- lange, il direttore di Comoe- dia, a un pranzo organizzato da ufficiali culturali tedeschi.
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a Bernard Nathan, "quell'indesiderabile del ghetto balcanico". E anche al culmine dell'occupazione, nel gennaio del 1944, Sartre scrisse un saggio per la rivista collaborazionista, in omaggio a Jean Giraudoux. Sartre era arrivato addirittura ad accompagnare René Delange, il direttore di Comoedia, a un pranzo organizzato da ufficiali culturali tedeschi. Comoedia era nato nel 1907 sotto la direzione di Henri Desgrange. Scomparve nel 1938 per riapparire il 21 giugno 1941, sotto la direzione di Delange, che sebbene invocasse la propria "indipendenza totale", dipendeva politicamente e finanziariamente dall'Istituto tedesco. Nel 1943 la De Beauvoir ottenne sempre da Delange il posto di regista alla radio di Vichy, che emetteva programmi come "La milizia francese vi parla".
Nei confronti di Auschwitz e di Vichy, Sartre fu totalmente cieco, per non dire di peggio. "Sartre fu indifferente all'Olocausto?", chiede questa settimana il Jewish Chronicle che dedica un lungo servizio allo scrittore francese. Nelle sartriane "Riflessioni sulla questione ebraica", non si trova alcun accenno, neppure una parola, alla "soluzione finale" decisa dai nazisti. Quel libretto, scrive Galster, fu piuttosto una "compensation", il tentativo di bilanciare il silenzio e la connivenza con l'occupazione tedesca.
Poi c'è il caso di Bianca Lamblin, nata Bienenfeld, ebrea, la studentessa di Simone de Beauvoir al liceo Molière che divenne l'amante di entrambi. Ma quando i nazisti arrivarono, Sartre e "il Castoro" la abbandonarono al suo destino. Dopo la guerra, Bianca avrebbe accusato Sartre nel libro, "Mémoires d'une jeune fille dérangée".
Tra i sartrologi, c'è chi accusa Galster di "disonestà intellettuale", mentre c'è chi, come Michel Winock, sostiene che "Sartre mostrò la stessa indifferenza agli ebrei della maggioranza dei francesi". Paul Johnson, nel suo magistrale "Intellettuali", di Sartre scrive: "Per la Francia la guerra fu un disastro; per alcuni amici fu la morte: per altri fu il pericolo; ma Sartre ebbe una buona guerra". André Malraux, un altro immortale che riposa nel Pantheon, fu più spietato: "lo dovevo avere a che fare con la Gestapo, mentre Sartre vedeva i propri lavori pubblicati con l'autorizzazione dei censori tedeschi".
E' lo stesso Sartre che nazificherà lo scrittore Robert Brasillach, storpiandone il nome in "Brazillach". Come scrisse Philip Watts, "Sartre si erse ad avvocato, giudice e giuria" della letteratura francese durante la guerra. Nel 1948 accusò gli scrittori che si erano resi complici dell'ingiustizia: "Ritengo Flaubert e Goncourt responsabili per la repressione che seguì alla Comune, perché non scrissero una riga per prevenirla". Lo stesso vale per Sartre, chansonnier a proprio agio nella Parigi occupata. Come hanno scritto Carlo Fruttero e Franco Lucentini, "Sartre conservò lo stampo segreto, e letale del professore di liceo francese, del prof de philo che con la parola e la penna potrà demolire e creare partiti e movimenti, librarsi su complessi sistemi di pensiero e su civiltà millenarie, ma che poi, calata la sera, rientra in una casa dove ogni tavolo esibisce un centrino di pizzo regalato dalla zia". Dopo aver letto il libro di Galster non resta niente del moralistico motto di Sartre secondo cui, di fronte al male, si può soltanto "collaborare o resistere". Emerge, invece, tutta l'ipocrisia del maitre à penser. Che il suo arcinemico, Emil Cioran, ebbe a definire, magistralmente, "la bambola".
(Il Foglio, 11 ottobre 2014)
Assolto il professore che negò l'esistenza dell'olocausto
Roberto Valvo aveva detto a una studentessa di origine ebraica, i cui nonni avevano conosciuto i campi di sterminio, che tutto sommato si era trattato di una montatura cinematografica. Per la procura non è reato esprimere la propria opinione.
ROMA - Aveva negato l'Olocausto, dicendo a una studentessa di origine ebraica, i cui nonni avevano conosciuto i campi di sterminio, che tutto sommato si era trattato di una montatura cinematografica. Ma è stato assolto, perché per il giudice esprimere la propria opinione non è un reato, nemmeno se l'idea manifestata è "aberrante" e "lesiva della sensibilità" di una ragazzina.
È questo il motivo che ha scagionato il professor Roberto Valvo, ex docente di Storia dell'arte al liceo artistico Ripetta, imputato con l'accusa di discriminazione razziale o religiosa, per aver propagandato teorie negazioniste di fronte a Sofia, 16 anni. Per il magistrato, nonostante abbia fatto commenti e osservazioni certamente censurabili moralmente, non ha mai inteso propagandare tali sue idee. La condotta di propaganda è tale solo quando destinata a un uditorio vasto. E quel giorno, in classe, c'erano solo tre studenti.
- "Gli ebrei sono furbetti"
Il 31 ottobre 2008, mentre quasi tutti avevano aderito a uno sciopero, Valvo chiese alla ragazzina le sue origini, incuriosito dal cognome, e lei aveva risposto di essere ebrea. "Ah, gli ebrei sono furbetti, bisogna stare attenti!", era stata la replica del docente. A quel punto, in privato, Sofia aveva chiesto a Valvo cosa ne pensasse della Shoah. E lui aveva risposto che i numeri dell'Olocausto non sono autentici e la tragedia della Shoah dovrebbe essere ridimensionata. Persino i video dei campi di concentramento sarebbero stati girati da una sfilza di registi.
(Cado in piedi, 10 ottobre 2014)
Dalla Shoah alla nascita del Museo: viaggio nella storia promosso da 4 Rotary Club pontini
ROMA - Le attività della Fondazione del Museo della Shoah, i racconti e le testimonianze degli ebrei delle comunità di Roma, Fondi, Priverno, Cori, Sermoneta e Terracina al centro dell'incontro organizzato, presso l'hotel Europa del capoluogo, dai Rotary Club Latina, Aprilia-Cisterna, Latina Circeo e Monti Lepini presieduti da Gianluca Cassoni, Alessandro Sestili, Mileda Polizzi e Piero Coluzzi.
Un vero e proprio viaggio nella storia con relatrice d'eccezione la prof.ssa Irene Baratta, originaria di Latina e docente di Storia e Filosofia che, anche in qualità di ricercatrice della Fondazione, ha partecipato negli anni ai Progetti della Memoria, di Roma Capitale, e ha collaborato alla realizzazione di mostre e cataloghi sulla Shoah promossi dalla Fondazione stessa.
«L'erosione dei diritti, la discriminazione, l'emarginazione, l'isolamento degli ebrei hanno segnato per sempre la nostra Storia - ha affermato Baratta - Tutte le maggiori capitali hanno un museo della Shoah e Roma non poteva rimanere indietro su questo. Con ogni probabilità, il museo verrà costituito ex novo sulla base di un progetto dell'architetto Luca Zevi, nei pressi di Villa Torlonia, che ha un forte valore simbolico, sia perché nel giardino sono state rinvenute antiche catacombe ebraiche che dimostrano la millenaria presenza della comunità ebraica a Roma, sia per la vicinanza a Porta Pia, la cui breccia diede inizio al processo di emancipazione degli ebrei romani. Non si può e non si deve dimenticare l'orrore avvenuto nei campi di sterminio affinché quello è stato non possa più ripetersi».
(h24notizie, 10 ottobre 2014)
Minacce degli estremisti arabi a un giovane arabo sionista, costretto a fuggire in Usa
E' stato costretto a riparare negli Stati Uniti Muhammad Zoabi, 16 anni, arabo musulmano di Nazareth, che a giugno su Facebook aveva condannato il rapimento e l'uccisione di tre ragazzi ebrei in Cisgiordania e aveva aggiunto di essere "un sionista che ama lo stato di Israele". "Io penso davvero - aveva detto in una intervista - che sono un essere umano fortunato, e un arabo fortunato, e un mediorientale fortunato perché sono nato in questo piccolo fazzoletto di terra".
"Noi - aveva aggiunto - viviamo la libertà, la libertà è la nostra vita. Nessuno può toglierei la nostra libertà. Noi siamo la speranza in questa regione. Penso che se i siriani e gli egiziani e i libanesi e i giordani e tutti i nostri vicini vogliono vedere una vita veramente democratica, devono venire da noi, e sono più che benvenuti" .
Parole coraggose che sono costate al ragazzo le minacce di morte da parte di nazionalisti palestinesi. Il giovane - che si esprime fluentemente in arabo, ebraico ed inglese - ha risposto su Facebook ai suoi detrattori. Ha anche dato vita ad una schermaglia polemica con una sua cugina, la parlamentare araba israeliana Hanin Zuab del partito Balad, famosa per le sue posizioni estremiste e le sue accese battaglie anti-sioniste.
Alla fine però Muhammad Zoabi ha dovuto ceduto alle pressioni, esercitate anche sulla madre, e si e' trasferito negli Stati Uniti, dove intende proseguire gli studi.
(Shalom 7, settembre 2014)
A Palermo il corso di lingua e cultura ebraica
L'Officina di Studi Medievali di Palermo promuove il VII Corso base di Lingua e Cultura Ebraica.
Il Corso intende fornire gli strumenti di base della lingua ebraica ma anche guidare alla lettura dell'Antico Testamento, affrontando sistematicamente lo studio dell'ebraico biblico. In tal senso, la spiegazione delle strutture grammaticali della lingua ebraica sarà accompagnata dall'esercitazione mediante la lettura e l'analisi di diversi passi biblici.
Il Corso si svolge, con l'ausilio di adeguati strumenti didattici, presso l'Aula Seminari dell'Officina di Studi Medievali (ingresso da Via del Parlamento 32 - zona Corso Vittorio Emanuele / Piazza Marina).
La durata programmata è di 120 ore di formazione frontale d'aula guidate dal Prof. Francesco Bonanno e dalla Prof.ssa Luciana Pepi per la trattazione di alcune questioni relative alla cultura ebraica.
Nello specifico, il Corso è strutturato in due moduli: il primo modulo, di 20 ore, è dedicato allo studio della lingua ebraica nei suoi tratti fondamentali, ed è rivolto a coloro che non hanno alcuna conoscenza della lingua; il secondo modulo, di 100 ore, prevede l'approfondimento della lingua ebraica e parallelamente della tradizione culturale nelle sue diverse forme.
In linea di massima il Corso, che è attivato al raggiungimento di almeno 15 iscritti, si tiene due volte a settimana, martedì e giovedì dalle ore 15.00 alle ore 17.30 e l'inizio è previsto per il 28 ottobre 2014.
Costo dell'intero corso (120 ore) è di 350,00 euro per ogni singolo allievo (con il rilascio di regolare fattura e/o ricevuta utilizzabile a fini fiscali).
Costo del secondo modulo (100 ore) è di 300,00 euro per ogni singolo allievo (con il rilascio di regolare fattura e/o ricevuta utilizzabile a fini fiscali).
La partecipazione prevede:
- Materiale didattico
- Colloquio Finale
- Attestato di frequenza
- Diritto al riconoscimento di eventuali crediti formativi (CFU) per gli utilizzi consentiti dalla legge
Per informazioni ed iscrizioni si prega di contattare:
Officina Studi Medievali
Via del Parlamento, 32 - Palermo
Tel. +39.091.586314 - Fax. +39.01.333121
(BlogSicilia, 10 ottobre 2014)
Cedro, ricchezza per la Calabria e la comunità ebraica
A Santa Maria del Cedro rinnovato il pellegrinaggio dei rabbini che hanno scelto le piante per il 'Sukkoth', celebrato ancora oggi. E dal 15 ottobre spazio alla 'Festa della raccolta'
C'è un legame profondo che lega la Calabria, in particolare la zona di Santa Maria del Cedro, alla cultura e alla religione ebraica.
E' quello che da secoli porta i rabbini in questa zona per selezionare le piante di cedro essenziali per la festa la festa delle capanne, il 'Sukkoth', in programma sino ad oggi, mentre domani sarà tempo di 'Shabbat'.
Per gli ebrei, il cedro ha un profondo valore simbolico, perché fu Dio a raccomandare a Mosè, come riportano le scritture, di "prendere i frutti dell'albero più bello, dei rami di palma e dell'albero più frondoso, dei salici del torrente e vi rallegrerete dinnanzi al Signore Dio Vostro". E come ricordava lo storico rabbino capo di Roma, Elio Toaff, questo rito dei cedri coltivati in Calabria è iniziato nel 1200 e ancora oggi è vivo.
Così Santa Maria del Cedro e la riviera circostante dal 15 ottobre sino al 1o novembre celebreranno la 'Festa della raccolta 2014? che avrà il suo cuore nelle cedriere e nel 'Museo del Cedro', la 'Cittadella del Cedro', il Centro storico del borgo e la Riviera dei Cedri. Un evento realizzato dal 'Consorzio del Cedro di Calabria', in collaborazione con il Comune di Santa Maria del Cedro e l'Assessorato regionale all'Agricoltura della Regione Calabria e che farà rivivere tutte le fasi essenziali della vita agricola e gastronomica locale.
Il programma prevede un itinerario gastronomico con degustazioni, incontri tematici e scientifici oltre a diverse mostre, con il coinvolgimento anche delle scuole e momenti dedicati allo spettacolo. Tutto nel nome del cedro, pianta essenziale per i suoi legni, i suoi profumi e quello che regala alla popolazione locale.
(CosenzaPost, 10 ottobre 2014)
Turismo in Israele: crisi alle spalle
Cento milioni di euro per il sostegno del settore.
ROMA - La crisi dell'estate e' superata e Israele guarda con ottimismo al futuro del settore turistico. Questo il messaggio che il direttore generale del ministero del turismo di Israele Amir Halevi ha portato in Italia nel corso della sua visita da poco conclusa. ''Siamo il sesto Paese per numeri di crescita dall'Europa - ha dichiarato Avital Kotzer Adari, direttore dell'Ufficio nazionale israeliano del turismo di Milano - e con il vostro aiuto possiamo mantenere la nostra posizione e forse conquistare qualche posizione in piu'. Grande e' l'aiuto che possiamo dare e stiamo dando agli operatori israeliani ed ai loro partner Italiani''.
Il ministero del Turismo di Israele ha predisposto un investimento di oltre 400 milioni di NIS (Shekel) ovvero quasi 100 milioni di euro per dare un concreto supporto al settore dopo la crisi della scorsa estate ed ora si presenta con novita' interessanti. ''Con il nuovo anno ebraico, e' appena iniziato infatti il 5755 - ha continuato Avital Kotzer Adari - Israele si presenta con una gamma di interessanti novita' e di promozioni di brand come il cicloturismo (gare nel deserto e in tutto il Paese), il turismo a piedi con 4 maratone, la prima nel deserto tra poche settimane, e poi la Tiberias Marathon a gennaio, la Tel Aviv Marathon e la Maratona internazionale di Gerusalemme; il turismo musicale, con vari festival, come il Festival di Tamar nelle prossime settimane, la Tosca del prossimo giugno a Masada e la performance della Israel Opera Festival a Gerusalemme ed Akko; il turismo culturale con mostre speciali, come Il Libro dei Libri dedicata alla storia della Bibbia a Gerusalemme; il design e la moda, con gli appuntamenti del Tel Aviv Holon Fashion and Design Week di novembre''.
Il ministero del turismo sta collaborando con alcuni comuni per promuovere il city break e i ponti, una formula per una perfetta destinazione turistica situata a sole 3 ore e 30 minuti dall'Italia con collegamenti giornalieri non solo da Roma e Milano, ma anche da Venezia (EL AL e Alitalia) e da Bergamo, Verona, Catania, Bari. Un modo per scoprire il Mar Morto e il suo turismo del benessere, le vacanze attive nel deserto, i siti archeologici. ''Le festivita' di fine anno saranno il primo banco di prova per la concreta ripresa della destinazione ed il nostro successo sara' determinato grazie al vostro aiuto'' hanno concluso insieme Amri Halevi ed Avital Kotzer Adari.
(ASCA, 10 ottobre 2014)
Visitare Israele in tre giorni e
in bicicletta. Ecco come fare
Israele è un luogo mistico, magico che emana fascino in ogni suo aspetto. Vero e proprio crocevia di popoli, luogo di incontri tra culture diverse, popoli e lingue remote è ricco di storia nonostante, sulla carta, sia una nazione molto giovane nata solo nel 1948. Storia e modernità sembrano comunque unirsi e fondersi perfettamente in quella che è una delle manifestazioni sportive più importanti della nazione.
Oltre 30.000 ciclisti sono parteciperanno al più grande evento ciclistico di Israele - Sovev Tel Aviv - che si svolgerà per la quinta volta, con tre giorni di festeggiamenti in bicicletta in giro per la città. I partecipanti saranno in grado di fruire di quattro diverse piste ciclabili attraverso viali della città e lungo la costa mediterranea, vivendo una esperienza davvero unica famiglie, ciclisti e pattinatori.
Quattro le piste che avranno inizio e fine al Tel Aviv Fairgrounds nel Parco Hayarkon e si snoderanno per tutta la città comprendendo diversi percorsi adatti a tutte le età e le esperienze:
Inoltre, ci sarà una tre giorni dedicata al Ciclismo in Città in Piazza Rabin 12-14 ottobre con bici, attrezzature per il ciclismo e per una vacanza di tipo "attivo". Le strade e i viali della città interessate saranno chiusi al traffico automobilistico durante la manifestazione proprio per permettere a tutti, grandi e piccini di potersi divertire in libertà e senza paura nelle strade cittadine. Inoltre, per tutte le informazioni inerenti alla corsa, alla viabilità e alle modalità di iscrizione l'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo sarà a Vostra disposizione tutti i giorni dal lunedì al giovedì dalle ore 09.00 alle 17.00 ed il Venerdi dalle 09.00 alle 14.00
(ViaggiNews.com, 10 ottobre 2014)
Gli arabi vogliono eliminare Israele anche dalle mappe
di Fiamma Nirenstein
Quale inconcepibile errore! Scrivere «Israele» sulla mappa, al suo posto, come se quel Paese esistesse davvero! Non c' è che scusarsi per la disgustosa distrazione: e questo ha fatto la tv saudita Mbc quando centinaia di milioni di telespettatori di tutto il mondo arabo l'hanno coperta di insulti. Lo riporta Khaled Abu Toameh, giornalista palestinese del Gatestone Institute: due arabi del nord d'Israele, Manal Moussa, una ragazza di 25 anni e Haitham Khalailah, di 24, hanno partecipato alla popolarissima gara Arab Idol, una Sanremo gigante del mondo islamico.
E' la prima volta che due arabi israeliani partecipano allo show e i loro nomi apparivano, come gli altri, su una mappa con i luoghi di provenienza. Scherziamo? Dove c'è Israele, hanno scritto Israele. Subito centinaia di migliaia hanno intimato di scrivere Palestina: detto fatto, e tante scuse per il «serio errore». Ma l'odio è tenace: una campagna di Twitter è stata intitolata «Tutti insieme contro Arab Idol». I proprietari della stazione sono «arabi sionisti».
I due cantanti israeliani ora sono chiamati «palestinesi» dalla Mbc. Ma parecchie indagini sui cittadini arabi d'Israele dimostrano che non lo desiderano. La democrazia li dota di tutti i diritti identici agli israeliani: dall'istruzione alle assicura-zionisociali, alle libertà civili, di opinione, sessuale, tutte scelte non molto popolari in Arabia Saudita, nell'Autorità palestinese, nel resto del mondo arabo.
Vicende come questa dimostrano che quando il mondo arabo vede Israele sulla mappa, l'unico desiderio non è quello di pace, ma di cancellarlo.
(il Giornale, 10 ottobre 2014)
E tra Israele e Palestina scoppia la lite sui ceci
di Costanza Rizzacasa d'Orsogna
Tra Israele e Palestina scoppia la guerra dei ceci. A luglio, negli stessi giorni in cui le forze armate israeliane davano inizio all'operazione «Protective Edge» nella Striscia di Gaza, sulla costa orientale degli Stati finiti partiva la nuova campagna pubblicitaria di «Tribe», il secondo marchio di hummmus più venduto negli States. Campagna dai toni, è l'accusa, fortemente allusivi al conflitto. «O sei un membro oppure no», è il nuovo slogan di «Tribe», che significa «tribù». Dove il riferimento è all'espressione «member of the tribe», slang usato dagli ebrei americani per definire un ebreo. Perché la crema di ceci e tahina «Tribe» è della Tribe Mediterranean Foods di Taunton (Massachusetts), rilevata nel 2008 dalla Osem Company, uno dei più grandi produttori e distributori alimentari d'Israele (controllato al 51% dalla Nestlé). Così, tanti hanno letto in chiave politica i manifesti. Per esempio «Il tuo stomaco non dovrebbe mai essere costretto a compromessi» («settle» è il termine usato, lo stesso di «trovare un accordo»: ma «settlement» è anche «insediamento»). E ancora: «Se non ce n'è abbastanza per tutti, è un peccato per tutti». Il riferimento ai territori contesi, per molti, è evidente. L'azienda si difende. Il chief executive Adam Carr parla al New York Times di «critiche pretestuose»: gli avvenimenti internazionali non hanno peso sul marketing, la campagna era stata studiata mesi prima delle tensioni e rientra in una strategia per rosicchiare quote alla rivale Sabra. Ma la protesta contro «l'uso politico dello hummus nel conflitto israelo-palestinese, cui aderiscono da Occupy Wall St. alla Boston Coalition for Palestinian Rights, infuria sui social network: Tribe è entrata nel mirino di Boycott, disinvestment and sanctions (Bds), il movimento di pressione politica pro causa palestinese, che ha tappezzato New York di poster che fanno il verso alla campagna dell'azienda. Gastropolitica o solo un ottimo antipasto?
(Corriere della Sera, 10 ottobre 2014)
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L'attuale Stato d'Israele
L'attuale Stato d'Israele non rappresenta il regno di Dio sulla terra, ma la sua presenza oggi sulla scena politica mondiale è espressione di una precisa volontà di Dio all'interno del suo sovrano progetto storico. Di conseguenza, l'odio contro questo Stato, il tentativo o anche il solo desiderio di distruggerlo, sia che venga da ebrei laici o superortodossi, sia che venga da gentili cristiani, musulmani o di qualsiasi altra religione, è di natura diabolica. Ciascuno è libero di usare i criteri che ritiene più validi per interpretare la storia dei popoli, ma quando si tratta di Israele, i criteri più validi, quelli che anche a posteriori si confermano essere i più idonei a spiegare i fatti avvenuti e quindi in una certa misura anche a prevedere quelli futuri, sono i criteri biblici. Voler tentare di capire la storia del popolo d'Israele prescindendo dal Dio d'Israele che si è rivelato nella Sacra Scrittura, è impresa vana, destinata fin dall'inizio al fallimento.
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La verità sulla morte dei "bambini che giocavano a pallone" a Gaza
di Thomas Wictor
Parecchie persone mi hanno chiesto se possa creare una timeline delle operazioni condotte sulla spiaggia di Gaza che il 16 luglio 2014 portarono alla morte di Mohammed Bakr, Ahed Bakr, Zakaria Bakr e Mohammed Bakr. Sono abbastanza convinto che quanto riporterò riflette l'evoluzione degli eventi, ma se qualcuno ha rilievi da porre, lo faccia senza esitazioni.
Ho di proposito inserito tutte le affermazioni contrastanti e contraddittorie fornite dalla stampa, onde evidenziare quanto sia corrotta oggi l'informazione in Occidente. Si tratta ormai di fiancheggiatori non perseguiti di Hamas. So che ciò potrebbe ingenerare confusione, ma mi limiterò a riportare pari pari quanto pubblicato, onde evidenziare come i resoconti ufficiali siano stati inventati di sana pianta....
(Il Borghesino, 10 ottobre 2014)
La storia della creazione del Museo ebraico di Mosca
Esiste a Mosca un museo che non ha analoghi non solo in Russia, ma anche in tutto il mondo. È il Museo ebraico e il centro della tolleranza, dice il fondatore del museo Aleksandr Moiseevich Boroda, presidente della Federazione delle comunità ebraiche della Russia. Nell'intervista a "La Voce della Russia" Aleksandr Boroda ha raccontato perché questo progetto sia veramente unico e come si è riusciti a realizzarlo.
- Come è nata l'idea della creazione del Museo ebraico e del centro della tolleranza?
L'idea del museo è sorta quando nel 2000 la Federazione delle cominità ebraiche ha ottenuto in uso gratuito un parco autobus con un grande garage, la cui struttura architettonica era molto interessante. Visitando parchi di divertimento in molti paesi abbiamo notato quanto sia grande l'interesse dei bambini e degli adolescenti verso tali posti. Così è nata l'idea di creare proprio un centro informativo e di divertimento che illustri in modo evidente la storia del popolo ebraico. La prima concezione del museo, ossia un misto creativo di un museo e di un padiglione per show, è stata messa a punto dalla compagnia che aveva creato progetti per parchi di divertimento tipo Disneyland e Universal Studios. Poi la compagnia Ralph Appelbaum Associates ha reso il progetto più simile a quello di un museo.
La realizzazione di qualsiasi prodotto sostanzialmente nuovo sempre comporta un rischio. Esiste sempre il pericolo di creare qualcosa che non sia popolare tra i visitatori.
- Recentemente il Museo ebraico e il centro della tolleranza è entrato a far parte dei dieci migliori musei della Russia secondo la versione di TripAdvisor. Cosa ha aiutato il museo ad occupare un posto così prestigioso in questa graduatoria?
Il segreto del successo è che siamo riusciti a creare un nuovo tipo di museo. Abbiamo dato uno sguardo al futuro. Quando tutti i musei solo si immaginavano come possa essere attuato un tale progetto, noi l'abbiamo attuato. Abbiamo superato tutti di due passi in avanti. La popolarità del Museo ebraico e del centro della tolleranza è dovuta ad alcuni fattori. Primo: l'edificio stesso. A mio parere, abbiamo trattato con molta cura l'opera del noto architetto russo Konstantin Melnikov e dell'ingegnere Vladimir Shukhov. Il garage in cui è allestito il museo è un monumento architettonico dell'avanguardua russa. L'esposizione si iscrive molto organicamente nell'architettura dell'edificio: sono ben visibili tutte le strutture, il tetto, se ne vede il volume. Secondo: l'esposizione è costruita davvero in modo molto insolito. L'esposizione è interattiva, la forma di presentazione delle esposizioni è molto spettacolare ed efficace. Le tecnologie moderne consentono di portare il materiale al visitatore in modo al massimo veloce ed accessibile. Il Museo ebraico è a molti strati, vi sono alcune linee. Vi esiste la linea di show interattivi, ma c'è anche la linea di una presentazione più profonda dell'informazione dove si può conoscere più in dettaglio la storia sia del popolo ebraico che di quei paesi dove si trovavano gli ebrei.
Un altro aspetto è che è anche il centro della tolleranza che in precedenza non esisteva né in Russia, né, a quanto mi risulta, in Europa. Abbiamo cercato di non dare risposte dirette ma di impostare le questioni in modo che i visitatori - si tratta più spesso di gruppi di scolari e di studenti universitari - vogliano discutere il tema della tolleranza. Mi sembra che ciò sia molto importante.
- Grazie alle nuovissime attrezzature tecniche il Museo ebraico e il centro della tolleranza propongono ai visitatori una nuova concezione delle lezioni, serate di musica e mostre. Da che cosa lei si fa guidare nella scelta dei temi?
Organizziamo esposizioni e mostre tematiche o che in precedenza non sono state mai svolte nel mondo, o che non sono mai arrivate in Russia. Cerchiamo di far sì che le stesse diventino un evento unico nello spazio culturale di Mosca. Proprio questi fattori in complesso ci hanno permesso di entrare nel gruppo dei dieci migliori musei della Russia.
- Ha nel museo una esposizione preferita? Perché le è tanto vicina ed interessante?
È l'esposizione con un grande video panoramico dedicato alla Grande guerra patriottica. Vi vengono proiettati tre film. Le gente piange quando li guarda. L'immagine volumetrica contribuire a rafforzare la percezione emotiva. Lo ritengo uno dei punti più forti del museo.
(La Voce della Russia, 9 ottobre 2014)
La Scuderia Ferrari a Gerusalemme - Un burn out della F60
La Scuderia Ferrari a Gerusalemme, festa per la seconda edizione del Jerusalem Formula Road Show, la manifestazione che ha visto protagonista tra gli altri anche la Scuderia Ferrari e Giancarlo Fisichella che si sono esibiti in uno scenario unico di una delle città più antiche del mondo.
