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Notizie 1-15 gennaio 2015


Raccolta di progetti di ricerca congiunti Italia - Israele

Pubblicato un bando per la raccolta di progetti congiunti di ricerca per l'anno 2015, sulla base dell'accordo di cooperazione nel campo della ricerca e dello sviluppo industriale, scientifico e tecnologico tra Italia e Israele.

Nell'ambito delle attività previste dall'Accordo di Cooperazione nel Campo della Ricerca e dello Sviluppo Industriale, Scientifico e Tecnologico tra Italia e Israele, è stato pubblicato un bando per la raccolta di progetti congiunti di ricerca per l'anno 2015. I progetti di Ricerca e Sviluppo congiunti italo-israeliani possono essere presentati, nelle seguenti aree: medicina, biotecnologie, salute pubblica e organizzazione ospedaliera; agricoltura e scienze dell'alimentazione; applicazioni dell'informatica nella formazione e nella ricerca scientifica; ambiente, trattamento delle acque; nuove fonti di energia, alternative al petrolio e sfruttamento delle risorse naturali innovazioni dei processi produttivi; tecnologie dell'informazione, comunicazioni di dati, software, sicurezza cibernetica; spazio e osservazioni della terra; qualunque altro settore di reciproco interesse. Possono presentare progetti: in qualità di Partner Israeliano: una società di Ricerca e Sviluppo, che trarrà i propri profitti dalla vendita dei prodotti/servizi sviluppati nel corso della realizzazione del progetto. Il Partner Israeliano potrà essere assistito, per gli aspetti tecnologici e scientifici, da un soggetto non industriale,

(Finanziamenti News, 15 gennaio 2015)


Scritte antisemite ad Agrigento? Indagano i poliziotti della Digos

La scoperta è avvenuta sulla parete di un palazzo di via Porta di Mare dove ignoti hanno scritto "Boycott Israel", messaggio accompagnato da una svastica e una stella di David. In realtà si tratterebbe di un movimento politico di rivendicazione dei diritti palestinesi che affonda le radici nel lontano 2005: una campagna contro "il colonialismo israeliano".

 
A pochi giorni dai tragici fatti che hanno interessato Parigi, dopo l'attentato al giornale satirico "Charlie Hebdo", che ancora scuotono e tengono allerta il mondo intero, ad Agrigento sono comparse scritte dal contenuto antisemita. La scoperta è avvenuta sulla parete di un palazzo di via Porta di Mare dove ignoti, questa notte, hanno scritto "Boycott Israel", messaggio accompagnato da una svastica e una stella di David. Sulla vicenda stanno indagando gli uomini della Digos della Questura di Agrigento, guidati da Patrizia Pagano.
In realtà, lo appureranno gli inquirenti, si potrebbe trattarsi di un riferimento a un movimento politico di rivendicazione dei diritti palestinesi che affonda le radici nel lontano 2005: una campagna contro "il colonialismo israeliano", che si pone come obiettivi di porre termine all'occupazione e alla colonizzazione di tutte le terre arabe e smantellare il Muro, riconoscere i diritti fondamentali dei cittadini Arabo-Palestinesi di Israele alla piena uguaglianza, rispettare i diritti dei profughi palestinesi al ritorno nelle loro case e nelle loro terre come stabilito nella risoluzione 194 dell'Onu.
Anche se la svastica affiancata alla scritta qualche dubbio lo fa sorgere.

(AgrigentoNotizie, 16 gennaio 2015)


Gli ebrei di Roma dopo i fatti di Charlie Hebdo: noi non torniamo in Israele

ROMA - Il fenomeno della 'alyà', termine che si traduce con 'salita' ma con cui si intende il ritorno degli ebrei in Israele dalle nazioni europee, interessa l'Italia ormai da un paio di anni in modo consistente. A differenza della Francia, però, gli ebrei italiani non decidono di tornare in Israele per paura di attentati o per antisemitismo, ma per motivi differenti, legati principlamente alla ricerca di lavoro". E' quanto afferma il portavoce della Comunità ebraica di Roma, Fabio Perugia, raggiunto telefonicamente dall'agenzia di stampa Dire.
   Nei giorni successivi agli attentati di Parigi, che hanno coinvolto anche gli ebrei transalpini a causa dell'assalto al supermarket kosher 'Hyper Cacher', dalla Francia giungono notizie relative ad un cospicuo numero di ebrei intenzionati a lasciare il Paese per tornare in Israele. A Roma e in Italia può succedere la stessa cosa? "Nonostante i fenomeni di antisemitismo e gli ultimi fatti di Parigi gli ebrei italiani non fuggono dall'Italia" spiega Perugia.
   "Viviamo questi momenti con apprensione - prosegue il portavoce della Comunità ebraica romana - Attorno a noi le Prefetture hanno alzato i livelli di sicurezza. Ma noi siamo legati al nostro Paese e sappiamo che gli italiani sono moderati. Gli ebrei romani vivono in città da 2.200 anni circa e difficilmente potranno stradicare le loro radici così profonde. Israele è nel nostro cuore ma l'Italia non si può cancellare".
   "Il problema è il lavoro - conclude Perugia - gli ebrei romani che scelgono il trasferimento in Israele lo stanno facendo principalmente per due motivi: quelli più anziani a causa della crisi economica, soprattuto gli adulti che hanno perso un lavoro magari legato agli antichi mestieri che stanno morendo. E poi ci sono i giovani che vanno a studiare nelle università israeliane, tra le migliori al mondo".

(Agenzia Dire, www.dire.it, 15 gennaio 2015)


Je ne suis plus. Basta, da oggi tomo a non essere Charlie

La libertà d'espressione non si tocca. Ciò non toglie che quel giornale incarni il peggio del nichilismo di sinistra che disprezza l'Occidente. E' proprio dentro questa cultura anarchica, distruttiva e blasfema che si annida il motivo vero dell'indebolimento della nostra società.

di Mario Giordano

Scusate, ma devo dire una cosa un po' difficile, forse persino un po' dolorosa. Anche per me stesso. Però devo dirvela: è da stamattina che non mi sento più tanto Charlie. Anzi, proprio per nulla. Te ne suis pas Charlie. Te ne suis plus Charlie. Ne ho avuto la netta sensazione sfogliando il nuovo numero del settimanale satirico francese appena arrivato in edicola. Guardavo le pagine, diventate loro malgrado il simbolo della nostra civiltà offesa, e pensavo: ma possono essere davvero il simbolo della nostra civiltà offesa? Abbiate pazienza, ma io in quelle vignette non mi riconosco. Nemmeno un po'. Anzi, al contrario: penso che qui dentro, dentro questi fogli della sinistra sessantottarda, dentro questa cultura anarchica e distruttiva, dentro questi schizzi blasfemi che fanno a pezzi i nostri valori, dentro gli sberleffi che mettono alla berlina i nostri credi, ci sia il motivo vero della debolezza occidentale. Il motivo per cui siamo in balia di un nemico così terribile come quello islamico.
   Sia chiaro: da questo nemico terribile Charlie Hebdo va difeso con ogni mezzo perché dobbiamo salvare la libertà di espressione. Ed è stato giusto, per una settimana, essere diventati tutti Charlìe, con quello slogan che ha riempito le piazze, Je suis Charlie, Nous sommes Charlie ... Ma un conto è difendere la libertà di esprimersi, un conto è difendere ciò che viene espresso: la differenza, ne converrete, non è nemmeno così sottile. Siamo pronti alla battaglia per garantire la libertà di Charlie Hebdo di disegnare e scrivere ciò che vuole. Ma allo stesso modo dobbiamo essere liberi di dire che quello che Charlie Hebdo disegna e scrive non ci piace. Nemmeno un po'.
   Perché Charlie Hebdo incarna in sé il peggio del nichilismo post-Sessantotto, il peggio del gauchisme radicalnullìsta, il peggio della rivoluzione permanente ed effettiva. Si sono messi contro gli islamici perché amano da sempre mettersi contro tutto: contro gli ebrei, contro i cattolici, contro la Patria, contro l'esercito, contro le istituzioni, contro la famiglia, contro l'ordine, contro la sicurezza, contro la polizia, contro il commercio, contro le imprese, contro l'idea stessa di nazione e contro ogni Dio. Amano, cioè, mettersi contro tutto quello che costituisce il fondamento stesso di questa società occidentale, che pure oggi li difende a spada tratta. Ma da cui loro - ne siamo sicuri - continuano a sentirsi estranei. Anzi: avversari. Perché, diciamocela tutta, questa società occidentale che li difende a spada tratta a loro fa un po' schifo.
   E allora Je suis Charlie, sicuro, fin che devo difendere il diritto di questi colleghi a dire la loro opinione. Ma Je ne suis plus Charlie se devono identificarmi con loro, che bestemmiano Dio, insultano le tradizioni, e usano il sacrosanto diritto di opinione per minare la società che glielo garantisce. Dunque, da oggi, visto che il settimanale è di nuovo uscito, scusate ma Je ne suis plus Charlie. Je ne suis plus Charlie perché non voglio e non posso accettare che i simboli della nostra società attaccata dal terrore islamica diventino proprio coloro che la nostra società la odiano. Coloro che la vorrebbero abbattere. E che la mettono in pericolo ogni giorno attaccandola nei suoi valori fondamentali. Se, in questa battaglia, dobbiamo metterei in fila dietro una bandiera, mi piacerebbe che essa fosse la bandiera della libertà dell'Occidente. Non un foglio che l'Occidente, al contrario, lo disprezza.
   Invece si sta compiendo proprio questo. Un po' per interesse (operazione Hollande), un po' per soggezione culturale (la predominanza della sinistra), alla fine la difesa dell'Europa colpita al cuore si è trasformata nella difesa tout court dei contenuti (assai discutibili) di una rivista. Fateci caso: anche se nella carneficina di Parigi sono morti agenti, ebrei, custodi di palazzo, alla fine tutto si riduce al simbolo di Charlie Hebdo. Al suo messaggio irresponsabile e irriverente. Questo è l'errore fondamentale. Perché non dobbiamo dimenticare che nella guerra contro il fondamentalismo islamico la loro forza è la nostra debolezza. Se loro osano alzare le armi contro di noi è perché noi siamo in ginocchio, se credono di poterei sottomettere ai loro valori è perché noi abbiamo rinunciato ai nostri, se ritengono di poterei imporre le loro tradizioni è perché noi abbiamo rinunciato alle nostre. E di questa rinuncia il settimanale francese è la dimostrazione più lampante. Perciò, dopo essere stato per una settimana Cabu, Charb, Wolinski, Tignous, da oggi mi sento in dovere di dirvi: maintenenat non plus. Ora non più. Per difenderci davvero non possiamo essere Charlie.

(Libero, 15 gennaio 2015)


I contenuti di quella rivista satirica sono semplicemente disgustosi e deleteri per il vivere civile. Gli spazi di libertà personale devono esserci, ma non è indifferente il modo in cui vengono occupati. M.C.


Israele è il vero scudo dell'Occidente

Lettera al Giornale

Questo popolo, da sempre oppresso, vilipeso, straziato, umiliato, annichilito e dove possibile annientato, resta l'unico diaframma tra noi e i musulmani. Senza di loro, senza questo prezioso baluardo noi avremmo le ore contate, continuando col farci ammazzare opponendo al terrorismo islamico le nostre penose e inconsistenti sfilate di piazza con fiaccole e cartelli inneggianti al nulla assoluto e alla nostra incapacità di opporre una benché minima difesa. Israele non scende in piazza a fare processioni, risponde pane al pane. Per questo motivo i terroristi islamici odiano questo popolo che evitando di farsi sterminare impedisce loro di distruggere la nostra civiltà. Non è un caso che l'attentato alla redazione di Charlie Hebdo sia avvenuto in un Paese dove da sempre gli ebrei non vengono sufficientemente tutelati nel loro fondamentale diritto alla sopravvivenza. Purtroppo per noi ogni Paese ha i propri imbecilli che senza saperne e capirne di storia e di umanità continuano a prendersela con il popolo ebraico, non capendo che così facendo condannano a morte loro stessi e le loro famiglie.
Ester Livretti

(il Giornale, 15 gennaio 2015)


Naor Gilon, ambasciatore israeliano a Roma: "Italia non riconosca lo Stato di Palestina"

di Giulia Belardelli, Umberto De Giovannangeli

Naor Gilon, Ambasciatore d'Israele a Roma
"Israele non ha alcuna intenzione di suicidarsi per far contento qualche leader europeo. Votare ora per il riconoscimento dello Stato di Palestina non potrebbe essere più sbagliato, per diverse ragioni. Spero che il Parlamento italiano non proceda con questo voto. Di Matteo Renzi ci fidiamo, è un amico di Israele. Ma bisogna tenere alta la guardia sulla tendenza dell'Europa a distinguere tra i terrorismi".
  Naor Gilon, ambasciatore israeliano a Roma, non risparmia critiche ai paesi europei che si sono già pronunciati a favore del riconoscimento dello Stato palestinese, discussione che - a meno di slittamenti - dovrebbe iniziare a Montecitorio questo venerdì. A sentirlo parlare si capisce come la pace, in Terra Santa, sia ancora molto lontana. "Di Abu Mazen non possiamo fidarci", dice Gilon in diversi passaggi di questa intervista. "Inizio a pensare che non sia una figura all'altezza del raggiungimento della pace. E Hamas? Vogliamo parlare di Hamas? Per noi, dal punto di vista ideologico, non c'è differenza tra Hamas, Isis e al Qaeda: quello che vogliono è il califfato, l'imposizione della shari?ah. Oggi più che mai, il popolo ebraico deve difendersi da un nuovo e insidioso tipo di antisemitismo".

- Negli ultimi mesi diversi Parlamenti europei - Gran Bretagna, Francia, Spagna, Belgio, Danimarca, Irlanda, Portogallo - si sono pronunciati per il riconoscimento dello Stato palestinese, scelta compiuta ufficialmente dal governo svedese. Come valuta questi pronunciamenti?
  Penso che passi di questo genere non siano costruttivi per il processo di pace, perché israeliani e palestinesi a Oslo hanno concordato sul fatto che i problemi sarebbero stati risolti tramite negoziati diretti. Ora i palestinesi stanno stravolgendo il concetto stesso di Oslo. Pensano sia possibile far arrivare qualcuno dall'esterno a imporre l'esito dei negoziati, senza pagare alcun prezzo. Inoltre, questi voti a favore del riconoscimento dello Stato palestinese sono delle affermazioni teoretiche, quasi delle promesse fatte ai palestinesi: "il mondo ci riconoscerà come Stato". Ma la praticabilità sul terreno è tutta un'altra storia. La verità è che i palestinesi devono venire a patti con Israele per avere uno Stato. Quindi, in un momento di massima tensione nel Medio Oriente, questi parlamenti non fanno altro che alzare le aspettative dei palestinesi, anche quando poi il risultato, probabilmente, sarà insoddisfacente - perché la vita quotidiana dei palestinesi, verosimilmente, non cambierà grazie ai pareri dei singoli parlamenti europei. Temo che la tensione che segna oggi il Medio Oriente e le relazioni israelo-palestinesi possa creare ulteriori problemi. Un altro aspetto riguarda il piano legale. La legge internazionale stabilisce che per creare uno Stato è necessario avere il controllo effettivo del territorio. Non so quale sia in Cisgiordania l'efficacia del controllo di Abu Mazen, ma penso che possiamo essere tutti d'accordo sul fatto che a Gaza non abbia alcun controllo effettivo. Penso che i voti europei non aiutino il processo di pace da nessun punto di vista, poiché non danno ad Abu Mazen alcuna motivazione per venire a parlare con noi.

- Il Parlamento italiano si appresta a discutere sul riconoscimento dello Stato di Palestina. Cosa si sente di dire ai parlamentari italiani alla vigilia di questa discussione storica? Una parte delle forze politiche, soprattutto sul versante del centrodestra, spinge per un rinvio della discussione perché considera il momento "inopportuno". Cosa ne pensa?
  Penso che il tempismo con cui si vorrebbe avviare ora una discussione su questi passi unilaterali dell'Europa non possa essere più sbagliato. Dobbiamo guardare a ciò che è appena successo a Parigi. Per molti ebrei, il messaggio che esce da Parigi è che l'Europa non è più un posto sicuro per gli ebrei. Ora parliamo di questi attacchi perché sono stati terribili, ma non bisogna dimenticare che gli ebrei in Francia vengono perseguitati ogni giorno, anche se non fa notizia. Gli ebrei sono bersagli costanti di un nuovo tipo di antisemitismo. Giorgio Napolitano è stato uno dei primi presidenti a mettere in guardia su questa nuova forma di antisemitismo. Spesso il nuovo antisemitismo si coniuga con posizioni anti-israeliane che mirano alla delegittimazione totale di Israele e del suo diritto di esistere. Il motore che c'è dietro è musulmano, ma ci vediamo anche una combinazione di elementi antisemiti dell'estrema destra e dell'estrema sinistra - probabilmente l'unica componente che hanno in comune.
Per noi ebrei - e parlo da figlio di un sopravvissuto all'Olocausto - Israele è l'unico posto sicuro al mondo. Non faremo mai nulla che metta a repentaglio questo posto. Se qualcuno dall'esterno pensa di poterci imporre qualsiasi tipo di soluzione che percepiamo come un suicidio - dopo che un terzo della nostra nazione è stato distrutto in Europa - si sta sbagliando di grosso. Gli ebrei oggi hanno Israele, hanno il loro esercito, sono pronti a combattere e a difendere le loro vite. Non commetteremo un suicidio per soddisfare le volontà politiche di alcune persone. Inoltre, il tempismo è terribilmente sbagliato anche dal punto di vista del ragionamento politico. Ora in Israele siamo in piena campagna elettorale. Fino a maggio, non ci sarà un governo effettivo. È come avere un unico proiettile e spararlo nel momento peggiore. L'obiettivo verrà mancato di sicuro.

- Eppure diversi parlamenti - dalla Gran Bretagna alla Francia - hanno fatto valutazioni diverse... Perché l'Italia non dovrebbe seguire questo trend?
  La maggior parte dei parlamenti europei non sta votando queste risoluzioni. Solo quattro o cinque nazioni si sono espresse in tal senso. La Germania, il paese oggi più potente in Europa, non lo ha fatto. Spero che il Parlamento italiano non si unisca a questa minoranza di parlamenti. Sarebbe un grande errore. Uno dei partiti che in Italia stanno spingendo molto questa mozione ha nel suo simbolo "Libertà" ed "Ecologia". Qual è l'unico paese in cui è possibile parlare di libertà nel Medio Oriente? Israele. Siamo l'unico paese aperto e liberale, dove le donne sono protagoniste attive della politica e dove può svolgersi un gay pride. E poi: "ecologia". Noi non sfruttiamo petrolio e gas naturali, siamo i produttori numero uno di tecnologie pulite. E chi è da biasimare? Noi, non Abu Mazen, che non è un leader democraticamente eletto. È un approccio sbilanciato di cui mi dispiaccio molto. Per fortuna, abbiamo tanti amici in Italia, tra cui la maggioranza del governo.

- Ecco, appunto, ci parli del premier Renzi. Le piace la sua leadership?
  Non voglio dare voti ai politici italiani. Conosco Matteo Renzi da molto tempo, penso che stia facendo bene all'Italia. Credo stia lavorando per ridare all'Italia il ruolo che le spetta. L'Italia è stata un paese leader dal punto di vista economico, industriale, culturale, e lo è ancora. Il potenziale è ancora tutto qui, anche se spesso viene offuscato dallo sconforto e dalla sfiducia. Ci sono problemi come la disoccupazione giovanile che devono essere risolti subito. E penso che Renzi stia davvero cercando di fare qualcosa di buono per il paese.

- Quali sono, per Israele, i passi necessari al raggiungimento della pace?
  Dovete capire che noi vogliamo la soluzione a due Stati. Da Oslo in poi, tutti i presidenti israeliani, incluso Benjamin Netanyahu, sperano nella soluzione dei due Stati. Noi vogliamo che si arrivi allo Stato palestinese, ma dobbiamo assicurarci che questo non diventi un'altra entità del terrore all'interno del Medio Oriente. Abbiamo già abbastanza entità del terrore attorno a noi. Dobbiamo essere sicuri che se creiamo uno Stato palestinese, esso sia forte, stabile e democratico. Sono almeno sei anni che non riusciamo ad avere dei negoziati seri con Abu Mazen; non è tornato al tavolo neanche durante i dieci mesi di congelamento degli insediamenti. Spesso ci sentiamo dire che questi pareri favorevoli non hanno un valore pratico, ma sono solo un modo di rafforzare Abu Mazen. Il punto è che ora Abu Mazen li sta utilizzando per andare alla Corte penale internazionale, ad esempio.

- Ottocento personalità israeliane, tra le quali premi Nobel e i più affermati scrittori, che certo non possono essere tacciate di essere filo-Hamas o peggio, hanno rivolto un appello all'Europa perché riconosca lo Stato di Palestina. C'è una ex ministra della Giustizia che non può essere considerata un'estremista di sinistra, la signora Livni, che ha abbandonato il governo dicendo: "questo governo è in mano ai coloni e ai loro rappresentanti nell'esecutivo", in particolare, come lei sa, il ministro dell'Economia Naftali Bennett. Questa parte di opinione pubblica israeliana è una nemica di Israele? E ancora: lei ha detto che Israele è ancora per una soluzione a due Stati. Ma dove dovrebbe nascere, secondo lei, uno Stato di Palestina, visto che una grande parte di Cisgiordania è ormai piena di insediamenti?
  Come sapete, Israele è un paese democratico, una società molto liberale e aperta, dove è possibile ascoltare tutte le opinioni del mondo, tra cui quelle delle 800 persone in questione - anche se a me risulta siano meno. A breve ci saranno delle elezioni: saranno gli elettori a decidere, e allora vedremo cosa vuole davvero l'opinione pubblica di Israele. Sono certo che la maggior parte degli israeliani, da sinistra a destra, sia contraria a questo approccio unilaterale. Quanto a Tzipi Livni, so per certo che anche lei è contraria a questa risoluzione unilaterale. Solo una minoranza la pensa diversamente, e questo è legittimo. Per ciò che concerne gli insediamenti, la situazione è molto diversa: tutti gli insediamenti che abbiamo, compresa Gerusalemme, coprono tra l'1,5 e il 2% del territorio. Inoltre, la maggior parte delle costruzioni che stiamo facendo sono comprese in ciò che chiamiamo "area di insediamento"; difficilmente costruiamo altrove.

- Quando nel 2005 Sharon decise di evacuare alcuni insediamenti in cui vivevano circa 11mila persone, l'attuale primo ministro Netanyahu - dello stesso partito di Sharon - gridò al tradimento da parte di Sharon, tanto è vero che l'allora primo ministro scisse il Likud e creò Kadima. Se per Israele evacuare da Gaza 11mila persone equivaleva a essere sull'orlo di una guerra civile, e un primo ministro di destra come era Sharon veniva definito un traditore, può spiegare all'opinione pubblica italiana ed europea come sia possibile evacuare, sulla base di un eventuale accordo di pace, 400mila persone?
  Innanzitutto a Gaza non c'è stata nessuna guerra civile; come in ogni paese democratico, abbiamo avuto delle divergenze d'opinione. Ci sono state delle elezioni, Kadima ha vinto e ha portato avanti la sua linea. Ora non si tratta di evacuare 400mila persone. Come ho detto prima, il numero di persone che non si trovano nell'area degli insediamenti è molto, molto minore. La maggior parte delle persone si trova a Gerusalemme e nell'area di insediamento. Non so dire il numero esatto, ma parliamo di non più di 100mila persone. La maggioranza vive in luoghi che da tempo si assume debbano rimanere di Israele. L'evacuazione dei coloni a Gaza non è stata facile, ma è stata fattibile. Lo avevamo già fatto anche nei Sinai.

- Non pensa che in futuro il problema per Israele, più che Mahmoud Abbas, possa diventare un signore di nome Abu Bakr al-Baghdadi? Lei sa che la società palestinese è comunque la società più pluralistica del mondo arabo, e presumibilmente uno Stato palestinese sarebbe uno Stato meno attratto dal fondamentalismo esasperato. Non crede che rinviando una negoziazione seria con l'attuale leadership palestinese il rischio sia che in Cisgiordania e a Gaza, invece di trovarvi di fronte ad al Fatah e Hamas, vi ritroviate i salafiti e l'Esercito islamico?
  Abu Mazen non ha alcuna legittimazione e non sta facendo nulla per il bene del popolo palestinese. L'unico che ha provato a fare qualcosa è stato Salam Fayyad, che ora è stato relegato in un angolo. Sto iniziando a pensare che Abu Mazen non sia una figura all'altezza del raggiungimento della pace. Certo, ci può essere di peggio - puoi avere al Qaeda, l'Isis o qualcos'altro - ma è necessario capire che le aspettative di pace con Abu Mazen stanno svanendo. Prendiamo ad esempio la questione dei rifugiati: qualche settimana fa Abu Mazen ha detto che ci sono sei milioni di rifugiati palestinesi che devono tornare nelle loro città. Se qualcuno parla con Israele in questi termini, è chiaro che non vuole la pace. Non si può pensare di fare due Stati, uno senza ebrei e l'altro (dove c'è già un 20% di palestinesi) in cui dovrebbero arrivare qualcosa come sei milioni di palestinesi. E stiamo parlando di dividere una regione più piccola della Sicilia. Sempre più spesso sulla stampa palestinese si leggono incitamenti a uccidere tutti gli ebrei, anche sul sito di al Fatah si vedono cose incredibili. Abu Mazen può anche essere il leader migliore, ma sto iniziando a dubitare che possa bastare per la pace. Il problema è che i palestinesi continuano a essere evasivi sulle due questioni più critiche per Israele: i rifugiati e la sicurezza. Su questi due argomenti non c'è mai chiarezza. Con Arafat l'impressione era quella dell'approccio "a salame". Con la prima fetta di salame, cerchi di ottenere da Israele quanto più possibile (i confini del 1967). Con la seconda fetta di salame, sfrutti gli strumenti della democrazia e della demografia per creare nel tempo, con i rifugiati, un secondo stato palestinese all'interno di Israele. Questa è la paura di Israele.

- Dopo gli attacchi di Parigi, l'Europa è entrata in contatto con una paura nuova e profonda. Pensa che questo possa in qualche modo avvicinare i paesi europei a Israele?
  Quando si parla di terrorismo, l'Europa fa differenziazioni del terrore. Il terrore contro Israele viene considerato un atto politico, e come tale un problema da giudicare in modo diverso. Quando il terrorismo è contro l'Europa, invece, si pensa che "oh, è terribile, questo è contro noi europei". In realtà, dal punto di vista ideologico, non c'è differenza tra Hamas, Isis e al Qaeda. Nel grande quadro, il califfato è nel loro orizzonte. Hanno metodi diversi, Hamas non decapita, lo stile è un altro, ma il modo di pensare è lo stesso. Dal nostro punto di vista, il terrore è sempre terrore. Sfortunatamente non tutti in Europa la pensano così. Hamas non vuole che Israele esista. È lo stesso concetto espresso da al Baghdadi quando dice che vuole conquistare Roma: "Qui avremo la shari'ah".

(L'Huffington Post, 15 gennaio 2015)


Non è un'Europa per noi

Il Vecchio continente rinuncia alla sua identità, abolisce le nazioni, entra nell'èra del post liberalismo multiculturale, lì dove tutto si equivale. Antisemiti e jihadisti ringraziano, la salvezza è a Gerusalemme.

di Natan Sharansky

Potenti correnti ideologiche sono al lavoro in Europa, e gli ebrei vivono una situazione sempre più precaria su questo Vecchio continente dove non si sentono più a casa loro. Si possono distinguere tre fenomeni, all'origine del loro sentimento di insicurezza: lo scacco dell'integrazione dei musulmani, il risorgere dell'antisemitismo di destra e le mutazioni del liberalismo politico europeo. Navigando nel relativismo culturale, i paesi europei rigettano oggi i particolarismi nazionali, non esigono più dai nuovi arrivati che
Avendo adottato una cultura "post identitaria", l'Europa diventa sempre più ostile all'idea di uno stato ebraico. Questa situazione mette gli ebrei di fronte a un dilemma profondo.
essi adottino le norme e i valori culturali della maggioranza e creano così un clima favorevole al terrorismo islamista. Avendo adottato una cultura "post identitaria", l'Europa diventa sempre più ostile all'idea di uno stato ebraico. Questa situazione mette gli ebrei di fronte a un dilemma profondo: preservare il loro attaccamento a Israele o unirsi al coro della critica europea, a detrimento della loro stessa identità.
Sotto certi aspetti, questo dilemma non è certo nuovo. Già alla fine del XVIII secolo, nel momento dell'emancipazione civile del giudaismo dell'Europa occidentale, quando i ghetti scomparvero, gli ebrei affrontarono una scelta analoga: vivere tra di loro, coinvolgendosi meno nella vita della città, convertirsi al cristianesimo e fondersi nella maggioranza, o ancora rinunciare alla loro identità di popolo e relegare la loro pratica religiosa alla sfera privata, secondo il principio formulato da Clermont-Tonnerre: "Bisogna rifiutare tutto agli ebrei come nazione e accordare tutto come individui".
  Molti ebrei hanno scelto quest'ultima opzione. Rispettando scrupolosamente le condizioni di questo patto, si sono ambientati nella nuova realtà. Quale che sia il loro grado di fede o di pratica religiosa, sono rimasti cittadini devoti alle rispettive nazioni, anche nei momenti di tensione.
  Nel tempo, la maggior parte degli ebrei europei ha fermamente difeso l'ideale liberale che fissava un'Europa dove i diritti dell'uomo erano al cuore della sua visione del progresso. Fu solo con l'affermazione del fascismo e del totalitarismo che questo mondo liberale è venuto giù come un castello di carte.
  La Seconda guerra mondiale e la Shoah hanno cambiato per sempre il destino della comunità ebraica mondiale. Il sionismo, all'inizio rifiutato da una gran parte dell'intellighenzia ebraica, è stato percepito come la sola risposta alle temibili sfide della storia. Numerosi sopravvissuti al genocidio sono emigrati verso lo stato ebraico nuovamente creato, e Israele è diventato una parte essenziale dell'identità degli ebrei che scelsero di rimanere nella diaspora.
  Dopo un trauma come la perdita brutale di tutta la propria famiglia e del solo mondo che si è conosciuto, è normale cercare la prova che millenni di preghiere non sono stati fatica sprecata; che esiste ancora un filo che lega il passato alla speranza di un futuro; che non è né futile né folle continuare a sognare la possibilità di un mondo migliore. Israele è divenuto questa prova.
  Così come il mondo ebraico, l'Europa liberale è stata profondamente sconvolta dall'orrore della Shoah.
  Dopo secoli di conflitti religiosi e nazionali, sfociati in due terribili guerre mondiali, gli europei liberali hanno deciso di rigettare le loro identità nazionali per allontanare le fosche ombre del passato. Hanno quindi cominciato a sostituire l'ideale moderno di stato-nazione con un post nazionalismo che ha per orizzonte una società globalizzata, e con un post modernismo che considera tutte le culture e le tradizioni moralmente equivalenti.
  Ora, ed è la cosa che più colpisce, l'Europa multiculturale che è il risultato di questa concezione post nazionale è anche, sotto molti aspetti, una Europa post liberale. In una democrazia liberale, si è chiamati a
Nell'Europa post liberale e multi- culturale, che considera tutte le culture sullo stesso piano e non incoraggia ad amare la propria identità, è proibito pensare che una cultura che rispetta i diritti individuali sia superiore alle identità illiberali.
rispettare l'identità dei propri concittadini e quella delle minoranze del paese quanto la propria identità. Nella democrazia post liberale, non si è incoraggiati ad amare la propria identità - forti identità conducono alle guerre, e la guerra è il male assoluto. In una società liberale, i diritti individuali sono un valore supremo, per il quale si è pronti a lottare, perfino a morire. Ma nell'Europa multiculturale, dovendo considerare tutte le culture sullo stesso piano, è proibito considerare che una cultura che rispetta i diritti individuali sia superiore alle identità illiberali. In breve, l'Europa post liberale potrebbe adottare come motto le parole di John Lennon: "Immagina che non ci siano nazioni… Nessuna ragione per cui uccidere o morire, e nessuna religione".
  Dove si colloca Israele, lo stato ebraico e democratico, in rapporto a questa concezione del mondo? Israele ha visto la luce nel momento in cui l'idea di stato-nazione non era più di moda in Europa. Se, dopo la Shoah, nessun liberale al mondo poteva opporsi all'idea di uno stato ebraico, gli europei post liberali di oggi vedono sempre più Israele come le ultime vestigia dei loro errori passati, colonialisti e nazionalisti. Nel momento in cui l'Europa cominciava a rifiutare le aspirazioni identitarie, si è vista la creazione di uno stato ancorato senza vergogna a una identità etno-religiosa, dopo duemila anni di esilio. Nel momento in cui l'Europa decideva che la guerra era il più grande dei mali, Israele era - ed è tuttora - pronto a lottare, se serve con le armi, per garantire la propria esistenza come nazione.
  Questo spiega almeno in parte perché, a dispetto di pericoli innumerevoli, l'Europa considera Israele come una delle più grandi minacce alla stabilità mondiale. L'integrazione degli ebrei era stata una delle colonne della concezione europea del progresso. Insistendo per ottenere il loro proprio stato nazionale, gli ebrei hanno scelto il lato sbagliato della storia. Anche se Israele arrivava a dimostrare di aver fatto tutto ciò che era in suo potere per arrivare alla pace e per minimizzare il numero di vittime civili palestinesi in combattimento, questo non bastava a coloro che considerano la sua stessa esistenza come un problema.
   Tutto questo l'ho compreso dodici anni fa, durante la Seconda Intifada, discutendo con un gruppo di intellettuali francesi.
  "L'esperienza sionista è fallita - mi dicevano con sollecitudine - l'oriente è l'oriente e l'occidente è l'occidente. Che cosa hanno a che fare gli ebrei con il medio oriente? Alla fine, Israele cesserà di esistere e gli ebrei dovranno tornare in Europa". Detto in altri termini, gli ebrei sono autorizzati a conservare la propria identità ebraica fin tanto che il suo mantenimento non semina disordine. Per gli europei post liberali di oggi, nessun ideale può giustificare il fatto di combattere. Che cosa hanno da fare i "colonialisti" ebrei in medio oriente? Quanti bambini palestinesi e israeliani saranno uccisi per mantenere in vita questo progetto nazionalista?
  Ogni volta che Israele è costretto a difendersi, questo porta non solo a mettere in questione la sua legittimità, ma anche ad accrescere la pressione sui suoi sostenitori. E la pressione funziona. Consideriamo un esempio recente. Quello largamente raccontato dai media di Henk Zanoli, un olandese che aveva ricevuto una medaglia del governo israeliano per aver coraggiosamente salvato un ragazzo ebreo durante la Shoah. La scorsa estate, durante la guerra di legittima difesa di Israele nella Striscia di Gaza, Zanoli ha deciso di restituire la medaglia. La sua sconfessione colpisce. All'inizio, ha scritto, aveva sostenuto la creazione di un focolare nazionale ebraico, ma poi è arrivato alla conclusione che il sionismo contenga "un elemento razzista nell'aspirazione a costruire uno stato solo per gli ebrei". In effetti, ha aggiunto, "il solo modo di uscire dal pantano nel quale il popolo d'Israele si è ficcato sarebbe rinunciare totalmente al carattere ebraico di Israele". Solo se accadesse, egli potrebbe considerare l'idea di riprendersi la medaglia.
  Se l'idea stessa di uno stato-nazione ebraico è in grado di provocare questa repulsione in un non ebreo compassionevole, può incitare anche gli ebrei a prendere pubblicamente le distanze dallo stato ebraico.
Finché i nostri nemici, nel loro culto confessato della morte, continue- ranno a cercare la nostra distru- zione, per il governo israeliano, quale che sia la sua composizione, non ci sarà altra scelta che difendere i suoi cittadini militarmente.
Questi ebrei critici sottolineano spesso che il loro problema non è tanto l'esistenza di Israele in quanto tale, ma piuttosto la politica del governo israeliano: il modo di trattare i palestinesi, i suoi metodi di guerra e così via. A loro, risponderò che finché i nostri nemici continueranno a cercare la nostra distruzione, quale che sia la composizione del governo israeliano non ci sarà altra scelta che difendere i suoi cittadini militarmente. E finché i nostri nemici, nel loro culto confessato della morte, dispiegheranno le loro stesse popolazioni come scudi umani, si vedranno le foto delle vittime civili diffuse dai media internazionali. Quale che sia il partito israeliano al potere e quali che siano le sue politiche specifiche, gli ebrei saranno costretti a scegliere tra il loro impegno verso il sionismo e la loro fedeltà all'Europa post liberale.
  Perché allora gli ebrei d'Europa, o chiunque altro, si aggrapperebbero fermamente alla loro identità di fronte alle pressioni che subiscono per abbandonarla? Perché l'identità, ebraica o d'altro tipo, dà un senso e uno scopo alla vita, per via del suo semplice aspetto materiale. Essa risponde a un bisogno umano basilare che consiste nel voler far parte di un insieme più grande di sé, di una comunità intergenerazionale che condivide un insieme di valori e di aspirazioni collettive.
  Certo, esiste un altro bisogno umano fondamentale: quello di essere liberi, di pensare con la propria testa e di scegliersi la propria strada. Ma queste due aspirazioni - appartenenza e libertà - possono rafforzarsi vicendevolmente invece di opporsi l'una all'altra. La libertà offre la possibilità di coltivare pienamente la propria identità; ma la libertà deve essere difesa, ed è l'identità che dà la forza di realizzare questo compito. E' un errore pericoloso quello di sacrificare la libertà in nome dell'identità ma, viceversa, è un errore non meno disastroso desistere dall'identità in nome della libertà, come hanno fatto gli europei del nostro tempo.
  Nell'Europa liberale del passato, si poteva essere cittadino per strada ed ebreo praticante a casa; nell'Europa post liberale di oggi, è estremamente difficile restare europeo convinto per strada ed ebreo fiero di esserlo e legato a Israele, a casa.
Tuttavia, la vera questione non è il futuro degli ebrei, ma quello dell'Europa. Nel tentativo di liberarsi della propria storia e delle sue istituzioni tradizionali, l'Europa è divenuta decadente e vulnerabile. Ora che il fondamentalismo islamico è penetrato nelle sue società tolleranti e multiculturali, la questione è di sapere se una società che è rifuggita alla propria identità per approfittare della sua libertà può ancora trovare la volontà di battersi, prima di perdere entrambe.
  Avendo sempre attinto alla grande tradizione liberale europea la forza di lottare contro l'oppressione, non posso che sperare che le nazioni democratiche europee sappiano battersi per la loro libertà. Ma il mio compito in quanto cittadino israeliano è più semplice. Devo assicurarmi che tutti gli ebrei nel mondo che si sentono senza riparo siano in grado di trovare una casa qui, su questo piccolo isolotto di libertà nel cuore di un grande oceano di tirannia, in questa piccola oasi di identità in un deserto di anomia post identitaria. A questi ebrei dico: benvenuti nello stato ebraico e democratico.

Questo articolo è apparso sul numero di gennaio del mensile francese Causeur

(Il Foglio, 15 gennaio 2015)


In Israele cala del 90% il prezzo delle telefonate

Guerra commerciale con lo sbarco di nuovi operatori.

 
In Israele si intensifica la guerra dei prezzi nel settore della telefonia mobile. Con lo sbarco di nuovi operatori sul mercato, le tariffe sono state improvvisamente abbattute fino al 90%. Ad aprire le danze è stata la compagnia Hot Mobile, filiale del gruppo Hot che appartiene ad Altice e all'imprenditore franco-israeliano Patrick Drahi. Essa ha proposto un'offerta, valida per 15 giorni, che consiste in un forfait illimitato per due linee al prezzo di 40 shekel (8,40 euro) al mese.
   Non si è fatta attendere la replica della rivale Golan Telecom, che per poco meno della stessa somma (37 shekel) offre ai nuovi abbonati un forfait senza limiti. Per altri 2 euro si potrà aprire un'ulteriore linea telefonica alle stesse condizioni. Dietro questa società si trova un altro uomo d'affari franco-israeliano, Michael Golan, ex direttore generale di Iliad, casa madre dell'operatore francese Free, che aveva sparigliato le carte del mercato d'Oltralpe due anni fa con l'introduzione di un canone illimitato da 19,99 euro mensili.
   Le due new entry hanno provocato un terremoto nel settore tlc del paese mediorientale, fino a quel momento controllato da tre aziende che proponevano condizioni tutt'altro che favorevoli alla clientela. Così le famiglie hanno cominciato a cambiare operatore da un momento all'altro. Un po' quello che era accaduto in Francia con lo sbarco di Free. Ora, con oltre 600 mila abbonati ciascuno, Hot Mobile e Golan Telecom detengono insieme quasi il 15% del mercato.
   Come se non bastasse, a fine dicembre Cellcom, uno dei tre operatori storici attivi in Israele, ha lanciato per la prima volta un'offerta televisiva, rompendo il duopolio storico che vedeva protagonisti Hot e Yes. Quest'ultima è una filiale del gruppo Bezeq, che a sua volta possiede la compagnia telefonica mobile Pelephone.
   Come spiegano alcuni esperti, per aprire il mercato alla concorrenza, l'authority del settore ha permesso a tutti gli operatori mobili di ampliare i loro servizi alla telefonia fissa, a Internet e ai contenuti audiovisivi. Chi ha margini risicati sul mobile potrà sviluppare nuovi canali di ricavi, e questo porterà a un taglio dei prezzi, oggi ritenuti eccessivi per la tv e il web. Si tratta della seconda fase della rivoluzione dei media in Israele.
   
(Italia Oggi, 15 gennaio 2015)


Tornati in Italia dieci jihadisti. "Sono pronti a fare attentati"

Per il Copasir sono parte del gruppo dei 53 foreign fighters monitorati. In Bosnia gli jihadisti provenienti dall'Italia sarebbero in cerca di documenti falsi.

di Grazia Longo

ROMA - «Allah è grande, nel nome di Allah dobbiamo armare le nostre braccia». Erano pronti a prendere contatti per comprare kalashnikov e bombe, per combattere la loro guerra in nome della Jihad, gli estremisti islamici indagati dalla Procura di Roma. E ancora più preoccupante è la notizia che filtra dal Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza, sul rientro in Italia di una decina dei 53 foreign fighter monitorati dall'antiterrorismo.

- Rischio attentati
  Si tratta di estremisti musulmani sospettati di essere tornati nel nostro Paese allo scopo di compiere attentati. L'allerta quindi è assai elevata. Per quanto concerne invece gli indagati, l'acquisto delle armi non era ancora avvenuto. Per nessuno dei 20 indagati per azione sovversiva finalizzata al terrorismo, è infatti finora scattata la misura di custodia cautelare in carcere. Serviranno ancora mesi di indagini.

- Viaggi all'estero
  I carabinieri del Ros e i poliziotti della Digos stanno lavorando, coordinati dal pool anti terrorismo della procura romana guidato dall'aggiunto Giancarlo Capaldo, per ricostruire l'organizzazione e gli spostamenti dei presunti terroristi. Sotto la lente d'ingrandimento degli investigatori ci sono spostamenti sospetti in Siria,

- Pakistan, Afghanistan ed Iraq.
  Da un lato, l'obiettivo è quello di verificare se gli indagati siano in contatto con esperti del terrore anche per un eventuale addestramento militare.
Dall'altro, si punta a capire dove avrebbero potuto comprare le armi per eventuali attentati. Siriani e ceceni sono ritenuti i loro potenziali fornitori di bombe e mitragliette, mentre diversa è la pista che porta a contatti per impadronirsi di documenti d'identità falsi. In questo caso emerge il ruolo di bosniaci musulmani pronti a vendere documenti perfettamente contraffatti.
Operazioni di intelligence e di monitoraggio - dai luoghi di culto ai siti web, chat comprese - lunghe e laboriose che richiedono tempo, pazienza, tenacia.

- Legami con altre inchieste
  Siamo infatti di fronte ad un fenomeno fluido, magmatico, in continuo divenire, con possibili legami ad altri episodi oggetti di indagine. Per questo gli inquirenti spolverano vecchi fascicoli, alla ricerca di nomi, spunti, elementi che possano far luce sul pericolo di atti terroristici da parte di «organismi, strutturati in forma cellulare».
Anche se, a onor del vero, più che di situazione di «rischio» gli addetti ai lavori preferiscono parlare di livelli «attenzione». Nonostante ciò l'allarme rimane alto. Di qui l'interesse ad rileggere le carte di precedenti inchieste, come quelle delle procure di Milano, Torino e di Bari.

- Addestramento militare
  Riemergono così drammaticamente attuali le pagine dei manuali recuperati in altre indagini per cui «il vero musulmano, per innalzare la parola di Dio, deve essere un credente che ha fede nel Jihad, perché durante l'addestramento militare, i fratelli corrono numerosi rischi, talvolta anche della propria vita. L'addestramento militare, dunque, «è un obbligo per tutti i musulmani che godono di salute e dell'età adulta».

- Proselitismo online
  Il proselitismo «viene effettuato attraverso supporti audio, video, documenti propagandistici e sermoni incitanti al terrorismo ed al sacrificio personale in azioni suicide destinate a colpire il nemico infedele». E vengono utilizzati filmati «girati n Afghanistan ed altri Paesi dove registravano gli attentati e quindi poi la registrazione viene messa nelle cassette e queste cassette vendute regolarmente nelle moschee».

- Odio per gli ebrei
  I nemici sono gli occidentali, gli americani, gli ebrei: «.. dall' infanzia.. dall' infanzia.. devi inculcare l'odio sugli ebrei.. perché è fondamentale nella .. nella nostra fede, odiare gli ebrei..». Senza alcun timore di perdere la vita, anzi diventare un kamikaze è un onore: «Se Dio vuole, spero che Dio lasci disperdere.... prega e di': «possa Dio sparpagliare i nostri corpi per la sua causa ...voglio che le mie carni vadano in pezzi!».

- Cellule in Francia
  Sempre senza perdere di vista collaborazioni con gruppi militanti all'estero. «D'altronde, il carattere transnazionale delle cellule comporta che tutti gli aderenti abbiano solidi punti di riferimento sia in altri Paesi europei (si pensi alla Francia) sia nei Paesi di origine, sia nei Paesi dell'area medio-orientale».

(La Stampa, 15 gennaio 2015)


Le avventure grigie della Liberté

A processo Dieudonné. Così la Francia scopre che la sua Liberté ha anche un volto repressivo.

di Giulio Meotti

ROMA - "Apologia del terrorismo". Questa l'accusa con cui le autorità francesi hanno arrestato e rinviato a giudizio nel tribunale penale di prima istanza il comico più famoso di Francia, Dieudonné. Così, nella settimana in cui tutto il paese si è stretto attorno a Charlie Hebdo, alle sue nuove copie milionarie e alla sua libertà radicale, Parigi si è svegliata con l'arresto di un rappresentante dello showbiz. Per dirla con Nathalie Rothschild, direttrice del magazine libertario Spiked, "telling unfunny jokes should not be a crime": "Se consentiamo alle autorità francesi di mettere un prezzo alle parole di Dieudonné, non c'è modo di sapere quali opinioni saranno sanzionate in futuro".
   Questo "trublion politique", come ama definirsi Dieudonné in un neologismo intraducibile, sta facendo emergere il carattere intollerante e repressivo della liberté francese. Domenica sera, dopo
la marcia di Parigi a cui aveva preso parte, Dieu- donné aveva scritto su Facebook di sentirsi "Charlie Coulibaly", unendo il nome del giornale satirico colpito a Parigi dagli attentatori e quello di uno dei terroristi, Amédy Coulibaly, che invece ha colpito il supermercato ebraico. "Mi si considera come Coulibaly mentre non sono diverso da Charlie", scriveva Dieudonné, celebre anche per le battute antiebraiche di pessimo gusto. Da parte sua, il ministro dell'Interno francese, Bernard Cazeneuve, ha definito "indegno" il messaggio di Dieudonné e si riserva il diritto di procedere contro di lui. C'è chi ha ironizzato che tanta solerzia Parigi non l'ha ancora mostrata neppure con i predicatori e gli imam dell'odio islamista. Paul-François Pauli, nel libro "Pour en finir avec l'ideologie antiraciste", sostiene che l'antirazzismo che mette sotto accusa Dieudonné, partendo da principi nobili come la lotta contro i pregiudizi etnici, è diventato una "ortodossia benpensante che sterilizza il pensiero e minaccia la libertà di espressione".
   A denunciare il doppio peso di Parigi sull'ideatore della quenelle è anche l'editorialista del Financial Times Christopher Caldwell, che fa risalire il problema alla legge Gayssot del 1990 (prende il nome da un deputato comunista) sul negazionismo della Shoah. "Questa che poteva sembrare una misura ragionevole che riduce i diritti di pochi malevoli svitati, si è rivelata problematica".
   Secondo Christopher Caldwell del Financial Times, questa norma liberticida francese rischia di trasformare Dieudonné in un martire della libertà di parola e farà aumentare il suo consenso. Il pubblico di Dieudonné, ha scritto un giornalista francese, "è giovane, trendy, intellettuale e di sinistra".
   Il comico parigino Dieudonné rappresenta la Francia "islamo-progressista", come ha scritto Catherine Kintzler. Dieudonné salda i lati oscuri della Francia, l'antiamericanismo e il senso di colpa colonialista della sinistra, il risentimento delle periferie e il disprezzo per lo stato ebraico. Per questo contro la sua messa al bando si è schierato nei giorni scorsi l'editorialista del Figaro, Ivan Rioufol, lui stesso vittima della caccia alle streghe "islamofobe" nei tribunali: "Una opinione può essere falsa, sciocca, malsana, pericolosa, ma non può essere considerata un crimine, a meno che non credi nell'esorcismo", scrive Rioufol. "Il divieto di Dieudonné moltiplica il suo pubblico e accredita la sua posizione anti-sistema. Cercando di imporre un peso plumbeo - antico riflesso totalitario - il governo sottovaluta il pubblico. I francesi non sono dei bambini: tocca a loro giudicare Dieudonné".
Secondo Rioufol, il lavoro di Gayssot, con la sua legge infernale che mette al bando le idee e la storiografia libera sotto pretesto di lottare contro il razzismo, è stato il punto di congiunzione tra ideologia illiberale di tipo sovietico e nuovo fermento intollerante del politicamente e dell'ideologicamente corretto. Per questo già ai tempi della sua approvazione, la norma fu contestata da personalità note per la loro lotta contro il negazionismo, come Pierre Vidal-Naquet. Il primo ministro Manuel Valls, che ha voluto la disposizione contro Dieudonné, un anno fa aveva varato un'altra legislazione liberticida secondo cui il governo, tramite i prefetti, può tenere sotto osservazione i gruppi sospetti di "patologia religiosa", ovvero islamisti, ebrei, ortodossi e cattolici militanti. "In questo progetto di estremismo secolarista si compara in modo fraudolento una scelta di vita con atti terroristici e criminali", ha scritto la giornalista francese di Present, Jeanne Smits.
   E di questo antirazzismo che adesso si scaglia contro Dieudonné sono stati oggetto, sempre in Francia, Michel Houellebecq e Oriana Fallaci, due scrittori che hanno prodotto fiction e saggi in contrasto con la legge francese. Se la sono cavata, ma non è la condanna il problema, il problema è il processo, il diritto dello stato di processare le idee e l'immaginazione.

(Il Foglio, 15 gennaio 2015)


Napoli - Mostra all'Archivio di Stato sui 150 anni della comunità ebraica

NAPOLI - Inaugurato, all'Archivio di Stato di Napoli, il nuovo allestimento della mostra "La Comunità Ebraica di Napoli, 1864/2014: 150 anni di storia".
Negli spazi del Chiostro del Platano, proprio nel cuore dei quartieri che videro il fiorire delle antiche giudecche dal VI secolo d.C. alla cacciata dal Viceregno Spagnolo, nelle aree di San Marcellino e Porta Nova, si ripropone l'allestimento della mostra inaugurata lo scorso novembre alla Biblioteca Nazionale, riveduta ed ampliata nei contenuti.
La narrazione della storia della Comunità napoletana prende le mosse proprio dalla nascita di questi quartieri, rimasti cuore della vita ebraica fino alla grande cacciata degli ebrei nel 1510.
Numerosi documenti mai esposti finora raccontano la riammissione degli ebrei nel Regno nel 1740, sotto il governo di Carlo di Borbone, e la successiva espulsione nel 1746. Ampio spazio è dedicato alla vicenda della famiglia di banchieri tedeschi Rothschild, artefici della rinascita della vita comunitaria, primi a prendere in affitto i locali dove tutt'oggi la Sinagoga ha sede, in seguito acquistati con il contributo di tutti gli iscritti.
In mostra troviamo la corrispondenza dei fratelli James e Carl Rothschild in merito al prestito accordato al Regno delle due Sicilie, così come le piante e i prospetti della sede della loro banca aperta a Chiaia, quelli della Villa, oggi Pignatelli, dove presero dimora, e il bellissimo ritratto della figlia di Carl, Charlotte, del pittore Moritz Oppenheim, e sullo sfondo un golfo di Napoli da cartolina.
Molti i personaggi illustri, rabbini ed imprenditori che presero parte attivamente alla vita comunitaria. Tra i tanti ricordiamo l'amatissimo Rabbino Kahn, tra i primi ad interessarsi a studi di archeologia che definissero il ruolo degli ebrei a Pompei e nell'impero romano.
Così come, di qualche anno precedente, l'imprenditore Giorgio Ascarelli, fondatore del Calcio Napoli; in mostra troviamo le inedite piante dello Stadio Partenopeo, da lui costruito e, tra le tante curiosità, un fascicolo, anch'esso inedito, della Questura, proprio su Ascarelli, scagionato dalle accuse di essere un sovversivo poiché iscritto al partito socialista.
Ancora molte testimonianze della vita imprenditoriale ebraica, attraverso fotografe, oggetti e documenti d'epoca.

(Pupia, 14 gennaio 2015)


New York - Anp a processo per terrorismo

di Daniel Reichel

Si è aperto ieri a New York il processo Sokolov vs Olp: il giudice George Daniels e i dodici membri della giuria decideranno se l'Autorità nazionale palestinese e l'Organizzazione per la liberazione della Palestina dovranno risarcire le vittime di attacchi terroristici compiuti in Israele tra il 2001 e il 2004. L'Anp e l'Olp hanno finanziato con denaro, armi e supporto logistico questi attentati, ha dichiarato nella sua arringa d'apertura l'avvocato Kent Yalowitz, rappresentante legale delle vittime americane degli attacchi che, nel corso della Seconda Intifada, uccisero 33 persone, ferendone oltre 450. "Le prove dimostreranno che l'uccisione di civili era una procedura standard seguita da Olp e Anp", ha dichiarato Yalowitz, sottolineando che "questo caso riguarda le conseguenze di aver ucciso e mutilato persone innocenti per obiettivi politici". Il fine delle stragi, sottolineano i famigliari delle vittime, era "terrorizzate, intimidire e costringere la popolazione civile di Israele ad avvallare le richieste e gli obiettivi politici dei convenuti (Onp e Anp)" e influenzare la politica degli Stati Uniti e del governo israeliano rispetto a questi obiettivi. Secondo la difesa, che ha contestato la giurisdizione del tribunale Usa (rivendicata in virtù del fatto che le vittime rappresentante al processo hanno cittadinanza americana), gli attacchi terroristici non sono riconducibili all'Onp e all'Anp. Ci vorranno almeno tre mesi, ha spiegato il giudice Daniels, per arrivare al verdetto, con la richiesta di risarcimento da parte delle vittime e dei loro famigliari che ammonta a un miliardo di dollari.
   Secondo l'avvocato Yalowitz, l'Autorità nazionale palestinese - guidata dal presidente Mahmoud Abbas - ha di fatto appoggiato gli attacchi terroristici continuando a tenere a libro paga gli autori delle stragi, nonostante ci fossero i verdetti della giustizia israeliana a dimostrarne la responsabilità. "Questi atti accadono. Sono azioni orrende, da condannare, sbagliate" ha affermato ieri nel corso del processo Mark Rochon, avvocato che rappresenta Olp e Anp. Per Rochon però le responsabilità di questi fatti non sono riconducibili ai suoi assistiti ma sono azioni di singoli, che hanno agito da soli nelle fila di Hamas e altri gruppi islamisti di Gaza.
   Nel corso del processo verranno ascoltate diverse vittime così come testimoni degli attacchi terroristi in questione. Tra loro, Mark Sokolow, ferito al volto e alla gamba nell'esplosione di una bomba a Gerusalemme nel gennaio del 2002. Sokolow, assieme alla moglie e alla figlia, rimaste ferite nell'attentato, erano ieri presenti all'apertura del processo, apertosi dopo undici anni di battaglie legali. E hanno ascoltato la prima testimonianza, quella di Meshulam Pearlman, come racconta Bloomberg in un resoconto sul caso, sull'attentato avvenuto il 29 gennaio 2004. Alle 9 del mattino un terrorista palestinese si fa saltare in aria mentre viaggia su un autobus di linea a Gerusalemme. Moriranno undici persone (tra loro Stuart Goldberg, i cui famigliari sono rappresentati dall'avvocato Yalowitz), cinquanta i feriti, tredici dei quali in modo grave. Una scena rimasta negli occhi di Pearlman, fiorista che al momento dell'esplosione stava allestendo il suo negozio su Gaza street. Il tetto dell'autobus divelto, i finestrini polverizzati, "peggio di una scena di guerra", la dichiarazione di Pearlman.