La Scuderia era stata invitata da Kaspersky Lab, sponsor della Ferrari, e sul circuito ricavato fuori dalle mura della città vecchia è stata portata una F60, la stessa vettura che Fisichella portò in gara in modo ufficiale nella seconda parte della stagione 2009.
Il Jerusalem Formula Road Show ha riscosso anche quest'anno un grande successo, con 50.000 persone assiepate ai bordi del circuito. La folla si è esaltata nel vedere la vettura di Formula 1 girare e si è stupita nel vedere le sgommate di Giancarlo e l'accelerazione bruciante della F60. Tante le persone per le quali questo evento ha rappresentato il primo contatto con la Formula 1, che nelle Street demo possono essere viste da vicino come non accade nemmeno dei circuiti del Mondiale. Come spesso accade, per chi ha visto girare per la prima volta la Ferrari di Formula 1, una cosa è risaltata su tutte le altre: il suono del motore, nella fattispecie il 056 V8, piacevolmente assordante, sinonimo di potenza, velocità e passione per le sfide e la competizione.
(Auto.it, 9 ottobre 2014)
Stefano, due anni, ucciso dal terrorismo. Il ''sabato di sangue'' alla Sinagoga di Roma
Il 9 ottobre del 1982 un commando armato spara e tira bombe fuori del Tempio: un morto, 37 feriti
di Fabrizio Giusti
Era sabato mattina, una giornata di festa. La fine dello Sheminì Atzeret, che chiudeva la festa di Sukkot, aveva riunito le le famiglie. Uscendo dal Tempio, i bambini che avevano appena ricevuto la benedizione non trovarono sorrisi, ma un numero imprecisato di attentatori che gli lanciarono contro granate e raffiche di mitra. L'attentato alla Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982, alle ore 11.55, ad opera di un commando palestinese, accadde così, in un giorno di ottobre, tiepido come solo a Roma può manifestarsi. Un attentato terribile e inumano, che causò la morte di Stefano Gaj Taché, di soli due anni, ed il ferimento di 37 persone.
L'attentato alla Sinagoga di Roma è stato attribuito ad una fazione palestinese che si rese protagonista, nei primi anni Ottanta, di diversi attentati contro siti ebraici in Europa. Nessuno ha mai pagato con un giorno di galera per l'aggressione del ''sabato di sangue''.
Stefano Gaj Tachè rimase vittima - innocente e pura - di un odio fanatico che ha prodotto solo morte e disperazione. Fu ucciso dopo la preghiera, uscendo dal Tempio, in un'età in cui tutto si deve conoscere e tutto si deve capire. Aveva due anni. Poco per vivere. Poco per morire. Poco per essere ricordato. Rimosso dalla memoria collettiva come i fatti di quel giorno, trova oggi la sua degna memoria in un viale della Capitale che lo ricorda e in un premio - ''L'amico dei bambini'' - che ne porta il nome. Il concorso per l'infanzia invita le scuole romane a compiere, con un elaborato scritto, una riflessione sui temi dell'accoglienza e del dialogo. In questo, forse, c'è il significato migliore per comprendere il senso di ciò che non si riesce a spiegare di fronte alla perdita di un'esistenza appena sbocciata. In questo, forse, si riscalda ancora quel sentimento che ci porta a sperare che il mondo domani possa essere migliore di quello che è, infestato ancora dai mali che lo perseguitano e che ci costringono a stare lontani gli uni dagli altri, in un inspiegabile senso di distanza che fa male a ogni confessione religiosa e ad ogni testo sacro che la spiega.
(ilmamilio.it, 9 ottobre 2014)
Sukkot (Festa delle Capanne)
La scadenza per oggi giovedì 9 ottobre 2014 è una festività ebraica.
Sukkot, "capanne", detta anche Festa delle Capanne o Festa dei Tabernacoli, è le terza festa ebraica del mese di Tishrei, ed una delle più importanti ricorrenze dell'ebraismo. E' anche una delle tre festività legate ad un pellegrinaggio quando, nei tempi antichi, il popolo si recava al Tempio di Gerusalemme per offrire doni sacrificali. Sukkot è una giornata particolarmente gioiosa, che riunisce il tema religioso con gli elementi dell'agricoltura, ha origine nella Torah e ricorda le capanne dove il popolo d'Israele viveva durante l'esodo nel deserto, dopo la fuga dall'Egitto. La capanna realizzata in occasione della ricorrenza, rappresenta una dimora temporanea, generalmente viene costruita in legno, ha almeno 3 pareti e un tetto fatto di rami d'albero che la tradizione vorrebbe siano fronde di palma, attraverso il quale deve potersi vedere il cielo, mantenendo comunque un effetto di ombra prevalente all'interno.
Un altro nome per Sukkot è la Festa del Raccolto, celebrata in autunno dopo il raccolto estivo e prima di seminare le colture per l'inverno. Uno dei temi principali delle preghiere è la pioggia: gli agricoltori ringraziano Dio per il raccolto, e pregano per avere un anno di pioggia. Un'altra spiegazione per la costruzione della capanna è il ricordo delle capanne che si costruivano nei campi per proteggere il raccolto. Sukkot perdura per 7 giorni, dal 15 al 21 del mese ebraico di Tishrei, che solitamente cade verso la metà di ottobre. Il primo e l'ultimo giorno sono particolarmente festosi, e durante il primo giorno, ugualmente a Shabbat non si devono svolgere attività produttive. L'ottavo giorno dall'inizio di Sukkot è chiamato Shemini Atseret, e costituisce una festività separata. In Diaspora Sukkot perdura per 8 giorni.
A parte i due giorni di vera e propria festa, nei quali le aziende restano chiuse, i giorni intermedi sono semi-festivi, e, in particolare negli uffici, si lavora solo la mattina. Alcuni sospendono l'attività per l'intera settimana, e vi renderete conto di come molti luoghi di vacanza israeliani siano affollati.
(OrizzonteScuola.it, 9 ottobre 2014)
Parola di Erekat
Che valore hanno i negoziati, quando il capo negoziatore palestinese continua a inventarsi cose di sana pianta?
Il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat ha parlato questa settimana della recente guerra a Gaza. E ha fatto due affermazioni: che sono stati uccisi 12.000 palestinesi e che il 96% di loro erano civili.
Alcuni siti di news hanno ipotizzato che Erekat, parlando in inglese, abbia semplicemente fatto confusione fra il numero 12.000 e il numero 2.000, che è la stima solitamente citata da stampa e Nazioni Unite. Può darsi. Concediamoglielo. Ma il 96% di civili?
Beh, se l'è inventato. Anche le Nazioni Unite, che nella loro notoria ostilità verso Israele si basano sempre sulle fonti palestinesi, non sono mai arrivate a citare nemmeno il 70%. Il numero citato da governo e Forze di Difesa israeliane è di circa il 50% (una delle percentuali più basse nelle guerre moderne). Dunque, dato che nemmeno Hamas ha mai sostenuto che il 96% delle vittime a Gaza fossero civili, dove è andato a pescare questo numero Erekat? Come si è detto, dobbiamo ammettere che l'ha semplicemente inventato....
(israele.net, 9 ottobre 2014)
«Venite a Berlino». Uno scontrino fa litigare Israele
Postato su Facebook, è simbolo del carovita. Si pub lasciare la terra promessa per budini economici?
di Davide Frattinl
GERUSALEMME - Quelli che negli anni Settanta Yitzhak Rabin, al primo giro da premier, denigrava come «omuncoli da disprezzare», vengono adesso bollati «i viziati del budino al cioccolato». Perché una nazione che è stata fondata sull'immigrazione non può permettersi di vedere i giovani andarsene. La scelta di venire a vivere in Israele è chiamata in ebraico «ascesa», gli espatriati sono quindi definiti «yordim» (quelli che discendono). Se lo fanno per ragioni economiche, l'atterraggio in Europa viene considerato una caduta.
Da Berlino un anonimo neo-abitante ha voluto aprire gli occhi e le tasche agli ebrei israeliani rimasti dall'altra parte del Mediterraneo pubblicando su Facebook la foto di uno scontrino: la lista comprende 12 prodotti, il totale in euro è evidenziato e sarebbe stato il doppio stimano i giornàli se la spesa fosse stata effettuata in un supermercato locale. L'emigrato invita alla rivolta o almeno a seguirlo: «Rimanere significa negare ai vostri figli cibo, educazione, appartamenti accettabili. Ormai è un Paese per ricchi». L'agitatore digitale offre anche un simbolo per la rivolta: il budino al cioccolato di cui gli israeliani sono ghiotti e che in Germania costa un quarto.
Le proteste sociali dell'estate di tre anni fa erano state suscitate dal rincaro nel formaggio fresco a fiocchi (popolarissimo nei frigoriferi), la classe media che fatica a pagare l'affitto si era accampata per settimane sotto le jacarande di viale Rotschild a Tel Aviv e il politico che aveva inglobato quel malcontento nel suo programma ha vinto 19 seggi alle elezioni. Adesso è al governo e da ministro delle Finanze attacca «chi è disposto a gettare la patria nella spazzatura per pochi soldi risparmiati»: «E' estenuante calcolare fino al centesimo ogni acquisto, lo capisco. Ma dobbiamo discuteme e trovare le soluzioni qui». La scelta della destinazione è inaccettabile per Ben Caspit, firma più importante del quotidiano Maariv: «Il costo della vita è scandaloso. E allora? E' una ragione sufficiente per scappare e piantare le radici nella terra che si è imbevuta del sangue degli ebrei? Avete deciso di rinunciare a un sogno diventato realtà per riempire il carrello della spesa. Un popolo che ritorna dove è stato macellato ha perso l'autorispetto».
Eppure il 30% tra gli israeliani (sondaggio di Canale 2) è tentato dall'idea di emigrare e il 54% si dice favorevole o indifferente verso chi se ne va. Scrive Haaretz: «Il governo invece di affrontare i problemi (pochi grandi gruppi controllano un'economia non competitiva) critica gli emigranti. Gli insulti non li faranno tomare».
(Corriere della Sera, 9 ottobre 2014)
Pallanuoto - Da Haifa a Bogliasco: il Qiryat Tivon in common training con la Rari Nantes
BOGLIASCO - Tre anni in fa in Grecia, lo scorso in Ungheria, questo in Italia e più precisamente a Bogliasco. Per il Qiryat Tivon, il più importante club israeliano, è la tournée nelle Università della pallanuoto, un modo per conoscere e crescere.
Arrivano da una città del distretto di Haifa. Alla Rari Nantes Bogliasco sono in trenta, maschi e femmine, dagli Under 13 agli Under 17. Accolti da Marco Sbolgi e Mario Sinatra ogni giorno, fino a lunedì prossimo, in un common training continuo.
Ad accompagnare la delegazione due tecnici, Lior Klein e Idan Kaftori, quest'ultimo giocò alla Vassallo contro la Rari Nantes Bogliasco, in Coppa Len, nel settembre 2011. Ma a raccontare Israele è Lior Klein responsabile del settore maschile.
- Coach qual è la realtà della pallanuoto in Israele?
"Ovviamente non è come in Italia. Non abbiamo molte squadre, in tutto dodici club, ma abbiamo buoni giocatori. Il problema più gravoso per noi sono gli impianti, solo vasche da 25 metri e affollate, è molto difficile allenare in queste condizioni".
- Il vostro obiettivo è crescere.
"Certo, andiamo in giro per questo. Specialmente il nostro club, nella categoria giovanile siamo i migliori a livello nazionale, per incrementare il loro sviluppo almeno una volta all'anno andiamo all'estero, ad imparare, a divertirci".
- Cosa avete trovato a Bogliasco?
"Il paese è bello, accogliente, la gente amichevole, e comunque c'è sempre qualcuno che entra o esce dalla piscina, una bella realtà".
- Qui non solo per giocare contro la Rari Nantes Bogliasco.
"Incontriamo anche Recco, Rapallo, più giochiamo e meglio è".
- Perché non ci sono israeliani negli altri campionati, ad esempio in Italia?
"Loro vorrebbero e alcuni potrebbero, ma quando compiono 18 anni devono fare il servizio militare, sono tre anni, nel periodo più importante, nell'età più delicata, perdiamo troppo tempo. Alcuni di loro tornano con determinazione, ma il gap che si crea con i loro pari età, a livello internazionale è troppo ampio. Arruolarsi è un impegno troppo più importante".
- E poi un po' di pregiudizio tecnico?
"Sì assolutamente. Tra un giocatore israeliano ed uno serbo, un allenatore sceglie il secondo".
- Parliamo di pallanuoto, mister, ma anche della guerra tra Israele e Palestina. Ha colpito nel nostro mondo, tra le altre, la notizia della morte di Bar Rahav, nazionale israeliano, nei bombardamenti sulla Striscia. Ci potrà mai essere la pace?
"Noi tutti la vogliamo, noi tutti stiamo vivendo l'incubo della guerra. A pochi metri da casa mia esplosioni, sirene, allarmi, non si dorme la notte. Tutti vogliono la pace e tutti la stanno aspettando ma non è facile. Il problema è il dialogo. Se parli con paesi come Giordania, Siria, Egitto hai un unico referente, se parli con Israele e Palestina c'è chi dice una cosa, chi un'altra, e il giorno dopo è di nuovo tutto diverso. Vogliamo questa pace ma è difficile, ci vogliono le persone giuste".
- Lo sport può servire?
"Lo dico sempre ai miei giocatori: la pallanuoto è il rispetto per tutti gli altri. Avversari, allenatori, arbitri, giuria, impariamo a vivere così anche fuori dall'acqua"
(Genova24.it, 9 ottobre 2014)
Germania: oltre la legge la Sharia Polizei
BERLINO - Sven Lau ha 33 anni, è un cittadino tedesco nato a Mönchengladbach, una città tedesca nella regione occidentale della Renania-Vestfalia, e fino ad un paio di anni fa era il capo dei vigili del fuoco della cittadina, con un passato tra slot machine e droga. Ora Sven si fa chiamare Abu Adam, ha una lunga barba, si è convertito all'Islam ed è uno dei più rumorosi esponenti del movimento salafita in Germania. Viste le premesse, Sven è sicuramente un ragazzo che sa come giocare con il fuoco soprattutto per innescare una tempesta di stupore e sbigottimento tra i media, le istituzioni e l'opinione pubblica tedesca. La sua ultima iniziativa è balzata alla cronaca sia perché ha riportato sulle pagine dei quotidiani il problema dell'integrazione, in una regione della Germania con il più alto tasso di cittadini musulmani, sia perché ha mostrato, in un primo momento, delle istituzioni tedesche immobili, incapaci di reagire davanti ad una provocazione che ha scosso notevolmente l'opinione pubblica.
Sven è il principale promotore delle azioni della Sharia Polizei, squadre di barbuti uomini vestiti con giubbetti arancioni, che un paio di mesi fa si aggiravano per le strade di Wuppertal, altra città tedesca della regione sul Reno, predicando, con atteggiamenti descritti al limite della violenza, la legge islamica e comportandosi come una vera e propria squadra dell'ordine pubblico. Il movimento salafita non è nuovo a questo genere di intimidazioni pubbliche, considerando che già lo scorso Giugno, a Bonn, dopo un raduno, qualche giovane predicatore salafita era stato trovato per le strade mentre mostrava insistenza verso alcune ragazze per convincerle ad indossare il velo o mentre rimproverava un giovane che aveva bevuto dell'alcool durante un party.
Il caso di Wuppertal, nonostante fosse un'iniziativa 'promozionale' mirata a trovare sostenitori per la realizzazione di una nuova moschea nella medesima cittadina, creò, però, più clamore, provocando fin da subito il disgusto della popolazione e trovando le istituzioni pubbliche in un primo momento impreparate ed impossibilitate ad agire contro le azioni di questa nuova pseudo-polizia. Più di una dozzina di giovani salafiti, tra i 19 e i 30 anni, furono infatti messi sotto inchiesta ma non fu possibile arrestarli in quanto allo stato delle cose non commisero nessun tipo di reato: "Il fatto di spiegare e predicare delle regole religiose non è un crimine", spiega Wolf-Tilman Baumert, pubblico ministero di Wuppertal. Il giovane predicatore morale Sven conosce bene la legge tedesca e sa bene come agire e come comunicare per non ricadere sotto la responsabilità penale.
La Sharia Polizei non è legittimata a far rispettare la legge, specialmente se la legge in oggetto non è quella dettata dalla Costituzione tedesca. «L'intenzione di questa gente è quella di intimidire e provocare, facendo leva sulla loro ideologia che viene considerata sopra le altre. Noi non permetteremo che ciò avvenga», ha affermato il sindaco di Wuppertal, Peter Jung, subito dopo le azioni morali del gruppo di islamisti. Ma i commenti a caldo, all'epoca dei fatti, non arrivarono solo dalle autorità locali. Anche membri del Governo nonché esponenti dei principali partiti politici intervennero nel dibattito. Peter Tauber, Segretario generale del partito Christian Democratic Union (CDU) disse: «Dobbiamo confrontarci con i Salafiti nel modo più rigoroso possibile. Abbiamo bisogno di prendere dei provvedimenti il più veloce possibile. È stato un grande errore quello che ha compiuto la coalizione Rosso-Verde[coalizione dei partiti di sinistra e centro-sinistra che ha governato la Germania tra il 1998 e il 2005]. Hanno cambiato la legge e cosí la propaganda anti democratica non viene più considerata come un reato.Dobbiamo cambiare velocemente questa legge. Lo stato deve dimostrare che non esiste tolleranza verso le ideologie e le organizzazioni che si dimostrano contro la legge tedesca».
Il gruppo di giovani salafiti con l'aspirazione di salvare il mondo dal peccato è solo un piccolo pezzo del meccanico problema di integrazione che giace da anni sui tavoli del potere, considerando anche gli alti flussi migratori verso la Germania degli ultimi decenni.
Sono sempre di più gli episodi di intolleranza, che poi sfociano anche in scontri violenti, che nascono da una profonda incapacità di confrontarsi, specialmente tra i rappresentanti delle nuove generazioni di immigrati. Le statistiche sottolineano una crescita costante del movimento dei Salafiti, che raccoglie il consenso soprattutto tra i giovani musulmani o nuovi convertiti, a dimostrazione che specialmente i più piccoli risentono della crisi di questo periodo. Crisi da intendersi non solo politica ed economica, ma soprattutto ideologica, che contribuisce alla continua formazione di nuove organizzazioni che nascono con l'intento di imporre un nuovo sistema di regole distanti da quelle ufficiali dello Stato.
Difatti mentre il movimento fondamentalista islamico si guadagna le attenzioni dei media nazionali ed internazionali, e sui social network Sven Lau viene descritto come il paladino della nuova giustizia divina, basta dare un'occhiata al suo profilo Facebook, altri gruppi organizzati, spesso di natura neo-Nazi, stanno conquistando l'attenzione di nuovi membri.
Nello specifico, un gruppo, Die Rechte (La Destra) in contemporanea con l'evento di Wuppertal formò un suo corpo di nuovi vigilantes dell'ordine pubblico chiamato Stadtschutz Wuppertal (le guardie cittadine di Wuppertal) con l'obiettivo evidente di contrapporsi alla Sharia Polizei. In un comunicato ufficiale del gruppo si legge: «Se nella nostra città ai Salafiti è permesso pattugliare le zone pedonali in nome della Sharia Polizei e la polizia permette quindi la penetrazione delle loro maldicenze all'interno del distretto regionale, allora è giusto che venga composto un gruppo di orientamento opposto. Ispirati dal modello di successo della Stadtschutz di Dortmund e dopo una serie di allenamenti, in meno di 48 ore abbiamo formato la Stadtschutz Wuppertal. Insieme per più sicurezza, più legge e più ordine nella nostra città - Die Rechte 'Stadtschutz Wuppertal'».
I ragazzi non si fanno mancare niente. Un messaggio di propaganda vera e propria travestito da comunicato stampa. Il messaggio per le autorità tedesche è chiaro: se non saranno loro a fermare i Salafiti, ci penserà il movimento neo-Nazi.
In un Paese che si presenta come il portavoce della libertà d'informazione e dove il riconoscimento dei diritti civili di ciascun cittadino è il tema centrale della maggior parte dei dibattiti, le ambizioni dei nuovi gruppi organizzati rappresentano una nota dolente per il sistema statale, incapace di trovare una soluzione e che si muove lentamente tra le sue stesse regole.
(L'Indro, 9 ottobre 2014)
Svolta della Comunità ebraica di Roma: «Pronti a uscire dal Museo e dall'Ucei».
di Alessandro Capponi
L'ordine del giorno del Consiglio della comunità ebraica prevede: uscire dall'Ucei - l'Unione delle comunità ebraiche italiane - e uscire dalla Fondazione Museo della Shoah. Se a ciò si aggiunge la lettera scritta dal presidente Riccardo Pacifici per annunciare l'intenzione di dimettersi dalla Fondazione del museo della Shoah al sindaco Ignazio Marino, ecco che si capisce il momento della comunità ebraica romana. Tutt'altro che semplice. L'equilibrio fragilissimo raggiunto con il cda della Fondazione in Campidoglio, il 29 settembre - con la possibilità di realizzare il museo provvisorio alla Casina dei Vallati prima e a Villa Torlonia poi - pare scricchiolare già la mattina seguente: il presidente Riccardo Pacifici scrive al sindaco Ignazio Marino (a lui e ad alcuni esponenti della comunità) e annuncia di voler motivare la scelta delle dimissioni dalla Fondazione nel prossimo appuntamento (il 15 ottobre, ndr).
È noto che la scelta definitiva del Museo a Villa Torlonia non piacesse a Pacifici e alla base della comunità, ma stavolta i motivi ufficiali paiono essere altrove: nel «patto tradito» di non commentare la soluzione offerta dal Comune per il Museo, e dunque nella scelta di Renzo Gattegna, il presidente dell'Ucei, di elogiare la soluzione senza aspettare il consiglio della Comunità. E però è evidente che i dissidi tra la comunità romana e l'Ucei, tra Pacifici e Gattegna, esistano già da un po' : (anche) perché gli ebrei romani sono più o meno la metà del totale di quelli italiani e però la percentuale non viene rispettata nella ripartizione dei fondi. E comunque è altrettanto evidente che Pacifici aveva già minacciato di uscire dalla Fondazione se la sede definitiva del museo fosse stata quella firmata da Luca Zevi a Villa Torlonia. Stavolta ha scritto al sindaco, ma nella politica nulla è definitivo. Comunque, tra motivi più o meno ufficiali, si arriva a oggi: e a pochi giorni dal Consiglio della comunità (che si riunirà domenica) ecco gli ordini del giorno-choc. Naturalmente il Museo della Shoah è patrimonio di tutti, della città intera, ma è innegabile che sarebbe politicamente curioso se dal cda della Fondazione uscisse - ammesso che, stavolta, le dimissioni di Pacifici e di Settimio Di Porto vengano confermate nel prossimo cda della Fondazione - proprio la comunità ebraica. Autorevoli esponenti - della comunità e della politica -lavorano perché «prevalga il buon senso».
(Corriere della Sera - Roma, 8 ottobre 2014)
ANP beccata a costruire illegalmente nel West Bank israeliano
Ha del clamoroso la violazione del diritto internazionale da parte dell'Autorità Palestinese (ANP) di Abu Mazen, altrimenti sempre pronto ad invocare l'intervento dell'ONU da parte di pretese e presunte violazioni da parte avversa. Si apprende oggi che l'ANP, con l'appoggio addirittura dell'Unione Europea - quella che si fece garante della correttezza e buona volontà palestinesi ad Oslo nel 1993 - stanno edificando in un'area situata nella regione di Binyamin, lungo la Statale 60....
(Il Borghesino, 8 ottobre 2014)
Un gruppo di ebrei promuove su Facebook il trasferimento degli israeliani a Berlino
Un gruppo di israeliani ha fondato un gruppo Facebook in cui invita gli ebrei a trasferirsi in Germania e migliorare le proprie condizioni economiche lasciando Israele: durissima la reazione di moltissimi israeliani, che si rifiutano di tornare a vivere nella patria del nazismo e condannano la campagna per l'immigrazione a Berlino come un "coltello che ferisce i sopravvissuti".
(Excite Italia, 8 ottobre 2014)
Festa della famiglia al Museo ebraico di Soragna
Domenica 12 ottobre dalle 10 alle 17, in occasione della Giornata Nazionale delle Famiglie al Museo, il Museo Ebraico Fausto Levi z.l. di Soragna dedicherà una giornata alle famiglie e ai bambini.
In linea con la scelta del Famu, l'Associazione Famiglie al Museo alla cui iniziativa ha aderito anche il Fausto Levi, il Museo ha preparato delle visite guidate dedicate ai più piccoli. I giovani visitatori verrano accompagnati alla scoperta delle millenarie tradizioni ebraiche e delle comunità che per secoli hanno popolato il nostro territorio. Cosa succede in una famiglia ebraica durante lo shabbat? Perchè gli ebrei non mangiano il maiale? Cos'è un un bar mitzvah? Ecco un'occasione per scoprirlo per grandi e piccini!
Il Museo Ebraico Fausto Levi z.l. è da anni attivo nella didattica con i bambini e con le scuole di ogni ordine e grado, e prepara visite guidate specifiche d'accordo con gli insegnati e in linea con i programmi scolastici.
Il Museo Ebraico Fausto Levi z.l. È a Soragna (PR) in via Cavour 43.
(ParmaQuotidiano.info, 8 ottobre 2014)
Lo stato islamico entra a Gaza, rivendicato l'attentato al Centro culturale francese
GAZA - Lo Stato islamico (Is) entra per la prima volta a Gaza e rivendica la duplice esplosione che a mezzanotte ha colpito il Centro culturale francese senza causare vittime, ma solo danni materiali. E' quanto si legge su un volantino, circolato nella Striscia di Gaza con il logo dello Stato islamico, la cui veridicità non è verificabile. L'annuncio definisce l'attentato come "il debutto dello Stato islamico nella Striscia di Gaza".
"I nostri combattenti hanno bombardato con successo il centro di immoralità e di eresia noto come il Centro culturale francese dopo settimane di sorveglianza", si legge sul volantino. L'annuncio, erroneamente datato il 10 ottobre, riporta che l'esplosione è stata causata da 200 chili di esplosivo nascosti vicino ai serbatoi di gas della struttura. I serbatoi erano destinati a fornire energia di emergenza per i generatori in caso di carenza di elettricità.
Il Centro culturale francese, ospitato in un edificio costruito un paio di anni fa a Gaza, tiene corsi in lingua francese e invia al consolato di Parigi a Gerusalemme i visti per la Francia richiesti dai palestinesi che vivono nella Striscia.
Mentre il ministero degli Interni di Gaza ha incaricato la polizia di condurre un'inchiesta sull'accaduto, il movimento islamico di Hamas ha parlato di un "incidente" spiegando che a esplodere è stato il generatore elettrico del centro culturale che ha poi provocato un incendio per l'esplosione di taniche di gas.
(LiberoQuotidiano, 8 ottobre 2014)
Inaugurati i lavori per la costruzione della ferrovia ad alta velocità Gerusalemme-Tel Aviv
GERUSALEMME - Sono stati inaugurati lo scorso lunedì, dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e dal ministro dei Trasporti Yisrael Katz, i lavori per la costruzione dell'ultimo tratto della linea ferroviaria ad alta velocità che collegherà Gerusalemme a Tel Aviv.
(FERPRESS, 8 ottobre 2014)
Gaza e i bambini sono lontani
La guerra di Israele, del califfo e l'ipocrisia degli oziosi benpensanti
di Giulio Meotti
Il Califfato è arrivato a lambire la "sublime porta", i confini turchi d'Europa, issando bandiere nere e lasciando dietro di sé cataste di morti insepolti. Eppure l'insurrezione terroristica dello Stato islamico, e prima il fratricidio siriano, non smuove che un sopracciglio sussiegoso da parte dei benpensanti occidentali scatenati contro Israele. Questa estate ci sono state due guerre: quella giusta di Israele contro l'insurrezione terroristica del regime antisemita di Gaza, che per due mesi ha tenuto in scacco il popolo della Shoah, e quella sghemba e laconica di una Casa Bianca belligerante ma non combattente. Le cancellerie occidentali, specchio degli oziosi benpensanti, sono riluttanti contro gli islamisti del califfo Baghdadi, terroristi che vogliono sfregiare la società in cui hanno vissuto e che li ha partoriti, che si fregiano di combattere per il Profeta e che stanno portando avanti un'azione volta a spazzar via le libertà con l'imposizione di un regime di sottomissione.
Si tratta di una sindrome occidentale iniziatasi con la guerra di Libia, una caricatura della "Frane-à-fric" (i contanti), la guerra del liberatore in camicia bianca sbottonata Bernard-Henri Lévy, una guerra che aveva il sapore dolce, mieloso, rassicurante, da buona e pulita coscienza, della mediazione umanitaria. L'interventismo occidentalista, in nome di quello slogan sciocco "né indifferenza né interferenza", aveva presentato una guerra organizzata nelle regioni orientali della Libia, da sempre ostili al potere centrale di Tripoli, come una lotta di liberazione popolare contro un tiranno che faceva affari con l'occidente. Il citoyen sarkozista, pasciuto di ingerenza umanitaria, aveva ipnotizzato l'opinione pubblica occidentale per guidare una guerra dall'alto, nobile nella sua astrattezza letterale ma sghemba nella sostanza. Oggi la bandiera nera dello Stato Islamico sventola su alcune città libiche. Lo stesso copione si ripete nella piana di Ninive, la terra dei due fiumi, dove il califfato governa una regione grande quanto la Gran Bretagna. Contro l'ultima guerra di Israele ad Hamas, la conta dei morti e dei bambini, si sono mosse le star dello spettacolo, l'intellighenzia dei giornali, l'Onu, le ong finanziate da Bruxelles, le cancellerie. Come dimenticare le immagini rielaborate con photoshop di una bomba che esplode a Beirut pubblicate da Reuters durante la seconda guerra di Libano? Una donna, la cui istantanea è poi uscita sui giornali mentre veniva salvata tra le rovine, è stata rifotografata in un posto diverso. Per i morti del califfo e le vittime civili della guerra dall'alto, niente. Negli stessi giorni in cui gridavamo allo scandalo per le scuole dell'Onu bombardate da Israele perché usate come piste di lancio dei missili, a Mosul veniva realizzata una pulizia etnica e dei cristiani di Ninive restavano soltanto le case con la "n" di nasrani. Immaginiamo cosa sarebbe successo se a causare i milioni di profughi che oggi devastano Siria e Iraq fosse stata l'Amministrazione Bush. Per anni abbiamo letto di come Bush senior tradì gli sciiti iracheni nel 1991 e di come noi europei fossimo insensibili alla sorte dei curdi. Che dire allora del tradimento obamiano dei curdi, degli yazidi, dei caldei, dei mandei, dei sabei e degli assiri che abitano la Mesopotamia da prima dell'islam e che l'islam sta scacciando in massa? L'opinione pubblica europea, sempre cosi aggressiva con gli ebrei in armi, oggi annega nelle interpretazioni, nel futile, nel diversivo, nel vago, nel comodo, nei cavilli mentre la umma islamica si dà appuntamento a Baghdad. Sono come paralizzati, gli stessi che dopo l'11 settembre, anziché sostenere una guerra nobile per sostituire Saddam Hussein con un costituzionalismo arabo, volevano vedere le prove contro Osama bin Laden e chiedere una regolare estradizione alla teocrazia di Kandahar. Ci sarebbe da ridere se non fosse così perverso. Questa estate abbiamo condannato Israele perché si è difeso, perché ha mandato i suoi bellissimi e tragici soldati dentro quel cesso di sabbia e fanatismo che è Gaza City, noi che per la sua esistenza non siamo mai stati chiamati a versare una sola goccia di sangue, noi che adesso bombardiamo in remoto il califfo e poi lo imploriamo di risparmiare la testa ai generosi volontari delle ong britanniche. Tanto poi lui nemmeno è "il vero islam". Balle ciniche buone solo per una fuga zapateriana.
(Il Foglio, 8 ottobre 2014)
Israele - Due scali nel piano di privatizzazioni del governo
I porti di Haifa e Ashdod sono stati inclusi nel piano del governo israeliano per la privatizzazione di 11 aziende statali nei prossimi tre anni. Un'operazione del valore complessivo di quattro miliardi di dollari. La notizia non è una sorpresa, riferisce Lloyd's List, perché il governo dello Stato ebraico ha più volte annunciato negli ultimi anni l'intenzione di aprire ai privati i due scali e di potenziarne le strutture. Israel Ports Company (Ipc) ha infatti già indetto nel 2013 gare per l'esercizio di nuovi terminal container in entrambi i porti. Le strutture saranno costruite su terreni da recuperare e potranno ospitare navi da 18mila teu. Una volta completati, i terminal avranno due banchine per una lunghezza complessiva di circa 1.600 metri, con fondali di 17,3 metri. Nello scorso mese di luglio Ipc ha annunciato che Terminal Investment Limited, Eurogate, Ictsi e Shanghai International Group Port erano stati invitati a presentare proposte di gestione delle aree logistiche per un periodo di 25 anni.
(Informazioni Marittime, 8 ottobre 2014)
E' morto Luciano Segre, maestro delle relazioni
Aveva 81 anni
TORINO - È morto un uomo per bene. Ieri mattina, alle Molinette, a 81 anni, s'è spento Luciano Segre. Nella Torino dell'impresa e della finanza, ma non solo, conosceva tutti e tutti lo conoscevano. Era questo il suo lavoro: «Un freelance delle relazioni pubbliche», prova a dare una definizione Valerio Zanone, amico di vecchia data conosciuto nella prima metà degli anni 60 agli albori del circolo Einaudi. Relazioni di altissimo livello: quando andava a Bruxelles era ospite di casa del commissario Romano Prodi e quando Prodi, presidente Iri, veniva a Torino, era a casa di Segre, a Testona, che andava.
Relazioni coltivate sin da giovane quando aveva iniziato a lavorare con il padre agente di cambio. Un'esperienza finita in un fallimento che Luciano Segre, con pazienza e sacrificio, risolse alla sua maniera: ripagando, un po' per volta, tutti i creditori.
Una persona per bene. Era orgogliosamente ebreo e tanto fece che riuscì a far nominare «Giusto delle Nazioni» il sacerdote casalese che durante la guerra, lui bambino, lo salvò dalla deportazione travestendolo da chierichetto.
In città era con gli Enrico Salza e con i Pininfarina che lavorava. II suo campo d'azione, erano le banche e l'impresa. Rapporti coltivati e accresciuti nel tempo che rappresentavano il core business dell'attività di Luciano Segre al servizio, tra gli altri di Gamberale. In città, oltre alla comunità ebraica, era amico e sostenitore di don Ciotti e del Gruppo Abele e grande amico dell'ex-procuratore Caselli. Oggi, dalle 11 alle 15 gli amici lo saluteranno nelle camere mortuarie delle Molinette, mentre alle 15,35 è prevista la cerimonia di cremazione al Tempio del Monumentale.
(La Stampa, 8 ottobre 2014)
A 70 anni dalla liberazione degli ebrei, arriva il museo della Shoah
di Rossana Calistri
Dell'apertura di un Museo della Shoah a Roma, se ne parla da anni. Fu certamente il Sindaco Veltroni a concretizzare l'idea con il lancio di un bando di progettazione per dedicare il giusto spazio ai ricordi delle persecuzioni, presso Villa Torlonia, come fu quel Sindaco che iniziò a portare le scolaresche romane in visita ai campi di sterminio, per ricordare guardando da vicino, ciò che era rimasto, di quella vera tragedia.
Pochi giorni fa, il Sindaco Ignazio Marino ha proposto ai soci fondatori e al Cda della Fondazione Museo della Shoah che, entro il 2015, venga posta la prima pietra del museo a Villa Torlonia, in corrispondenza del 70o anniversario della Liberazione degli ebrei dai campi di sterminio, e che da subito venga però concessa la disponibilità della "Casina dei Vallati", in piazza 16 ottobre 1943, luogo della memoria fortemente evocativo, perché qui furono raccolti gli ebrei per la deportazione.
Le dichiarazioni del Sindaco sono assolutamente condivisibili e possiamo dire necessarie: "Abbiamo di fronte una decisione che ha una profonda valenza etica nei confronti degli ultimi sopravvissuti ai campi di sterminio - ha detto il Sindaco - e la dobbiamo prendere anche con l'emozione della scomparsa di Mario Limentani. Ma come Amministrazione abbiamo il dovere di decidere tenendo conto anche dei vincoli giuridici e quindi di rispettare la procedura avviata e aprire le buste del bando di gara europeo per la realizzazione del museo, come sottolineato anche dal presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick. Tuttavia, come sindaco della città - prosegue Marino - e quindi anche della comunità romana, sento il dovere morale di realizzare il Museo della Shoah nella Capitale".
E' evidente quindi che è nata una frizione tra la Comunità ebraica e Roma Capitale, nella necessità da una parte di realizzare al più presto il museo tanto atteso, dall'altra le procedure amministrative e forse economiche che pesano non poco sulle decisioni del primo cittadino, fanno ritardare una scelta presa già da molti anni.
(Pensieri.it, 7 ottobre 2014)
Francia, così laica, così snob: l'odio mai sopito nel Paese dei lumi spenti
Emergenza antisemitismo: è alla Francia che oggi va il triste primato. un fuggi fuggi generalizzato, mentre crescono le aliyot e aumentano del doppio gli episodi di violenza e gli attacchi a istituzioni e persone. Un'inchiesta per capire come si è arrivati a tanto.
di Davide Romano
Riunione di famiglia, due genitori si rivolgono ai propri figli: «Questo Paese non è più vivibile per noi ebrei, - abbiamo deciso che è tempo di andare via». Questa terribile scena si è ripetuta tante, troppe volte nel corso della storia del popolo ebraico. All'alba del ventunesimo secolo, in pochi avrebbero pensato potesse accadere di nuovo. Incredibilmente invece, queste situazioni che ci auguravamo fossero consegnate alla storia, tornano oggi sotto forma di drammatica cronaca in alcuni Stati della civilissima e democratica Europa.
Ma cosa spinge gli ebrei di oggi a lasciare le proprie case, il proprio lavoro, la scuola dei figli, gli amici e i parenti, per andare a vivere in Israele? Anzi, visti i continui attacchi subiti dallo Stato ebraico, la domanda può essere formulata in maniera ancora più terribile: perché gli ebrei francesi o belgi preferiscono lasciare il luogo dove sono nati e cresciuti per andare in Israele, e diventare un possibile bersaglio delle periodiche aggressioni di Hamas e Hezbollah? La risposta sta in più fattori. In primo luogo, il presente: il clima sociale in diversi Paesi europei è evidentemente cambiato in peggio e le comunità ebraiche si sentono nel mirino. Basta pensare alle recenti manifestazioni anti-israeliane colme di violenza che in varie città europee hanno come obiettivo le sinagoghe (a conferma che la teorica differenza tra antisionismo e antisemitismo è assai labile), o alle vere e proprie aggressioni fisiche nei confronti di cittadini di fede ebraica. Se a questo sommiamo i diversi attentati a centri ebraici (a cui andrebbero aggiunti quelli sventati, di cui si perde inevitabilmente memoria), ne emerge un quadro di giustificato allarme. Un altro fattore determinante è relativo al futuro che non sembra offrire speranze di miglioramenti, anzi.
Tutti questi problemi toccano diversi Paesi del nostro continente, dalla Germania alla Svezia, ma una particolare gravità va riconosciuta alla Francia, su cui ci concentreremo. Il Crif (Consiglio delle istituzioni
Il Crif ha denunciato come gli atti di antisemitismo nella terra dei lumi siano raddoppiati nei primi sei mesi del 2014, 527 episodi gravi contro i 276 dell'anno 2013, una crescita del 91 per cento.
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ebraiche francesi), ha denunciato in un comunicato raggelante del 12 settembre scorso come gli atti di antisemitismo nella terra dei lumi siano raddoppiati nei primi sei mesi del 2014, 527 episodi gravi contro i 276 dell'anno 2013, una crescita del 91 per cento. E anche l'Anti-Defamation League ha recentemente pubblicato una ricerca sull'antisemitismo nel mondo. Se all'interno dell'Unione Europea il livello di popolazione antisemita è pari in media al 24%, la Francia raggiunge l'inquietante cifra del 37%. Seconda solo alla Grecia (69%), che non a caso ha portato in Parlamento i neonazisti di Alba Dorata. In questa ricerca, per la cronaca, il nostro Paese si ferma al 20%, quindi al di sotto della media continentale. È bene ricordare come questi dati siano stati raccolti prima del recente conflitto tra Hamas e Israele, che ha con ogni probabilità peggiorato la situazione.
Qualcuno potrebbe obiettare che i dati sono eccessivamente pessimisti. Ma anche a leggere i dati dall'opposta angolazione, i risultati non cambiano. Secondo un sondaggio realizzato dall'organizzazione sefardita francese Siona, il 74,2% degli ebrei d'oltralpe sta prendendo in considerazione l'idea di emigrare. Riguardo al futuro, ben il 57,5% ha dichiarato che "non c'è futuro per gli ebrei in Francia", mentre solo il 30,6% ha manifestato ancora fiducia nel proprio Paese. Questi sondaggi trovano un riscontro nella realtà da fonti dell'Agenzia Ebraica: se nel 2013 il numero di ebrei emigrati in Israele dalla Francia era arrivato a 2.904 (il 175% in più rispetto all'anno precedente), si prevede che nel 2014 la cifra si attesterà ben oltre la quota di 5 mila. Qualche cocciuto negatore della realtà potrebbe dubitare di questi dati, ipotizzando che si tratti di una sorta di isteria collettiva ebraica che vede antisemiti ovunque. A questi inguaribili ottimisti, in buona o cattiva fede, non resta che presentare i dati del Ministero degli Interni francese relativi al 2013 (ben prima dell'operazione "margine di protezione"). Tra tutte le azioni razziste, quelle di natura antisemita ammontano al 40%, sebbene gli ebrei rappresentino solo l'1% della popolazione francese. Gli atti antisemiti sono stati 423, di cui 105 a contenuto violento (50 aggressioni personali e 55 tra incendi o vandalismi vari). Ben oltre uno al giorno, senza contare quelli non denunciati alle autorità. Per intenderci: se fino al 2000 gli atti antisemiti di varia natura erano nell'ordine dell'ottantina all'anno, dall'anno 2000 le statistiche riportano cifre che non scendono mai sotto i 400, e in alcuni anni arrivano a toccare i 900. Dal 2010 a oggi l'agghiacciante bilancio degli ebrei uccisi è arrivato a quota 8. L'evento più sanguinoso è stato senz'altro la strage del 2012 alla scuola ebraica di Tolosa, dove il franco-algerino Mohammed Merah uccise un insegnante e tre bambini dell'età di tre, sei e otto anni. Nel tragico conteggio non rientra peraltro, per motivi cronologici, il terribile omicidio del giovane parigino Ilan Halimi, avvenuto nel 2006. Il 24enne fu sequestrato dalla "banda dei barbari" in quanto ebreo, e sottoposto per 24 giorni a torture indicibili che ne provocarono la morte. Pur essendo di famiglia povera, Ilan ha pagato le convinzioni del capobanda Youssouf Fofana, che era dogmaticamente convinto che "gli ebrei hanno i soldi e sono solidali tra loro". E neppure la strage al museo ebraico di Bruxelles di quest'anno rientra, per motivi geografici, nel conto degli otto ebrei assassinati. Sebbene sia stata opera del franco-algerino Mehdi Nemmouche.
- Un odio antico
Da dove viene tutto questo odio antiebraico in quella che una volta era chiamata la "terra dei lumi"? Principalmente da tre fattori. Il primo è quello della vera e propria cultura antisemita moderna di cui la Francia è storicamente detentrice. Contrariamente all'Italia infatti, i nostri cugini d'oltralpe hanno avuto degli intellettuali antisemiti di notevole spessore culturale, provenienti da destra come da sinistra, appartenenti sia al mondo cristiano che a quello laico: Joseph de Maistre, Céline, Voltaire (compreso il suo Dizionario Filosofico), Proudhon e Lassalle. Non dobbiamo inoltre dimenticare vere e proprie riviste e movimenti d'opinione dedicati all'antigiudaismo, come La libre parole o la Lega antisemita, che alla fine dell'800 hanno contribuito ad alimentare l'odio antiebraico anche durante il caso Dreyfus: all'epoca, non dimentichiamolo, il povero Emile Zola autore del celebre J'Accuse non poteva uscire per strada senza essere fatto oggetto di sputi e minacce. Proprio al Caso Dreyfus, il regista Roman Polanski dedicherà il suo prossimo film, talmente preoccupato dalla situazione da sentire la necessità di ricordare ai francesi i loro scheletri nell'armadio.
È doveroso ricordare, inoltre, che Theodor Herzl iniziò a concepire l'idea di fondare uno Stato Ebraico come rimedio alle persecuzioni, proprio assistendo al processo all'ufficiale ebreo e alla violenta propaganda antisemita che lo circondava. A conferma del carattere profondamente culturale dell'antisemitismo
La Francia i suoi conti con le persecuzioni antiebraiche ha iniziato a farli con gravissimo ritardo: si dovette infatti aspettare fino al 1995 per sentire un chiaro mea culpa dello Stato francese in merito alla retata dei 13mila ebrei al Velodromo d'Inverno.
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francese, ricordo tristemente quando, durante una visita a Parigi nei primi anni del 2000, ebbi modo di imbattermi per strada in una libreria che disponeva un amplissimo settore di testi antisemiti. Ricordiamo inoltre che la Francia i suoi conti con le persecuzioni antiebraiche ha iniziato a farli con gravissimo ritardo: si dovette infatti aspettare fino al 1995 per sentire un chiaro mea culpa dello Stato francese in merito alla retata dei 13mila ebrei al Velodromo d'Inverno. Un atto il cui merito va riconosciuto per intero alla presidenza Chirac, che ruppe un lunghissimo e vergognoso silenzio che durò dal Dopoguerra fino al suo predecessore socialista, Mitterrand compreso.
Un secondo importante fattore di crescita dell'antisemitismo in Francia è legato alla crisi economica. Come la storia insegna, essa crea frustrazione nella popolazione, la quale poi sente l'esigenza di trovare capri espiatori. Nel diluvio di teorie complottiste che si possono sentire nei comizi o sui media dove spesso e volentieri si urla contro i banchieri, la massoneria, le lobby, i rappresentanti di queste organizzazioni vengono spesso raffigurati con sembianze riconducibili allo stereotipo ebraico degli antisemiti: con naso adunco, avidi di denaro e altre suggestioni di chiara matrice antigiudaica. Tali immagini vengono diffuse nei diversi ambienti estremisti, religiosi (sia islamici che cristiani) e politici (in maniera trasversale da destra come da sinistra). Tutti questi gruppi di fanatici trovano nel mondo ebraico un nemico comune, considerandolo causa di tutti i mali.
Un terzo fattore è la presenza di una forte comunità arabo-islamica, che in Francia si aggira intorno ai 6 milioni di individui. Secondo la ricerca della Anti-Defamation League, nel Nord Africa le percentuali di popolazione antisemita superano il 70%. Un dato solo all'apparenza sorprendente. Si sente spesso raccontare di come un tempo gli ebrei del Maghreb andavano d'amore e d'accordo con i loro vicini di casa musulmani. Ciò accadeva anche tra famiglie ebree e cristiane in Francia o in Italia negli anni '20 e '30, ma questo non ha impedito le successive persecuzioni degli anni '30 e '40 in Europa. Purtroppo anche in Nord Africa questi legami interreligiosi si sono spezzati qualche anno dopo: negli anni '50 e '60 si sono diffusi i pogrom antiebraici che hanno dato luogo alla cacciata di più di 800 mila ebrei maghrebini dai propri Paesi. La cosa più tragica di questa gigantesca espulsione dal punto di vista storico è il suo legame con l'oggi. Se è vero che la maggioranza di questi ebrei sono arrivati in Francia per scappare dalle persecuzioni subite nel Maghreb, è anche vero che una parte dei loro persecutori li ha seguiti nello stesso Paese. Per questo non è affatto da escludere un'agghiacciante ipotesi: oggi, in Francia, il Mohammed che aggredisce il connazionale David, non fa altro che reiterare esattamente quello che in passato ha fatto suo nonno (a Tripoli o ad Algeri) al nonno di David. Una storia che tragicamente si ripete, insomma. E non solo per una grave mancanza di integrazione della comunità islamica in Francia, ma anche perché evidentemente l'islam francese non ha fatto i conti con le proprie responsabilità nelle persecuzioni antiebraiche avvenute un tempo nella madrepatria d'origine.
Siamo quindi di fronte a una storia che si ripete, e che non nasce all'improvviso - come qualcuno può pensare - a causa del conflitto mediorientale. A proposito di quest'ultimo, è doveroso registrare un altro elemento spesso sottovalutato: per decenni l'Europa ha pensato di potere esportare la pace tra arabi e israeliani senza affrontare il tema dell'antigiudaismo. Col risultato che nel frattempo erano proprio quell'odio antiebraico e quell'intolleranza per il diverso propagandati dai regimi arabi a essere importati nel nostro continente con i risultati che oggi vediamo. Come ha avuto modo di dire lo scrittore Marek Halter: «La benzina dell'odio è stata già versata ovunque, e adesso impregna ogni cosa. A questo punto, basta un fiammifero per scatenare un incendio devastante».
- Il modello francese di integrazione. Multiculturalismo, un esperimento fallito?
Il modello francese di integrazione punta su lingua, tradizione e scuola come elemento fondamentale nella creazione dell'identità nazionale degli immigrati, cosa che fanno in maniera diversa anche altri Paesi. Rispetto agli altri modelli europei però, quello francese ha alcune peculiarità: innanzitutto afferma fortemente la propria tradizionale laicità arrivando a prevedere la cancellazione di qualunque grado di
Pensando che gli imam fai-da-te equivalessero ai preti, si sono delegate loro funzioni impro- prie. Per esempio, concedendo loro il rinnovo dei visti o la distribuzione di alcuni servizi sociali.
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diversità culturale e religiosa espressa nello spazio pubblico. Come non ricordare, al riguardo, le note polemiche sul divieto di esposizione di qualunque simbolo religioso nelle scuole? C'è poi un altro tema, relativo ai diritti. Laddove in tutta Europa abbiamo commesso lo sbaglio di concedere diritti collettivi agli immigrati senza promuovere nel contempo la cultura dei diritti individuali, in Francia si è commesso un ulteriore errore. Pensando che gli imam fai-da-te equivalessero ai preti, che sono invece l'ultimo anello di una scala gerarchica ben ordinata e istituzionalizzata, si sono delegate loro funzioni improprie. Per esempio, concedendo loro il rinnovo dei visti o la distribuzione di alcuni servizi sociali. Così facendo, si sono portate le parti meno integrate del mondo maghrebino a contatto con moschee la cui funzione non era sempre quella di integrare e aiutare i giovani a progredire, anzi.
Gli imam più fanatici hanno approfittato di queste opportunità per predicare contro il modello di civiltà europeo basato sulla tolleranza e il dialogo, al fine di fare politica e di irretire e rinchiudere sempre più sotto la propria sfera di influenza queste masse di disperati. Fino alla creazione di veri e propri quartieri-ghetto, dove prevale la logica di clan ai danni di quella dello stato di diritto. Per intenderci: pensiamo se nei quartieri più poveri e disperati del sud Italia invece di avere quei preti che ci commuovono per il loro impegno sociale, avessimo dei predicatori fanatici che incitano alla rivolta contro lo Stato.
È facile immaginare quali sarebbero i risultati, o comunque spiegarsi meglio il motivo delle violente rivolte delle banlieu del 2005.
(Mosaico, 6 ottobre 2014)
La storia della medicina ebraica a Ferrara in un libro scritto a più mani
Racconta di personaggi e vicende lungo un arco temporale che va dal Milleduecento al secolo scorso il libro dal titolo 'Medici ebrei e la cultura ebraica a Ferrara' che mercoledì 8 ottobre alle 17 sarà presentato nella sala Agnelli della biblioteca Ariostea. Curato da diversi esponenti dell'Associazione De Humanitate Sanctae Annae, il volume propone, tra immagini e parole, un percorso nella storia della medicina ebraica a Ferrara, da Nathan Ha Meati (il Tibbonide italiano) alla pediatra dimenticata dalla Shoah, Maria Zamorani.
Nel corso dell'incontro, alle narrazioni di Andrea Nascimbeni, Gianluca Lodi, Fausto Braccioni e Carlo Magri, introdotti dalla voce narrante di Massimo Masotti, si uniranno i brani cantati dalla soprano Gigliola Bonora Rizzi, con musiche Kaddisch e Yiddish tratte da 'Due melodie ebraiche' di Maurice Ravel, suonate alla chitarra da Enrico Massetti.
L'appuntamento, a cura di Faust Edizioni e Associazione De Humanitate Sanctae Annae, è aperto alla partecipazione di tutti gli interessati.
(Cronaca Comune, 7 ottobre 2014)
Sulla Palestina il passo falso di Stoccolma
di Fiamma Nirenstein
Il premier socialdemocratico svedese appena eletto Stefan Lofven, nel suo discorso di inaugurazione venerdì, ha stabilito un record immediato: ha annunciato che il suo Paese riconoscerà, primo dell'Unione Europea, lo Stato Palestinese. Poi l'ambasciatore in Israele Carl Nesser ha cercato di addolcire il linguaggio, ma la sostanza resta uguale.
Il gesto ignora la necessità di trattative fra Israele e i Palestinesi, spinge questi ultimi al solito rifiuto del compromesso, esalta la tendenza a accettare la versione che sia Israele a ostacolare la pace.
Lofven, così interessato al Medio Oriente, non dice niente sul caos in Siria e in Iraq e sugli svedesi che partono per unirsi all'Isis. Solo i palestinesi sono importanti per la rileccatissima super-democrazia ecologica e disinfettata. La sua migliore strada per dimostrare dedizione ai diritti umani e ai suoi immigrati è prendersela con Israele, come fa dai tempi di Olaf Palme.
Così quel civilissimo Paese è oggi fra i più antisemiti del mondo, secondo l'European Jewish Congress: le aggressioni si ripetono, si attaccano sinagoghe e cimiteri, si picchiano gli ebrei con la kippà, 30 famiglie di Malmö sono scappate, l'86enne Judith Papinsky, sopravvissuta della Shoah, non insegna più perché viene minacciata, sulle magliette la scritta alla moda è «Burn Israel burn».
La paura e il politically correct sono una mistura micidiale. Gli immigrati musulmani sono quasi un milione in un Paese di poco di 9 milioni e mezzo di abitanti; nessuno ne discute, il diktat «antirazzista» funziona come in Urss, se i vicini ti vedono leggere il giornale sbagliato non trovi lavoro, non ti invitano a cena. L'antisemitismo-antisraele è un «must» sociale. Il giornale critico Dispatch International ha visto la sua direttrice fuggire all'estero, un giornalista, Lars Herdegaard è stato assalito con intenti omicidi.
Il primo ministro Lofven ha dunque compiaciuto subito la sua constituency, ma è nella tradizione. Il giornale Aftonbladet scrisse che i soldati israeliani rubano gli organi ai palestinesi per venderli. La sottoscritta chiese all'allora ministro degli esteri Carl Bildt cosa pensava di fare contro l'antisemitismo. «Antisemitismo? - chiese - E quale? Non ne ho notato affatto». Il museo di Stoccolma esibì nel 2004 un monumento a una terrorista suicida palestinese. Meno male che Zvi Mazel, l'allora ambasciatore d'Israele, lo distrusse con le sue mani.
(il Giornale, 7 ottobre 2014)
Cinquecento antropologi boicottano Israele. Molte firme sono italiane
di Giulio Meotti
ROMA - Ci sono anche numerosi docenti italiani fra gli antropologi che hanno deciso di boicottare lo stato d'Israele. Ci sono Silvia Posocco e Tommaso Sbriccoli della London University, Mara Benadusi dell'Università di Catania, Alessia Prioletta dell'Università di Pisa, Riccardo Putti dell'Università di Siena, Simona Taliani e Alejandra Carreño dell'Università di Torino, Angela Zito della New York University. Sono alcuni dei 500 antropologi che hanno appena promosso un appello per bandire docenti israeliani.
Ci sono nomi illustri dei dipartimenti di antropologia americani: dalla Columbia University arrivano tredici firme, da Harvard nove (come Steven Caton) e da Yale otto. Tra loro nomi importantissimi del mondo dell'antropologia, come i professori Jean e John Comaroff di Harvard, decani degli studi post coloniali e africani, e Michael Taussig della Columbia University, lo studioso della mimesi e dell'America Latina. Duro il giudizio della Israeli Anthropological Association, che parla di "attacco alla libertà accademica e di espressione". E pensare che nel 1970 l'American Association of University Professors diede disposizione ai propri membri, in merito alla guerra in Vietnam, di "non diventare strumento di indottrinamento" e quindi di non assumere posizioni politiche pubbliche. Oggi Israele subisce una politica di trattamento ben differente. E' l'unico stato al mondo sotto boicottaggio economico e culturale. Il paragone storico è con la decisione del 1985 di boicottare il Sudafrica dell'apartheid. Israele e il sionismo devono fare la stessa fine del razzismo afrikaner.