(moked, 15 gennaio 2015)


Venezia - Mostra su deportati ebrei "matti"

Presso gli spazi di San Servolo Servizi di Venezia saranno esposte per la prima volta, trascorso il settantennio previsto per legge, le cartelle cliniche dei pazienti ebrei deportati dagli ospedali psichiatrici di San Servolo e di San Clemente nell'ottobre 1944, corredate da fotografie, documenti amministrativi e annotazioni tratte dai diari clinici.
Attraverso i documenti archivistici si potranno comprendere i fatti accaduti in quel tempo: le visite preparatorie alla deportazione da parte di ufficiali fascisti, le descrizioni e i giudizi espressi dai medici, le vicissitudini personali di quelle persone. Un itinerario documentario per ricordare nomi, volti e frammenti di una tra le più tragiche vicende umane della shoah.
La mostra - che verrà inaugureta mercoledì 14 gennaio ore 11:30 e rimarrà aperta fino al 31 gennaio - si colloca nell'ambito del programma cittadino dedicato alla Giornata della Memoria 2015 e sarà preceduta dal posa a San Servolo di una "Pietra d'Inciampo" a ricordo di questo triste evento. «La nostra - spiega il curatore Luigi Armiato - è una mostra per non dimenticare sperando che non possa avvenire mai più, anche se i fatti recenti ci dicono che l'uomo non impara molto dalla storia».

(Vvox, 14 gennaio 2015)


"Sono morto perché sono ebreo"

di Deborah Fait

 
Yohan Cohen, Yoav Hattab, Philippe Braham, François-Michel Saada: uccisi perché ebrei.
Sono avvolti nel talled; vicino ad ognuno un braciere che verrà acceso da un componente delle famiglie che, dalla Francia, hanno accompagnato in Israele, per l'ultimo viaggio, i loro cari assassinati da un terrorista figlio di Allah. Ammazzati in un supermercato kasher mentre facevano la spesa per lo shabat, mentre erano in attesa di correre a casa, vestirsi per la festa, indossare una camicia bianca, la kippà sul capo per stare accanto alle mogli o alle sorelle o alle mamme mentre accendevano le candele per accogliere la festa "Baruch Atà Adonai eloheinu.....!"
   Quel venerdì sera le candele dello Shabat sono rimaste dei pezzi di cera, senza luce, senza che nessuno potesse accendere le due fiammelle a causa di un boia entrato in quel supermercato per ammazzare degli ebrei. "Yoav, Yohan, Francois-Michel, Philippe, non avrei voluto vedervi arrivare così in Israele. Camminare per le strade d'Europa non dovrebbe significare morte per gli ebrei, salire in Israele dovrebbe essere una scelta non una fuga... non avrei voluto vedervi arrivare così " ha detto il Presidente di Israele, Reuven Rivlin, e lo ha ripetuto due volte, con voce desolata, profondamente commosso, davanti alle famiglie che piangevano silenziosamente strette in un unico abbraccio.
   Il Monte degli Ulivi era gremito, migliaia di persone sono venute a dare l'ultimo saluto a questi nostri fratelli francesi ammazzati perché ebrei, un mare di persone in un abbraccio virtuale ai fratelli avvolti nel talled e alle loro famiglie, in tale profondo silenzio che si sentivano i singhiozzi soffocati di chi non ce la faceva a trattenere la commozione e il dolore. "Sono morto perché sono ebreo" diceva un foglio sollevato da una persona e ancora il Presidente: "Ci ammazzano a Parigi, a Tolosa, a Bruxelles, a Mumbai, a Gerusalemme, nei teatri, per la strada, se aspettiamo l'autobus. Questo è l'odio antisemita. L'Europa dovrebbe proteggere gli ebrei".
   Yoav, Yohan, Philippe e Francois-Michel non sono gli unici ebrei francesi sepolti a Gerusalemme, accanto a loro vi sono tre bambini e il loro papà ammazzati a Tolosa nel 2012 da un altro terrorista islamico che era andato davanti alla scuola per ammazzarli a fucilate. Tutti loro sono morti sentendo la voce non umana dei loro assassini urlare Allahu Achbar ma io ho la speranza che, forse, nell'ultimo istante della loro vita, prima di chiudere gli occhi per sempre, avranno avuto il tempo di pensare "Shemà Israel", voglio crederlo quasi a consolare me stessa. Non posso pensare se non con orrore e disperazione che quei bambini di Tolosa, quelle persone di Parigi abbiano smesso di vivere al suono di una voce violenta, disumana e barbara che urlava Allah è grande.
   Benjamin Netanyahu ha parlato della forza del Popolo ebraico, della forza di Israele che nessun terrorismo riuscirà a sconfiggere. "Israele è la vostra casa ma nessuno dovrebbe venire qui per paura", ha ripetuto ai presenti, non per paura, non si dovrebbe più scappare dall'Europa eppure, 70 anni dopo la Shoah, gli ebrei sono ancora costretti a farlo per aver salva la vita. Solo qui, solo in Israele, un ebreo può sentirsi sicuro, è strano a dirsi, circondati come siamo da nemici feroci, ma la sicurezza ce la dà lo Stato che fa di tutto per proteggerci e difenderci da chi vuole la nostra morte. Qui non siamo in balia di gente che se ne frega di noi finché non ci uccidono per poi piangere lacrime di coccodrillo, qui siamo a casa nostra.
   Alla fine della cerimonia tutti in piedi a cantare la Hatikva, l'inno nazionale, quasi a liberarsi l'animo da tanto dolore con le parole della "Speranza" e poi Ségolène Royal, unica rappresentante della Francia, ha consegnato alle famiglie delle vittime la Legion d'onore, la più alta onorificenza della Repubblica che oggi si chiede come combattere il terrorismo senza perdere la libertà. Prenda allora l'esempio da Israele, il paese in assoluto più colpito dal terrorismo e da 5 guerre in soli 70 anni tenendo sempre alta l'idea di libertà e di democrazia, senza mai piegarsi, senza mai correre il pericolo di "diventare come loro", senza rinunciare alla gioia di vivere. Prendete esempio da Israele e dalla sua civiltà, europei, invece di odiarci e darci addosso per difendere i nostri e vostri nemici, imparate a rispettarci e ad amarci, strappate dalle vostre anime l'odio antisemita, guarite da quel virus velenoso e endemico, fate in modo che mai più qualcuno scriva "Sono morto perché sono ebreo".
   Yoav, Yohan, Francois-Michel, Philippe, siete a casa, riposate in pace in terra di Israele.

(Inviato dall'autrice, 14 gennaio 2015)


Exodus 2015. Esiste un futuro per gli ebrei in Francia?

Perché la comunità ebraica francese è diventata la prima da cui si emigra verso Israele.

di Nicoletta Tiliacos

ROMA - C'è un futuro per gli ebrei in Francia? Se è vero che la più grande comunità ebraica europea si trova oggi stretta tra paura e speranza, come titolava ieri il quotidiano Libération, non è difficile constatare come, dopo l'assalto di venerdì scorso al supermercato kosher della Porte de Vincennes, la prima stia prendendo decisamente il sopravvento sulla seconda, a dispetto della grande "marche républicaine" e delle rassicurazioni delle massime autorità. E allora: ha ragione il vecchio Claude Lanzmann (l'autore di "Shoah", il più importante documentario sullo sterminio degli ebrei), quando dice che non bisogna dargliela vinta, a chi vuole una Francia senza ebrei? O ha ragione quel rabbino del Marais che a settembre diceva al giornalista americano James Kirchick - il quale lo racconta ora sul Daily Beast - che "in Francia non c'è futuro per gli ebrei"?
   Che la patria dei Lumi stia diventando una delle patrie dell'antisemitismo europeo, è un fatto. Su Slate.fr, l'editorialista Eric Leser scrive che non si prende atto abbastanza del clima di odio verso gli ebrei. In Francia il quaranta per cento dei crimini e dei reati a sfondo razzista avvenuti nel 2013 ha avuto come obiettivo gli ebrei, che rappresentano meno dell'uno per cento della popolazione. Il 2014 è stato l'anno dell'impennata dell'emigrazione di ebrei francesi verso Israele: secondo l'Agenzia ebraica diretta da Natan Sharansky (autore dell'intervento pubblicato in questa pagina) in settemila hanno scelto l'Aliyà, cioè "il ritorno", garantito agli ebrei di ogni parte del mondo in Israele. Ma più di cinquantamila hanno chiesto informazioni a riguardo. L'anno precedente erano emigrati in 3.293, e nel 2012 erano partiti in 1.907. La Francia è ormai il primo paese da cui gli ebrei emigrano (26 per cento sul totale: segue con il 22 per cento l'Ucraina e con il 18 per cento la Russia). Abbastanza perché il grande rabbino di Francia, Haìm Korsia, possa dire che si sta assistendo alla "più importante ondata di emigrazione di ebrei francesi dopo la Seconda guerra mondiale".
    Inoltre, se prima dell'assalto parigino la previsione di richieste di Aliyà dalla Francia per l'anno appena cominciato era di circa diecimila, è ovvio immaginare che quella cifra potrebbe crescere, e di molto.
    "L'esodo è cominciato", ha scritto anche l'inglese Telegraph qualche giorno fa, riferendosi alla comunità israelita francese. Coloro che oggi prendono la via di Israele sono quasi sempre figli e nipoti di coloro che erano fuggiti dal Marocco, dall'Algeria, dalla Tunisia. Sophie Taìeb, una giovane blogger, spiega al corrispondente da Israele di Libé perché un anno fa ha deciso di andare a vivere a Tel Aviv. Racconta la delusione nello scoprirsi all'improvviso minacciata in Francia, dove è nata, nel paese dove ha studiato e che ha sempre considerato il suo paese. Quella Francia che aveva rappresentato un rifugio sicuro per i suoi nonni, come tanti "juifs" cacciati negli anni Sessanta dai paesi arabi, dove comunità ebraiche radicate da migliaia di anni furono disperse in pochissimo tempo, soprattutto dopo la guerra dei Sei giorni.
   Anche Eric Leser si chiede su Slate se "esiste ancora un futuro per gli ebrei in Francia", senza nascondere che quella domanda solo "qualche anno fa sarebbe sembrata assurda". Ma è diventata legittima oggi, "quando l'assassinio e l'aggressione degli ebrei a caso, perché hanno la sola colpa di esistere, si succedono e suscitano sempre meno indignazione nella società francese. Come se si trattasse di un fenomeno diventato quasi banale, come se fosse scontato che l'odio contro gli ebrei è qualcosa di ineluttabile nella parte più radicalizzata e più violenta della comunità musulmana francese". Sempre Leser scrive che a lungo, nelle cronache televisive sui media francesi del pomeriggio di terrore all'Hyper Cacher, e per un po' anche dopo, nessuno o quasi diceva chiaramente che gli ostaggi e le vittime erano ebrei, che quell'obiettivo era stato scelto per colpire gli ebrei: "Un diniego della realtà, paradossalmente meglio descritta dalla stampa straniera rispetto a quella francese". La realtà degli ebrei francesi l'ha raccontata in cinque, impressionanti puntate sul sito di cultura ebraica Tablet il giornalista Marc Weitzmann. In quella che descrive la situazione nella città di Roubaix - ormai completamente islamizzata, ha visto la distruzione dell'ultima sinagoga nel 2000 - Weitzmann cita lo storico e sociologo Michel Wieviorka, autore del saggio "La tentazione antisemita. L'odio per gli ebrei nella Francia di oggi" (Robert Laffont). Scritto nel 2005 sulla base di una lunga inchiesta sul campo, registrò umori anti ebraici già assai diffusi e violenti, e dimostrò come l'antisemitismo delle banlieue fosse già un fenomeno largamente sottovalutato.

(Il Foglio, 14 gennaio 2015)


Può un ebreo assassinato riposare in Francia, oggi? No. I funerali in Israele

I terroristi hanno risparmiato le donne a Charlie Hebdo. Tranne Elsa Cayat, "assassinata proprio perché ebrea".

di Giulio Meotti

Serge Cwajgenbaum, segretario generale del Congresso ebraico europeo, ieri nella sua eulogia a Gerusalemme ha detto che le quattro vittime sono state seppellite in Israele per evitare che le loro tombe potessero essere profanate.
ROMA - "Perché vengono sepolti in Israele?", chiedeva ieri maligno il settimanale francese Nouvel Obs. "Il primo ministro Netanyahu non cerca forse, in campagna elettorale, di recuperare con i funerali in Israele?". Ieri Yoav Hattab, Yohan Cohen, François-Michel Saada e Phillipe Braham, i quattro ebrei assassinati nel supermercato Hyper Cacher di Parigi, sono stati sepolti nel cimitero Givat Shaul di Gerusalemme, dopo che i rabbini israeliani li hanno pianti nelle yeshiva dello stato ebraico. Il più duro è stato il rabbino Meir Mazuz, a capo della scuola Kisseh Rahamim: "I terroristi sono la feccia della terra, ma questi uomini santi non sono morti invano. Israele è il rifugio degli ebrei, mentre il terrore colpisce America, Inghilterra e ora la Francia". Il rabbino Tzemah Mazuz, un amico della famiglia Hattab, ha condannato non soltanto i terroristi: "Che Dio si vendichi di tutti i nostri nemici, non soltanto coloro che hanno ucciso, ma anche di chi si è compiaciuto".
   La famiglia di Yoav Hattab non è la prima volta che viene colpita dal terrorismo islamico. La zia di Yoav, Yehudit Bucharis, venne uccisa dagli attentatori che l'8 ottobre 1985 attaccarono la sinagoga di Djerba, in Tunisia. Dunque la famiglia Hattab era stata colpita perché ebrea in Tunisia e aveva trovato riparo in Francia, dove è stata però nuovamente massacrata in quanto ebrea. Adesso troverà riparo in Israele. Il presidente israeliano, Reuven Rivlin, alla cerimonia ha detto che le vittime "sono state uccise solo perché erano ebrei". E ha aggiunto: "Il terrorismo non distingue fra sangue e sangue ma persegue in modo particolare gli ebrei. Non è ammissibile che settant'anni dopo la guerra mondiale gli ebrei in Europa abbiano timore di comparire con la kippah". Le vittime dell'attacco al supermercato kasher di Parigi riposeranno al fianco di tutte le altre vittime dell'antisemitismo in Francia. Al cimitero, una donna ieri ha alzato un cartello che diceva "Je suis Yohan Cohen", in onore del ragazzo ebreo che ha cercato di fermare il terrorista prima di essere ucciso. Un altro cartello diceva: "Io sono Charlie, io sono ebreo, io sono israeliano, io sono francese, io sono stufo".
   Serge Cwajgenbaum, segretario generale del Congresso ebraico europeo, ieri nella sua eulogia a Gerusalemme ha detto che le quattro vittime sono state seppellite in Israele per evitare che le loro tombe potessero essere profanate. Il primo caso di profanazione avvenne al cimitero ebraico a Carpentras, in Provenza. Era il 1990 e il cadavere di un ebreo di ottant'anni fu trovato impalato e, sul ventre, l'emblema con la stella davidica. Il gesto venne rivendicato dal "Gruppo Mohammed el Bukina". Fu l'inizio di una serie di attacchi ai cimiteri ebraici da parte di gruppi dell'estrema destra e degli islamisti.
   La prima che ha deciso di seppellire una vittima in Israele è stata la madre di Ilan Halimi, Ruth, otto anni fa: "E' mio dovere di madre offrire a mio figlio un riposo che giudico impossibile qui. Perché è qui, su questa terra di Francia, che Ilan è stato affamato, picchiato, ferito, bruciato. Come riposare in pace in una terra dove si è tanto sofferto? Questa domanda, alla quale né le mie figlie, né il mio ex marito hanno saputo rispondere, ci ha convinti che Gerusalemme doveva essere la sua ultima dimora". Il 13 febbraio 2006 era stato ritrovato il corpo senza vita di Halimi, un ragazzo ebreo sequestrato e torturato per tre settimane e poi lasciato agonizzante sui binari di una ferrovia nella banlieue parigina da un gruppo di arabi, capeggiato dal fondamentalista islamico Youssouf Fofana. Accanto a Halimi e alle quattro vittime dell'Hyper Cacher a Gerusalemme riposano anche le quattro vittime dell'attacco alla scuola ebraica di Tolosa nel 2012, il rabbino Jonathan Sandler, i suoi due figli Aryeh e Gabriel e la piccola Miriam Monsonego.
   Ieri è uscita la notizia che i terroristi che hanno decimato la redazione di Charlie Hebdo avrebbero deciso di uccidere una delle giornaliste presenti, Elsa Cayat, proprio perché ebrea. Tanto che l'altra donna presente, Sigolène Vinson, sarebbe stata risparmiata dal commando che le aveva puntato la pistola alla testa. Parlando alla Cnn Sophie Bramly, la cugina della Cayat, psichiatra di professione, ha detto ieri che "Elsa è stata uccisa perché ebrea. Gli assassini hanno chiesto alle loro vittime di alzarsi e identificarsi". Il fratello della Cayat ha rivelato che la giornalista aveva ricevuto numerose minacce di morte al telefono, tipo "sporca ebrea". "Quindi se fai due più due, sembra che sia stata uccisa proprio perché ebrea", ha detto Bramly alla Cnn. "I terroristi hanno risparmiato tutte le donne, tranne lei. E lei era l'unica ebrea".

(Il Foglio, 14 gennaio 2015)


Gaza: Protesta dei dipendenti pubblici. Hamas minaccia di lasciare il Governo

di Mario Lucio Genghini

La questione degli stipendi dei 50mila dipendenti pubblici di Gaza, non pagati ormai da sette mesi, rischia di far saltare il governo di unità nazionale Hamas-Fatah.
  La condizione economica e sociale nella Striscia rimane esplosiva, dopo l'operazione militare Margine Protettivo messa in atto dal governo israeliano. Ma a rendere ancora più complicata la situazione è l'estrema litigiosità tra la fazione islamista, che ha governato Gaza per sette anni, e il partito del Presidente Abu Mazen. Da quando sono al governo insieme le accuse reciproche sono all'ordine del giorno.
  Forse l'epilogo dell'esecutivo di unità nazionale potrebbe arrivare proprio a causa della mancato pagamento dei salari: "l'Anp, infatti, ha versato 1.200 dollari a testa a 24mila impiegati, lasciandone però fuori altri 26mila, per lo più sono nel settore della sicurezza". (Nena News):
  Per questo motivo, lunedì scorso è incominciato uno sciopero che raggruppa i dipendenti dei vari ministeri, seguito ieri dalla decisione degli ex impiegati di entrare in sciopero della fame. Ma non è tutto, la protesta si è ulteriormente radicalizzata nelle ultime ore.
  Gli impiegati sono riusciti ad entrare nel quartier generale del governo e hanno annunciato un sit-in che terminerà soltanto quando Abu Mazen si deciderà a sbloccare la situazione. I lavoratori di Gaza sono convinti di essere stati discriminati, perché ritengono che sia in atto una differenza di trattamento rispetto a quelli di Ramallah.
  Inoltre, il timore diffuso è quello che i lavoratori pubblici gazawi verranno sostituti tutti da personale legato a Fatah. Questa sarebbe una sorta di "vendetta" del 2007. In quell'occasione i 70 mila impiegati della fazione del Presidente Abu Mazen venero rimpiazzati dai circa 50 mila di Hamas.
  Sempre Nena News, ci informa che ieri Mushir al-Masri, portavoce del gruppo islamista, ha minacciato l'abbandono del governo, se a breve non ci sarà un sblocco dei fondi. Ed ha aggiunto: "Il governo non si è preso le sue responsabilità nei confronti della Striscia di Gaza, in particolare dei dipendenti pubblici. Ogni giorno il governo dimostra di essere un esecutivo di divisione e non di consenso nazionale".
  Intanto le due fazioni si accusano anche sulla questione dei valichi al confine con Israele e Egitto. Fatah sostiene che è Hamas che rifiuta di cedere il controllo dei corridoi. Per gli islamisti, invece, è l'Anp che si sta comportando in maniera iniqua, perché pretende l'assenza di impiegati pubblici di Hamas ai confini.
  Ovviamente a fare le spese della discordia tra Hamas e Fatah è la popolazione di Gaza. Il disaccordo vigente all'interno del governo ritarda gli investimenti nella Striscia e ha, di fatto, bloccato l'ingresso dei materiali da ricostruzione.
  
(BLOGO News, 14 gennaio 2015)


Ebrei e musulmani insieme ai funerali del poliziotto arabo

 
PARIGI - Circa duemila persone si sono riunite nella periferia di Parigi per le esequie di Ahmed Merabet, uno dei poliziotti morti sotto i colpi dei terroristi. Il funerale si è svolto al cimitero musulmano di Bobigny. Qui tanti amici, di fede musulmana come la vittima, colleghi poliziotti e anche alcuni rappresentanti della comunità ebraica in segno di solidarietà.
"La nostra presenza qui si spiega semplicemente: gli ebrei hanno sofferto nel corso di tutta la loro storia. Penso che sia importante da parte nostra offrire sostegno a una comunità che soffre", ha spiegato Elie, rappresentante della comunità ebraica francese.
"Mi ha molto colpito la comunità ebraica - ha sottolineato Dail Boubakeur, rettore della moschea di Parigi - l'auspicio è di condividere non solo il momento del dolore ma anche dei momenti di distensione e di serenità".
Ahmed Merabet è il poliziotto di origini arabe freddato per strada, fuori dalla sede di Charlie Hebdo a Parigi. Le immagini dell'esecuzione, circolate su internet subito dopo l'attacco, hanno scioccato il mondo intero. Inerme sul marciapiede, con le mani alzate, Merabet è stato ucciso con un colpo di kalashnikov alla testa da uno dei fratelli Kouachi.

(askanews, 14 gennaio 2015)


Metà degli ebrei britannici teme di non avere futuro nel Regno Unito

LONDRA - Quasi la metà degli ebrei britannici teme di non aver più futuro nel Regno Unito o in Europa. E' quanto è emerso dai risultati di un sondaggio condotto dall'associazione Campain Against Anti-Semitism (Caa) su un campione di 2.230 britannici di origine ebraica.
Secondo la ricerca, il 45% delle persone interpellate ritiene di non avere futuro nel Regno Unito, il 58% in Europa. Un quarto delle persone ha poi ammesso di aver pensato negli ultimi due anni di lasciare il Regno Unito.
Il sondaggio è stato condotto dal 23 dicembre all'11 gennaio, nei giorni della strage al giornale satirico francese Charlie Hebdo e dell'attacco a un supermercato kosher di Parigi.
"I risultati della nostra ricerca sono una scioccante presa di coscienza dopo le atrocità di Parigi - ha detto il presidente del CAA, Gideon Falter - il Regno Unito è in un momento critico. Se non ci sarà tolleranza zero, l'antisemitismo crescerà e gli ebrei britannici si interrogheranno sempre più sul loro posto in questo Paese".

(askanews, 14 gennaio 2015)


Gli ebrei irlandesi: "La Gioconda ha il velo, tornate in Israele"

Un profilo twitter legato all'ambasciata israeliana in Irlanda "mette il velo" a Monna Lisa e avverte: "Ve l'avevamo detto". E anche gli ebrei inglesi non si sentono sicuri...

di Ivan Francese

Monna Lisa islamica
Questa l'inquietante immagine pubblicata su Twitter - e poi ripresa dal quotidiano israeliano Jerusalem Post - da un profilo legato all'ambasciata israeliana in Irlanda, con una didascalia molto emblematica. "Israele è l'ultima frontiera del mondo libero". E: "Non dite che non vi avevamo avvertiti".
Già nei giorni scorsi si erano registrate aspre polemiche intorno alla partecipazione e alle parole del premier israeliano Benjamin Netanyahu alla manifestazione di domenica scorsa a Parigi in ricordo delle vittime degli attentati terroristici (tra cui quattro ebrei). Il quotidiano israeliano Haaretz aveva svelato come in un primo momento il presidente francese Hollande si fosse detto contrario ad invitare il primo ministro di Tel Aviv, cedendo solo dietro ripetute insistenze.
    Inoltre avevano fatto discutere le dichiarazioni con cui Netanyahu aveva ricordato agli ebrei che "Israele è la loro vera patria", invitando implicitamente chi non si sentisse sicuro in Europa a trasferirsi in Israele. Posizioni non sempre gradite alle autorità francesi. Già nel 2004 si sfiorò la crisi diplomatica quando Ariel Sharon lanciò un appello agli ebrei di Francia perché tornassero in Israele "il prima possibile". Parole che fecero infuriare l'allora presidente Chirac, tanto da costringere l'israeliano a una tempestiva marcia indietro.
    Tutto questo nello stesso giorno in cui in Gran Bretagna viene pubblicato uno studio, ripreso peraltro anche da The Independent, secondo cui la maggioranza degli ebrei britannici sentono di non avere futuro nel Regno Unito. Un dato che, spiega il quotidiano londinese, svela il nuovo, preoccupante, tasso di crescita di antisemitismo anche tra i sudditi di Sua Maestà. Il 45% degli intervistati sottoscriverebbe almeno un'affermazione antisemita su quattro tra quelle proposte, mentre un cittadino britannico su cinque pensa che la "lealtà" degli ebrei vada prima ad Israele che non a Buckingham Palace. Il 13%, infine, ritiene che molti ebrei "sfruttino" il tema dell'Olocausto per ottenere compassione.
    Negli ultimi tempi gli episodi di violenza antisemita - dalla profanazione di cimiteri ebraici all'affissione di poster ingiurisiosi - è in crescita, mentre la protezione intorno a scuole e luoghi di culto viene costantemente elevata. E tutto questo ancora prima degli attentati di Parigi.

(il Giornale, 14 gennaio 2015)


Venezia si prepara ai 500 anni del primo ghetto degli ebrei

Per il 2016, la stilista Von Fürstenberg stanzia dodici milioni.

di Elena Loewenthal

 
Compirà cinquecento anni l'anno prossimo e per una ricorrenza così importante ci si sta preparando con largo anticipo. Anche perché il mezzo millennio del ghetto di Venezia non è soltanto l'anniversario di un luogo particolare di una città unica al mondo o di un monumento rilevante. E' il tracciato di una storia che è stata la rara, forse unica combinazione di un destino privato e universale. Che riguarda un gruppo ristretto di persone, con le loro storie, ma che è diventato ben presto il simbolo di una condizione comune, nella varietà di luoghi e momenti.
   Perché «ghetto» è diventata una parola iconica, che con sei lettere descrive in modo straordinariamente esaustivo l'emarginazione, la segregazione, il rifiuto dell'altro. Ma nasce qui, fra queste calli, subito oltre la riva orientale del rio di Cannaregio, poco dopo l'inconfondibile ponte delle Guglie. Dalle fondamenta del canale ancora non si vede, non c'è nulla che indichi la particolarità del luogo. Bisogna cercarlo, il sottoportego che conduce all'interno, dopo un buio e angusto passaggio: lì un tempo c'era il cancello, che da sera a mattina restava chiuso e di giorno ed era sorvegliato da delle guardie che gli ebrei erano costretti a pagare. E a cercare bene, a guardare con attenzione, si riconoscono ancora i cardini del cancello.
   Chissà se comincerà di lì, da quei cardini così carichi di significato e non solo per la comunità ebraica di Venezia, il restauro del ghetto per il quale la stilista Diane Von Fürstenberg ha stanziato qualche settimana fa ben dodici milioni di dollari. L'obiettivo non è quello di una conservazione puramente museale di questo posto unico al mondo, ma di trasformarlo in un centro culturale vivo.
   A incominciare dal riallestimento del piccolo museo che si affaccia sul campo del Ghetto Nuovo, che in realtà è la zona più antica del ghetto: una grande e ariosa piazza - la seconda della città dopo San Marco - dove subito salta all'occhio l'altezza degli edifici. Perché gli ebrei non potevano espandersi in larghezza, sulla laguna, e dunque di fronte all'incremento della popolazione l'unica alternativa era quella di alzare un piano o due in più.
   Di qui, da questo grande «campo» dove ora, oltre all'ingresso del museo, ci sono botteghe e un bar, c'è l'edificio della casa di riposo della comunità ebraica e c'è un monumento in memoria delle vittime dello sterminio, tutto è cominciato il 29 marzo del 1516, quando un decreto del doge ordina di concentrare tutti gli ebrei della città in questa zona periferica dove c'era una vecchia fonderia - gheto o geto, per l'appunto. L'obiettivo è duplice: esercitare un controllo serrato della comunità ed emarginare i «perfidi» ebrei. Erano necessari all'economia della città, con i loro commerci, ma andavano tenuti distanti e separati dai cristiani, perché la loro stessa presenza (magari radicata da secoli) li offendeva.
   I lavori di restauro e di riqualificazione ad opera del «Venetian Heritage Council», un'organizzazione creata all'uopo, hanno un obiettivo che va al di là della storia ebraica: «Siamo tutti responsabili di fronte al dovere di assicurare che le generazioni future abbiano accesso a queste storie», spiega Von Fürstenberg. A maggior ragione quando ci si trova di fronte alla congenita fragilità di Venezia, e più che mai fra le mura del ghetto -luogo concepito per dare agli ebrei stessi e al resto del mondo la cifra della loro sgradita provvisorietà. Qui ci sono infatti cinque «schole», cioè sinagoghe, una più bella dell'altra. Ma tutte nascoste dietro facciate indistinguibili, perché agli ebrei era fatto divieto di marcare i loro luoghi di preghiera con segni esteriori, per non «offendere» la sensibilità cristiana. La schola tedesca e quella Canton sono di rito ashkenazita, la levantina e la spagnola sono sefardite, e poi c'è l'italiana: è lo specchio della natura multietnica di questo luogo dove convivevano - non sempre pacificamente ... - ebrei di origini e culture diverse.
   I restauri saranno discreti e rispettosi, con l'obiettivo più di rivitalizzare che di preservare, «Abbiamo scelto questo progetto non perché sia ebraico, ma perché il ghetto è una parte cruciale del patrimonio culturale di Venezia, e noi vogliamo una Venezia migliore» spiega Toto Bergamo Rossi, l'International Relations Advisor del «Venetian Heritage», organizzazione no profit per la salvaguardia di Venezia. L'obiettivo più ampio è quello di trasformare il turismo globale nella città, restituendo Venezia alla propria storia, dentro e fuori dal ghetto: basta al viavai mordi e fuggi in laguna, che uccide la città e non lascia niente in chi ci passa.
   Così come il ghetto, tutta Venezia ha bisogno di narrazione («Abbiamo bisogno di un intervento importante, per trasformare questo museo in un luogo capace di raccontare la nostra storia», spiega Shaul Bassi, direttore del Centro Veneziano di Studi Ebraici Internazionali), di uno sguardo che sappia cogliere quello che c'è oltre piazza San Marco: in fondo, come quella degli ebrei, anche la vita della città è una coraggiosa e improba sfida al tempo che passa.

(La Stampa, 14 gennaio 2015)


A Tel Aviv l'IMTM
The International Mediterranean Tourism Market
2015, Mostra del Turismo del Mediterraneo


ROMA - Ventunesimo appuntamento in Israele con il Mercato del Turismo Internazionale: a Tel Aviv è infatti in programma l'ormai tradizionale appuntamento fieristico con l'IMTM, la mostra internazionale del turismo del mediterraneo, nei giorni 10 e 11 febbraio prossimi.
La mostra aperta al mondo del turismo specializzato è considerata il luogo di incontro per l'industria turistica globale e locale. L'IMTM 2015 ospiterà i rappresentanti di oltre 40 paesi, più di 1.225 espositori e circa 21.900 visitatori, compresi i professionali del settore del turismo locale, gli agenti di viaggio e la stampa proveniente dall'estero.
L'evento israeliano si concentra sul turismo incoming, il turismo domestico e il turismo outgoing; significativo il numero di espositori provenienti da oltreoceano. La fiera presenta inoltre momenti di laboratori professionali, seminari e conferenze stampa. Presenti tutti i brand dei diversi settori, eco-turismo, turismo del benessere, cultura, vacanze al mare o soggiorni in città, offerte di pacchetti e viaggi su misura.
Il turismo israeliano registra oltre 4 milioni di viaggiatori all'estero ogni anno. Gli israeliani viaggiano con frequenza crescente, con un budget di spesa generoso e soggiorni medi di 4-10 notti.

(askanews, 13 gennaio 2015)


Ghetto ebraico a Roma, dove la paura si sconfigge con la sicurezza

di Rossana Miranda

Roma - Ghetto
Il Ghetto ebraico di Roma non dimentica. Non dimentica i deportati durante il neofascismo; i loro nomi sono incisi nei sampietrini dorati disegnati dall'artista Gunter Demnig e incastrati davanti ai portoni da dove sono usciti per non tornare più. Non dimentica Stefano Taché Gay, un bambino di due anni ucciso dai terroristi nel 1982 mentre usciva dalla sinagoga. A lui è dedicata una targa circondata da un'aiuola. Non dimentica Ron Arad, un pilota israeliano scomparso in Libano nel 1986, così come non dimentica Naftali Frenkel, Gilad Shaar ed Eyal Yifrach, i tre ragazzi israeliani sequestrati e uccisi la scorsa estate dall'organizzazione terroristica Hamas. Due striscioni con i loro volti sono appesi fuori dalla sinagoga di Roma.

ZONA PEDONALE
Ed è proprio per questo impegno a non dimenticare che gli attacchi alla redazione del settimanale francese Charlie Hebdo e al negozio kosher di Porte de Vincennes per mano di terroristi islamici hanno sconvolto la comunità ebraica a Roma. Nelle vicinanze della scuola la sicurezza è stata aumentata così come la presenza delle pattuglie dinamiche dei carabinieri. È stata anche anticipata dalla prefettura la decisione di pedonalizzare il ghetto. Un'idea del sindaco Ignazio Marino era nell'aria dallo scorso ottobre.

UOMINI IN BORGHESE
Soprattutto durante le lezioni e all'una, l'ora di uscita dalle scuole, il ghetto pullula di uomini della sicurezza in borghese. Ogni angolo è sorvegliato, qualsiasi presenza estranea è immediatamente intercettata. E non c'è biglietto di visita o tesserino che tenga.
"La tensione che viviamo c'è sempre stata, ma ora è un momento più delicato, troppo delicato per parlarne così", spiega una mamma che sta in piedi ad aspettare il figlio che esce da scuola. "La polizia fa già tanto, che altro devono fare? Più di così non ci possono proteggere", dice un'altra signora. "Forse è meglio parlare con qualcuno della comunità ebraica, che ci rappresenta tutti", invita cortesemente una mamma, seduta su una panchina, in piazza.

MINACCIA SU ROMA, NON IL GHETTO
I papà sono volontari nella sorveglianza. Sanno che più occhi sono attenti e più diminuisce il rischio. Un uomo si avvicina per parlarmi, aveva sentito le mie domande e voleva darmi la sua opinione, forse era uno dei genitori volontari nella sorveglianza, ma subito dopo è stato bloccato da un altro: "Quando sei di turno non puoi rilasciare interviste".
Pochi minuti dopo arriva il portavoce della Comunità ebraica di Roma, Fabio Perugia: "La prefettura ha deciso domenica di rafforzare la sicurezza e di pedonalizzare la zona. I genitori sono contenti perché c'è meno confusione e possono trovare parcheggio senza girare troppo quando devono venire a cercare i figli". Gli chiedo sulla paura di un possibile attentato e mi risponde serio: "Come tutti i cittadini europei ci sentiamo attenzionati dagli estremisti dell'Isis. Ma Roma è sotto minaccia per essere la culla del cristianesimo".

SINAGOGA APERTA
Secondo Perugia, la comunità ebraica è soddisfatta dell'operazione di sicurezza: "Mentre a Parigi le sinagoghe sono chiuse a Roma possono restare aperte e per questo dobbiamo ringraziare soltanto alle forze dell'ordine". Un gruppo di ragazzi, kippah in testa, esce da una visita guidata alla sinagoga. Uno di loro si ferma per fotografare lo striscione con le fotografie dei tre ragazzi israeliani uccisi a giugno; erano suoi coetanei.

LA SERENITÀ DEI BAMBINI
Per Milena Pavoncello, direttrice della Scuola primaria "Vittorio Polacco", questi giorni sono di grande tensione per i tragici fatti accaduti in Francia ma il livello di sicurezza è alto. "Dall'attentato del 1982 i genitori sono partecipi volontari della sorveglianza della scuola. Nonostante quello che si potrebbe aspettare, non ci sono assenze né cambiamenti negli orari e le attività ordinarie. La zona pedonale fra stare tutti molto più tranquilli. Dobbiamo curare la serenità dei bambini".
In alcune classi i bambini hanno chiesto cosa sia successo (e perché) a Parigi. Hanno ricevuto spiegazioni con delicatezza. Persino domenica c'è stata grande affluenza in un'attività extra-scolastica, i negozi sono rimasti aperti. La comunità ebraica non si è staccata dalle strade perché non dimentica le oppressioni vissute e i morti. Ma, come ha detto Perugia, nonostante la preoccupazione gli ebrei di Roma non hanno paura di chi li odia.

(formiche, 13 gennaio 2015)

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Roma - Ghetto ebraico pedonalizzato. Residenti-vigilantes: "Siamo esperti di krav maga"

ROMA - Dopo gli omicidi di Parigi nella sede del settimanale satirico Charlie Hebdo e nel market kosher nel quartiere ebraico, scatta l'allerta nel Ghetto ebraico di Roma, che da domenica 11 gennaio è stato pedonalizzato per motivi di sicurezza. E il Messaggero, con un articolo di Laura Bogliolo, mette in risalto una realtà nota da tempo a chi vive, frequenta e attraversa il quadrilatero delimitato da via delle Botteghe Oscure, il Lungotevere degli Anguillara, via Arenula e via Petroselli-del Teatro Marcello: quella dei "residenti vigilantes", ovvero delle strutture di autodifesa della comunità ebraica.
Al Ghetto non bastano le postazioni fisse dei carabinieri: ci sono i gruppi di vigilanza del quartiere, giovani e meno giovani addestrati al krav maga, l'arte marziale praticata dagli agenti del Mossad e raffinata negli anni, una sorta di manualino Bignami per chi vuole mettere ko qualcuno in strada usando soprattutto i "colpi bassi" e facendo il minimo dello sforzo.
   Scrive Laura Bogliolo: «Individuo sospetto con cappello grigio e verde». La radiotrasmittente echeggia su via del Portico D'Ottavia confondendosi alle grida gioiose dei bimbi che escono da scuola. Le sentinelle, i più giovani, intanto controllano gli accessi su via Catalana e via del Tempio. Ogni volto nuovo, ogni movimento sospetto viene segnalato e in caso di pericolo il responsabile di turno avverte le forze dell'ordine usando una linea diretta. L'area è sospesa, le mamme corrono via sfuggendo veloci gli sguardi estranei. Addestrati con la tecnica krav maga, l'arte marziale usata dagli agenti del Mossad, blindano il ghetto in un estremo sforzo d'amore alimentato dal ricordo ancora insanguinato di Stefano Gaj Tachè, due anni, ucciso nell'attentato del 1982 alla sinagoga.
   «I nostri vigilanti sono persone preparate, addestrate, fanno dei corsi specifici, usano la tecnica krav maga, la tecnica di auto-difesa usata in Israele - dice Fabio Di Castro, del Circolo Zi' Raimondo, i ragazzi del '48, mentre vigila all'uscita della scuola - la sicurezza ovviamente è stata rafforzata da giorni, con la vigilanza del quartiere, ma anche da parte delle forze dell'ordine». I gruppi della vigilanza di quartiere frequentano corsi appositi, sono preparati, nulla è lasciato al caso. [...] I vigilanti del quartiere non possono intervenire direttamente e in caso di pericolo, avvertono le forze dell'ordine.
   In realtà in passato è successo spesso che alla delega alle forze dell'ordine le "strutture di difesa" abbiano preferito l'intervento diretto, come hanno denunciato i malcapitati di turno. D'altra parte è comprensibile la tensione della comunità ebraica più antica del mondo, visto il clima di crescente antisemitismo che la circonda.

(blitz quotidiano, 13 gennaio 2015)


Netanyahu sulla strage di Parigi: "Assassinati perché ebrei"

Il premier israeliano nel cimitero di Gerusalemme ha ricordato le vittime dell'attentato al minimarket kosher.

di Maria Virgili

Un giorno di dolore a Gerusalemme come Parigi dove si celebrano oggi i funerali delle vittime delle stragi francesi. Al cimitero di Har ha-Manuhot, centinaia di persone sono venute a portare il loro ultimo saluto agli ostaggi morti nel supermercato kosher per mano di Coulibaly.
Una giornata in ricordo di Yohan Cohen, 22 anni, dipendente del minimarket; Philippe Barnham, 45 anni, executive di una compagnia informatica, padre di quattro figli; Francois-Michel Saada, pensionato, padre anche lui di due figli e Yoav Hattab, 21 anni, figlio del rabbino capo di Tunisi. Le salme, arrivate questa mattina dalla Francia, sono state accolte da circa 2000 persone tra parenti, amici, conoscenti e autorità come il presidente Reuven Rivlin e il premier Benyamin Netanyahu.
Le vittime "sono state assassinate solamente per il fatto di essere ebrei in un attacco di odio compiuto da un disprezzabile assassino". A parlare è il primo ministro nel suo discorso di commemorazione durante il quale ha rinnovato l'appello alle autorità mondiali affinché vengano assunte misure più energiche contro l'islamismo radicale.
"Questi non sono solamente nemici degli ebrei - ha proseguito il premier - ma di tutta l'umanità. E' arrivato il momento che tutto il mondo civile si unisca per sradicare questi nemici dal nostro interno". Infine, a conclusione del suo intervento Netanyahu ha rivolto un ultimo pensiero: "Credo che nel profondo dei loro cuori gli ebrei sappiano che Israele è la loro patria storica che li accoglierà a braccia aperte".
Nella cerimonia è stato ricordato anche il giovane commesso musulmano del supermercato Kosher di Parigi che ha permesso con il suo coraggio di salvare la vita di numerosi ostaggi. Di lui il rabbino Meir Mazuz, leader della comunità tunisina di Israele, ha voluto celebrare il coraggio: "Lassana Bathily è un giusto tra le nazioni e i giusti tra le nazioni hanno un posto nel mondo che verrà".

(In Terris, 13 gennaio 2015)


Israele - Il momento più duro

di Rachel Silvera

 
Il presidente dello Stato d'Israele, Reuven Rivlin
"Cari Yoav, Yohan, Philippe e Francois-Michel non volevamo ricevervi in Israele in questa situazione. Non volevamo vedervi arrivare così in questa terra, la vostra casa. Vi volevamo vivi", è livido il presidente dello Stato d'Israele Reuven Rivlin mentre presenzia al Monte degli Ulivi di Gerusalemme ai funerali delle quattro vittime dell'attentato all'Hypercasher di Porte de Vincennes, nella periferia di Parigi.
   Yoav Hattab, 21 anni, era da poco stato in Israele; sul suo profilo Facebook troneggia ancora lo sfondo della città dorata. Ha ricevuto oggi, per volere della sua famiglia e del padre (il rabbino della Grande Sinagoga di Tunisi e preside della scuola ebraica Benjamin Hattab), l'elegia funebre del leader spirituale tunisino rabbi Meir Mazuz fuori dalla yeshiva di Bnei Brak.
   La foto di Yoann Cohen mentre prega stretto nel suo talled ha commosso tutto li mondo. Il ventenne sarà sempre ricordato per il disperato tentativo di sparare, con un'arma abbandonata, all'attentatore Amedy Coulibaly, senza però riuscire e venendo quindi freddato da quest'ultimo.
   Philippe Braham aveva sempre sognato di fare l'aliyah, i figli di Francois Michel Saada si erano invece entrambi trasferiti in Israele.
   A dare il proprio sostegno alle famiglie e agli amici, oltre alle migliaia di persone accorse, anche il premier Benjamin Netanyahu, il leader dell'opposizione Isaac Herzog e il ministro dell'Ambiente francese Ségolène Royal che ha conferito la Legione d'Onore postuma alle quattro vittime.
   Tanti i messaggi che i cittadini israeliani hanno voluto lanciare, intrisi di solidarietà e preoccupazione; tanti i cartelloni con scritto Je suis Juif. Un uomo, riporta il Times of Israel, solleva un foglio con le foto dei quattro uomini e la frase lapidaria: "Sono morto perché sono ebreo".
   Dopo aver recitato il Kaddish, la tradìzionale preghiera funebre, prende la parola Valerie, la vedova di Philippe Braham, che in Israele ha già sepolto il loro primo figlio: "Mio marito era un padre perfetto, l'amore della mia vita. Poneva sempre davanti a sé le esigenze altrui. Adesso sto piangendo, ma sento che tutti voi piangete con me", ad abbracciarla la first lady Sara Netanyahu. Philippe lascia orfani Raphael, Ella, Naor e Shirel, gli amici della coppia hanno lanciato un'iniziativa online per raccogliere i soldi e garantire il loro sostentamento.
   Distrutta anche la vedova di Saada, un testimone racconta che la donna è stata dovuta essere trascinata per salire sull'aereo e dare l'ultimo saluto al compagno di una vita.
   Il presidente Rivlin lancia poi un monito: "L'Europa ha il dovere di proteggere gli ebrei. Le vittime che seppelliamo oggi sono state uccise a sangue freddo perché ebree. Il terrorista voleva essere sicuro di attaccare un negozio ebraico. Questo è il simbolo di un odio antisemita oscuro e premeditato che vuole colpire la vita ebraica: a Tolosa, a Gerusalemme, a Bruxelles. Che sia per strada, in museo, nelle sinagoghe, alla stazione".
   Addolorato, il premier Netanyahu ha ricordato: "Qui sono sepolte anche le vittime della strage nella scuola ebraica di Tolosa. Non mi stancherò mai di dire come i terroristi, non siano solo nemici del popolo ebraico, ma di tutta l'umanità. Non dobbiamo avere paura però, non ci sconfiggeranno. Siamo un popolo antico con uno spirito forte… Ed esiste lo Stato d'Israele, la terra che rappresenta la speranza per tutto il popolo ebraico".
   Il leader dell'opposizione israeliana Isaac Herzog ha collegato il massacro delle quattro vittime alla sinagoga Har Nof di Gerusalemme con quello perpetrato a Parigi: "Non permetteremo al terrorismo di vincere".
   Dopo l'invito di Benjamin Netanyahu agli ebrei francesi di trasferirsi in Israele e la risposta del primo ministro francese Manuel Valls ("La Francia non sarebbe più la Francia senza gli ebrei"), interviene il ministro Ségolène Royal: "Soffriamo con voi. Nel nostro paese non ci sarà posto per l'Antisemitismo, abbiamo il dovere di proteggere gli ebrei francesi".
   Dopo la giornata di oggi, per la famiglia Cohen, Hattab, Saada e Braham inizierà il momento più duro: la sopravvivenza, ora dopo ora, agli uomini che amavano più di ogni altra cosa.

(moked, 13 gennaio 2015)


Arrivati a Gerusalemme i corpi dei quattro ebrei uccisi

Saranno sepolti al cimitero ebraico di Gerusalemme

ROMA - I corpi dei quattro ebrei francesi uccisi nell'attacco al supermercato Kasher alle porte di Vincennes, a Parigi, sono arrivati in Israele per essere sepolti a Gerusalemme, nel cimitero di Har Hamenouhot, lo stesso luogo dove riposano tre bambini e un insegnante, morti nel 2012 in Francia, in un attacco jihadista da parte di Mohamed Merah.
Yohav Hattab e Yohan Cohen, entrambi ventenni, Philippe Braham, sulla quarantina e Francois Michel Saada, di 60 anni, erano tra gli ostaggi uccisi da Amedy Coulibaly, in uno degli attentati che hanno creato terrone in Francia.

(askanews, 13 gennaio 2015)


Le radici dell'odio

di Giovanni Morandi

A parte il discutibile invito di Hollande al premier israeliano Netanyahu perché non partecipasse alla marcia, pretesa che non aveva a che fare con l'antisemismo ma con ragioni di sicurezza (coraggio da leoni), il problema che gli ebrei sono sotto tiro esiste. Le cifre fornite dall'Agenzia ebraica di Francia, organizzazione che aiuta a trasferirsi in Israele, sono chiare. Nel 2012 sono partiti 2mila ebrei, nel 2013 oltre 3100, nel 2014 sono stati 5mila e quest'anno dopo quello che è accaduto e quello ancora peggiore che poteva accadere vogliono andarsene in 10mila. Siamo alla fuga dal paese che ha la più grande comunità ebraica d'Europa: mezzo milione. Ma il problema non è che i francesi sono antisemiti, anche se qualche motivo per guadagnarsi il sospetto l'hanno dato (leggere i libri di storia). Il fatto è che l'antisemitismo sta dilagando in Francia perché ci sono sei milioni di musulmani, che sono diventati ingombranti anche per i francesi.
  Gli studI legali di New York segnalano nel 2014 il trasferimento di alcune decine di grandi famiglie ebraiche francesi, che senza fare clamore e senza però scegliere Israele che non è il posto più tranquillo del mondo, hanno pensato di mettersi al riparo andando negli Usa dove si sono portati dietro 1,5 miliardi di dollari. Il fatto che il premier Netanyahu abbia detto in modo ruvido a Hollande di essere più energico contro il terrorismo arabo, e abbia detto agli ebrei: «La vostra casa è Israele» (e non la Francia) non è che il risultato di quanto si è detto. Tra quelli che se ne vanno c'è il proprietario del negozio kosher della strage. Inevitabile epilogo di un'immigrazione finita fuori controllo. La libertà della democrazia ha finito col facilitare i fanatici jihadisti, che tre anni fa assalirono una scuola ebraica (quattro morti) e regolarmente incediano i negozi ebrei. All'Agenzia ebraica si sono rivolti l'anno scorso in 50mila per sapere cosa fare per andarsene ed è facile trovare ebrei che ti dicono che hanno paura e che non è più vita. Liberté fraternité égalité ma non per tutti.

(Quotidiano.net - Blog, 13 gennaio 2015)


Proposta di soluzione al problema del terrorismo islamico in Francia

Andrea's Version: "Mi è arrivata, anonima, via mail e ve la ripropongo pari pari."

TITOLO: "Una soluzione alla crisi del terrore franco-islamista".
Questo attacco sottolinea l'urgenza a che la Francia sieda immediatamente al tavolo delle trattative con i francesi musulmani per creare due stati per due popoli, che vivano uno accanto all'altro in pace e sicurezza, con Parigi come capitale condivisa. Baci.

(Il Foglio, 13 gennaio 2015)


Appelfeld: "Il mondo intero ci deve proteggere"

 
Aharon Appelfeld
Parla lentamente, Aharon Appelfeld, soppesando ogni frase tra lunghi sospiri. Dalla sua casa a Gerusalemme lo scrittore israeliano, che compirà 83 anni a febbraio, sta seguendo con una preoccupazione fortissima la difficile situazione in cui si trovano gli ebrei a Parigi e in Francia. «Provo orrore, solo orrore, per quanto è avvenuto a Parigi — dice il romanziere di famiglia ebraica, che da bambino fu deportato in un campo di concentramento insieme al padre, dopo che i nazisti ne avevano ucciso la madre, per poi riuscire miracolosamente a fuggire e a salvarsi — è terribile che siano stati uccisi dei giornalisti ma anche degli ebrei. Tutto questo mi fa male. L'agguato al kosher market è una cosa orribile. Mi ha ricordato le violenze che gli ebrei hanno subito durante la seconda guerra mondiale».

- Appelfeld, come si vincerà questo clima di paura?
  «Non lo so. I giornalisti sono stati assassinati perché giornalisti e gli ebrei sono stati uccisi perché ebrei. Esattamente come succedeva durante il nazismo. La comunità internazionale non dovrebbe permettere questo, gli ebrei vanno protetti. Oggi ripiombiamo in un passato di terrore, nella barbarie che l'Europa si era lasciata alle spalle. Non doveva più tornare. E invece è qui, sotto i nostri occhi».

- Secondo lei le misure di sicurezza basteranno per impedire altri attentati?
  «Ce lo auguriamo tutti. Da un lato è necessario che le forze dell'ordine proteggano con la massima attenzione le scuole ebraiche, le sinagoghe e i negozi delle nostre comunità a Parigi e nel resto del Paese, ma dall'altro è evidente che per fare ciò occorreranno risorse economiche e umane sicuramente elevate. Non ho idea se il governo francese disponga di questi mezzi».

- Dopo il corteo in cui hanno sfilato insieme Netanyahu e Abu Mazen, il premier israeliano ha fatto visita al negozio kosher. Sono segnali importanti?
L'intervistatore di Repubblica fa la domanda suggerendo già la risposta. In realtà, non c’è niente di incoraggiante nella presenza di Abu Mazen in quella occasione.

  «Sicuramente sì, vanno accolti positivamente. Però penso che tutti i capi di Stato debbano continuare a esprimere la loro solidarietà e a impegnarsi per la pace. La partecipazione deve essere la più ampia possibile in queste situazioni».

- La sua esperienza di vita la induce a rivolgere quali parole agli ebrei che in queste ore vivono il dramma del terrorismo?
  «Si sentono vulnerabili, hanno paura. Li capisco. E gli sono vicino, davvero vicino. Gli mando tutta la mia solidarietà perché mi identifico in loro e in quello che stanno vivendo. Mi permetta però di farle notare che non è un problema solo per gli ebrei: quanto è accaduto a Parigi evidenzia rischi che vanno oltre l'antisemitismo. Riguardano l'Europa intera. Questo terrorismo barbarico, senza pietà, non è solo un problema per gli ebrei. È stata colpita l'Europa ».

- Cosa accadrà alla lunga tradizione di dialogo interculturale in Francia? Siamo a un punto di non ritorno?
  «Dipende dalla reazione del governo francese. Certamente è fondamentale che vengano identificati e fermati tutti gli estremisti islamici. L'Europa dal canto suo dovrà aiutare la Francia in queste azioni. Ne va della libertà di tutti».