Alla base dell'appello, spiegano i 500 firmatari, si trova l'obiettivo stesso dell'antropologia, dunque la denuncia "del potere, dell'oppressione e della violenza strutturale" di Israele. A gennaio era arrivato il boicottaggio ufficiale della American Studies Association, poi centinaia di bibliotecari delle università occidentali avevano aderito al progetto, infine il Royal Institute of British Architects ha invitato la Inter-national Union of Architects a sospendere la collaborazione con Israele. A dicembre spetterà all'American Anthropological Association esprimersi sul boicottaggio. Il boicottaggio ufficiale di Israele porta all'annullamento di ogni rapporto accademico e culturale con lo stato ebraico. Si stabilisce anche che i professori cancellino ogni collaborazione con gli insegnanti e gli istituti israeliani. Le tesi di laurea non sono accettate se arrivano da Israele.
Come ha fatto la rivista inglese The Translator sotto la direzione di Mona Baker, stimata curatrice di una Encyclopedia of Translation Studies, che avendo deciso di boicottare le istituzioni universitarie israeliane "chiese" a due studiosi israeliani, Miriam Schlesinger e Gideon Toury, che facevano parte del comitato direttivo della rivista, di rassegnare le dimissioni. L'appello dei 500 chiede che "non si collabori a progetti o eventi ospitati o finanziati da istituzioni accademiche israeliane, non si insegni o si partecipi a conferenze di tali istituzioni, e non si pubblichi in riviste accademiche basate in Israele". Una sola "apertura" è concessa dai 500 antropologi: la collaborazioni con singoli professori o studiosi israeliani se critici della politica del governo israeliano. Hanno fatto meno notizia purtroppo i 620 accademici, guidati da Judea Pearl, il padre del giornalista del Wall Street Journal Daniel, e dal giurista di Harvard Alan Dershowitz, che hanno appena rigettato l'invito a boicottare lo stato ebraico, "contrario alla libertà accademica". C'erano nomi che potevano lusingare la stampa, come il liberal Eric Alterman storica firma della rivista di sinistra The Nation. Ma l'odio, alla fine, tira sempre di più. Specie quando si parla di ebrei.
(Il Foglio, 7 ottobre 2014)
La rete bancaria Swift respinge il boicottaggio degli istituti israeliani
La rete internazionale bancaria Swift ha respinto ogni pressione per boicottare gli istituti israeliani ed escluderli dal proprio network. "Non prendiamo decisioni unilaterali per disconnettere istituzioni dalla nostra rete in seguito a pressioni politiche", si legge in un comunicato di Swift, ripreso oggi dai media israeliani.
"Ogni decisione sull'imposizione di sanzioni verso paesi o entità individuali spetta alle istituzioni competenti dei governi", nota ancora Swift, aggiungendo di "non avere l'autorità per decidere l'imposizione di sanzioni". Basata a Bruxelles, la rete collega oltre 10mila istituti bancari in 210 paesi del mondo e controlla circa l'80% delle transazioni finanziarie internazionali.
Nelle ultime settimane, diverse organizzazioni filo palestinesi, legate al movimento Bds che sostiene il boicottaggio contro Israele, avevano esercitato pressioni su Swift, ricordando come il Sudafrica fosse stato escluso dalla rete bancaria all'epoca dell'apartheid. Nel marzo 2012, Swift ha escluso 25 banche iraniane dalla propria rete, ma si trattava di una diretta conseguenza delle sanzioni contro Teheran decise dall'Unione Europea.
(Adnkronos, 7 ottobre 2014)
Perché il sistema antimissilistico di Israele "Iron Dome" non vende
di Luca Lampugnan
Benché la sua efficacia sia perenne materia di discussione, che il sistema antimissilistico israeliano conosciuto come Iron Dome abbia contribuito a contenere i bilanci delle vittime civili durante i vari conflitti che dal 2011 ad oggi hanno coinvolto Tel Aviv è assolutamente innegabile. Secondo alcune stime, infatti, la "Cupola di Ferro" intercetta con successo i razzi artigianali provenienti dalla Striscia di Gaza nel 90% dei casi, riuscendo inoltre nella maggior parte di questi ad evitare che i detriti di Qassam e simili costituiscano un pericolo per i centri abitati verso cui puntano.
Con queste premesse non è sbagliato immaginare che siano molti ad essere interessati a tale tecnologia, frutto di investimenti miliardari provenienti anche dall'estero. Non va infatti dimenticato che gli Stati Uniti, alleati storici e fondamentali di Israele, misero sul piatto un miliardo di dollari per la realizzazione di Iron Dome, figlio della controllata statale Rafael Advanced Defence Systems.
Nonostante tutto, però, non è assolutamente così. Al contrario, uno dei sistemi antimissilistici più famosi al mondo, citato più e più volte durante le recenti guerre tra Tel Aviv e i militanti della Striscia di Gaza, non vende - stando alle autorità di Israele ci sarebbe stato un solo acquirente, che per motivi di sicurezza non viene reso pubblico.
Sulla carta, tuttavia, le cose sarebbero dovute andare in modo decisamente diverso. "Il ministro della difesa sta intrattenendo colloqui con un gran numero di Paesi europei rispetto ad una possibile vendita del sistema antimissilistico a corto-raggio", scriveva nel 2010 il Jerusalem Post, alla vigilia dell'inaugurazione, l'anno successivo, di Iron Dome. E altri possibili acquirenti, sempre secondo rumors e indiscrezioni, dovevano essere gli Stati Uniti, come già detto finanziatori del progetto, l'India e la Corea del Sud.
Perché allora la "Cupola di Ferro" è ancora oggi un'esclusiva israeliana? Rispondere a questa domanda potrebbe sembrare piuttosto facile: Iron Dome è uno strumento pensato e sviluppato specificatamente per la tipologia di minacce che si trova a dover affrontare Tel Aviv, e difficilmente può essere applicato ad altre realtà. Sicuramente questo è vero, ma è solo uno degli aspetti che rendono tale sistema antimissilistico poco appetibile e diffuso tra i suoi potenziali acquirenti.
Ad esempio, benché l'export militare sia una delle voci principali nell'economia d'Israele - parliamo di un guadagno annuo in media di 6,5 miliardi di dollari proveniente dalla vendita all'estero dell'80% delle tecnologie di difesa che produce -, le sue difficili relazioni diplomatiche con alcuni Paesi tendono a diminuire il possibile bacino di compratori. Tel Aviv "non vende a coloro con i quali non intrattiene legami diplomatici", ricorda infatti senza giri di parole Reuters, sottolineando come questo sbarri la strada, ad esempio, ad alcune monarchie del Golfo, interessate ad un sistema di difesa antimissilistico di prim'ordine a causa delle crescenti tensioni con l'Iran.
Ancora, il successo di Iron Dome contro i missili con caratteristiche sulla falsa riga dei Qassam non è certo applicabile anche ai colpi di mortaio. Per questo motivo, infatti, gli Stati Uniti non ne hanno fatto uso ad esempio in passato tra l'Afghanistan e l'Iraq. Tuttavia, per cercare di sopperire a questa mancanza - di cui hanno fatto le spese anche 15 persone tra soldati e civili rimaste uccise nell'ultimo round di guerra tra Israele e la Striscia di Gaza -, la Rafael Advanced Defence Systems, come già detto la società produttrice della "Cupola di Ferro", starebbe sviluppando il progetto di un sistema chiamato Iron Beam, strumento che tramite l'utilizzo di un laser dovrebbe risultare maggiormente efficace contro i colpi di mortai lanciati a mezz'aria.
In ultimo, dettaglio certamente non secondario, a rendere pressoché impossibili le vendite di Iron Dome sono i costi del sistema antimissilistico in se, del suo mantenimento e dei razzi con cui viene armato per intercettare i missili artigianali di Gaza. Secondo quanto riporta Reuters, tutto il 'pacchetto', comprensivo di radar, strumentazione di comando e due lanciamissili, equivale ad un valore di 50 milioni di dollari. A cui va poi aggiunta, ovviamente la spesa per i missili Tamir: secondo diverse stime, uno solo di questi può arrivare a costare da un minimo di 20 mila ad un massimo di 100 mila dollari.
(International Business Times, 7 ottobre 2014)
Le parole indecenti di Abu Mazen
Lettera aperta al presidente palestinese: le vostre calunnie non ci impediranno di cercare la pace
di Yoram Dori.
Signor Abu Mazen, ho ascoltato il suo discorso all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, un luogo destinato ai capi di stato, e devo dire che, man mano che il suo discorso proseguiva, cresceva il mio disagio (per usare un eufemismo).
Non ho intenzione di soffermarmi sulle radici del contrasto tra Israele e palestinesi che impedisce il raggiungimento dell'indipendenza per il popolo palestinese e la sicurezza per il popolo israeliano.
Non ho intenzione di discutere dove dovrebbero essere fissate le linee di confine, un problema in cui a mio parere le differenze fra noi non sono poi così sostanziali.
Né intendo parlare delle future mosse dell'Autorità Palestinese che lei ha illustrato nel suo discorso alle Nazioni Unite quando ha sottolineato il suo tentativo di ottenere un riconoscimento da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per il diritto palestinese all'indipendenza, una posizione che personalmente condivido e per la quale da molti anni mi batto in Israele, il mio paese.
Questa volta, signor Abu Mazen, tutto ciò di cui voglio parlare sono le intollerabili e indecenti espressioni "genocidio" e "crimini di guerra" che ha usato nel suo discorso.
Quelli che si battono per il diritto palestinese all'indipendenza sono periodicamente scandalizzati e sorpresi dal comportamento di quelli con cui vorrebbero convivere. Ma invece di essere eternamente sorpresi, non sarebbe meglio cercare di capire? Chi davvero capisce, andando avanti trova conferme, belle o brutte che siano, non sorprese.
(israele.net, 7 ottobre 2014)
Simha Rotem, sopravvissuto del Ghetto di Varsavia
di Darla Gorodlsky
È uno degli ultimi tre sopravvissuti del Ghetto di Varsavia. Nell'aprile del '43, quando scoppiò la rivolta, aveva 19 anni: e con lo stesso eroismo con cui, allora, ha combattuto contro il nazismo e i suoi strascichi in Polonia, adesso che ha superato i 90 porta in giro per il mondo le sue memorie. Così oggi Simha Rotem presenterà anche a Roma il suo libro Il passato che è in me (a cura di Anna Rolli, postfazione di David Meghnagi, Belforte Editori), alle 17 nella Sala Pietro da Cortona dei Musei Capitolini. È la cronaca «senza riserve» di quel periodo, le battaglie, la distruzione del suo mondo, «il furto della mia umanità». Anche dopo la Liberazione, scrive Rotem, «non ci fu gioia... iniziammo a comprendere la grandezza della catastrofe che si era abbattuta sul popolo ebraico e sulle nostre famiglie». Finita la guerra, nel 1946 Rotem emigra in quello che due anni dopo sarebbe diventato lo Stato di Israele. Vuole dimenticare, «mi sentivo in colpa per essere sopravvissuto. Questa è la ragione per cui, anche dopo aver imparato l'ebraico, non ho mai parlato troppo. Evitavo di svelare il mio passato». Fino a quando si convince che il testimone-memoria va trasmesso alle generazioni successive; e da lì comincia a raccontare.
(Corriere della Sera - Roma, 7 ottobre 2014)
La guerra di Hamas contro i media
Intimidazioni, minacce e violenze: come il movimento islamico ha usato il terrore per vincere la guerra mediatica.
di Ariel David
Ogni volta che il conflitto tra israeliani e palestinesi s'infiamma, i media diventano un campo di battaglia d'importanza quasi pari a quello reale, con entrambe le parti coinvolte in sforzi per mostrare le proprie ragioni e dipingersi in veste di vittima. L'ultima guerra tra Israele e Hamas non fa eccezione. Sugli schermi televisivi, sui giornali e sui social network si sono susseguite immagini di case bombardate e civili palestinesi morti, seguite dalla risposta israeliana che denuncia l'uso da parte dei terroristi di Hamas di scudi umani e di infrastrutture civili per immagazzinare e lanciare razzi contro la popolazione dello Stato ebraico. Entrambe le parti sono convinte che i media parteggino per l'altro: manifestanti filo-palestinesi protestano a Londra contro la BBC, mentre chi sta dalla parte d'Israele lamenta che l'attenzione dei media si concentra sulla risposta militare israeliana e non sulle azioni terroristiche di Hamas, che hanno scatenato il conflitto. Ma chi ha ragione? Da che parte stanno i media internazionali? Sicuramente israeliani e palestinesi hanno entrambi una folta tifoseria e ci sono giornalisti, analisti e opinionisti che hanno scelto ideologicamente di stare da una parte o dall'altra. Vi sono però almeno due elementi che pesano su tutti i media, anche sui più benintenzionati e votati all'imparzialità, e che inevitabilmente influenzano la copertura della guerra a Gaza.
Questi due elementi rovesciano la tradizionale idea della sproporzione tra le forze in campo, spesso invocata a sostegno delle tesi palestinesi, e mostrano che, almeno nella guerra mediatica, il disequilibrio è tutto a sfavore d'Israele. Il primo punto riguarda la natura del lavoro giornalistico e delle fonti d'informazione. Nell'epoca dell'informazione immediata, ventiquattro ore su ventiquattro, i media devono scegliere se pubblicare subito una notizia, magari non verificata, o rischiare di essere battuti sul tempo dalla concorrenza. Non c'è tempo per un approfondimento o un controllo, e la pressione è resa ancor più insostenibile dai tanti tagli al personale operati da giornali e televisioni che attraversano un momento di forte crisi. Questo clima favorisce quei giornalisti che non mettono in dubbio le proprie fonti, anche quando si tratta d'informazioni provenienti da Hamas, e che non resistono alla tentazione di pubblicare immediatamente nuove immagini e notizie di morte e distruzione. Così, ad esempio, fonti palestinesi hanno potuto diffondere nel mondo la notizia che, durante l'offensiva su Gaza, dieci bambini erano stati uccisi da un raid israeliano mentre giocavano in un campo profughi. Quando, dopo lunghe verifiche, le più attente fonti dell'esercito israeliano hanno dichiarato che si era trattato invece di un missile difettoso di Hamas caduto all'interno della Striscia, era ormai troppo tardi: la notizia era già stata diffusa e i media erano già alla ricerca della prossima storia.
A questa rapidità e spregiudicatezza nell'utilizzare la sete di notizie dei media, si aggiunge un secondo elemento che mina alla base l'attendibilità di quasi tutti i reportage provenienti dalla striscia di Gaza. È un segreto di Pulcinella che gli operatori dei media conoscono, ma che non rivelano quasi mai al proprio pubblico. Questo segreto è che Hamas, come ogni regime totalitario, mantiene un controllo totale sulle informazioni che escono dalla striscia, utilizzando intimidazioni e violenze per filtrare le notizie sfavorevoli. Solitamente i media sono restii a denunciare pubblicamente queste pressioni per il timore di troncare i rapporti con fonti importanti e soprattutto per paura di ritorsioni contro i propri corrispondenti e contro lo staff locale che continuerà a vivere e lavorare nella Striscia anche quando le acque si saranno calmate. Nel caso del conflitto di Gaza, qualcosa si è mosso. Alcuni giornalisti, una volta usciti da Gaza, hanno denunciato di aver subito minacce da parte di uomini di Hamas per aver filmato il lancio di razzi dalle vicinanze di edifici abitati da civili. Il Washington Post ha sfidato la censura per raccontare come i sotterranei dell'ospedale Shifa, il principale della città, siano stati trasformati nel quartier generale di Hamas. Un giornalista franco- palestinese, Radjaa Abou Dagga ha dichiarato al giornale Libération di essere stato arrestato, interrogato e infine espulso da Gaza. L'articolo che racconta la sua storia è stato poi rimosso dal quotidiano francese su richiesta dello stesso Dagga, che ha famiglia a Gaza. Anche la portavoce del Ministero dell'Informazione di Hamas, Isra al-Mudallal, ha inavvertitamente ammesso in un'intervista con la TV libanese al-Mayadeen che i militanti dell'organizzazione hanno tenuto "sotto sorveglianza" diversi giornalisti scomodi, deportandoli da Gaza o "convincendoli a cambiare il loro messaggio in un modo o in un altro".
Di fronte al moltiplicarsi di episodi simili, l'Associazione della stampa estera, che raccoglie i giornalisti stranieri che lavorano in Israele e nei territori palestinesi, ha protestato in un comunicato contro gli "evidenti, incessanti, violenti e inusuali" metodi messi in campo da Hamas contro la stampa. Israele, dove l'informazione è libera e non risparmia critiche ai governanti, non può competere con le pressioni e le manipolazioni messe in campo di Hamas. L'unica risposta possibile è spingere il mondo dell'informazione a denunciare la guerra silenziosa che a Gaza si combatte contro la libertà di stampa. Purtroppo, le proteste come quella della stampa estera sono ancora poche, e la maggior parte dei lettori e spettatori dei media internazionali rimane ancora all'oscuro del fatto che quella proveniente da Gaza sia un'informazione attentamente controllata, pilotata, se non in molti casi direttamente orchestrata, dagli esperti propagandisti di Hamas.
(Shalom, settembre 2014)
E' tempo di Sukkot
Si apre al tramonto di mercoledì 8 ottobre la settimana di Sukkot, la Festa delle capanne di tradizione biblica con cui il popolo ebraico ricorda i quarant'anni trascorsi nel deserto. La festa è anche momento di riflessione sulla precarietà della vita umana e la benevolenza di Dio verso il suo popolo.
di Ambra Marchese
Sukkot è la festa biblica delle Capanne (o Tabernacoli); il termine significa letteralmente "capanne" (plurale di sukkah, capanna). Quest'anno la festa cade tra l'8 e il 9 ottobre, terminando il 15 dello stesso mese; Sukkot è una delle tre feste di pellegrinaggio, assieme alla pasqua e alla pentecoste (Esodo 23:14-17) e la sua celebrazione è, secondo la Bibbia, una legge perpetua.
La celebrazione di Sukkot inizia tra il 14 ed il 15 del mese di tishrì (settembre-ottobre) e termina tra il 22 e il 23, per una durata totale di sette giorni. Il primo e l'ultimo (ottavo giorno) sono delle sante convocazioni, ovvero giorni dedicati al riposo e alla conseguente astensione dal lavoro (proprio come lo shabbat). Nel periodo biblico, per tutto il periodo di festa, venivano offerti dei sacrifici animali arsi sul fuoco, degli olocausti all'Eterno. Sukkot è chiamata anche Festa della raccolta (in ebraico hag haassif - Esodo 23:16, 34:22) poiché si tratta della festa agricola d'autunno, celebrata subito dopo la raccolta di grano, uva, olive e frutta.
Nei giorni della festa il popolo ebraico vive in capanne per ricordare i quarant'anni nel deserto; la sukkah è una dimora temporanea e il fatto che gli ebrei, soprattutto gli uomini, adempiono ancora oggi il precetto di andare a vivere in queste capanne è di carattere commemorativo, oltre che simbolico della fragilità e precarietà della vita. Ai tempi della Bibbia, in occasione di questa commemorazione le tribù d'Israele si radunavano a Gerusalemme per ribadire il giuramento solenne che decretava la loro alleanza con Dio.
Ma Sukkot, oltre che un tempo commemorativo, è anche un periodo di gioia poiché si ricorda la provvisione divina durante i quarant'anni nel deserto. L'intera famiglia abita la propria sukkah, se le condizioni meteorologiche lo permettono, per un periodo di 7 giorni. La mitzvah (comandamento) seguita durante la festa è di mangiare del pane nella capanna durante le sere del primo e del secondo giorno, recitando la benedizione Lishev basukkà (sedersi nella capanna). Una particolarità di questa festa è l'utilizzo di un mazzo formato da un ramo di palma (lulav), due rami di salice ('aravà), tre rami di mirto (hadas) e un cedro (etrog). Al tempo della preghiera, si prendono il lulav con la mano destra e l'etrog con la sinistra, agitandoli in direzione dei quattro punti cardinali, in alto e in basso, dopo aver recitato una specifica benedizione.
I piatti serviti principalmente per Sukkot sono a base di frutta e verdura; ai giorni nostri, alcuni ebrei usano recarsi nei ristoranti o fast food per consumare dei pasti fuori casa. Inoltre, chi è impossibilitato a costruire la propria capanna, può alloggiare in un albergo. Il comandamento principale, infatti, implica la commemorazione del vivere senza una dimora fissa e benedire Dio per tutto ciò che fece in passato per il suo popolo, come anche per quello che ha fatto e continua a fare ancora oggi.
(Evangelici.net, 6 ottobre 2014)
Sukkot
di Paolo Sciunnach, insegnante
Spesso, al giorno d'oggi, sussiste la tendenza a leggere storicamente la tradizione ebraica, per esempio: molti di noi sarebbero interessati a studiare lo sviluppo storico del siddur piuttosto che usarlo come porta verso il cielo. Si è portati spesso a pensare che le Mitzvot siano "usanze, costumi, cerimonie" e che abbiano un mero significato storico, simbolico, un significato sociale. Questo genere di approccio può al massimo servire da punto di partenza per "avvicinare i lontani" (sempre che si sia tutti d'accordo sul significato che diamo all'espressione "avvicinare i lontani": "kiruv rechokim"). Tuttavia, non bisognerebbe fermarsi all'aspetto storico-culturale della tradizione ebraica. Può essere controproducente. Può far cadere nel vuoto il presupposto spirituale che è alla base di qualsiasi tradizione religiosa. E l'ebraismo è (anche?) religione. E c'è qualcosa di più: le Mitzvot hanno un significato spirituale. Che senso ha mangiare e dormire in Succà durante la Festa di Sukkot se non è altro che una cerimonia in ricordo di un evento "storico-nazionale": la permanenza nel deserto? Ci deve essere qualcosa in più: una Mitzvah è qualcosa alla quale l'anima deve poter partecipare; dalla quale deve svilupparsi la kavvanah (כונה, retta intenzione, ndr).
Le cerimonie hanno significato per l'uomo, come ricordo; le Mitzvot sono rilevanti per D-o, come espressione della sua volontà.
(moked, 6 ottobre 2014)
La Palestina non è uno Stato, almeno secondo il diritto internazionale
dii Stefano Consiglio
Mentre al Cairo continuano i colloqui di pace tra i delegati israeliani e quelli palestinesi, il cui scopo ultimo è quello di porre fine a un conflitto che va avanti da quasi 70 anni, in molti si chiedono qual è attualmente lo Stato giuridico della Palestina e come questo cambierà qualora venga siglato un trattato di pace con Israele.
Per prima cosa occorre ricordare che la dichiarazione di indipendenza della Palestina venne adottata solamente nel 1988, quando Yasser Arafat lesse un proclama scritto dal poeta palestinese Mahmoud Darwish. Questa dichiarazione venne rilasciata in attuazione della risoluzione 181, adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 29 novembre 1947. Con quest'atto l'Onu disponeva (o raccomandava?) la divisione del territorio palestinese in due parti, al fine di garantire la nascita rispettivamente dello Stato di Israele e della Palestina. I successivi accordi siglati ad Oslo nel 1993, tra il Primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e il leader dell'Organizzazione libera Palestina (OLP) Yasser Arafat, furono il primo reale tentativo di porre fine a questo decennale conflitto. Questi accordi prevedevano, essenzialmente, il ritiro delle forze israeliane da alcune parti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, il cui autogoverno da parte della Palestina sarebbe stato garantito attraverso la creazione dell'Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Gli accordi di Oslo, sfortunatamente, non riuscirono a porre fine al conflitto. Il loro principale difetto era l'assenza di una chiara definizione rispetto allo status finale della Palestina. Lo stesso Rabin, uno dei promotori della loro sottoscrizione, temporeggiò ripetutamente sostenendo che: "non esistono scadenze sacre".
Dalla dichiarazione di indipendenza della Palestina un numero crescente di nazioni ha riconosciuto la sua esistenza come Stato indipendente. In un documento, rilasciato dall'OLP nel 2011, viene sottolineato che 122 Stati membri delle Nazioni Unite hanno riconosciuto la Palestina come una nazione indipendente. Ad oggi questo numero ha raggiunto quota 134, a cui potrebbe aggiungersi a giorni anche la Svezia che il 4 ottobre 2014 ha votato per il riconoscimento dello Stato palestinese pur riservandosi il diritto di stabilire quando il riconoscimento diventerà effettivo. Già in precedenza altri Stati attualmente membri dell'UE, come la Polonia o l'Ungheria, avevano riconosciuto la Palestina quale entità statale; ciò, tuttavia, era avvenuto prima che queste nazioni entrassero nell'Unione. La Svezia è il primo Stato a prendere una simile decisione mentre gode dello status di membro dell'UE. La prossima nazione europea a votare per il riconoscimento della Palestina sarà la Gran Bretagna, il cui Parlamento ha già messo la questione nella sua agenda per la fine di ottobre.
È bene ricordare, tuttavia, che riconoscimento non significa automaticamente nascita di uno Stato palestinese. Nel diritto internazionale, infatti, esistono quattro criteri fondamentali, codificati nella Convenzione di Montevideo del 1993, che un soggetto deve rispettare affinché gli possa essere riconosciuta la qualifica di Stato. L'esistenza di una popolazione permanente, un territorio definito, un potere di governo esclusivo e la capacità di relazionarsi con altri Stati. Il riconoscimento da parte della comunità internazionale, sebbene possa facilitare l'identificazione di nuove entità statali, non è considerato né ai sensi del diritto internazionale generale né ai sensi di alcuna convenzione un prerequisito fondamentale per la nascita di un nuovo Stato.
Il problema della Palestina è che essa soddisfa solamente in parte i requisiti richiesti per il riconoscimento quale entità statale. Pur avendo una popolazione permanente e sorvolando sul fatto che il suo territorio non è definito, altrimenti occorrerebbe mettere in discussione anche lo status di Israele, la Palestina non può vantare al momento un potere di Governo esclusivo. Ciò dipende in parte dal fatto che molte funzioni vengono esercitate, specialmente in Cisgiordania, dalle autorità israeliane; in parte dalla lotta tra Hamas e Fatah, la cui controversia ebbe inizio a seguito delle elezioni legislative tenute nel 2006 nella Striscia di Gaza e vinte da Hamas. Il recente accordo di riconciliazione tra i due gruppi, che per dirla tutta avevano già raggiunto questa intesa nell'aprile del 2014 suscitando le ire di Israele i cui risultati sono evidenti, potrebbero eliminare uno degli ostacoli che si frappone al riconoscimento di un Governo legittimo della Palestina. La capacità di relazionarsi con gli altri Stati, a cui potremmo aggiungere quella di interfacciarsi con le organizzazioni internazionali, è stata più volte dimostrata. Gli stessi colloqui di pace condotti attualmente al Cairo ne sono un chiaro esempio. La Palestina, inoltre, gode attualmente dello status di membro osservatore nell'Assemblea Generale dell'Onu e fin dal 1972 è stata invitata dal Consiglio di sicurezza a partecipare alle sue riunioni con gli stessi diritti di un membro delle UN.
Da quando detto è evidente che se i negoziati in corso al Cairo condurranno ad un trattato di pace, il quale riconosca alle autorità palestinesi il potere di governo esclusivo sui propri territori, in quel momento si potrà finalmente parlare di uno Stato palestinese. Fino ad allora il riconoscimento da parte delle altre nazioni, per quanto dimostri un diffuso sentimento di vicinanza al popolo palestinese, non avrà alcuna efficacia né dal punto di vista interno né sul piano internazionale.
(International Business Times, 6 ottobre 2014)
Gli ebrei si sposano solo fra di loro?
di Fabio Della Pergola
Qualche settimana fa c'è stato un microscandalo: il matrimonio misto che è stato celebrato in Israele fra una donna ebrea (convertita all'Islam) e un uomo arabo musulmano.
Il microscandalo naturalmente non è il matrimonio in sé che in tanti hanno curiosamente esaltato come fosse un significativo segno di abbattimento di barriere antiche e insuperabili (in realtà i matrimoni misti in Israele sono un migliaio l'anno anche se devono essere celebrati con modalità molto particolari).
Lo scandalo è che alcune decine di idioti razzisti (che esistono in Israele come in molte altre parti del mondo) hanno manifestato con una certa virulenza, anche se tenuti a distanza dalla polizia, contro le nozze.
"Il matrimonio non s'ha da fare", dissero, ma ovviamente il matrimonio si fece. E lo sposo ha liquidato le proteste con dignitosa superiorità: "facciano quel che vogliono".
Nel frattempo una notizia di gossip ci informa che l'attrice Gwyneth Paltrow si sta convertendo all'ebraismo. Non si sa perché lo faccia (le fonti dicono che abbia maturato la decisione dopo la separazione dal marito) anche se in realtà pare che abbia studiato la Qabbala per alcuni anni. Più semplicemente la bionda Gwyneth è figlia di madre cristiana e di padre ebreo, quindi la sua conversione appare un po' meno sorprendente di quanto poteva sembrare. Questioni familiari, insomma, di quelle che ognuno vive a modo suo.
Il ricorso al gossip non è segno di un improvviso decadimento delle facoltà mentali dello scrivente, ma un po' più seriamente è utile per introdurre un altro elemento della perenne (e parecchio noiosa) querelle antiebraica che con cadenza quasi giornaliera si affaccia qui e là sulla stampa o sui social network.
Nel caso della coppia arabo-ebrea di cui ho parlato all'inizio, si è infatti sviluppata una mini-tirata parallela al mini-scandalo di cui sopra. La mini-tirata verteva sul deprecato uso ebraico del matrimonio endogamico.
Si dice, cioè, che gli ebrei si sposano solo fra di loro e questo è portato a riprova - c'è chi si limita a insinuarlo e c'è chi lo afferma a voce alta certo che sia un dato inoppugnabile - del pervicace "razzismo ebraico". Che i due coraggiosi sposini "misti" avrebbero sfidato a rischio della vita.
Perlopiù i rumors che hanno attraversato la stampa e il web derivano in buona misura dalla prassi consolidata di definire Israele "stato razzista", in quanto "stato ebraico", e quindi di cercare, piluccando nelle notizie di cronaca, tutto ciò che confermerebbe l'accusa.
A nulla vale controbattere che "ebraico" equivale ad "arabo" e se quindi sono accettati gli stati "arabi" non c'è alcuna ragione di ritenere inaccettabile quello "ebraico". Insomma o vanno bene tutti o non va bene nessuno, anche se a un purista delle democrazie occidentali (che peraltro non sembrano poi così perfette) la cosa può non piacere.
Poi c'è chi si spinge a ritenere che "ebraico" abbia unicamente un significato religioso equivalente quindi a "cattolico" o "islamico" (ma le repubbliche islamiche sono mai state accusate di razzismo?). Con buona pace dei tanti ebrei atei (esistono anche rabbini dichiaratamente atei, lo sapevate?) che, secondo le astruse fantasticherie di questi buontemponi, non potrebbero perciò definirsi "ebrei". Con buona pace anche della loro cultura millenaria e delle loro tradizioni.
In realtà in Israele i matrimoni misti (cioè fra persone di religione diversa) sono vietati, perché l'anagrafe (quindi la gestione amministrativa delle nozze) non è mai stata gestita direttamente dallo Stato, ma è stata lasciata al rabbinato. Uno dei molti compromessi che laici e religiosi hanno dovuto trovare nel momento in cui hanno fondato uno stato in cui le due componenti dovevano convivere (anche se il dibattito all'interno della società israeliana è molto acceso attorno a questo tema). In fondo non abbiamo avuto anche noi, per molti anni, leggi sostanzialmente religiose in merito a matrimonio e divorzio? E non siamo, tuttora, costretti a combattere ogni giorno contro le imposizioni del credo religioso su aspetti assolutamente laici della vita civile? (Pensate solo alla vecchia questione del crocefisso negli ambienti pubblici).
Insomma, ci vuole tempo.
Nel frattempo le coppie miste prendono il primo volo per Cipro dove si sposano; poi al ritorno iniziano le pratiche per far riconoscere all'anagrafe israeliana il matrimonio contratto all'estero.
Ma la questione non finisce qui, perché se vogliamo andare a fondo e dare un'occhiata alla tanto sbandierata endogamia ebraica non possiamo far altro che sbattere il naso su dati di fatto alquanto diversi. L'85% degli ebrei non israeliani ha alle spalle un matrimonio misto; e questo riguarda sia gli ebrei europei che quelli americani.
Proprio come nel caso dei genitori della graziosa Gwyneth (o anche dei miei se questo importasse qualcosa).
In Israele si sa, le cose sono diverse (forse perché è uno stato in guerra permanente da una sessantina di anni con i suoi vicini arabi alla cui etnia e religione appartiene una minoranza consistente dei suoi stessi cittadini?); sono questioni che possiamo definire "diverse" rispetto al resto dell'occidente, ma non rispetto al medio oriente.
A partire dalla prassi tutt'altro che rara delle autorità egiziane che espellono dal loro paese le mogli israeliane di cittadini egiziani. Che sono numerose e - inutile dirlo - appartenenti alla minoranza palestinese.
Sono cioè cittadine israeliane di etnìa araba e di religione islamica. Ma questo non le salva dall'essere ritenute pericolose per la sicurezza dello stato. E quindi la coppia mista se ne deve andare. Dove? "...addirittura in Israele. La maggior parte delle coppie miste ha scelto proprio quest'ultimo come nuova residenza". Ironia (tragica) della sorte.
Ancora non basta, però; perché se diamo un'occhiata alla normativa vigente in alcuni paesi arabi in merito al matrimonio scopriamo cose interessanti. Ad esempio che "Il diritto malakita, che vige dall'Egitto al Marocco, stabilisce gli impedimenti al matrimonio, fra cui la differenza di religione: una donna mussulmana non può sposare un uomo non mussulmano, mentre un uomo mussulmano può sposare un'ebrea o una cristiana. Vige la nullità del contratto matrimoniale stipulato da un uomo mussulmano con una donna politeista e quello di un uomo ebreo o cristiano con una donna mussulmana.In Algeria è proibito il matrimonio fra una donna mussulmana e un non mussulmano. In Libia una donna mussulmana non può sposare un uomo non mussulmano (...) Il Libano non ammette il matrimonio civile, ma data la grande varietà dei credi religiosi presenti, fra i giovani, al fine di ovviare a molte difficoltà viene scelto il matrimonio civile andando a contrarlo a Cipro. Anche in Libano vige il divieto islamico per la donna di sposare un uomo di altra confessione".
In sintesi nel mondo islamico vige un concetto pressoché universale: un uomo musulmano può sposare una donna non musulmana, ma una donna musulmana non può mai sposare un uomo non musulmano. Il perché è semplice. La fede si trasmette, secondo la tradizione coranica, per via patrilineare quindi un bambino "nasce" musulmano anche se la madre non lo è, mentre se il padre non è musulmano il bambino nasce "sbagliato". E la madre musulmana potrebbe incorrere in pene gravissime.
A cosa attiene questa logica? A etnocentrismo, razzismo, religiosità? Verrebbe da pensare che sia uno schema mentale prettamente religioso, ma la religione non si trasmette attraverso i gameti, lo sappiamo bene tutti. E lo sanno anche i musulmani. Datevi la risposta da soli.
Ma, a differenza della legislazione ebraica che viene tacciata di razzismo per via dell'opposizione ai matrimoni misti, quella islamica non è mai messa sotto accusa (a meno che uno non sia un leghista, ovviamente). Misteri del terzomondismo all'amatriciana.
Sta di fatto che i matrimoni misti fra gli ebrei non israeliani sono ampiamente maggioritari e non sono affatto rari nemmeno fra gli ebrei israeliani (anche se, ancora, devono andare a sposarsi a Cipro proprio come fanno i loro equivalenti libanesi).
Insomma la tanto decantata endogamia ebraica è la solita bufala (razzista). Ma non ditelo a chi ha il gusto perverso e insopprimibile della battuta antisemita. Sennò si arrabbia.
(AgoraVox Italia, 6 ottobre 2014)
Oltremare - La guerra del Kippur
Della stessa serie:
Primo: non paragonare
Secondo: resettare il calendario
Terzo: porzioni da dopoguerra
Quarto: l'ombra del semaforo
Quinto: l'upupa è tridimensionale
Sesto: da quattro a due stagioni
Settimo: nessuna Babele che tenga
Ottavo: Tzàbar si diventa
Nono: tutti in prima linea
Decimo: un castello sulla sabbia
Sei quel che mangi
Avventure templari
Il tempo a Tel Aviv
Il centro del mondo
Kaveret, significa alveare ma è una band
Shabbat & The City
Tempo di Festival
Rosh haShanah e i venti di guerra
Tashlich
Yom Kippur su due o più ruote
Benedetto autunno
Politiche del guardaroba
Suoni italiani
Autunno
Niente applausi per Bethlehem
La terra trema
Cartina in mano
Ode al navigatore
La bolla
Il verde
Il rosa
Il bianco
Il blu
Il rosso
L'arancione
Il nero
L'azzurro
Il giallo
Il grigio
Reality
Ivn Gviròl
Sheinkin
HaPalmach
Herbert Samuel
Derech Bethlechem
L'Herzelone
Tel Aviv prima di Tel Aviv
Tel Hai
Rehov Ben Yehuda
Da Pertini a Ben Gurion
Kikar Rabin
Sde Dov
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Fuoco
I cancelli della speranza
Finali Mondiali
Paradiso in guerra
Fronte unico
64 ragazzi
In piazza e fuori
Dopoguerra
Scuola in guerra
Nuovo mese
Dafka adesso
Auguri dall'alto
Di corsa verso il 5775
Volo verso casa
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di Daniela Fubini, Tel Aviv
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Fra i programmi tivù stagionali in Israele, ci sono i film documentario o docu-fiction sulle nostre innumerevoli guerre. Più di tutte le altre messe insieme, sulla guerra del Kippur. Prima di ogni Yom Hazikaron (il Memorial Day che gela il paese a poche ore dai festeggiamenti dell'Indipendenza), e di ogni Yom Kippur, la televisione passa un menù di storie di guerra da far impallidire anche i più intrepidi Minoli.
E siccome io, da nuova immigrata, ci ho messo i miei anni per poter capire i telegiornali e i programmi in ebraico, adesso quando ne ho il tempo me li sciroppo senza filtro e senza pietà. Non sono programmi da guardare con la ciotola di pop-corn e una birra ben fredda. Anche per chi l'ebraico non se lo guadagna parola per parola ogni giorno come me, sono pugni nello stomaco, che richiedono concentrazione e kleenex.
Ma nei giorni intorno a Yom Kippur tutti i mezzi di comunicazione fanno spazio per la guerra del 1973: non è solo la tivù. Chi non vive in Israele e non è immerso nella società che produce annualmente questo ritorno alla guerra che avrebbe davvero potuto spazzare via Israele a 25 anni dalla fondazione, potrebbe giudicare anche con durezza questo accostamento di sacro e profano, purificazione delle anime e memoria, per quando presente, di una tragedia nazionale. A volte il passaggio fra i due Yom Kippur è così improvviso, che si fatica a ricollocare intervistato ed intervistatore, rabbino e reduce, tempio e tank. A vedere giornali, programmi radio e docu-fiction in televisione, a quarantun anni da quell'ottobre una parte consistente di Israele non è ancora uscita dal Yom Kippur 1973.
Per fortuna invece uscire illesi dal Yom Kippur religioso, dopo il digiuno e il giudizio divino, è tutto sommato questione di ore: dopo 25 ore tutti a casa, a mangiare e a ritornare alla vita di tutti i giorni, un po' più santi, un po' più leggeri.
(moked, 6 ottobre 2014)
Israele privatizza l'azienda aerospaziale di Stato
Il ministero delle finanze ha varato un piano di vendita di quote delle società governative
Lo Stato di Israele privatizzerà parte di Israel Aerospace Industries (Iai) nel 2016. Iai è la principale industria aeronautica del Paese: produce sistemi aeronautici ad uso civile e militare e vari sistemi missilistici e di avionica. Attualmente è posseduta dal governo di Israele.
La vendita di quote dell'industria aeronautica fa parte di un più vasto piano che prevede la privatizzazione fino al 49% di diverse società statali, da condurre nei prossimi tre anni. Il ministero delle finanze prevede di incassare 15 miliardi di shekel (3,26 miliardi di Euro) dall'operazione.
Tra le aziende di stato oggetto del piano, ci sono anche Israel military industries (industrie militari) -le cui quote saranno messe in vendita l'anno prossimo- e Rafael and Israel electric corp (attiva nel settore difesa) -che sarà privatizzata nel 2017.
Il provvedimento, dichiara il ministro delle Finanze Yair Lapid, serve a "Combattere la politicizzazione e la corruzione delle aziende governative". Il primo ministro Netanyahu aggiunge che la privatizzazione garantirà una maggiore trasparenza all'interno delle aziende statali.
(Avionews, 6 ottobre 2014)
Metodi e principi discutibili di B'Tselem
Neturei Karta è un gruppetto di circa 5.000 ebrei ultraortodossi animati da bizzarre idee: al punto da negare legittimità e la stessa esistenza dello stato di Israele. Costituiscono lo 0,06% della popolazione dello stato ebraico, eppure le loro rimostranze sono spesso indicate dalla stampa internazionale come testimonianza del reale sentimento degli israeliani; spazzando logica e buon senso che si soffermano inevitabilmente sulla infima rappresentatività di questi megalomani....
(Il Borghesino, 6 ottobre 2014)
Turismo Israeliano. Brinda con noi! 9 ottobre. Rimini. Fiera Stand Israele
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| La festa di Sukkot inizia il 15 del mese di Tishrì |
Sukkoth in ebraico significa "capanne" e sono appunto le capanne a caratterizzare questa festa gioiosa che ricorda la permanenza degli ebrei nel deserto dopo la liberazione dalla schiavitù dall'Egitto.
Nella Torà (Levitico, 23, 41-43) infatti troviamo scritto: "E celebrerete questa ricorrenza come festa in onore del Signore per sette giorni all'anno; legge per tutti i tempi, per tutte le vostre generazioni: la festeggerete nel settimo mese. Nelle capanne risiederete per sette giorni; ogni cittadino in Israele risieda nelle capanne, affinché sappiano le vostre generazioni che in capanne ho fatto stare i figli di Israele quando li ho tratti dalla terra d'Egitto".
Questa festa è detta anche "festa dei tabernacoli" e il precetto che la caratterizza è proprio quello di abitare in capanne durante tutti i giorni della festa. Se a causa del clima o di altri motivi non si può dimorare nelle capanne, vi si devono almeno consumare i pasti principali. Altri nomi della festa sono "Festa del raccolto" e anche "Festa della nostra gioia", poiché cade proprio in coincidenza con la fine del raccolto quando si svolgevano grandi manifestazioni di gioia.
Un altro precetto fondamentale della festa è il lulàv: un fascio di vegetali composto da un ramo di palma, due di salice, tre di mirto e da un cedro che va agitato durante le preghiere. Forte è il significato simbolico del lulàv: la palma è senza profumo, ma il suo frutto è saporito; il salice non ha né sapore né profumo; il mirto ha profumo, ma non sapore ed infine il cedro ha sapore e profumo. L'uomo rende grazie a Dio con tutte le parti del suo essere.
(MondoRaro, 5 ottobre 2014)
Israele convoca l'ambasciatore della Svezia
GERUSALEMME - Il ministero degli Esteri israeliano convocherà l'ambasciatore della Svezia a seguito della decisione del Paese scandinavo di riconoscere lo Stato palestinese. Il ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman ha spiegato in un comunicato che "gli dispiace" che la Svezia "si sia affrettata" a prendere questa decisione senza comprendere correttamente il conflitto tra Israele e i palestinesi. Il portavoce del ministero Emmanuel Nahshon ha aggiunto che l'ambasciatore verrà convocato domani.
In una dichiarazione che elencava le priorità del governo, il premier svedese Stefan Lofven venerdì scorso ha detto ai parlamentari che il conflitto israelo-palestinese richiede "mutuo riconoscimento" e una volontà da entrambe le parti di coesistere pacificamente. Il primo ministro ha poi aggiunto che la Svezia riconoscerà uno Stato palestinese, ma non ha aggiunto come o quando. Israele teme che la decisione della Svezia possa portare altri Paesi europei a riconoscere uno Stato palestinese.
(LaPresse, 5 ottobre 2014)
Lau, il Rabbino che fece sorridere il Papa
di Daria Gorodisky
Discende da 36 generazioni di eminenti rabbini. Dunque potrebbe non stupire che Israel Meir Lau sia arrivato a essere eletto rabbino capo ashkenazita di Israele dal 1993 al 2003 (l'incarico al vertice del Gran Rabbinato dura un decennio e viene assegnato in parallelo a un leader spirituale ashkenazita e a uno sefardita; i due si alternano ogni sei mesi alla presidenza della massima istituzione religiosa ebraica). Eppure a 8 anni di età I.M. Lau non sapeva ancora neppure leggere. Non aveva potuto imparare a farlo: nella natia Polonia prima si era dovuto nascondere dalla bestia nazista; poi, quando ormai i suoi genitori erano scomparsi sui vagoni del non ritorno, era stato deportato a Buchenwald. E' lì che il generale Patton, entrato a liberare il campo di concentramento, lo trova nell'aprile del 1945: era il più piccolo dei sopravvissuti, ma forte di una brillantezza e di una vitalità che già tratteggiavano il suo futuro. II «futuro» che nove anni fa Lau ha voluto raccontare a ritroso in uñ autobiografia e che adesso compare anche in italiano con il titolo Dalle ceneri alla Storia (prefazioni di Riccardo Di Segni, Shimon Peres e Elie Wiesel, traduttori vari, Gangemi Editore, pp. 432, 25). Appena pubblicato in Israele, il libro è diventato subito bestseller. E se ne capisce il motivo, perché lo stile dell'autore ci fa scivolare leggeri attraverso la densità degli eventi storici, lungo il suo privato, dentro il mare della sua immensa cultura, nella profondità della sua sensibilità così speciale. Dai ricordi dell'Olocausto si passa alla testimonianza diretta della nascita e crescita dello Stato di Israele; alla descrizione, piena di dettagli inediti, degli incontri con sovrani, capi di Stato, papi. È un volume prezioso, anche perché dalle parole emergono quell'affilata semplicità del rigore e quella linearità di ragionamento che sono alla base del pensiero ebraico. Già, e l'umorismo? Sì, c'è anche quello: un giorno Giovanni Paolo II domandò a Lau se pensava che esistesse ancora «un antisemitismo a sfondo religioso, come nei primi tempi del cristianesimo» e il rabbino capo gli chiese se poteva rispondere con una barzelletta; era una storiella ben poco assolutoria per la Chiesa di oggi, ma Wojtyla non riuscì a non sorridere.
(Corriere della Sera, 5 ottobre 2014)
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Antisemitismo: una malattia dei gentili
La problematica convivenza degli ebrei con le popolazioni dei vari paesi in cui hanno abitato costituisce quella che si chiama la cosiddetta "questione ebraica", fonte di ricorrenti problemi che hanno assunto nel tempo forme diverse ma risultati sempre uguali. Un importante uomo del passato ha elencato una serie di misure pratiche da adottare per risolvere questi problemi e regolare la difficile convivenza con gli ebrei, e le ha presentate come un suo "sincero consiglio". Eccone alcuni estratti:
- In primo luogo bisogna dare fuoco alle loro sinagoghe o scuole; e ciò che non vuole bruciare deve essere ricoperto di terra e sepolto, in modo che nessuno possa mai più vederne un sasso o un resto.
- Secondo: bisogna smantellare anche le loro case, perché essi vi praticano le stesse cose che fanno nelle loro sinagoghe. Perciò li si metta sotto una tettoia o una stalla, come gli zingari, perché sappiano che non sono signori del nostro Paese, come invece si vantano di essere, ma sono in esilio e prigionieri, come essi dicono incessantemente davanti a Dio strillando e lamentandosi di noi.
- Terzo: bisogna portare via a loro tutti i libri di preghiere e i testi talmudici, nei quali vengono insegnate siffatte idolatrie, menzogne, maledizioni e bestemmie.
- Quarto: bisogna proibire ai loro rabbini - pena la morte - di continuare a insegnare, perché essi hanno perduto il diritto di esercitare questo ufficio.
- Quinto: bisogna abolire completamente per gli ebrei il salvacondotto per le strade, perché essi non hanno niente da fare in campagna, visto che non sono né signori, né funzionari, né mercanti, o simili.
- Sesto: bisogna proibire loro l'usura, confiscare tutto ciò che possiedono in contante e i gioielli d'argento e d'oro, e tenerlo da parte in custodia. E il motivo è questo: tutto quello che hanno (come sopra si è detto), lo hanno rubato e rapinato a noi attraverso l'usura, perché, diversamente, non hanno altri mezzi di sostentamento.
- Settimo: a ebrei ed ebree giovani e forti, si diano in mano trebbia, ascia, zappa, vanga, conocchia, fuso, in modo che guadagnino il loro pane col sudore della fronte, come fu imposto ai figli di Adamo, al terzo capitolo della Genesi. Poiché non è giusto che essi vogliano far lavorare noi, maledetti goijm [non ebrei, ndr] nel sudore della nostra fronte, e che essi, la santa gente, vogliano consumare pigre giornate dietro la stufa, a ingrassare e scorreggiare, vantandosi in questo modo blasfemo di essere signori dei cristiani, grazie al nostro sudore. A loro bisognerebbe invece scacciare l'osso marcio da furfanti dalla schiena!
Chi non è a conoscenza di certi fatti storici si chiederà chi può essere il feroce antisemita che ha scritto queste parole, e forse resterà sorpreso nel venire a sapere che si tratta di Martin Lutero, il quale le ha scritte, insieme ad altre peggiori nefandezze, in un libello pubblicato nell'anno 1543. Se chi legge è un protestante o un cristiano evangelico abituato a considerare con ammirazione la figura del noto riformatore germanico si chiederà forse come mai queste prese di posizione, anche se ben note agli storici, siano state così poco sottolineate, divulgate e controbattute. La risposta è semplice: perché molti protestanti ne condividevano la sostanza, anche se non tutti i particolari e la sanguigna virulenza delle espressioni. Ma certamente tutti, se interrogati di persona, avrebbero assicurato di non essere antisemiti. L'antisemitismo infatti è una malattia che ha questa caratteristica: per riconoscerla negli altri bisogna non averla in se stessi.
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San Marino - 'Riconoscimento della Palestina? Valentini (Esteri) perplesso
Riconoscimento dello Stato palestinese? Perplesso dopo l'annuncio dato dal neo primo ministro svedese Stefan Loefven che appunto dava notizia del riconoscimento che la Svezia darà alla Palestina, il segretario di Stato agli Esteri Pasquale Valentini, non tanto sul principio quanto sul metodo.
Valentini cita padre PIzzaballa, custode di Terra Santa che il 1o ottobre è stato Oratore ufficiale per l'insediamento della Reggenza, che aveva detto come "l'attuale situazione in Medioriente sia sempre più complicata. E anche alla luce di questo ritengo non opportune prese di posizione di singoli Stati, che rischiano di alimentare ulteriormente il conflitto".
Sfuma dunque l'ipotesi - caldeggiata da molti - di San Marino, antica Terra di Libertà, che per prima - nell'Europa occidentale - riconosce lo Stato palestinese. Idea affascinante
ma controproducente, secondo il segretario agli Esteri.
(Libertas.sm, 5 ottobre 2014)
La leggenda della Menorah nel Tevere
Il candelabro degli ebrei portato a Roma da Tito e rubato dai Vandali è da secoli cercato in fondo al fiume.
di Fabio Isman
LA STORIA
E' una delle leggende romane più consolidate. Vuole che il più sacro tra gli oggetti per gli ebrei, la Menorah, cioè il candelabro d'oro a sette braccia che era davanti al tempio di Gerusalemme, sarebbe in fondo al Tevere. E' una vicenda degna di un thriller, pure con autorevoli «supporter». Ed è degna di essere raccontata dall'inizio. Il primo candelabro è forgiato da Mosé nel deserto. Nabucodonosor II lo porta a Babilonia nel 586 a.C.: lo storico Flavio Giuseppe dice che era di 34,27 chili d'oro. Se ne fonde un altro, pesante il doppio: è collocato nel secondo tempio della città (di cui ora resta il Muro del Pianto), ma trafugato nel 70 da Tito, che lo trasferisce a Roma: lo si vede nei Fori, proprio sotto l'arco che gli è dedicato.
SECONDO RATTO
Per accogliere questa e altre spoglie, nel 75 si edifica il tempio della Pace: Plinio non ne aveva mai ammirati di più belli. Per Flavio Giuseppe, «supera ogni umana concezione». «Il tetto rivestito con tegole e coppi di marmo lunense», racconta Andrea Carandini; colonne in marmo di Assuan, del diametro di un metro e 80. Nel 410 Alarico razzia Roma per quattro giorni, nel 455 i Vandali di Genserico per ben due settimane: dal tempio della Pace sparisce tutto. Anche la Menorah. Va in Africa; poi, nel 534, quando Belisario conquista Cartagine, in trionfo a Costantinopoli. Almeno, così pare. Perché la leggenda dice che una nave dei Vandali cola a picco, forse appena partita, e la Menorah sprofonda nel Tevere. Per altri, poi, quella portata via da Genserico sarebbe addirittura stata soltanto una copia ben fatta. La Menorah è simbolo più antico della stella di David, a sei punte: la si vede già nelle catacombe romane; una copia è davanti al Parlamento di Gerusalemme. E' tanto sacra che non può essere lasciata morire: «deve» sopravvivere. I «dove» sono infiniti.
SUL FONDALE
Ma le due versioni più insistenti la vogliono nel fiume, o perfino nascosta in Vaticano, anche se nessuna ricerca ha mai dato, logicamente, esiti. Ne scrivono, tra gli altri, Stefen Zweig, Gregorovius, il massimo studioso della Roma antica, Edward Gribbon. Due sonetti del Belli avvalorano la diceria
. Nel 1996, il ministro degli Esteri israeliano, Shimon Shetreet, ne chiese a Giovanni Paolo II, senza ottenere risposta. Uno dei rabbini capo d'Israele, in visita in Vaticano nel 2004, domanda lui pure notizie; e perfino l'ex capo dello stato Moshé Katzav. Nella seconda sala del Museo ebraico, sotto la sinagoga, è l'indizio più rilevante che il candelabro possa essere nel Tevere: una grande lapide triangolare, pietra sepolcrale dei fratelli Nata-niel, Ammon e Eliau giustiziati dall'imperatore Onorio (395 - 423), ne parla. E in ebraico e latino racconta che i tre l'avrebbero scorto nel Tevere, verso la Cloaca Massima (550 metri a Sud dell'Isola Tiberina), senza però poterla recuperare. Peccato che la lapide sia stata ritrovata, tra parecchie pietre, nel 2002; e che Daniela Di Castro, allora direttrice del museo, ne abbia dimostrato la falsità: in un angolo, una rottura recente e posticcia; cita l'Arca santa, che di certo non è mai arrivata a Roma; indagini chimiche e altre analisi dicono che è stata incisa a fine Ottocento.
LE RICERCHE
Tanti hanno immaginato di scandagliare il Tevere. Nel 1725, il cardinale Polignac decise perfino di deviarne per due miglia il corso; altri, sostenuti dal principe Altieri nel 1773, di esaminarne il fondo prosciugandone tratti. Ma le ricerche più sostanziose avvengono dal 1818: papa Pio VII, approva la nascita dell'Impresa Privilegiata Tiberina, di Benedetto Giuseppe Naro. Strana persona che fonda una società con 120 azioni e tanti bei nomi, cassiere Giovanni Torlonia (tra i finanziatori, afferma, perfino Metternich, forse, ingrandendo le cose). Nel 1819, vara la nave Medusa, per esplorare il letto del fiume, con altre imbarcazioni. Trova grandi reperti marmorei presso Fidene e Malpasso, però, s'intende, non la Menorah. In due mesi, issa a bordo 43 marmi. Ma per l'erma più importante, che forse tentava di sottrarre alle cure del papa, va sotto processo. Dopo un anno, fallisce; nel 1921, la Medusa viene inabissata, per non intralciare navigazione. E la Menorah, chissà dove è, se c'è ancora.
(Il Messaggero, 5 ottobre 2014)
Israele a Hezbollah: pronti a colpire in Libano come a Gaza
IL CAIRO - Le forze armate israeliane (Idf) sono pronte a condurre in Libano un'operazione militare come quella che ha avuto quest'estate nella Striscia di Gaza. Lo ha affermato il capo di Stato maggiore della difesa israeliana, Benny Gantz, in un'intervista al quotidiano di Tel Aviv "Yedioth Aharonoth". Il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, secondo Gantz, "ha visto come la societa' israeliana non si sia spaccata" in occasione dell'ultimo conflitto e che "possiamo ripetere in Libano quanto fatto a Gaza". L'operazione Protective edge, ha sottolineato il generale israeliano, ha ridotto tutte le capacita' strategiche di Hamas, "distrutto tutti i tunnel realizzati per attaccare Israele, buona parte dei siti per la produzione di razzi e impedito nuovi possibili attacchi attraverso l'uso di droni". Tuttavia, secondo Gantz, Israele resta un obiettivo per i suoi nemici, pur attualmente "impegnati" in altri conflitti regionali. "Se Hezbollah non fosse impegnato a fare quello che l'Iran gli ha chiesto in Siria, chi sarebbe il suo nemico numero uno? Noi! Se le forze del terrore nel Golan smettessero di combattere contro (il presidente siriano Bashar, ndr) Assad, chi sarebbe il loro prossimo nemico? Se migliaia di rifugiati in Giordania dovessero tornare all'azione, contro chi complotterebbero? I jihadisti nel Sinai continueranno a colpire solo l'Egitto?", si e' chiesto il capo di Stato maggiore israeliano. Il generale ha anche ricordato che Tel Aviv resta pronto a intervenire anche in Iran, che resta "una minaccia realistica".