(la Repubblica, 13 gennaio 2015)


La Bibbia messa ai margini e la crisi del cristianesimo

La crisi dell'Occidente per l'ignoranza della Bibbia. L'Europa sconta un'incapacità nel comprendere lo Stato di Israele. A una certa politica miope gli ebrei piacciono solo in quanto morti da ricordare e non come soggetti con cui confrontarsi.

di Giuseppe Laras

 
Rav Giuseppe Laras
Siamo in guerra e prendiamo coscienza che siamo solo agli inizi. È la prima volta dai giorni di Adof HItler che le sinagoghe in Francia sono state chiuse di sabato.
   Tuttavia, è unicamente il tragico attentato al giornale Charlie Hebdo che ha scosso gli europei: i molti e continui attentati ai singoli ebrei e alle comunità ebraiche in tutta Europa in questi anni hanno turbato qualcuno, ma per quasi tutti si è trattato «solo» di ebrei.
   Molti intellettuali e politici sostengono che il problema non è l'Islam, ma il terrorismo. È come dire che il cristianesimo non è l'antisemitismo o l'antigiudaismo. Certo! Tuttavia è innegabile che l'antisemitismo e l'antigiudaismo sono stati problemi profondi propri del cristianesimo (e non solo). La violenza e il fanatismo, la sottomissione religiosa e il terrore non esauriscono l'Islam, ma sono un problema religioso che in qualche modo riguarda l'Islam. L'autocritica dell'Islam (assieme alla critica laica esterna) su questo punto sembra difettare.
   Cristiani ed ebrei, secondo il Corano, sono presenti nei Paesi islamici in quanto dhimmi, popolazioni sottomesse, tollerate purché subalterne e paganti apposite tasse. Cosa dobbiamo, sia a livello politico e giuridico sia a livello interreligioso, chiedere oggi ai più autorevoli teologi islamici nei Paesi europei e arabi, anche a fronte della massiccia presenza demografica di musulmani?
   La prima domanda è la seguente: è possibile per l'Islam, in ossequio al Corano e per necessità religiosa intima propria dei musulmani osservanti, e non solo perché richiesto dai governi occidentali o da ebrei e cristiani, accettare teologicamente, apprezzandolo, il concetto di cittadinanza politica, anziché quello di cittadinanza religiosa, confliggente quest'ultimo con i valori occidentali e pericoloso per le comunità cristiane ed ebraiche che, in qualità di minoranze, sarebbero esposte a intolleranze e arbitrio? Questa domanda fondamentale, per ignoranza, ignavia e inettitudine, non è mai stata seriamente posta dai politici europei, che hanno responsabilità enormi, anche del sangue sinora versato.
   C'è una seconda questione, che si intreccia alla prima. Per l'Islam, gli ebrei hanno alterato la Rivelazione divina e i cristiani hanno pratiche cultuali, oltre a condividere con i primi una Rivelazione alterata, dal sapore idolatrico. E possibile per l'Islam, in ossequio al Corano e per necessità religiosa interiore dei musulmani osservanti, e non solo perché sollecitato da ebrei e cristiani, apprezzare positivamente, in una prospettiva teologica, ebrei e cristiani in relazione alle problematiche sollevate da questo assunto coranico?
   Premesso che ci sono migliaia di singoli musulmani che a queste domande hanno già risposto personalmente con il rispetto per li prossimo e per la sua fede, con un certo pluralismo e con l'integrazione ricercata e praticata, tuttavia manca una reale, inequivocabile, onesta, autorevole e vincolante riflessione teologica islamica al riguardo. È chiaro che se le risposte saranno per lo più negative, non sufficientemente autentiche o caratterizzate da silenzi e imbarazzi, ci si troverà tutti di fronte a un immenso problema.
   C'è una tentazione che può profilarsi, a diversi livelli, sia nel cristianesimo sia nella politica europea: quella di lasciar soli gli ebrei e lo Stato di Israele per facilitare una pace politica, culturale e religiosa con l'Islam politico, specie nell'ottica delle future proiezioni demografiche religiose europee, e mediterranee. È
Dopo che quasi tutti i Paesi islamici si sono sbarazzati dei «loro» ebrei, si sono concentrati con violenze e massacri sulle ben nutrite minoran- ze cristiane. È una storia che si ripropone e che va dal genocidio armeno (cento anni fa), ai cristiani copti di Egitto, ai cristiani etiopi e nigeriani, sino a Mosul.
una strategia fallimentare che i cristiani arabi provarono con il panarabismo e l'antisionismo. Gli esiti sono ben noti: dopo che quasi tutti i Paesi islamici si sono sbarazzati dei «loro» ebrei, si sono concentrati con violenze e massacri sulle ben nutrite minoranze cristiane. È una storia che si ripropone e che va dal genocidio armeno (cento anni fa), ai cristiani copti di Egitto, ai cristiani etiopi e nigeriani, sino a Mosul. E molti Paesi europei, un'intera «classe» di intellettuali e molti cristiani di Occidente hanno le mani grondanti del sangue dei cristiani di Oriente, dato che sono stati disposti a sacrificarli sugli altari del pacifismo, dell'opportunità politica, di un malinteso concetto di tolleranza, della cultura benpensante e radical chic, della «buona» coscienza.
   La tentazione di abbandonare gli ebrei e Israele è già esistente nei ricorrenti episodi di boicottaggio europeo dello Stato di Israele. Esiste nel silenzio imbarazzato o infastidito sui morti ebrei in Europa oggi. Con buona pace della Giornata della Memoria.
   La Giornata della Memoria è stata purtroppo addomesticata con liturgie pubbliche e anestetizzata dalle cerimonie in Parlamento e al Quirinale. Le più alte cariche dello Stato dovrebbero annualmente andare a celebrarla a Fossoli, a Bolzano, a San Sabba o nel ghetto di Roma, per far capire che è una realtà possibile, come tale ripetibile, e che si è verificata in Italia, con il plauso, la collaborazione, l'assenso e i silenzi di moltissimi - troppi - italiani. Essa così risulta azzoppata, fraintesa e priva di potenzialità dinamiche per comprendere il presente e incidervi positivamente.
   E l'ignavia e il diniego europeo sulle questioni presenti e sull'incapacità di affrontare politicamente e culturalmente le insidie legate alle derive dell'Islam politico, consegnando così a razzisti e xenofobi le risoluzioni del problema, gettano ombre lunghe che rievocano i fantasmi del nazismo e, per gli ebrei, della persecuzione. L'incapacità di comprendere lo Stato di Israele in definitiva si risolve nel fatto che a una certa politica e a una certa cultura europea miope gli ebrei piacciono solo in quanto morti da piangere e ricordare e non come soggetti vivi con cui dialogare e confrontarsi, ovvero oggi, in primo luogo, Israele.
   La nostra contemporaneità ricorda tristemente il periodo sinistro tra le due guerre mondiali: una sorta di collasso sistemico. La crisi che viviamo non è economica e demografica soltanto: è una crisi culturale e valoriale, legata alla crisi del cristianesimo e, in un certo senso, della conoscenza della Bibbia, il cardine dell'intera nostra cultura dal punto di vista urbanistico, artistico, musicale, letterario, filosofico, giuridico, politico e religioso. E proprio per questo la Bibbia non è presente nelle scuole. E questa la chiamano laicità!
   È stato necessario un attore per far di nuovo parlare, interessando, di Bibbia e del Decalogo: Benigni! Che débacle che sia stato necessario lui dopo duemila anni di cristianesimo e duemila e duecento anni di
Riportare la Bibbia a fondamento della cultura e dell'etica è un impegno religioso possibile: un impegno di cui si avverte l'urgenza impellente e drammatica in questi anni di crisi, di confusione assor- dante, di efferata violenza e di grande mediocrità.
ebraismo in Italia! L'erosione della conoscenza della Bibbia, non in quanto «tributo antiquario» ma piuttosto in quanto «forza creatrice e rigenerante», è uno dei fatti più inquietanti e drammatici per il nostro futuro sia religioso, sia culturale nelle sue varie declinazioni, sia in termini economici e politici.
Aveva ragione C. M. Martini a dire che la Bibbia è il libro del futuro dell'Europa e dell'Occidente, ma non è stato ascoltato, Aveva ragione Benedetto XVI nella ben nota conferenza di Ratisbona, ma fu vittima del discredito mediatico e culturale. E la Bibbia è stata scritta da ebrei, per ebrei, in ebraico, e l'ebraismo ancora oggi sopravvive proprio grazie alla Bibbia. E, parimenti, credo, il cristianesimo.
   Il riportare la Bibbia a fondamento della cultura e dell'etica è un impegno religioso possibile, dalla fecondità straordinaria, condivisibile tra ebrei e cristiani: un impegno di cui si avverte l'urgenza impellente e drammatica in questi anni di crisi, di confusione assordante, di efferata violenza e di grande mediocrità.
   Tuttavia, senza il reale riferimento positivo e non ambiguo a Israele, non sarà né autentico né produttivo il dialogo tra ebrei e cristiani.
   Infine, visti i tempi calamitosi in cui ci troviamo e troveremo ancora di più domani a vivere, invito tutte le persone coscienti e responsabili a raccogliersi in preghiera invocando dall'alto l'impulso in ciascuno di noi ad agire ai fini del rispetto del prossimo e della pace, concetto e realtà quest'ultima troppo spesso ideologicamente abusata.

(Corriere della Sera, 13 gennaio 2015)


L'imam di Londra: "Chi offende Maometto deve morire"

L'imam di Londra, intervistato da Piazzapulita, approva la strage di Parigi e vede Roma come il prossimo obiettivo dei terroristi.

di Francesco Curridori

"Su quello che è successo a Parigi il Corano è molto chiaro: chiunque insulti il profeta deve morire.
Io credo che andrebbe processato secondo la Sharia e, se condannato, giustiziato secondo la Sharia. Perché non imparate la lezione e basta? Questo è quello che dice l'Islam". È quanto ha dichiarato l'imam Sudari, cittadino inglese che vive a Londra, nel corso della puntata di ieri di Piazza pulita.
   Per l'imam l'attacco terroristico nella sede di Charlie Hebdo non arriva inaspettato ma è conseguenza naturale della politica estera della Francia: "Il governo francese provoca i musulmani da tempo. Hanno bandito il burqa, hanno complottato contro i musulmani in Irak e Siria, hanno occupato le nostre terre, hanno sfruttato i musulmani in Africa e adesso hanno permesso alle persone di insultare il messaggio del Mohamed. C'è una lunga lista di persone che hanno insultato il profeta e molte di queste sono già state uccise. Che vi aspettavate?"
   L'imam ha anche ammonito che l'Italia potrebbe essere il prossimo obiettivo dei terroristi perché "sta aiutando gli americani nella coalizione contro lo Stato islamico e i musulmani quindi vi sorprendete se vi saranno ripercussioni serie per quello che state facendo". L'obiettivo principale è la Capitale: "Quello che sappiamo dalle profezie del Messaggero - spiega l'imam londinese - è che il giudizio non arriverà finché un gruppo della nostra comunità non conquisterà Roma. Quindi un giorno Roma, statene certi, sarà sotto la Sharia ma guardate sarà una cosa bella. Non dovete avere paura".
   Gli attacchi, secondo Sudari, non cesseranno "fino a che voi (occidentali ndr) non aprirete gli occhi e vi renderete conto delle vostre azioni la situazione non cambierà. Se altri insulteranno il profeta le ripercussioni saranno le stesse e ci saranno altri attacchi. I musulmani non sono come i cristiani che dicono di porgere l'altra guancia, i musulmani si difendono".
   E alla domanda "ma da cosa? Dalle vignette?" la risposta è alquanto inquietante: "Per voi sono solo disegni ma quei disegni sono inaccettabili e non vi sorprendete se i giornalisti vengono presi di mira. Sono considerati quelli che fanno propaganda per i regimi che stanno mandando i loro uomini a uccidere i musulmani".
   L'imam ribadisce, infatti, per ben due volte che per lui la libertà d'espressione non esiste: "È Allah che ci indica cosa possiamo dire e non dire. Io sto parlando perché Allah mi ha creato e mi ha dato il permesso di dare il punto di vista islamico al mondo e voi non potete usare eufemismi come libertà d'espressione e di parola per coprire azioni di provocazioni come quelle che stava facendo quel giornale da anni".
   Sudari avverte che "i giornalisti ma anche i civili occidentali non sono al sicuro e sono visti come parte del nemico" e invita l'Occidente a ritirare le truppe dai Paesi islamici anche perché "La democrazia ha fallito così come il capitalismo. Le persone non credono più che la democrazia liberale abbia le soluzioni per problemi come la povertà, l'immigrazione, la mancanza di prospettive per i giovani. È l'Islam il futuro dell'umanità".

(il Giornale, 13 gennaio 2015)


Sono nazista. Però moderato

di Alessandro Isolani

Confesso: sono nazista, ma moderato. Difatti condanno alcuni eccessi del passato, critico atteggiamenti estremistici e mi dissocio dalle camere a gas. Ma non sono creduto. Dicono che non possono esistere nazisti moderati; dicono che il loro riferimento è il MeinKampf e che nel testo sacro non c' è posto per la temperanza. L'ideologia prevede la supremazia della razza ariana. Per raggiungere l'obiettivo è lecito usare qualunque mezzo; chi sacrifica la sua vita per conseguirlo è destinato a gloria eterna.
  Non capisco. Tutti ammettono l'islam moderato, anche se non si è mai manifestato. Eppure il riferimento dei musulmani è il Corano, dove si predica lo sterminio degli infedeli e la sottomissione delle donne. Dove non c'è posto per libertà religiosa, dove i nemici di Allah devono essere uccisi. Dove gli apostati sono condannati senz'attenuante alcuna. Dove i miscredenti e gli omosessuali sono destinati alla tomba. Dove i martiri avranno in premio sette vergini e della sorte delle vergini non importa a nessuno. Non capisco. Dov'è la differenza?

(il Giornale, 13 gennaio 2015)


Parigi - Vittime ebree in Israele, comunità 'in fuga' dalla Francia

 
Tra le migliaia di bandiere francesi nella grande marcia di Parigi, spuntava anche la stella di David.
C'è paura e rabbia nella comunità ebraica francese, tra la voglia di reagire e la tentazione di andarsene.
Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, dice che Israele è "la loro casa" e ha accettato la richiesta delle famiglie di seppellire a Gerusalemme i corpi delle quattro vittime del supermarket kosher, dove si è recato prima di ripartire per Tel Aviv.
"È una reazione di solidarietà, è giusto che Netanyahu sia venuto, questo ci rassicura un po' - dice un abitante di Parigi -, sappiamo che siamo sostenuti e questo riscalda il cuore".
"La cosa più importante è che ora siamo al sicuro, anche se solo per il momento - aggiunge un altro parigino appartenente alla comunità ebraica -. Ora abbiamo bisogno che la polizia faccia il proprio lavoro al meglio, e intervenga in profondità, nelle banlieues. Questo è un cancro".
La Grande Sinagoga di Parigi sabato scorso è rimasta chiusa per la prima volta dalla seconda guerra mondiale. A Parigi ha paura anche chi è abituato a vivere con la paura.
"Questa visita è stata molto importante per noi. Prima di tutto per mostrare la nostra solidarietà al popolo francese e al suo governo - dice il portavoce di Netanyahu, Mark Regev, intervistato dal giornalista di euronews, Fabien Farge - Così come i francesi, anche la comunità ebraica francese sta attraversando un momento di grande difficoltà".
"Questo non è un fenomeno limitato a uno o due Paesi. Si tratta di una minaccia globale - conclude Regev parlando ai microfoni di euronews - È quindi fondamentale partire da quello che abbiamo visto ieri, la marcia di solidarietà con tutti i leader, e agire concretamente. Cioé, un'azione coordinata di tutti governi contro questi estremisti islamici che minacciano tutti".
Il fenomeno dell'emigrazione degli ebrei è già noto e i numeri, in Francia, salgono. Nel 2013 l'emigrazione ha toccato quota 4.000 persone, nel 2014 è arrivata a 7.000. La Francia ha avuto una enorme immigrazione di origine nordafricana e magrebina e ha la più grande comunità ebraica d'Europa. La convivenza è peggiorata e molti hanno deciso di lasciare.

(euronews, 12 gennaio 2015)


Netanyahu: ora tutti contro il terrorismo anche quando colpisce Israele

PARIGI - "Mi aspetto che ogni leader, dopo che abbiamo marciato insieme per le strade di Parigi, combatta il terrorismo, anche quando è diretto contro Israele e gli ebrei". E' quanto ha detto Benjamin Netanyahu durante la visita che oggi ha fatto nel minimarket kosher di Parigi dove venerdì quattro persone sono state uccise da Amedy Coulibaly. "Per quanto mi riguarda, io vorrò sempre vedere Israele che cammina in prima fila tra le nazioni quando si tratta di difendere la sua sicurezza e il suo futuro", ha poi detto ancora il premier israeliano.
Netanyahu ha anche postato un messaggio su Facebook in cui ha raccontato della sua visita a "Hyper Cacher" e del suo colloquio con uno degli ostaggi sopravvissuti. "Ho incontrato Celine che era uno degli ostaggi e mi ha raccontato quello che è successo durante l'attacco - ha scritto il premier israeliano su Facebook - c'e' un diretto legame tra gli attacchi degli estremisti islamici nel mondo e l'attacco che è avvenuto qui, in un supermercato kosher nel cuore di Parigi".

(Libero Reporter,12 gennaio 2015)


La comunità ebraica a Napoli.

Mercoledì 14 gennaio 2015 alle ore 11.00, nella sala Filangieri dell'Archivio di Stato di Napoli sarà inaugurato il nuovo allestimento della mostra La Comunità Ebraica di Napoli, 1864/2014: 150 anni di storia.
  Negli spazi del Chiostro del Platano, proprio nel cuore dei quartieri che videro il fiorire delle antiche giudecche dal VI secolo d.C. alla cacciata dal Viceregno Spagnolo, nelle aree di San Marcellino e Porta Nova, si ripropone l'allestimento della mostra inaugurata lo scorso novembre alla Biblioteca Nazionale di Napoli, riveduta ed ampliata nei contenuti.
  La narrazione della storia della Comunità napoletana prende le mosse proprio dalla nascita di questi quartieri, rimasti cuore della vita ebraica fino alla grande cacciata degli ebrei nel 1510.
  Numerosi documenti mai esposti finora raccontano la riammissione degli ebrei nel Regno nel 1740, sotto il governo di Carlo di Borbone, e la successiva espulsione nel 1746.
  Ampio spazio è dedicato alla vicenda della famiglia di banchieri tedeschi Rothschild, artefici della rinascita della vita comunitaria, primi a prendere in fitto i locali dove tutt'oggi la Sinagoga ha sede, in seguito acquistati con il contributo di tutti gli iscritti. In mostra si espone la corrispondenza dei fratelli James e Carl Rothschild in merito al prestito accordato al Regno delle due Sicilie, così come le piante ed i prospetti della sede della loro banca aperta a Chiaia, quelli della Villa, oggi Pignatelli, dove presero dimora, ed il bellissimo ritratto della figlia di Carl, Charlotte, realizzato dal pittore Moritz Oppenheim.
  Molti i personaggi illustri, rabbini ed imprenditori che presero parte attivamente alla vita comunitaria. Tra i tanti ricordiamo l'amatissimo Rabbino Kahn, tra i primi ad interessarsi a studi di archeologia che definissero il ruolo degli ebrei a Pompei e nell'impero romano. Così come, di
  qualche anno precedente, l'imprenditore Giorgio Ascarelli, fondatore del Calcio Napoli; in mostra sono esposte le inedite piante dello Stadio Partenopeo, da lui costruito e, tra le tante curiosità, un fascicolo, anch'esso inedito, della Questura, proprio su Ascarelli, scagionato dalle accuse di essere un sovversivo poiché iscritto al partito socialista. Ancora molte testimonianze della vita imprenditoriale ebraica, attraverso fotografie, oggetti e documenti d'epoca.
  Il capitolo doloroso delle leggi razziali e della Shoah è trattato in un'ampia sezione dove si è scelto di narrare la vicenda dei Procaccia, un'intera famiglia fuggita da Napoli a Lucca e da lì deportata e sterminata ad Auschwitz.
  La rinascita nel dopoguerra è infine documentata attraverso diverse testimonianze di vita e di incontri importanti, come la storica visita alla Sinagoga del Cardinale Ursi, primo uomo di Chiesa a mettere piede nel 1966 in un luogo di culto ebraico.
  All'inaugurazione interverranno, Imma Ascione, Direttrice dell'Archivio di Stato di Napoli, Simonetta Buttò, Direttrice della Biblioteca Nazionale di Napoli, Elda Morlicchio, Rettore dell'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale", il Consigliere dell'Unione della Comunità Ebraiche Italiane Sandro Temin, il Presidente della Comunità Ebraica di Napoli, Pier Luigi Campagnano e Giancarlo Lacerenza, del Centro di studi ebraici dell'Università "L'Orientale", curatore della mostra.
  La mostra sarà aperta dal 14 gennaio al 28 febbraio il lunedì e il giovedì alle 9.30 e alle 11.30 con ingresso gratuito.
  Visite guidate alla mostra su prenotazione: tel. 0815638256 e-mail: as-na@beniculturali.it
  Per le scuole 0817643480 - napoliebraica@gmail.com
  La mostra è realizzata con l'adesione del Presidente della Repubblica, il patrocinio della Regione Campania, dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e della Fondazione Beni Culturali Ebraici.i, 1864/2014: 150 anni di storia.

(Positano News, 12 gennaio 2015)


«In tanti hanno già lasciato l'Europa»

Gattegna, Presidente dell'Unione delle comunità italiane: la convivenza peggiora. Spaventa I'idea che siano colpiti centri della vita quotidiana.

- Enzo Gattegna, molti ebrei francesi stanno progettando di lasciare il Paese, dopo la tragedia di questi giorni.
  «ll fenomeno è già noto e i numeri, in Francia, salgono. Nel 2013 l'emigrazione ha toccato quota 4.000 persone, nel 2014 è arrivata a 7.000. La Francia ha avuto una enorme immigrazione di origine nordafricana e magrebina e ha la più grande comunità ebraica d'Europa, quasi 600 mila persone. La convivenza era già peggiorata da qualche anno. Molti hanno deciso di lasciare».

- E nella comunità italiana? C'è voglia di Iasciare?
  «I numeri sono incomparabilmente diversi, gli ebrei italiani sono 25 mila. Qualche famiglia ha lasciato, ma per la crisi economica o per ricongiunzioni familiari in Israele. Comunque la situazione è molto grave e preoccupante, lo sappiamo. Soprattutto è impossibile capire se da ieri è tutto finito o se, invece, è solo l'inizio dell'improvviso sfogo di una furia distruttiva che covava da tempo. Riguarda l'Europa ma tutto il mondo occidentale. Gli ebrei italiani sono colpiti e allarmati, spaventa l'idea che qualcuno possa progettare di attaccare indiscriminatamente. com'è avvenuto a Parigi, i centri della vita quotidiana delle comunità ebraica. Gli ebrei ci sono di mezzo come sempre, e anche in questo caso sono obiettivi privilegiati».

- Gli ebrei italiani si sentono adeguatamente protetti?
  «Le forze dell'ordine compiono un lavoro eccezionale per tutelare le istituzioni ebraiche. Abbiamo sinagoghe e uffici delle comunità protetti a tempo pieno. Siamo vicini alle istituzioni, in un continuo dialogo e scambio di informazioni. Raccomandiamo agli ebrei italiani di essere vigili e segnalare alle forze dell'ordine qualsiasi anomalia. Ma tra noi non c'è panico. Abbiamo cercato tutti di non cedere alla paura, di ragionare. L'opinione pubblica è schierata al nostro fianco. Cercheremo in ogni modo di convincere gli ebrei italiani a restare qui. Certo, servono norme forti per controllare attività potenzialmente eversive».

- A cosa si riferisce?
  «Soprattutto al web. Tutta la propaganda folle di gruppi violenti e vicini ai terroristi passa su internet. Occorre riflettere. E poi credo ci sia da migliorare il coordinamento tra le diverse forze di sicurezza dei Paesi dell'Unione Europea C'è poi, davvero essenziale, la questione culturale. Vediamo in azione cittadini francesi di seconda o terza generazione. Evidentemente i valori sui quali si fonda la Francia e quindi l'Europa non sono stati assorbiti né apprezzati, vengono visti anzi come un disvalore. E anche su questo bisogna riflettere. Sono in gioco tutte le conquiste che la civiltà occidentale ha guadagnato a caro prezzo».

(Corriere della Sera, 12 gennaio 2015)


Oltremare - Fuori tempo

di Daniela Fubini, Tel Aviv

Sono tre giorni che ci provo, e non ci riesco. Allontano la memoria dell'11 Settembre, e lei si insinua sotto forma di sogno, sensazione, lapsus. I numeri non tornano, gli attentatori hanno altre provenienze, il luogo, il cuore d'Europa, ha tutta un'altra storia, altre stratificazioni di immigrazioni e forma nei sobborghi. Come paragonare. Eppure. Da venerdì sera, nessuno in Europa può più sentirsi al sicuro come prima degli attentati al Charlie Hebdo e all'HyperCacher. Una sensazione molto simile al 12 settembre 2001 a Manhattan e nel resto degli Stati Uniti.
Allora, l'America intera si riunì per piangere tutti i morti assassinati dai terroristi suicidi. Nello sbriciolarsi delle Torri Gemelle in diretta televisiva, sotto gli occhi di centinaia di milioni di spettatori impietriti, erano stati inceneriti uomini e donne di ogni religione, cultura e nazionalità. La reazione fu una unificazione a tutti i livelli, nel lutto e nella condanna. Cerimonie di ogni credo si tennero, i presenti ugualmente lividi davanti ad ogni prete, reverendo, rabbino, e quant'altro.
A Parigi, i terroristi hanno ammazzato a sangue freddo rappresentanti di tre categorie chiave nella società europea: disegnatori satirici, espressione della libertà d'opinione, poliziotti ovvero garanti dell'ordine pubblico, ed ebrei cioè i diversi per eccellenza, almeno nella storia contemporanea del continente. Oggi, la Francia, ma in realtà l'Europa intera, dovrebbe prima di tutto vivere il lutto come lutto collettivo che comprenda, rispettandone le differenze religiose, veramente tutte le vittime della strage in due tempi della settimana appena passata. Lo farà?
Qui in Israele il commento più comune al terrore francese è però che la Francia quanto al proteggere i suoi ebrei è fuori tempo massimo. Gli ebrei facciano in fretta l'alyiah e non se ne parli più. Cominciano a mancarmi gli argomenti per contraddire questo disfattismo che rende l'aliyah una fuga, e non una scelta libera e positiva. La Francia non opprime gli ebrei, l'Europa non ha promulgato leggi antiebraiche. Ma se nei fatti gli ebrei non si sentono (e evidentemente non sono) al sicuro, come biasimare chi dice "Via tutti, aliyah subito"?


(moked, 12 gennaio 2015)


Gaza: solidarietà israeliana per popolazione palestinese

di Daniele Rocchi

Ci sono anche molti israeliani tra coloro che, attraverso Caritas Jerusalem, inviano aiuti alla popolazione di Gaza dopo il conflitto del 2014. A rivelarlo all'agenzia Sir è il responsabile del fundraising dell'organismo caritativo cattolico, Harout Bedrossian. A margine di un incontro con i vescovi dell'Holy Land Coordination (Usa, Ue, Canada e Sud Africa) che ieri, da Gaza, hanno iniziato la loro tradizionale visita-pellegrinaggio, Bedrossian ha parlato di questo "fenomeno che non ha riscontro nelle passate guerre, 2008/2009 e 2012.

- Aiuti israeliani un segno di speranza
  "Una corsa a portare aiuto che rappresenta una novità per la società israeliana - dice l'operatore - e anche se non coinvolge la maggioranza della popolazione israeliana è da considerarsi come un segno di speranza, piccolo ma di grande significato che ci fa credere che un futuro migliore è possibile". Tra i donatori israeliani si annoverano associazioni, scuole e singole persone.

- Gli aiuti tramite Caritas Jerusalem
  Tra i più attivi il gruppo "Hand in Hand". "Sono studenti palestinesi e israeliani di istituti di Gerusalemme, Haifa e Tel Aviv, che credono nella convivenza e nella tolleranza - spiega Bedrossian - e che si stanno adoperando, con i loro insegnanti, per raccogliere aiuti da inviare a Gaza, soprattutto e acqua e latte per i bambini". Particolarmente significativa è l'opera di un altro gruppo, "Mother to Mother", composto da madri israeliane e palestinesi che hanno perso i loro figli nel conflitto". L'impegno di questi gruppi, unito a quello di "molti studenti universitari e di singole persone ha fruttato, fino ad oggi, ben 8 tir carichi di aiuti entrati a Gaza attraverso la Caritas Jerusalem". Quest'ultima è da sempre in prima linea nel portare aiuto alla popolazione, musulmana e cristiana.

(Radio Vaticana, 12 gennaio 2015)


Manifestazone per Charlie Hebdo: Hollande ha chiesto a Netanyahu di non partecipare

di Olivia B.

Un articolo di Haaretz racconta i retroscena della partecipazione del Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, alla marcia per la République che si è tenuta a Parigi lo scorso 11 gennaio, in seguito all'attentato che ha ucciso 12 persone alla redazione del giornale satirico francese Charlie Hebdo.

Il Presidente francese Francois Hollande avrebbe, nei giorni scorsi, inviato un messaggio al premier israeliano chiedendogli di non partecipare alla marcia contro il terrismo di domenica 11 gennaio, stando alle fonti di Haaretz e di Channel 2.
Jacques Audibert, il consigliere diplomatico di Hollande, avrebbe contatto il suo corrispettivo israeliano, Yossi Cohen, per comunicargli che Hollande avrebbe preferito che Netanyahu non partecipasse per evitare connessioni con il conflitto israelo-palestinese, in modo da mantenere l'attenzione sulla questione francese. La fonte citata da Haaretz dice che una delle preoccupazioni di Hollande fosse anche quella che Netanyahu si mettesse a fare discorsi sulla comunità ebraica francese.
Pare che inizialmente Netanyahu abbia dato il suo accordo per non parteciapare. Hollande avrebbe, nel frattempo, inviato lo stesso messaggio all'Autorità Palestinese e anche la risposta di Mahmoud Abbas è stata la stessa del Primo Ministro israeliano.
Cosa è cambiato? Sabato sera Avigdor Lieberman e Naftali Bennett, rispettivamente Ministro degli Esteri e Ministro dell'Economia e degli Affari Religiosi, hanno annunciato di voler partecipare alla manifestazione di Parigi. Sulle loro posizioni Netanyahu ha cambiato la sua e ha annunciato che avrebbe partecipato.
Dice Haaretz che la reazione di Audibert alla notizia sia stata abbastanza energica: il responsabile della sicurezza avrebbe risposto che la cosa avrebbe cambiato le relazioni tra i due paesi, almeno finché Hollande sarà Presidente. In ogni caso Audibert ha immediatamente invitato il Presidente dall'Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas. E infatti, l'ufficio di Abbas, che aveva già annunciato la non partecipazione dell'Autorità Nazionale Palestinese, ha poi fatto una comunicazione in senso opposto.

(AgoraVox Italia, 12 gennaio 2015)

*

Il mancato invito di Parigi, le insistenze di Netanyahu: cos'è successo alla marcia di Parigi

di Leonardberberi

 
La prima fila della marcia di domenica a Parigi. Da sinistra: Benjamin Netanyahu, Ibrahim Boubakar Keita (presidente del Mali), François Hollande, Angela Merkel, Donald Tusk (presidente del Consiglio Ue), Mahmoud Abbas e Matteo Renzi
Nella foto - storica - ci è finito pure lui. Protetto, abbastanza visibilmente, da due guardie del corpo. Meglio: accompagnato dai due bodyguard che non hanno mai perso il contatto fisico con il loro capo. Lì, in prima fila. Il volto tipico dei grandi eventi.
   E però, alla sera, ci hanno pensato le radio e le tv a rovinargli la giornata. Raccontando agl'israeliani che Benjamin Netanyahu, il loro primo ministro uscente, a Parigi non lo volevano. Che François Hollande, il padrone di casa e il presidente francese, aveva più volte detto agli organizzatori che il leader d'Israele avrebbe costituito un elemento di divisione. E di critiche.
   «La Francia ha non ha ufficialmente spiegato perché non voleva Netanyahu», spiega una fonte del governo alla Radio militare israeliana. «L'Eliseo in realtà cercava di fare in modo che il conflitto israelo-palestinese
qui probabilmente manca un "non"
piombasse nella marcia organizzata contro il terrore e per ricordare le vittime degli attacchi nella capitale francese», aggiunge più tardi Canale 2.
   Ma lui, Netanyahu, nonostante il mancato invito e le obiezioni a Parigi, fa capire che ci vuole andare a tutti i costi. E così sabato, verso l'ora di pranzo, Hollande viene quasi «costretto» dal protocollo a chiamare «Bibi» e dirgli di raggiungerlo nella capitale francese il giorno dopo. «Grazie, presidente, ma è meglio se sto a Gerusalemme, anche per ragioni di sicurezza», gli risponde a sorpresa Netanyahu. Sembra tutto risolto. Hollande può tirare un sospiro di sollievo.
   Gli uffici stampa di Parigi e Gerusalemme dicono che il primo ministro israeliano non si muove. E così è per diverse ore. Poi sui social monta la critica. «Ma come, il nostro leader non va a mostrare la nostra vicinanza? Nemmeno con quattro ebrei uccisi?». I ministri degli Esteri e dell'Economia, Avigdor Lieberman e Naftali Bennett - leader di partiti in grado di togliergli voti alle elezioni di marzo prossimo - confermano che voleranno nella capitale francese.
   È quasi all'ora di cena che Netanyahu decide di cambiare idea. Si va - si vola - a Parigi. L'ufficio di «Bibi» chiama l'Eliseo e comunica la novità. Che, per evitare imbarazzi, replica: «Ok, allora dobbiamo anche invitare il presidente dell'Autorità palestinese, Mahmoud Abbas». E così sarà.
   Domenica, verso le tre e mezza di pomeriggio, Netanyahu è lì, in mondovisione. E in seconda fila. Poi si avvicina sempre di più alla prima. Infine si piazza in testa. Alla sua sinistra Ibrahim Boubakar Keita, il presidente del Mali. E ancora più in là il padrone di casa, il presidente François Hollande, la cancelliera Angela Merkel, il presidente del Consiglio Ue Donald Tusk. Subito dopo ecco lui, Mahmoud Abbas, il presidente dell'Autorità nazionale palestinese.
   I due leader mediorientali non si guardano. Non si sfiorano. Non si stringono la mano. Dopo alcuni minuti sono già ognuno per fatti suoi, lontani da quel luogo che - domenica 11 gennaio 2015 - è stato il centro, il cuore del mondo.
   Nel tardo pomeriggio Netanyahu si presenta alla sinagoga principale di Parigi. Accolto come un eroe. Dietro di lui i suoi due ministri. Per «Bibi» è un trionfo, almeno politico. «Israele è casa vostra», dice il primo ministro ai fedeli. Facendo arrabbiare Hollande. E bollando la Francia come un Paese in cui gli ebrei non possono vivere.

(Falafel Cafè, 12 gennaio 2015)

*

Netanyahu nella Sinagoga di Parigi per le vittime dei terroristi

Ringrazia la Francia e il musulmano che ha aiutato gli ebrei

PARIGI - Un solenne omaggio alle vittime degli attentati nella Grande Sinagoga di Parigi. Il presidente francese Francois Hollande e i primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu si sono recati insieme alla Grande Sinagoga di Parigi per ricordare le 17 vittime dei terroristi di questi giorni e in particolare quelli di religione ebraica.
"Voi avete il diritto di vivere totale e completa pace, con gli stessi diritti civili ovunque decidiate di vivere e in particolare in Francia" ha detto Netanyahu ringraziando le autorità francesi per il fermo impegno contro l'anti-semitismo.
"Voglio esprimere la mia ammirazione e il mio ringraziamento all'uomo di religione musulmana proveniente dal Mali che ha aiutato a salvare una famiglia ebraica" ha concluso il premier israeliano all'interno della Grande Sinagoga che era rimasta chiusa sabato, sull'onda dell'attacco terroristico, per la prima volta da decenni.

(askanews, 12 gennaio 2015)


Chi è meglio, il Papa o Maometto?

C'è qualcuno che si attenta a rispondere? Di questi tempi, lo so, la cosa può essere rischiosa. Ma non venire a dirmi che la domanda è mal posta, o che per me sono interessanti tutti e due o, viceversa, che a me non interessa niente né dell'uno, né dell'altro. Tu svicoli, caro amico, se fai così, e qualcuno un giorno potrebbe fartelo notare con un coltello sotto la gola. Da parte mia allora rispondo: è meglio il Papa. Sono romano di nascita, e pur essendo tutt'altro che ben disposto teologicamente verso il Papa, devo riconoscere che a Roma, sede centrale della cattolicità, da diversi decenni i non cattolici possono vivere tranquillamente senza pericolo di essere sgozzati da un momento all'altro se mai dovesse scappare loro di bocca qualche frase irriverente verso il Capo della cattolicità. Credo che in questo anche gli ebrei romani siano d'accordo, perché pur essendo stati sfruttati, emarginati, dileggiati in mille modi dalle autorità pontificie nei secoli scorsi, non hanno mai dovuto subire pogrom spaventosi come quelli avvenuti in altre zone d'Europa. Dirò di più, nella Roma pontificia dell'Ottocento i sudditi del Papa potevano permettersi osservazioni irriverenti che oggi ben pochi oserebbero fare in pubblico.
E per essere un po' risollevato da quella lugubre, religiosissima seriosità islamica di questi giorni, in cui si sono visti devotissimi musulmani che ammazzano e sono pronti a farsi ammazzare pur non di far perdere la faccia al loro veneratissimo profeta, ho voluto riprendere in mano i sonetti di Giuseppe Gioachino Belli. Molti sono irriverenti, certo, ma non deprimono, come forse le vignette francesi. Tra gli altri, ne ho trovato uno che spiega, in romanesco teologico, che cosa succede ad un'anima papale quando passa da un Papa all'altro. Ne propongo la lettura, per rinfrancarsi e non perdere amore per la vita. Un po' di romanità, all'ombra di un cupolone molto meno minaccioso di qualche altro, può far bene. M.C.
A proposito, ieri Totti ha salvato la Roma dalla sconfitta con la Lazio. Questo m’ha ricordato, visto che prima ho parlato del Papa, le parole di mia sorella, romanista come me. M'ha detto: "A Roma de Francesco ce ne sta uno solo: Totti”.


   Er passa-mano

   Er Papa, er Viceddio, Nostro Signore,
   E' un Padre eterno com'er Padr'Eterno.
   Ciovè nun more, o, pe dì mejo, more,
   Ma more solamente in ne l'isterno.

   Ché quanno er corpo suo lassa er governo,
   L'anima, ferma in ne l'antico onore,
   Nun va né in paradiso né a !'inferno,
   Passa subbito in corpo ar zuccessore.

   Accusì ppò variasse un po' er cervello,
   Lo stommico, l'orecchie, er naso, er pelo;
   Ma er Papa, in quant'a Ppapa, è ssempre quello.

   E ppe questo oggni corpo distinato
   A quella indiggnità, casca dar celo
   Senz'anima, e nun porta antro ch'er fiato.

Audio:

(Notizie su Israele, 12 gennaio 2015)


Scoperto il luogo del processo a Gesù

A Gerusalemme sono stati rinvenuti i resti del palazzo di Erode, ove Pilato processò Gesù.

Un'importante scoperta archeologica pone i riflettori su uno dei luoghi simbolo della cultura cristiana. Nella città di Gerusalemme sarebbero stati scoperti i resti del palazzo di Erode, luogo in cui Ponzio Pilato processò Gesù. All'origine della scoperta, un lavoro che perdura da quindici anni, al fine di ampliare il Museo della Torre di David. Il palazzo del re di Giudea è stato rinvenuto al di sotto di una vecchia struttura un tempo adibita a prigione dall'impero ottomano ed in seguito da quello britannico.
   In tale edificio, secondo la tradizione neotestamentaria, si sarebbe trovato il "praetorium" del prefetto di Roma Ponzio Pilato, il quale tentò in un primo momento di assolvere Cristo, ma poi per cause di forza maggiore, si vide costretto a "lavarsi le mani" ed a consegnare il Figlio di Dio agli ebrei che in seguito lo fecero crocifiggere. Prima di tale scoperta si ipotizzava che il luogo in questione si trovasse presso la Fortezza Antonia, roccaforte della guarnigione romana, nelle vicinanze della moschea di Al Aqsa. I nuovi scavi eliminerebbero ogni dubbio secondo le opinioni di Shimon Gibson, dell'Università del North Carolina. Il Vangelo secondo Giovanni parla chiaro: il processo si svolse nelle vicinanze di una porta d'accesso alla città di Gerusalemme e del litostrato, lastricato di pietre irregolari.
   Particolari questi che coinciderebbero perfettamente con quanto scoperto tramite precedenti ricognizioni sul luogo di scavo, presso l'ex prigione ottomana. Il palazzo di Erode aveva sede nelle vicinanze della porta di Giaffa. "Mancano le iscrizioni che confermerebbero quanto avvenisse in tale struttura, ma tutti gli indizi storici, archeologici ed evangelici confermano appieno che sia questo il luogo esatto" dichiara con fermezza il professor Gibson durante un'intervista al Washington Post. "Una notizia che conferma quel che tutti si aspettavano, ossia che il processo avvenne nelle vicinanze della Torre di David" afferma il pastore anglicano David Pileggi.
   Il risultato desgli scavi durati quasi un ventennio, è ora visibile a tutti i turisti grazie a visite guidate organizzate dal Museo della Torre. Amit Re'em, responsabile archeologico per il distretto di Gerusalemme, ha elencato tutte le importanti scoperte avvenute negli anni: iscrizioni della resistenza ebraica risalenti al secondo conflitto bellico, resti che testimoniano la presenza influente dei crociati in loco e resti di un'antica fognatura sottostante il palazzo di Erode. Sicuramente le scoperte non sono finite qui ed in futuro la Città Santa ci presenterà sicuramente molte altre sorprese provenienti dall'antichità.

(Blasting News, 12 gennaio 2015)


Comunicato Stampa EDIPI

Libreria IBS - Padova
In occasione delle iniziative per il Giorno della Memoria 2015, Evangelici d'Italia per Israele, in collaborazione con la libreria IBS di Padova (via Altinate, 63 - tel 049.8774810), presenterà il libro di Marcello Cicchese "La superbia dei Gentili, alle origini dell'odio antigiudaico".
La presentazione è prevista per giovedì 12 febbraio dalle ore 18:00 alle 19:00, presso la sede della libreria. Sarà presente l'autore e seguirà un breve dibattito con il pubblico presente.
Per maggiori informazioni: tnt@bhb.it - 3475788106 - www.edipi.net

(EDIPI, 12 gennaio 2015)


La strage e la variabile dello Stato d'Israele

di Valentino Baldacci

Nel vacuo chiacchiericcio che caratterizza dall'altro ieri i commenti su quanto accaduto a Parigi, un aspetto viene accuratamente taciuto, anche se costituisce l'arrière-pensée di molti se non di tutti: gettiamo in pasto agli islamisti gli ebrei - e soprattutto lo Stato d'Israele - e così si calmeranno un po'.
   L'unico - a mia conoscenza - che ha detto abbastanza chiaramente quello che molti pensano è stato il professor Vittorio Emanuele Parsi - uno dei più esperti studiosi di Relazioni internazionali, che insegna all'Università Cattolica di Milano - che è stato il solo - l'altro ieri era alla trasmissione di Mentana - ad affrontare il nodo dell'aiuto dell'intelligence israeliana offerto da Netanyahu alla Francia. Parsi ha detto con calore che no, quell'aiuto andava rifiutato, e che invece si doveva chiedere la collaborazione dell'intelligence libanese!
   Ora - al di là della facile ironia sull'efficienza dell'intelligence libanese a confronto di quella israeliana - il significato di questa affermazione è chiaro. Netanyahu con quell'offerta aveva cercato di legare i destini di Israele a quelli dell'Europa, entrambi sotto l'attacco mortale dell'islamismo. Parsi - che è anche un ascoltato consigliere politico - dice no, lasciamo Israele al suo destino, cerchiamo un accordo con altre forze islamiche, per esempio Hezbollah che - come sappiamo - è al governo in Libano e di fatto controlla il Paese. In fondo Hezbollah si rivolge solo contro Israele, ed a noi europei sacrificare Israele in cambio di un aiuto da parte di un gruppo sciita come Hezbollah - legato all'Iran - ci conviene.
   Al di là di ogni considerazione morale - che ogni tanto dovrebbe far parte del bagaglio culturale delle classi dirigenti europee, visto che il sangue della Shoah è ancora caldo - questo ragionamento è particolarmente stupido perché non tiene conto di una variabile fondamentale: Israele. Lo Stato d'Israele - che molto probabilmente sarà sottoposto nei prossimi mesi a prove ancora più dure di quelle che ha dovuto superare a partire dalla sua nascita - posto davanti al rischio della sua distruzione e del genocidio del suo popolo - sarà costretto ad usare come ultima risorsa l'arma atomica. È questo che vogliono i governanti europei, lo scatenamento di una guerra atomica?

(L'Opinione, 11 gennaio 2015)


Però nessuno dice: "Siamo tutti ebrei"

di Carlo Panella

Tutte le sinagoghe di Parigi ieri sono state chiuse. Non succedeva dai tempi dell'occupazione nazista. Gli ebrei di Parigi non hanno potuto onorare in sinagoga il Shabbat per timore di nuovi attentati. Timore concreto dopo la strage di 4 ebrei nello Hyper Casher da parte di uno jihadista franco-arabo. Una vergogna che ricade su tutta Europa, che ricade come un'infamia sul governo francese perché le sinagoghe hanno dovuto chiudere per una ragione sola: non sono protette dalla polizia francese, sono alla mercé di nuovi attacchi. Ma accade ancora di peggio in questa Parigi, in questa Francia, in questa Europa. Nessuno urla, nessuno scrive, nessuno dice: «Je suis juif!». Campeggia ovunque, anche sulla tour Eiffel, solo la scritta «Je suis Charlie». Pure, quattro ebrei sono stati maciullati solo perché ebrei da Amedy Coulibaly, il jihadista che dopo aver ucciso una poliziotta ha fatto 10 chilometri dentro una Parigi sotto presidio poliziesco, ha passato la Senna, si è esposto a mille pericoli, per cercare ostaggi ebrei. Non è entrato in un supermarket qualsiasi per sequestrare francesi qualunque per contrattare la libertà dei complici Kouachi, sotto assedio. No, si è esposto per ore per cercare la sua preda: l'ebreo. Puro antisemitismo islamo-nazista. Ma nessuno lo nota sui media. Abbiamo visto nei telegiornali una sequenza da far vergogna: prima il pellegrinaggio, i mazzi di fiori deposti davanti alla redazione violata di Charlie Hebdo. Bene. Giusto. Subito dopo, il corrispondente da Parigi parla davanti allo Hyper Casher... Nessuno! I parigini non vanno a piangere i loro concittadini ebrei massacrati solo perché ebrei. Non si commuovono per gli ebrei.
   Questa è la Francia d'oggi. Questa è Parigi. Questa è l'Europa. Questo è il nuovo antisemitismo che impera nelle nostre società che voltano le spalle, indifferenti, se a massacrare gli ebrei sono islamici e arabi.
   Una vergogna che infanga la Francia da anni. Già nel 2005 la Commissione Stasi,
In realtà la Commissione Stasi è stata istituita nel 2003.
voluta dal presidente Chirac per indagare sulle tensioni religiose, notava: «Oggi un bambino ebreo non può entrare in una scuola con la kippah in testa senza essere offeso, insultato, picchiato». Non da altri francesi, ma da ragazzi di origine arabo islamica. Esagerazione? Per nulla [ved. "Notizie su Israele 223", ndr]. Il 21 gennaio 2006 IIan Halimi, un ebreo di 23 anni è stato rapito da una gang di arabi; lo hanno tenuto legato e nudo per tre settimane, lo hanno torturato e alla fine hanno versato dell'alcool sul corpo e gli hanno dato fuoco. Nel 2008 un arabo francese, Merah, ha massacrato a colpi di mitra tre bambini ebrei e il loro insegnante davanti alla loro scuola di Tolosa. A maggio, un altro arabo francese, Nemmouche, ha ucciso quattro ebrei davanti al museo ebraico di Bruxelles. Tutti e due, come i Kouachi, come Coulibaly seguiti distrattamente dai servizi francesi che li hanno lasciati fare, sottovalutandone la carica jihadista e antisemita. Infine... la strage dello Hyper Kosher. Il risultato è orribile: gli ebrei hanno paura di vivere in Francia. In 50.000 l'hanno lasciata dal 1990 al 2013. E la fuga aumenta: 7.000 ebrei hanno cercato rifugio in Israele nel corso del solo 2014. E non per ragioni di lavoro. Ma di questo antisemitismo trionfante e schifoso che si impone in Francia, in Europa, in Italia, non si parla. La ragione è vergognosa. Gli ebrei francesi non sono affatto perseguitati dalla destra, dal Front National (allora si che ci sarebbe scandalo). Sono perseguitati dagli arabi e dagli islamici francesi. Quindi, si tace. Complici ignavi di una nuova infame, persecuzione degli ebrei.

(Libero, 11 gennaio 2015)


Israele ha sofferto il dolore della Francia per settant'anni

La Francia sta solo cominciando a capire.

di Giulio Meotti

Ci sono state molte ipocrisie in questi ultimi giorni: i giornali USA che non hanno pubblicato le caricature di Charlie Hebdo, gli intellettuali francesi che puntano il dito corrotto contro la [cosiddetta] "islamofobia", i leader musulmani e il Presidente Francese Hollande che hanno detto che i massacri di Parigi non hanno nulla a che fare con l'Islam.
   Parlavo con Roger Scruton, il più celebre filosofo conservatore britannico. Egli ha aggiunto un'altra ipocrisia: "Nello slogan "Siamo Tutti Charlie Hebdo" risiede l'appeasement dell'Occidente. È come dire: "lasciateci in pace". Accadde dopo le bombe del 7/7 a Londra, quando l'opinione pubblica britannica diceva "Non abbandoneremo il nostro stile di vita".
   Vorrei aggiungere anche un'altra ipocrisia. Ovunque, da Roma a Londra, c'è ora un'onda spontanea e importante di solidarietà con i giornalisti e i caricaturisti e, in una certa misura, i clienti del supermercato
Adesso si sentono parole che condannano il terrorismo islamista dall'Indonesia a Londra, ma Gerusalemme non viene mai menzionata. È come se gli Ebrei se lo meritassero, se Israele fosse la causa di tutto.
kosher assassinati a Parigi la settimana scorsa. Adesso si sentono parole che condannano il terrorismo islamista dall'Indonesia a Londra, ma Gerusalemme non viene mai menzionata. È come se gli Ebrei se lo meritassero, se Israele fosse la causa di tutto; come se non ci fosse posto per il sangue, il pianto e le urla d'Israele nella coscienza frivola dell'Europa e dell'Occidente.
Un articolo del New York Times intitolato, "Gli Israeliani collegano questo attacco alla loro lotta", proprio lo conferma: a Parigi era terrorismo, a Tel Aviv e Gerusalemme sarebbe una "lotta legittima" contro "l'occupazione".
   È come con la tragedia di due anni fa. Il giorno dopo l'attacco assassino di Tolosa, molti tenevano cartelli e striscioni che dicevano "Non dimenticheremo mai". Tuttavia, due anni dopo quel massacro, gli Ebrei di Tolosa sono stati dimenticati. Chi ci ricorda i nomi di Miriam Mensonego [la piccola bimba ebrea assassinata - ndt]?
   Persino per alcuni dei giornalisti di Charlie Hebdo che sono stati assassinati dai terroristi, Israele era diventata la fonte principale d'inquinamento del Mediterraneo. L'antisemitismo europeo di tipo nazionalista, quello che odia gli Ebrei come gente senza radici e incapace di avere uno stato e di difenderlo, degli stranieri, ha poi cominciato a vedere Israele come il vendicatore malvagio, il grande distruttore, il peggior colonialista, l'usurpatore più sanguinario di case e terra.
   Il 7 Gennaio francese può diventare un giorno di ricordo internazionale del male, ma la sofferenza d'Israele è stata dimenticata e giustificata di proposito.
   Durante l'anno appena trascorso, i terroristi hanno versato sangue di occidentali nel Parlamento Canadese, nel Deserto Siriano, in un bar australiano e ora in un quotidiano [síc! in realtà settimanale, ndt]
Ma che dire del terrorista kamikaze di Rishon LeZion che massacrò un gruppo di anziani? e degli attacchi ai centri commerciali di Efrat, all'isola pedonale di Hadera, alle fermate dell'autobus di Afula e Gerusalemme, alle stazioni ferroviarie, alle pizzerie, alle discoteche, agli scuolabus, ai bar?
e in un piccolo supermercato. Per quel sangue innocente, i pianti e le urla di solidarietà sono arrivati ad appoggiare la lotta, almeno nominale, contro il terrorismo.
Ma che dire del terrorista kamikaze di Rishon LeZion che massacrò un gruppo di anziani che si godevano inermi l'aria fresca d'un dehors?
E che dire degli attacchi ai centri commerciali di Efrat, all'isola pedonale di Hadera, alle fermate dell'autobus di Afula e Gerusalemme, alle stazioni ferroviarie come quella di Naharia, alle pizzerie come quelle di Karnei Shomron, alle discoteche di Tel Aviv, agli scuolabus di Gilo, ai bar e ristoranti come quello di Herzliya e ai caffè come quello di Haifa? Oh no, quel sangue, sangue di Ebrei, non sarebbe innocente e la rabbia dei terroristi e la profanità dei morti ebrei sono state completamente giustificate.
   Gli assassini a Charlie Hebdo non avevano come piano specifico di dare ulteriore dolore ai sopravvissuti. In Israele, pezzi di metallo vengono aggiunti dai terroristi nei loro giubbotti, cinture e zainetti esplosivi, con il risultato di avere l'amputazione totale degli arti.
   Ma ancora, per questi Ebrei non c'è pietà o comprensione, mentre ora il mondo intero si chiede come si sentano e come si rapportano al massacro i sopravvissuti di Charlie Hebdo. La vedova del Direttore di Charlie Hebdo è ora su tutti i canali televisivi, com'è giusto che sia. Ma dove sono i media occidentali quando Israele conta cosí tante vedove in lacrime a causa del terrorismo?
   Negli ambienti più influenti della Francia, che è ora in lutto per Charlie Hebdo, gli Ebrei sono un gruppo che non avrebbe il diritto di difendersi dal terrorismo genocida. La vittima ebrea, ma soprattutto la vittima israeliana, dovrebbe non solo accettare il proprio destino di essere assassinata, ma anche essere inghiottita dall'amnesia generale.
   L'11 Settembre e il 7 Gennaio, come anche prima di essi l'11 Marzo spagnolo e il 7 Luglio britannico, dovrebbero essere ricordati per sempre come un punto di svolta nella storia del mondo.
   Ma le vittime civili israeliane dovrebbero essere onorate non solo nello stesso dolore globale che abbiamo visto in questi giorni, ma con una considerazione persino più profonda e drammatica dal momento che gli Ebrei d'Israele hanno sofferto tutto ciò ogni giorno negli ultimi settant'anni.

(Arutz Sheva 7, 11 gennaio 2015 - trad. Sergio Tezza)


Hamas: allarme dello Shin Bet. In centinaia sono passati con ISIS

Centinaia di terroristi di Hamas sono passati con lo Stato Islamico, ISIS, perché a detta loro Hamas sarebbe troppo "moderato" e perché non ha imposto la Sharia. Con loro ci sarebbero anche diversi affiliati ad Al-Fatah.
A riferirlo è un rapporto dello Shin Bet dopo l'interrogatorio ad Ahmed Salah Shehada Wadah, il leader della cellula del ISIS a Hebron arrestato nei giorni scorsi. Lo Shin Bet ritiene che il numero dei terroristi che sono passati sotto il controllo del ISIS sia di qualche centinaio e che mantengono i contatti attraverso internet e i social media....

(Right Reporters, 11 gennaio 2015)


Il grande esodo verso Israele. Netanyahu: qui è casa vostra

Nel 2014 ben 5mila ebrei hanno lasciato la Francia. Richieste in continuo aumento.

di Maurizio Molinari

Nel 2014 oltre 5000 ebrei francesi sono immigrati in Israele, rispetto a 3120 nel 2013 e 1916 nel 2012. Si tratta del numero più alto di immigrati che Israele ha ricevuto, sin dalla nascita, da un Paese del mondo libero. Oltre ad essere un record è la spia di un fenomeno di maggiori dimensioni: nello stesso 2014 sono stati infatti ben 50 mila gli ebrei francesi che si sono presentati agli uffici dell'Agenzia Ebraica per chiedere informazioni su come immigrare in Israele.

- Voglia di immigrare
  Per far fronte a tale richiesta l'Agenzia Ebraica tiene a Parigi, cinque giorni a settimana, due seminari ognuno dei quali frequentato da 200 persone che hanno intenzione di fare l'«aliyà», immigrare in Israele. Nel 2013 questi seminari si svolgevano una volta al mese, poi sono stati intensificati ad una volta alla settimana ma l'aumento vertiginoso delle richieste ha spinto a decidere l'attuale ritmo. Considerando che in Francia risiedono almeno 600 mila ebrei - la più numerosa comunità d'Europa, seguita da Ucraina, Gran Bretagna e Ungheria - ciò significa che un ebreo su 12 pensa di andare via. L'esodo in realtà ha dimensioni maggiori perché c'è anche chi decide di trasferirsi negli Stati Uniti (soprattutto New York e Miami) e a Montreal, dove risiede una numerosa comunità ebraica francofona.

- Antisemitismo e attacchi
  Per Nathan Sharansky, presidente dell'Agenzia Ebraica, «circa il 70 per cento degli ebrei francesi che emigrano vengono in Israele a dimostrazione che Teodoro Herzl aveva ragione a prevedere che lo Stato Ebraico sarebbe divenuto un magnete». II fenomeno è iniziato nel 2002 quando, in coincidenza con la Seconda Intifada, vi furono i primi atti di antisemitismo da parte di musulmani francesi: da allora questi episodi sono aumentati senza interruzione innescando partenze di massa, che hanno anche come secondo motivo le difficoltà economiche in cui versa la Francia. Durante il blitz jihadista a Parigi le radio israeliane hanno raccolto numerose testimonianze di ebrei parigini che hanno parlato di «paura», «clima intollerabile» e «minacce alla sicurezza». E a loro che il primo ministro Benjamin Netanyahu ha pensato quando ha chiamato il presidente François Hollande per chiedergli di «aumentare la protezione dei luoghi ebraici nel lungo termine». E prima di partire per Parigi, Netanyahu ieri si è rivolto direttamente agli ebrei francesi: «Israele è la vostra casa». Come dire: siamo pronti ad accogliervi.