(AGI, 4 ottobre 2014)
La Svezia riconosce lo Stato Palestina
L'Europa alza la voce con Israele per i nuovi progetti edilizi nei Territori occupati
nel giorno in cui la Svezia annuncia un riconoscimento formale dello Stato di Palestina nei confini del 1967: è il primo Paese occidentale della Ue a farlo, e si aggiunge a sei dell'ex blocco sovietico (Repubblica ceca, Slovacchia, Ungheria, Polonia, Bulgaria e Romania) e a Malta e Cipro.
Due "avvertimenti" che appaiono una risposta ai recenti, ulteriori appalti autorizzati dal governo Netanyahu nel settore orientale di Gerusalemme: quello a maggioranza araba, occupato e poi annesso dallo Stato ebraico contro il volere della comunità internazionale. Appalti che il servizio diplomatico dell'Ue condanna come «un nuovo passo molto dannoso, che mette in dubbio l'impegno di Israele per una soluzione pacifica e negoziata con i palestinesi». Poco dopo, il governo socialdemocratico di Stoccolma, fresco di vittoria elettorale, annuncia l'intenzione di riconoscere a pieno titolo lo Stato Palestina. Da Washington la Casa Bianca critica la decisione di Stoccolma: secondo gli Stati Uniti, ogni riconoscimento dello Stato palestinese è in questo momento «prematuro».
(Il Messaggero, 4 ottobre 2014)
Si riconosce uno stato inesistente per bacchettare uno stato esistente! E un nuovo modo di operare nellambito del diritto internazionale. Si può ancora capire la simpatia per le persone, per i poveri palestinesi che secondo molti soffrono per la cattiveria degli ebrei israeliani, ma uno Stato è un ente giuridico caratterizzato da alcuni precisi elementi che ne consentono, appunto, il riconoscimento internazionale. Una domanda allora ai cultori di diritto internazionale, svedesi e non: Ma che razza di stato è quellentità a cui si dà il nome di Palestina? Uno stato che entra in guerra con un altro stato contro il volere del suo Presidente, scaduto nella sua carica da anni, con un potere che è soltanto quello che riesce a procurarsi con manovre interne ed esterne di tutti i tipi? Quello che altri stati riconoscono alla Palestina è la decisa volontà di distruggere lo Stato dIsraele. Riconoscono quello stato perché si riconoscono in quella volontà, che è anche la loro, come conferma lantisemitismo crescente della loro popolazione. M.C.
Perché mi piace chiedere scusa quando è Kippur
Oggi è il giorno del perdono per il calendario ebraico. Lo scrittore israeliano racconta la sua festa preferita e ricorda di quella volta all'asilo...
di Etgar Keret
Kippur è da sempre la festa che mi piace di più. Arcora dai giorni dell'asilo, quando a tutti gli altri bambini piacevano Purim per via dei travestimenti, Hanukkà per via delle frittelle e Pesach per via della lunga vacanza, io mi ero fissato su Kippur. «Se le feste fossero dei bambini mi ero detto una volta, quando ero ancora un ragazzino allora Purim e Hanukkà sarebbero i più popolari, Rosh Hashanà sarebbe la bella della classe e Kippur sarebbe un bambino così, un po' strano, solitario, ma il più interessante di tutti». Pensandoci adesso, la definizione «così, un po' strano, solitario, ma il più interessante di tutti» era esattamente ciò che pensavo di me stesso allora, per cui è possibile che la vera ragione per cui amavo così tanto Kippur fosse perché pensavo mi somigliasse. La questione è che anche oggi, pur non essendo più cosi strano, per nulla solitario e abbastanza adulto per capire che non sono il più interessante di tutti, io sono ancora innamorato di questa festa. Forse perché Kippur è l'unica festa che riconosce, per la sua stessa essenza, la debolezza urnana. Se a Pesach Mosé e Dio hanno l'hanno fatta pagare all'Egitto, a Hanukkà Giuda Maccabeo ha fatto a peperini gli ellenisti e nella Festa dell'Indipendenza abbiamo combattuto coraggiosamente conquistandoci il nostro Stato, a Kippur non siamo più una dinastia
o un popolo, siamo un insieme di individui che si guardano allo specchio, si vergognano di ciò di cui devono vergognarsi e si scusano di ciò di cui è possibile scusarsi. E forse è proprio questa la qualità che a priori mi ha attirato nel Kippur: che di tutte le ricorrenze ebraiche che festeggiamo in Israele, Kippur è la festa più personale, una festa in cui ti trovi da solo di fronte alle tue azioni ed alle loro conseguenze senza trasmissioni televisive, senza bar e ristoranti, senza negozi straripanti di merce e senza il solito frastuono quotidiano che attutisca la cosa.
Kippur era e rimane per me "La Festa", sempre. Per cui, sebbene già da anni non mi prenda la briga di augurare alla gente "Buon Anno" a Rosh Hashanà e sia ormai troppo pigro per travestirmi a Purim, prima di Kippur continuo ancora a chiedere scusa alle persone che sento di avere offeso. E' vero che è più facile amare una festa che ci prescriva di mangiare bomboloni ripieni di marmellata, invece di una che ti richieda di porti in una posizione scomoda e vulnerabile, ma alla fin-fine, quando arrivi in fondo, senti che, a causa di questa festa stramba, ti sei liberato di qualcosa che ti pesava già da molto tempo, senza nemmeno che te ne rendessi conto.
La storia di scuse pre-Yom Kippur più strana che mi sia capitata cominciò quando avevo quattro anni. Nell'asilo nuovo a cui ero passato c'era una bambina bella e simpatica che si chiamava Noa. Era una bambina tranquilla e sorridente due qualità per le quali non mi distinguevo con i capelli biondi folti e secchi. Avrei tanto voluto giocare con lei, ma non sapevo davvero da dove cominciare: così, dopo sei mesi di osservazione a distanza, decisi che dovevo fare qualcosa ed una mattina, vedendola correre accanto a me nel cortile dell'asilo, le feci lo sgambetto. Noa cadde e prese una botta. Cominciò a piangere e quando la maestra arrivò di corsa per aiutarla, Noa mi indicò e disse: È colpa sua. È lui che mi ha fatto lo sgambetto*. La maestra, che mi voleva molto bene, mi chiese se fosse vero, ed io risposi immediatamente di no. La maestra si rivolse a Noa e la sgridò: Etgar è un bravo bambino, che non dice mai bugie. Perché ti inventi cose così terribili su di lui? Vergognati!. Noa, che quasi aveva smesso di piangere, ricominciò daccapo, e la maestra mi fece una carezza sulla testa, allontanandosi poi con passo irritato. Già in quel momento avrei voluto chiedere scusa a Noa e raccontare alla maestra che avevo mentito, ma me ne mancò il coraggio.
L'ultimo anno di asilo Noa già non era più in classe con me e nemmeno alle elementari. Al liceo, quando avevo 17 anni, durante un intervallo, una che studiava con me ricordò Noa per nome e cognome, dicendo che era una gran secchiona e che studiava nella sezione di biologia. Eravamo durante il primo mese di scuola, Rosh Hashanà era già passato e Yom Kippur era vicinissimo: alla fine delle lezioni andai ad aspettare Noa accanto alla sua classe. Uscì quasi per ultima, con in testa le cuffie di spugna arancione ed un walkman Sony in mano. Mi apparve completamente diversa da come la ricordavo a quattro anni, quasi non sorrideva ed aveva il viso cosparso di acne, ma i suoi capelli erano rimasti gialli e folti. Mi avvicinai a lei con passo tremante. È sempre difficile chiedere scusa, ma chiedere scusa dopo 13 anni è particolarmente difficile. Volevo dirle che da quel giorno nel cortile dell'asilo della maestra Malca, mi ero sforzato di non dire più bugie e che tutte le volte che si risvegliava in me la spinta a mentire, mi ricordavo di lei, spettinata, piangente ed offesa in mezzo al cortile, e subito mi trattenevo e dicevo la verità. Le volevo dire che fra un po' sarei stato un uomo, sarei andato nell'esercito e tutto il resto, e riguardando indietro alla mia vita, ciò che le avevo fatto allora, a quattro anni, era l'azione di cui mi vergognavo maggiormente, e nonostante tutto il tempo passato, avrei voluto in qualche modo risarcirla: comperarle un gelato, prestarle la mia bicicletta sportiva per una settimana, o non so che cosa, qualcosa. Ma invece di tutto questo solo il suo nome mi usci dalla bocca: «Noa», con una voce molto acuta Noa si fermò, si tolse le cuffie e mi fissò con uno sguardo interrogativo. «Sono Etgar le dissi Etgar Keret. Una volta eravamo insieme all'asilo della maestra Malca». Sorrise e disse che si ricordava dell'asilo, ma non di me. Le raccontai come le avessi fatto lo sgambetto, e di come avessi mentito e di come lei, dopo, avesse pianto per l'offesa ed anche un po' per il dolore, ma lei non ricordava nulla. «È stato molto tempo fa», disse in tono quasi di scusa. «Ma io me lo ricordo insistetti e fra un po' è Kippur e volevo chiederti scusa». «Scusa per qualcosa di stupido che hai fatto quando avevi quattro anni?» disse e sorrise, con quel sorriso gentile che ricordavo ancora dall'asilo e subito aggiunse: «Di un po', anche all'asilo eri cosi strano?» e si mise a ridere, perché era un frase abbastanza acuta per una liceale, ed io non risi, perché già all'asilo ero strano, ma mi sforzai almeno di sorridere. «Ti perdono», disse dopo un breve silenzio, poi si rimise alle orecchie le cuffie arancione e se ne andò.
Mi ricordo la via di ritorno a casa, quel giorno. Ero in bicicletta, i pedali giravano senza sforzo, la strada era come priva di attrito e persino le salite sembravano discese. Non l'ho più rivista, ma da allora, tutte le volte che sento un forte bisogno di mentire, mi ricordo di lei all'uscita dalla classe del liceo, con quell'enorme sorriso pieno di acne, che mi dice che mi perdona: allora prendo un respiro profondo e mento.
(la Repubblica, 4 ottobre 2014 - trad. Mila Rathaus)
Sinistra e Israele, così lontani, così vicini
di Carmine Castoro
Bisogna capire che uno Stato "può sbagliare", può governare male, ma in esso, nei suoi ideali, nella sua ragion d'essere bisognerebbe sempre ritrovare la radice comune di un "fratello". Svolta tollerante e quasi ecumenica, alla Levinas potremmo dire, per questo attento - e decisamente controcorrente - lavoro di cultura politica di Fabio Nicolucci che cerca di riavvolgere il film di un rapporto fra "Sinistra" e "Israele" che si è deteriorato nel tempo, intossicando un vecchio afflato, disunendo un'antica affinità elettiva durata fino a cavallo degli scorsi due secoli, e poi interrottasi dopo la guerra del '67, quando l'Unione Sovietica convinse i paesi arabi a schierarsi contro la Stella di David e la sinistra italiana non fece altro che seguire a ruota questa sorta di diktat.
Una rupture epocale che ha significato l'inizio di un lungo periodo di incomprensioni e di cessazione di dialogo - ha sottolineato Nicolucci nel corso dell'evento di presentazione del libro tenutosi nella Biblioteca della Link Campus University di Roma a via Nomentana - fra Israele, sempre più collegato a una cultura neoliberista e conservatrice, e una sinistra che ha fortemente abbracciato la causa palestinese, soprattutto la questione della Striscia di Gaza. E proprio su quest'ultimo tassello di un delicato scacchiere geopolitico, Nicolucci nella videointervista dice che la sinistra ha considerato questo sanguinoso conflitto arabo-israeliano come un "prisma deformante", come un modo più di sfoggiare astrattamente la sua visione del mondo e dei rapporti internazionali che non di interessarsi davvero a come vivono le popolazioni nella terra martoriata di Gaza.
Teorie personali, ovviamente, su argomenti di cui le cronache quotidianamente sono piene con riferimenti cruenti e disumani, attentati, bimbi uccisi e feriti, autobombe, raid aerei, a cui le pagine del libro cercano di offrire una ricostruzione storica e ideologica.
Insomma, Sinistra e Israele continuano ad essere due termini che oggi sembrano così distanti per la nostra cultura politica di europei e italiani, da costituire quasi un ossimoro. Il loro rapporto è faticoso e pieno di buchi neri, alimentati da luoghi comuni e pregiudizi. Il miglior combustibile per far divampare polemiche e rancori. Nessuno ricorda che il padre del socialismo "scientifico", Karl Marx, era ebreo, che molti rivoluzionari russi erano ebrei. La tradizione giudaica è parte costitutiva della nostra cultura, soprattutto di quella della sinistra, e delle nostre città da duemila anni. Sentinella di un Occidente contro l'Oriente per la destra, ponte tra Occidente e Oriente per la sinistra. Fabio Nicolucci, in questo suo nuovo lavoro, sostiene che Israele è l'Occidente dell'Occidente e non è possibile negare l'identità comune. In particolar modo l'autore si sofferma sul rapporto di Israele e della sinistra con l'Occidente: per Israele, con un inedito in Italia (per fonti e ricchezza) studio dei rapporti tra neoconservatori Usa e israeliani; per la sinistra, con una non diplomatica analisi dei suoi vizi, dei problemi e dei rapporti con Israele, e infine della via da seguire per ritrovare una sua capacità di ricollocarsi nel nuovo mondo, quello del post 11 settembre.
(Il Messaggero, 4 ottobre 2014)
Dan Vittorio Segre aveva un sogno
di Francesca Rigotti
Dan Vittorio Segre aveva un sogno: il sogno della pace in Medio Oriente, la pace tra il popolo di Israele e i suoi vicini, tra ebrei e arabi. Dan aveva avuto una vita movimentata e di grandi cambiamenti; da un nome a un altro, da una lingua a un'altra, da una cultura a un'altra a un'altra ancora, da una professione a un'altra a un'altra: addetto culturale, giornalista, diplomatico, accademico, ricercatore.
Dan Vittorio Segre era approdato in Svizzera, a Lugano, nella seconda metà degli anni '90, perché aveva trovato lì il luogo per una iniziativa che potesse coadiuvare il sogno: un Istituto di Studi Mediterranei. Perché il Mediterraneo in una Svizzera che ha solo monti e non ha il mare? Perché la Svizzera, da cinque secoli pacifica nonostante le diverse religioni e lingue, rappresentava ai suoi occhi un modello ideale di convivenza interculturale. Perché a quel modello a suo avviso ci si sarebbe potuti ispirare per proporre politiche simili in luoghi del mondo martoriati a causa di una incomunicabilità di fondo.
Queste cose mi diceva quando lo conobbi, ed era già anziano, ed era l'autunno del 1998 e io avevo da poco pubblicato per Feltrinelli un libro sull'onore (L'onore degli onesti). Mi telefonò privatamente, dopo aver letto il mio libro, mi chiese di andare da lui, mi disse che per motivi di età aveva intenzione di cedere la direzione dell'istituto, me la offerse.
"Non me la sento perché i miei figli sono ancora troppo piccoli perché io prenda un altro impegno", risposi onestamente. So che se avessi accettato mi sarei impegnata a fondo nell'iniziativa, ma non mi sentivo di farlo in quel momento della vita. Più avanti forse, gli risposi. Ma più avanti successero altre cose e l'Istituto come tale si spense.
Perché l'onore? Dan Segre mi disse che avevo toccato un punto importante, che l'onore conta, che è importante che la società non umili i suoi membri, non ne leda il rispetto e l'autorispetto. In una società che si rispetti, e che rispetti gli altri, ogni persona merita l'onore dovuto, un onore universale e universalistico, quasi coincidente con dignità e rispetto dal momento che è a tutti dovuto semplicemente in virtù del fatto di essere persone; onore è termine pregnante, è parola gravida di senso con tutto il suo peso, almeno in ebraico, dove la parola per onore è kavod, derivato dall'aggettivo kaved che significa proprio pesante, carico di beni. Ma questo, mi diceva Dan, l'«ebreo fortunato», come si era definito nel titolo di un suo libro autobiografico, gli ebrei israeliani non l'hanno capito.
Al Festival Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo, dedicato quest'anno al tema della «Gloria», ho svolto la mia lectio magistralis, il 13 settembre 2014, sull'«onore democratico» e ho parlato tra l'altro, al numeroso e attento pubblico, proprio di Dan Segre e del suo sogno. Non potevo immaginare che Dan ci avrebbe lasciati poco dopo, ma sono contenta di avergli reso quell'omaggio che si meritava. E ringrazio anche chi qui mi ha permesso di scriverne.
(TicinOnline.ch, 4 ottobre 2014)
Il secondo diluvio
Per la prima volta in duemila anni niente messa a Ninive. Così l'islam spazza via le cinque religioni più antiche del mondo.
di Giulio Meotti
Era il 1929 quando l'archeologo inglese Leonard Woolley fece una scoperta sensazionale: il Diluvio universale descritto nella Bibbia era stato in realtà una catastrofe di civiltà che aveva sconvolto l'attuale Iraq. Sir Woolley aveva ordinato a un operaio arabo di scavare una fossa per verificare gli strati archeologici della biblica Ur dei Caldei, la patria di Abramo. Trovarono mattoni rotti e altri elementi che indicavano un antico insediamento umano. Alla profondità di un metro, l'operaio arrivò a quella che gli archeologi definiscono "argilla vergine", ovvero lo strato da cui si desume che oltre non c'è più nulla di interessante e i segni della vita finiscono lì. Almeno in teoria.
Woolley gli ordinò di proseguire. Dopo due metri e mezzo di scavi, l'operaio ritrovò altri frammenti di cocci e materiale archeologico. Sir Woolley rimase a bocca aperta: come si poteva interpretare quella frattura fra due civiltà, quella terra pulita fra due strati che indicavano chiaramente due differenti presenze umane, due diverse civiltà divise da uno strato di terra sabbiosa e vergine? La moglie, Katharine Woolley, esclamò: "Ma è il diluvio, naturalmente". Ninive era stata cancellata dalla terra. La capitale più fastosa della civiltà mesopotamica, la "grande meretrice" della Bibbia, la terra di Hammurabi, Assurbanipal, piena di sculture terrorizzanti di geni alati, uomini-falco, demoni Pazuzu e tori con le ali, fu la prima a scomparire, ridotta a macerie da babilonesi e persiani, con linci e sciacalli a ululare tra i ruderi dei palazzi e dei templi, ruderi in gran parte ancora sommersi dalle colline di terriccio accumulatosi nei millenni. Persino una diga sull'Eufrate, ancora in attività, è stata costruita coi mattoni che recano impresso il sigillo di Nabucodònosor.
A Ninive oggi cresce di nuovo l'erba. Lì dove ancora si mescolano i culti più antichi della terra, l'islam sta compiendo un nuovo diluvio. Lo Spectator parla della "terra degli dèi perduti". Lo Stato islamico è il primo
Lo Stato islamico è il primo che sta liberando le terre sotto il proprio dominio di tutti i culti non sanniti. Neppure i talebani arrivarono a tanto.
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che sta liberando le terre sotto il proprio dominio di tutti i culti non sanniti. Neppure i talebani arrivarono a tanto, né Hamas o il khomeinismo iraniano, dove oggi vivono grandi comunità cristiane ed ebraiche persino. Come ha detto Louis Sako, a capo della più grande congregazione cattolica irachena, "questo non era mai successo nella storia cristiana e islamica. Neppure Gengis Khan arrivò a tanto".
Sacerdoti e astrologi sono stati presenti in Mesopotamia fin dagli albori della civiltà. E' provato che la nostra civiltà è nata nella terra dei due fiumi, in Mesopotamia. Fino a oggi, in tutta la Mezzaluna fertile erano presenti le comunità che testimoniavano la straordinaria antichità delle sue tradizioni religiose. Fino all'arrivo dello Stato islamico. Crolla la Torre di Babele.
I cristiani se ne sono già andati tutti. La scorsa domenica, "per la prima volta in duemila anni non è stata celebrata la comunione cristiana a Ninive". Lo ha detto il vicario anglicano di Baghdad, Canon Andrew White. Restano soltanto le case dei cristiani marchiate con la "n" di nasrani. Nazareni. Un anno fa c'erano 60 mila cristiani a Mosul. Oggi ne resta soltanto una manciata.
Degli yazidi lo Stato islamico fa strage in massa. I corpi di trenta yazidi, tra cui cinque bambini, uccisi dai jihadisti dello Stato islamico, sono stati appena rinvenuti in una fossa comune, una delle tante, scoperta nel nord dell'Iraq vicino a Zummar, in un'area riconquistata dai miliziani peshmerga curdi.
La Yazidi Fraternal Organization ha registrato i nomi di dodicimila yazidi cinquemila donne e settemila uomini uccisi o rapiti (nel caso delle donne) dal 3 agosto scorso in poi, quando la montagna di Sinjar cadde nelle mani islamiche. Gli yazidi sono una delle più antiche comunità legate agli Zoroastriani, gli avi del grande conduttore d'orchestra Zubin Mehta che fuggirono dodici secoli fa dalla Persia per preservare il sacro fuoco di Zoroastro dalla profanazione degli invasori arabi. La tradizione vuole che Mahbanu, la terza figlia dell'ultimo re zoroastriano di Persia, Yazdegerd III (ucciso da un fornaio nel 651 mentre scappava inseguito dalla cavalleria araba), sia fuggita in India dove avrebbe sposato un principe hindu. Quel matrimonio avrebbe dato origine alla schiatta dei Sisodyas di Udaipur. Nel XIV secolo, l'islamico Tamerlano racconterà con ebbrezza come nella sua folgorante calata sull'India settentrionale abbia passato a fil di spada intere città di adoratori del fuoco, "dualisti maledetti". Gente, come scriveva il turco convertito al culto di Maometto, "che adora perversamente due dèi, Yazdan e Ahriman".
Parenti degli yazidi sono i kakai, i curdi sincretisti noti per i loro baffoni rituali. Lo Stato islamico li
I kakai sono una setta etero- dossa legata all'islam sciita. Lo Stato islamico li uccide ogni volta che li cattura.
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considera "blasfemi", perché il Corano prescrive baffi corti, ordinati. Barba o baffi a punta da giannizzero
vogliono dire "progressismo" nel letteralismo islamico. I kakai sono una setta eterodossa legata all'islam sciita. Lo Stato islamico li uccide ogni volta che li cattura. I kakai sono la "Gente della Verità" e credono nella reincarnazione. E' l'ultima comunità devota a Mitra. Si dice che se il cristianesimo avesse subito un arresto per cause interne, il mondo sarebbe mitraico.
Di questo sterminio umano e religioso parla il saggista inglese Gerard Russell in un libro fresco di stampa, "Heirs to Forgotten Kingdoms: Journeys Into the Disappearing Religions of the Middle East", che uscirà il prossimo 21 ottobre per Basic Books. "Distruggendo le tombe, bruciando manoscritti e uccidendo i bambini, lo Stato islamico vuole sterminare alcune delle religioni più antiche del mondo", scrive Russell. Nel mirino degli islamisti, continua il saggista britannico, "ci sono i kakai, che considerano Gesù e i fondatori dello sciismo come figure sacre; gli shabak, i cui antenati erano adoratori del fuoco; gli alawiti e i drusi, la cui tradizione è ancorata nella filosofia greca".
Fra i jihadisti sunniti che combattono in Siria, i sostenitori di Bashar el Assad, gli alawiti, sono chiamati "Majous", i Magi della tradizione cristiana, Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Attraverso le rivelazioni di Zoroastro, i Magi evangelici vennero a sapere della venuta di Saoshyans o Gesù: "Verrà un tempo nel quale vedranno una stella nei cieli, portante l'immagine di una madre con il figlio in braccio". Giorno e notte, le sentinelle indiane e gli astronomi caldei e persiani rimasero sul Sabalan, la cima più alta del-l'Azerbaigian, guardando con un occhio in basso per difendersi dai figli d'Israele e dai romani e con l'altro il
Scompaiono i mandei, gli ultimi gnostici sulla terra, gli eredi dei nestoriani e dei giacobiti. Ogni domenica si ritrovano sulle rive del Tigri per celebrare l'immer- sione nelle acque come fece Giovanni Battista, che i mandei venerano come una figura sacra.
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cielo per interpretare anche un'altra profezia, quella dell'indovino Balaom: "Sorgerà una stella da Giacobbe e uno scettro si leverà da Israele".
Scompaiono i mandei, gli ultimi gnostici sulla terra, gli eredi dei nestoriani e dei giacobiti. Ogni domenica si ritrovano sulle rive del Tigri per celebrare l'immersione nelle acque come fece Giovanni Battista, che i mandei venerano come una figura sacra. Per alcuni viaggiatori occidentali erano i "Cristiani di San Giovanni", per il loro credo giovannita. Tra loro, si definiscono "Mandei" ("Mandaiia"), che nel loro dialetto di derivazione aramaica sta per "coloro che cercano la conoscenza". Il novanta per cento dei mandei sono fuggiti dall'Iraq, minacciati di morte dagli islamisti. La dispersione di gran parte dei 60 mila mandei iracheni in Canada, Siria, Australia e altrove ha messo in discussione l'esistenza della religione in questione. Le prime tribù mandee migrarono dalla Terra Santa alle rive dell'Eufrate inferiore durante il primo e il secondo secolo d. C., più di duemila anni fa.
I mandei parlano un aramaico simile al dialetto del Talmud babilonese. Sono i cugini del popolo che produsse i codici di Nag Hammadi (come il Vangelo di san Tommaso) che gettano luce sulla percezione di Gesù Cristo nei primi secoli. Fedeli di una religione antica come il cristianesimo, sono passati nei secoli attraverso l'ascesa dell'islam, l'invasione mongola, l'arrivo degli europei, il regime di Saddam Hussein, che ne prosciugò le paludi battesimali provocando un'immane catastrofe ecologica. I mandei sono pacifisti, la loro religione impedisce di portare armi. Sono caduti vittime della illegalità diffusa, di rapimenti, taglieggi, stupri, assassinii e conversioni forzate per mano di fondamentalisti islamici. Secondo Kanzfra Sattar, uno dei cinque "vescovi" mandei, questa comunità sta subendo oggi un genocidio: "Ci vedono come miscredenti. Risultato: si ha il diritto di ucciderci".
Il culto sincretista shabak è un altro dei principali obiettivi dei movimenti terroristici, soprattutto dello Stato islamico. Secondo un rapporto pubblicato dal ministero dei Diritti umani in Iraq, 1.200 shabak sono stati uccisi e seimila sfollati. La posizione degli shabak a sostegno della guerra angloamericana in Iraq nel 2003 e il loro voto per la Costituzione irachena li ha resi nemici dei terroristi. Sotto minaccia dello Stato islamico i turcomanni zoroastriani, che venerano i prodotti con la lettera "sin", simbolo di vita e fertilità: verdure (sabzi); mele (sib, il primo dei frutti, quello del paradiso perduto); aceto (serkeh, simbolo della fermentazione); aglio (sir, per le virtù curative); oro (sekeh, la ricchezza); il sommacco (somaq, la spezia simbolo del sapore); un dolciume (samami, simbolo delle dolcezze della vita). Infine ci sono i sabei, originari dello Yemen, i figli delle civiltà sudarabiche e della regina di Saba, colei che compare nella Bibbia e nel Corano. Scrivevano moltissimo i sabei. Ma erano soprattutto un'antica popolazione semitica con architetti e ingegneri idraulici di tale ingegno che neppure l'Egitto poté vantarne di simili. Marib, la capitale del regno dei Sabei, tuttora occultata nelle viscere della terra e della sabbia, è oggi una nuova città, a duecento chilometri da Sanaa.
Oggi i sabei in Iraq si vestono di bianco, simbolo di pace. Ma come ha denunciato Uday Asa'ad Khamas,
In dieci anni in Iraq sono rimasti diecimila sabei dei quarantamila che erano. A Baghdad è rimasto soltanto un religioso sabeo. Anche loro praticano l'immersione rituale, che rievoca l'inondazione del mondo durante il Diluvio.
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portavoce dei sabei iracheni, in dieci anni in Iraq sono rimasti diecimila sabei dei quarantamila che erano. A Baghdad è rimasto soltanto un religioso sabeo. Anche loro, come i mandei, praticano l'immersione rituale, che rievoca in tal modo l'inondazione del mondo durante il Diluvio, che ripulì la terra dagli uomini dediti al peccato. Sono citati sia nel Corano sia nel Libro di Giobbe. Per lo Stato islamico sono dei "giudaizzati", perché praticano alcune tradizioni ebraiche. Abu Musab al Zarqawi, il terrorista giordano che dilaniò l'Iraq fino al 2007 e che preparò il terreno per l'avvento dello Stato islamico, era solito attaccare nei suoi proclami "i sabei".
Nel mirino dell'islam ci sono, infine, gli ultimi popoli che parlano l'aramaico. Come nella cittadina siriana di Maalula, a lungo assediata dagli islamisti siriani e poi liberata dall'esercito di Bashar el Assad. Gli islamisti dicono di voler trasformare l'aramaico in una "lingua morta".
E' in corso una guerra non soltanto all'umanità, ma alla civiltà. Ai figli di Abramo, di Gesù, di Zarathustra e di Gilgamesh. Quasi una conferma della profezia biblica: "A Babilonia abiteranno linci e sciacalli e non sarà più popolata e nessuno vi avrà dimora per tutti i tempi che verranno". Quanto rimane della più sfarzosa, e peccaminosa, capitale del mondo antico ha oggi l'aspetto definitivo della morte. C'è un silenzio in cui par di sentir echeggiare tuttora la maledizione di Geremia.
(Il Foglio, 4 ottobre 2014)
Parkour tra le macerie di Gaza
Per i ragazzini cresciuti sotto le bombe, l'acrobazia è la norma
Superare gli ostacoli sfruttando al massimo la combinazione di agilità e creatività. È questa l'essenza del parkour, disciplina metropolitana che non è solo uno sport ma una filosofia di vita. A Gaza gli ostacoli sono le macerie di un'altra guerra, scenario abituale per bambini e ragazzini cresciuti al suono delle bombe. L'acrobazia, per loro, è esercizio quotidiano di sopravvivenza, e il parkour non ne è che una declinazione. In questo reportage fotografico della Reuters, un gruppo di ragazzini palestinesi tra i 13 e i 17 anni porta questa disciplina tra le rovine di Shejaia, quartiere a est di Gaza City.
Video
(L'Huffington Post, 3 ottobre 2014)
Israele rafforza la sicurezza per le feste ebraica e musulmana
Quest'anno Yom Kippur e Aid al Adha cadono lo stesso giorno
GERUSALEMME - Il dispositivo di polizia e' stato rafforzato da oggi e per tutto domani nelle zone miste ebraico-musulmane in Israele per la celebrazione di due delle piu' importanti feste dell'ebraismo e dell'islam - rispettivamente lo Yom Kippur e l'Aid al Adha - che quest'anno, dopo 33 anni, cadono lo stesso giorno.
Il dispositivo di polizia e' stato rafforzato in particolare in tutte le localita' dove ebrei e arabi coabitano per evitare frizioni e permettere alle due comunita' di festeggiare senza problemi, ha spiegato nei giorni scorsi all'Afp Luba Samri, portavoce della polizia israeliana. Durante lo Yom Kippur, o la festa del Grande Perdono, che inizia oggi dopo il tramonto, gli ebrei digiunano, pregano e chiedono perdono per i loro peccati. Nella festa dell'Aid al Adha, che comincia anche oggi, i musulmani commemorano la sottomissione di Abramo a Dio quando accetto' di sgozzare l'unico figlio Ismaele. L'arcangelo Gabriele sostitui' all'ultimo momento il bambino con una pecora e in ricordo di questo episodio le famiglie musulmane sacrificano una pecora.
(ASCA, 3 ottobre 2014)
Israele, operazione rilancio
Una promozione a "trazione anteriore" quella che il ministero del Turismo e l'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo appronteranno nei prossimi mesi per rilanciare il turismo in Israele dopo la difficile stagione estiva.
Tra le strategie annunciate dal direttore generale del ministero del Turismo, Amir Halevi, giunto appositamente a Roma per incontrare operatori e media, spicca la riqualificazione alberghiera: «Daremo il massimo supporto agli investimenti nell'ospitalità alberghiera e nella logistica perché ci sono strutture, e anche infrastrutture, che necessitano di una rapida modernizzazione. Così come cercheremo di potenziare l'offerta turistica di alcune aree come ad esempio il Mar Morto, dove il governo israeliano investirà circa 200 milioni di dollari. Daremo poi pieno sostegno agli operatori turistici, locali e stranieri, che intendono arricchire l'offerta turistica israeliana, con un adeguato supporto promozionale».
Proprio riguardo alle iniziative promozionali che verranno approntate nell'immediato futuro, Avital Kotzer Adari - direttore dell'Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo in Italia - è entrata nei particolari: «Da novembre a febbraio 2015 pianificheremo un fitto calendario di fam-trip per agenti di viaggi e tour operator italiani e cercheremo di fornire una costante assistenza e il massimo ascolto alle esigenze dei t.o. del vostro Paese, pronti ad assecondare idee e formule innovative. Avvieremo presto operazioni online con presidi sui social media, che sono i canali di comunicazione più frequentati da giovani e non solo. Riguardo alle offerte, sin dalla fine dell'anno e per tutto il 2015 punteremo molto sui city-break a Tel Aviv, Gerusalemme e Mar Morto e sul segmento incentive, un ambito che si presta molto a essere sviluppato in Israele, visto che una città viva come Tel Aviv, soprannominata "no-stop city", garantisce ottime soluzioni alberghiere, divertimento, ristoranti aperti 24 ore su 24 ed eventi di grande suggestione come festival musicali, lirica e intrattenimenti di vario genere».
Uno sforzo a tutto campo per recuperare già nelle ultime settimane dell'anno, una stagione definita "complicata" dal dg del ministero del Turismo, con un semestre record che aveva fatto segnare un +28% negli arrivi turistici internazionali e un periodo, da agosto a settembre, decisamente negativo per le note vicende legate all'instabilità della zona.
Il mercato italiano, attualmente il sesto per importanza tra quelli internazionali, può arrivare al quinto posto se non addirittura al quarto: è l'auspicio di Avital Kotzer Adari.
(Agenzia di viaggi, 3 ottobre 2014)
Israele - 'Yom Kippur', il paese si ferma
L'esercito chiude i collegamenti con la Cisgiordania fino a domani sera
Da stasera e fino a domani sera, Israele si fermera' per la festa di 'Yom Kippur', importante ricorrenza religiosa ebraica che celebra il 'Giorno dell'espiazione'. Ne' auto, ne' treni ne' autobus, ne' programmi radio-tv e negozi rigorosamente chiusi. L'aeroporto internazionale Ben Gurion chiudera' agli arrivi e alle partenze dalle 14 di oggi (ora locale) alle 22.30 di sabato sera (ora locale). Kippur e' l'unico giorno dell'anno in cui lo scalo e lo spazio aereo israeliano restano chiusi,
(ANSA, 3 ottobre 2014)
Ghetto di Varsavia: nessuno voleva credere all'orrore
di Maurizio Molinari
«Un bicchiere di cognac?». Golf girocollo bianco, jeans blu e fisico asciutto, Simcha Rotem ci accoglie nel salotto della sua casa di Abu Tor da dove è appena uscito un drappello di soldati dei corpi scelti della Marina israeliana.
Sul tavolo basso, di legno, c'è l'omaggio che gli hanno lasciato: un cappello da ufficiale, con dentro cucita a mano la scritta «all'uomo che ha dedicato la vita a salvare il popolo ebraico».
Simcha Rotem, nato in Polonia nel 1924 con il nome di Szymon Ratajzer, è uno degli ultimi tre sopravvissuti della rivolta del ghetto di Varsavia ed è in arrivo a Roma per presentare il suo diario Il passato che è in me, uscito per i tipi di Salomone Belforte & Co. di Livorno, con introduzione di Anna Rolli e postfazione di David Meghnagi. La prosa tagliente riflette i ricordi, ancora vivi. «Era la fine del 1942», racconta, seduto in un salotto decorato con le opere della moglie Gina, anch'essa sopravvissuta alla Shoah. «Le deportazioni erano già iniziate e nel ghetto la discussione era su cosa fare, in molti non volevano credere all'intenzione dei tedeschi di ucciderci tutti. Poi arrivò il nostro primo testimone».
Era un ragazzo, suo lontano cugino. «Lo avevano preso in una retata, era finito su uno dei treni che andavano a Treblinka, che era un campo di pura eliminazione poco distante da Varsavia. Quando vi arrivò, esile come era, riuscì a fuggire dalla rampa, tornando dentro il vagone e quindi indietro, alla destinazione iniziale, sotto una montagna di indumenti tolti agli altri deportati». Fu questo ragazzo a raccontare ai giovani del ghetto l'«odore dei corpi bruciati, il fumo puzzolente che usciva dalle ciminiere e impregnava l'aria di morte». Poco dopo un membro del partito Bund, di nome Zygmunt, venne segretamente inviato sempre a Treblinka per confermare quanto il primo testimone aveva visto. Fu la prova incontrovertibile che lo sterminio era in corso e per il Zydowska Organizacja Bojowa (l'Organizzazione ebraica di combattimento guidata da Mordechai Anielewicz) segnò il momento di non ritorno verso la preparazione della rivolta, poi iniziata il 19 aprile 1943 con l'esplosione di una mina sotto una colonna di soldati tedeschi.
«Ma la tragedia fu che la maggioranza delle persone nel ghetto continuavano a non credergli, gli stessi genitori di mio cugino non gli credettero», ricorda Rotem, nome di battaglia Kazik, derivato dal polacco Kazimierz, dovuto al fatto che aveva un look da gentile e parlava polacco senza accento yiddish. Furono queste caratteristiche che, a 18 anni, lo fecero diventare la staffetta della resistenza ebraica, il cui compito era di creare passaggi attraverso le macerie del ghetto in fiamme e il muro di cinta per tenere i contatti con il comando esterno della rivolta e la resistenza polacca. Per questo, quando scattò l'attacco finale dei tedeschi contro le ultime postazioni dei ribelli, lui era fuori delle mura. Per due settimane tentò ogni notte di rientrare, ma senza successo. Quando infine vi riuscì, «emersi da un tombino in uno scenario spettrale, il ghetto non c'era più, sostituito da cumuli di rovine a perdita d'occhio, ogni punto di riferimento sparito: in quel momento pensai di essere l'ultimo ebreo in vita».
Nel tentativo di trovare superstiti «seguii un percorso fra le rovine gridando in continuazione la nostra parola d'ordine, ma fu il silenzio più assordante, rotto solo dalla voce di una donna rimasta intrappolata, con una gamba rotta». Rassegnato al peggio, Kazik tornò nel cammino sotterraneo. «Fu allora che sentii in lontananza un rumore, gridai la parola d'ordine e scoprii che c'era un intero gruppo che stava aspettando proprio me per sapere come uscire». Circa ottanta combattenti del ghetto - incluso Marek Edelman, nuovo comandante dopo la morte di Anielewicz - riuscirono così a lasciare Varsavia, passando attraverso i tunnel delle fognature, e una trentina di loro sopravvisse alla Seconda guerra mondiale.
«Quel che ho visto nel ghetto di Varsavia, però, non mi lascia mai», assicura il sopravvissuto, rosso di rabbia quando parla dei «neonati presi per i piedi e sbattuti contro il muro dai soldati tedeschi», oppure del «rifiuto degli americani di ascoltarci quando li pregammo di bombardare Auschwitz e distruggere almeno uno dei forni crematori». Ai tedeschi rimprovera di «averci tolto anche l'umanità». E per spiegare cosa intende, ecco quel che racconta: «Un giorno per strada nel ghetto sentii il pianto di un bambino, gettai lo sguardo, vidi che a fianco aveva la madre morta e andai via d'istinto. Ecco come ci avevano ridotto». Non usa mai il termine «nazisti», perché «non mi dice nulla, erano tedeschi e basta, bestie su due gambe».
La riflessione sull'origine di tale brutalità lo accompagna da allora, ma confessa di non essere riuscito a trovare risposte o spiegazioni sufficienti: «L'essere umano ha due gambe ma anche una bestia può avere due gambe, noi siamo esseri umani e i tedeschi erano bestie, la trasformazione degli uomini in bestie avviene in maniera impercettibile, immediata, devastante». E questa «genesi del male continua a essere fra noi, afferma, citando l'esempio delle brutali decapitazioni da parte di Isis in Iraq e Siria: «È la dimostrazione che ancora oggi può ripetersi ciò che avvenne allora, i tedeschi erano i più colti d'Europa e diventarono un popolo di bestie, così come i tagliatori di teste di Isis sono cresciuti in molti casi nelle città della pacifica Europa». Per difendersi da questa «orribile trasformazione dell'uomo», conclude, «bisogna combattere, sapersi difendere, non abbassare mai la guardia, come facemmo noi pur consapevoli di non poter vincere, e come fanno i giovani marinai israeliani che rischiano la vita per il popolo ebraico e mi hanno regalato questo cappello.
(La Stampa, 3 ottobre 2014)
Il dramma delle famiglie di Gaza: nessuno li vuole come affittuari
Anche la tv Al-Aqsa, espressione di Hamas, registra delle difficoltà nel trovare una nuova sede dopo il blitz subito da parte dei droni israeliani nell'ultima fase del conflitto.
di Maurizio Molinari
GERUSALEMME - Molte famiglie di Hamas e della Jihad islamica bersagliate da Israele durante l'ultimo conflitto di Gaza sono alla ricerca di una nuova casa ma trovarla si sta dimostrando difficile: nessuno li vuole come affittuari. Questo emerge dalla storia di Yasser Hajj, che lo scorso 10 luglio perse l'intera famiglia in un attacco israeliano contro la sua casa a Khan Yunis ed ora si trova in difficoltà nella ricerca di una nuova residenza perché spesso i proprietari gli rispondono "non affittiamo a membri della resistenza".
Il motivo è che, anche in presenza di affitti mensili più alti, ciò può comportare il rischio della distruzione dell'immobile da parte degli israeliani. Si spiega così quanto avvenuto il 26 agosto nel quartiere di Ramal, a Gaza City, dove numerosi residenti nella Daud Tower hanno inscenato una protesta contro i proprietari per la decisione di cacciare quasi tutti gli inquilini, considerandoli "persone ad alto rischio". In quell'occasione alcuni dei residenti non coinvolti con Hamas e Jihad islamica affissero dei cartelli bianchi dentro e fuori la Daud Tower sui quali era scritto "vogliamo sapere chi sono i civili che vivono in questo palazzo".
Anche la tv Al-Aqsa, espressione di Hamas, registra delle difficoltà nel trovare una nuova sede da affittare dopo il blitz subito da parte dei droni israeliani nell'ultima fase del conflitto. Sami Abu Zuhri, portavoce di Hamas, non nega il fenomeno ma lo addebita ad "un'ansia popolare comprensibile dovuta alla brutalità dei crimini commessi dagli israeliani contro i civili" sebbene "senza conseguenze preoccupanti".
(La Stampa, 3 ottobre 2014)
Diritto & Rovescio
Certe zone urbane della Striscia di Gaza sono ridotte in macerie a seguito dei bombardamenti effettuati dall'aviazione israeliana per far cessare il lancio di missili da parte di Hamas. Adesso che il conflitto è finito, inizierà l'afflusso di fondi pubblici occidentali (pagati anche con le nostre tasse) per ricostruire gli edifici abbattuti. Ma è giusto gratificare, come in passato, coloro che questa distruzione l'hanno deliberatamente voluta, colpendo, unilateralmente, lo stato di Israele? Tant'è che, appena Hamas ha accettato di bloccare il lancio dei suoi missili, la risposta di Gerusalemme è stata quella di far cessare immediatamente i suoi contro-attacchi. Gli aiuti a Gaza sono aiuti ad Hamas cioè a un partito di fanatici che persegue la periodica distruzione della Striscia di Gaza. Questi, ora, non si possono premiare con pioggia di denari. Se i soldi eccedono, vadano allora ai più responsabili palestinesi di Cisgiordania. Altrimenti si premia il peggiore. Non sta bene.
(ItaliaOggi, 3 ottobre 2014)
Roma - Le pellicole più preziose, scene di vita famigliare prima della Shoah
di Rachel Silvera
C'era una volta una scatola che conteneva delle bobine. La famiglia Della Seta la teneva con cura e la portava con sé durante ogni trasloco. "Sapevo che erano vecchi video del matrimonio dei miei nonni. Ma era impossibile vederli. Solo adesso posso affermare con certezza che sono cimeli fondamentali per la storia dell'ebraismo italiano" a parlare Claudio Della Seta, caporedattore del tg5. Come anticipato da Pagine Ebraiche 24 la scorsa settimana, domenica 5 ottobre alle 16.15 presso l'Istituto per il restauro e la conservazione del patrimonio libraio e archivistico (via Milano 76) di Roma verranno presentati per la prima volta i filmati, datati 1923, delle famiglie Di Segni e Della Seta. Ci troviamo di fronte ad un unicum: sono infatti, al momento, le sole riprese che testimoniano la vita ebraica italiana antecedente alla Shoah e probabilmente i primi family movies italiani (questo perché la pellicola usata è quella professionale di 35mm, i video amatoriali apparvero solo negli anni a seguire). "Dopo aver visto per anni le immagini in negativo, grazie alla dott.essa Maria Cristina Misiti dell'ICPAL e Mario Musumeci del Centro sperimentale di Cinematografia, mi sono ritrovato faccia a faccia con i miei nonni. Una conquista per tutti; questo è infatti il progetto pilota della nuova iniziativa dell'ICPAL riguardante il restauro cinematografico" spiega Della Seta.
Si muovono sullo schermo la nonna Iole Campagnano e il nonno Silvio Della Seta che, vestiti da sposi, hanno appena compiuto il grande passo. Sullo sfondo i bisnonni Samuele Della Seta e Giulia Di Segni, che verranno catturati durante la retata del 16 ottobre 1943 e non torneranno più. "I miei nonni riuscirono a salvarsi grazie all'amicizia con i Marinelli, proprietari del famoso negozio di tessuti in Piazza del Viminale, che, numerosissimi, ospitarono nelle diverse case la famiglia" ricorda Claudio Della Seta. Nelle scene del matrimonio spicca anche il bisnonno Giuseppe Campagnano, nonno Beppe, ebreo molto osservante che vent'anni dopo, rifugiato in un convento durante l'occupazione nazista, setacciava le strade di Roma con fare instancabile per portare aiuto ai propri correligionari e per mettere al riparo gli arredi della sinagoga, della quale era il guardarobiere. Ma le immagini non finiscono: scene conviviali e di vacanze, tipiche degli intimi filmini di famiglia: dal mare di Anzio, alla neve fino al ghiotto scambio di pastarelle. Proprio grazie al mare di Anzio si è riusciti ad avere qualche informazione in più. Un giornale dentro la scena ha permesso la ricostruzione: "Era il Messaggero del 1 settembre del 1923 e titolava 'Le truppe italiane sbarcano a Corfù', questa è stata l'ennesima conferma del tesoro che scorreva davanti ai nostri occhi". Claudio Della Seta è entusiasta: "Settimana dopo settimana l'importanza di queste pellicole è cresciuta a dismisura. E, grazie alla collaborazione di tecnici e storici, la mia famiglia continuerà a vivere sullo schermo nella spensieratezza del 1923?.
Durante la cerimonia di domenica, le bobine originali verranno consegnate al Centro di documentazione ebraica contemporanea ed è appena stata confermata della presenza di un ambasciatore dello Yad Vashem che riceverà in dono delle copie. Altre copie verranno devolute al futuro Museo della Shoah di Roma e al Museo della Comunità ebraica di Roma. Dopo anni di ricerche, lo Yad Vashem potrà dunque proiettare le immagini anche di ebrei italiani prima della Shoah. "Questo è un documento eccezionale - spiega lo storico Marcello Pezzetti - il sogno di ogni museo. Sono emozionato all'idea di poter vedere la vita ebraica in movimento. Quella vita che verrà spazzata via dalla Shoah. Questo non è un pezzo di storia ebraica, è un pezzo di storia italiana. Una scoperta fondamentale per gli italiani. Il patrimonio di una memoria collettiva". Si aggiunge la voce di Michele Sarfatti, direttore del Cdec: "La definirei una fondamentale testimonianza di vita piena e ricca. La successione di immagini liete prima della Shoah. L'enorme lavoro fatto è stato possibile grazie alla consapevolezza di Claudio Della Seta di contribuire all'esperienza storica. Consegnare alla memoria pubblica momenti intimi della propria famiglia non recide il legame con essa ma li fa diventare un tassello della storia del mondo". Unanime poi l'appello agli ebrei italiani: "Aprite i cassetti, i bauli. Rovistate in soffitta e in cantina. Forse apparirà un nuovo tassello per ampliare il mosaico".
(moked, 3 ottobre 2014)
Gaffe Gue: candidato al Sakharov blogger che voleva uccidere "un numero critico di israeliani"
Sinistra radicale al Parlamento europeo costretta a scusarsi e a fare marcia indietro dopo avere scoperto che uno dei suoi candidati al premio per la libertà di pensiero nel 2012 sosteneva la necessità di uccidere "un numero critico di israeliani". La presidente Zimmer: "Non avevamo questa informazione, il messaggio va contro tutti i nostri principi".
Va bene che il Sakharov è il premio per la libertà di pensiero, ma proporre di assegnarlo a chi ha sostenuto la necessità di uccidere "un numero critico di israeliani" è davvero troppo. È la gaffe di cui si è reso protagonista il gruppo della sinistra radicale al Parlamento europeo. Al momento di scegliere i candidati in corsa per il premio che il Parlamento europeo assegna a personalità che si sono distinte nella lotta contro l'intolleranza, il fanatismo e l'oppressione, la Gue ha proposto i nomi di tre blogger che sono stati vittime di repressione nei rispettivi Paesi, tra cui anche l'egiziano Alaa Abdel Fattah, noto nel suo Paese per aver sviluppato una piattaforma digitale libera dalle censure laiche, islamiche o militari e per questo finito più volte in carcere.
Attività ammirevole, se non fosse che il blogger egiziano si è reso protagonista anche di dichiarazioni non propriamente in linea con lo spirito del Sakharov. Nel 2012, Fattah twittava: "C'è un numero critico di israeliani che dobbiamo uccidere e il problema è risolto". Il fatto che 52 deputati del Parlamento europeo ritenessero opportuno assegnare un premio al responsabile di dichiarazioni di questo tono non ha mancato di suscitare polemiche, così oggi la Gue si scusa e annuncia il ritiro della candidatura.
"Non avevamo queste informazioni quando l'abbiamo proposta", si giustifica in una nota la presidente del gruppo, Gabi Zimmer. "Non c'è bisogno di dire - aggiunge - che non possiamo tollerare e non tollereremo un comportamento del genere. Questo messaggio va contro tutti i nostri principi e i criteri per le nomination del Sakharov". La Gue, scrive ancora Zimmer "ha sempre favorito il dibattito e il confronto politico tra popoli, incluso il popolo israeliano".
(eunews, 2 ottobre 2014)
Gerusalemme più vicina: partnership con Go Asia
Previsto un ciclo di formazione online per agenti con premio finale.
Lo scorso anno la Jerusalem Development Authority aveva concordato una tariffa speciale con l'Associazione Albergatori di Gerusalemme e Meridiana, che offriva ad agenti di viaggio ed accompagnatori la possibilità di visitare la città a prezzi molto vantaggiosi e che si chiuderà a dicembre. Nei prossimi giorni verrà presentato il progetto che vi subentrerà, in collaborazione con il tour operator Go Asia: una formazione online per agenti di viaggi, che vedrà premiati i primi a terminarla con un soggiorno in hotel gratuito offerto dall'operatore e volo incluso offerto dalla compagnia aerea El Al. "Siamo molto felici di quest'attività congiunta: è l'esempio pratico della sinergia che vogliamo sviluppare tra i diversi attori dell'industria turistica e vogliamo continuare su queste orme, visto anche il successo delle attività dello scorso anno con l'Associazione Albergatori di Gerusalemme e Meridiana" ha commentato Ilanit Melchior, direttrice turismo di Jda.
(Guida Viaggi, 2 ottobre 2014)
Tobia e i Giusti di Volterra
A Roma, a Milano, a Trieste, a Torino gli ebrei erano migliaia. A Volterra ce n'era uno solo. Era stimato e persino amato. Era l'unico dentista della città. Lorenzo Lorenzini e sua moglie Antonia non ci pensarono due volte e lo nascosero a casa loro.
di Roberto Olla
Primo buio di una notte fredda del 1944. Due giovani lungo le stradine di Volterra, abbracciati, le teste incastonate nei respiri caldi. Camminano stretti stretti come solo gli innamorati sanno fare. Leggeri, quasi un corpo solo, sembrano scivolare sui muri dei palazzi. Invisibili nella nicchia dei loro corpi, superano l'ingresso della stazione dei carabinieri. Poi passano davanti alla farmacia del noto fascista. È ora di chiusura. Alle loro spalle si spengono le ultime luci fioche. In fondo alla lunga discesa li attende un calessino tirato da un cavallo. Lui, Tobia, si siede al fianco del conduttore e subito il calessino sparisce nel buio della campagna. Lei, Ilia, con la testa china e le braccia conserte, risale veloce verso la porta della città. Si lasciano senza un bacio, senza una parola. Anche perché non sono affatto innamorati. Rischiando il tutto per tutto, la loro stessa vita, hanno recitato bene.
Certo, chiamarlo proprio Tobia! Quei volterrani potevano anche trovare un nome in codice un po' meno ebraico per un ebreo da nascondere. Ma non ci hanno pensato su tanto al momento. Hanno deciso di salvargli la vita ed il primo nome che gli è venuto è stato Tobia. Poi hanno sfruttato al meglio la magia della loro città. Forse Volterra è misteriosa per via delle balze, quei precipizi che la collocano ai confini di un altro pianeta. Forse perché se ne sta avvolta su una cima, isolata nella sua antica nobiltà. Ma procediamo con ordine e torniamo indietro, di almeno un anno.
Settembre, armistizio. Ottobre, deportazione. Il 1943 ha macchiato la storia d'Italia con due date indelebili. Solo noi Italiani continuiamo a chiamare armistizio quel foglio con i 12 punti firmato a nome del nostro paese dal generale Giuseppe Castellano sul tavolaccio di legno di una fattoria di Cassibile. Era il 3 agosto. Cinque giorni dopo, quella firma venne annunciata al mondo via radio e tutti la chiamarono per quel che era: resa incondizionata. Era l'8 settembre. I nazisti ci misero poco ad occupare città e paesi, campagne, caserme e porti. Fall Achse, il piano Asse, era stato preparato da tempo su precise direttive di Hitler. Ad ottobre l'occupazione era completata e cominciava anche in Italia quella guerra dentro la guerra a cui il cosiddetto Terzo Reich dedicò tante risorse: la deportazione degli ebrei verso i campi della soluzione finale. Ma prima i nazisti avevano bisogno di spianarsi la strada eliminando ogni possibile opposizione. Così il 7 ottobre deportarono migliaia di carabinieri. Troppo fedeli al re e allo stato. Molti riuscirono a nascondersi ed organizzarono la resistenza. Il 16 ottobre scattò, come una trappola, la razzia nel ghetto di Roma. Cominciarono le deportazioni da tutte le altre città italiane. I fascisti ci avevano messo del loro e avevano reso il lavoro facile: da tempo tutti gli ebrei italiani erano stati schedati. Si conoscevano nomi e indirizzi. Spesso erano i militi che si presentavano alla porta per la cattura e poi consegnavano alle Ss i loro prigionieri. Chi collaborava riceveva cinquemila lire per ogni ebreo catturato. Riuscendo a far catturare una famiglia con padre, madre, tre figli e due nonni, ci si faceva un bel gruzzolo per i tempi. Quante "cinquemila lire" sono state pagate? Nessuno ha mai fatto questi conti. Strano. Si, perché sulla base delle ricevute si potrebbe fare l'elenco degli infami che hanno incassato i denari della morte.
A Roma, a Milano, a Trieste, a Torino gli ebrei erano migliaia. A Volterra ce n'era uno solo. Era stimato e persino amato. Era l'unico dentista della città. Non era neppure nato in Italia. Aveva sposato una cattolica. Niente, tutto ciò non importava niente. A nessuno. In quell'autunno nero del '43 il dottor Emerico Lukacs si ritrovò al primo posto tra i catturandi. Gli altri nella lista erano partigiani e noti antifascisti.
Se manca l'elenco degli infami, esiste però l'elenco dei giusti. Anzi, Giusti con l'iniziale maiuscola. Chasidei Umot HaOlam. Giusti tra le Nazioni. Chi salva una vita, salva il mondo intero. Bello. Nobile. Ma Lorenzo Lorenzini e sua moglie Antonia non ci pensarono. Presero con naturalezza la decisione. Come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Andarono ad avvertire il dottor Lukacs e lo nascosero a casa loro. Chi veniva sorpreso con un ebreo nascosto faceva la sua stessa fine. Partiva per i campi assieme a lui. Pur con tutta la magia di Volterra rendere invisibile il giovane dentista, originario dell'Ungheria, e impedire la sua cattura non era affatto facile. Dovettero trasferirlo più volte, aiutati dai nonni e dalla cognata Ilia che interpretò perfettamente la parte dell'innamorata per coprire uno spostamento piuttosto pericoloso. Si, nessuno si pose il problema. Nonostante i rischi, si trattava di salvare una vita.