(La Stampa, 11 gennaio 2015)


Parigi - Quattro vite spezzate prima di Shabbat

di Rachel Silvera

"Scendo a comprare le challot", "Non ci sono più omogeneizzati, corro al super perché è quasi Shabbat", "Stasera si cena da Ilan, devo prendere del vino prima di passare da lui". Affrettarsi per l'ultima spesa, carichi di buste e pacchetti è tipico del venerdì. Poche ore prime dello Shabbat ci si ricorda dell'incombenza dimenticata e dell'acquisto della merendina senza la quale il tuo intemperante figlioletto di tre anni ti farà impazzire. Una corsa alle provviste come se il giorno di riposo durasse una settimana intera.
   Questi potrebbero essere stati i pensieri sparsi delle venti persone (tra cui un bambino di tre anni ed una di pochi mesi) che all'una di venerdì 9 gennaio, poche ore prima di Shabbat, hanno varcato la porta di Hypercacher, uno dei supermercati di cibo kasher a Porte de Vincennes, Parigi. Gli ultimi clienti entrano prima che il delirio abbia inizio: pochi minuti dopo Amedy Coulibaly, che il giorno prima aveva ucciso una vigliessa, oltrepasserà la soglia, prenderà una quindicina di ostaggi e strapperà la vita a quattro uomini; Yohav Hattab, 21 anni, Philippe Braham, di 45, Francois-Michel Saada, 64 anni e Yohan Cohen, 20 anni.
   I primi tre vengono uccisi immediatamente, il quarto giovane sarà invece protagonista di una eroica tragedia nella tragedia: Yohan, che un anno fa lavorara proprio come commesso dentro Hypercacher, si accorge che il terrorista ha abbandonato una delle tante armi che lo guarnivano, afferra la stessa e prova a sparargli. La pistola, come oramai tristemente noto a tutti, è però difettosa. Coulibaly lo fredda immediatamente dopo. I siti di informazione rivelano ancora di più: Yohan avrebbe tentato il disperato gesto perché Coulibaly minacciava di uccidere un bimbo di soli tre anni. Mentre è giunta la notizia che martedì le quattro vittime verranno sepolte a Gerualemme, al Monte degli Ulivi, si ricostruiscono quattro storie, quattro vite spezzate all'entrata di Shabbat, mentre si muovevano sicuri tra gli scaffali credendo di avere davanti un giorno di riposo, non certo il riposo eterno.
   Yohav Hattab a Parigi viveva da solo, aveva iniziato a lavorare e suo padre, Benjamin Hattab, era il rabbino della Grande Sinagoga di Tunisi e il direttore della scuola ebraica. Per ricordarlo, gli amici hanno aperto una pagina Facebook dentro la quale piovono piccoli racconti, un mosaico di lacrime e parole: "Non ti conosco ma ti amo", scrive qualcuno, "Mi ricordo la tua tefillà, il tuo amore per la religione. Eri il nostro giovanissimo rabbino" dice Rebecca. Sul proprio profilo online Yohav caricava foto di Gerusalemme abbracciato agli amici, aveva da poco fatto visita ai ragazzi del Taglit (il viaggio offerto ai giovani ebrei di tutto il mondo per scoprire Israele), scriveva lo Shema, bisticciava con un conoscente arabo sulla situazione mediorientale. Amava tantissimo la sua Tunisia, quando lasciava Parigi per tornare a casa scriveva: "Vado alla ricerca di un po' di sole". Un sole che venerdì si è oscurato.
   Una delle immagini di Yohan Cohen che rimbalzano di sito in sito, lo vedono mentre prega: la testa coperta dal talled, il braccio stretto nei tefillin, i filatteri, una kippah bianca che sbuca. Indossa una maglietta a mezze maniche blu elettrico. Niente ricci ai lati del viso o palandrane nere. Yohan è un ebreo francese che abbiamo imparato a conoscere, che passeggia in gruppo per le strade di Tel Aviv durante Pesach e che prega, prega forte. Lo ricordano buono, con un sorriso stampato in viso, difficilmente nervoso o contrariato; qualche giorno fa aveva scritto fiero come molti suoi connazionali "Je suis Charlie". Lo piange Sharon, la sua ragazza. Stavano insieme da due anni e c'è chi dice che Yohan lavorasse proprio per raccogliere i soldi e sposarla: "Eri così sano, puro, perfetto. Non voglio realizzare di averti perso. Non so come vivrò senza di te, non so cosa farò, non so dove trovare la forza per sopravvivere senza averti al mio fianco". Continua a pregare che sia un errore, un incubo, la sua Sharon, mentre su Facebook mette un'immagine nera con la scritta lapidaria in grigio "Je suis Yohan".
   Philippe Braham aveva poco più di quarant'anni, quattro figli e una tragedia alle spalle: il cognato Shai Ben David ha raccontato che il primo figlio avuto con la seconda moglie Valerie è morto tre anni fa; "Un dramma inspiegabile". Philippe era ingegnere informatico e frequentava la sinagoga di Mountrouge. Ben David racconta poi: "Indossava sempre la sua kippah, era un vero sionista. Ogni volta mi diceva: se D-o vuole, faremo presto l'Aliah. Aveva sepolto in Israele i suoi genitori e il suo figlioletto". Il figlio di Philippe, Rafael, 14 anni, è devastato: era in Israele quando ha appreso la notizia e non riesce a farsene una ragione. "Papà ed io andavamo sempre lì per fare la spesa. Potevo essere lì con lui".
   Il più anziano dei quattro, Francois Michelle Saada ha 64 anni ed è padre di due figli che vivono entrambi in Israele. Nella foto circolata solo poche ore fa, lo si vede mentre sorride con due piccoli occhi neri da uomo buono. "Lo scopo della sua vita era la sua famiglia, i suoi figli - dichiara un amico - Era un padre e un marito modello". Gli ebrei francesi si sentono mutilati, strappati del loro, del nostro, giorno più bello, lo Shabbat. Durante l'intervista della giornalista del canale 10 della tv israeliana Oshrat Kotler con uno degli ostaggi miracolosamente vivi di Coulibaly, alla domanda "Cosa farete adesso", l'uomo ha risposto: "C'est fini, on fait notre Alya" (è tutto finito, ci trasferiremo in Israele). "Perché?" chiede Kotler, "Perché vogliamo vivere".

(moked, 11 gennaio 2015)


Parma - Islamici contro il terrorismo: una piazza semivuota

Solo poche decine di persone per condannare gli attentati di Parigi.

In piazza Garibaldi i musulmani di Parma e provincia hanno voluto condannare «in modo netto e chiaro i fatti di Parigi». Ma i musulmani di Parma e provincia sono più o meno 15 mila, come conferma Farid Mansouri, presidente della comunità islamica locale. E ieri in piazza erano poche decine. Pochi? «Pochi, sì», dice AdiI Eddal del centro culturale Ennour di Fidenza. «Pensavo che saremmo stati di più, molti di più. Nelle riunioni del venerdì abbiamo raccomandato la presenza». Come mai questa scarsa affluenza, allora? «Facciamo fatica ad aprirci e tendiamo un po' troppo a delegare. Ma questo non significa non condividere la volontà di condanna per quello che è successo."

(Gazzetta di Parma, 11 gennaio 2015)

*

Al Direttore della Gazzetta di Parma è stata inviata oggi stesso questa lettera:

Egregio Direttore,
dunque, dei circa 15mila musulmani presenti nella provincia di Parma, solo una decina sono venuti a manifestare contro i fatti terroristici di Parigi. La manifestazione dunque c'è stata, ma di segno opposto. Invece della disapprovazione, si è manifestato il disinteresse per fatti criminali come quelli accaduti a Parigi. Solo disinteresse? o interesse di segno opposto? Pigrizia? o paura? Sì, paura, perché l'obiettivo degli islamici di Parigi era di soffocare la libertà di espressione attraverso l'intimidazione, cosa che in parte è avvenuta, perché ci sono giornali che hanno deciso di non pubblicare più vignette che in qualche modo possano essere sgradite agli islamisti. E se negli ambienti islamici della provincia qualcuno avesse fatto correre la voce che chi condanna i fatti di Parigi manifesta solidarietà con i nemici dell'Islam? Ci vuole poco a convincere le persone a restare a casa, basta poco per intimorire la gente. Attenzione allora, perché se l'arma dell'intimidazione violenta comincia davvero a funzionare, allora tutta la struttura democratica della nostra società è in pericolo. E gli islamici moderati, che indubbiamente ci saranno ma almeno in questo caso sono rimasti silenziosissimi, sarebbero i primi a subirne le peggiori conseguenze.
Marcello Cicchese

(Notizie su Israele, 11 gennaio 2015)


L'analisi di Pipes: "Italiani, opponetevi all'islam, tenteranno di sottomettervi"

di Andrea Morigi

 
Daniel Pipes
Visto dagli Stati Uniti, dove raggiungiamo al telefono il direttore del Middle East Forum Daniel Pipes, il massacro compiuto a Parigi appare come l'ultimo atto dell'avanzata islamica nelle terre degli infedeli.

- Le analisi sull'islam militante di questo intellettuale neocon hanno suscitato interesse e anche numerose polemiche. Ma non hanno mai lasciato indifferenti, per la loro profondità. L'attentato contro Charlie Hebdo rappresenta a suo parere un punto di svolta nella strategia jihadista?
  Direi che i jihadisti diverranno una minaccia via via sempre maggiore in Europa. L'impatto sulla popolazione occidentale, tuttavia sarà così forte che prima o poi finirà per provocare una reazione».

- Quindi, lei prevede che, finalmente, l'Europa si risveglierà?
  «Certo, perché gli episodi di violenza che si moltiplicano stanno provocando una preoccupazione crescente nell'opinione pubblica».

- Chi si ribella, tuttavia, rischia di essere etichettato come xenofobo, islamofobo, di estrema destra. È quello che sta accadendo ai partiti come la Lega Nord in Italia o il Front National in Francia.
  «Purtroppo, è così. Ma occorre dire che si tratta di un terribile errore».

- Lei come consiglierebbe di rispondere?
  «Direi: non preoccupatevi. Non è estremismo opporsi alla legge islamica. È una reazione naturale. Perciò dite di no. Solo così si potrà fermare la barbarie».

- Molti commentatori sostengono che i terroristi non uccidono nel nome di Allah. E i capi religiosi islamici in Europa hanno condannato l'attacco, ma anche gli episodi di blasfemia. E i terroristi hanno scelto di colpire proprio un luogo simbolico come la redazione di un settimanale satirico. Crede che siano in pericolo i diritti civili?
  «Non penso che il problema centrale riguardi la libertà di stampa e di espressione. Certamente, i musulmani non tollerano le critiche all'islam. E oltre a questo agiscono allo scopo di seminare il terrore fra la gente. Ma il loro vero obiettivo è instaurare la sharia, la legge coranica, che punisce con la morte i nemici dell'islam. Del resto vi stanno riuscendo».

- Intende dire che oramai ci sono zone sfuggite al controllo delle autorità civili e passate sotto il dominio dell'islam radicale?
  «Ovvio. È un fatto acclarato. In molti Paesi, la Gran Bretagna in testa, si applica già la sharia per quanto riguarda il diritto civile e familiare, ma in alcuni casi anche in campo penale. Così, se solitamente si va dall'imam o presso una corte sharaitica per regolare matrimoni, separazioni, divorzi e questioni ereditarie, c'è una tendenza ad amministrare la giustizia all'interno della comunità anche quando si tratta di crimini. E dal fenomeno purtroppo non è esclusa nemmeno l'Italia».

- È una minaccia che tocca anche altri Paesi. Dopo aver colpito negli Stati Uniti nel 2001, il terrorismo islamico recentemente ha preso di mira anche il Canada e l'Australia. Non è a rischio tutto l'Occidente?
  «Non si verifica la stessa situazione in tutte le aree del mondo. In America e in Oceania il pericolo è minore perché non si associa al progetto di islamizzazione della società. Attualmente il pericolo maggiore viene dalla Francia, dalla Svizzera, dalla Danimarca e dai Paesi Bassi. Senza dimenticare l'Italia dove, benché non vi troviate allo stesso livello di altri Paesi europei, sarete prima o poi coinvolti».

- In effetti, la rivista dell'Isis, Dabiq, ha già messo sulla propria copertina una bandiera nera che sventola sull'obelisco di piazza San Pietro. È quello l'obiettivo, almeno propagandistico?
  «Non credo che la loro priorità sia colpire il Vaticano. Quello che sperano, semmai, è di sottomettere l'Italia».

- Insomma, lei intravvede un pericolo che va oltre le azioni militari e sanguinarie?
  «Diciamo che non ci si può limitare alla questione, pur importante, dell'ordine pubblico e della sicurezza. Al di là dell'emergenza terrorismo, in Europa si assiste un tentativo di cambiare la società attraverso le scuole e le assemblee parlamentari. In più, su tutto questo, si innesta il fenomeno dell'immigrazione che aggrava il problema».

- Eppure, la tendenza dominante sembra quella di prodigarsi per concedere sempre maggiori diritti agli stranieri, favorendo anche il proliferare delle moschee.
  «Non servirà a nulla».

- La ritiene una strategia suicida?
  «Ma certo che è una strategia suicida. Comunque sono sicuro che gli europei si risveglieranno prima che sia troppo tardi».

(Libero Quotidiano, 10 gennaio 2015)


«Pochi morti, meglio l'11 settembre». Sul web i deliri degli islamici italiani

Polizia in allarme: solo esaltati?

di Alessandro Gonzato

«Dodici sono pochi. Poi neanche una foto col sangue, forse muoiono di paura». Su Facebook, Hakim Ait Mhand, operaio marocchino di una ditta di logistica in provincia di Rovigo e attaccante della Stientese (prima categoria), commenta la strage di Charlie Hebdo. Scrive che il dramma di Parigi non gli è piaciuto «perché è durato poco. Quello dell'll settembre» aggiunge «era più bello». Insomma, voleva più morti e che la mattanza fosse molto più lunga. Il presidente della società, Eugenio Zanella, non appena venuto a conoscenza del post del suo calciatore ha deciso di cacciarlo: «Non voglio più vederlo, per me non esiste più». Hakim ha quindi tentato goffamente di giustificarsi: «Sono state fraintese, mi riferivo alla risonanza mediatica che ha avuto la vicenda di Parigi rispetto ad altri attentati, magari più gravi ma meno seguiti. Mia moglie non porta il velo e mia figlia frequenta un asilo gestito dalle suore».
   Le frasi del calciatore marocchino alimentano la schiera di quanti, sul web, stanno prendendo le difese dei terroristi islamici. Per farsi un'idea basta cercare su Facebook. «Dichiaro guerra santa contro chi vuole chiudere le moschee», dice sulla propria pagina Habibi Azizoski, musulmano che vive a Firenze. Poi aggiunge che «bisogna difendere l'Islam», che a Padova «hanno già chiuso le moschee e faranno altrettanto a Firenze e Milano. Se stiamo zitti ... ». Ad Azizoski siamo arrivati dal profilo di Anass Abu Jaffar, marocchino di 26 anni. Fino a pochi mesi fa viveva a Belluno, ora a Casablanca. Sul social network è seguito da 420 persone. «Che Iddio punisca questi individui che hanno offeso il nostro profeta» scrive. «Amo il profeta più di mia madre e molto più di mio padre, lo amo più della mia stessa vita e tu lo insulti con la scusa della libertà?». Decine i commenti ai suoi post. Ne ritroviamo ancora uno di Azizoski: «Siamo vicini alla fine. Non so quanto ma sento che si sta avvicinando».
   Questi e altri messaggi sono finiti sotto la lente d'ingrandimento di polizia postale, Digos, Ros e servizi segreti. Che stanno cercando di capire chi siano gli autori, se fanatici dell'islam pronti a tutto o mitomani. Le notizie degli ultimi mesi secondo cui diverse cellule terroristiche potrebbero avere base a Nordest hanno portato gli investigatori a concentrarsi sul Veneto. lsmar Mesinovic, l'imbianchino morto per l'Isis, a dicembre 2013 era partito da Ponte nelle Alpi, nel Bellunese. Con lui Munifer Karamaleski, altro martire jihadista. Abitava a Padova, invece, Saber Fadhil, conosciuto come il "Califfo". Vendeva pizza e kebab. I carabinieri nel 2007 lo avevano arrestato perché ritenuto capo di una cellula di Al-Qaeda. Nel Triveneto sono una trentina i potenziali estremisti islamici sorvegliati dalle forze dell'ordine. Nella maggior parte dei casi bosniaci. Oltre ai telefoni, sotto controllo sono finiti i loro pc: su Facebook c'è il rischio che facciano proseliti.

(Libero, 11 gennaio 2015)


I luoghi dell'ebraismo astigiano diventeranno meta turistica

di Fulvio Gatti

Interno della Sinagoga di Asti
Nel basso Piemonte, in un ideale perimetro delimitato dalle città di Asti, Acqui Terme, Casale Monferrato e Cuneo, la presenza delle comunità ebraiche fu particolarmente incisiva, tanto da aver lasciato, alle spalle, innumerevoli testimonianze nelle architetture, nei personaggi e nei documenti. Lo stesso non si può dire, per esempio, di Torino, come ricorda Maria De Benedetti, fondatrice del Cepros Asti onlus: «Nel capoluogo sabaudo gli ebrei rimasero un mondo a parte, al punto da poter essere considerati "torinesi ebrei". Per il Piemonte meridionale la situazione è molto diversa. Arrivati nella zona da Francia e Spagna, costruirono una costellazione di piccole comunità, tutte significative, integrandosi e diventando a tutti gli effetti "ebrei piemontesi"». Il museo della sinagoga di Asti conserva per esempio una delle unicità: l'Appam, un rito che risulta essere presente, oltre che nella città di Alfieri, anche a Fossano e Moncalvo.
   La pergamena, scritta a mano, ne riporta le peculiari liturgia e musica; per via delle sue caratteristiche, gode di un'alta considerazione presso i centri di studio rabbinici in Usa. E sempre rimanendo ad Asti, dal punto di vista architettonico è ancora oggi riconoscibile il ghetto in via Aliberti, così come l'Istituto Clava fondato dall'omonima famiglia. «È possibile ricostruire i percorsi storici anche grazie alle vicende umane dei singoli astigiani di origine ebraica - prosegue Maria De Benedetti - Tra loro Isacco Artom, nostro prozio, che fu segretario di Cavour e diplomatico a livello europeo, Salvatore Ottolenghi, fondatore della polizia scientifica, e Attilio Momigliano, docente illustre e tra i più importanti studiosi di Manzoni».
   Il materiale, tra luoghi e documenti, è notevole; con un'opportuna valorizzazione potrebbe trasformarsi in ulteriori approfondimenti storiografici e, perché no, anche in percorsi di visita lungo le eredità lasciateci dai molti importanti personaggi. Su queste basi nasce un progetto che muoverà i primi passi nel 2015. «A monte c'è una bella intuizione di Maria De Benedetti e di Nicoletta Fasano dell'Israt - commenta Maurizio Scardino, direttore di Cepros Asti onlus -. Pensiamo sia possibile tracciare una mappa dei luoghi, in cui la storiografia è collegata anche ad altre discipline, dall'arte all'architettura. La fruizione sul territorio di questi studi potrebbe dare la possibilità di ricadute in ambito turistico». Uniti nel progetto con Cepros e Israt ci sono il polo Uni-Astiss, l'associazione Biblia e la casa editrice Sonda. Tra le iniziative in programma, anche borse di studio per gli studenti che volessero approfondire questo importante frammento di storia locale e non solo.

(La Nuova Provincia - Asti, 10 gennaio 2015)


Anche Netanyahu e la regina Rania alla marcia

La Svizzera sarà rappresentata dalla presidente della Confederazione Simonetta Sommaruga.

Una Parigi con i nervi a fior di pelle prepara "misure di sicurezza eccezionali" per la marcia "repubblicana" di domani, a cui è prevista una grande affluenza di gente comune e la presenza di una lunga lista di leader politici, europei e non solo.
   Il ministero dell'Interno francese mobiliterà 2'000 poliziotti e 1'350 militari per blindare due differenti percorsi tra la place de la Republique e la place de la Nation, punto di partenza e di arrivo del corteo. Il dispiegamento di forze sarà impressionante: cecchini sui tetti, 24 unità della riserva nazionale, 20 squadre della brigata anti crimine della polizia di Parigi "che garantiranno l'identificazione delle persone a rischio", 150 agenti in borghese "incaricati della protezione delle alte personalità e della sicurezza generale". Lungo i due percorsi ci sarà divieto assoluto di parcheggiare veicoli, e molte fermate della metropolitana resteranno chiuse.
   I leader politici, però, non intendono lasciarsi scoraggiare. La lista delle personalità che hanno annunciato la loro partecipazione alla marcia ha continuato ad allungarsi, includendo anche qualche nome a sorpresa, come quello del capo della diplomazia di Mosca Serghiei Lavrov, che giungerà a Parigi a capo di una delegazione russa. Ci sarà anche il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu, la cui partecipazione era stata esclusa in un primo momento per ragioni di sicurezza. A quanto riportato dall'emittente i-Télé parteciperanno alla marcia anche il re di Giordania Abdallah II e la regina Rania. La Svizzera sarà rappresentata dalla presidente della Confederazione Simonetta Sommaruga.
   Nel frattempo, la Francia ha già cominciato a scendere in piazza in numerose grandi città e centri di medie dimensioni. In totale, dice il ministero dell'Interno, circa 700 mila persone hanno sfilato in decine di cortei differenti, da Lille a Marsiglia, dalle regioni basche a quelle atlantiche. La mobilitazione più ampia è stata a Tolosa, città vittima nel 2012 della follia omicida dell'integralista islamico Mohamed Merah, dove le ultime stime parlano di almeno 120 mila manifestanti, una cifra "mai vista" secondo le autorità locali.

(Ticino News, 10 gennaio 2015)


Parigi. Tristezza e inquietudine nella comunità ebraica

di Pino Salerno

 
La Grande Sinagoga di Parigi
La comunità ebraica di Parigi ha vissuto in una tensione estrema la fine della caccia agli autori degli attentati commessi nella capitale mercoledì 7 e giovedì 8 gennaio. La morte degli ostaggi ebrei nell'ipermercato kosher in place de Vincennes, dove Amedy Coulibaly si era rifugiato, provoca nuovi traumi. Lo stesso Hollande ha parlato in televisione di "atto antisemita", e così ha proseguito, "Dobbiamo dimostrare la nostra determinazione a lottare contro tutti coloro che vogliano dividerci, essere implacabili dinanzi al razzismo e all'antisemitismo". Questo episodio sanguinoso si colloca in un'atmosfera già troppo esasperata tra gli ebrei di Francia. Gli attacchi antisemiti contro gli ebrei hanno avuto inizio con le battute acide dello pseudo umorista, noto antisemita di origini camerunensi, Dieudonné, sono continuate nel luglio 2014 contro le sinagoghe e con le scritte "morte agli ebrei" nel corso delle manifestazioni pro Gaza, e sono culminate nell'aggressione a una giovane coppia, lo scorso primo dicembre, nel sequestro di una famiglia ebraica, a scopo di rapina, "perché gli ebrei possiedono i soldi", dicevano gli aggressori, e nella violenza sessuale di una delle figlie. Nel 2014, il numero di partenze per Israele è raddoppiato rispetto all'anno precedente. Con 7000 partenze, la Francia è diventata il primo paese per l'aliya, il nome che viene dagli ebrei alla emigrazione verso Israele.
   Tra le testimonianze raccolte dall'AFP, la France Press, quella di Haim Korsia, che afferma: "ancora una volta la minaccia che pesa sulla comunità ebraica è reale", e quella di Roger Cukierman, presidente del Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche in Francia: "la situazione diventa sempre più grave. Ho l'impressione che sia la guerra del jihad contro l'Occidente, che ha per obiettivi i giornalisti, la libertà di espressione e gli ebrei. Noi abbiamo vissuto le vicende di Merah, Nemmouche, oggi l'attacco al supermercato kosher, e tutto ciò deriva dagli stessi individui motivati da terrorismo".
   Nella grande Sinagoga di Parigi, le porte sono rimaste chiuse, sabato, quando è giorno sacro per gli ebrei. Non accadeva dalla seconda guerra mondiale. Le reazioni della comunità ebraica sono racchiuse nelle parole raccolte dai giornalisti nelle immediate vicinanze della Sinagoga. "Non è che l'inizio", afferma un commerciante, costretto a chiudere il proprio negozio. Un altro, con amarezza, sostiene che dal nazismo "nulla è cambiato, è sempre la stessa cosa". Un giovane ebreo si confessa: "voglio partire per Israele, unico paese sicuro". Uno studente di ingegneria ebreo si spinge oltre: "i terroristi fanno torto ai mussulmani. È terribile per loro, perché non possono farci nulla. È inevitabile che così vincerà l'estrema destra".
   Marc Konczaty dirige il Movimento ebreo liberale di Francia. Per lui, "è soprattutto la Francia che è attaccata". Allora, "occorre continuare a vivere, a essere fieri di ciò che siamo, della nostra democrazia". È per questa ragione che, come tutti i rappresentanti della comunità ebraica, egli invita a manifestare domenica alla "Marcia dei repubblicani", indetta dalla sinistra francese e raccolta da sindacati, associazioni, movimenti, e da tutti i partiti democratici, ad eccezione del Front National, non invitato e non gradito, proprio per le sue posizioni oltranziste e illiberali (il tweet sul ritorno alla ghigliottina di Marine Le Pen è stata l'ultima goccia).

(Jobsnews.it, 10 gennaio 2015)


Le quattro vittime del supermercato: «In coda per la festa ebraica»

Resi noti i nomi delle vittime. La comunità ebraica in Francia: «Nessuna forza terrorista, nessuna violenza antisemita, impedirà agli ebrei di continuare a vivere».

Sono stati resi noti dalla comunità ebraica in Francia i nomi delle quattro vittime di Vincennes, uccise nel supermercato kosher Hyper Cacher, che si trova alla Porte de Vincennes, nel XII arrondissement di Parigi, da Amedy Coulibaly. Sono Yoav Hattab, Philippe Braham, Yohan Cohen, François-Michel Saada. Lo scrive il Crif, il Consiglio Rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia. Due di loro erano giovanissimi, poco più di vent'anni, erano nel market per comprare alimenti prima dello Shabbat.

- Il comunicato della comunità ebraica in Francia
  «Questi cittadini francesi sono stati uccisi a sangue freddo e senza pietà, perché ebrei», scrive su Twitter il Crif. «Il Crif intende riaffermare che nessuna forza terrorista, nessuna violenza antisemita, impedirà agli ebrei di continuare a vivere, a visitare le loro sinagoghe, le loro scuole, imprese e sedi di comunità». La comunità invita tutti a ricordare le vittime sabato sera alle 18 davanti al municipio di Saint-Mande, prima di andare verso il supermercato della strage alle 18:30.

- La Grande Sinagoga di Parigi chiusa per lo Shabbat
  La Grande Sinagoga di Parigi a rue de la Victoire è rimasta chiusa per lo Shabbat dopo il doppio attacco terroristico di ieri. È la prima volta che accade dopo la seconda guerra mondiale. Neppure dopo la liberazione degli ostaggi e l'uccisione dei terroristi, il luogo di culto ebraico è stato riaperto.

Il blitz nel negozio kosher

(Corriere della Sera, 10 gennaio 2015)


Così la Francia si è scoperta Israele

Come è potuto accadere che personaggi legati alla jihad islamica, che si conoscevano, che il giorno avanti avevano già ucciso, abbiano subito colpito di nuovo?

di Fiamma Nierenstein

Gerusalemme
Cade la neve su Gerusalemme. Silenzio. Bianco. C'è un attimo di silenzio totale nell'istante subito dopo le esplosioni, è una beffa che dura un istante prima delle urla dei feriti e delle sirene delle ambulanze e della polizia.
   Ne abbiamo visto fino a contare circa duemila morti. Adesso mentre qui è bianco, il silenzio è amico, si parla in casa di piccole cose (riscaldamento, elettricità) e il paradosso è enorme: la gente guarda fissa la tv perchè il terrore si è rovesciato su Parigi. Guarda con ansia particolare, partecipata, quelle scene purtroppo familiari se non si svolgessero tanto lontano: Israele soffre con Parigi e in diretta su tutti i canali, Netanyahu chiede se può mandare aiuto, con un ghigno di soddisfazione l'estremismo islamico che qui è sgradito compagno di strada adesso ha ridotto in ginocchio la Francia. Com'è possibile che accada a una città protetta dalla sua infinita bellezza e dalla sua storia, che fino ad oggi ha creduto di non potere umanamente essere messa in discussione? A differenza di Parigi, Gerusalemme ha sempre saputo di avere tanti nemici: le forze di polizia, l'esercito, il loro training, la noiosa procedura che fruga i cittadini ad ogni ingresso di un luogo pubblico, l'osservanza delle norme di sicurezza per cui ogni pacco abbandonato è in potenza una bomba, l'eroismo personale dimostrato dai guidatori di autobus come dai camerieri e dai commessi... insomma lo scudo di difesa di questo Paese ha fornito una certa grinta ai cittadini, non hanno dubbi che sconfiggeranno il nemico nonostante la nuova era dei «lupi solitari».
   Israele l'ha detto e ripetuto, ed ora è vero: se non si combatte il terrore, si moltiplicherà in tutto il mondo. Parigi è stata colta alla sprovvista, un po' non sapeva, un po' non ha voluto sapere, i segnali e gli indizi c'erano: ma la guerra terrorista ha mostrato le zanne ancora di più di quanto non avesse già fatto nei pure immensi attentati di Madrid e di Londra. L'altissimo simbolismo degli obiettivi, un giornale che osava dire quello che pensava e un supermarket casher, frequentato solo dalla comunità ebraica, assalito di venerdì sera quando le famiglie fanno gli acquisti per il santo Sabato, dice ai francesi per primi, che a seconda dello sviluppo del folle piano degli islamisti ciascuno può diventare carne da macello, una pietra miliare sulla strada del Califatto mondiale.
   Parigi ieri si è chiusa in casa: le strade di tradizione ebraica, il Marais, Rue de Rosiers, sono state chiuse dalla polizia ai turisti e al passaggio degli abitanti; intorno alla Porte de Vincennes, quartiere del supermercato Hypercosher non si vedeva un'anima. La città ha respirato quando si è saputo che tutti i prigionieri erano stati liberati e tutti i rapitori, in ambedue gli attentati terroristi uccisi; ma il risultato non convince, resta la paura di che cosa accadrà la prossima volta, quattro morti innocenti dopo i dodici di mercoledì sono tanti, possono essere qualsiasi compratore al super. Come è potuto accadere che personaggi legati alla jihad islamica, che si conoscevano, che il giorno avanti avevano già ucciso, abbiano subito colpito di nuovo, come hanno potuto tenere in pugno una capitale del mondo... La città ha cominciato a segnalare bombe al Trocadero, alla Tour Eiffel, la polizia ha messo transenne ovunque, varie scuole sono state chiuse, le istituzioni ebraiche sono state piantonate tutte. Non vale molto che la maggior parte delle strade fosse sorvegliata da parte di quegli 88mila uomini delle forze dell'ordine che lo Stato ha sfoderato. Altri quattro innocenti sono stati massacrati subito il giorno dopo Charlie Hebdo, la gente se lo ripete e sente che può capitare ancora, e sente che mancano le armi in questa guerra senza soluzione in vista. Chiese, stazioni, sinagoghe, treni. Tutto può essere il prossimo obiettivo, ma in particolare, gli ebrei sono attaccati dai musulmani estremisti, uno ad uno. Per loro, camminare per strada da tempo significa botte e insulti nella loro città, a Parigi. La comunità terrorizzata è perseguitata ormai da anni dagli attacchi dei musulmani estremisti che odiano e condannano a morte i «sionisti»: la prima orribile vicenda fu quella di Ilan Halimi, un ragazzo rapito, torturato per giorni al ritmo dei versi del Corano, gettato in fin di vita in una discarica. La polizia si rifiutò di esplorare la pista antisemita, che pure la madre di Halimi le indicava con sicurezza. Così Halimi è morto, e lo hanno seguito i bambini della scuola di Tolosa, uccisi da un jihadista francese.

(il Giornale, 10 gennaio 2015)


La paura degli ebrei: noi il bersaglio, pronti a difenderci

La polizia francese, temendo nuovi attentati, chiede di chiudere in anticipo i negozi e di evitare le preghiere nelle sinagoghe.

di Davide Frattini

 
Diffuso dalla Ligue de Défense Juive

SARDELLES - Solo le stelle di Davide e le menorah in ferro battuto distinguono la vecchia sinagoga da una fortezza sotto assedio. I poliziotti scendono dalle camionette e si preparano a un venerdì di preghiera che è diverso dagli altri in una cittadina a venti chilometri da Parigi che è diversa dalle altre. Qui i templi ebraici sono ventisette in pochi chilometri quadrati, la comunità conta 18 mila persone, la più grande fuori dalla capitale. Qui il 20 luglio, durante il conflitto tra Israele e Hamas, un corteo pro palestinese si è trasformato in guerriglia urbana, i fedeli asserragliati dentro, i muri bersagliati dalle molotov. Gli agenti in uniforme blu non sono gli unici a dispiegare il cordone di sicurezza. Meno appariscenti, in ordine sparso, arrivano i ragazzi del quartiere. Scrutano i preparativi da sotto i cappucci delle felpe nere, si salutano con un segnale, organizzano la difesa. Elle e Avi hanno vent'anni, c'erano anche l'estate scorsa, i caschi da motociclista in mano pronti per colpire i manifestanti, l'altro braccio agganciato a quello del compagno vicino per formare un cordone: andava fermata la marcia di quelli che urlavano «morte agli ebrei», mentre davano fuoco a una farmacia.
   Assieme ad altri 4-500 ragazzi fanno parte della Lega di difesa ebraica, un gruppo diffuso tra Sarcelles e Parigi, che il ministero degli Interni vorrebbe mettere al bando, ma che i negozianti della zona considerano lo sbarramento contro gli estremisti islamici e la sinistra radicale. Elle e Avi ripetono di non poter rivelare Il nome della loro organizzazione, ammettono di allenarsi nel Krav Maga, la tecnica di combattimento a mani nude studiata e adottata dall'esercito israeliano, dicono che tutte le loro azioni sono solo per difesa. Nessuno parla apertamente dell'organizzazione. Il proprietario del ristorante La Marina (pizza e sushi, sono kosher anche mangiati insieme) spiega che gli abitanti ebrei si aiutano a vicenda: «Tutti teniamo gli occhi aperti e segnaliamo un pacco sospetto o un'auto che non dovrebbe essere parcheggiata lì». Riconosce che a luglio «senza i ragazzi gli estremisti avrebbero bruciato tutto». Dice che i rapporti con i vicini, gli immigrati nord africani che vivono nei palazzoni attorno, sono buoni. Indica il caffè a fianco: «È di un turco, non abbiamo mai avuto problemi. Non possiamo abbassare la guardia, i manifestanti venivano da poco più lontano».
   I bar sono ormai vuoti, manca mezz'ora all'inizio di Shabbat, il giorno più sacro. I televisori restano accesi sulla diretta dal supermercato che vende cibo e prodotti ebraici, tutti sanno che sarebbe potuto succedere in questa cittadina che ha avuto come sindaco il socialista Dominique Strauss-Kahn, l'aspirante presidente travolto dallo scandalo sessuale.
   A Parigi, il prefetto ha chiesto di abbassare in anticipo le saracinesche dei negozi nel quartiere del Marais, abitato in maggioranza da ebrei, invita i rabbini a tenere chiuse le sinagoghe, secondo il Canale 2 della televisione israeliana per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale nel grande tempio della capitale non sono risuonati i salmi. A Gerusalemme il primo ministro Benjamin Netanyahu dà istruzioni al capo del Mossad perché i servizi segreti forniscano ai francesi tutta l'assistenza necessaria e siano pronti a intervenire.
   René Taleb - capo della comunità ebraica della Val-d'Olse, regione a nord della capitale - scende da un'auto con i vetri oscurati. È qui perché vuole che a Sarcelles il venerdì sotto scorta resti il più normale possibile. «Abbiamo alzato il livello di allarme - spiega - e contattato i presidi delle scuole ebraiche: siamo in grado di raggiungere tutti i genitori degli alunni nel giro di un'ora, se ce ne fosse bisogno». Non vuoI parlare della Lega di difesa, sa che è un argomento difficile per i politici francesi.
   L'estrema sinistra e qualcuno nel governo socialista considerano i giovani del gruppo pericolosi vigilantes, sono accusati di aver assaltato per le vie del Marais chi indossava la keffiah, il foulard bianco e nero simbolo della lotta palestinese, preoccupa il loro odio contro gli arabi. L'organizzazione racconta uno dei fondatori al quotidiano americano New. York Times, si fa chiamare solo Eliahou - non ha fiducia nella protezione offerta dalla polizia. Ex agente lui stesso, precisa che le operazioni sono concentrate nell'individuare e pedinare gli estremisti islamici attraverso una rete di informatori per poi avvisare gli investigatori ufficiali. Ammette di essere pronto «a rispondere alla violenza antisemita con la violenza»: «Preferisco essere un ebreo cattivo che un ebreo morto». Nel frattempo, 7.000 suoi correligionari, solo nel 2014. sono emigrati in Israele: un record.

(Corriere della Sera, 10 gennaio 2015)


Roma - Allerta terrorismo: "Pedonalizzare il cuore del ghetto"

Il progetto del Campidoglio e della Comunità ebraica. Pacifici: "Così si favorisce il controllo del territorio".

di Gabriele Isman

La scuola ebraica nel ghetto di Roma
Pedonalizzare l'intera via del Portico d'Ottavia, la via principale del ghetto, "la piazza" come la chiamano in tanti fuori e dentro la comunità ebraica. Era un'idea nata sull'onda della chiusura al traffico del Tridentino, per valorizzare uno dei salotti della città e per garantire maggiore sicurezza nel quartiere israelitico, ma sull'onda dei fatti di Parigi, torna d'attualità ma le priorità si invertono. "Ne parlammo con il sindaco Marino a ottobre, durante l'ultimo viaggio della memoria e nei giorni successivi vi fu anche una riunione con Maurizio Pucci che allora era vice capo di gabinetto del Campidoglio" racconta Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica. Poi l'idea della chiusura completa lungo le 24 ore si è arenata, ma "è evidente che i fatti di queste ore non fanno che rafforzare questa necessità di pedonalizzare che non è più soltanto per la godibilità degli spazi ma anche per la sicurezza" aggiunge Pacifici.
   Attualmente soltanto una parte della strada da Santa Maria del Pianto all'incrocio con via del Tempio è chiusa al traffico: "L'idea aggiunge il presidente è di allungare l'area pedonalizzata sino a largo XVI ottobre 1943, anche perché permetterebbe di continuare a usufruire dei parcheggi nell'area tra lo stesso largo e piazza Gerusalemme". Quindi Pacifici si dice favorevole alla pedonalizzazione nella via piena di ristoranti di successo, apprezzati da ebrei e non: "Se la proposta arriva dal Comune favorisce un miglior controllo del territorio per evitare azioni con mezzi non convenzionali".
   Resta il problema della scuola ebraica, che comprende i cicli dalle elementari al liceo per un totale di circa mille studenti e che con la pedonalizzazione diverrebbe inaccessibile. "Prima era su lungotevere Sanzio poi, tra Rutelli e Veltroni la trasferimmo all'interno del quartiere. Nel suo genere è l'unica a Roma e sicuramente la più importante in Italia e consente a persone di diverse estrazioni sociali e culturali di incontrarsi. C'è chi impiega anche due ore a portare i figli a scuola. Chiedere ulteriori sforzi economici sarebbe sbagliato: basterebbero varchi con targhe memorizzate o consentire l'accesso in orari limitati per portare e riprendere i figli".
   Impossibile non parlare dell'attacco alla redazione di Charlie Hebdo e degli assedi di ieri in Francia: "Sono momenti spartiacque - dice Pacifici - ma sono figli delle stesse ideologie che hanno portato meno di un mese fa all'attacco alla sinagoga di Gerusalemme con accette e pistole. Israele conosce quel dolore ma le nostre preoccupazioni si raddoppiano: come ebrei e come europei. Questa non è una guerra all'Islam ma contro il fanatismo che strumentalizza l'Islam per il reclutamento dell'odio".

(la Repubblica - Roma, 10 gennaio 2015)


Ebrei romani dopo i fatti di Parigi: "Non ci facciamo intimidire"

di Daniele Petroselli

"Non abbiamo paura. Magari siamo più attenti e vigili, ma non spaventati. Continueremo con le nostre attività di sempre". A dirlo all'Adnkronos un residente del quartiere ebraico di Roma, che torna sulle terribili vicende accadute a Parigi nelle ultime 48 ore. "Abito qui vicino al tempio, ma non ho paura - continua - In Israele siamo abituati ogni giorno a essere aggrediti, solo che non se ne parla più di tanto perché sono cose che accadono lontano da noi. Queste persone sono pazze, ci hanno dichiarato guerra, non possiamo più porgere l'altra guancia: dobbiamo reagire".
   "Noi qua a Roma siamo quasi più abituati a darle che a riceverle - dice sempre all'agenzia di stampa una delle guardie del tempio - Paura non ne abbiamo. Certo, siamo tutti più attenti, perché un folle isolato può sempre capitare, ma non ci limiteremo nelle nostre attività quotidiane".

(Adnkronos, 10 gennaio 2015)


«Noi ebrei un obiettivo, ma l'attacco è alla civiltà»

Intervista a Lia levi: «Noi ebrei siamo sempre un obiettivo: Cercano di annientare la tradizione giudeo-cristiana. Siamo tutti minacciati»

di Alessandro Zaccuri

 
Lia Levi
Il doppio blitz si è appena concluso, il bilancio delle vittime è ancora incerto e Lia Levi non nasconde la sofferenza: «Non si fermeranno a Parigi, alla Francia», dice.
Da quando, nel 1994, pubblicò Una bambina e basta, la scrittrice romana è una delle voci più appassionate e ascoltate dell'ebraismo italiano. Lei, che da piccola trovò rifugio dalla Shoah in un convento di suore, non riesce a stupirsi dell'irruzione terrorista all'Hyper Cacher, del Marais sotto assedio, delle sinagoghe in stato d'allerta. «Le comunità ebraiche sono l'obiettivo di sempre - ribadisce con fermezza -, è come guardare in una provetta dove il mostro sta rinascendo,

- Il mostro è l'antisemitismo?
Sì, un antisemitismo che negli ultimi anni, specie nel mondo arabo, si è spesso travestito da antisionismo. Ma il vero problema non è Israele, l'orizzonte da considerare è molto più vasto. L'obiettivo dell'attacco è la civiltà giudaico-cristiana nel suo complesso, sono i valori di una tradizione rnillenaria che il terrorismo fondamentalista vuole cancellare con la violenza. Penso alla strage di "Charlie Hebdo', agli scontri a fuoco di ieri, ma anche allo sterminio dei cristiani in tante parti del mondo. Come ebrea, sono terribilmente colpita ogni volta che sento raccontare di chiese assaltate e bruciate, di fedeli trucidati mentre pregano».

- Sta dicendo che c'è un unico disegno?
Un disegno comune sì, ma non necessariamente un burattinaio' un "grande vecchio". Di sicuro i terroristi sono accomunati dalla stessa logica, che si traduce in azioni dal significato non equivoco. Ha notato che l'aggressione al negozio kosher è avvenuta di venerdì? È il giorno che precede lo Shabbat, il momento più adatto per sferrare un assalto. C'è una pianificazione, come dimostra anche lo schema di gruppi di fuoco che si agiscono a distanza, coprendosi l'uno con l'altro. Per questo non è più sufficiente che ciascuno protegga se stesso, magari crogiolandosi nell'illusione che, intanto, tocca sempre agli altri: agli ebrei, ai francesi, ai cristiani dell' Africa o dell'Asia. Siamo tutti minacciati.

- È lo scontro di civiltà?
Il rischio è altissimo, lo ripeto, ed è il motivo per cui occorre conservare la lucidità. L'islam moderato esiste, non possiamo negarlo, ed è con questa parte del mondo musulmano che va promosso il dialogo, con particolare urgenza ora, dopo che le cosiddette Primavere arabe hanno mostrato tutta la loro fragilità. Ma il primo passo da fare riguarda la società occidentale, che per troppo tempo si è accontentata di un buonismo conformista. Se davvero vogliamo imparare a convivere, dobbiamo anzitutto ricordare la nostra identità. In assenza di identità, resta solo la sottomissione. Ma anche questo, purtroppo, è qualcosa che abbiamo già visto in atto nella storia: ci si mostra remissivi e intanto si spera di evitare i guai più grossi, di scamparla in qualche maniera. Non va così. Non è mai andata così. Quale aspetto dell' ebraismo risulta più intollerabile per i terroristi?
Il fatto che l'ebraismo è racconto, ricerca, interpretazione continua, e non dogma, né tanto meno imposizione della verità con la forza. L'ebraismo non riconosce un'autorità centrale, a differenza di quanto accade nel cattolicesimo.

- Francesco è il Papa del dialogo.
E anche questo, a mio parere, infastidisce molto l'integralismo armato. L'inasprimento di cui siamo testimoni in questi giorni potrebbe essere in qualche misura collegato al rinnovato prestigio internazionale della Chiesa.

(Avvenire, 10 gennaio 2015)


Il dialogo proposto dall’Occidente è visto dall’islam come un’utile arma di guerra. Non è questo quindi a dargli fastidio. Dialogare e sparare in adeguata alternanza è la tecnica di guerra magistramente introdotta dal Premio Nobel per la Pace con pistola al fianco Yasser Arafat. Come sempre, la cosa ha avuto inizio in Israele; poi ha preso a espandersi in tutto mondo. Per ora siamo arrivati in Francia. M.C.


Sorriso e soumission

Parla Scruton: "In Europa c'è un vuoto che l'islam sta riempiendo. Nel Corano non esiste l'ironia".

di Giulio Meotti

ROMA - "Si è creato un vuoto che adesso l'islam prova a riempire". Così al Foglio Roger Scruton commenta la strage a Charlie Hebdo e l'uscita del romanzo "Soumission" di Michel Houellebecq. Filosofo e polemista inglese, Scruton ha avuto a che fare con la censura e la libertà di espressione fin da 1979, quando divenne uno dei più accaniti difensori della dissidenza anticomunista in Cecoslovacchia. Espulso da Praga, dove ha fondato la Libera Università, Scruton sarebbe poi stato insignito dalla Repubblica Ceca della più alta onoreficenza nazionale.
    "Il romanzo di Houellebecq ha il merito di indicare in termini letterari questa trasformazione spirituale e culturale", dice Scruton al Foglio. "Ogni civiltà dipende dalla propria religione rivelata. La cultura occidentale, soprattutto di sinistra, ha cercato invece di smantellare il cristianesimo e l'illuminismo. E' come la Russia del XIX secolo, anche allora c'era il terrorismo dei nichilisti e i segni dell'avvento di una ideologia comunista totalitaria. Fu una vendetta imposta sul resto del mondo. I terroristi possono essere senza causa o possono dedicarsi a una causa così vaga e metafisica che nessuno potrebbe ritenerla raggiungibile. I nichilisti russi erano gente del genere, come li raccontano Dostoevskij e Turgenev. L'incarnazione di questa figura è il professore descritto da Joseph Conrad nel romanzo 'L'agente segreto', che brinda 'alla distruzione dell'esistente'".
    Secondo Roger Scruton, i musulmani oggi cercano in Europa una nuova appartenenza: "Ma una che rigetti tutto quanto cristianesimo e illuminismo hanno prodotto, a cominciare dalla libertà di espressione. Per questo hanno attaccato la sede di Charlie Hebdo. La sinistra ha preparato la strada della sottomissione all'islam. La libertà di espressione è legata all'identità giudeo-cristiana dell'Europa". Secondo Scruton, un altro problema è che l'islam non ride. "Ci sono molti tipi di islam. I sufi ad esempio sanno ridere come noi occidentali. L'islam sunnita no. Ha abolito la risata e non accetta lo scetticismo. L'ironia è una parte fondamentale della nostra cultura, perché ci aiuta ad accettare le differenze. Pensiamo al nostro 'credo quia absurdum'. C'era già ironia nella Bibbia ebraica, poi amplificata dal Talmud. E Soren Kierkegaard vide nell'ironia la virtù che univa Socrate a Cristo. Il riso è dunque una grande conquista, ma può diventare anche una minaccia, come è avvenuto nel caso di Charlie Hebdo. I Vangeli sono pieni di ironia, il Corano no".
   Scruton è d'accordo con quanto ha detto il generale Al Sisi al Cairo sulla necessità di un travaglio interno all'islam. "Il problema è che la riforma dell'islam non può avvenire se il Corano resta la parola letterale di Dio. La Bibbia è 'ispirata' da Dio. L'interpretazione invece è fondamentale, mentre l'islam la guarda con sospetto. Dobbiamo tornare alle origini del Corano, ma non sarà facile".
   Suona falso a Scruton lo slogan "siamo tutti Charlie Hebdo" che adesso dilaga nelle piazze e nei giornali europei. "La prima reazione degli occidentali non è mai stata la lealtà verso il proprio mondo, quanto l'appeasement al terrorismo. 'Siamo tutti Charlie Hebdo' significa questo: lasciateci in pace, lasciateci vivere le nostre vite. Lo stesso avvenne anche dopo le bombe del 7 luglio a Londra, quando si disse che era in gioco il 'nostro stile di vita'. Salman Rushdie ne è un esempio: la fatwa contro di lui è stato l'inizio di tutto, è un rappresentante di talento di queste classi abbienti letterarie londinesi e un prodotto della scuola pubblica britannica. Ha saputo provocare, ma Rushdie non ha avuto la forza di rispondere alla fatwa di Khomeini. Ma risalendo indietro si arriva agli anni Trenta del XX secolo, quando l'Inghilterra conobbe un grande movimento pacifista e isolazionista di fronte a Hitler. E la Cecoslovacchia ne pagò per prima le conseguenze".

(Il Foglio, 9 gennaio 2015)


Vogliono uccidere la nostra anima

Non sono pazzi criminali, li muove un'ideologia politica. Più l'Occidente si autocensura, più diventeranno audaci. Il campo di battaglia non è fisico: volevano seminare il terrore e ci sono riusciti.

di Ali Ayaan Hirsi

Ayaan Hirsi Ali è un'attivista somala naturalizzata olandese e poi americana. Ha scritto il film «Submission». critico verso l'islam, che costò la vita al regista Theo vanGogh e l'ha costretta a vivere sotto scorta. Dal 2006 risiede negli Usa.
Nata a Mogadiscio nel 1969, è figlia di Hirsl Magan Isse, leader di una fazione della guerra civile somala scoppiata nel 1991. Quando aveva 22 anni il padre le ordinò di sposare un parente sconosciuto di Toronto. Diretta in Canada. fuggì durante uno scalo aereo in Germania e ottenne l'asilo politico in Olanda.

Dopo la carneficina di mercoledì, forse l'Occidente metterà finalmente da parte le tante scuse artificiose impiegate finora per negare ogni nesso tra violenza e islam radicale.
Questo non è stato un attacco sferrato da uno squilibrato, da un lupo solitario. Non è stata un'aggressione per mano di delinquenti qualunque. Era stata programmata per fare più morti possibile, durante una riunione di redazione, con armi automatiche e un piano di fuga. Gli assassini volevano seminare il terrore, e ci sono riusciti. Ma di cosa ci sorprendiamo? Se c'è una lezione da imparare, è che tutto ciò che noi crediamo dell'Islam non ha alcun peso. Questo tipo di violenza, la jihad, rappresenta quello in cui credono gli islamisti. II Corano è disseminato di appelli alla jihad violenta, ma non solo. In troppa parte dell'Islam, la jihad si è evoluta in un'ideologia moderna. La «bibbia» del jihadista del ventesimo secolo è «Il concetto coranico della guerra», scritto dal generale pakistano S.K. MaIik.
Nella sua analisi l'anima umana - e non il campo di battaglia fisico - rappresenta il centro dove portare il conflitto. E il modo migliore di colpire l'anima è attraverso il terrore, «il punto in cui il mezzo e il fine si ricongiungono». Ogni volta che giustifichiamo la loro violenza in nome della religione, ci pieghiamo alle loro richieste. Nell'Islam, è un grave peccato rappresentare o denigrare il profeta Maometto. I musulmani sono liberi di crederci, ma perché devono imporlo ad altri? L'Islam, con i suoi 1.400 anni di storia e un miliardo e mezzo di fedeli, dovrebbe riuscire a tollerare qualche vignetta. L'Occidente deve costringere i musulmani, specie quelli della diaspora, a rispondere a questa domanda: che cosa è più offensivo per un credente, l'uccisione, la tortura, la schiavitù, la lotta annata e gli attacchi terroristici in nome di Maometto, o la produzione di disegni, film e libri che si fanno beffe degli estremisti e della loro visione di ciò che Maometto rappresenta?
Per rispondere a Malik, la nostra anima in Occidente crede nella libertà di coscienza e parola. Sono le libertà che formano l'anima della nostra civiltà. Ed è proprio in questo che gli islamisti ci hanno attaccato. Tutto dipende da come reagiremo. Se ci convinciamo di combattere contro un manipolo di pazzi criminali, non saremo in grado di fornire risposte. Dobbiamo riconoscere che gli islamisti di oggi sono motivati da un'ideologia politica, radicata nella dottrina fondante dell'islam. Sarebbe un notevole cambiamento di rotta per l'Occidente, che troppo spesso ha reagito alla violenza jihadista con tentativi di conciliazione. Cerchiamo di blandire i capi di governo islamici che premono per costringerci a censurare stampa, università, libri di storia, programmi scolastici. Loro alzano la voce, e noi obbediamo.In cambio cosa otteniamo? I kalashnikov nel cuore di Parigi. Più ci sforziamo di attenuare, placare, conciliare, più ci autocensuriamo, più il nemico si fa audace ed esigente.
C'è una sola risposta a questo vergognoso attacco jihadista contro Charlie Hebdo: l'obbligo di media e leader occidentali, religiosi e laici, di proteggere i diritti elementari di libertà di espressione, che sia la satira o altro. L'Occidente non deve più inchinarsi, non deve più tacere. Dobbiamo inviare aì terroristi un messaggio univoco: la vostra violenza non riuscirà a distruggere la nostra anima.

(Corriere della Sera, 9 gennaio 2015 - trad. Rita Baldassarre)



Cercate l'Eterno mentre lo si può trovare,
invocatelo mentre è vicino.
Lasci l'empio la sua via
e l'uomo iniquo i suoi pensieri,
e torni all'Eterno che avrà pietà di lui,
al nostro Dio che è largo nel perdonare.
«Poiché i miei pensieri non sono i vostri pensieri
né le vostre vie sono le mie vie», dice l'Eterno.
«Come i cieli sono alti al di sopra della terra,
così le mie vie sono più alte delle vostre vie
e i miei pensieri più alti dei vostri pensieri.»

dal libro del profeta Isaia, cap. 55


*

Chiedete e vi sarà dato;
cercate e troverete;
picchiate e vi sarà aperto;
perché chiunque chiede riceve;
chi cerca trova,
e sarà aperto a chi picchia.
Qual è l'uomo fra voi,
che se il figlio gli chiede un pane
gli dia una pietra?
O se gli chiede un pesce
gli dia un serpente?

dal Vangelo di Matteo, cap 7



Dopo Charlie Hebdo, basta con due pesi e due misure!

di Claudio Pagliara

PECHINO. Quando arrivai a Gerusalemme, all'alba del 19 agosto del 2003, il volo notturno Parigi - Tel Aviv era carico di ebrei parigini in fuga. Israele era sotto attacco terroristico eppure sceglievano di tornare nella terra degli avi, in prima linea, piuttosto che assistere impotenti in Francia alla crescita del nuovo antisemitismo di stampo islamista. Dopo ciò che e' accaduto nelle ultime 50 ore - l'11 settembre dell'Europa - come dar torto a quei miei compagni di viaggio che stavano facendo alyia?
La sera stessa del mio arrivo, a Gerusalemme un terrorista di Hamas si travesti' da ebreo ortodosso, al Muro del Pianto sali' sull'autobus numero 2 e dopo poche fermate si fece saltare in aria, ammazzando 25 persone, la meta' bambini. Attentati del genere , in quei primi anni Duemila, erano realtà quotidiana in Israele. Eppure, buona parte della stampa Occidentale - quella francese in testa - era schierata contro il falco Ariel Sharon che aveva lanciato "Defensive Shield" per sradicare l'infrastruttura del terrorismo palestinese nei Territori.
In queste ore, le democrazie occidentali si sono schierate compatte con la Francia nella sua "caccia all'uomo" che ha preso le sembianze di una vera e propria guerra, con 80 mila poliziotti e soldati mobilitati. Perché Israele non può contare sulla stessa granitica solidarietà quando, oggi come ieri, e' colpita al cuore da un terrorismo che ha la stessa identica matrice di quello che ha aperto il fuoco contro la redazionedi Charlie Hebdo?
Nei confronti del terrorismo islamista ci sono sempre stati due pesi e due misure. A denunciarlo, per quanto strano possa apparire, e' oggi la Cina, anch'essa sotto attacco terroristico. Il quotidiano semi ufficiale Global Times critica la stampa occidentale per la sua ritrosia nel definire terroristici gli attentati compiuti dagli estremisti musulmani nello Xinjiang, che negli ultimi tempi hanno fatto decine di vittime.
E' ora di dire basta. E' giusto ricordare alla Cina che il sistema giuridico opaco non garantisce il rispetto dei diritti civili degli imputati. E' giusto spingere israeliani e palestinesi ad un accordo di pace. Ma il mondo civile deve fare fronte comune per distruggere i nuovi barbari del XXI secolo.

(ITACA, blog di Claudio Pagliara, 9 gennaio 2015)


L'esodo degli ebrei: la grande fuga da Parigi verso Israele e gli Stati Uniti

di Glauco Maggi

L'attacco di oggi venerdi' 9 gennaio al supermercato di Parigi che vende cibo kosher, e quindi frequentato solo dagli ebrei, e' solo l'ultimo, sanguinoso, atto di antisemitismo violento che ha colpito la Francia. Protagonisti dell'azione terroristica iniziata con l'eccidio dei giornalisti di Charlie Hebdo mercoledi' sono militanti islamici legati ad Al Qaeda o all'ISIS, ma non sono corpi estranei alla societa' francese: sono nati a Parigi da immigrati algerini, e sono parte del 10% di musulmani che fanno parte della popolazione francese, di cui la meta' e' costituita da convertiti. L'antisemitismo, peraltro, non e' solo radicato tra gli islamici, diffuso com'e', da sempre, in una opinione pubblica ideologizzata di sinistra che simpatizza per la causa palestinese ed e' anti israeliana e antiamericana. Essendo di gran lunga piu' numerosi degli ebrei, i partiti di governo, finora, non hanno mai voluto ammettere la profondita' e la pericolosita' della crisi che minaccia la sicurezza della piccola comunita' ebraica di 500 mila persone. Dall'anno scorso, la reazione dei "nuovi ebrei perseguitati" dai nazi-islamisti e dagli antisemiti "normali" e' stata quella di mettersi in salvo all'estero. L'episodio odierno e' destinato ad accelerare questo esodo, gia' abbondantemente registrato dalle statistiche degli arrivi di nuova immigrazione ebraica in Israele e negli Stati Uniti, le destinazioni preferite.
   Il ministero per l'Assorbimento degli Immigrati si aspetta che sorgeranno ben presto quartieri "Little Paris" a Gerusalemme, a Tel Aviv e a Netanya, visto che le previsioni del ministro Sofa Landver sono di un arrivo di almeno 10mila nuovi esuli nel 2015, dopo che i francesi ebrei sono gia' diventati la prima nazionalita' di immigrati nel corso del 2014 con 7000 trasferimenti, il doppio di quelli che erano arrivati nel 2013. In tre anni, sara' quindi raggiunta la cifra di 20mila franco-israeliani, pari al 4% della popolazione. A rafforzare la previsione sull'esodo in corso e' un sondaggio condotto dalla Siona, organizzazione di ebrei francesi sefarditi che ha sede a Parigi: il 74% egli interpellati sta pensando seriamente di lasciare la Francia.
   Gli attacchi contro gli ebrei sono cresciuti a partire dagli inizi del 2000, culminando con l'assassinio nel 2003 di un popolare DJ francese ebreo ad opera di una organizzazione di giovani islamici. Da allora, c'e' stato l'assassinio nel 2012 di un rabbino e di tre bambini per mano di un estremista musulmano seguito da una serie di attacchi di arabi ad ebrei nelle metropolitane. Durante cortei pro Palestina di militanti musulmani e di gruppi di sinistra sono stati attaccati negozi posseduti da ebrei, con slogan tipo "gassate i giudei" e "uccidete gli ebrei".
   "Quando gli ebrei cominciano a scappare in massa da un paese, e' la prova che l'antisemitismo ha superato il livello di guardia, che e' ormai troppo tardi". Lo avevo scritto in un articolo sul mio BLOG lo scorso settembre, riportando l'esodo verso l'America, in sordina, raccontato da avvocati di New York che curano gli interessi di facoltose famiglie ebree e le assistono nel viaggio senza ritorno verso Manhattan. "E quando gli ebrei ricchi, di classe sociale e di ricchezza piu' elevate, cominciano ad emigrare in pochi, in silenzio, mettendo in salvo i capitali e se stessi, questa e' la spia di un antisemitismo ancora nella sua fase 'infantile', in incubazione ma in crescita verso livelli d'allarme: i primi a capirlo sono gli ebrei piu' avveduti, e che hanno piu' da perdere. E' questo lo stadio in cui si trova oggi la Francia, a giudicare dal forte incremento di attivita' degli studi legali americani specializzati in immigrazione e trasferimenti di capitali. Una prima testimonianza del fenomeno in corso e' stata fornita dall'avvocato Marlen Kruzhkov in una intervista a Polly Mosendz, che l'ha pubblicata sul New York Observer. Finora, nel 2014, solo tra i suoi clienti ci sono gia' state diverse dozzine di famiglie facoltose "in fuga", un balzo corposissimo rispetto al pugno di "traslochi" dell'anno scorso. Le famiglie, di solito con figli, per le quali ha operato finora il legale hanno una media di ricchezza tra i 50 e i 70 milioni di dollari. In totale, gli spostamenti di capitali ammontano ad un valore di 1,44 miliardi di dollari, in investimenti per lo piu' immobiliari. La prima e fondamentale motivazione addotta dagli emigranti di lusso, nelle interviste preparatorie con l'avvocato newyorkese, non sono le tasse francesi", avevo riportato allora. Purtroppo, un presagio che si e' avverato in fretta. Ora gli ebrei francesi, in massa, si sentono piu' sicuri a Gerusalemme che in Francia.

(Libero, 9 gennaio 2015)


Spizzichino, scampato ad Auschwitz, diventato il primo sindaco di Latera del dopoguerra

VITERBO - La sua storia è stata ricostruita in un libro, ''I giusti di Latera'', di Romualdo Luzi e Moreno Miletti, pubblicato nel 2009, il Giorno della Memoria. E' stato grazie a quel volume che la Tuscia è venuta a conoscenza delle peripezie vissute da Samuele Spizzichino, un ebreo scampato miracolosamente con la sua famiglia alla deportazione, nominato dal Comitato nazionale di liberazione e dagli Alleati primo sindaco di Latera (Viterbo) del dopoguerra.
Spizzichino, negoziante, la moglie, due figli e la suocera, furono salvati dal campo di sterminio grazie alla solidarietà di molti abitanti del paese, tra i quali il podestà Antonio Adamini. Fatti arrivare a Roma, furono ospitati da altre famiglie di Latera che vivevano nella Capitale. I due figli, invece, furono nascosti nell'istituto ''Angelo Mai'' da un sacerdote di Latera, don Nicasio Freddiani.
Altri 7 membri della famiglia Spizzichino (i genitori, due sorelle, un cognato e due nipoti) che vivevano a Firenze furono invece deportati ad Auschwitz, dove furono trucidati.
Il 14 giugno 1944, dopo la liberazione di Latera, Spizzichino fu nominato sindaco provvisorio. Restò in carica fino all'estate 1945. E' stato l'unico ebreo ad aver ricoperto un incarico pubblico nel Viterbese.

(Viterbo News24, 10 gennaio 2015)


Netanyahu: chiamata alle armi contro l'islamismo radicale

Il premier israeliano si rivolge a tutti quei Paesi che devono fare i conti con gli assalti dei gruppi radicali "non bisogna cedere alla paura".

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha sollecitato la Francia e tutti quei Paesi che devono far fronte ad assalti come quello alla redazione di Charlie Hebdo, a collaborare e unirsi in una "vasta offensiva" contro il fondamentalismo radicale che sta ferocemente conquistando spazio e potere.
Rivolgendosi a Patrick Maisonnave, ambasciatore francese in Israele al quale il premier ha trasmesso di persona le condoglianze del popolo israeliano, ha affermato: "Questi terroristi uccidono giornalisti a Parigi, decapitano operatori umanitari in Siria, sequestrano studenti in Nigeria, fanno saltare in aria chiese in Iraq, massacrano turisti a Bali, lanciano razzi contro civili da Gaza e aspirano a fabbricare armi nucleari in Iran".
Il premier israeliano ha aggiunto che queste stragi anche se rivendicati da gruppi estremisti di "nomi diversi come Stato Islamico e al Qaida, o ancora Hamas e Hezbollah, sono tutti spinti dallo stesso odio e fanatismo assetato di sangue". Nel congedare l'ambasciatore della Francia Netanyahu ha voluto ricordare l'importanza di comune progetto: "Il mio messaggio - a Parigi, a Gerusalemme, ovunque - è che la prima regola nella lotta al terrorismo è rifiutarsi di cedere alla paura, Netanyahu, un'offensiva internazionale per combattere l'islamismo radicale. Dobbiamo restare unite per respingere questa ondata di paura".

(In Terris, 9 gennaio 2015)


Israele e il crimine di autodifesa

La Corte dell'Aia ammette i palestinesi, contro le regole e la logica.

Nello stesso giorno che sarà ricordato per il massacro islamista di Parigi, il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, ha annunciato l'accettazione della domanda di adesione della Palestina alla Corte penale internazionale dell'Aia. Da aprile, il tribunale che si occupa di crimini di guerra e contro l'umanità potrà vagliare le denunce palestinesi contro Israele, anche in relazione alle operazioni militari per punire i responsabili dell'assassinio dei tre adolescenti israeliani rapiti nello scorso giugno in Cisgiordania. La richiesta di adesione alla Corte dell'Aia era arrivata il 31 dicembre dal presidente dell'Anp, Abu Mazen, dopo la bocciatura in Consiglio di sicurezza della risoluzione che avrebbe aperto la strada al riconoscimento di uno stato palestinese. Al fatto che l'Onu accetti più volentieri di mettere sul banco degli accusati Israele invece dei terroristi di Hamas (che governano con l'Anp) siamo abituati.
   Stupisce invece la persistente cecità delle grandi istituzioni internazionali di fronte al fatto che nella sicurezza di Israele è fondata anche la speranza di vittoria nella guerra contro gli islamisti, non solo in medio oriente. Ora gli Stati Uniti dicono che i palestinesi non hanno titolo per aderire alla Corte dell'Aia, dato che non rappresentano uno stato sovrano, ma solo pochi giorni fa avevano condannato la più che comprensibile decisione israeliana di congelare i 125 milioni di dollari di dazi versati annualmente all'Anp dopo aver saputo della sua richiesta di adesione alla Corte penale. L'intento palestinese è trasformare ogni atto di autodifesa di Israele in violazione della Convenzione di Ginevra. Stavolta, grazie all'Onu, forse ci riuscirà.

(Il Foglio, 9 gennaio 2015)


F-35: Israele lo consacra difensore del XXI� secolo

"Ha-Adir" (Il Grande), sarà il nome di battaglia dell'F-35 di Israele

di Franco Iacch

 
F-35
L'aeronautica militare di Israele celebra l'acquisto dei nuovi F-35. Con il caccia di quinta generazione - scrivono dall'IAF - incrementeremo la potenza della nostra aeronautica e saremo in grado di difendere Israele da qualsiasi minaccia futura. Il primo squadrone composto da 19 F-35 sarà operativo nell'Isralian Air Force ad inizio 2019, mentre è stata già confermata la volontà di acquistare un secondo lotto per la creazione di un secondo squadrone. L'F-35 è tecnologicamente più avanzato rispetto all' F-16I (la 'I' sta per Israele) ed è considerato uno dei più potenti caccia in produzione. Il velivolo della Lockheed Martin, diventerà il primo aereo stealth in forza all'IAF.
Il primo lotto di F-35 è stato acquistato nel 2010. I velivoli saranno consegnati per l'addestramento a partire dalla fine del 2015. Così come avviene per ogni aereo che entra in linea con l'aviazione israeliana (prassi comune anche negli Usa, in Russia, in Cina, in Giappone, in Svezia, in Germani, ma purtroppo non Italia), anche l'F-35 sarà ribattezzato. "Ha-Adir" (Il Grande), sarà il nome di battaglia dell'F-35 di Israele. L'F-35 - continuano dall'IAF - è per certi versi una versione moderna dell'F-16. E' stato costruito come un piccolo aereo monomotore. "Ha-Adir" è estremamente efficace per la sua versatilità in quanto può svolgere qualsiasi tipo di missione: supporto aereo ravvicinato e dogfight in primis oltre alla capacità di ingaggiare il nemico oltre il raggio visivo.

- Ma perchè Israele ha puntato sull'F-35?
  Per due motivi principali: la tecnologia stealth e l'avionica. La tecnologia stealth consente al velivolo di volare praticamente inosservato. Per molti anni, la tecnologia stealth è stata ritenuta troppo costosa per essere implementata sui piccoli aerei, motivo per cui fu utilizzata solo sui bombardieri più grandi e costosi come il B-2, il B-1 e l' F-117. Il recente sviluppo dell'F-35 consente l'incorporazione delle caratteristiche stealth ad un prezzo contenuto. L'F-35, infine, è stato progettato per essere equipaggiato i con migliori sistemi elettronici di bordo al mondo. Essi saranno parte integrante del velivolo e non come dotazione supplementare così come avviene per altri caccia.

- Gli F-35 acquistati
  Il Comitato Ministeriale per gli Appalti Pubblici della Difesa di Israele, lo scorso primo dicembre ha approvato l'acquisto di 14 nuovi F-35 rispetto ai 31 previsti dall'Air Force. Non si tratterebbe di un ripensamento, ma di una proroga rimandata al 2017. Dopo ulteriori consultazioni ed un voto supplementare della Commissione, si valuterà l'acquisto degli altri 17 caccia.
I 31 F-35 si aggiungono ai 19 già acquistati per formare due squadriglie stealth composte da 25 caccia. I primi 19 F-35 sono costati complessivamente, anche grazie ad aiuti militari ottenuti da Israele, 2,75 miliardi di dollari.
I primi due caccia saranno consegnati alla fine del 2015. L'IAF prenderà in consegna gli aerei del primo lotto composto da 19 velivoli tra il 2016 e il 2018. La base aerea di Nevatim, nel Negev, sarà la casa degli F-35.

- La "I" sul nostro caccia sta per Israele
  Dieci anni fa, l'aviazione israeliana ha introdotto la lettera "I" sul famoso F-16 Falcon, divenuto l'F-16I. Conosciuto anche come 'Sufa' (tempesta in ebraico), il velivolo è stato costruito negli Stati Uniti, ma pesantemente modificato con sistemi avanzati progettati e costruiti in Israele.
Ma cosa c'è di così speciale nell' F-16 israeliano? In effetti, esistono migliaia di F-16 in quasi ogni forza aerea occidentale. L'F-16I 'Sufa' tuttavia, è molto diverso. Intanto la 'I' sta per Israele. Il caccia è stato pesantemente modificato per adattarsi alle specifiche esigenze dell'Israel Air Force. L'F-16I è equipaggiato con sistema di armi all'avanguardia, un radar appositamente costruito e una tecnologia implementata nel casco che consente al pilota di inquadrare il nemico con "il semplice sguardo".

- Queste le caratteristiche del 'Sufa'
  Conformal Fuel Tanks (CFT) - Questi serbatoi sono realizzati dalle "Israel Aircraft Industries" e aumentano la capacità del carburante interno del velivolo del 50 %.
AGP-68(V)X Radar - Il radar ad apertura sintetica (SAR), permette il tracciamento di bersagli terrestri con qualsiasi condizione meteo. Il radar consente il targeting automatico, risparmiando così tempo prezioso.
Helmet Mounted Cueing System - Sul casco dei piloti e dei navigatori sono proiettate varie informazioni come altezza, velocità ed equipaggiamento. Il casco è collegato al sistema di mira e consente al pilota di inquadrare e lanciare un missile su un bersaglio nemico usando solo la vista.
Dorsal spine Avionics Compartment - Parte dei sistemi avanzati sono stati installati secondo le specifiche della IAF. L'F-16I è dotato di sistemi di guerra elettronica avanzati sviluppati in Israele.
Comunicazione satellitare - L'F-16I incorpora due nuovi dispositivi di comunicazione prodotti da Elta e Rafael, tra cui una radio UHF con nuovi metodi di codifica e capacità di relè a lunga distanza.
La pubblicazione dell'IDF, al di là delle note informazioni sul caccia, andrebbe letta in un'altra chiave. L'approfondimento infatti, è un inno patriottico tipico di Israele. Chiamare un caccia con la prima lettera del proprio paese, lo eleva a difensore assoluto della nazione.

(teleradiosciacca.it, 9 gennaio 2015)


La notte dei taglialingue

Storie di giornalisti e vignettisti scomparsi per non fare la fine di Charlie Hebdo. Le "regole Rushdie" sono oggi in uso nella comunità degli scrittori. Ha vinto la paura.

di Giulio Meotti

 
Amol Rajan, direttore di The Independent, non ripubblicherà le vignette di Charlie Hebdo
Sono noti come "gli invisibili". Erano apparsi in una hit list del terrorismo islamico al fianco del direttore di Charlie Hebdo, Stéphane Charbonnier. Sono i vignettisti, i giornalisti e gli intellettuali coinvolti nella pubblicazione delle vignette. Oggi gran parte di loro sono diventati dei fantasmi, degli irreperibili, vivono alla macchia, nascosti in qualche casa di campagna, oppure si sono ritirati a vita privata, per depotenziare la fatwa che li ha marchiati a vita, vittime di una comprensibile autocensura. Ieri il direttore dell'Independent, Amol Rajan, ha avuto il coraggio di confessare che ha deciso di non ripubblicare le vignette. "Troppo rischioso", ha scritto il giornalista che dirige una delle glorie delle chattering classes liberal anglosassoni.
   Una reazione comune a molti altri giornali inglesi nel giorno in cui l'editore norvegese di Salman Rushdie, William Nygaard, che nel 1989 si beccò tre colpi di arma da fuoco vicino a casa a Oslo quando uscirono "I versetti satanici", ha definito la strage di mercoledì "l'11 settembre della libertà di parola". E nonostante l'affetto che oggi stringe Charlie Hebdo, la libertà d'espressione sembra traballare, appare sempre più fragile.
   Quando tre anni fa Charlie Hebdo era stata colpita dalle molotov, la rivista Causeur scrisse che in Europa tirava una strana aria di "autodafé". E' la terribile parola che, nel linguaggio dell'Inquisizione medievale,
il direttore del giornale danese Jyllands-Posten, Carsten Juste, ha compiuto l'autodafé: "Esprimiamo le nostre scuse e il nostro dispiacere per ciò che è successo, tutto ciò è lontano dalla nostra linea editoriale. Non avevamo intenzione di offendere o di insultare alcuna religione".
indicava l'atto d'abiura pronunciato dall'eretico. Uno dei dieci "most wanted" nel mirino del terrore, il direttore del giornale danese Jyllands-Posten, Carsten Juste, ha compiuto l'autodafé: "Esprimiamo le nostre scuse e il nostro dispiacere per ciò che è successo, tutto ciò è lontano dalla nostra linea editoriale. Non avevamo intenzione di offendere o di insultare alcuna religione". Da allora, Juste si è ritirato dal dibattito sulla libertà di parola.
l timore di rappresaglie si è mangiato il lavoro del caposervizio cultura del Jyllands, Flemming Rose. Nei giorni scorsi in America è uscito il suo saggio "La tirannia del silenzio". Lo ha pubblicato la minuscola casa editrice di un think tank, il Cato Institute. Perché come ha spiegato Rose al Washington Post, "le altre case editrici hanno esitato per paura". Oggi alla sede del Jyllands-Posten si entra dopo aver passato una barriera di filo spinato alta due metri e lunga un chilometro. Sembra di accedere a una ambasciata americana in medio oriente. Il quotidiano conservatore danese si trova sulla collina Ravnsbjerg di Viby, nei pressi di Aarhus. C'è anche una porta a doppia chiusura, come nelle banche, mentre i dipendenti possono entrare solo uno alla volta digitando un codice personale (misura che non ha protetto i redattori di Charlie Hebdo, dove una giornalista è stata costretta dai terroristi a farli entrare).
   Il professore di Filosofia, editorialista del Figaro e redattore della rivista sartriana Temps Modernes, Robert Redeker, minacciato di morte per un articolo polemico sull'islam, dopo otto anni è ancora uccel di bosco e su di lui grava un linciaggio in contumacia. Redeker vive ancora sotto la protezione della polizia. Conferenze e corsi annullati, la casa messa in vendita, il funerale del padre celebrato nell'anonimato e il matrimonio della figlia organizzato dalla polizia. Come ha raccontato Redeker al giornale Dépêche, "quando sono andato a Vienna per una conferenza sull'aereo ero accompagnato dalla polizia francese, che si è poi coordinata con quella austriaca, per garantire la mia protezione in ogni istante". E anche quando va a Parigi, come ha appena raccontato il suo editore Pierre-Guillaume de Roux a Libération, "dietro Redeker c'era una macchina senza targa che lo seguiva ovunque". Erano i servizi di sicurezza francesi. In Francia Redeker non è una cause célèbre (c'è stata più mobilitazione per il cantante uxoricida Bertrand Cantat e il terrorista pluriomicida Cesare Battisti). Stessa condizione per il direttore della International Free Press Society di Copenaghen, Lars Hedegaard, rimasto miracolosamente illeso dopo aver subìto due anni fa un agguato da parte di un uomo che lo ha avvicinato vestito da postino e gli ha sparato mirando
"Chi avrà il coraggio adesso di pubblicare?", si chiedeva ieri Vilks sulla stampa svedese. Kamikaze sono stati lanciati a Stoccolma contro il suo nome. Gli hanno incendiato la casa. Lo hanno quasi linciato a una conferenza. In Inghilterra l'artista Grayson Perry è uscito dalla persecuzione smettendo di occuparsi di islam.
alla testa, ma mancando il bersaglio. Doveva essere una esecuzione in piena regola di fronte alla casa dell'intellettuale in un quartiere borghese a ovest di Copenaghen. Ieri, dopo la strage al Charlie Hebdo, i servizi di sicurezza svedesi hanno potenziato le misure di protezione per il vignettista Lars Vilks. "Chi avrà il coraggio adesso di pubblicare?", si chiedeva ieri Vilks sulla stampa svedese. Kamikaze sono stati lanciati a Stoccolma contro il suo nome. Gli hanno incendiato la casa. Lo hanno quasi linciato a una conferenza. In Inghilterra l'artista Grayson Perry è uscito dalla persecuzione smettendo di occuparsi di islam. Ha confessato di essersi autocensurato per paura di fare la fine di Theo van Gogh, il regista olandese assassinato nell'autunno 2004 per aver girato un film-denuncia sulla condizione della donna nell'islam. "La ragione per cui non ho più attaccato l'islamismo nelle mie opere è che nutro una paura reale di finire con la gola tagliata", ha detto Perry. Così Tim Marlow, direttore della White Cube, una delle più note gallerie d'arte della capitale britannica, ha accolto positivamente l'ammissione di Perry: "E' qualcosa che pochi altri avrebbero ammesso. Le istituzioni, i musei e le gallerie sono protagoniste della censura". Sul quotidiano Seattle Weekly quattro anni fa è comparso un articolo che cominciava così: "Come avrete notato questa settimana sul giornale non c'è la vignetta di Molly Norris. Questo perché Molly non c'è più". E' il caso della vignettista americana che ha dovuto cambiare nome, città e vivere sotto protezione perché è nel mirino dei qaidisti. E' scomparso l'avvocato copto americano Morris Sadek, che ha realizzato il film "The innocence of Muslims" al centro dell'attentato di Bengasi al consolato americano, costato la vita all'ambasciatore Chris Stevens.
   Numerose istituzioni culturali hanno scelto l'autocensura. Il Metropolitan Museum of Art di New York ha rifiutato, per timore di attentati, di esporre le vignette danesi e le edizioni della Yale University Press hanno pubblicato il libro "The Cartoons That Shook the World", dedicato alla storia delle caricature, senza riprodurre le vignette. E "The Jewel of Medina", il romanzo dell'americana Sherry Jones sulla vita della terza moglie di Maometto, è stato censurato e rifiutato dalla casa editrice Random House dopo averlo acquistato e aver già lanciato un'ambiziosa campagna promozionale. La prima è stata la celebre Tate Gallery di Londra, che ha ritirato dalle proprie esposizioni l'opera "God is great" di John Latham. Il critico d'arte Richard Cork accusò l'establishment culturale britannico di aver svenduto la libertà d'espressione: "Quando si inizia a pensare così, il cielo è il solo limite". E infatti. In Olanda l'opera "Aisha" è stata cancellata perché ritrae una delle mogli di Maometto e a Berlino la Deutsche Oper ha cancellato dalla stagione lirica invernale l'"Idomeneo" di Mozart, perché c'è la testa mozzata di Maometto.
   Ma era già successo all'epoca del caso Salman Rushdie. La casa editrice francese Christian Bourgois si rifiutò di pubblicare "I versetti satanici" e lo stesso fece l'editore tedesco Kiepenheuer. Minacce arrivarono ai collaboratori della casa editrice. L'allora più grande catena americana di libreria, Waldenbooks, ritirò dal
Il primo paese dell'Europa ad aver messo in vendita Rushdie fu proprio l'Italia, con il volume pubblicato da Mondadori. Ma quattro anni dopo già risuonava l'accusa di Inge Feltrinelli: "Non c'è stato un solo gruppo di intellettuali e artisti che si sia schierato in difesa di Rushdie. E di questo mi vergogno profondamente".
commercio il volume. C'era persino il timore di esporlo in vetrina. E in questo clima il primo paese dell'Europa continentale ad aver messo in vendita Rushdie fu proprio l'Italia, con il volume pubblicato da Mondadori. Ma quattro anni dopo già risuonava l'accusa di Inge Feltrinelli: "Non c'è stato un solo gruppo di intellettuali e artisti che si sia schierato in difesa di Rushdie. E di questo mi vergogno profondamente". Molti invece furono, come scrisse Alberto Arbasino su Repubblica, "i propagandisti accaniti di regimi che se avessero prevalso avrebbero riempito gulag e lager e tombe come già negli anni Trenta e Quaranta".
   Il vignettista danese Kurt Westergaard, autore della caricatura di Maometto con la bomba nel turbante, effigie bruciata in tutte le piazze del mondo arabo, è andato in pensione e oggi vive in una casa-fortezza, con telecamere di sicurezza e finestre blindate e macchine di guardia all'esterno, protetto nella sua malinconia. Quando venne ucciso Theo van Gogh, Christopher Hitchens ebbe a chiamarla "la Notte dei cristalli della libertà". "Un piccolo paese democratico con una società aperta, un sistema di pluralismo confessionale e una stampa libera è diventato oggetto di una straordinaria, incredibile campagna organizzata di menzogne, odio e violenza", scrisse il celebre polemista newyorchese. Una campagna che ha funzionato a dovere. Perché come ha detto alcune settimane fa al New York Times il regista e amico di Van Gogh, Theodor Holman, "la tolleranza si è trasformata in codardia".
   Lo scorso novembre il sindaco di Amsterdam, Eberhard van der Laan, ha detto che a dieci anni dall'omicidio "la città è più armoniosa e pacifica". Nel senso che nessuno osa più parlare di islam come faceva Van Gogh. La collaboratrice del film "Submission", Ayaan Hirsi Ali, è riparata negli Stati Uniti, dove le viene impedito di tenere conferenze negli atenei più liberal d'America (su tutti, il caso della Brandeis University). E del seguito del film di Van Gogh "Submission" (che dà il titolo anche al romanzo di Michel Houellebecq) non se ne è mai fatto niente. Intanto, all'Aia, si prepara adesso un nuovo processo per "islamofobia" a Geert Wilders, l'altro nome che era inciso sul petto del regista olandese.
   Le "regole Rushdie" si sono dunque imposte nella comunità degli scrittori e dei giornalisti. Gli irregolari di Charlie Hebdo erano l'unica eccezione rimasta. Il caso, per ora, è chiuso. Ieri gli occhi di Salman Rushdie, sempre sonnacchiosi dietro i pesanti occhiali, non lasciavano intravedere la sua solita furbizia mondana, ma tanta tristezza. Ci si poteva leggere dentro la ritirata dell'occidente. La vittoria dei taglialingue.

(Il Foglio, 9 gennaio 2015)


Il Corano insegna a uccidere. Nei versetti istruzioni ai killer

Nessun musulmano può contravvenire al divieto di raffigurare il Profeta, neppure i sedicenti «moderati». Chi infrange la regola è condannato a morte dal libro sacro.

di Magdi Cristiano Allam

 
Magdi Cristiano Allam
Se un domani anche in Italia dovesse verificarsi un attentato atroce come quello che il 7 gennaio ha insanguinato la redazione di Charlie Hebdo, non dovremo sorprenderci. Perché anche da noi ci sono le condizioni che lo consentono: il convincimento di tutti i musulmani, moderati ed estremisti, che la raffigurazione di Maometto, ancor di più se in chiave satirica, sia inammissibile e da sanzionare; l'impegno ad accreditare l'islamofobia, ovvero il divieto di criticare l'islam, inteso come reato alla stregua del razzismo nei confronti di una comunità etnico-confessionale; il sostegno da parte di fasce della popolazione, prevalentemente nell'ambito cattolico e della sinistra, alla legittimazione dell'islam, alla proliferazione delle moschee e l'attribuzione ai musulmani di uno statuto giuridico che riecheggia la sharia, come a esempio il riconoscere gli effetti civili della poligamia; la presenza di terroristi islamici reduci dai campi delle loro guerre sante in Siria e Irak che potrebbero scatenarsi in qualsiasi momento.
   Nessuno dei sedicenti musulmani moderati, pur condannando la strage di Charlie Hebdo, ha difeso il diritto della libertà d'espressione o per esempio twittato #jesuischarlie. Perché nessun musulmano potrebbe contraddire sia il divieto assoluto di rappresentare Maometto sia il reato di blasfemia che, secondo la sharia, sono entrambi sanzionabili con la condanna a morte. L'aniconismo, il culto privo di immagini, si rifà a un detto attribuito a Maometto secondo cui «a un individuo che ritrae un essere vivente verrà chiesto di infondergli la vita» e costui «verrà torturato fino al Giorno del giudizio». Secondo Maometto essendo solo Allah il Creatore della vita, l'individuo che ritrae un essere vivente tenterebbe di sfidare e di competere con Allah. Questo divieto viene suffragato da cinque versetti coranici (Sura LIX, L'esodo, 24; Sura III, La famiglia di Imran, 6; Sura VII, Il Limbo, 11; Sura XL, Il Perdonatore, 64; Sura V, La tavola imbandita, 90). Ebbene, se è solo l'islam integralista a prescrivere il rifiuto di tutte le immagini di esseri viventi perché potrebbero essere idolatrate (ed è ciò che ha portato i terroristi islamici ad abbattere i Buddha in Afghanistan o le statue cristiane), tutte e quattro le scuole giuridiche dell'islam sunnita (hanafita, sciafiita, malikita e hanbalita) concordano sul divieto di rappresentare Allah, Maometto e i profeti citati nel Corano.
    Così come tutti i musulmani riconoscono che, sulla base della sharia, la legge islamica, tutti coloro che commettono blasfemia criticando Allah, il Corano o Maometto devono essere condannati a morte. La legge sulla blasfemia è ufficiale in Pakistan ma è di fatto vigente in tutti i Paesi musulmani, dove le pene possono essere diverse, fermo restando la condanna del reato.
    La strage di Charlie Hebdo non si sarebbe verificata se non fossero stati i musulmani «moderati» della Grande Moschea di Parigi e dell'Uoif (Unione delle organizzazioni islamiche in Francia) ad accusare il settimanale satirico di blasfemia e a trascinarlo in tribunale nel 2007, sollevando un clima d'odio condiviso dalla miriade di associazioni autoctone per i diritti degli immigrati e dei musulmani e taluni ambienti cristiani e cattolici, su cui si è successivamente innestato il terrorismo delle bombe e dei kalashnikov al grido di «Allah è grande, vendicheremo il profeta». Ecco perché la strage di Charlie Hebdo è un simbolo della contiguità e della consequenzialità del pensiero e delle azioni dei moderati e dei terroristi islamici.
    Un attentato atroce simile potrebbe verificarsi in Italia anche perché il nostro Paese condivide con la Francia e altri Paesi europei la presenza di terroristi islamici nostrani, con cittadinanza italiana o residenti fissi, reduci dai campi di battaglia in Siria e Irak. Il 7 gennaio verrà ricordato come l'evento che ha segnato l'affermazione del terrorismo islamico autoctono ed endogeno in Europa, perpetrato da terroristi islamici europei, sferrato sul suolo europeo, le cui vittime sono europee. Sono i frutti avvelenati del relativismo religioso, del multiculturalismo, dell'islamofilia e della globalizzazione monca. Ma l'abbiamo capito che stiamo subendo una guerra scatenata nel nome dell'islam in cui tutti i musulmani condividono l'obiettivo di islamizzarci, divergendo soltanto sui mezzi per perseguire lo stesso fine? Siamo consapevoli che in questa guerra o combattiamo per salvaguardare la nostra civiltà laica e liberale dalle radici cristiane o saremo sottomessi all'islam?
   
(il Giornale, 9 gennaio 2015)


Fulmini durante la tempesta di neve a Gerusalemme

La città di Gerusalemme è stata colpita da un'inusuale nevicata e durante la tempesta diversi fulmini hanno interessato la città

Palestinesi e israeliani uniti contro la neve
Nei giorni scorsi la città di Gerusalemme è stata interessata da un'intensa tempesta di neve, parte dell'ondata di maltempo che ha interessato il Medio Oriente con venti forti che hanno toccato i 110 km/h e onde alte fino a cinque metri, tanto da obbligare alla chiusura dei porti libanesi.
A Gerusalemme invece è arrivata la neve, una tempesta considerata la peggiore degli ultimi vent anni; la città Santa si è così risvegliata completamente imbiancata; ma oltre alla copiosa nevicata, su Gerusalemme si sono abbattute anche una ricca serie di fulminazioni, particolarmente insolite durante una tempesta di neve, con alcuni fulmini che sono caduti a terra, senza causare danni o feriti ma creando un effetto decisamente inconsueto e spettacolare, testimoniato in una serie di video amatoriali realizzati dai cittadini.

(Centro Meteo Italiano.it, 9 gennaio 2015)


Che dire dei crimini di guerra arabi contro i palestinesi?

di Khaled Abu Toameh (*)

Secondo un rapporto pubblicato questa settimana in Siria dal Working Group for Palestinians, dall'inizio del conflitto in Siria, scoppiato tre anni fa, sono stati uccisi oltre 2500 palestinesi. Ma questa è una notizia che non ha destato l'attenzione dei principali media occidentali. Anche i media arabi hanno quasi del tutto ignorato il rapporto sulle vittime palestinesi in Siria.
   La ragione di questa apatia è ovviamente chiara. In Siria, i palestinesi sono stati uccisi dagli arabi e non
In Siria, i palestinesi sono stati uccisi dagli arabi e non a causa del conflitto con Israele. I giornalisti che si occupano di Medio Oriente non credono che questa sia una notizia importante perché Israele non ha avuto alcun ruolo nelle uccisioni.
a causa del conflitto con Israele. I giornalisti che si occupano di Medio Oriente non credono che questa sia una notizia importante perché Israele non ha avuto alcun ruolo nelle uccisioni. Gli arabi che massacrano, giustiziano e torturano i palestinesi non è una notizia abbastanza sensazionale da meritare un titolo in un importante quotidiano occidentale o arabo. Ed è per questo che la maggior parte dei giornalisti di Medio Oriente hanno preferito ignorare il rapporto. Secondo il documento, tra le vittime ci sono 157 donne che sono state uccise in scontri tra l'esercito di Bashar Assad e i vari gruppi di opposizione in Siria. Si legge inoltre che 268 palestinesi sono caduti sotto i colpi dei cecchini, e altri 84 sono stati giustiziati sommariamente.
   E ancora, 984 palestinesi hanno perso la vita quando le loro abitazioni e i quartieri in cui vivevano sono stati bombardati dall'esercito siriano e dai gruppi di opposizione. Si apprende inoltre nel rapporto che il campo profughi palestinese di Yarmouk, nei pressi di Damasco, è stato messo sotto assedio per 567 giorni da parte dell'esercito siriano. Circa 160 residenti del campo sono morti a causa di questo assedio. Il campo è rimasto senza elettricità per oltre 620 giorni e senza acqua per 117 giorni.
   Morti a parte, sono circa 80.000 i palestinesi che hanno abbandonato le loro case in Siria a causa del conflitto in corso. Quasi 15.000 hanno attraversato il confine con la Giordania, mentre altri 42.000 sono fuggiti in Libano. E come se non bastasse, la settimana scorsa i terroristi musulmani hanno giustiziato 6 palestinesi del campo profughi di Yarmouk dopo averli accusati di "blasfemia". Un alto funzionario dell'Olp in Siria, Anwar Abdel Hadi, ha detto che i palestinesi sono stati uccisi dal gruppo terroristico An-Nusra, affiliato ad al-Qaeda.
   Abdel Hadi ha detto che sono solo 15.000 i palestinesi che sono rimasti nel campo profughi, che fino a tre anni fa ospitava circa 175.000 persone. Un altro rapporto pubblicato di recente ha rivelato che 264 palestinesi sono morti a causa delle torture inflitte nelle prigioni siriane negli ultimi anni. Il mese scorso altri 3 palestinesi sono morti per le torture subite nelle carceri siriane. I tre erano Bila al-Zari, Mohamed
Le storie di palestinesi torturati a morte in una prigione araba non sono riuscite a catturare l'attenzione dei media occidentali. Se uno di loro fosse morto in una prigione israeliana o in uno scontro con i soldati dello Stato ebraico, la sua storia e le sue foto sarebbero apparse nella prima pagina di molti quotidiani e riviste.
Omar e Mohamed Masriyeh. Questi palestinesi sono stati arrestati dalle autorità siriane perché sospettati di aver aiutato le forze anti-Assad in diverse parti del paese. Le storie di palestinesi torturati a morte in una prigione araba non sono riuscite a catturare l'attenzione dei media occidentali.
Se uno di loro fosse morto in una prigione israeliana o in uno scontro con i soldati dello Stato ebraico, la sua storia e le sue foto sarebbero apparse nella prima pagina di molti quotidiani e riviste negli Stati Uniti, in Canada e in Europa. Al contrario, quando Ziad Abu Ein, un alto funzionario di Fatah, di recente è morto per un arresto cardiaco dopo un alterco con i soldati israeliani in Cisgiordania, la sua storia ha catturato subito l'attenzione dei media internazionali e delle organizzazioni per i diritti umani. Molti giornalisti stranieri che si occupano di Medio Oriente hanno approfondito la notizia da ogni possibile angolazione e hanno intervistato i suoi familiari e gli amici.
   Ma i palestinesi uccisi e torturati a morte in Siria e in altri paesi arabi non hanno mai ricevuto la stessa attenzione dagli stessi giornalisti e attivisti per i diritti umani. L'Unione Europea e le Nazioni Unite, che hanno chiesto di aprire un'inchiesta sulla morte di Abu Ein, non hanno ritenuto necessario affrontare la difficile situazione dei palestinesi in Siria. E chi ha sentito parlare del caso di Zaki al-Hobby, un 17enne palestinese che è stato ucciso a colpi di arma da fuoco lo scorso fine settimana dalle guardie di frontiera egiziane? L'adolescente palestinese è morto per essersi avvicinato troppo al confine tra la Striscia di Gaza e l'Egitto.
   Testimoni hanno detto che è stato colpito alla schiena ed è morto all'istante. Anche la storia di Al-Hobby è stata ignorata perché Israele non è stato coinvolto in questa vicenda. Se fosse stato colpito dai soldati israeliani dall'altro lato del confine, l'Unione Europea e le Nazioni Unite avrebbero invocato una commissione d'inchiesta internazionale. Ma il ragazzo è stato sfortunato perché è stato ucciso dal fuoco di soldati egiziani, cosa che ha reso la sua storia "insignificante" agli occhi della comunità internazionale e dei media. Che i palestinesi vengano uccisi dagli arabi non sembra nemmeno preoccupare l'Autorità palestinese, i cui leader in questi giorni sono occupati a minacciare di accusare Israele di "crimini di guerra" davanti alla Corte penale internazionale.
   Secondo l'Autorità palestinese - i media, l'UE, le Nazioni Unite e i gruppi per i diritti umani - i "crimini di guerra" sono unicamente commessi dagli israeliani e non dagli arabi che uccidono, torturano e traferiscono decine di migliaia di palestinesi. E tutto questo accade mentre la comunità internazionale e i media continuano a mostrare un'ossessione solo per tutto ciò che è connesso a Israele.


(*) Tratto da Gatestone Institute

(L'Opinione, 9 gennaio 2015) - trad. Angelita La Spada)


Netanyahu: "Il terrorismo estremista islamista non conosce confini"

"Il terrorismo estremista islamista non conosce confini: questi sono attacchi internazionali e la risposta deve essere internazionale". Lo ha detto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in un messaggio di solidarietà ai francesi dopo l'attentato terroristico di mercoledì contro la redazione di Charlie Hebdo, a Parigi. "L'obiettivo principale del terrorismo islamista - ha detto Netanyahu - è distruggere le società e le nazioni occidentali e sradicare la cultura della libertà sostituendola con una dittatura fanatica che farebbe arretrare l'umanità di secoli. Pochi mesi fa - ha ricordato Netanyahu - dal podio delle Nazioni Unite dicevo che se non verranno fermati qui i fanatici terroristi di Hamas, Hezbollah, ISIS e al-Qaeda, gli attentati si diffonderanno in tutto il mondo. E se non li combatteremo in modo coerente, uniti e con determinazione, un atto orribile come questo che abbiamo visto oggi a Parigi non sarà l'ultimo". Pertanto, ha concluso Netanyahu, "le società libere e tutte le persone civili devono unirsi e combattere questo terrorismo. Combatterlo significa combatterlo fisicamente e combattere i loro falsi argomenti, senza accettare mai in nessun caso le loro false motivazioni".

(israele.net, 8 gennaio 2015)


Addio Gil, il profeta del cibo kosher

È morto Gil Marks, l'autore dei libri divenuti indispensabili per comprendere la trasformazione del cibo kosher da pasti esoterici di matrice biblica, a grande fenomeno internazionale di costume.

di Maurizio Molinari

Gil Marks mostra come si fanno le sufganiyot
tradizionali ciambelle ebraiche
di Hanukkah alla festa di Bat Mitzvah della sua pronipote Meira Schorr in Israele.

GERUSALEMME - A 62 anni è morto ad Alon Schvut, vicino Gerusalemme, Gil Marks meglio noto come il "profeta del cibo kosher", confezionato secondo le regole alimentari ebraiche. Nato in West Virginia, studente a Baltimore, emigrato a New York dove studiò alla Yeshiva University e quindi giunto in Israele, Marks ha firmato i cinque libri divenuti indispensabili per comprendere la trasformazione del cibo kosher da pasti esoterici, di matrice biblica, a grande fenomeno internazionale di costume premiato per le caratteristiche salutari.
   Negli ultimi 20 anni ha pubblicato "The World of Jewish Cooking" e "Olive Trees and Honey: A Treasury of Vegetarian Recipes From Jewish Communities Around the World" ma soprattutto, nel 2010, il manuale "Encyclopedia of Jewish Food" che in 700 pagine descrive come è nata e si è sviluppata la cucina kosher nell'arco di 2500 anni. Per ogni pietanza o piazza Marks ricostruiva origini, tradizioni, riferimenti letterali e condizionamenti ricevuti da altre cucine e popolazioni come nel caso della popolare knish newyorkese, originatesi nel Medioevo nei Paesi slavi, divenuta "knysz" in Polonia e narrata negli scritti di Sholom Aleichem prima di divenire uno dei piatti più popolari della Grande Mela, tanto per ebrei che per non ebrei.
   Stroncato da un tumore ai polmoni, Marks ha trascorso gli ultimi anni della sua vita in Israele ed in particolare ad Alon Schvut, uno degli insediamenti di Gush Etzion, a Sud di Gerusalemme, dove gli ebrei arrivarono negli anni Trenta, furono scacciati dalla Legione Giordana nel 1948 e tornarono poi dopo la guerra del 1967. Chi lo ha conosciuto assicura che ad aiutarlo nel suo lavoro sul cibo kosher è stata una straordinaria capacità mnemonica, testimoniata dalla capacità di ricordare nomi, secondi nomi e cognomi di tutti i suoi 56 nipoti e bisnipoti.

(La Stampa, 8 gennaio 2015)


Bisogna ammetterlo, siamo in guerra

di Valentino Baldacci

Siamo in guerra. Di fronte al feroce attentato di Parigi contro il settimanale satirico "Charlie Hebdo" le reazioni sono le più diverse, ma poche sono quelle che colgono il fatto essenziale: che non è che siamo in guerra ma che non abbiamo coscienza di esserlo. Quella di nascondere la testa sotto la sabbia è un'antica vocazione europea, basta ritornare con la memoria alla seconda metà del Novecento e in particolare ai due anni più tragici, il 1938 e il 1939. Nessuno voleva convincersi che Hitler stava scatenando l'aggressione con atti inequivocabili.
   Oggi la storia si ripete, con tratti - se possibile - ancora più drammatici, perché l'aggressore - è difficile ammetterlo - è ancora più feroce e determinato, e al tempo stesso più subdolo, perché si è insinuato in casa nostra. Oggi si capisce l'odio sordo delle classi dirigenti europee - ma soprattutto di quella francese - contro lo Stato d'Israele, che ha la colpa imperdonabile di volere e di saper difendersi. Per non essere costretti ad ammettere che l'Occidente - ma l'Europa in particolare - è da anni sotto l'attacco islamista si sono inventate le menzogne più incredibili, si è taciuta la verità o la si è capovolta, facendo degli aggressori le vittime da compiangere. Quante lacrime di coccodrillo sono state versate su Gaza, da dove partivano i razzi che colpivano il sud d'Israele, in attesa di colpire Tel Aviv! E quanta pia indignazione si è ascoltata sui media contro quel mostro dello Stato ebraico che osava reagire e colpire i luoghi da dove partivano i razzi.
   La Francia di Hollande è stata in testa a questa ondata di vero e proprio antisemitismo. E non perché - come è stato detto - così pensava di porsi al riparo dalla minaccia islamista. C'è molto di più e di peggio nell'atteggiamento francese. C'è forse un senso di colpa che risale alla guerra d'Algeria; ma, soprattutto, c'è l'inconfessata persuasione che il terrorismo islamista ha in fondo ragione, che l'Europa e tutto l'Occidente devono espiare le loro colpe, le colpe del colonialismo e dell'imperialismo. Ma la Francia non è sola in questa corsa al suicidio. Si pensi alla Gran Bretagna, alla Svezia, alla quasi totalità degli stati europei, al cosiddetto Parlamento europeo, dove tutti (o quasi) i gruppi politici si sono pronunciati non tanto per il riconoscimento del presunto Stato di Palestina, ma perché ciò avvenga in maniera unilaterale, al di fuori di ogni trattativa con lo Stato d'Israele, sulla base dei cosiddetti "confini del 1967", confini che non sono mai esistiti, perché si tratta semplicemente delle linee armistiziali che segnarono nel 1949 il cessate il fuoco fra gli stati arabi aggressori e lo Stato d'Israele.
   Lo Stato d'Israele non ha mai rifiutato in linea di principio che possa sorgere uno Stato palestinese. Lo accettò nel novembre 1947, quando l'Assemblea dell'Onu si pronunciò per la divisione della Palestina britannica in due Stati, uno ebraico e uno arabo. Lo accettò nel 1993, quando furono stipulati gli Accordi di Oslo. Ma uno Stato di Palestina non può nascere con un atto unilaterale, dopo decenni di aggressioni e di violenze. Può nascere solo nel rispetto delle esigenze di sicurezza di Israele, e con confini che ne garantiscano la possibilità di difesa. Oggi Israele è praticamente solo nella comprensione delle finalità dell'aggressione islamista globale. Che non ha come scopo soltanto la distruzione dello Stato ebraico, ma la distruzione della nostra civiltà nata dall'Illuminismo. Forse l'atto di guerra compiuto a Parigi potrà innescare un meccanismo di riflessione su cosa è oggi l'Islam, su quali sono le sue finalità, i suoi obiettivi.
   È comunque necessario che ciascuno faccia la sua parte: per quanto ci riguarda, dovrà essere fatto ogni sforzo per far capire a tutte le forze politiche italiane - ma in primo luogo al Partito Democratico perché ha le maggiori responsabilità di Governo - quale è la posta in gioco e perché sia abbandonata l'ambiguità che finora ha caratterizzato la politica estera italiana.

(L'Opinione, 8 gennaio 2015)


L'ambiguità vi porta al macello. L'Europa tiene il piede in due scarpe

Edward Luttwak: Islam significa «sottomissione», è questo è il suo vero obiettivo finale. Il massacro parigino induce ad alcune riflessioni il politologo ebreo americano di origine rumena esperto di studi strategici.

di Goffredo Pistelli
Edward Luttwak
Dovete smettere di mitizzare dei doppiogiochisti come Tariq Ramadani. A furia di legitti- marsi, vi troverete poi quattro pazzoidi con il kalashnikov in pugno, come questi di Parigi, che prima, magari, facevano il ragioniere o il medico. Bisogna smettere di parlare per acronimi. Essi si percepiscono come asettici e quindi non inquietano l'opinione pubblica. AI posto di Isis bisogna chiamarlo Stato Islamico. E poi la religione islamica non è come tutte le altre.
Non ci si può dissociare dai tagliatori di teste dicendo che sono brutti e cattivi e poi schierarsi, con un certo compiacimento a favore di Hamas che, all'articolo 7 della sua Costituzione, prevede l'uccisione
di tutti gli ebrei.
La connivenza con gli islamici spiazza i post-islamici del Vecchio continente, vecchi immigrati, che hanno voltato le spalle alla religione musulmana perché hanno capito che essa è irriformabile. Non è un problema di alzare il livello dello scontro. II problema, prima di tutto, è culturale, di scelta di campo. L'alternativa è molto semplice e ineludibile: o delegittimate l'Islam. oppure delegittimate la democrazia.
A Edward Luttwak il politically correct non fa velo. Questo ebreo americano d'origine rumena, politologo e esperto di studi strategici, quando viene chiamato a parlare di terrorismo islamico, non infiocchetta distinguo ma dice quello che pensa. E il suo pensiero è spesso durissimo. È il caso di questa conversazione che ci ha concesso a poche ore dalla strage del Charlie Hebdo a Parigi.

- Mr. Luttwak questo attentato, nel cuore dell'Europa, è per gli Europei un brutto risveglio, non trova?
  Il punto non è solo di svegliarsi ma di agire.

- Vale a dire?
  Quello che c'è da fare è chiaro: dovete delegittimare questo trionfalismo musulmano.

- Ma come, c'è un attacco terroristico e lei mi parla del trionfalismo? Che c'entra?
  C'entra, perché il trionfalismo è quello che crea un'atmosfera per cui qualcuno si sente in diritto di uccidere la gente.

- Ma a quale trionfalismo si riferisce?
  Quello praticato da persone, ragazze magari, che vanno con il hijab indosso per dimostrare la loro partecipazione a questa forma estrema di islamismo. Magari parlano perfettamente l'italiano, sono carine e gentili, dicono «non siamo affatto sottomesse», ma poi difendono Hamas, con la sua costituzione genocida.

- Quella musulmana non è una religione come tutte le altre?
  No, perché appunto vuole tutte le altre sottomesse. E in questa sottomissione prevede che le persone e gli Stati chinino il capo. Il disegno è che lo faccia Roma, Parigi, Washington.

- Non c'è possibilità di discussione, quindi?
  È inutile perdersi in chiacchiere con gente come Tariq Ramadani (scrittore e imam ginevrino di origine egiziana, che piace molto al mondo francofono, ndr), dovete sfrondare, dovete smettere di legittimarli o vi ritroverete quattro pazzoidi col kalashinikov in pugno, come questi di Parigi, che magari fino a ieri avevano fatto il ragioniere, l'architetto, il medico.

- Sfrondare come?
  Smettendo per esempio di parlare per acronimi: basta dire Isis. Cominciate a chiamarlo Stato islamico. E a cessare di trattare la religione musulmano come le altre. Capisco, che sia troppo spinoso, ma dovete ammettere che l'unico scopo di quel credo è sottomettere gli altri.

- Nessuno lo fa, secondo lei?
  Ci sono già editori e giornalisti che, in Europa, hanno deciso di non occuparsi di questi cose e stare alla larga da queste vicende. La sottomissione comincia così.

- E con gli islamici europei nessun dialogo è possibile allora?
  L'unico dialogo è questo: «Riformatevi e diventate un altro tipo di religione». Non possono venire a dirci che non stanno con Isis perché sono brutti e cattivi, in quanto tagliatori di teste, e schierarsi con Hamas che, all'articolo 7 della propria Costituzione, prevede l'uccisione di tutti gli ebrei. Il giornalista, l'intellettuale e chiunque altro appoggi Hamas non merita di stare nella società civile, in quanto sostiene un'intenzione genocida proclamata.

- Ma l'Europa della politica che cosa dovrebbe fare?
  Essere meno ipocrita. Francois Hollande lo è quando avalla l'idea di un Islam moderato. È una falsa moderazione: l'imam che non perde un congresso sul dialogo interreligioso, lo trovi poi su YouTube con le prediche in arabo con cui chiama tutti alla jihad, alla guerra santa. I politici europei smettano di essere ipocriti perché, così facendo, indeboliscono milioni di post-islamici del Vecchio Continente.

- Di chi parliamo?
  Di quegli immigrati, oggi spesso cittadini francesi, tedeschi, belgi, olandesi, che hanno voltato le spalle alla religione musulmana perché hanno capito che è irreformabile. Sono quelli che lasciano andare le loro moglie vestite all'occidentale, che non menano le loro figlie perché si scoprono le braccia. Vivono in Europa e oggi sono in imbarazzo a causa dell'ipocrisia di tanti vostri primi ministri.

- Che cosa c'è nelle menti di chi ha organizzato l'attentato di Parigi? Le bombe ai treni in Spagna, nel 2004, spodestarono José Maria Aznar, impedendone la rielezione. Le raffiche parigine vogliono favorire l'avvento delle destre in Europa? Vogliono alzare il livello di scontro?
  Alzare il livello dello scontro sarebbe sbagliato. Però siete di fronte a una scelta: o delegittimate l'Islam o delegittimate la democrazia.

(ItaliaOggi, 8 gennaio 2015)


L’avrete sentito, anche dal nostro Presidente del Consiglio: “Siamo tutti francesi!”. Bello. Una semplice osservazione, uscita spontaneamente dalle labbra di mia moglie a tavola: “Però, quando ammazzano gli ebrei a Gerusalemme non dicono: ‘Siamo tutti israeliani!’” Già, chissà come mai. M.C.


Pesante assalto invernale in Medio Oriente: imbiancata Gerusalemme

di Ivan Gaddari

Una violenta tempesta invernale si è abbattuta, nelle ultime 48 ore, in varie parti del Medio Oriente. La neve è caduta abbondante sulle alture del Golan e nei settori settentrionali di Israele. Le previsioni indicavano a partire dalla serata di ieri, bufere di neve anche su Gerusalemme con accumuli variabili dai 20 ai 60 cm.
Stamane, invece, stando alle notizie dei media locali la Città Santa si è svegliata spolverata di bianco e gli accumuli maggiori non hanno superato i 5 cm di spessore. Alcune strade di accesso alla città, rimaste chiuse precauzionalmente, sono state riaperte stamane grazie all'opera dei mezzi spazzaneve e spargisale. Al momento non si registrano particolari disagi.
Oltre alla Turchia, gelo e neve hanno investito anche il Libano. Particolare preoccupazione desta la situazione del campo profughi allestito nella Valle della Bekaa, ad est del Paese, dove stazionano centinaia di migliaia di profughi siriani. L'assalto invernale non ha risparmiato neanche la Giordania, con copiose nevicate che avrebbero paralizzato la capitale del paese.

(Meteogiornale, 8 gennaio 2015)


Startup israeliane crescono, nel 2014 exit-record da 7 miliardi di dollari

Novantanove sono state acquisite da altre aziende o si sono quotate in Borsa, il 5% in più del 2013, raccogliendo in totale 6,94 miliardi. Lo dice un rapporto IVC-Meitar, che sottolinea: "Il numero di Initial public offerings è stato il più alto dell'ultimo decennio: segno che le startup sono pronte per diventare aziende consolidate di lungo corso".

di Luciana Maci

In Isreale le startup scommettono sempre più sulla propria crescita e sono in piena fase di passaggio da neo-impresa ad azienda consolidata: lo dimostra il fatto che nel 2014 le exit di startup (intendendo con exit sia l'acquisizione da parte di un'azienda più grande sia l'ingresso in Borsa) hanno totalizzato ben 6,94 miliardi di dollari, cifra decisamente significativa. Inoltre in prevalenza gli startupper preferiscono quotarsi allo Stock Exchange invece di vendere del tutto l'attività a qualcun altro.
   Lo riferisce un report divulgato in questi giorni dall'IVC Research Center e dallo studio legale Meitar Liquornik Geva Leshem Tal, sottolineando che le exit dell'anno scorso sono state circa il 5% in più rispetto al 2013.
   Esaminando i dati, emergono due principali trend. Innanzitutto nel 2014 si è registrato un numero maggiore di grosse exit rispetto all'anno precedente: 18 exit di startup israeliane high-tech su 99 sono state valutate tra i 100 e i 500 milioni di dollari, una quota raggiunta soltanto da 12 neo-imprese nel 2013.
   Inoltre nel 2014 si è verificato il numero maggiore di Ipo (Initial public offering, cioè quando la società decide di "go public" e quotarsi su un mercato regolamentato) degli ultimi dieci anni. Secondo gli esperti questo nuovo trend dimostra che le startup israeliane ritengono di aver raggiunto un elevato livello tecnologico e quindi sono più predisposte a trasformarsi in società indipendenti attraverso la quotazione in Borsa.
   Delle 99 exit, 19 Ipo hanno raggiunto complessivamente la somma di 2,1 miliardi di dollari, su un totale di 7 miliardi di dollari raccolti. Quella più importante è stata lanciata da MobileEye, fornitrice di un sistema tecnologico per la sicurezza nelle strade, che da sola ha raccolto poco più di un miliardo di dollari al momento del suo debutto al New York Stock Exchange.
   Se il numero delle Ipo è cresciuto, è invece sceso il numero di mergers e acquisizioni. Nel 2014 i "M&AS" (mergers and acquisitions) israeliani si sono attestati su un valore complessivo di 4,84 miliardi di dollari, un calo del 22% rispetto ai 6,23 miliardi del 2013.
   Sedici M&As hanno totalizzato 2,91 miliardi di dollari in totale, mentre nel 2013 undici deals avevano raccolto 2,57 miliardi di dollari. Sono però aumentati i deals di valore elevato: quelli in grado di raccogliere dai 10 ai 50 milioni di dollari sono cresciuti del 13% rispetto all'anno precedente.
   Il report IVC-Meitar è peraltro conservativorispetto a un analogo documento diffuso la scorsa settimana dalla società Pwc, che stima le exit di startup israeliane del 2014 a una cifra record di 15 miliardi di dollari. La research manager di IVC, Marianna Shapira, ha spiegato che i dati più "prudenti" del suo rapporto sono basati sull'attuale valore in contanti dei deals, mentre PwC e altre società hanno usato cifre basate sulla valutazione delle compagnie dopo le rispettive Ipo, in generale una valutazione molto più alta rispetto all'iniziale valore in contanti.
   Commentando la panoramica emersa dai dati, Alon Sahar di Metar ha rilevato che i risultati, specialmente quelli riguardanti il numero di Ipo, sono "rassicuranti. Talvolta - ha detto - le Ipo riflettono un trend di mercato che indica la disponibilità degli azionisti a investire in certi settori, per esempio in ambito scientifico. In altri casi rispecchiano la reale capacità dell'industria di mettere in piedi aziende più grandi destinate a durare nel lungo periodo. Nel caso di Israele si sono verificati entrambi i casi".
   "Alla luce del successo di società come Mobileye e CyberArk (fornitrice di un software contro i cyber-attacchi, ndr) - ha proseguito Sahar - che prima hanno fatto ricorso agli investitori e poi hanno seguito la strada dell'Ipo, ci si può aspettare che altre aziende prendano quella direzione. Questo trend e il desiderio di realizzare aziende più grandi può anche spiegare perché i merger e le acquisizioni hanno invertito la tendenza, scendendo al livello più basso degli ultimi dieci anni".

(EconomyUp.it, 8 gennaio 2015)


Capire la Memoria

di Francesco Lucrezi

Nell'approssimarsi delle manifestazioni per il Giorno della Memoria, mi permetto di ribadire un concetto che ho già avuto modo di comunicare, su queste stesse colonne, e che mi pare importante, ossia la convinzione che ci sono due modi, opposti ma ugualmente nocivi, di distorcere la lezione della Shoah: il primo è quello di negarne l'unicità, appaiandola alle diverse altre forme di sterminio che sono o sarebbero avvenute nelle varie epoche, inserendola in uno qualunque dei tanti scaffali della nutrita libreria del male; il secondo è quello di trasformarne l'unicità in una sorta di astoricità, non collegando adeguatamente ciò che è accaduto con quanto registrato nei secoli precedenti e nei decenni successivi. Alcuni protestano quando qualcuno fa dei paragoni tra ciò che è successo in Europa negli anni '40 e ciò che molti, in altre parti del mondo, auspicano che accada di nuovo agli ebrei. Spesso queste proteste sono giuste, perché la parola Shoah ha un significato ben preciso, indica una cosa molto particolare, e può risultare fuorviante accostarla a fenomeni diversi, precedenti o successivi, di diversa natura ed entità. Ma la Shoah non nasce dal nulla e non si dilegua nel nulla.