Non si posero il problema neppure dopo la guerra quei volterrani. S'era salvato un uomo. E allora? Era ovvio che lo si salvasse, o no? Mica c'era tanto da parlarne. E infatti non ne parlarono. Per decenni per tutta la loro vita. Solo dopo la loro scomparsa si è messa in moto la macchina del centro di Yad Vashem che assegna il titolo di Giusti tra le Nazioni ai non ebrei che hanno salvato un ebreo durante la Shoah. Un'indagine storica accuratissima nella sua scientificità. Vengono raccolti documenti inconfutabili, testimonianze dirette dei salvati, prove sicure del fatto che i Giusti hanno messo a rischio la loro stessa vita. Un procedimento lungo, una ricerca articolata. Chissà cosa ne avrebbe detto Lorenzo Lorenzini se avesse potuto assistervi. Ovvia, che s'è fatto?! Siamo solo persone qualsiasi che hanno salvato un amico. Mica siamo eroi.
Video
(RaiNews24, 2 ottobre 2014)
"La donna nella tradizione ebraica" in un convegno a Lugo
Si è tenuta ieri, mercoledì 1 ottobre, nella Sala Codazzi della biblioteca comunale "Fabrizio Trisi" di Lugo la conferenza sul tema "La donna nella tradizione ebraica".
All'incontro sono intervenuti Luciano Caro, rabbino capo della Comunità ebraica di Ferrara, e Ines Miriam Marach, storica dell'ebraismo e presidente dell'associazione "Donne ebraiche italiane (Adei Wizo) - sezione di Bologna. Presenti inoltre il sindaco di Lugo Davide Ranalli e l'assessore alla Cultura e alle Pari opportunità Anna Giulia Gallegati.
"La donna è per certi aspetti in una condizione di inferiorità nella cultura ebraica - ha sottolineato Caro -. Pur avendo un ruolo fondamentale all'interno della famiglia, la donna a livello legale è tutt'oggi discriminata, principalmente per due ragioni: il primo è che nel matrimonio ebraico la donna è in una situazione di passività, poiché l'iniziativa formale è per forza dell'uomo; inoltre il divorzio, secondo la tradizione ebraica, per essere ammesso deve avere iniziativa pratica del marito: per legge deve essere lui a chiederlo, altrimenti non si può dare inizio alle pratiche".
L'appuntamento è stato l'ultimo in programma tra le iniziative organizzate dal Comunale di Lugo in occasione della Giornata europea della cultura ebraica, dedicata quest'anno alla "Donna Sapiens. La figura della donna nell'ebraismo".
(Lugo24ore.it, 2 ottobre 2014)
Mistero dell'edizione gaddica del libro dell'eroe del ghetto di Varsavia
di Giulio Meotti
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Conferenza tenuta da Simcha Rotem nel 1997 |
ROMA - Simcha Rotem è una leggenda. E' l'ultimo capo dell'insurrezione ebraica nel ghetto di Varsavia ancora in vita. Ha scritto un diario, tradotto in tutto il mondo, sulla sua storia dentro alla rivolta condotta da duecento ragazzi ebrei male armati contro il potente esercito del Terzo Reich. Avevano soltanto pistole e bottiglie Molotov, ma durarono tre settimane, più dell'esercito francese. Rotem non voleva finire in via Stawki, nel binario che portava alle camere a gas di Treblinka. Così prese parte alla prima azione armata su vasta scala nella storia delle occupazioni naziste. Ma il quartiere ebraico venne trasformato in un immenso rogo. E il maresciallo Stroop ne siglò così la fine: "Il quartiere ebraico non esiste più".
Il diario di Rotem arriva finalmente in Italia, ma con una doppia edizione. Due giorni fa, su Repubblica, Gad Lerner ha annunciato l'uscita del libro per le edizioni Teti con una sua prefazione. Solo che il libro è già in libreria da un mese per un'altra casa editrice, la Salomone Belforte, che pubblica dal 1805. E' successo che la Teti, storica casa editrice della sinistra, aveva ricevuto da Rotem i diritti di pubblicazione. Poi qualcosa è andato storto e l'anziano sopravvissuto ha ritirato i diritti alla Teti e ha chiesto alla Belforte di pubblicare il libro.
Il diario è curato dalla ricercatrice Anna Rolli e vede la postfazione del professor David Meghnagi, una importante postfazione che doveva uscire per le edizioni Teti. Gad Lerner è da anni il custode del cliché dei rivoltosi ebrei anti israeliani. Nella prefazione per la Teti, Lerner spiega che "ho avuto il grande onore di conoscere Marek Edelman che, a differenza di Simcha Rotem, in dissenso con i sionisti rimase a vivere in Polonia". Secondo il professor Meghnagi, si tratta di uno stereotipo. "I bundisti di Edelman, la sinistra ebraica sionista di Anielewicz e la destra ebraica revisionista combatterono tutti assieme nel ghetto", ci spiega Meghnagi. "Fu come una musica dodecafonica, in cui si suona con accordi diversi. Rotem è l'ultimo rappresentante della prima rivolta antinazista in Europa. Una rivolta e una tragedia avvenute nel più totale isolamento e indifferenza". Si odono echi israeliani.
"Certo, perché quella rivolta diverrà anche il simbolo della rinascita ebraica nella terra dei padri. Rotem dopo la guerra si trasferisce in Israele, come tutti gli altri sopravvissuti della rivolta del ghetto, vedendo nello stato ebraico il figlio dell'insurrezione". Non è che le edizioni Teti volevano usare il diario di Rotem in chiave anti israeliana? Volevano proporre in Italia il paradigma Varsavia come Gaza? Sarà questo ad aver spinto Rotem a rompere con la casa editrice? Come scrive Anna Rolli, "Rotem emigrò in terra d'Israele dove il lavoro e l'impegno quotidiano per lo sviluppo economico della patria degli ebrei rappresenteranno anche per lui l'unica 'cura' possibile".
"E' il rovesciamento delle vittime di ieri, l'attrazione per le vittime che si fanno carnefici", ci dice Meghnagi. "Edelman rimase fino all'ultimo a custodire le tombe degli amici a Varsavia e c'è stato il tentativo ben riuscito di usarlo in chiave antisraeliana. E' il volto del nuovo antisemitismo, in cui concorrono molti fattori: il sovietismo culturale degli anni Sessanta, il terzomondismo che ha fatto di Israele il ricettore di tutta l'ostilità antioccidentale, il panarabismo che scaricava su Israele tutti i fallimenti del mondo arabo, e la nuova variante antisemita, che intende trasformare Israele nell'ebreo delle nazioni".
La grande lezione di Rotem è che uscendo dai sotterranei di via Mila, la roccaforte della rivolta ebrica di Varsavia, si sbuca nell'Israele del 2014.
(Il Foglio, 2 ottobre 2014)
Sì, sono un colono israeliano
Lo sono. Vivo in una città situata oltre la "Linea Verde", per essa intendendosi una linea sulla mappa esistita per 19 anni dopo la guerra scatenataci contro da cinque potenze arabe, il cui obiettivo era di distruggere lo stato di Israele ancor prima che nascesse. Non ci sono riusciti: hanno perso. Hanno iniziato a piagnucolare; e il mondo, la Sinistra e gli orbi hanno concluso che meritassero una seconda opportunità: e gliel'hanno concessa.
Nel 1956, quando ci attaccarono nuovamente. E poi ancora nel 1967, quando avviarono una marcia per chiudere lo Stretto di Tiran, mobilitando i loro eserciti verso i nostri confini. E di nuovo nel 1973, quando ci aggredirono in occasione del giorno più sacro del calendario ebraico. Ogni anno, ogni mese e talvolta ogni giorno cercano di replicare ciò in cui non sono riusciti dal 1948 in poi.
Gli obiettivi non sono mai mutati: solo i metodi, e le convinzioni di troppi israeliani, che sono talmente ansiosi di cessare questo conflitto da abbandonarsi al delirio. E così facendo deludono essi stessi, mettono in pericolo l'intero Israele, pensando che tutto questo dipende dagli insediamenti. Non è così: non lo è mai stato dal primo istante successivo alla fine della Guerra dei Sei Giorni, ne' prima e neanche dopo....
(Il Borghesino, 2 ottobre 2014)
L'araba Etihad toglie i jet Alitalia a Israele
Il progetto: riportare la manutenzione a Roma. Adesso viene eseguita dalla Bedek a Tel Aviv. Boeing 777 e Airbus 330 verranno revisionati da Atitech a Fiumicino. Duecento «esuberi» verrebbero riassorbiti nelle nuove mansioni.
di Alessandra Zavatta
Arrivano gli arabi di Etihad, se ne vanno gli israeliani di Bedek. E duecento operai che Alitalia licenzierà potranno tornare a Fiumicino. Perché la manutenzione per gli aerei impiegati sul lungo raggio, Boeing 777 e Airbus 330, traslocherà da Tel Aviv a Roma. La farà Atitech, la società partecipata da Alitalia e Meridie che attualmente si occupa della revisione dei velivoli di corto e medio raggio della compagnia nello scalo napoletano di Capodichino.
Il piano industriale che porterà la compagnia aerea italiana alla piena integrazione con Etihad Airways al carissimo prezzo di 2251 licenziamenti, pare sia destinata a produrre a breve una rivoluzione positiva negli hangar. Con la nascita di Cai, il 13 gennaio 2009, i capannoni nell'Area tecnica del Leonardo da Vinci erano stati in gran parte chiusi. Serrato l'hangar-simbolo dell'aeroporto, quello dove ai tempi d'oro veniva effettuata la verniciatura dei jet tricolore. Svuotati delle attrezzature pure altri due hangar. La revisione dei carrelli «passata» alla parigina Safran dopo l'ingresso nel capitale di Air France. La manutenzione pesante per i velivoli di lungo raggio (quelli che effettuano le rotte intercontinentali) trasferita all'israeliana Bedek. Tutto per risparmiare. «Risparmio» di cui ora si discute. Tra i «consigli» elargiti da Etihad a Cai sembra ci sia stato anche quello di riportare la revisione per i jet del lungo raggio da Tel Aviv a Roma. Perché sui voli intercontinentali la società di Abu Dhabi vuole puntare. E, quindi, vuole avere il pieno controllo e la sicurezza che il lavoro sia ben fatto. «Da anni denunciamo errori sulla manutenzione condotta all'estero - afferma Daniele Cofani, sindacalista Cub Trasporti - Ogni volta che un aereo torna, dobbiamo «ripassarlo» per vedere se ci sono anomalie. E ne troviamo: a volte di lievi, altre più gravi e che potrebbero pregiudicare la sicurezza del volo. Riportare a Fiumicino la manutenzione finita in un paese extracomunitario è positivo, occorre però valutarne i riflessi sui lavoratori italiani». Per revisionare i B777 e gli A330 ora spediti in Israele verranno impiegati 200 dei 386 operai, tecnici e ingegneri inseriti tra gli esuberi nel piano industriale messo a punto da Alitalia in vista del matrimonio con Etihad. A fine novembre inizieranno i corsi di riqualificazione. «Dovrebbero iniziare a lavorare a gennaio, ma verrà cancellata l'anzianità di servizio e i livelli conquistati», chiarisce Cub Trasporti. E dopo i sopralluoghi effettuati nei giorni scorsi da manager Atitech al Leonardo da Vinci, ora arriva la conferma di Gianni Lettieri, patron di Meridie: «Stiamo discutendo con Alitalia un accordo per effettuare la manutenzione degli aerei a lungo raggio a Fiumicino. Se ci riusciremo sarà una grande opportunità anche per Capodichino, perché se faremo un buon lavoro ci saranno ricadute sulle facilities napoletane, dove potremo lavorare anche per le controllate di Etihad come Air Berlin, che è già presente nello scalo». Per revisionare Boeing e Airbus impiegati sulle rotte per l'America, l'Asia e l'Africa verranno riaperti gli hangar Avio 6 e Avio 7, i più grandi del Leonardo da Vinci, quelli dove un tempo venivano manutenuti i jumbo.
Nessuna conferma ufficiale ma qualche «avance» in privato anche per Alitalia Maintenace Systems, che nello scalo romano si occupa della revisione dei motori. La società, è partecipata da Alitalia al 15%, mentre Bedek detiene il 19% del capitale e Iniziativa Prima il 66%. Da novembre 2013 è in concordato ed è a un passo dalla chiusura. Dei 316 dipendenti negli hangar ne sono rimasti 104. Atitech e un fondo di investimento mediorientale avrebbero dimostrato interesse per Ams che, ai motori Alitalia, affianca commesse per Kuwait Airlines e Midex, compagnia charter e cargo degli Emirati Arabi. L'intervento della società partenopea non dispiace ai sindacati. «È positivo l'arrivo di qualsiasi azienda possa garantire un futuro duraturo», sottolinea Fabio Ceccalupo, delegato Ugl. «Auspichiamo che i nuovi partner arabi di Alitalia possano rivolgere il proprio interesse verso l'officina motori», incalza la Cisl.
(Il Tempo, 2 ottobre 2014)
Roma - Il coraggio di Vera Bazzini, da oggi nel libro dei Giusti
di Rachel Silvera
"Cara signora Bazzini-Giorgi, siamo lieti di annunciarle che la Commissione per la designazione dei Giusti ha deciso di conferire il riconoscimento di Giusto tra le Nazioni ai suoi genitori scomparsi Eteocle e Adele, a suo cugino Nello Giorgi (scomparso anch'esso) e a lei per l'aiuto profuso nei confronti di persone ebree durante l'Olocausto, mettendo a rischio la vostra stessa vita". Così lo Yad Vashem ha riconosciuto il coraggio di Vera Bazzini, la donna che settant'anni fa salvò Dario Tedeschi, la sorella Lucilla, i genitori Oscar e Elena e che oggi verrà celebrata al Centro Bibliografico dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane "Tullia Zevi" alle ore 16.30.
È il 1943 quando Oscar Tedeschi, dopo essere stato licenziato per motivi 'razziali' dalla banca nella quale lavorava ed aver continuato segretamente a fare consulenze presso diverse aziende, si ritrova senza un rifugio sicuro e con una famiglia sulle spalle. A questo punto Vera Bazzini, 25 anni, impiegata della Sartoria Cifonella (alla quale Oscar faceva consulenza contabile), si offre di ospitare la famiglia Tedeschi. I genitori di Vera sono consenzienti ed incuranti del pericolo imminente fanno spazio ai nuovi quattro componenti della casa. "In precedenza non avevamo alcun particolare legame con lei. La signorina Bazzini aveva incontrato casualmente mio padre in una delle tante riunioni aziendali", ricorda Dario Tedeschi, che si è battuto per vederle conferire il titolo di Giusta. "Quella di Vera e della sua famiglia, tra i quali spicca il cugino Nello, è stata una pura scelta morale". I Bazzini-Giorgi ancor prima di mettere la famiglia Tedeschi in condizioni di 'dover chiedere', provvedono ai loro bisogni: in accordo con il portiere escono di notte per prendere dalla loro abitazione abbandonata alcuni averi, fanno da tramite per portare notizie riguardo gli altri parenti, nascosti in diversi rifugi.
Dario Tedeschi scrive nella testimonianza inviata allo Yad Vashem: "Nessun corrispettivo fu mai chiesto o pagato per la protezione e la ospitalità che ricevemmo, alla quale penso che i nostri soccorritori si sentissero spinti in quanto motivati da grande religiosità e da profondi sentimenti di solidarietà umana. Furono adottate tutte le possibili precauzioni perché la nostra presenza (di ben 4 persone, tra cui 2 ragazzi) non desse nell'occhio: dopo la retata del 16 ottobre fu deciso di rimanere tutto il giorno in casa; solo talvolta uscivamo a sera inoltrata, con il buio dovuto all'oscuramento, per un breve giro nei dintorni. Tuttavia, dopo qualche tempo cominciarono ad essere percepiti segnali che nel vicinato qualcosa era trapelato, tanto che alla fine di dicembre 1943, in concomitanza anche con l'obbligo imposto dall'occupante tedesco di esporre, all'esterno di ciascuna abitazione, un cartello con la indicazione delle generalità di tutti coloro che vi risiedevano, si considerò prudente e indifferibile cautela un cambiamento di alloggio". Quando viene imposto a tutti i cittadini di dichiarare il numero di persone per abitazione, la stessa Vera decide di non abbandonare la famiglia Tedeschi e vaga per Roma in cerca di un luogo sicuro nel quale trasferirli, fino a trovare il Convento di Suore in Via dei Santi Quattro Coronati.
"Anche dopo il nostro trasferimento nel nuovo rifugio, Vera Bazzini e il cugino Nello Giorgi non ci lasciarono soli e mai ci fecero mancare la loro presenza e il la loro amicizia, venendoci frequentemente a trovare, ora l'uno e ora l'altra", un'amicizia e un legame che è durato e dura ancora. "Adele, Eteocle, Nello e Vera si sono esposti al pericolo per noi, prevenivano qualsiasi tipo di nostra richiesta e soprattutto ci hanno dato calore umano". Un calore umano nel gelido autunno del 1943.
(moked, 2 ottobre 2014)
«Maradona ct con la kefiah». Ma chi paga per i palestinesi?
di Francesco Battistini
Il corazón batte a tutt'e due: ai palestinesi quando vedono Maradona e a Maradona quando gli regalano una keflah. E da anni loro ci provano a ingaggiarlo: citi della nazionale di calcio. Stavolta lo riscrivono un po' di giomali arabi e russi. Citando l'ex capo della sicurezza di Arafat, Jibril Rajub, che oggi fa il presidente della federcalcio palestinese ed è convinto (come contraddirlo?) che dare un Pibe al popolo ormai sia più facile che dargli uno Stato. Nel 2011 girarono le voci sicure d'un ingaggio di Dieguito a Ramallah e un gruppetto d'esuli andò ad aspettarlo fuori dall'albergo di Dubai dove lui faceva l'allenatore, inkefiandolo. La Mano di Dio fece la V con le dita, disse d'essere «il vostre tifoso numero uno, sono cresciuto lottando contro l'ingiustizia» ma alla fine, don't cry for me Palestina, smentì tutto. Motivo? I soldi. L'Autorità palestinese vive d'aiuti Internazionali: complicato, spiegare ai donatori arabi e europei l'uso di fondi destinati a cose più urgenti del pallone. Tre anni dopo, nonostante Abu Mazen non paghi i dipendenti da tre mesi, dicono che la barriera finanziaria sarebbe perforabile: allenatore solo fino a gennaio, per la Confederation Cup asiatica. O mamma mamma mamma, tutti innamorati son. A patto che Maradona venga gratis. Se no, chi paga?
(Corriere della Sera, 2 ottobre 2014)
Presso la Sinagoga Scolanova di Trani Yom Kippur
Yom kippur 5775 a Trani
Come da 10 anni a questa parte gli ebrei di Puglia, Calabria e Sicilia si ritroveranno dal pomeriggio di venerdì 3 ottobre al tramonto di sabato 4 ottobre presso la Sinagoga Scolanova di Trani per Yom Kippur (Giorno del Perdono) dell'anno ebraico 5775 (2014 - 2015).
Le tefilloth (preghiere) saranno tenute dal Maskil Marco Dell'Ariccia secondo il seguenti orari:
venerdi 3 ottobre alle 18:20 Kol Nidrè e Arvit,
sabato 4 ottobre ore 8:40 Shachrit, ore 12:10 Musaf, ore 15:10 Minchà,
ore 17,25 Izkor, Commemorazione dei defunti, ore 17,55 Neilà, ore 19,15 Shofar.
A Trani il digiuno termina alle 19:28 di sabato 4 ottobre.
Yom Kippur è un Giorno totalmente dedicato alla preghiera, in quelle ore secondo la tradizione Iddio Giudice Supremo suggella il Suo giudizio nei confronti dell'uomo e lo fissa nel Libro della Vita.
Kippur è giorno di paralisi per Israele e per la Diaspora ebraica; alle 2 di pomeriggio del Yom Kippur 1973, mentre i soldati dello Stato ebraico erano nelle sinagoghe o a casa, carri armati siriani ed egiziani sfondavano le linee difensive israeliane sulle Alture del Golan e nella penisola del Sinai.
Israele rimase paralizzato dalla sorpresa e dal panico, il generale Moshe Dayan pensò addirittura di richiamare alle armi gli studenti, passarono giorni prima che l'esercito della Stella di David riprendesse la situazione sotto controllo; i Paesi arabi profanarono il Kippur ebraico ma violarono anche il Ramadan musulmano giunto al decimo giorno, cosa che gli ebrei si sono sempre ben guardati dal fare.
Kippur è il giorno più sacro e solenne del calendario ebraico e cade il 10 del mese di Tishri, primo mese del calendario ebraico.
È giorno di digiuno totale in cui ci si astiene dal mangiare, dal bere, da qualsiasi lavoro o divertimento.
La liturgia è molto particolare e inizia al vespro di venerdì con la preghiera del Kol Nidrè, nella quale si chiede che vengano sciolti tutti i voti e le promesse non mantenute durante l'anno; continua con le preghiere per l'intera giornata successiva e viene conclusa dal suono dello Shofàr, un corno di montone che viene suonato in una sequenza di suoni lunghi o singhiozzati.
I Maestri insegnano che durante il suono dello Shofàr le porte del Cielo sono per chiudersi e i destini di ogni essere umano segnati per l'anno a venire, essi insegnano altresì che lo Shofàr che si suona nelle sinagoghe a Kippur appartenga al montone che il patriarca Abramo sacrificò in luogo di suo figlio Isacco, inizio della civiltà mediterranea e del monoteismo, l'altro corno sarà suonato alla fine dei tempi a Gerusalemme.
La Comunità ebraica di Trani
(TraniNews, 1 ottobre 2014)
Nell'Europa dell'antisemitismo
Le settimane di guerra a Gaza hanno messo a nudo un fenomeno che accomuna Parigi e Londra, Berlino e Stoccolma: dalle violenze verbali agli atti di vandalismo fino a vere e proprie aggressioni fisiche, l'Europa è attraversata da rigurgiti di antisemitismo.
In Germania, dove vivono circa 100.000 ebrei, le aggressioni antisemite sono in aumento. Solo a luglio, il governo di Berlino ha contato 131 episodi del genere. Le comunità ebraiche chiedono protezione. La guerra a Gaza ha alimentato i sentimenti antisemiti che serpeggiano in Germania, ma non li ha generati da zero. La BBC ha scritto che in molte comunità ebraiche c'è una paura che deriva soprattutto dal fatto di percepire l'antisemitismo come sentimento socialmente accettabile.
Solo un paio di settimane fa, durante una grande manifestazione contro l'antisemitismo a Berlino, Angela Merkel parlava così: "È dovere di ogni tedesco fare qualcosa" di fronte a questo fenomeno. "È legittimo criticare le azioni di un governo, sia esso il nostro o quello di Israele" ha proseguito Merkel, "ma se questo viene utilizzato come copertura per il proprio odio nei confronti di altre persone, nei confronti del popolo ebraico, allora si tratta di un uso sbagliato della nostra libertà di opinione".
Si passa il confine e si arriva in Francia, dove vivono circa mezzo milione di ebrei. Lì la situazione ha molti punti in comune con quella tedesca. Secondo Haim Korsia, Gran Rabbino di Francia, il governo di Parigi ha reagito con forza all'aumento degli atti antisemiti nel paese, ma ciò che preoccupa è l'apparente indifferenza della società.
Nel corso dell'estate, durante le manifestazioni contro la guerra a Gaza, per le strade di Francia si potevano sentire slogan come 'morte agli ebrei'. Nei primi mesi dell'anno le autorità transalpine hanno calcolato che gli atti antisemiti e le minacce contro gli ebrei sono praticamente raddoppiati rispetto allo stesso periodo del 2013.
A Londra a fine agosto c'è stata una manifestazione di protesta contro l'aumento degli episodi di antisemitismo. L'organizzazione ebraica Community Security Trust ha contato nel mese di luglio 240 episodi del genere, cinque volte la media mensile: dalle minacce verbali alle aggressioni. Nel primi sei mesi del 2014 c'è stata una crescita del 36 per cento rispetto allo spesso periodo dell'anno precedente.
In Svezia, in primavera l'aumento degli episodi di violenza antisemita ha spinto il Congresso ebraico mondiale (una federazione che riunisce organizzazioni e comunità ebraiche in tutto il mondo) a chiedere al governo di Stoccolma più sforzi per assicurare protezione ai siti ebraici. Scuole, moschee, centri culturali. A volte svastiche con lo spray, altre volte atti vandalici più gravi: nei mesi scorsi l' Agenzia Ue per i diritti fondamentali ha calcolato che il 18 per cento degli ebrei in Svezia non si sente al sicuro.
In Europa, il 40 per cento degli ebrei confessa di tenere nascosta la propria fede, secondo una ricerca condotta dal Centro rabbinico europeo e dall'European Jewish Association. L'Anti-Defamation League (gruppo che combatte la diffamazione nei confronti degli ebrei, fondato nel 1913 negli Usa) ha condotto un'indagine secondo la quale il 24 per cento dei cittadini europei nutre sentimenti antisemiti.
(Termometro Politico, 1 ottobre 2014)
Il primo tempio alla Luna fu la Collina delle Pietre
Scoperta in Israele: megastruttura più antica di Stonehenge e delle piramidi egizie.
di Gabriele Beccaria
E' lo sguardo a cambiare le cose. E così quello che è stato a lungo considerato il frammento di un antico muro di cinta, da sempre trascurato, si è trasformato di colpo in una meraviglia archeologica: uno dei monumenti più antichi dell'umanità, anteriore a Stonehenge e alle piramidi egizie.
Risalente a oltre 5 mila anni fa, si è finalmente svelato dopo una serie di rilievi. È una collina artificiale di pietre e sassi, modellata come una luna crescente: lunga più di un campo di calcio, 150 metri, larga una ventina e alta sette, ha una massa di oltre 14 mila metri cubi. Emerge nella sua muta maestosità a una trentina di chilometri dalla cittadina israeliana di Bet Yerah ed è merito di un giovane archeologo della Hebrew University di Gerusalemme - Ido Wachtel - se ora può ricominciare a comunicare i propri messaggi ancestrali, dopo un silenzio millenario.
«Doveva rappresentare un simbolo grandioso, immerso nel paesaggio naturale, probabilmente per affermare un principio d'autorità», teorizza Wachtel. In parole più semplici, una rappresentazione terrestre delle influenze della Luna, adorata come una divinità ultrapotente in tutta la Mesopotamia (e non solo). Con il nome semitico di Nin e con quello sumerico di Nanna, entità distinte, destinate a fondersi durante l'impero accadico.
A conferma del ruolo-chiave di questo culto, in una delle città più antiche del mondo, la mitica Ur, tra 2600 e 2400 a.C., la luna-Sin era adorata come il vertice scintillante di un ampio pantheon. Sin era niente meno che «creatrice di tutte le cose e degli dei», oltre che personificazione della saggezza suprema, la quale equivaleva all'astronomia: il sapere esoterico, appunto, con cui diventava possibile l'osservazione dei cieli, dai movimenti stellari ai cicli lunari. E - ricorda Wachtel - non è casuale che la stessa Bet Yerah sia un insediamento molto antico, già attivo nell'Età del Bronzo, e che diede vita a una delle città-fortezza più estese dell'attuale Medio Oriente. Il suo nome - rivelano le ultime interpretazioni - doveva significare in origine «Casa del Dio Luna».
La città era forse un centro cerimoniale strategico, capace di coinvolgere tribù e popolazioni di una vasta area? Di sicuro nella zona stanno emergendo sorprendenti strutture megalitiche. Per esempio quella di Rujum el-Hiri: un tumulo gigante, circondato da quattro anelli concentrici. Ancora tutto da decifrare. La collina a forma di luna crescente si estende per 150 metri.
(La Stampa, 1 ottobre 2014)
5 ottobre - Giornata Mondiale di Preghiera per la Pace di Gerusalemme
Come ogni anno nella prima domenica di ottobre (quest'anno proprio dopo lo Yom Kippur) si tiene a livello mondiale la ricorrenza della Giornata Mondiale di Preghiera per la Pace di Gerusalemme.
Gli organizzatori quest'anno hanno l'obiettivo di essere presenti in 175 nazioni e in 200.000 chiese per raggiungere 500 milioni di credenti evangelici da coinvolgere nello stesso giorno a pregare per la Pace di Gerusalemme (Salmo 122).
I dettagli per la registrazione si trovano nel sito The Day of Prayer for the Peace of Jerusalem in cui ci si può registrare personalmente o come chiesa.
EDIPI come ogni anno collabora in questa iniziativa con tutti i soci coinvolgendoli nella congregazioni di appartenenza.
(EDIPI, 1 ottobre 2014)
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