(moked, 7 gennaio 2015)


Israele diventa il 44o paese di commercializzazione di Dacia

ROMA - Dacia continua a svilupparsi nel bacino del Mediterraneo, insediandosi in Israele. Il primo punto vendita Dacia a Tel Aviv è stato inaugurato oggi in presenza di François Mariotte, direttore commerciale di Dacia, e di Itzik Weitz, Ceo Carasso Motors. Hanno partecipato all'evento 50 rappresentanti della stampa israeliana. La commercializzazione e il servizio post-vendita sono affidati a Carasso Motors, partner storico del Gruppo Renault in Israele. Quest'anno, Dacia aprirà due punti vendita specificamente dedicati alla Marca e alcuni corner opportunamente selezionati tra le concessionarie Renault del Paese. Per Weitz "oggi la Marca Renault si sviluppa in Israele per assicurarsi quest'anno il 4,2% di quota di mercato. Il lancio di Dacia ci consentirà di presentare una nuova proposta, complementare rispetto alla gamma attuale".
"Proponendo veicoli affidabili, abitabili, con equipaggiamenti moderni e prezzi particolarmente accessibili, Dacia troverà senza difficoltà il suo posto sul mercato israeliano", spiega Francois Mariotte, direttore commerciale Dacia. "Una promessa semplice e chiara, che consentirà a Dacia di creare un rapporto di fiducia su questo nuovo mercato". Nel nuovo show-room con i colori della Marca Dacia, i clienti potranno fin d'ora scoprire e ordinare Nuovo Dacia Duster, Sandero Stepway, Lodgy e Dokker. Analogamente agli altri Paesi di commercializzazione, i veicoli Dacia proposti in Israele sono garantiti 3 anni/100.000 chilometri. Dopo Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca, Norvegia, Cipro e Malta, nel 2013, Israele diventa così il 44o paese di commercializzazione della marca Dacia.

(ITALPRESS, 7 gennaio 2015)


Spagna: un congresso pro palestinese apre una crisi diplomatica con Israele

Per il Centro Wiesenthal atti antisemiti sono stati finanziati dal governo Rajoy.

MADRID - Un congresso, che si è svolto in Spagna in appoggio alla Palestina sta provocando una crisi diplomatica con Israele, dopo la denuncia da parte del Centro Simon Wiesenthal che il governo spagnolo "finanzia in maniera indiretta gruppi e persone che realizzano attività antiisraeliane e antisemite". Secondo un rapporto del Centro Wiesenthal dello scorso 5 gennaio, citato oggi da El Pais, l'Agenzia spagnola di cooperazione internazionale per lo sviluppo (Aecid), che dipende dal ministero degli esteri, ha finanziato un congresso in cui alcuni dei relatori hanno fatto appello a un boicottaggio internazionale contro lo Stato di Israele, alla "demonizzazione di dirigenti israeliani e ad azioni di violenza contro gli ebrei". Il congresso sotto accusa è la Conferenza internazionale di governi locali della Società civile in appoggio alla Palestina, coordinata dal Fondo andaluso di municipi per la solidarietà internazionale (Famsi), in collaborazione con la divisione delle Nazioni Unite per i Diritti dei Palestinesi, la Associazione Al Quds di solidarietà con i Popoli del Mondo Arabo e l'Agenzia andalusa di cooperazione internazionale per lo sviluppo.
   Cominciata il 29 novembre a Malaga, proseguita a Siviglia il 2 e 3 dicembre, la conferenza è culminata con l'inaugurazione, il 3 dicembre, di un'esposizione nell'Università Autonoma di Madrid, che Israele considera antisemita. Shimon Samuels, direttore di Relazioni internazionali del Centro Wiesenthal, in un'intervista a El Pais ha accusato il governo di Mariano Rajoy di avere contribuito in maniera importante al finanziamento degli atti, "in accordo con il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele". Da parte sua, il governo di Israele ha chiesto spiegazioni al ministero degli esteri spagnoli, alla vigilia della seconda visita ufficiale del ministro spagnolo degli esteri, José-Manuel Garcia-Margallo, prevista per la prossima settimana a Tel Aviv.
   "Israele esprime profonda costernazione a fronte delle rivelazioni del Centro Simon Wiesenthal relative alle sovvenzioni economiche del governo spagnolo a persone e organizzazioni che propagano un'ideologia estremista antisraeliana e antisemita", ha dichiarato il portavoce del ministero di relazioni estere israeliano, Emmanuel Nahshon, al quotidiano madrileno. Da parte sua, un portavoce delle Nazioni Unita ha assicurato che "l'Onu non fa appello al boicottaggio dello Stato di Israele e non appoggia tali richieste".

(ANSAmed, 7 gennaio 2015)


«Il mio porto è Tel Aviv»

Da Milano a Tel Aviv. La storia di Fiammetta Martegani, arrivata in Israele nel 2009 per scrivere la sua tesi di laurea sui soldati nel cinema. Ora si è specializzata nell'arte dell'Ikebana.
Ikebana, l'arte giapponese di disporre dei fiori recisi. La traduzione letterale della parola è "fiori viventi".


di Stefano Landi

 
Una città dove tutto è condivisione. In un loft ricavato in un ex distretto industriale a Giaffa, la Williamsburg di Tel Aviv, ci sono ragazzi tra i 25 e i 40 anni, quasi tutti stranieri. Fiammetta Martegani, 33 anni, dipinge, mentre un falegname lavora il legno, una ragazza disegna gioielli, un ragazzo organizza la sua produzione di birra artigianale. «Una fonte di ispirazione continua», spiega Fiammetta. Arriva dall'Università, dove passa le mattinate per il suo post dottorato. «Stile campus americano, con parco, piscina, una decina di ristoranti etnici». Nella sua factory dipinge a olio, figure astratte che fonde con oggetti recuperati per strada. Specchietti delle macchine, fil di ferro. «Per esporre le opere basta un bar, un ristorante. La mia prima mostra l'ho fatta in un capannone che stava per essere trasformato in boutique di lusso».
Fiammetta ha acceso il suo lato artistico in questi anni. Da poco ha scoperto l'Ikebana. Dentro ci mette buone dosi di meditazione e filosofia zen. «A Milano l'ho studiata al centro di cultura giapponese, qui ho conosciuto il direttore del Centro Botanico di Gerusalemme che mi ha dato l'opportunità di organizzare workshop». A TeI Aviv l'ikebana funziona perché fa parte di quella ricerca dell'equilibrio che i ragazzi cercano tornando a casa dopo aver passato tre anni nell'esercito. Fiammetta Martegani è arrvata qui per scrivere una tesi sulla rappresentazione del soldato nel cinema israeliano. «Giravo a intervistare artisti che in molti casi la divisa l'avevano indossata. Saltavo da una storia all'altra per passaparola».
Israele è grande come la Toscana, con meno abitanti di Londra. «Tel Aviv è una città in espansione, come la Berlino dopo la caduta del Muro. Ho conosciuto una mia coetanea araba, senza velo, bisessuale. In qualunque altro luogo del Medio Oriente sarebbe inimmaginabile». Una città che azzera le distanze. «I gradi di separazione sono minimi, basta un'amicizia comune per arrivare a chiunque, anche al presidente».
Le giornate di Fiammetta volano tra baretti di street food, sui taxi collettivi che corrono avanti e indietro nei 50 chilometri per Gerusalemme.
Passi un pomeriggio con Fiammetta e conosci i suoi amici: americani, marocchini, polacchi. «Tutto è aperto 24 ore su 24: la città è cara come Milano, ma offre linguaggi diversi». In Italia torna quattro volte l'anno. L'ultima, per correggere le bozze di «Rock The Casbah». Per un anno, ai tavolini del Caffè Bacio, mentre con una mano scriveva la tesi, ha incontrato i personaggi che ha messo nel suo primo romanzo. «Storie nate attorno al bancone di un bar dove vengono scritti copioni cinematografici di film che l'anno prossimo magari passeranno sugli schermi del Festival di Berlino o Venezia». Sono le storie dei figli adottati da Tel Aviv, un porto di mare, di quelli dove è bello ritornare. Per mostrare che colore ha l'altra faccia della guerra.

(Corriere della Sera, 7 gennaio 2015)


N.B. - Riferire non significa approvare (vale per tutti gli articoli).


Israele - Economia a +2,6% durante il mese di novembre 2014

L'Ufficio Centrale di Statistica israeliano ha stimato la crescita economica nel mese di novembre 2014 pari al 2.6%, in rialzo rispetto alla previsione del 2%. Le ragioni del miglioramento sono legate ad una ripresa piu' veloce di quanto previsto a seguito dell'Operazione Protective Hedge della scorsa estate.
Il tasso di crescita complessivo e' dunque piu' alto di quello della media dei Paesi OCSE pari al 1,8%.
Anche la media dei consumi privati, pari al 3,8% complessivo e all'1,8% pro capite, e' piu' alta della media OCSE pro capite pari all'1,5% seppur con andamenti discordanti a seconda dei settori. Si registra, infatti, una crescita degli acquisti del 7% per i beni durevoli come le automobili e solo del 1.4% per beni di consumo corrente.

(Tribuna Economica, 7 gennaio 2015)


Il Front National strizza l'occhio al mondo arabo

In un articolo pubblicato su un giornale egiziano il partito di Marine Le Pen apre ai "nuovi amici" e affronta di petto la questione palestinese.

di Raffaello Binelli

Il Front National ha il vento in poppa anche se le presidenziali del 2017 non sono proprio dietro l'angolo.
Il partito di Marine Le Pen cerca di tenere accesa l'attenzione intorno a sé e, al contempo, lima il proprio programma, che non può limitarsi alla contestazione dello status quo e all'antieuropeismo spinto. Deve offrire qualcosa di più. Per questo, come scrive ItaliaOggi, la destra estrema francese ha deciso di aprire un canale diplomatico che potrebbe essere molto importante in chiave futura: non si tratta di quello (ormai arcinoto) con la Russia di Putin, ma di un rapporto speciale con "gli amici arabi". E il tema forte per eccellenza, in grado di attirare simpatie in quel mondo, è la "questione palestinese". Per questo motivo due dirigenti, Marion Maréchal-Le Pen e Aymeric Chauprad, hanno fatto pubblicare un testo pro Palestina su un quotidiano egiziano. Nell'articolo si legge che l'avvento al potere del Front National "segnerà un'autentica rottura con la politica estera condotta da diversi decenni dai governi francesi". Niente più allineamento sistematico alla politica di Washington, e niente più "ingerenze illegittime" in Iraq, Afghanistan e Libia.
   La posizione del Fn non cambia: rispetto delle sovranità nazionali ed equilibrio in un mondo bipolare. Ma qual è la posizione del Front National sulla guerra infinita tra israeliani e palestinesi? Nessuno, si legge nell'articolo, può sostituirsi ai diretti interessati nel tracciare il futuro del Medio Oriente. E non può farlo neanche "l'arrogante Europa" che intende "decretare per voto una soluzione alla guerra". Al contempo, però, riemerge la classica posizione della destra nazionalista francese (e anche italiana), che da sempre sposa la causa del popolo palestinese. Alla fine emerge una posizione sostanzialmente moderata: viene ribadito il diritto di esistere dello Stato di Israele, e si sottolinea la necessità di accettare la storia e la specificità della Terrasanta, "sacra per ebrei, cristiani e musulmani". Inoltre i due esponenti del Front National prendono le distanze da Hamas e affermano che tale movimento non può essere considerato "forza dominante" tra i palestinesi. Si ribadisce, inoltre, che l'unico scopo di Hamas è quello di spazzare via dalle carte geografiche Israele, "sradicando l'entità sionista da una carta puramente islamica che sogna per il Vicino Oriente". Al contempo l'estrema destra francese chiede a Tel Aviv di riconoscere uno Stato palestinese "territorialmente coerente", cioè non spezzettato da centinaia di check point e territori occupati. Insomma, la linea è questa: due popoli, due Stati. Ai palestinesi il Fn chiede di prendere le distanze dai terroristi, rinunciare al ritorno di tutti i rifugiati (si evoca il realismo demografico) e di diventare uno "Stato nazionale laico", mettendo da parte ogni distinzione religiosa.

(il Giornale, 7 gennaio 2015)


Al Fatah, organizzazione palestinese giudiziosa da con confondere con Hamas

di Andrea Mercenaro

Per celebrare il 50o anniversario della fondazione di al Fatah
Per ricordare il 50o anniversario della fondazione di al Fatah, l'organizzazione palestinese giudiziosa guidata dal presidente Abu Mazen da non confondere mai con Hamas, che è più estremista, la pagina Facebook di Fatah stessa mostrava, giovedì scorso, la seguente immagine: un fucile, con la bandiera dell'organizzazione legata sulla canna, piantato su un'enorme piramide di teschi, ciascuno dei quali aveva impressa la stella di Davide perché fosse ben chiaro di chi si stava parlando, con sotto la scritta: "Indugiando sui vostri teschi". L'immagine è rimasta sul sito solo alcune ore, poi è stata tolta. Sabato è stata la volta di Netanyahu, la cui foto è apparsa con un robusto cappio al fianco, che è rimasta lì, e nessuno l'ha tolta, e produceva, almeno in me, poi credo in tutta Europa, un senso di moderazione che di più si muore.

(Il Foglio, 7 gennaio 2015)


Autismo, esperti Italia e Israele per una visione non convenzionale

A Roma due giorni lavori IDO. Partecipa David Oppenheim.

ROMA - In disparte, distaccati, più interessati agli oggetti che alle persone. Un'immagine convenzionale dei bambini autistici in cui non si ritrova David Oppenheim, membro senior del "Center for the study of child development" dell'Università di Haifa (Israele). Il professore mostrerà i risultati delle sue ultime ricerche alla conferenza internazionale su "Attaccamento e autismo: l'importanza dell'insightfullness genitoriale", il 31 gennaio e il 1o febbraio a Roma. Una due giorni di formazione promossa dall'Istituto di Ortofonologia (IdO) nell'Aula magna dell'Istituto comprensivo Regina Elena.
   In un'intervista Oppenhim anticipa le sue convinzioni: È possibile parlare di attaccamento anche per una persona autistica? "Certo - afferma - in una nostra ricerca, così come in altre, abbiamo dimostrato che i bambini con autismo si affezionano alle loro madri in modi che sono molto simili a quelli di bambini con sviluppo tipico. Però i loro comportamenti di attaccamento - i modi specifici in cui mostrano il loro attaccamento - possono essere diversi". E spiega: "Come accade per i bambini normodotati, i minori con autismo hanno un attaccamento sicuro ai loro caregiver- precisa l'ex presidente del dipartimento di Psicologia dell'Università di Haifa- li usano come base sicura per esplorare l'ambiente e come fonte di conforto quando sono stressati. La maggior parte delle ricerche sull'attaccamento nell'autismo è stata realizzata con le madri, ma si suppone che i bambini sviluppino un attaccamento anche verso i loro padri e altri operatori sanitari, proprio come i minori normodotati".
   "I bambini con autismo a volte mostrano il loro bisogno di vicinanza, comfort e sicurezza in modi diversi rispetto ai minori con sviluppo tipico. A volte sembrano disinteressati agli altri- spiega il professore - o meno influenzati dall'andirivieni delle figure di attaccamento. Ciò può indurre i genitori e i terapisti a conclusioni sbagliate, pensando che i bambini non ne abbiano bisogno. Questo, a sua volta, può aumentare l'angoscia del minore. Comprendere l'importanza dell'attaccamento- sottolinea il ricercatore israeliano- ci aiuta a capire meglio le difficoltà dei bambini con autismo nel cercare l'intimità e il comfort".
   Una collaborazione scientifica, quella tra l'Italia e Israele in tema di autismo, che si rafforza sempre di più. Al centro della ricerca il rapporto genitori -figli nell'autismo. L'Università di Haifa a Roma porrà l'attenzione sul rapporto insightfulness -attaccamento nell'autismo, ovvero sulla capacità del genitore di guardare il mondo attraverso gli occhi del figlio (insightfulness) e sulle potenzialità del bambino di rispondere a questa 'comprensione empatica'.

(askanews, 7 gennaio 2015)


Parigi, assalto a Charlie Hebdo: morti e feriti. Uccisi giornalisti e agenti

Due uomini armati di kalashnikov hanno fatto irruzione nella sede del settimanale satirico e hanno aperto il fuoco. Almeno 12 vittime. Hollande: "È terrorismo".

di Piera Matteucci E Anais Ginori

PARIGI - Cinque minuti di terrore, 12 vittime e 20 feriti, di cui 5 gravissimi. Sono queste le cifre dell'attacco messo a segno oggi da due uomini contro la sede del settimanale satirico Charlie Hebdo, a Parigi. Uomini incappucciati e armati hanno fatto irruzione nella sede del giornale aprendo il fuoco con dei kalashnikov. Tra le vittime, oltre a due agenti, il direttore del settimanale, Stephan Charbonnier, detto Charb, e i tre più importanti vignettisti: Cabu, Tignous e Georges Wolinski, molto famoso anche in Italia. Si tratta dell'attacco più grave della storia del periodico, più volte finito sotto tiro per i contenuti pubblicati.

(la Repubblica, 7 gennaio 2015)


Ufficiale l'accesso della Palestina alla Corte Penale Internazionale

Ad annunciarlo il Segretario generale delle Nazioni unite Ban Ki-moon. L'adesione partirà dal 1 aprile 2015.

Ormai è ufficiale, la Palestina accederà alla Corte Penale Internazionale (CPI) a partire dal 1 aprile 2015. Ad annunciarlo è stato il Segretario delle Nazioni unite Ban Ki-Moon. La richiesta era stata avanzata il 31 dicembre dal Presidente dell'Autorità Palestinese Abu Mazen, che aveva firmato una serie di trattati internazionali, tra cui lo Statuto di Roma, documento fondativo della CPI.
Cosa cambia adesso? Entrando a far parte della Corte Penale Internazionale l'Autorità Palestinese potrà appellarsi ad un'entità giuridica sovranazionale per perseguire Israele contro eventuali crimini di guerra e crimini contro l'umanità. Allo stesso modo potrà essere giudicata per la stessa tipologia di reati. Israele non ha aderito alla CPI, tuttavia in caso di condanna di uno o più cittadini israeliani, questi rischierebbero di essere arrestati qualora si trovassero momentaneamente in uno dei paesi membri della CPI.
La richiesta di accedere alla Corte dell'Aia da parte dell'Autorità Palestinese ha provocato nei giorni scorsi dure reazioni da parte di Israele e Stati Uniti. Lo stato ebraico ha minacciato di congelare i dazi doganali destinati a Ramallah, per un valore di circa 100 milioni di euro.
Al momento i paesi aderenti alla Corte Penale Internazionale sono 122, inclusa l'Italia. Tra i paesi che hanno inizialmente firmato il Trattato di Roma ma non lo hanno poi mai ratificato ci sono Israele e Stati Uniti. Anche la Russia e la Cina non fanno parte della CPI.

(La Stampa, 7 gennaio 2015)


Chi segue i fatti internazionali riguardanti Israele con un occhio attento alle profezie bibliche, non sarà sorpreso da questo sviluppo degli eventi. La globalizzazione dovrà assumere anche la forma di una condanna mondiale a Israele, e con ciò le nazioni firmeranno la loro condanna. Si avvicina “il giorno della vendetta dell’Eterno, l’anno della retribuzione per la causa di Sion” (Isaia 34:8). M.C.


Neve in Medio Oriente: fitte nevicate in Turchia, Libano e Israele

Forte ondata di maltempo in Medio Oriente, con la neve che è arrivata in Libano e Turchia, mentre si attendono nevicate anche a Gerusalemme.

 
Neve a Gerusalemme (2014)
Neve in Medio Oriente: fitte nevicate in Turchia, Libano e Israele - 07 gennaio 2015 - A partire dalla giornata di ieri, il Medio Oriente sta venendo investito da un'intensa fase di maltempo, portata sulla zona dalla vasta intrusione di aria gelida polare che è discesa dall'Europa orientale fino al Mediterraneo: le temperature sono crollate e di conseguenza è anche arrivata la neve su molte aree, come ad esempio Turchia, Libano e Israele. Quest'area di bassa pressione formatasi al largo della Turchia è stata rafforza dai venti freddi provenienti di quadranti settentrionali, che hanno contribuito allo sviluppo di una vera e propria tempesta: la neve è caduta copiosamente in molte zone e i venti sostenuti hanno provocato mareggiate nel Bosforo e lungo le coste di Libano e Israele.
Sono stati numerosi i disagi causati dalla neve che è caduta copiosa su molte zone del Medio Oriente: in Turchia per esempio, fitte nevicate si sono riversate sia sui rilievi sia sulle coste del Mar Nero, con accumuli medi di circa 30 centimetri, mentre nelle zone di aperta campagna, come nella regione di Bitlis, si sono superati anche i 70 centimetri. Ad Istanbul sono state chiuse le scuole così come molte strade rese impraticabili da ghiaccio e neve, mentre la compagnia nazionale, la Turkish Airlines, sempre da Istanbul, ieri si è vista costretta a cancellare ben 44 voli sia nazionali che internazionali. Bloccati anche i collegamenti ferroviari tra la parte asiatica ed europea della Turchia, dopo le onde alte nel canale del Bosforo. La neve cade abbondante anche in Libano, dove per oggi sono attesi anche 50-60 centimetri di neve sui rilievi interni, al confine con la Siria: sulle coste invece, i forti venti hanno causato diverse mareggiate, con le aree più vicine al mare che sono state completamente inondate. Onde alte fino a 9 metri si sono abbattute sulla zona costiera di Tel Aviv, in Israele, mentre a Gaza molte famiglie sono state costrette a lasciare le loro abitazioni con le barche, dopo essere state completamente allagate. La neve è arrivata ad imbiancare anche Ramallah e Betlemme, mentre è allerta a Gerusalemme per le precipitazioni nevose attese nelle prossime ore.

(Centro Meteo Italiano.it, 7 gennaio 2015)


Ma Gerusalemme mobilita i militari. In arrivo una tempesta di neve "biblica"

di Maurizio Molinari.

I battaglioni antiterrorismo pronti a soccorrere abitanti isolati. Paura per i black-out, le neo-mamme non lasciano gli ospedali.

Centinaia di spalaneve gialli circondano Gerusalemme, dove scuole e uffici pubblici sono chiusi con gli abitanti rintanati nelle case dopo aver svuotato i supermercati e il sindaco Nir Barkat siede in permanenza nel bunker sotterraneo per coordinare gli aiuti: la Città Santa si blinda nel timore della tempesta di neve e ghiaccio, prevista a partire da oggi con dimensioni definite «bibliche» dai servizi meteo.

- Freddo peggio di Al Qaeda
  L'allarme investe Galilea, Safed, le montagne della Cisgiordania e soprattutto Gerusalemme, ancora segnata dalla settimana di paralisi per la tempesta di neve del dicembre 2013. I comandi militari hanno ordinato al battaglione 890 dei parà di stanza sul Monte Hermon - le cui mansioni sono di vegliare su Hezbollah e Al Nusra - di essere pronto a «interventi per soccorrere civili in difficoltà» mentre mezzi blindati trasformati in rompighiaccio sono posizionati dentro Gerusalemme. Il sindaco è pronto a «chiudere tutte le strade che portano alla Città» per scongiurare il rischio di automobilisti immobilizzati da ghiaccio e neve. E' l'intero apparato della sicurezza civile - la stessa che quest'estate ha vegliato sulle aree abitate minacciate dai razzi di Hamas - a essere mobilitato per spingere singoli e famiglie a «proteggere le casa».

- Scorte di cibo e carburante
  Le istruzioni, diffuse da vecchi e nuovi media, sono minuziose: preparare riscaldamenti non elettrici, tenere aperti i rubinetti contro il congelamento dei tubi, tagliare i rami agli alberi vicini a cavi elettrici, rinforzare antenne e pannelli solari, preparare scorte di acqua e cibo per giorni di possibile isolamento. Il maggior pericolo sono black out elettrici, blocco dell'acqua e morsa del ghiaccio. I meteo prevedono a Gerusalemme almeno 62 centimetri di neve con l'aggravante di forti venti: per proteggersi dal peggio i cittadini, ebrei e arabi, hanno svuotato supermercati e negozi di casalinghi facendo in particolare incetta di generatori a benzina. La compagnia elettrica nazionale ha fatto uscire dai depositi generatori giganti, caricandoli su una lunga fila di camion che da Tel Aviv ha raggiunto Gerusalemme: toccherà ai militari attivarli per soccorrere i quartieri più colpiti.

- In Negev tempeste di sabbia
  Se a ciò si aggiunge che nel deserto del Negev si temono tempeste di sabbia non è difficile comprendere perché anche l'attesa intervista tv al premier Netanyahu sulla campagna elettorale abbia dovuto cedere il passo alle previsioni meteo. A prevalere è una sorta di pathos che porta Ofir Shatman, neopapà di 24 anni, a non voler lasciare l'ospedale Hadassa dove è nato il figlio «perché a casa non siamo sicuri» mentre fra gli anziani prevale la scelta di «lasciare almeno una finestra di casa aperta» nel timore di restare intrappolati. «Israele è un Paese strano - commenta Jody Simons, imprenditore immigrato dall'Australia - quando piovono missili ed esplodono bombe nessuno si scompone ma basta l'attesa di qualche centimetro di neve per scatenare il panico collettivo».

(La Stampa, 7 gennaio 2015)


Premio Smart City 2014: a vincere è la città di Tel Aviv

La quarta edizione dello Smart City Expo World Congress di Barcellona si è concluso con la premiazione di Tel Aviv come Best City del premio World Smart City Awards.
L'evento mondiale dedicato alle città intelligenti organizzato annualmente dalla fiera di Barcellona ha visto quest'anno la partecipazione di oltre 10.500 visitatori e 400 città, diventando il più internazionale della storia.
La città più grande dello Stato di Israele è stata giudicata la miglior smart city del 2014 per le diverse iniziative portate avanti dall'autorità locale per migliorare il dialogo e la partecipazione dei cittadini. Grazie alla distribuzione di massa della tecnologia wi-fi estesa gratuitamente a tutta la città e ad un sistema affinato di geolocalizzazione, Tel Aviv ha creato il modello Digi-Tel, una piattaforma destinata a trasformare la città in un punto di riferimento elegante e pioneristico dei nuovi modelli di partecipazione pubblica sotto il profilo dello sviluppo urbano e dell'economia partecipata.
Oltre alla rete di telecomunicazioni, il sistema Digi-Tel mette a disposizione dei cittadini una serie di App appositamente studiate per la città che consentono di monitorare in tempo reale le più svariate situazioni quotidiane come lo stato del traffico, i lavori stradali, le stazioni per il bike-sharing più vicine, i promemoria inviati dalle scuole, gli eventi culturali, fino ad arrivare agli sconti offerte dalla città per partecipare agli eventi pubblici.
Oltre al premio come miglior Smart City assegnato a Tel Aviv, l'evento catalano ha premiato Copenhagen come vincitore della categoria "Progetti" per 'Copenhagen Connecting: Driving Data to Quality Service' un innovativo sistema di gestione urbana guidato dalle priorità socio-economiche costruito sull'uso in tempo reale dei servizi offerti dalla città e sulle esigenze dei cittadini.
Mentre l'agenzia nigeriana Mobicure si è classificata prima nella categoria "Iniziative" per 'Omomi' un insieme di strumenti basati su tecnologie mobili sul modello OMS che permette ai genitori nigeriani di monitorare la crescita dei propri figli, di conoscere le tappe mediche più importanti e condividere la propria esperienza con quella degli altri genitori.

(lentepubblica.it, 4 dicembre 2014)


Il modello israeliano di smart city: intervista a Zvi Weinstein

Intervista realizzata in collaborazione con l'Ing. Bruno Centrone di PugliaSmartLab.

di Valentino Moretto
Valentino Moretto è laureato in Ingegneria Gestionale ed è attualmente Project manager nel contratto di rete tra farmacie Farm@net (tra i primi in Italia). Lavora per il progetto Puglia@Service, presso il Distretto Tecnologico Pugliese "Dhitech Scarl", sulla costruzione e lo sviluppo strutturale di territori intelligenti. Membro del Living Lab "Puglia Smart Lab" (facente parte rete europea ENOLL) ed esperto di smart city.
Ha pubblicato ed è stato relatore di numerosi contributi riguardanti il mondo delle smart city e l'efficientamento della PA.


L'ultima edizione dello Smart City Expo World Congress, tenutosi a Barcellona lo scorso novembre, ha incoronato Tel Aviv come migliore città smart per l'impegno nell'affermazione del concetto di cittadinanza digitale (più di 100.000 cittadini con carta per servizi digitali), per la progettualità sull'innovazione sociale e per la nascita di un mercato di servizi e applicazioni per cittadini e aziende.
Di questo e più in generale del modello smart city israeliano abbiamo parlato con il Dr. Zvi Weinstein da tre decenni impegnato presso il Ministero delle Costruzioni e Abitazioni Israeliano come coordinatore del progetto di rinnovamento per i quartieri svantaggiati in Israele. Il Dr. Weinstein è un urbanista e nella sua formazione accademica e detiene diversi titoli: PHD in Riqualificazione Urbana presso l'Università Ebraica di Gerusalemme, MSc. in Urbanistica ottenuto presso l'Instituto Tecnologico Technion, Haifa; possiede inoltre un Master in Politiche Pubbliche dell'Università di Tel Aviv.
Nel suo lavoro si occupa di integrare temi sociali, economici, occupazionali, della comunità, della salute, della gioventù e dello sviluppo dei servizi sociali e comunitari.

- Potrebbe raccontarci qualcosa in più sui progetti che lei e il suo dipartimento state portando avanti per favorire la creazione di una Smart City/Smart Community? Quali sono altri interessanti progetti in corso in Israele? E quali i piani per il prossimo futuro?
  Gli obiettivi del progetto di rinnovo sono quelli di migliorare la qualità della vita dei residenti per consentir loro di aumentare il proprio rango socio-economico. Per raggiungere questi obiettivi una coalizione di ministeri tra cui Housing, dei servizi sociali, Economia, Salute, Istruzione, Tesoro e Ambiente sono stati istituiti per preparare un programma globale e olistico. Ognuno di loro si è impegnato a fornire le risorse finanziarie e professionali necessarie. Inoltre, ci sono terze parti interessate, quali le ONG, fondazioni, privati e organizzazioni pubbliche.
Anche se non stiamo usando il termine "Smart Communities", investiamo un sacco di sforzi e di budget per costruire istituzioni comunitarie (come i centri sociali, asili nido, centri per lo Sviluppo dell'Infanzia e Capitale Umano e centri giovanili). Queste istituzioni sono importanti per l'impegno profuso e il coinvolgimento dei residenti nei problemi del loro quartiere. Le persone sono membri in comitati di governo locale in cui tutte le questioni vengono discusse nei quartieri insieme con i membri della municipalità, i diversi dipartimenti locali e rappresentanti regionali del Governo e dei Ministeri. Il principio fondamentale del progetto di rinnovamento è la politica bottom-up adottata.

- Nella sua opinione, quale dovrebbe essere il ruolo della tecnologia nel paradigma Smart City oggi?
  
La risposta alla domanda è complessa ed è qualcosa su cui pensare a fondo. Lo sviluppo di tecnologie sia per la città che per i suoi cittadini dovrebbe essere un approccio centrato sull'uomo e sul design. A mio
 
parere, il ruolo della tecnologia nella città intelligente dovrebbe essere quello di aumentare la qualità della vita dei suoi cittadini. Questo obiettivo può essere raggiunto aumentando l'efficienza e l'efficacia del governo, lo sviluppo di applicazioni compatibili con l'ambiente, aumentando la mobilità, fornendo migliori servizi sanitari, servizi orientati alla community, prosperità economica, ecc. Al fine di raggiungere questi e molti altri obiettivi è essenziale che una città diventi intelligente anche e soprattutto nella definizione delle politiche adottate, per poi definire una strategia che cerca di attuare tali politiche, per permettere alla città di giocare un ruolo da facilitatrice ed erogatrice di servizi, incubatrice, provider di rete, ecc.
Nel mondo centinaia se non migliaia di città stanno diventando o stanno pianificando di diventare una "Smart City", in cui tutto, dalla rete elettrica alle condotte fognarie per le strade, l'edilizia, i lampioni e le automobili saranno collegati alla "rete" e saranno controllati in maniera automatizzata, con sistemi intelligenti. Questo dovrebbe farci una pausa e riflettere su temi quali:
Perderemo il controllo di ciò che ci circonda? Saranno la nostre vite dirette, manipolate e controllate da "macchine"? Chi sarà a monitorare e controllare tali sistemi? E se gli hacker informatici ottenessero il controllo dei sistemi? Stiamo creando le capacità che possono essere usate impropriamente? Come possono le tecnologie digitali, l'arte e il design essere utilizzati dai cittadini per migliorare il loro ambiente urbano? Cosa significa per i cittadini responsabilizzazione e impegno per la loro città? Quali sono le tecnologie che renderanno le città intelligenti? Quali sono le implementazioni delle ICT a vantaggio dei cittadini? Davvero ogni città ha bisogno di nuove tecnologie per diventare "città intelligente"? Davvero ogni città ha bisogno di investire in tecnologie ICT o dovrebbe costruire una partnership con città adiacenti? Come possiamo raggiungere e comprendere rapidamente le innovazioni tecnologiche e i cambiamenti nelle città?
Per riassumere, non c'è dubbio che le nuove tecnologie e le innovazioni migliorano le vite umane, soprattutto in settori come la sanità, i trasporti, la pianificazione, ambiente, ecc
Le Smart Cities dovrebbero garantire una buona qualità della vita, il benessere, l'equità e l'inclusione sociale, che sarà sempre più di vitale importanza per i cittadini. La questione fondamentale sulle città è: come possono le tecnologie digitali, l'arte e il design servire come nuovi strumenti per essere utilizzati dai cittadini per migliorare il loro ambiente urbano? Cosa significa per i cittadini responsabilizzazione e l'impegno all'interno delle proprie città?

- Israele è molto attiva per quanto riguarda gli approcci partecipati (e.g. 1000 Table). Ritiene che tali approcci possano essere d'aiuto per guidare uno sviluppo sostenibile e aumentare l'engagement dei cittadini?
  
L'evento 1000 Table, organizzato durante la protesta sociale estiva del 2011 in Israele, è stato un evento insolito. Mai prima persone di diversi contesti socio-economici, religioni e politici si erano seduti intorno a dei tavoli in spazi pubblici nelle città israeliane per discutere la situazione, cercando di creare nuove idee e iniziative da portare alle autorità centrali e locali volte a produrre innovazioni sociali ed economiche a favore delle classi medie e basse. L'approccio round table israeliano ha un sacco di potenzialità partecipativa e democratica.
L'approccio Living Lab è conosciuto come ecosistema centrato sull'utente e l'Open Innovation. Living Lab utilizza approccio co-creazione per il processo di ricerca. Esso impegna persone che insieme dimostrano di poter avere un impatto positivo per il coinvolgimento delle comunità, degli utenti o soggetti che hanno interessi simili per innovare e risolvere problemi comuni o anche solo attuare processi sperimentali e, in caso di successo, implementarle. Il Living Lab potrebbe essere utilizzato anche per i responsabili politici e cittadini per la progettazione degli scenari di vita reale per valutare il loro impatto potenziale.
Transition Town è un progetto di comunità che cerca di costruire la resilienza rispetto a questioni come il clima, la distruzione, l'energia, l'instabilità economica, la catena alimentare, etc.
I suddetti tre approcci e altri, come le civic society, attivisti di quartiere, organizzazioni bottom-up hanno alcune caratteristiche comuni tra loro: tutti trattano questioni che hanno un grande impatto sulla vita dei cittadini in diversi livelli di atteggiamenti e relazioni. Sono movimenti che motivano la gente a raccogliersi e discutere direttamente tra loro le questioni che li preoccupano per creare situazioni di vita ed opportunità che saranno sostenibili per il tempo futuro. I cambiamenti, se non accadranno drasticamente a causa di rivoluzioni, hanno bisogno di infiltrarsi nella società, essere basati in periodo di tempo lunghi, e dipendono dalle condizioni politico-economiche e sociali costituite nel Paese, l'impegno e la stabilità della sua leadership, sul patrimonio netto e l'uguaglianza tra tutti i cittadini.

- Ritiene che ci possa essere il bisogno di nuove figure professionali che possano essere impiegate nel management del living Lab? Pensa che le Pubbliche Amministrazioni possano giocare un ruolo attivo in ciò? Figure come i Tecnologi Sociali o Civic Technologist possono essere d'aiuto per tradurre i reali fabbisogni dei cittadini in progetti concreti?
  L'Europa, come altri continenti, affronta le sfide in materia di adeguamento delle città in "intelligenti" per creare ambienti sostenibili attraverso l'utilizzo strategico delle nuove tecnologie che collegano meglio le persone e le infrastrutture. Per raggiungere questo obiettivo, i responsabili politici, insieme con i leader delle città e i rappresentanti della società civile hanno bisogno di organizzare una rete professionale e personale per consentire il raggiungimento di questo obiettivo. Pertanto, le istituzioni accademiche e le aziende ICT dovrebbero lavorare in comune e creare opportunità di occupazione per le persone per studiare e sperimentare le nuove tecnologie con grande enfasi sulle questioni urbane che si interfacciano con le tecnologie ICT.
A mio parere, il suggerimento dovrebbe essere concentrarsi su temi come: energia, infrastrutture, trasporti, pianificazione urbana, politica urbana, politica regionale, ambiente, innovazione, crescita della città, occupazione, istruzione, salute, tempo libero, piccole e medie imprese, parità di genere, riqualificazione urbana, qualità della vita, governance, cultura, spazi pubblici, applicazioni e l'elenco potrebbe continuare avanti.
Tuttavia, i cittadini da soli non possono affrontare gli argomenti di cui sopra, senza il sostegno da parte di professionisti, i quali possono partecipare alle discussioni e contribuire anche con le loro esperienze di cittadini. Le loro considerazioni sono preziose e importanti. Sono d'accordo con l'affermazione che i tecnologi sociali hanno un ruolo molto importante per il collegamento tra cittadini, politici e dipartimenti della città, così come con il mondo accademico, industriale e privato.

- Ritiene che il paradigma Smart City odierno possa risultare di successo o ritiene che altri paradigmi come Felicity, Green Cities or Transition Towns possano essere più affini alla società di oggi?
  
Il paradigma Smart City è considerato a volte come una parola mistica. Molte definizioni sono state scritte per la domanda: che cosa è realmente Smart City. La letteratura è enorme. Diversi esperti e scienziati la definiscono da diverse angolazioni. Smart City è ancora un nuovo termine che deve essere sperimentato, analizzato e dimostrato in molte altre città per consentire la pianificazione su migliori linee sia tecnologiche, che economiche, sociali e orientate al cittadino. La maggior parte delle città intelligenti oggi si definiscono come tali a causa di uno o due elementi come città verde, una città TOD, city bike, ecc. Una città deve funzionare completamente per essere chiamata "Smart City" e ha bisogno di essere costruita attorno a più caratteristiche "intelligenti", come governance, istruzione, economia, diritti umani, alto grado di responsabilità e di trasparenza verso i suoi cittadini.

- Ultimi pensieri: brevi impressioni su SCEW 2014 e, in generale, sul mondo delle Smart Cities. Pensa che le Smart City stiano andando in una buona direzione a livello globale? C'è qualcosa da migliorare?
  Per me è la seconda volta a partecipare alla SCEW. Penso che l'evento contenga una straordinaria opportunità per i sindaci, il personale delle città, le imprese ICT, le comunità, gli urbanisti, gli ambientalisti, i pianificatori sociali, i policy makers, e i CEO e CIO per incontrarsi, discutere, e di raccogliere conoscenze, nuove esperienze, nuove idee da condividere e studiare con migliaia di professionisti, visitatori e ospiti. Quindi l'evento ha un alto e importante valore e impatto.
Vorrei suggerire l'allocazione di più tempo per workshops (e non solo le plenarie e conferenze) per consentire ai partecipanti di discutere le questioni sulle città approfonditamente e uscire con risposte più complete e olistici. Vorrei proporre agli organizzatori di creare una società di consulenza internazionale dei cosiddetti "Smart City Experts", che saranno in grado di assistere e aiutare le città di tutto il mondo per sviluppare città intelligenti in conformità con le condizioni in ogni location.
Non vedo l'ora che arrivi SCEW 2015 sperando che sia molto più grande portata e dimensione, più attraente e più incentrato con un focus sui cittadini.

(Tech Economy, 7 gennaio 2015)


Hamas è contro le visite a Gerusalemme e alla spianata delle moschee

GAZA - Hamas si oppone alle visite di arabi e musulmani a Gerusalemme e alla spianata delle moschee. Il movimento lo ha annunciato oggi con un comunicato inviato via mail, spiegando che "queste visite sono considerate una normalizzazione dell'occupazione israeliana mentre la città è ancora sotto questa occupazione". Il comunicato di Hamas afferma che "la liberazione di Gerusalemme e della spianata è un compito di ogni arabo e di ogni musulmano nel mondo. Questa liberazione deve essere compiuta attraverso la Jihad (la guerra Santa) e la resistenza". Nel frattempo Sami Abu Zuhri, portavoce di Hamas a Gaza, ha criticato il presidente palestinese Mahmoud Abbas per aver deciso di ripresentare una bozza di risoluzione al Consiglio di sicurezza per porre fine all'occupazione israeliana.

(LaPresse, 6 gennaio 2015)


Con quale stato Israele dovrebbe accordarsi e fare la pace? Con quello di Ramallah o con quello di Gaza? E quale Stato “riconoscono” le nazioni che hanno già provveduto al “riconoscimento” dello “Stato di Palestina” o ci stanno seriamente pensando? E’ vano sperare di ottenere risposte chiare a queste domande, perché chi “riconosce” la Palestina, quella di Gaza come quella di Ramallah, riconosce una cosa fondamentale che certamente le accomuna entrambe: la voglia più o meno espressa di veder sparire Israele. E poiché questa è anche la voglia di molte altre nazioni che dicono sempre di amare la pace, soltanto la pace, null’altro che la pace, è del tutto normale che il riconoscimento della Palestina avvenga in misura sempre maggiore. E’ un riconoscimento reciproco. Le nazioni si riconoscono tutte nel medesimo odio: quello contro Israele. M.C.


"Il Qatar dà lo sfratto a Khaled Meshaal". Ma Hamas nega

Tra eventuali nuove sedi o la Turchia o l'Iran.

di Aldo Baquis

Khaled Meshaal con l'Emiro del Qatar
Le "buone intenzioni" di Meshaal
Sembra volgere al termine il soggiorno in Qatar del capo dell'ufficio politico di Hamas, Khaled Meshaal. Secondo alcuni media l'ordine di espulsione è già stato emesso, ma Hamas per il momento nega. Fonti di Hamas a Gaza assicurano che Meshaal è ancora a Doha, con la famiglia.
Eppure corre voce che stia effettivamente cercando un altro paese che lo ospiti: la Turchia è una possibilità, anche l'Iran non viene escluso. Il ministero israeliano degli esteri già si congratula per questi sviluppi. ''Nell'ultimo anno - si legge in un comunicato - abbiamo compiuto diverse mosse, direttamente ed indirettamente, per indurre il Qatar a compiere questo passo e a cessare di fornire aiuti a Hamas''. ''Il ministro degli esteri Avigdor Lieberman e nostri funzionari - prosegue il testo - hanno operato in questo senso attraverso canali pubblici e segreti, con lo stesso Qatar e con altri Paesi''.
Meshaal era stato costretto nel 2011 a lasciare la sua residenza e gli uffici di Damasco a causa della guerra civile divampata in Siria. Pur mantenendo un atteggiamento neutrale verso quel conflitto, il cuore della base di Hamas palpitava allora per gli oppositori di Bashar Assad.
Poi la leadership di Hamas ha subito i contraccolpi degli avvenimenti in Egitto: ha prima gioito per i successi dei Fratelli musulmani, ma è poi caduta in disgrazia con il nuovo esecutivo di Abdel Fatah al-Sisi. Per il Cairo infatti Hamas è una organizzazione che fiancheggia attivamente i terroristi islamici attivi nel Sinai, e sempre più di frequente in territorio egiziano. Hamas assicura di non aver mai interferito nelle questioni interne dell'Egitto: ma al Cairo Khaled Meshaal non è persona gradita.
Di recente Egitto e Qatar hanno normalizzato le loro relazioni, dopo un lungo periodo di ostilità. Ed è in questo contesto che arrivano oggi le notizie relative allo 'sfratto' di Meshaal. A Gaza i dirigenti locali di Hamas preferiscono mantenere un profilo basso e si astengono dal biasimare i dirigenti di Doha che peraltro, viene notato, stanno ancora generosamente finanziando alcuni progetti di ricostruzione nella Striscia. Gli osservatori locali rilevano che ancora di recente Hamas ha inviato in Iran una delegazione ad alto livello e che Meshaal è stato accolto con calore in Turchia. Israele segue questi sviluppi da vicino. ''Ci congratuliamo con il Qatar - afferma il ministero degli esteri - e ci aspettiamo del governo turco che ne segua l'esempio''.

(ANSAmed, 6 gennaio 2015)


Il grido di dolore di Gaza: liberateci da Hamas (intervista)

Una intervista a un imprenditore palestinese che ha partecipato a un corso a Tel Aviv ci rivela quello che i media non ci dicono sulla situazione a Gaza. E' un vero e proprio grido di dolore rivolto all'occidente e ai paesi arabi affinché aiutino la gente di Gaza a liberarsi di Hamas.

Muhmad Kader è un imprenditore palestinese residente a Ramallah che lo scorso dicembre ha partecipato al corso organizzato a Tel Aviv dalla Amministrazione Civile israeliana riguardante le tecniche per implementare il business in Palestina. Il corso, in tutto otto sedute, ha visto la partecipazione di diversi imprenditori palestinesi del settore alimentare, turistico ed edilizio.
«Il corso è stato molto istruttivo e professionale - ha detto Muhmad Kader al sito di Cogat (Coordination of Government Activities in the Territories) - e questo è estremamente rilevante per le esportazioni palestinesi e per stabilire una partnership continuativa con Israele. Può aiutare moltissimo l'economia palestinese e portare finalmente un po' di pace». Le bellissime parole di Muhmad Kader dimostrano che c'è un'altra Palestina che guarda avanti rispetto a quella che purtroppo siamo abituati a vedere....

(Right Reporters, 5 gennaio 2015)


Dieci buone pratiche per il 2015

di Jonathan Sacks, rabbino

Dieci suggerimenti per il 2015. Suggerimenti fortemente intrisi di valori etici, spirituali e religiosi perché le grandi religioni, viene spiegato, "sono il nostro più importante tesoro sapienzale". A proporli il rav Jonathan Sacks, ex rabbino capo di Gran Bretagna e del Commonwealth e tra le voci più autorevoli dell'ebraismo mondiale.

Ringrazia - Una volta al giorno prenditi del tempo per ringraziare per quello che hai e non avere la smania di ottenere quello che non hai. È un tassello per raggiungere la felicità: gran parte di noi ha infatti tutti gli ingredienti per arrivare a questo risultato, solo che tendiamo a darli per scontati concentrandoci maggiormente sui desideri non realizzati. Ringraziate, piuttosto che fare shopping. È anche più economico.

Loda - Quando qualcuno fa qualcosa di giusto, faglielo notare. La maggior parte delle persone, la maggior parte del tempo, è scarsamente apprezzata. Ricevere un segnale, una parola di gratitudine, un complimento, è una delle esperienze più belle che possano esserci. Non aspettare che qualcuno lo faccia per te, fallo per qualcun altro. Renderai la sua giornata speciale e questo aiuterà a rendere speciale anche la tua.

Trascorri del tempo con la famiglia - Fai in modo che ci sia almeno un momento, nella settimana, in cui poter condividere una cena senza distrazioni esterne - televisione, cellulare, e-mail. Tutti insieme, contenti della compagnia l'uno dell'altro. I matrimoni felici e le famiglie sane hanno bisogno di momenti come questo.

Dai un senso alle cose - Prenditi del tempo, una volta ogni tanto, per farti le seguenti domande: "Perché sono qua? Quali risultati spero di ottenere? Come posso utilizzare al meglio le mie qualità? Cosa mi auguro che si dica di me quando non sarò più qua?". Dare un senso alle cose è essenziale per una vita piena. E come trovarlo se non si guarda mai? Se non sai dove vuoi essere, non ci arriverai mai.

Vivi i tuoi valori - La maggior parte di noi crede in valori importanti, ma agiamo nel loro solco solo sporadicamente. La cosa migliore da fare è stabilire alcune pratiche che ci permettano di correggere il tiro. Le religioni li chiamano "rituali".

Perdona - La vita è troppo breve per portare rancore o cercare vendetta. Perdonare qualcuno è positivo sia per chi è perdonato sia per chi perdona.

Non smettere di imparare - Ho imparato questo dalla signora Florence, in occasione del suo 105esimo compleanno. Era così piena di energia e divertimento. "Qual è il tuo segreto?" le ho chiesto. "Non aver paura di imparare sempre qualcosa di nuovo". La sintesi è che se hai questo spirito puoi avere 105 anni ed essere ancora giovane. Al tempo stesso puoi averne 25 ed essere già vecchio.

Impara ad ascoltare - Spesso, in una conversazione, trascorriamo metà del nostro tempo pensando a cosa vogliamo dire dopo piuttosto che a prestare attenzione a quello che il nostro interlocutore ci sta dicendo. La capacità di ascolto è uno dei più grandi doni che possiamo dare agli altri. Significa che siamo aperti al confronto, che prendiamo seriamente quello che ci viene detto e che accettiamo di buon grado il dono della parola che è stato dato al nostro interlocutore.

Lascia uno spazio al silenzio - Liberati, fosse anche solo per cinque minuti al giorno, dalla tirannia tecnologica, del cellulare, del computer. E respira l'aria inebriante della vita, la gioia di esistere.

Trasforma il dolore - Le più straordinarie persone che conosca - persone sopravvissute a traumi molto forti, dai quali sono usciti rafforzati - non si sono chieste "Chi mi ha fatto questo?" ma piuttosto: "In questa nuova situazione, cosa posso fare che non ho mai tentato prima?" Si sono rifiutate di diventare vittime delle circostanze. E sono diventate ambasciatrici di speranza.

(moked, 6 gennaio 2015 - trad. Adam Smulevich)


Scandalo negli Usa: esce un atlante senza Israele

Avevamo già riportato questa notizia, riprendendola da un breve articolo di Repubblica del 3 gennaio; il commento di Fiamma Nirenstein qui riportato ne rende meglio l’aspetto vergognoso e inquietante. NsI

di Fiamma Nirenstein

 
Israele dovrebbe essere qui
Se non esisti, non puoi fare la pace. Se non esisti tutti quegli alberi, quelle arance, quei frutti nati da un deserto che mai aveva prodotto un solo germoglio, quelle medicine per le malattie peggiori, tutte quelle invenzioni che permettono ai telefonini e ai computer di perfezionarsi, quelle squadre di pallacanestro, quei premi Nobel per la fisica, la matematica, la letteratura, quei ragazzi che vanno a ballare a Tel Aviv fino a notte tarda, quei pellegrini che da tutto il mondo mettono un biglietto che dice «Caro Dio» nelle fessure Muro del pianto, tutte quelle ragazze soldato, stanche morte e con la treccia mezza sfatta, e tutti quei sopravvissuti all'Olocausto che hanno finalmente trovato una casa e una speranza, i nuovi immigrati dalla Francia che lasciano dietro il nuovo antisemitismo... se non esisti, come mostra sulle sue carte l'Atlante «prodotto specificamente per il Medio Oriente» da Harper Collins tutto questo diventa polvere, distruzione, un film di cattiva fantascienza.
   L'enorme casa editrice ha consentito alla sua sussidiaria Collins Bartholomew nel maggio dell'anno scorso, di produrre un vile, opportunistico Atlante Geografico Primario per il Medio Oriente da cui Israele, hocus pocus, è sparito, proprio come voleva Ahmadinejad quando diceva: «Cancelleremo Israele dalla carta geografica». Harper Collins l'ha fatto: mentre appaiono Gaza, il West Bank, la Siria, la Giordania, il Libano, essi si mangiano e digeriscono lo Stato d'Israele. Così una casa editrice suggerisce di accettare di fatto la versione corrente presso i palestinesi (perché questo è anche presso Fatah: l'idea che gli ebrei hanno messo il naso a Gerusalemme per la prima volta qualche anno fa non per tornare a casa ma per violentare il mondo arabo) che Israele è uno Stato fittizio creato dalla fantasia imperialista e colonialista, e che manca poco alla sua cancellazione.
   Peccato che Harper Collins, il cui quartier generale ha sede a New York, sia la maggiore casa editrice in lingua inglese del mondo, pubblichi in 150 Paesi, abbia fatto 400 bestseller nel 2014, abbia 20 milioni di visite sul sito web. Peccato, perché se uno è così grosso e sicuro di sé non dovrebbe avere paura della verità, e quindi non dovrebbe trovarsi a piatire scuse mentre annuncia da Londra di aver rimosso il libro dalle vendite (ma giovedì era ancora su Amazon) spiegando di aver agito secondo le «preferenze locali». Ovvero di avere agito secondo diffuse preferenze genocide.
   Di fatto, sono anni che nel mondo arabo si producono, si imparano nelle scuole, si espongono negli uffici governativi mappe che disegnano la Palestina al posto di Israele. I palestinesi per primi ne fanno dipinti, manifesti, testi scolastici ovunque, regalano Israele travestito da Palestina ai capi di Stato in visita, lo mostrano senza posa alla tv, nelle scuole di Stato e dell'Unrwa. In Arabia Saudita in ottobre a una gara di canto i due cantanti arabo-israeliani erano stati presentati, come tutti, con alle spalle la mappa del loro Paese d'origine, Israele: una rivoluzione politica ha prodotto la cancellazione immediata. Ma anche la Cnn ha presentato mille volte mappe senza Israele; Connect , la rivista della famosa London School of Economics è uscita nello stesso modo; alla San Diego University a una lezione di arabo è stata distribuita la mappa del Medio Oriente proprio come la avrebbe voluta Arafat. Una nuova mostra di mappe fatte da bambini in Libano cancella Israele, ed è finanziata da una Ong norvegese.
   Harper Collins deve aver pensato che non gli sarebbe costato niente obliterare dalla sua prestigiosa carta un Paese che è di moda considerare un'«entità» da distruggere, magari mentre si usa Google, invenzione israeliana.

(il Giornale, 6 gennaio 2015)


Gli hipster in Israele sono ridicoli, parola di Naftali Bennett

di Francesca Barca

Naftali Bennett è un politico israeliano, attuale Ministro dell'Economia e dei Servizi Religiosi che, a quanto pare, non ama gli hipster
“hipster", termine nato con la beat generation, usato per indicare un appassionato di jazz indifferente alla politica. La parola è formata da hip 'aggiornato, all'ultima moda, moderno' con il suffisso -ster che serve in inglese a indicare l'agente, chi fa qualcosa. Quindi il significato nell'insieme diventa: 'chi si tiene aggiornato, all'ultima moda, chi segue la moda, tipo di 'giovane anticonformista, caratterizzato da un particolare look fatto di capi d'abbigliamento della moda della seconda metà del Novecento con alcuni tratti di novità (occhialoni da vista, cappellino con visiera alzata)'.
e, soprattutto, pensa che siano particolarmente di sinistra, o quanto meno molto impegnati in politica. Forse in Israele?

Con l'approssimarsi della campagna elettorale (le elezioni legislative in Israele si terranno il prossimo marzo) Bennett ha messo on line un video dove attacca la sinistra israeliana "travestito", appunto, da hipster. Lo segnala Courrier International.
   Il video è in ebraico, ma è di facile interpretazione. Bennett ha una barba posticcia, camicia a quadri, cappellino, occhialoni e pantaloni sopra alla caviglia. E naturalmente un cane. Ad ogni incidente che gli capita (una cameriera rovescia il suo caffé, oppure una macchina lo tampona) Bennett reagisce scusandosi (slikha in ebraico), ripetutamente, nonostante non avesse nessuna colpa per quanto avvenuto. Verso la fine Bennett legge un articolo che chiede a Israele di scusarsi per i morti della Freedom Flotilla (9 persone rimasero uccise), lui commenta mesto, "sì, è vero".
   Al termine del filmato Bennet si toglie il travestimento e apostrofa gli spettatori con "a partire da questo momento smettiamola di scusarci".
   Spiega Le Monde, citando Ynetnews che lo scopo de video è quello di "ridicolizzare il comportamento della sinistra israeliana (gli hipster secondo lui, ndr) che, di fronte al conflitto israelo-palestinese, e nella politica estera più in generale, non fa altro che scusarsi".
New Repubblic sostiene che il video rappresenti un attacco alla "Tel Aviv Bubble", ovvero tutti quegli israeliani che vivono la loro vita lontano dal conflitto israelo-palestinese e che credono che Israele abbia delle colpe, o debba fare ammenda, per il suo comportamento nel conflitto israelo-palestinese . Questo tipo di israeliano è, nell'analisi di New Repubblic, debole e femminilizzato, contrapposto all'immagine di forza di Bennett e del suo partito, che incarnano l'ideale sionista.
   Bennett, giovane (classe 1972) e milionario (ex imprenditore che ha deciso poi di consacrarsi alla politica), non è uno che ci va leggero: a lui si devono l'affermazioni come "Non puoi insegnare a una scimmia a parlare, così come non puoi insegnare ad un arabo ad essere democratico" (New Yorker, 2004), o ancora "Mentre voi stavate ancora sugli alberi noi qui avevamo già costruito uno Stato Ebraico", rivolto a un membro arabo della Knesset. Ora, per esempio, è sotto attacco per la sua partecipazione come giovane ufficiale all'Operazione Grappoli d'Ira (Lebano, 1996), nella quale è accusato di aver causato la morte di civili libanesi.
   Naftali Bennett è il leader della HaBayit HaYehudi (La Casa Ebraica), un partito di destra e religioso che ha una visione molto chiara della politica estera di Israele: chiede, infatti, l'annessione del 60% della Cisgiordania e il controllo di Israele sulle parti restanti del territorio palestinese.
   Jeff Barak, ed direttore del Jerusalem Post, legge questa campagna (e questo video) come un tentativo, per Bennett, di svecchiare l'immagine della HaBayit HaYehudi. Secondo Barak, Bennett è una "delle più grandi minacce per un futuro Stato di Israele ebraico e democratico" perché "vista la pressione internazionale dovuta al riconoscimento simbolico della Palestina da parte di alcuni Paesi, l'atteggiamento oltranzista di Bennett rischia di isolare Israele", che invece ha bisogno di sostegno all'estero.

(AgoraVox Italia, 6 gennaio 2015)


“... l'atteggiamento oltranzista di Bennett rischia di isolare Israele". E’ come se nella Germania dei primi anni '40 ad un ebreo che esorta gli altri a reagire in qualche modo all’oppressione nazista, fosse risposto: “Ma guarda che così facendo rischiamo di farci emarginare”. M.C.


Naar, Israele, Gerusalemme ed El Al fanno sistema

Festeggiato con un evento congiunto rivolto al trade, il recente accordo di collaborazione.

 
Maurizio Casablanca                                                             Avital Kotzer Adari
È stato festeggiato con un evento congiunto rivolto al trade, il recente accordo di collaborazione siglato da Naar Tour Operator e l'Ufficio nazionale israeliano del Turismo, con il supporto della Municipalità di Gerusalemme e di El Al Israel Airlines. "É stato un grande piacere condividere la realizzazione della cover Israele della nostra app 'World Wide' con gli amici dell'Ente del turismo, della Municipalità di Gerusalemme ed El Al - dichiara Maurizio Casabianca, direttore commerciale e marketing dell'operatore -. Si arricchisce così la nostra programmazione e il contenuto di questo strumento nuovo, in linea con le attuali modalità di comunicazione e di acquisto, che sposa, direi in maniera vincente, la volontà della destinazione di allargare il target consumer ed evidenziare caratteristiche e plus spesso poco raccontate. Siamo quindi fiduciosi e convinti nell'investire su Israele, soprattutto in questo momento, per iniziare a raccogliere le prime soddisfazioni a partire dalla prossima primavera". Nello specifico, il prodotto è stato impostato e sviluppato dal t.o. con l'intenzione di proporre al mercato altro rispetto al solo ambito religioso. "Abbiamo quindi deciso di impostare i City Break di Tel Aviv e Gerusalemme suddividendoli per tema, ovvero cultura, enogastronomia, famiglia e arte&design, così da far conoscere il Paese sotto altre ottiche, spesso sconosciute al viaggiatore - specifica la product manager Gaia Parmigiani -. Per ogni segmento, abbiamo scelto hotel che si accordino con il tema proposto e abbiamo dato suggerimenti per attività, visite e ristoranti che il cliente sceglierà autonomamente in loco". Positive anche le valutazioni raccolte dall'Ente nazionale israeliano del Turismo in merito a questo progetto di partnership. "Siamo molto felici dell'inizio di questa collaborazione che siamo sicuri porterà splendidi risultati in termini di maggiore conoscenza e viaggiatori verso Israele - ha commentato Avital Kotzer Adari, direttore Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo -. Per la prima volta l'Ufficio del Turismo di Israele e Naar hanno firmato un accordo di marketing per promuovere la nostra destinazione, segno eloquente e di cui siamo orgogliosi, che il mercato italiano ha una grande fiducia verso Israele, meta sempre più leisure e legata ad aspetti variegati come food and wine, sport, benessere, cultura, art and design, nightlife e spiritualità. Quello realizzato nei giorni scorsi è solo il primo di una serie di eventi ed attività che ci porteranno in giro per l'Italia per far conoscere il nostro Paese con il particolare stile di Naar e la sua innovativa applicazione dedicata ad Israele". La collaborazione tra il t.o. e l'ente si è concretizzata grazie anche al decisivo contributo della Municipalità di Gerusalemme ed El Al Israel Airlines, compagnia aerea di bandiera di Israele.

(Guida Viaggi, 6 gennaio 2015)


I fantasmi di Houellebecq

Il nuovo libro dello scrittore francese, "Sottomissione", fa discutere ancora prima di arrivare in libreria. Tratteggia il domani di un'Europa dominata dall'Islam radicale e fondata su una famiglia poligamica. È la denuncia di un continente esausto, ridotto a credere solo nella totale mercificazione. Si ipotizza una sudditanza esattamente opposta al nostro miglior progetto di civiltà.

di Giorgio Israel

Quel che descrive il romanzo Sottomissione di Michel Houellebecq (attraverso il caso francese) è la storia recente, presente e futura dell'Europa come una gigantesca eterogenesi dei fini. Come altrimenti definire una lotta per i diritti della donna, contro il pregiudizio a favore del matrimonio "tradizionale" che sfocia nella tolleranza nei confronti di una famiglia centrata sul maschio, poligamica e omofobica?

LE DIVERSITÀ
Come altrimenti definire una difesa dei diritti delle "diversità" che finisce col legittimare una società comunitarista divisa in frammenti separati entro cui la "tolleranza" accetta il predominio dell'integralismo a costo di subire il suo predominio globale? Già, perché l'unica cosa che la tolleranza politicamente corretta dell'Europa di oggi non tollera sono i principi di cultura politica su cui ha costruito la propria civiltà.
Il libro di Houellebecq si inserisce in Francia nel contesto di una pubblicistica non soltanto di narrativa fantastica (nel solco di Orwell o Huxley) ma saggistica, con autori come Alain Finkielkraut, Éric Zemmour e Michel Onfray. Quest'ultimo, alla domanda di un intervistatore che parla di agitazione di un "fantasma" dell'islam radicale risponde che già ricorrere alla parola "fantasma" è assumere una posizione ideologica, derubricare a "fantasmi" realtà attestate dalle statistiche, oppure a derubricare a disturbi mentali isolati fatti come quegli individui che lanciano l'auto sulla folla al grido di "Allah Akbar" o i convertiti che vanno a combattere nelle file dell'Isis. Il politicamente corretto indica questi "fantasmi" come espressione di fascismo e razzismo, figli dell'odiato "essenzialismo" della cultura occidentale, e consegna chi li considera come fatti reali all'area della reazione e del "populismo" (parola che non significa nulla salvo che un marchio dispregiativo).

NICHILISMO
Questo libro è l'ennesima denuncia di un'Europa esausta, un basso impero ridotto a credere solo nella mercificazione totale, nel feticismo delle tecnologie, nel governo delle tecnocrazie, dominato da un relativismo nichilista e da un "odio di sé" che, dei principi etici, conserva soltanto la tolleranza dei modi di vita e dei principi altrui. Si può dissentire da questa analisi e dalle prospettive catastrofiche cui conduce, ma sarebbe intellettualmente disonesto non misurarsi con i fatti, anziché agitare slogan politicamente corretti, a mo' di esorcismi. L'immagine evidente dello sfascio è lo stato in cui è ridotta la cultura politica del continente: mera tecnocrazia, conteggi di parametri, feticismi tecno-burocratici, fino a ridurre anche l'istruzione e la cultura a una faccenda di parametri. Intanto, intorno c'è un modo che preme, mosso da moventi di tutt'altra natura. Per anni ci si è addormentati sulla credenza che il consumismo, con il suo potere di seduzione, avrebbe sgretolato l'integralismo. Ora si assiste al fallimento di tale credenza, ma non si ha il coraggio di ammetterlo.
Il dibattito che, soprattutto in Francia, sta prendendo forza su questi temi, tocca la questione nodale di come e perché l'Europa si sia ridotta in questo stato.
La tesi di Houellebecq (e Onfray) è che il declino della civiltà giudaico-cristiana sia iniziato con il Rinascimento, con l'attacco antireligioso dell'illuminismo e della rivoluzione francese, fino al '68 che ha semplicemente registrato lo sfascio finale.

REAZIONE
Ma vi sono altri punti di vista in campo, meno semplicisti, e assai più convincenti. In qualche modo, si tratta del contrario, e cioè del fallimento del tentativo di conciliare la tradizione della religiosità occidentale con la modernità, che pure era uno dei progetti più brillanti della cultura europea. Si pensi al modernismo religioso e ai movimenti illuministici ebraici: entrambi duramente emarginati. È un fallimento in cui vi sono responsabilità da entrambe le parti. Chi può rimpiangere le chiusure bigotte di certo integralismo religioso di marca europea e i veleni violenti e intolleranti che ha messo in circolazione? La reazione contro questi veleni e queste chiusure ha avuto il torto di gettare il bambino con l'acqua sporca, di credere che una società possa basarsi solo su principi tecnoscientifici, ignorando la dignità e l'autonomia della sfera morale. Ma la tecnoscienza non può avere le spalle abbastanza larghe da accollarsi questa sfera, se non distruggendola, e cioè usando la scienza come un martello ateistico, un mezzo di distruzione delle religioni - beninteso solo di quelle della propria tradizione, come impone il principio di tolleranza degli "altri". Il guaio è che questi "altri" non hanno difficoltà a rifarsi a un modello che viene direttamente da concezioni medioevali apertamente irrazionaliste: la scienza e tecnologia vanno bene, è sacrosanto approfittarne purché non interferiscano col dominio della verità che è di esclusiva competenza della fede, la quale sola detta autoritativamente i principi della convivenza sociale. Il futuro previsto da Houellebecq è che l'Europa, squagliandosi tra cinismo, "tradimento dei chierici" e feticismo dei parametri, finirà in una "sottomissione" opposta al suo migliore progetto di civiltà, quello della democrazia basata su una sintesi di conoscenza razionale e di principi morali.

(Il Messaggero, 6 gennaio 2015)


Emu in fuga per le strade vicino a Tel Aviv: supera le auto e passa con il rosso

Un emu può correre più veloce delle auto? A quanto pare sì, almeno stando alle riprese di alcuni automobilisti alla periferia di Tel Aviv che si sono visti sfrecciare di fianco, su una strada a scorrimento rapido nei pressi della città israeliana di Herzliya, un emu evidentemente un po' confuso. Gli autisti sono rimasti letteralmente a bocca aperta quando hanno visto il pennuto farsi largo in mezzo al traffico a circa 50 chilometri all'ora, ovviamente incurante dei rossi. Sembra che l'emu, poi catturato nei pressi del centro commerciale Shivat HaKochavim, sia fuggito da una fattoria vicina e che alla fine sia stato restituito ai legittimi proprietari.

(LaPresse, 6 gennaio 2015)


Contatti segreti

Un jet privato fa la spola tra Israele e il Golfo ogni settimana, con molta, molta discrezione. Chi è l'arabo visto con un ministro israeliano in un hotel di Parigi? Chi vola da Tel Aviv ad Abu Dhabi?

di Daniele Raineri

ROMA - In queste settimane ci sono almeno due casi di contatti riservati di alto livello tra israeliani e arabi - due mondi che in teoria sono separati dopo la rottura completa delle relazioni diplomatiche a causa della questione palestinese. Due giorni fa i giornali israeliani hanno scritto che a dicembre il ministro degli Esteri di Gerusalemme, Avigdor Lieberman, ha incontrato un uomo di potere arabo non meglio specificato all'hotel Raphael di Parigi e parlano della presenza di un servizio d'ordine del Mossad, i servizi segreti, nella hall dell'albergo. Lieberman ha tenuto quell'incontro, aggiungono i giornali, all'insaputa del suo primo ministro, Benjamin Netanyahu, e questa notizia è resa ancora più controversa dalla corsa elettorale con scadenza a marzo. E' stato escluso che l'israeliano abbia incontrato il politico palestinese Mohamed Dahlan, che vive in esilio nel Golfo e ora sta tentando una scalata ostile per diventare presidente dell'Autorità nazionale palestinese contro il leader attuale Abu Mazen.
   In un discorso pronunciato a marzo Abu Mazen ha accusato Dahlan di essere fra gli assassini del leader dell'Olp Yasser Arafat e ha tagliato i salari dei circa cento uomini delle forze di sicurezza più vicini al rivale. Dahlan risponde definendolo "dittatore" e dice che quel discorso era "pieno di bugie, di stupidaggini e di ignoranza sulla realtà della Palestina".
   Secondo i media arabi Dahlan sta tessendo la trama politica del suo ritorno. Ha incontrato il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi e ha cercato un'intesa con il gruppo palestinese Hamas che controlla la Striscia di Gaza, dove c'è stata anche una manifestazione di strada a suo favore. Dahlan godeva già di un ampio appoggio all'interno di Fatah - che è la stessa base di potere di Abu Mazen - e potrebbe essere una minaccia per l'anziano leader che nel frattempo s'è infilato in una campagna per portare i vertici israeliani alla sbarra alla Corte penale internazionale dell'Aja con esiti controproducenti (l'America potrebbe tagliargli i fondi).
   C'è un secondo contatto molto discreto. Un jet privato vola tra Tel Aviv e Abu Dhabi (negli Emirati arabi uniti) anche due volte alla settimana, secondo l'analisi dei dati pubblici sui voli internazionali in medio oriente. La notizia è stata data a dicembre dal quotidiano israeliano Haaretz, che però non ha specificato la destinazione e ha scritto "uno stato del Golfo". Il sito Middle East Eye ha ripreso la questione e ha chiesto al giornalista israeliano perché non scrive la rotta esatta, e quello ha risposto di non potere scendere in dettagli.
   Il volo è operato dalla linea privata PrivatAir, con sede a Ginevra. Lascia l'aeroporto Ben Gurion con destinazione ufficiale Amman, in Giordania (uno dei pochi paesi arabi ad avere relazioni diplomatiche con Israele), ma non compare sulla lista ufficiale degli arrivi, perché fa una breve sosta e poi prosegue per l'aeroporto internazionale di Abu Dhabi, dove però non compare tra gli arrivi (o perlomeno non compare sulla lista ufficiale sul sito). L'aereo è stato comprato specificamente per questa tratta, considerato che ha cominciato a viaggiare due giorni dopo l'acquisto, e ha una capacità di 56 posti, di cui otto sono di prima classe con due tavolini. La rotta attraversa lo spazio aereo di Arabia Saudita, Bahrein e Qatar e non c'è modo che questi paesi non sappiano cosa sta succedendo.
   Il sito Middle East Eye prova a spiegare la ragione del viaggio con un grande contratto da 800 milioni di dollari tra l'israeliana Agt International e Abu Dhabi per la fornitura di sistemi di sorveglianza sofisticati come sensori, telecamere di sorveglianza e barriere elettroniche. L'azienda si avvale della collaborazione di decine di ex appartenenti alle forze di sicurezza israeliane. A richiesta del sito, non ha voluto fare commenti sui quei voli.
   Israele e i paesi arabi del Golfo da qualche anno si trovano su un fronte comune contro gli stessi nemici, l'Iran e l'estremismo tendenza Al Baghdadi, e questo clima emergenziale favorisce le intese, anche se discretissime.

(Il Foglio, 6 gennaio 2015)


Guida ai luoghi del culto e della tradizione ebraica in Italia

di Elena Lattes

 
Fra alti e bassi, accoglienza e collaborazioni da una parte, e persecuzioni dall'altra, la presenza ebraica in Italia conta oltre due millenni. Le prime tracce ufficiali, infatti, risalgono al secondo secolo prima dell'era cristiana, ma probabilmente già da cento cinquant'anni prima gli ebrei avevano cominciato a stabilirvisi.
Una storia, quindi, molto antica, ma anche attuale che ha prodotto cultura, ha influenzato le realtà circostanti e da queste ha assorbito condizionamenti importanti.
I reperti archeologici più antichi si trovano forse negli scavi di Ostia Antica, dove si possono ancora ammirare mosaici e strutture portanti di vari ambienti per un'area complessiva di oltre 800 metri quadrati, ma importanti comunità si formarono durante i secoli in tutte le regioni della penisola, dal nord al sud.
Tutto questo viene magistralmente illustrato e spiegato in "Sinagoghe in Italia guida ai luoghi del culto e della tradizione ebraica" di Franco Bonilauri e Vincenza Maugeri (Editore Mattioli 1885 - collana Viaggi nella storia).
Da un titolo simile ci si aspetterebbe forse un semplice manuale per il turista "fai da te", invece in questo volumetto portatile ma concentratissimo, sintetico ma piuttosto esaustivo, si possono trovare molte informazioni interessanti, e per essere una guida, abbastanza approfondite.
Non è, infatti, un semplice elenco di sinagoghe con la descrizione dei vari elementi architettonici corredato da qualche breve nota storica, ma una vera e propria sintesi della cultura ebraica italiana.
Inizia con una prefazione del Rabbino Alberto Sermoneta dedicata alla genesi e al significato della sinagoga, prosegue poi con un'introduzione sulla storia degli ebrei in Italia, corredata da note di approfondimento sulla lingua ebraica, sul calendario, sulla Torah (ossia il Pentateuco, i primi cinque libri della Bibbia) e l'arte della sua scrittura amanuense, i suoi paramenti e ornamenti, sui momenti salienti della vita di un ebreo (la nascita, la maggiorità religiosa, il matrimonio), sulla musica e il canto in sinagoga. Un glossario divide questa prima parte dalla terza, la vera e propria guida.
Quest'ultima è a sua volta suddivisa in regioni e, partendo dal Piemonte, si arriva seguendo un preciso e dettagliato, itinerario alla Sicilia. Ogni regione viene introdotta da una cartina e da note storiche generali. Partendo poi, dal capoluogo, prosegue per i centri più piccoli, illustrando dettagliatamente l'architettura, non soltanto dei luoghi di culto propriamente detti, ma anche dei musei, dei ghetti, là dove vennero istituiti dai vari governanti per segregare e discriminare gli ebrei, e delle particolarità che si possono trovare nella zona circostante.
In alcuni casi sono presenti citazioni letterarie o descrizioni di usi e costumi tipici locali, in altri vengono menzionati i pittori e gli artisti che hanno contribuito alla realizzazione di opere d'arte o hanno inaugurato nuovi stili.
In carta patinata e con cartine geografiche e bellissime illustrazioni a colori, è un libro utile non solo per chi vuole viaggiare o per chi è interessato all'arte dei luoghi di culto, ma anche a tutti coloro che vogliono conoscere qualcosa in più dell'ebraismo, anche là dove ormai non c'è più la presenza di una comunità o dove, dopo oltre quattro secoli, si va lentamente riformando.

(Agenzia Radicale, 6 gennaio 2015)


Restituzione dei dottorati cancellati dal nazismo

L'università polacca di Breslavia riabiliterà simbolicamente 262 accademici perseguitati.

Un gesto simbolico, per riabilitare la memoria di centinaia di accademici perseguitati dai nazisti: l'università polacca di Breslavia ha annunciato l'intenzione di voler restituire a 262 persone, in gran parte di religione ebraica, il titolo di dottorato cancellato durante il nazismo. Lo ha reso noto un portavoce dell'università, spiegando che il prossimo 22 gennaio si terrà per l'occasione una cerimonia ufficiale.
La riabilitazione potrà tuttavia avvenire solo simbolicamente, dal momento che l'università di Breslau (nome tedesco di Breslavia), che allora aveva conferito i titoli accademici, non esiste più dal 1945. I riconoscimenti erano stati cancellati negli anni '30 a coloro che si erano opposti al nazismo.

(Ticino News, 6 gennaio 2015)


Israele, una nuova app fa viaggiare tra i tesori archeologici

Per i bambini dai 7 agli 11 anni una suite di giochi su trenta livelli

I manoscritti del Mar Morto, una delle più importanti scoperte archeologiche del XX secolo, ma anche la Genesi, il racconto della creazione, i Dieci Comandamenti, i Salmi e altri 2000 antichissimi documenti. L'Israel Antiquities Authority ha lanciato la sua prima applicazione gratuita, Dig Quest, con giochi di archeologia e puzzle per bambini.
La nuova app, che introduce i bambini dai 7 agli 11 anni all'archeologia con una suite di giochi su trenta livelli, con bellissimi manufatti del tesori nazionali della Israel Antiquities Authority, trasforma l'iPhone o l'iPad in uno piccolo "strumento archeologico" e permette di giocare per affinare le proprie competenze, scoprire significati segreti, risolvere enigmi.
I giochi sono stati sviluppati in collaborazione con il team della Israel Antiquities Authority per dare un'idea di quello che gli archeologi fanno e come sperimentano l'emozione della scoperta e la creatività e le competenze coinvolte per risolvere i misteri del passato lontano.
I giocatori potranno scegliere tra due siti di uno scavo e ognuno di essi ha un gioco unico che mette il giocatore al posto di guida e richiede l'utilizzo di differenti competenze diverse archeologiche. La parte sporca deve essere eliminata al fine di scoprire un antico mosaico di epoca romana facendo seguito ad un gioco a quiz per individuare e classificare gli animali e gli oggetti del mosaico. Ogni sito dispone di scoperte che raccontano all'utente la storia dello scavo e dei manufatti scoperti.

(ANSA, 5 gennaio 2015)


Ebreo pestato e preso a sputi a Berlino

Nella capitale tedesca si moltiplicano gli attacchi a sfondo antisemita. Il giovane ebreo aggredito da gruppo di immigrati di etnia turca e araba.

BERLINO - Un israeliano di 26 anni è stato picchiato per aver chiesto a Berlino a un gruppo di giovani non identificati di smettere di intonare canzonette a sfondo antisemita. La vittima dell'attacco, avvenuto nella capitale la notte del 31 dicembre in metropolitana, nel quartiere di Kreuzberg, secondo quanto si apprende oggi, aveva anche filmato i 'balordi', sette in tutto, che cantavano le strofe razziste.
Di fronte alla richiesta di farla finita con gli insulti, il branco ha reagito sputandogli addosso. Lasciata la metro, si legge sul sito della polizia di Berlino che ricostruisce la dinamica dell'accaduto senza fornire dettagli sull'identità della vittima, gli aggressori avrebbero poi intimato al giovane di cancellare la registrazione. E al suo rifiuto lo hanno attaccato con botte e calci. Come riferisce l'edizione online della "Berliner Zeitung", la vittima del pestaggio sarebbero degli stranieri di etnia turca o araba.
Che la vittima sia un cittadino israeliano residente a Berlino è stato più tardi confermato all'Agenzia di stampa italiana ANSA da fonti investigative. Il giovane ha riportato contusioni in diverse parti del corpo e una lacerazione alla testa.
Un altro attacco antisemita risalente allo scorso fine settimana si registra nel quartiere Charlottenburg di Berlino. Sul cofano del motore dell'Audi di una 33enne, parcheggiata in Uhlandstraße, è stata incisa una croce uncinata. A quanto pare l'atto di vandalismo a sfondo antisemita era mirato nei confronti della donna, membro attivo della comunità ebraica di Berlino. La polizia ha aperto un'inchiesta.
Già lo scorso settembre si era registrato nel quartiere di Charlottenburg (Berlino Ovest) un attacco antisemita. Vittima una famiglia di religione mosaica. Sul cofano del motore dell'autovettura, appartenente al padre di famiglia 40enne, era stata incisa una grande croce uncinata. In precedenza giovani e bambini figli di immigrati provenienti dalla Turchia e dal mondo arabo avevano inseguito in strada i figli della famiglia ebraica, presi questi ultimi a sassate.

(tio.ch, 5 gennaio 2015)


Operazione Mosè, 8000 ebrei etiopi salvi in Israele

Si celebra oggi, 5 gennaio, l'Operazione Mosè con cui il governo israeliano fece entrare i Falascia nel Paese per salvarli dalla carestia etiope. A celebrare la memoria, anche il film Vai e Vivrai.

 
Oggi, 5 gennaio, si ricorda l' Operazione Mosè con cui i servizi segreti israeliani permisero ad 8000 falasha, gli ebrei etiopi, di entrare in Israele per salvarsi dalla carestia. Era il 1984, anno di carestia in Etiopia, quando migliaia di ebrei in attesa di un intervento del governo israeliano cercarono rifugio nei campi profughi sudanesi, al fianco di musulmani e cristiani. L'intervento arrivò e, dal 21 novembre 1984 al 5 gennaio 1985, gli aerei della El Al trasportarono segretamente 8000 Falascia in Israele. I voli vennero autorizzati dal governo sudanese ma furono effettuati di nascosto, in piena notte. Purtroppo furono tanti coloro che, cercando di andare via a piedi, trovarono la morte per stenti. Gli stati arabi, essendo venuti a conoscenza dell'Operazione Mosè, costrinsero il Sudan a ritirare l'autorizzazione e così circa 1000 ebrei etiopi restarono in Sudan. A completare la fase di immigrazione arrivò l'Operazione Salomone. Una volta giunti a destinazione, i Falascia venivano controllati con massima attenzione per evitare che vi fossero tra loro eventuali rifugiati non ebrei. I Falascia, a cui i rabbini attribuirono discendenza ebraica da parte della Regina di Saba, vennero inizialmente emarginati perché ritenuti non ebrei e soprattutto portatori di malattie. Questo tipo di distanza tra gli ebrei di Israele e i Falascia va ancora avanti soprattutto sulla questione relativa al loro credo religioso.

(Skuola.net, 5 gennaio 2015)


Israele minaccia altre misure contro l'Autorità Nazionale Palestinese

Israele ha minacciato ulteriori misure di ritorsione contro i palestinesi in risposta alla richiesta di questi ultimi di aderire alla Corte penale internazionale. Secondo diversi osservatori, Israele teme in questo modo di essere chiamata in causa per crimini di guerra.
Nei giorni scorsi il governo israeliano aveva congelato risorse finanziarie palestinesi per un totale di circa 127 milioni di dollari; ieri il primo ministro isrealiano Benjamin Netanyahu ha accusato l'Autorità nazionale palestinese di aver intrapreso un percorso ostile nei confronti di Israele aggiungendo che "non sarà consentito di portare i soldati israeliani di fronte alla Corte penale internazionale dell'Aja".
Il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat ha a sua volta accusato Israele di "pirateria".
Non è chiaro quali ulteriori passi possa prendere Israele contro l'Autorità nazionale palestinese, ma alcuni esponenti dell'entourage governativo hanno ventilato l'ipotesi di uno scioglimento della stessa Autorità o di eventuali contririsposte giudiziarie.
La questione israelo-palestinese sembra dunque essere giunta a un nuovo momento di svolta. Decenni di conflitto e di confronto, non riescono a essere portati a soluzione. I palestinesi, dopo aver ottenuto lo status di osservatore all'Assemblea delle Nazioni Unite, stanno tentando di giocare le carte della diplomazia e della pressione politica; Israele sta rispondendo con le carte politiche a sua disposizione, la forza del suo esercito, il controllo del territorio, lo sfruttamento delle divisioni all'interno degli stessi palestinesi.

(Atlas, 5 gennaio 2015)


La sorpresa è il quartetto di Anat Cohen

Buona musica nonostante la crisi. Successo per l'artista israeliana.

di Franco Fayenz

Anat Cohen
L'edizione invernale di Umbria Jazz ha vinto un'altra volta la sua scommessa - la ventiduesima - con chi, nel 1993, giudicava impossibile il successo di un festival musicale impegnativo nei giorni di Capodanno.
   Parlano le cifre: sempre esaurite le sale dei 120 concerti con 160 musicisti complessivi, 20mila spettatori paganti e buoni incassi. Eppure, anche nella stupenda Orvieto si è avvertita l'eco della crisi generale. E nella struttura del festival sarà bene cambiare qualcosa.
   Hanno prevalso, nel numero e spesso nella qualità i musicisti italiani, oggi in grado di reggere qualunque confronto. Ma non è senza significato che pochi degli «scrittori musicali» presenti al festival si siano accorti che le note migliori sono venute dai recital del Brazilian Quartet riunito dalla clarinettista Anat Cohen con Vitor Gonsalves fisarmonica e pianoforte, Nando Duarte chitarra brasiliana a 7 corde e Sergio «Serginho» Krakowski pandeiro (una sorta di tamburello). Anat, nativa di Tel Aviv, ha 39 anni, è clarinettista e sassofonista meravigliosa, è lontana seguace di Artie Shaw, e in Italia ha rivelato le sue doti proprio fra Perugia e Orvieto. Questa volta si è cimentata al massimo livello con il choro , la musica dell'800 di Rio de Janejro giustamente definita «The New Orleans Jazz of Brazil».
   Per dovere di ospitalità va poi citato il più apprezzato degli altri gruppi stranieri, il quintetto A Love Supreme 50 che si è ricordato del cinquantenario del capolavoro assoluto di John Coltrane. Ha suonato in modo eccellente come ci si attendeva da assi quali Joe Lovano, Chris Potter, Lawrence Fields, Cecil McBee e Jonathan Blake, sebbene chi conosca a memoria l'originale abbia avvertito un filo di noia nel sentirlo allungare e ripetere un tantino troppo.
   Ed ecco gli italiani da porre sugli scudi. Il pianista e compositore Giovanni Guidi con la sua Rebel Band diretta da Dan Kinzelman ha reso un ottimo tributo alla memoria di Charlie Haden, inarrivabile contrabbassista e direttore di grande impegno. Il trombettista Paolo Fresu ha esaltato la nobile formazione del duo, in cui si è avventurato con Omar Sosa, Daniele Di Bonaventura e Danilo Rea (e altrettanto hanno fatto l'altro illustre trombettista Fabrizio Bosso con Julian Oliver Mazzariello e con Luciano Biondini, nonché i due affiatatissimi Giovanni Guidi e Gianluca Petrella); Bosso ha brillato anche con il suo quartetto. Ma poi ecco gli straordinari Doctor 3 - Danilo Rea, Enzo Pietropaoli, Fabrizio Sferra - che gli innumerevoli ammiratori scongiurano di non affliggerli più con lunghi silenzi. E i Quintorigo con Roberto Gatto che hanno offerto la migliore versione jazzy di Frank Zappa fin qui ascoltata; e Danilo Rea con Massimo Moriconi contrabbasso e Tullio De Piscopo batteria che hanno ricordato Renato Sellani: sarebbe stato ancora presente a Umbria Jazz Winter con il suo pianoforte se la morte non lo avesse raggiunto un mese prima.
   Infine: cosa c'è da cambiare nel festival? A nostro avviso, sarebbe preferibile non confinare nell'ultima sera la premiazione-concerto dei vincitori del Top della rivista Musica Jazz ; bisognerebbe almeno contenere la formula ripetitiva dei concerti e preoccuparsi della scomparsa dei punti di vendita discografici e dell'intrattenimento al limite della sbracatura di alcune proposte sonore. Tutto qui, ma non è poco.

(il Giornale, 5 gennaio 2015)


«Il mio violino per la memoria»

Intervista a Francesca Dego. La musicista, 25 anni, suonerà al concerto per non dimenticare l'Olocausto: «Faremo nostre le note scritte nei lager».

di Fabrizio Basso

 
Francesca Dego
LECCO - Francesca Dego, 25 anni di Lecco, suonerà il violino il prossimo 26 gennaio all'Auditorium Parco della Musica di Roma nel Giorno della Memoria. Non è un caso: durante la Seconda Guerra Mondiale, ben 47 componenti della famiglia della musicista sono stati vittime delle persecuzioni antisemite. Per questo, la sua partecipazione al Giorno della Memoria ha un particolare valore: la sua musica diventa una testimonianza. Con lei sul palco si alterneranno Ute Lemper, Roby Lakatos, Myriam Fuks e la voce di Marco Baliani. Il concerto si terrà alla vigilia del Giorno della Memoria, per rievocare i 70 anni dalla liberazione del campo di sterminio di Auschwitz: sarà proposto da Rai5. Poi il 27 gennaio alle ore 11.30, in diretta su Rai l, Francesca Dego, accompagnata da Francesca Leonardi al pianoforte nell'Aula di Montecitorio, si esibirà in presenza di tutte le più alte cariche dello Stato, tra cui il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e il presidente del Consiglio, Matteo Renzi.
   Francesca Dego ha il privilegio di suonare un violino Francesco Ruggeri Guarneri del Gesù ex-Ricci (Cremona 1734) concesso dal "Florian Leonhard Fine Violins" di Londra. Già nel 2014 la Dego era stata chiamata a suonare in questa ricorrenza: «E stato diverso» racconta «perché suonavamo violini trovati nei campi di concentramento. Il prossimo 26 gennaio tutti noi artisti saremo chiamati, invece, a suonare le note scritte nei lager. È un tema che per me ha un significato forte visto che 47 membri della mia famiglia sono morti proprio nei lager, Mia madre è ebrea e a maggior ragione mi auguro che ciò che è accaduto non venga mai dimenticato».
   Il Giorno della memoria è un momento di riflessione che interrompe una quotidianità troppo spesso frenetica: «Bisogna fermarsi a pensare. Bisogna riaprire i libri di storia. Sento spesso parlare di negazionismo, di persone che sostengono che l'Olocausto non sia mai accaduto. Dire che i campi di concentramento non sono mai esistiti equivale a sostenere che la terra è piatta».
   Francesca Dego è considerata dal maestro Salvatore Accardo un talento assoluto. Ha iniziato il suo percorso classico all'età di cinque anni suonando Vivaldi: «La mia famiglia mi ha da subito considerata una enfant prodige ma ha fatto in modo che lo studio fosse un gioco e dunque non mi sono allontanata dal violino. Avevo tanta libertà, ma anche il dovere di applicarmi nello studio. Solo intorno agli 11, 12 anni ho capito che ero vicina a una svolta: chi veniva ad ascoltarmi poteva esprimere giudizi. In pratica, non era più un gioco. Verso il pubblico avevo una responsabilità».
   L'agenda di Francesca è piena fino al 2017, e non è detto che in questo periodo non ritrovi l'orchestra del Carlo Felice: «In passato ho lavorato con loro e riconosco che l'emozione è speciale. L'aria che si respira a Genova è unica». E poi c'è quel Guarneri del Gesù col quale ha inciso i suoi primi "Capricci" di Paganini: «Questo violino, come il Ruggeri, è arte pura: viene da prima di noi e ci sopravviverà», A proposito di Paganini: eseguirà le partiture del genio genovese nel lontano Oriente, in Thailandia: sarà la prima volta che il pubblico di quel Paese incontrerà Paganini. Ora la Dego sta lavorando per far riscoprire il repertorio del Novecento italiano «che è stato abbandonato per motivi storico-politici». Tra gli ultimi lavori della Dego ci sono, infatti, i "24 Capricci" di Paganini e le "Sonate per violino e piano di Beethoven". Prima, però, la chiamata della Storia.

(Il Secolo XIX, 5 gennaio 2015)


Scoperto il luogo dove Pilato si lavò le mani e condannò a morte Gesù

Durante i lavori di scavo in un edificio adiacente alla Torre di David sono emersi resti stratificati: sotto quello che era stato un carcere ai tempi degli ottomani e del mandato britannico, sono apparse le pietre del palazzo di Erode il Grande.

Scavi archeologici hanno ritrovato a Gerusalemme resti di quello che potrebbe essere il luogo dove Ponzio Pilato processò Gesù Cristo. Tutto è cominciato 15 anni fa quando fu deciso di ampliare il museo della Torre di David. Durante i lavori di scavo in un edificio adiacente sono emersi resti stratificati: sotto quello che era stato un carcere ai tempi degli ottomani e del mandato britannico, sono apparse le pietre del palazzo di Erode il Grande.

- Il luogo dove Pilato si lavò le mani
  La scoperta ha riaperto il dibattito storico-religioso sul luogo dove Ponzio Pilato 'si lavò le mani' e lasciò che Gesù Cristo fosse condannato a morte. I Vangeli parlano del pretorio, termine che indica il luogo dove il pretore esercitava il suo potere. Molti ritengono che il sito sia la fortezza Antonia, dove risiedeva Pilato e dalla quale, fin dal 13esimo secolo, parte la processione del Venerdì Santo lungo la Via Dolorosa.
Ma altri sostengono che la sede fosse nel palazzo di Erode. Ne è convinto Shimon Gibson, professore di archeologia all'università di Charlotte in Nord Carolina, secondo il quale il Vangelo di Giovanni descrive un luogo vicino ad una delle porte di Gerusalemme con un pavimento irregolare di pietra. Dettagli che più corrispondono al palazzo di Erode, non lontano dalla porta di Giaffa.

- Sito aperto alle visite
  Secondo David Pileggi, pastore anglicano della Christ Church di Gerusalemme, adiacente al museo, la scoperta archeologica conferma "quanto ci si aspettava, che il processo si svolse vicino alla torre di Davide". Il sito sotterraneo è ora aperto alle visite, con guide attente alla storia cristiana. Ma è ancora presto per capire se diventerà meta di pellegrinaggio religioso o se addirittura verrà mutato il percorso della Via Dolorosa. Nell'era bizantina la processione della Via Crucis partiva non lontano dall'area della Torre di David.

(RaiNews24, 5 gennaio 2015)


Oltremare - Pioggia
Della stessa serie:

“Primo: non paragonare”
“Secondo: resettare il calendario”
“Terzo: porzioni da dopoguerra”
“Quarto: l'ombra del semaforo”
“Quinto: l'upupa è tridimensionale”
“Sesto: da quattro a due stagioni”
“Settimo: nessuna Babele che tenga”
“Ottavo: Tzàbar si diventa”
“Nono: tutti in prima linea”
“Decimo: un castello sulla sabbia”
“Sei quel che mangi”
“Avventure templari”
“Il tempo a Tel Aviv”
“Il centro del mondo”
“Kaveret, significa alveare ma è una band”
“Shabbat & The City”
“Tempo di Festival”
“Rosh haShanah e i venti di guerra”
“Tashlich”
“Yom Kippur su due o più ruote”
“Benedetto autunno”
“Politiche del guardaroba”
“Suoni italiani”
“Autunno”
“Niente applausi per Bethlehem”
“La terra trema”
“Cartina in mano”
“Ode al navigatore”
“La bolla”
“Il verde”
“Il rosa”
“Il bianco”
“Il blu”
“Il rosso”
“L'arancione”
“Il nero”
“L'azzurro”
“Il giallo”
“Il grigio”
“Reality”
“Ivn Gviròl”
“Sheinkin”
“HaPalmach”
“Herbert Samuel”
“Derech Bethlechem”
“L'Herzelone”
“Tel Aviv prima di Tel Aviv”
“Tel Hai”
“Rehov Ben Yehuda”
“Da Pertini a Ben Gurion”
“Kikar Rabin”
“Sde Dov”
“Rehov HaArbaa”
“Hatikva”
“Mikveh Israel”
“London Ministor”
“Misto israeliano”
“Fuoco”
“I cancelli della speranza”
“Finali Mondiali”
“Paradiso in guerra”
“Fronte unico”
“64 ragazzi”
“In piazza e fuori”
“Dopoguerra”
“Scuola in guerra”
“Nuovo mese”
“Dafka adesso”
“Auguri dall'alto”
“Di corsa verso il 5775”
“Volo verso casa”
“La guerra del Kippur”
“Inverno, autunno”
“Ritorno a Berlino”
“Il posto della cucina”
“Fermi tutti”
“La merenda”
“Neve”
“Se bruciano i libri”
“Zucchero e veleni”



di Daniela Fubini, Tel Aviv

Non importa quanti decenni ancora vivrò in Israele, quante estati e quanti inverni, quanti governi vedrò cadere e quanti accordi di Pace non firmare: il tempo, inteso come quello metereologico, non smetterà di essere fonte di stupore quasi infantile. In questi ultimi giorni di rovesci violenti e improvvisi mi è capitato più volte di essere sorpresa dalla pioggia semplicemente per non averci creduto, che quelle nuvolette sottili e quella pioggerellina quasi londinese potessero trasformarsi in dieci secondi in una secchiata d'acqua che passa attraverso qualunque ombrello, cappello o giaccone impermeabile.
Siccome la pioggia qui è una benedizione, ovviamente ha qualcosa di magico.
Le strade diventano fiumi letteralmente davanti ai nostri occhi, che a dirlo si fa in fretta, ma quando si deve compiere il banale gesto di attraversare la strada per arrivare a casa, e l'acqua arriva fin oltre il gradino del marciapiede, e passa un tizio gentile su una bici elettrica e dice "tremp?" (passaggio?), prende un attacco di ridarella ma si sale senza far storie per essere depositati dall'altra parte del fiume. La pioggia ci inzuppa fino alle ossa, per poi asciugarsi dai marciapiedi in men che non si dica, e noi ci si ferma ancora fradici a pensare se forse la si è solo sognata, questa pioggia tira-e-molla.
E finchè l'inverno abbatte qualche albero e inonda qualche cantina, passi. Ma dopo la crisi nazionale dell'inverno scorso, con decine di migliaia di famiglie bloccate per giorni dalla neve a Gerusalemme e Zfat, e in tutto il nord, quest'anno lo stato si è dato una mossa in tempo. Alberi troppo vicini a pali della luce potati, cavi rinforzati, montagne di viveri ammassati in magazzini, sale, pale per spalare la neve pronti all'uso.
E mentre noi telavivesi ci scambiamo commenti su quella volta che a inizio gennaio stavamo in t-shirt sulla tayelet, è tornata la neve sulla cima del Hermon, perciò è definitivamente inverno e cosa vuoi che sia un po' di pioggia, mica siam fatti di zucchero, noi.


(moked, 5 gennaio 2015)


Milano - Anfiteatro, percorsi, memoria. Cresce il Giardino dei Giusti

Nuovo progetto nei quasi ottomila metri quadrati al Monte Stella.

di Paola D'Amico

Un anfiteatro, un luogo della Meditazione, uno delle Macerie, un percorso guidato, uno speciale progetto di illuminazione che lo renda vivibile giorno e notte: il «Giardino dei Giusti» al Monte Stella cresce. Il Comune ha deliberato la concessione decennale in uso gratuito dell'area di quasi ottomila metri quadrati all'Associazione Giardino dei Giusti, che già ne cura le attività e contribuirà al progetto fornendo i masselli in pietra per creare i camminamenti, che oggi giacciono nei depositi del settore Infrastrutture. L'obiettivo è completare i lavori entro Expo 2015.
   Soddisfatto il presidente del Consiglio comunale, Basilio Rizzo: «Sono molto lieto che si sia dato corso a questo importante obiettivo su cui mi sono impegnato assieme al Consiglio perché potesse diventare realtà. Certamente questo Giardino contribuirà a rendere Milano una città più attraente e sarà un luogo di cui andare orgogliosi per il valore della sua testimonianza». Già oggi il «Giardino dei Giusti» è meta di visite di studenti e di delegazioni dall'estero.
   Gabriele Nissim, che nel 2001 fondò la onlus Gariwo con l'intento di onorare la memoria e le azioni di coloro che si sono opposti nel mondo a genocidi, stermini di massa, crimini contro l'Umanità, aggiunge: «Ora attendiamo i permessi tecnici, la burocrazia deve mettersi in moto e a noi starà la ricerca dei fondi per completare l'opera, ci servono circa 700 mila euro». Il «Giardino dei Giusti» è stato inaugurato nel 2003. Ed è stata la prima tappa di un percorso che ha portato alla creazione di analoghi luoghi in tutto il mondo (Varsavia, Praga, Sarajevo, Sofia, Salonicco, Washington, il prossimo marzo in Israele, in Rwanda e ad Assisi). «Nel 2013 il Parlamento europeo ha istituito la Giornata europea dei Giusti e il senso è che Milano è la capitale morale del progetto», aggiunge Nissim.
   Oggi al Monte Stella sono stati piantati già 30 alberi per altrettanti Giusti. il 6 marzo altri ne saranno piantati per uomini e donne che si sono opposti al genocidio armeno, di cui cade il centenario, che hanno avuto un ruolo nella gestione dei problemi dei migranti, dell'emergenza profughi siriana ed irachena e a chi ha perso la vita lottando contro la mafia. Il 14 gennaio la riunione dei garanti dell'Associazione indicherà i loro nomi.
   «Il senso dello sviluppo del Giardino dei Giusti è di creare una struttura che identifichi bene i percorsi - spiega Nissim -, dove la gente possa fermarsi a meditare, con un anfiteatro che dovrà ospitare le iniziative che si moltiplicano in questo luogo».
   Il progetto architettonico è stato realizzato dall'architetto Stefano Vallabrega.
   Il Giardino già oggi è un luogo di pellegrinaggio come il Memoriale della Shoah. «Ricordare i Giusti - conclude Nissim - significa insegnare il valore più alto dell'umanità scritto nei comandamenti: non uccidere e impedire i genocidi e la violenza contro gli uomini. Quest'anno è per noi un anno importante. Ci sarà la costituzione di una nuova sezione di Gariwo in Israele dove per la prima volta nella storia dello Stato ebraico si ricorderanno i Giusti di tutti i genocidi in un conferenza che si terrà nella open Università di Reenana il 9 marzo, con una iniziativa nelle Nazioni Unite dedicata ai Giusti musulmani che combattono il fondamentalismo».

(Corriere della Sera - Milano, 5 gennaio 2015)


Roma - Nuove Pietre d'inciampo per ricordare i deportati

Alla cerimonia di dopodomani a piazza Mazzini sarà presente anche l'artista Gunter Demnig.

di Paola Pisa

 
Gunter Demnig
La sesta edizione di Memorie d'inciampo a Roma, si svolgerà dopodomani. Appuntamento in Largo della Gancia 1, vicino a piazzale Mazzini, a mezzogiorno. Gli Stolpersteine, ossia le "Pietre d'inciampo" sono quelle che l'artista tedesco Gunter Demnig pone in memoria dei deportati politici e razziali. Nella capitale ne verranno installati venti, altri tre saranno posti il giorno dopo nella città di Viterbo, tutto alla presenza dell'ideatore dell'iniziativa. La manifestazione curata da Adachiara Zevi, ha il sostegno del Municipio Roma I, di Roma Capitale e dell'Ambasciata della Repubblica Federale di Germania presso lo Stato italiano che ha come capo missione l'ambasciatore Reinhard Schafers. L'idea di Demnig risale al 1993, anno in cui l'artista viene invitato a partecipare a Colonia ad una installazione sulla deportazione dei cittadini rom e sinti. Quando una anziana signora sostiene che nella città tedesca non hanno mai abitato rom, Demnig ha una intuizione e da allora dedica il proprio lavoro alla ricerca e alla testimonianza dell'esistenza di cittadini scomparsi per le persecuzioni naziste: ebrei, politici, militari, omosessuali, testimoni di Geova, disabili. Segno concreto e tangibile della memoria, sono le Pietre di inciampo, poste sul marciapiede di fronte alla casa dove hanno vissuto i deportati. Sono distinte da una superficie di ottone lucente, sulla quale sono incisi nome e cognome della deportata o del deportato, età, luogo di deportazione e, se nota, la data della morte. Passato e presente, storia e quotidianità, si intrecciano. I 45mila Stolpersteine, già collocati costituiscono una Mappa della memoria europea. Le prime Pietre sono state poste a Colonia nel 1995, dal 2010 ce ne sono 206 in Italia. L'evento di mercoledì ha il Patronato del Presidente della Repubblica, il Patrocinio della Presidenza del Consiglio, dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e della Comunità Ebraica di Roma. Chi volesse ricordare famigliari o amici, può rivolgersi alla Casa della Memoria. Eventi nel resto del glo bo: l'Italia è il Paese d'onore della IV edizione della "Bienal del fin del mundo", manifestazione culturale inaugurata nei giorni scorsi al Mar della Plata, in Argentina, che si terrà fino al 22 febbraio. Centocinquanta gli artisti presenti alla mostra che poi girerà anche il Cile. Una performance di Stefano Bollani, grande jazzista italiano, ha concluso a Stoccolma il Semestre di Presidenza UE. L'ambasciatrice d'Italia in Svezia, Elena Basile, ha accolto trecento invitati tra cui politici, imprenditori, diplomatici, ringraziando le imprese italiane che hanno contribuito alla realizzazione di eventi di grande richiamo successo: «Che hanno in comune la presentazione di aspetti meno noti del nostro Paese, diversi dall'affermato made in Italy e lontani dalla cultura classica».

(Il Messaggero, 5 gennaio 2015)


Il grande regista israeliano Amos Gitai

In mostra a Milano con Strade/Ways

di Raffaella Ferrari

Una mostra evento creata su misura per la Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale di Milano, un modo per entrare nel mondo di Amos Gitai; l'esposizione è un'installazione inedita con fotografie di grande formato delle sequenze dei suoi film, insieme a tappeti antichi e dispositivi sonori.
Un viaggio nel mondo del grande regista israeliano che ha raccontato Israele e il popolo ebraico: da Lullaby to my father, del 2012, dedicato al padre Munio Weinraub, architetto del Bauhaus che per fuggire dalla Germania nazista si è rifugiato in Israele, il percorso prosegue passando per Carpet, fino a Talking to Gabriele, la conversazione con Basilico, fotografo di architettura per eccellenza, in cui si discute di architettura, fotografia, e sull'estetica e gli scenari di Free Zone, film che nel 2005 si è aggiudicato un premio al Festival di Cannes.
Amos Gitai, nato ad Haifa nel 1950, è stato insignito nel 2008 del Pardo D'Onore al Festival internazionale del film di Locarno, e nel 2013 del Premio Marco Melani.
Gitai ha partecipato come riservista alla guerra del Kippur del 1973, nel corso della quale sopravvive all'abbattimento dell'elicottero su cui viaggiava. Le sue prime riprese, con una cinepresa super 8, regalatagli dalla madre, sono state proprio quelle delle sue missioni in elicottero.
Il suo documentario Bayit del 1980, che racconta l'espropriazione dei palestinesi da parte degli israeliani, è stato censurato dalla televisione di Stato, fino al 1982, anno in cui il suo lavoro Yoman Sadeh, costringe Gitai a lasciare il paese; sarà la volta di Parigi e dovrà rimanere lontano dal suo paese per undici anni.
L'iniziativa è promossa dal Comune di Milano-Cultura e prodotta da Palazzo Reale, GAmm Giunti e Centro Studi Moshe Tabibnia.

(daringtodo, 4 gennaio 2015)


Israele contro l'adesione della Palestina al Tribunale Penale Internazionale

"Fine degli accordi di Oslo". Il ministro degli Esteri israeliano accusa i Paesi europei di aver abbandonato Israele "nonostante sia l'unico Paese del Medioriente che rappresenta valori occidentali".

La decisione dell'Autorità nazionale palestinese di firmare il Trattato di Roma, che dà accesso alla Corte Penale Internazionale, con l'obiettivo di portare Israele davanti al Tribunale, con l'accusa di crimini di guerra, ha scatenato le ire di Israele e in particolar modo del ministro degli Esteri di Tel Aviv, Avigdor Lieberman, e soprattutto ha bloccato il trasferimento di 106 milioni di euro di tasse raccolte per conto dell'Autorità palestinese nel mese di dicembre.
Per Lieberman, l'aver presentato domanda di adesione all'Aia ha decretato la "fine degli accordi di Oslo", siglati fra Yasser Arafat e Shimon Peres nel 1993, che nel 1994 portò alla nascita dell'Autorità nazionale palestinese, come organismo politico di governo dei territori palestinesi. Il processo avrebbe dovuto produrre nel giro di cinque anni un accordo definitivo di pace e la creazione di uno Stato palestinese indipendente, ma è deragliato, sfociando nella seconda intifada, nel 2000.
Inoltre Lieberman si è scagliato anche contro a quei parlamenti europei, Svezia, Francia, Gb, Spagna, Portogallo e Irlanda, che, al loro interno, hanno votato affinché la Palestina venga riconosciuta come stato sovrano.
Lieberman se la prende ancora con l'Europa, rea di aver abbandonato Israele "nonostante sia l'unico Paese del Medioriente che rappresenta valori occidentali".

(Fonte: ArticoloTre, 4 gennaio 2015)


Israele: denunceremo leader palestinesi per crimini di guerra

GERUSALEMME, 4 gen. - Il governo israeliano vuole denunciare i principali leader palestinesi per crimini di guerra davanti ai tribunali stranieri e internazionali. Lo scrive il quotidiano Yediot Aharonot, citando il ministero della Giustizia che cosi' vuole rispondere alla decisione dell'Anp di aderire al Trattato di Roma che da' accesso alla Corte penale internazionale per i crimini di guerra. Potremmo presentare domani stesso richieste sostenute da prove, documentazione e testimonianze", ha affermato un alto funzionario del ministero, riferendosi al governo di unita' nazionale formato dall'Anp con Hamas, "una organizzazione considerata gruppo terroristico in vari Paesi".

(AGI, 4 gennaio 2015)


"Grazie alla mediazione italiana ora libanesi e israeliani si parlano"

Parla il comandante del contingente delle Nazioni Unite nel Sud del Paese dei Cedri, il generale di divisione Luciano Portolano.

di Andrea Cionci

 
Il Generale di Divisione Luciano Portolano
NAQOURA (Libano). Dalla base delle Nazioni Unite di Naqoura, nel sud del Libano, il Generale di Divisione Luciano Portolano, Force Commander della missione UNIFIL, ci aggiorna sulla precarietà dell'area e sui risultati raggiunti dal contingente italiano. La zona meridionale del paese, controllata da Unifil, è un'oasi di calma apparente circondata da un territorio inquieto. A nord, scontri sanguinosi hanno da poco coinvolto le Forze Armate Libanesi (LAF) contro l'Isis, alle porte di Tripoli e lungo la frontiera orientale con la Siria, nei dintorni di Arsal. A sud, continuano le annose diatribe con Israele sulle violazioni della linea di ritiro, la cosiddetta Blue Line.

- Che problemi causa il gran numero di rifugiati presenti sul territorio?
  «Attualmente, a una popolazione di 4 milioni di libanesi, si aggiungono 2 milioni di profughi siriani. Le tensioni derivano da fattori economici, sociali, religiosi. Soprattutto dopo i combattimenti di Arsal, dove sono stati catturati e decapitati alcuni membri delle LAF, i rifugiati siriani, che in un primo tempo erano stati accolti benevolmente, hanno iniziato ad essere mal tollerati dalla popolazione locale. In alcune municipalità è stato indetto il coprifuoco e, con attività di volantinaggio, i siriani sono stati invitati a tornare nel loro paese. Noi non rimaniamo a guardare: ho dato mandato ai comandanti che operano sul terreno di intensificare le attività di prevenzione - seppure in modo discreto, per non allarmare la popolazione - con l'introduzione di pattugliamenti appiedati di militari nostri e delle LAF e tramite l'intensificazione delle attività in aiuto alla popolazione».

- Gli Usa hanno dato un segnale di apertura sul supporto finanziario al Libano, nonostante il legame storico che li lega a Israele. Che significa ?
  «Il Libano è un vero ago della bilancia per la completa stabilizzazione in tutto il Medioriente. L'elemento di migliore coesione interna è costituito dalle LAF, che si sono distinte con valore nel tentativo di garantire la stabilità nel nord del Paese e nei dintorni dei campi profughi palestinesi. Nonostante i rapidi progressi, le LAF necessitano però di un sostegno esterno. Per questo, il progetto International Support Group ha da poco donato loro, con un accordo firmato tra Francia e Arabia Saudita, tre miliardi di dollari. A questi si aggiungerà un miliardo di dollari erogato dagli Stati Uniti. Ciò dimostra che l'intera comunità internazionale, compresi gli USA, è consapevole della necessità di migliorare le capacità delle LAF per mantenere la calma in un'area che ha davvero bisogno di un attimo di respiro.

- Possiamo dire che, grazie alla mediazione italiana, finalmente Israele e Libano "si parlano"?
  «Direi di sì. Disponiamo di uno strumento unico che consente alle due nazioni di relazionarsi: il meeting tripartito. In una palazzina al confine tra i due paesi, con cadenza quasi mensile, ha luogo una riunione tra i rappresentanti israeliani e libanesi, alla presenza del Force Commander di Unifil. Fino a poco tempo fa, israeliani e libanesi, pur trovandosi faccia a faccia all'interno della stessa stanza, comunicavano fra loro solo per l'interposta persona del Force Commander. Da tre mesi circa, dietro mio invito, hanno finalmente accettato di dialogare direttamente fra loro, sempre, ovviamente, con la mia mediazione. Non mancano dispute e controversie, spesso incentrate su piccole problematiche, la cui mancata soluzione però potrebbe avere ripercussioni strategiche immense».

(Il Tempo, 4 gennaio 2015)


Netanyahu: Non permetteremo il processo ai soldati di Israele

GERUSALEMME - Israele non permetterà che i suoi soldati vengano accusati di crimini di guerra davanti alla Corte penale internazionale. Lo ha detto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, nel corso di un incontro di Gabinetto. "È l'Autorità nazionale palestinese, che si è alleata con i criminali di guerra di Hamas, che deve essere chiamata a rispondere", ha aggiunto il premier, dopo che due giorni fa le autorità palestinesi hanno sottoscritto lo Statuto di Roma, aderendo così di fatto alla Cpi. L'Anp, ha aggiunto Netanyahu, "ha scelto il confronto con Israele e noi non staremo a guardare". Già ieri il governo di Tel Aviv ha deciso di sospendere il trasferimento di oltre 127 milioni di dollari di entrate fiscale ai palestinesi a seguito dei loro recenti tentativi di aderire alla Cpi.

(LaPresse, 4 gennaio 2015)


Israele congela i fondi alla Palestina, niente stipendi agli impiegati

Il premier israeliano blocca l'erogazione dei dazi doganali.

di Rita Molinari

Israele congela fondi all'Anp (Autorità nazionale palestinese) pari a 500 milioni di shekel (100 milioni di euro) di dazi doganali. Si tratta di una somma relativa a entrate di un mese, sulla quale i palestinesi facevano affidamento per spese governative e per pagare gli stipendi agli impiegati.
La decisione, voluta dal premier Benjamin Netanyahu, è stata annunciata in risposta alla richiesta da parte della Palestina di aderire alla Corte penale internazionale.
In base ad accordi bilaterali, Israele raccoglie di norma dazi doganali per conto dell'Anp e ne versa l'importo complessivo a Ramallah una volta al mese. La cifra di 500 milioni di shekel, ha precisato l'emittente, è relativa al mese di dicembre 2014. Questo importo potrebbe essere ora utilizzato per saldare debiti dell'Anp verso Israele: ad esempio, per il consumo di energia elettrica o per ricoveri di cittadini palestinesi in ospedali israeliani.
La decisione del congelamento, ha appreso ancora la radio militare, è stata presa venerdì in un vertice tra il premier israeliano, il ministro della Difesa Moshe Yaalon e il ministro per le Questioni strategiche Yuval Steinitz.

(In Terris, 4 gennaio 2015)


Se l’AP (Autorità Palestinese) compie azioni unilaterali contravvenendo accordi bilaterali siglati in precedenza, non deve sorprendersi se la controparte fa la stessa cosa. Con ciò è messa in evidenza la stolidità faziosa delle nazioni europee che vogliono riconoscere uno Stato che non ha nemmeno l’autonomia necessaria per raccogliere i suoi dazi. M.C.


Tacere ebraico

di Giulio Busi

Come raggiungere il divino, dove trovare la forzaperrinunciare alle lusinghe materiali, e schiudere la porta dell'anima? Fidatevi di un antico consiglio mistico.
Cominciate a star zitti. Detto fatto anche questa recensione dovrebbe chiuder qui, il silenzio è d'oro, punto e basta.
Si sa però che l'assoluta quiete interiore è la merce più difficile da avere. Comprarla non si può, e chi la possiede, la quiete, se la tiene ben stretta. Per questo, di consigli sul silenzio son pieni i libri, tanto che ci si potrebbe metter su una gran biblioteca, silenziosa di nome ma, di fatto, più ronzante di un vespaio. Ultimo arrivato nella libreria del bel tacere è un numero monografico di «Sh'ma», rivista di spiritualità ebraica redatta in California. I consigli su come starsene concentrati e parlare poco, anzi niente, risentono del pragmatismo americano, a volte un po' esasperante (pensateci due volte prima di fare una domanda, scandite bene le parole, et similia), anche se qua e là brillano perle di saggezza chasidica.
La questione è seria, perché di frastuono mentale si muore. Ricordate il paradosso della visione di Elia, nel primo libro biblico dei Re? Dio si fa precedere da un vento impetuoso' dal terremoto e dal fuoco. Quando arriva davvero, il Signore è tuttavia solo, e attorno alui v'è una "voce di silenzio sottile". Per tornire un gioiello così prezioso, una voce che dice senza pronunciare alcuna parola, nemmeno la più piccina, ci vuole la mano dell'Onnipotente.

(Il Sole 24 Ore, 4 gennaio 2015)


La fuga degli ebrei: in sei anni, diciassettemila via dalla Francia

di Elisabetta Rosaspina

Si chiama Netanya la terra promessa di duemila ebrei francesi che l'anno scorso si sono trasferiti in Israele. Altri cinquemila, nello stesso periodo, si sono sparpagliati tra i kibbutz o le città, come Tel Aviv, Gerusalemme o Haifa Ma Netanya, città balneare nel Nord del Paese, sta - diventando la piccola Parigi degli ebrei che non si sentono più sicuri in patria.
Il loro numero è quadruplicato dal 2010, quando se n'erano andati in 1.600. Nel 2Ol3 altri 3.400. In sei anni, 17.520. La Francia ha superato l'Ucraina, la Russia, la Bielorussia, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna come Paese di emigrazione verso Israele. E anche se una quota. può essere stata attratta dalla migliore situazione economica, la maggioranza ha addotto il crescente clima di insicurezza che la comunità respira in Europa: l'ascesa dei partiti di estrema destra, le aggressioni antisemite. «Gli ebrei sono sempre state sentinelle della democrazia - ha detto il presidente delle comunità ebraiche, Roger Cukierman-. Se partono significa che la Francia è malata».

(Corriere della Sera, 4 gennaio 2015)


Una strage dei diritti preparò la strada alla Shoah

La svolta del 1938

di Michele Sarfatti

Con l'intensificazione della campagna di stampa antisemita e il varo della normativa antiebraica, nel 1938 il fascismo dette il via a quello che denominiamo periodo della persecuzione dei diritti degli ebrei», durato sino al settembre 1943, quando gli subentrò il «periodo della persecuzione delle vite degli ebrei». Poiché le leggi antiebraiche erano rivolte contro cittadini dello Stato, esse significarono la cessazione del patto di eguale cittadinanza stretto col Risorgimento; Paolo D'Ancona, professore di storia dell'arte a Milano, scrisse nel 1939: «A me è stata improvvisamente troncata ogni attività di cittadino e di studioso: espulso dall'esercito, dalla cattedra, attraverso i miei libri dalla scuola, assisto alla distruzione di quanto formava la ragione stessa della mia vìta».
   Nelle intenzioni di Mussolini la nuova normativa costituiva un intervento di portata generale e di "durata permanente: il fascismo e l'Italia avrebbero dovuto essere ariani e antisemiti per sempre. Mentre la pubblicistica propagandò anche il razzismo cosiddetto «spirituale», fu in realtà quello «biologico» a permeare la definizione legislativa di «appartenente alla razza ebraica». In estrema sintesi: il nipote di quattro nonni «di razza ebraica» non poté sfuggi-
re a quella classificazione, anche qualora i genitori e lui stesso fossero battezzati. Le leggi e le circolari espulsero gli ebrei dalla scuola pubblica, dai comparti dell'editoria, della cultura e dello spettacolo, dalle associazioni sportive, dagli impieghi statali, progressivamente da quelli privati e autonomi... Le norme erano funzionali anche agli obiettivi di separazione delle cosiddette razze «ebraica» e «ariana» e di allontanamento degli ebrei dal Paese.
   Dopo l'8 settembre 1943, con l'occupazione tedesca, l'obiettivo mutò, e Mussolini e il fascismo di Salò perseguirono quello dell'eliminazione degli ebrei «del» Paese. Il passaggio alla nuova finalità fece parte del lungo processo antisemita del fascismo, ma non era stato predeterminato; si trattò di una radicalizzazione connessa alla decisione di accettare la protezione nazista in cambio di qualche disperato mese aggiuntivo di potere. Peraltro gli arresti attuati dalle polizie dell'occupante tedesco e della italiana Repubblica sociale furono facilitati dal fatto che nei cinque anni precedenti i morituri erano stati identificati, schedati, immiseriti, separati: la legislazione antiebraica si rivelò utile, funzionale, in parte necessaria, allo sterminio successivamente deciso.

(Corriere della Sera, 4 gennaio 2015)


Netanyahu confermato leader del Likud, la destra resta avanti nei sondaggi

Benjamin Netanyahu si conferma l'uomo da battere nello scenario politico israeliano. Nelle primarie interne del 31 dicembre è stato infatti rieletto leader del suo partito, il Likud, con il 75% dei voti espressi dai delegati, contro il 19% del suo sfidante, il viceministro della Difesa Danny Danon, mentre il 6% si è astenuto. Grazie a questo risultato, il premier israeliano in carica pone una seria ipoteca anche sulla prossima guida del governo: i sondaggi assegnano infatti ai partiti di destra la maggioranza dei seggi alla Knesset, con il Likud come più grande partito della coalizione.
  Insieme alle primarie per la leadership, i membri del partito hanno votato anche per scegliere la posizione dei candidati nella lista (bloccata, come previsto dalla legge elettorale) che sarà presentata alle prossime elezioni del 17 marzo. Subito dietro Netanyahu, che sarà capolista, figurano altri esponenti di punta come il ministro dell'Interno Gilad Ernan, il presidente della Knesset Yuli Edelstein, il ministro dei Trasporti Yisrael Katz e l'astro nascente Miri Regev, la prima donna nella lista nonché ex portavoce dell'esercito israeliano e deputata uscente. Decima posizione per lo sfidante di Netanyahu per la leadership del partito Danon, mentre restano a sorpresa fuori dalle posizioni migliori per ambire alla rielezione due "falchi": Moshe Feiglin, a capo della corrente di destra "Guida Ebraica", e la 36enne Tzipi Hotovely (quest'ultima, in ventiseiesima posizione in lista, sarà eletta soltanto con un exploit del partito).
  Ieri intanto sono stati pubblicati altri due sondaggi sull'esito delle prossime elezioni legislative. Solo in uno dei due il Likud si confermerebbe maggior partito del paese, ma in entrambi la coalizione delle forze di destra appare al momento largamente in vantaggio. Nel sondaggio Teleseker per il portale web Walla, il Likud sarebbe in testa con ben 26 seggi, uno dei punti più alti raggiunti nelle ultime settimane, mentre la lista unitaria del laburista Isaac Herzog e della centrista Tzipi Livni avrebbe 23 seggi: grazie all'apporto anche di Patria Ebraica di Naftali Bennett (16 seggi), del nuovo partito Kulanu (8 seggi), di Yisrael Beiteinu di Avigdor Lieberman (7 seggi) e dei due partiti della destra religiosa UTJ (7 seggi) e Shas (6 seggi), la coalizione guidata dal Likud otterrebbe ben 70 seggi sui 120 totali della Knesset.
  Risultati di poco diversi, nel complesso, nel sondaggio Panels per Galay Israel Radio: qui il primo partito sarebbe la lista unitaria laburista con 24 seggi, uno in più del Likud: ma grazie all'apporto dei suoi alleati, una maggioranza con Netanyahu premier otterrebbe comunque 69 seggi nella nuova Knesset. Entrambi i sondaggi concordano, poi, sulla preferenza degli israeliani per una premiership di Netanyahu rispetto ad una di Herzog: 40% contro 24,3% nel primo caso, 43% contro 41% nel secondo.

(Votofinish, 3 gennaio 2015)


Noa: «E ora canto Napoli con i bambini della Sanità»

AI Museo di Pietrarsa

di Enzo Gentile

Un grande appuntamento di musica, quello che attende stasera il pubblico al Museo Ferroviario di Pietrarsa, a Portici: non solo sotto il profilo artistico, ma anche in proiezione sociale e civile, secondo una peculiarità cui da tempo ha abituato Noa, la popolare voce che da Israele non ha mai cessato di sostenere il processo di pace nella sua terra. Il concerto vedrà la partecipazione, al fianco di Noa e del suo fido chitarrista Gil Dor, del Solis String Quartet e dell' orchestra Sanitansamble, formazione di giovanissimi strumentisti nata nel rione Sanità per combattere il disagio sociale tra i giovani del quartiere ed è diretta da Paolo Acunzo (alle 21, ingresso libero, biglietti di invito presso l'URP in Traversa Melloni, informazioni 081-7862526).
Lo spettacolo rientra nelle iniziative "Note di pace", per un progetto artistico curato da Gerardo Morrone dei Solis String Quartet, il cui primo incontro con Noa risale a oltre dieci anni fa. La 45enne artista israeliana è di casa in Italia e in particolare con l'area e il repertorio napoletano ha stretto nel tempo un profondo sodalizio, culminato in una pubblicazione discografica del 201 l, «Noapolis: Noa sings Napoli», che alimenterà anche la performance di stasera.

- Noa, come ha disegnato la scaletta?
  «Non sarà un concerto incentrato solo su quei materiali, che comunque saranno ben presenti perché mi sento molto affezionata a quell'album. Ma sono abituata a variare tra le mie composizioni, per arrivare sino alle più recenti, contenute nell'ultimo cd "Love medicine" uscito lo scorso ottobre».

- E se nel nuovo disco, quattordicesimo in studio, la sua voce si cimenta con brani di Pat Metheny, Gilberto Gil, Bobby McFettin, Bangles, tra gli altri, nel curriculum di Noa sono tantissimi i contatti e i rapporti professionali con l'Italia ...
  «Sento molto l'affetto che mi circonda, vengo volentieri e per fortuna mi chiamano spesso, per occasioni diverse. Sono felice di aver maturato tante collaborazioni in Italia, fin da quando ho scritto il testo in inglese de "La vita è bella", dal film di Roberto Benigni: da Gianni Morandi a Eugenio Finardi a Carlo Fava, solo per citarne alcune, sono state sempre soddisfazioni ìmportantì».

- Cosa c'è nei suoi piani per il 2015?
  «Abbiamo già iniziato a portare in giro dal vivo le canzoni dell'ultimo disco e l'intenzione è di proseguire, gli impegni sono fissati peri prossimi mesi. Poi a marzo ci saranno le elezioni in Israele e quella resta una scadenza fondamentale, non solo per me, ma per gli equilibri internazionali. Mi sono ripetutamente espressa sul tema della pace, con interventi, articoli, e con quelli che sono gli strumenti a me più consoni e abituali, scrivendo canzoni' portandole davanti alla gente. Dobbiamo credere nella possibilità di giungere veramente a una svolta reale di pace».

- Inoltre, sotto il profilo più squisitamente artistico ci sarà un anniversario da celebrare.
  «È vero. Cadono i venticinque anni del lavoro insieme a Gil Dor, che considero una parte di me: è un musicista straordinario, un carissimo amico. Un suo disco solista? Lo sta preparando, lo attendiamo tutti: e stavolta forse ci siamo, ormai lo ha promesso».

(Il Mattino, 3 gennaio 2015)


Roma - Al Teatro Argentina il 6 gennaio spettacolo di beneficenza: "I love Libya"

di Carlo Dutto

In occasione della Giornata Mondiale dei Rifugiati Ebrei dai Paesi Arabi, martedì 6 gennaio andrà in scena al Teatro Argentina di Roma I Love Libya, lo spettacolo scritto e interpretato da David Gerbi e diretto da Tonino Tosto. Dopo il successo delle date di giugno, torna a Roma, tratto da una storia vera e interpretato dal protagonista stesso, lo spettacolo, one man show che racconta la vicenda di David, ebreo libico italiano sefardita rifugiato a Roma dal 1967. Dopo essere stato cacciato all'età di dodici anni dalla sua terra natale, la Libia, partecipa nel 2011 alla "primavera araba in Libia" per contribuire alla democrazia, alla liberta' di religione, alla lotta contro il razzismo e l'antisemitismo e alla difesa del rispetto dei diritti umani. I Love Libya racconta la psicologia dell'esilio, del ritorno e della ribellione all'ingiustizia, all'indifferenza e all'impotenza e affronta il tema dell'immigrazione forzata, dell'integrazione e dell'assorbimento dei perseguitati e rifugiati ebrei di Libia nella società italiana e in particolare quella romana. Racconta come è possibile che il rifugiato di ieri possa diventare colui che contribuisce oggi allo sviluppo della società sia dal punto di vista economico, sia da quello culturale e artistico. L'antica comunità degli ebrei di Libia è stata accolta dalla società italiana e dalla comunità ebraica a seguito della guerra dei sei giorni del 1967.
   "Uno spettacolo che racconta la storia di sofferenza, ingiustizia e persecuzione individuale e collettiva trasformata con il tempo, l'impegno e con la fede in una storia di guarigione, liberazione e successo individuale e collettivo. E' la storia di una rinascita di una comunità scomparsa dalla Libia ma risorta in Italia" - spiega Gerbi.
   I Love Libya è la storia della lotta per i diritti umani fondamentali, e la sua particolare connessione tra l'identità personale e le circostanze storiche. La storia di una sofferenza che viene trasformata nel tempo in crescita e in recupero della dignità.
   Lo spettacolo è stato presentato nel 2007 in USA e in Sud Africa in lingua inglese, in Trentino nel 2012 e a San Francisco, Los Angeles e Seattle nel 2013, e a Roma, con il Patrocinio dell'Unicef, lo scorso giugno al Teatro Sala Umberto in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato.
   Gli spettacoli del 6 gennaio che prevedono anche una degustazione di cibi libici costano 20 euro e l'incasso verrà interamente devoluto alle famiglie in difficoltà assistite dalla Deputazione Ebraica di Assistenza e Servizio Sociale di Roma.

(Close up, 3 gennaio 2015)


Ennesima trovata palestinese: violenza sulle donne in aumento, ma è colpa di Israele

Quella che all'apparenza sembrava essere una ottima iniziativa per denunciare la violenza sulle donne musulmane si trasforma nell'ennesimo caso di propaganda anti-israeliana. Il tutto con i soldi dei contribuenti inglesi.

In Cisgiordania e a Gaza la violenza sulle donne è in aumento ma non perché gli uomini musulmani considerano la donna come un essere inferiore, tutt'altro, questo avviene per colpa della "occupazione israeliana".
Sembra essere questo il motivo che ha spinto il Regno Unito a finanziare con 1,1 milioni di dollari un progetto della Ma'an Network (un nome una garanzia) che affronterà il problema delle violenze sulle donne palestinesi....

(Right Reporters, 3 gennaio 2015)


HarperCollins cancella Israele dalle mappe

Che più di qualcuno nel mondo arabo volesse cancellare Israele dalla mappa del Medio Oriente non è una novità. Ma se lo fa una casa editrice leader del mercato mondiale e per giunta anglo-americana, la cosa fa notizia. La HarperCollins, di proprietà di Rupert Murdoch, si è affrettata a chiedere scusa ma le prime giustificazioni sembrano aggravare la situazione: Israele è stato cancellato da alcuni atlanti in vendita in Medio Oriente per soddisfare "esigenze locali".
La denuncia arriva dal giornale cattolico Tablet, scrive il Washington Post. "L'atlante era rivolto in special modo alle scuole mediorientali". Secondo Collins Bartholomew, una filiale della HarperCollins sarebbe "inconcepibile" includere Israele nelle mappe per i paesi arabi. La HarperCollins ha cercato di correre ai ripari scusandosi "dell'omissione" sulla sua pagina Facebook annunciando il ritiro delle copie rimaste. L'atlante era in vendita anche su Amazon.

(la Repubblica, 3 gennaio 2015)


La terra promessa di Giacomo, in Israele per amore

Trent'anni, personal trainer, ha seguito la sua donna e si è trasferito a Tel Aviv, dove ha cambiato anche lavoro.

di Alessandro Bientinesi

CECINA - C'è chi dice bye bye all'Italia in cerca di nuove opportunità di lavoro e carriera. Chi saluta e se ne va all'estero senza neanche guardarsi troppo indietro. Giovani e meno giovani alla ricerca di qualcosa che il "Bel paese" non sembra più in grado di garantire tra burocrazia, non meritocrazia e crisi economica a picchiare duro.
E poi c'è Giacomo Abate, trentenne, nato a Milano nel 1984 ma cresciuto a Cecina. Lui ama il suo paese, non ha l'indole avventurosa e non ama più di tanto viaggiare. Ha le sue passioni, tra musica, sport e un lavoro da personal trainer in una palestra della sua città.
«Le mie colonne d'Ercole - parole sue - erano fino a poco tempo fa a Vada». Nell'estate del 2008, in una vita di provincia come tante altre, arriva l'unica vera cosa in grado di sconvolgere tutti i suoi piani. L'amore. La storia di Giacomo Abate, da quel momento, prende la strada che sembra la sceneggiatura di un film romantico.
E da personal trainer a Cecina, in poco tempo si ritrova a vivere a Tel Aviv, cambia lavoro e con la sua Hadar, israeliana, mette al mondo due splendidi bambini....

(Il Tirreno, 3 gennaio 2015)


Israele riconosce come "guerra" il conflitto con Gaza dell’estate 2014

GERUSALEMME - Israele ha deciso di riconoscere l'operazione militare del 2014 nella Striscia di Gaza come guerra, l'ottava dalla sua creazione e la prima con i palestinesi a ricevere questa denominazione. Lo ha annunciato il ministero della Difesa. L'operazione "Barriera protettiva" del luglio-agosto 2014 era già stata considerata quasi universalmente una guerra ma non aveva ancora ricevuto questo status nella terminologia ufficiale israeliana. La decisione è stata motivata dalla durata dell'operazione (50 giorni) "e dalla perdita di 67 nostri combattenti che hanno pagato il prezzo più elevato lottando contro Hamas e altre organizzazioni terroriste", ha sottolineato il ministro della Difesa israeliano, Moshe Yaalon, in una nota.
Dalla fondazione dello Stato di Israele nel 1948, otto campagne sono state riconosciute come guerre: la guerra arabo-israeliana del 1948 (detta "guerra d'Indipendenza" dagli israeliani), la "guerra" di Suez (1956), la "guerra dei Sei giorni" (1967), quella del 1969-1970 contro l'Egitto (detta "guerra d'Usura), la "guerra del Kippur" (1973), la prima e la seconda guerra del Libano (1982 e 2006).
Il conflitto dell'estate 2014 è il primo confronto con i palestinesi ad essere riconosciuto dall'esercito israeliano come "guerra", come non è stato invece il caso per le altre due operazioni condotte a Gaza, "Piombo fuso" del dicembre 2008-gennaio 2009 e "Pilastro di difesa" del novembre 2012.

(askanews, 2 gennaio 2015)


Olocausto in Romania: una storia nazionale ancora da costruire

Dieci anni fa la Commissione Wiesel pubblicava le sue conclusioni sulla Romania: il regime di Ion Antonescu era da ritenersi responsabile per la morte di 280.000 - 380.000 ebrei e 11.000 rom, tutti uccisi tra il 1940 e il 1944. Un decennio dopo, che sguardo sull'Olocausto in Romania?

di Petru Clej

Una celebrazione in Romania per ricordare l'Olocausto
Dieci anni dopo la pubblicazione del rapporto della Commissione Wiesel, è tempo di misurare gli effetti di questo lavoro sulla società rumena. Tre sono le conseguenze dirette delle raccomandazioni poste dalla Commissione Wiesel. Tutti i 9 di ottobre, da dieci anni, si commemorano in un'apposita giornata le vittime dell'Olocausto. Nel 2009, proprio durante quella giornata, è stato inaugurato un memoriale dedicato a quelle vittime. Inoltre, nel 2005, il governo rumeno ha creato l'Istituto nazionale per lo studio dell'Olocausto in Romania.
   Per Alexandru Florian, storico e direttore di questo centro "sono tutte realizzazioni utili perché generano progetti educativi e azioni pubbliche che spingono sul dovere di preservare la memoria". Per alcuni dei membri della Commissione Wiesel, come Adrian Adrian Cioflânc, il bilancio è invece più magro.
   Lo storico, originario di Iasi, identifica due ambiti nei quali il rapporto della Commissione ha avuto effetti significativi. Innanzitutto nell'opinione pubblica, dove il negazionismo e l'antisemitismo accendono dure reazioni. "Vi sono ancora affermazioni negazioniste ma le proteste forti che generano mostrano che le cose sono cambiate rispetto agli anni '90. All'epoca era Gheorghe Buzatu (storico rumeno sostenitore della tesi negazionista e militante per la riabilitazione del maresciallo Antonescu, ndr) a dare il timbro al dibattito pubblico". Progressi sono stati fatti anche a livello istituzionale con la creazione di alcuni centri studio e di filiere dedicate allo studio della storia degli ebrei e dell'Olocausto. Archivi sono stati aperti e manuali di storia dedicati a questi temi sono stati pubblicati e diffusi.
   Ciononostante, per Cioflânc, non si è andati molto oltre. "A livello di insegnamento abbiamo invece fatto passi indietro", sostiene lo storico "pochi insegnanti scelgono di trattare il tema dell'Olocausto e pochi di loro prendono seriamente in considerazione il fatto che la storia degli ebrei e dell'Olocausto fa parte della storia contemporanea della Romania".

- Un ambiente negazionista
  Il negazionismo risulta ancora molto diffuso in Romania, specie presso le personalità pubbliche ed i politici. Da qui il fiorire di dichiarazioni in tal senso negli ultimi anni. "Le fonti mostrano che a Iasi sono stati uccisi 24 cittadini rumeni di origine ebraica da soldati dell'esercito tedesco. I soldati rumeni non hanno partecipato all'assassinio, è storicamente provato", ha dichiarato il 5 marzo 2012 il senatore Dan Sova, allora portavoce del partito Social-democratico (PSD) durante una trasmissione televisiva dedicata al progrom dell'estate 1941 in quella città, andato in onda sul canale Money Channel.
   In realtà, secondo gli storici, tra i 13.000 e i 15.000 ebrei vennero uccisi in quel massacro. Dopo numerose reazioni alla sua affermazione, Dan Sova è stato obbligato a rettificare assicurando di non aver voluto "negare le sofferenze del popolo ebraico e nemmeno la responsabilità delle autorità rumene dell'epoca". Victor Ponta l'ha infine obbligato alle dimissioni dal suo incarico e Dan Sova è stato inoltre mandato al museo dell'Olocausto, a Washington, per documentarsi. Ciononostante, cinque mesi più tardi, l'uomo politico è stato nominato dal premier rumeno ministro per le relazioni con il Parlamento.
   Il 14 febbraio 2013, lo storico Vladimir Iliescu, che insegna all'Università di Aachen, in Germania, ha presentato un suo rapporto presso l'Accademia rumena. Davanti ad un pubblico composto di ricercatori ha spiegato che "l'Olocausto in Romania è un'enorme menzogna" e che gli ebrei hanno condotto una vita normale e che molti di quelli che sono stati deportati hanno poi fatto ritorno. "In Romania non vi è stato alcun Olocausto, ma solo delle persecuzioni". Alla fine del suo intervento ha ricevuto gli applausi dei presenti e la direzione dell'Accademia rumena non ha mai condannato in modo esplicito queste affermazioni negazioniste, proferite nel cuore della stessa istituzione.

- Una legge non applicata
  Nel 2002, il governo guidato da Adrian Nastase ha adottato un provvedimento d'urgenza che penalizzava, tra le altre cose, la negazione dell'Olocausto e il culto nei confronti di coloro che hanno commesso crimini contro l'umanità, nello specifico Ion Antonescu.
   Ma secondo i dati della Procura della Repubblica e del ministero della Giustizia l'applicazione di questo decreto d'urgenza è rimasta molto limitata. Dal 2002 la procura ha trattato 101 casi ed inviato davanti ai giudici 10 persone, l'ultima nel 2009. I tribunali hanno emesso tre condanne di cui una sola prevedeva la reclusione.
   Per il direttore dell'Istituto Elie Wiesel, Alexandru Florian, in nessuna delle condanne si è fatto esplicito riferimento all'Olocausto in Romania. "Tutte le denunce a cui sono seguite condanne con sanzioni penali riguardavano l'utilizzo di simboli nazisti, come la svastica e riguardavano l'estremismo ungherese. Nessun caso riguardante apologia delle Guardie di ferro o la negazione dell'Olocausto rumeno è terminato con una condanna. Quei casi sono finiti nel nulla".

(Osservatorio Balcani e Caucaso, 2 gennaio 2015)


La missione dei ministri Anp a Gaza conclusa fra 'difficoltà'

Contestati per ritardi negli stipendi e blocco della Striscia.

GAZA - Otto ministri del governo di riconciliazione palestinese, giunti a Gaza all'inizio della settimana per organizzare progetti di ricostruzione, hanno oggi concluso la loro missione e hanno fatto ritorno in Cisgiordania.
"La visita ha incluso alcune difficoltà - ha detto alla agenzia di stampa Maan il ministro dell' agricoltura Shawqi al-Ayasa - ma in genere e' stata positiva. Tutte le difficoltà dovranno essere affrontate". I ministri hanno promesso che per proseguire il loro lavoro torneranno nella Striscia accompagnati dal premier Rami Hamdallah; ma ciò - hanno precisato - avverrà solo fra alcune settimane.
Nel corso del loro soggiorno alcuni ministri sono stati contestati da dimostranti che protestavano per i ritardi negli interventi del governo palestinese e per il mantenimento del blocco alla Striscia. Uno dei nodi da risolvere, hanno anche appreso, e' quello dei funzionari pubblici in quanto Hamas vuole mantenere in servizio quelli assunti nella Striscia negli ultimi anni mentre l' Anp progetta di reintegrare quelli che erano in servizio in precedenza.

(ANSAmed, 2 gennaio 2015)


La provocazione di Abu Mazen

Entrare nella Corte penale internazionale scatenerà ritorsioni e problemi.

Il presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, ha quasi ottant'anni, una leadership in frantumi e un consenso elettorale che ormai frana verso Hamas. E' importante ricordarlo per giudicare la sua mossa di mercoledì, quando l'Autorità palestinese ha fatto richiesta formale di ingresso della Palestina nella Corte penale internazionale, una provocazione da cui Washington e Gerusalemme hanno messo in guardia Abu Mazen per anni. Entrando nella Corte penale internazionale, l'Autorità palestinese può chiedere l'incriminazione di Israele per crimini di guerra, e far partire cause che automaticamente si trasformerebbero in campagne di demonizzazione contro Gerusalemme. Abu Mazen si è voluto vendicare di una sconfitta subita martedì al Consiglio di sicurezza dell'Onu, e cerca iniziative di ampio impatto per restaurare la sua credibilità a pezzi: provoca, incita alla violenza a Gerusalemme est, cerca il riconoscimento della Palestina a livello internazionale - e trova la condiscendenza colpevole di molti Parlamenti europei. Ma l'adesione alla Corte, alla vigilia delle elezioni in Israele, è una provocazione troppo grave, e un altro colpo forse definitivo al moribondo processo di pace. E' una mossa dettata dalla disperazione, e in quanto tale si ritorcerà contro il presidente palestinese. Il Congresso americano minaccia da tempo sanzioni contro l'Autorità in caso di adesione alla Corte, compreso il taglio dei 400 milioni di dollari annuali in finanziamenti, e sicuramente Gerusalemme applicherà sanzioni e tagli di aiuti. Ne risentirà la popolazione civile, Abu Mazen avrà buon gioco a incolpare Gerusalemme, la comunità internazionale non dovrà cadere nella sua trappola.

(Il Foglio, 2 gennaio 2015)


La "fuga" degli ebrei dalla Francia (e dall'Europa)

di Leonard Berberi

 
Ebrei in fuga dalla Francia. Dall'Europa Occidentale. Dall'Ucraina. In quello che - a livello generale - rappresenta già di per sé un record. Dice la Jewish Agency che più di ventiseimila persone (26.500, per la precisione) hanno deciso nel 2014 di fare l'aliyah, cioè di andare a vivere, di trasferirsi - forse per sempre, sicuramente per molto tempo - in Israele. L'anno prima erano state in 20 mila. L'aumento dal 2013 è del 32 per cento. Un record, appunto.
   Ma nel record c'è un altro primato. Quello di chi lascia Parigi e Bordeaux, Marsiglia e Lione, Nantes e Nizza. Per la prima volta nella storia la Francia è il Paese che dà il contributo maggiore: quasi 7.000 hanno fatto l'aliyah da Oltralpe verso il Medio Oriente. L'anno prima erano stati 3.400. Nel 2014 francese è pure il più vecchio: a 104 anni ha deciso di chiudere con l'Europa.
Al secondo posto c'è l'Ucraina. Dove si è passati da 2.020 ebrei del 2013 a 5.840. I fatti della Crimea, le tensioni con la Russia, le violenze di Donetsk hanno spinto migliaia di persone a lasciare l'Europa. L'incremento, calcolatrice alla mano, è del 190 per cento.
Natan Sharansky, presidente della Jewish Agency, va in più in profondità dei numeri. E rivela che il 2014 è una novità anche per altre ragioni. Non solo per il record della Francia. «Per la prima volta da quando esiste questo tipo di registro, l'anno passato sono arrivate più persone dal "mondo libero" che da quello "in crisi"».
   Sharansky esulta. Compito della Jewish Agency è soprattutto quello di promuovere l'aliyah. Grazie anche all'aiuto del ministero per l'Assorbimento dell'immigrazione. «I dati sono eccezionali, sono molto contenta di vedere i risultati dei nostri sforzi di incoraggiare l'aliyah», commenta la ministra Sofa Landver, esponente di Israel Beitenu ("Israele la nostra casa"), il partito di Avigdor Lieberman. «Ma non abbiamo ancora raggiunto il nostro obiettivo. Prevediamo che nel 2015 dalla sola Francia verranno altri 10 mila e nello stesso periodo supereremo i 30 mila nuovi ingressi».
   I dati, quindi. L'aliyah - per gli ebrei che vivevano fino a pochi mesi fa nell'Europa occidentale - è aumentata dell'88 per cento (dagli 4.600 del 2013 agli 8.640 del 2014). Oltre alla Francia, altri 620 hanno lasciato il Regno Unito, altri 340 («il doppio rispetto all'anno prima») hanno trasferito la loro residenza dall'Italia. La Germania resta stabile (120). In aumento gli arrivi anche dall'ex Unione sovietica (+50 per cento) e dagli Stati Uniti (+8 per cento). Stabili l'America Latina e il Sudafrica. In calo Europa dell'Est, Australia e Nuova Zelanda.
Ma qual è il profilo medio di chi fa l'aliyah? Giovane, con meno di 35 anni. Laureato. Con un lavoro da ingegnere o informatico (2.500). In tanti hanno specializzazioni in campo umanistico, matematico, fisico o delle scienze sociali. In mille sono medici. In 600 artisti e atleti. Buona parte finisce a Tel Aviv, la destinazione preferita (3.000 trasferimenti). Poi Netanya, altra città sul mare. Gerusalemme si piazza «solo» al terzo posto.

(Falafel Cafè, 2 gennaio 2015)


Grazie alla Nigeria il Consiglio di Sicurezza boccia la mozione estremista filopalestinese

di Fiamma Nirenstein

Abu Mazen ha tentato di togliersi lo schiaffo dalla faccia annunciando immediatamente che avrebbe firmato il trattato di Roma per entrare a far parte della Corte Criminale dell'Aja. Pallida vendetta che apre un 2015 infuocato in Medio Oriente. Ma dato che i crimini di guerra dei palestinesi non sono pochi, può diventare anche questa una mossa pericolosa per loro, proprio come quella che ha concluso così male l'anno appena finito. Il Consiglio di Sicurezza dell'Onu infatti, senza nemmeno che gli Stati Uniti dovessero opporre il veto, non ha regalato ai palestinesi i nove voti necessari al riconoscimento della mozione presentata dalla Giordania. Ha sorpreso il no della Nigeria, evidentemente grata a Israele per i consigli e l'aiuto contro i terroristi di Boko Haram. La timida Europa si è spaccata, perché la Francia dopo aver finto un atteggiamento di mediazione, ha deciso che comunque le costava poco mantenere il consenso arabo, e ha votato per Abu Mazen: l'Inghilterra ha seguito il buonsenso e gli Usa. Sono stati decisivi il voto americano e quello dell'Australia, vecchi amici di sempre. È strano che Abu Mazen si sia affrettato a far votare la mozione nonostante i prossimi Stati in rotazione al Consiglio siano suoi vecchi alleati, il Venezuela e la Malesia. Ma la verità è che si sente il fiato sul collo da parte di Hamas, sempre più potente, e di altri gruppi di opposizione. Certo è che la mozione era tanto impresentabile da pensare fosse stata presentata per finta: aboliva del tutto di fatto il principio della trattativa, definiva i futuri confini dello Stato palestinese, stabilendo che fossero quelli del 1967. Ma persino la risoluzione 242 dell'Onu non prevede che Israele debba lasciare completamente i territori conquistati in una guerra di difesa, e necessari, almeno in parte, alla sicurezza. La mozione arrivava a dire che se in tre anni non saranno raggiunti i risultati desiderati dai palestinesi, compresa Gerusalemme capitale e diritto al ritorno, questo avverrà automaticamente.

(il Giornale, 2 gennaio 2015)


Netanyahu accusa l'Autorità palestinese di essere alleata con i terroristi

Risponde con un duro attacco il premier israeliano Netanyahu all'ultima mossa compiuta dall'Autorità palestinese. La decisione di richiedere l'adesione alla Corte penale internazionale, è per il governo israeliano un affronto.
"Ci aspettiamo che il Tribunale penale internazionale - ha detto il premier israeliano - respinga totalmente la domanda presentata dai palestinesi, perché l'Autorità palestinese non è uno stato, ma un'entità alleata ad un'organizzazione terroristica. Hamas, commette crimini di guerra e lo Stato di Israele è uno stato di diritto con un esercito regolare che agisce nel rispetto delle leggi internazionali. Difenderemo i soldati israeliani nello stesso modo in cui loro ci proteggono".
L'Autorità palestinese punta a portare davanti ai giudici Israele con l'accusa di crimini di guerra, ma non solo.
"La Palestina - spiega il negoziatore Saeb Erekat - si impegna a rispettare le leggi internazionali e tutti gli obblighi prescritti dalle convenzioni e dai trattati che abbiamo sottoscritto. Al tempo stesso presentiamo una richiesta di adesione ad altri accordi, in particolare al trattato di non proliferazione e al Registro della Corte penale internazionale ".
Ad inasprire le tensioni nella regione pesare anche la bocciatura al Consiglio di sicurezza dell'Onu della mozione che fissava al 2017 la fine dell'occupazione militare israeliana in Cisgiordania.

(euronews, 2 gennaio 2015)


La Nigeria dà lezioni all'Europa: boccia all'Onu il voto anti Israele

Contro Boko Haram e Hamas.

di Daniel Mosseri

Il diritto di Israele a vivere entro confini sicuri sta più a cuore all'Africa che all'Europa. Non è certo nella Francia di François Hollande che lo Stato ebraico trova in queste ore sostegno politico e diplomatico. Tantomeno nel piccolo Lussemburgo, guidato fino a ieri dall'attuale presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, Certo, a parole l'Europa ha sempre difeso e continua a difendere il diritto di Israele alla pace e alla sicurezza' ma alla prova dei fatti il Vecchio Continente non manca mai di deludere i governanti - e i cittadini - dello Stato ebraico. Basta vedere cos'è successo martedì scorso alle Nazioni Unite: i quindici membri del Consiglio di Sicurezza sono stati chiamati a esprimersi su una bozza di risoluzione avanzata dalla Giordania, presente nel massimo organo di governo dell'Onu a titolo di membro non permanente. Il testo prevedeva il ritiro di Israele entro il 2017 sulla linea verde successiva alla Guerra dei Sei Giorni (1967) e la costituzione su quei territori di uno Stato di Palestina con Gerusalemme est come capitale. Fumo negli occhi non solo per il governo uscente del premier israeliano Benjamin Netanyahu ma per tutto l'establishment dello Stato ebraico. Il testo preparato dall'Autorità palestinese e portato da Amman al Palazzo di Vetro è stato però bocciato di misura: oltre ai giordani, hanno votato a favore Cina, Francia, Russia, Argentina, Chad, Cile e Lussemburgo. N o invece da Stati Uniti e Australia, e astensione per Regno Unito, Lituania, Corea del Sud, Nigeria e Ruanda. Avendo raccolto solo otto voti a favore contro i nove necessari' la risoluzione è stata respinta.
   Netanyahu, dal canto suo, non era troppo preoccupato visto che il segretario di Stato americano John Kerry aveva già preannunciato il possibile ricorso degli Usa al diritto di veto. Obama non lo avrebbe certo fatto per fare un favore a Netanyahu, che detesta, ma gli Usa sono da sempre il primo sponsor di una soluzione negoziata al conflitto israelo-palestinese e non avrebbero potuto tollerare l'intervento dell'Onu a gamba tesa. «Abbiamo votato contro non per difendere lo status quo, ma perché crediamo che la pace debba arrivare da un compromesso», ha ribadito l'ambasciatore Usa, Samantha Power. Allo stesso tempo la Casa Bianca non ama ricorrere al diritto di veto per difendere Israele dagli arabi, ma a togliere le castagne dal fuoco a tutti ci ha pensato la Nigeria. Tutti davano per scontato che il più grande Paese africano, 160 milioni di abitanti il 50% dei quali di fede musulmana, avrebbe appoggiato il testo palestinese. Con la sua astensione, Abuja ha invece segnato un'importante inversione di rotta e non è un caso che l'Autorità palestinese abbia parlato di «una grande delusione» e di un comportamento «chiaramente contraddittorio» con l'appartenenza della Nigeria all'Organizzazione della Conferenza islamica.
   Il presidente Abu Mazen sembra però aver dimenticato che lo scorso ottobre il presidente nigeriano Goodluck Jonathan ha visitato Israele - una prima assoluta per il governo di Abuja - firmando fra pacche sulle spalle e strette di mano una serie di accordi bilaterali con il governo Netanyahu. E mentre lo stesso Abu Mazen dialogava con i jihadisti di Hamas per ricostituire un governo di unità nazionale, il leader nigeriano è in guerra contro i jihadisti di Boko Haram. A Parigi, capitale europea dell'antisemitismo di matrice islamica, invece non se ne sono accorti e la Francia ha appoggiato con tutta la sua grandeur un progetto che mandava a farsi benedire oltre 20 anni di negoziati.
   Gli europei che soffiano sul nazionalismo palestinese ma che odiano il nazionalista Netanyahu hanno rischiato di infliggere una mazzata a quel centro-sinistra israeliano che a marzo tenterà di togliere a Bibi lo scettro del potere. Alla parte politica, cioè, che più di tutti crede a una soluzione negoziata del conflitto e che, al pari di Netanyahu (o di Goodluck Jonathan), rifiuta di fare la pace con i jihadisti di Hamas (o di Boko Haram).

(Libero, 2 gennaio 2015)


Buongiorno Italia, l'edizione speciale del Corriere Merkos, quando l'assistenza è kosher

Gennaio 2014
"L'altro paese, quello delle buone notizie". Si presenta così l'edizione speciale del Corriere della sera datata primo gennaio 2015. Un'edizione interamente dedicata ai fatti, alle storie, ai personaggi che sono in grado di regalare un po' di ottimismo per il nuovo anno. Tra le esperienze che vengono riportata con maggior risalto l'istituzione di Beteavon, la prima cucina kosher sociale d'Italia fondata a Milano dal movimento Chabad-Lubavitch. "La cucina sociale kosher regala pasti a domicilio", titola a tutta pagina il Corriere.
Cuciniamo quotidianamente per i nostri studenti. Ci siamo interrogati: perché limitarci a loro? Perché non trasformare una piccola cucina comunitaria in una grande cucina di tutti?" spiega il rabbino Igal Hazan raccontando l'origine del progetto Beteavon, rivolto oggi a un numero sempre più significativo di persone in difficoltà, permanente ma anche transitoria. Una mano viene infatti tesa anche a chi attraversa problematiche meno strutturali come la madre a letto per una gravidanza a rischio, il giovane solo convalescente, la coppia di anziani che con il freddo fatica a uscire per la spesa. "Le fragilità, in un momento di crisi, sono tante. Ma Beteavon non pensa solo all'emergenza", scrive l'articolista.
   "Non è facile aiutare, superare barriere e resistenze psicologiche" sottolinea Yudith Luzzati, che segue il contatto con i clienti. Significativi, per questo, gli sforzi adottati per rispettare la privacy e la dignità di ogni assistito.
   Il cibo viene così contrassegnato da un'etichetta che riporta un codice. E a ogni codice corrisponde un nucleo familiare. Niente nomi, nessun riferimento sulla destinazione dei pasti. "Siamo solo in due a sapere, oltre all'autista e ai volontari della consegna" sottolinea Luzzati.
   In cucina, al pianterreno della Merkos, si alternano oggi 25 volontarie, tra cui alcune donne non ebree. L'obiettivo per il 2015 è di arrivare a 1500 pasti la settimana e di rafforzare la collaborazione con altre realtà attive nel mondo del volontariato e dell'assistenza. "Volontari ebrei con volontari cristiani che sfamano cinesi, arabi, europei dell'Est. Che meraviglia", commenta rav Hazan.

(moked, 1 gennaio 2015)


Another Look, il cinema restaurato in Israele

 
HAIFA, 1 gen - A partire dal 15 gennaio, nelle Cineteche di Haifa, Tel Aviv e Gerusalemme partirà la terza edizione di "Another Look - Progetto di cinema europeo restaurato", frutto di una singolare iniziativa congiunta che si propone di sensibilizzare il pubblico locale tanto al patrimonio cinematografico europeo, quanto agli strumenti ideati e utilizzati per preservarlo. Grazie alla collaborazione della Delegazione dell'Unione Europea in Israele e delle Rappresentanze dei tredici paesi partecipanti, saranno proiettati tredici film in versione restaurata digitale di altissima qualità. Le opere presentate sono state selezionate sulla base del valore artistico e del significato che esse ricoprono nel documentare l'evoluzione storica ed i molteplici aspetti della cinematografia europea. Gli Istituti Italiani di Cultura di Tel Aviv e di Haifa presenteranno "La Macchina Ammazzacattivi", capolavoro di Roberto Rossellini, restaurato nel 2013 da Fondazione Cineteca di Bologna, CSC-Cineteca Nazionale, Coproduction Office e Istituto Luce Cinecittà, presso il laboratorio L'Immagine Ritrovata.
Oltre a "La Macchina Ammazzacattivi", all'interno del programma di "Another Look" verrà proiettato nelle tre cineteche anche "Roma Città Aperta" dello stesso Rossellini. Il calendario completo delle proiezioni è consultabile sul sito ufficiale della manifestazione, anotherlook.co.il.

(9 colonne, 1 gennaio 2015


Tutto quello che c'è da sapere sull'ultima guerra tra Hamas e Israele

In luglio l'esercito di Gerusalemme ha lanciato un'offensiva nella Striscia di Gaza. L'obiettivo era quello di distruggere i tunnel usati dai miliziani di Hamas per attaccare città e villaggi israeliani.

di Maurizio Molinari

Quando e perché vi è stato l'ultimo conflitto armato nella Striscia di Gaza fra Hamas e Israele?
Il conflitto è iniziato l'8 luglio, quando Israele ha lanciato l'operazione «Margine Protettivo» in risposta al massiccio lancio di razzi da parte di Hamas contro i centri urbani del Sud. La crisi era iniziata a metà giugno con il rapimento e l'uccisione di tre ragazzi ebrei da parte di Hamas a Sud di Gerusalemme. Israele aveva risposto con arresti e blitz anti-Hamas in Cisgiordania, a cui Hamas reagì col lancio di razzi da Gaza.

- Quanto è durato il conflitto e quali caratteristiche ha avuto?
   durato 50 giorni, nei primi 10 Israele ha condotto un'offensiva aerea e poi ha lanciato una vasta operazione di terra. È stato un conflitto su due fronti: Hamas ha bersagliato i centri urbani di Israele lanciando 4564 fra razzi e colpi di mortaio ma il 95 per cento di quelli destinati a colpire zone densamente abitate sono stati intercettati dal sistema difensivo «Iron Dome»; Israele ha fatto massiccio uso di aviazione, artiglieria e tank per demolire le strutture di Hamas dentro la Striscia, distruggendo in particolare i tunnel sotterranei scavati sotto il confine per colpire i kibbutzim del Negev.

- Quali sono state le conseguenze del conflitto?
   «I palestinesi hanno registrato oltre 2200 vittime e Hamas avrebbe subito la perdita di oltre 300 miliziani. Ciò significa che gran parte dei morti palestinesi sono stati civili. Israele ha subito la perdita di 66 soldati e 6 civili. Alcune aree di Gaza, come a Sajayia, Beit Hanun e Rafah hanno registrato imponenti devastazioni e la ricostruzione della Striscia prenderà anni».

- Chi ha vinto e chi ha perso?
   Entrambe le parti affermano di aver vinto. Hamas ritiene che il successo sia stato nel non capitolare davanti all'offensiva di terra, conservando il controllo della Striscia ottenuto nel 2007 e riuscendo a colpire Israele in profondità con razzi a lungo raggio. Israele ribatte che il successo è stato nell'aver inflitto un duro colpo militare a Hamas, depotenziandone l'arsenale. Il cessate il fuoco, ottenuto grazie alla mediazione egiziana, è assai precario in maniera analoga a quanto avvenuto dopo i precedenti due conflitti Hamas-Israele, combattuti sempre nella Striscia nel 2008 e 2012.

(La Stampa, 1 gennaio 2015)


"Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi, è nell'aria"

di Anna Cerofolini

Alcuni luoghi raccontano, proteggono, tramandano la memoria della storia di un popolo. Lo si percepisce attraversandoli, uno di questi luoghi si trova lungo le rive del Tevere dove gli ebrei furono confinati per volere di Papa Paolo IV nel 1555 attraverso la bolla "Cun nimis absurdum".
Oltre a essere soggetti a restrizioni giuridiche, sociali ed economiche per gli Ebrei nasceva anche l'obbligo di essere isolati in un quartiere prigione chiuso da muri e cancelli: il Ghetto.
In realtà gli ebrei sono presenti a Roma da più di duemila anni. L'Italia ha una storia ebraica ininterrotta e la comunità ebraica di Roma sotto l'impero Romano si sviluppò diventando uno dei centri ebraici più grandi della diaspora.
Il "serraglio degli ebrei" fu edificato nel rione Sant'Angelo in una zona malsana e soggetta alle inondazioni del fiume; bisogna infatti ricordare che i lavori di sistemazione degli argini del Tevere furono eseguiti solo nel XIX secolo.
 
L'area confinante con il Teatro Marcello comprese anche i resti del Portico d'Ottavia ricostruito da Augusto tra il 27 e il 23 a.C. e sin dal Medioevo ospitava la chiesa di Sant'Angelo in Pescheria e il mercato del pesce: la lastra marmorea dei Conservatori di Roma attesta il privilegio di quest'ultimi sul pescato.
Nel Ghetto era prevista un'unica Sinagoga, per questo la popolazione scelse di inserire all'interno di un unico palazzo cinque diverse "schole" sinagoghe legate agli ebrei romani e agli esuli di diversa provenienza. L'odierna piazza delle Cinque Scòle prende il nome dall'antico edificio e attraversandola si può ancora ammirare la Fontana del Pianto realizzata su disegno di Giacomo della Porta, così come la Fontana delle Tartarughe in piazza Mattei con gli Efebi in bronzo del Landini e le quattro tartarughe attribuite dalla tradizione al Bernini.
Su vicolo Costaguti si vede il Tempietto del Carmelo della metà del Settecento adorno di sei colonne in cui gli Ebrei erano costretti il sabato ad assistere alle prediche coatte allo scopo di convertirsi al Cristianesimo.
L'abolizione totale del ghetto si avrà solo nel 1870 a seguito della breccia di Porta Pia, quando Roma viene annessa al Regno d'Italia e termina il potere temporale dei Papi. Il ghetto allora fu in parte demolito e vennero edificate nuove strade ed edifici.
Oggi attraverso una visita tridimensionale all'interno del Museo Ebraico nel complesso monumentale del Tempio Maggiore è possibile riscoprirne l'antico aspetto e rivivere attraverso marmi, argenti, pergamene miniate e tessuti preziosi la storia bimillenaria degli ebrei di Roma.
Ma è la memoria storica a noi più vicina che camminando attraverso le vie, sfiorando i muri delle case, ascoltando il rumore delle botteghe e percependo il profumo dei cibi si fa più forte, la vita, quella di tutti giorni, interrotta, oscurata, spezzata dalle leggi razziali fasciste del settembre del 1938 da quel momento gli ebrei devono diventare degli "invisibili", ma subdolamente isolati e ben identificati.
Fino all'alba di sabato 16 ottobre 1943, "il sabato nero" fu scelto intenzionalmente l'inizio dello Shabbat ebraico quando le famiglie per consuetudine religiosa si riuniscono e alle 5.15 circa, le SS accerchiarono l'antico ghetto e risuonarono le parole su quei fogli in mano ai nazisti: "Insieme con la vostra famiglia e con gli altri ebrei appartenenti alla vostra casa sarete trasferiti; bisogna portare con sé viveri per almeno otto giorni, soldi, gioielli, vestiti pesanti, tessere annonarie, carte d'identità; ammalati anche casi gravissimi non possono in alcun caso rimanere indietro, l'infermeria si trova al campo. Venti minuti dopo la presentazione di questo biglietto la famiglia deve essere pronta a partire".
Furono deportate più di mille persone - uomini, donne, anziani e bambini - nel campo di concentramento di Auschwitz. Solo quindici uomini e una donna ritorneranno a casa dalla Polonia, nessun bambino.
Passeggiare in quello che era il ghetto di Roma significa attraversare la memoria di un popolo perché come ricordava Primo Levi: "Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi, è nell'aria. La peste si è spenta ma l'infezione serpeggia: sarebbe sciocco negarlo".

(Articolo 21, 1 gennaio 2015)


La Palestina vuole aderire alla Corte Penale Internazionale

Mahmoud Abbas ha firmato i documenti per fare poi ricorso contro l'occupazione di Israele in Cisgiordania, ma la decisione potrebbe avere conseguenze pesanti per l'Autorità Nazionale Palestinese.

Mahmoud Abbas, presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese, l'organismo politico di governo della Palestina, ha firmato lo Statuto di Roma, ovvero il documento fondativo della Corte Penale Internazionale: l'intenzione di Abbas è che la Palestina venga riconosciuta dalla Corte e possa appellarsi per ottenere dei risarcimenti e delle sanzioni nei confronti di Israele per l'occupazione della Cisgiordania. Le autorità palestinesi potrebbero anche chiedere alla Corte di indagare su possibili crimini di guerra compiuti tra il 2008 e il 2009 durante la guerra di Gaza, e più recentemente quest'estate.
  «È in corso un'aggressione contro la nostra terra e il nostro paese, e il Consiglio di Sicurezza ci ha abbandonati, cos'altro possiamo fare?» ha detto Abbas commentando la decisione di aderire alla Corte Penale Internazionale, che segue di pochi giorni una decisione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite contraria a una risoluzione che chiedeva la fine dell'occupazione israeliana in Palestina.
   Israele e Stati Uniti hanno reagito piuttosto duramente alla decisione di Abbas di cercare sanzioni contro Israele e, come scrive il New York Times, potrebbero decidere di approvare delle sanzioni economiche contro la Palestina che secondo alcuni analisti rischierebbero di portare persino alla fine dell'Autorità Nazionale Palestinese. Il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha definito la decisione di Abbas «controproducente» spiegando che porterà solo a un'esacerbazione del conflitto israelo-palestinese, mentre il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che dovrebbe essere l'Autorità Nazionale Palestinese «che governa con i terroristi di Hamas» ad essere preoccupata di possibili sanzioni della Corte Penale. Un eventuale riconoscimento della Palestina da parte della Corte Penale Internazionale, infatti, significherebbe che anche la Palestina stessa potrebbe essere oggetto di sanzioni e cause da parte di altri stati.
   Sulle ragioni che possono aver spinto Abbas a prendere una decisione potenzialmente così rischiosa per il futuro dell'Autorità Nazionale Palestinese, il New York Times suggerisce che possa valere l'attuale bassa popolarità di Abbas, che dopo il conflitto di questa estate nella Striscia di Gaza è scesa secondo un sondaggio dal 50 al 35 per cento: se si votasse oggi Fatah, il partito moderato di Abbas, verrebbe sconfitto da Hamas.
   L'Autorità Nazionale Palestinese aveva già provato nel 2012 a farsi riconoscere dalla Corte Penale Internazionale, che aveva però respinto la richiesta perché i trattati prevedono che solo gli stati possano fare ricorso alla Corte. Il nuovo tentativo di Abbas è dovuto al fatto che nel 2012, pochi mesi dopo il respingimento delle richieste da parte della Corte Penale Internazionale, la Palestina aveva però ottenuto lo status di "stato osservatore non membro" dell'Assemblea delle Nazioni Unite. Se la Corte Penale Internazionale dovesse riconoscere il diritto dell'Autorità Nazionale Palestinese ad appellarsi contro Israele c'è un limite di 90 giorni prima del quale un nuovo stato non può presentare ricorsi presso la Corte.

(il Post, 1 gennaio 2015)


Netanyahu vince le primarie

Il premier israeliano guiderà il Likud, il partito di maggioranza relativa, alle elezioni di marzo.

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha vinto le primarie del Likud, il partito di maggioranza relativa alla Knesset, e lo guiderà alle elezioni di marzo.
Dopo lo scrutinio del 60% dei voti, Netanyahu è in testa con l'80% delle preferenze: un vantaggio inattaccabile dalllo sfidante Danny Danon, ex viceministro della Difesa.
Il premier, affermano gli osservatori, è impegnato nel bloccare i "falchi", per impedire che l'asse del partito si sposti complessivamente più a destra mentre, a tre mesi dalle elezioni politiche, ha dovuto incassare la presa di distanza di quello che finora era stato uno stretto alleato, il ministro degli esteri Avigdor Lieberman: l'attaccamento allo status-quo perseguito dal premier nel conflitto con i palestinesi "ha fallito" e Israele ha bisogno di "una iniziativa", altrimenti dovrà fronteggiare "uno tsunami diplomatico", aveva affermato il 24 dicembre Lieberman.

(Giornale di Sicilia, 1 gennaio 2015)


Statistiche 2014

All'inizio di un nuovo anno presentiamo, come incoraggiamento per chi ci ha seguito e in qualche forma ha collaborato, un quadro delle visite fatte al sito "Notizie su Israele" nell'anno appena terminato. Come risulta dalla tabella a lato, dal 1 gennaio al 31 dicembre 2014 le visite al sito sono state 466.287, con una media giornaliera di 1.277. Ringraziamo di cuore chiunque abbia pregato anche una sola volta per questo servizio, per chi lo svolge e, soprattutto, per Israele nella sua relazione con il Vangelo, come indica il titolo web di questo sito.

Auguriamo a tutti un nuovo anno benedetto dal Signore.

(Notizie su Israele, 1 gennaio 2015)


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