Notizie 1-15 gennaio 2015
Raccolta di progetti di ricerca congiunti Italia - Israele
Pubblicato un bando per la raccolta di progetti congiunti di ricerca per l'anno 2015, sulla base dell'accordo di cooperazione nel campo della ricerca e dello sviluppo industriale, scientifico e tecnologico tra Italia e Israele.
Nell'ambito delle attività previste dall'Accordo di Cooperazione nel Campo della Ricerca e dello Sviluppo Industriale, Scientifico e Tecnologico tra Italia e Israele, è stato pubblicato un bando per la raccolta di progetti congiunti di ricerca per l'anno 2015. I progetti di Ricerca e Sviluppo congiunti italo-israeliani possono essere presentati, nelle seguenti aree: medicina, biotecnologie, salute pubblica e organizzazione ospedaliera; agricoltura e scienze dell'alimentazione; applicazioni dell'informatica nella formazione e nella ricerca scientifica; ambiente, trattamento delle acque; nuove fonti di energia, alternative al petrolio e sfruttamento delle risorse naturali innovazioni dei processi produttivi; tecnologie dell'informazione, comunicazioni di dati, software, sicurezza cibernetica; spazio e osservazioni della terra; qualunque altro settore di reciproco interesse. Possono presentare progetti: in qualità di Partner Israeliano: una società di Ricerca e Sviluppo, che trarrà i propri profitti dalla vendita dei prodotti/servizi sviluppati nel corso della realizzazione del progetto. Il Partner Israeliano potrà essere assistito, per gli aspetti tecnologici e scientifici, da un soggetto non industriale,
(Finanziamenti News, 15 gennaio 2015)
Scritte antisemite ad Agrigento? Indagano i poliziotti della Digos
La scoperta è avvenuta sulla parete di un palazzo di via Porta di Mare dove ignoti hanno scritto "Boycott Israel", messaggio accompagnato da una svastica e una stella di David. In realtà si tratterebbe di un movimento politico di rivendicazione dei diritti palestinesi che affonda le radici nel lontano 2005: una campagna contro "il colonialismo israeliano".
A pochi giorni dai tragici fatti che hanno interessato Parigi, dopo l'attentato al giornale satirico "Charlie Hebdo", che ancora scuotono e tengono allerta il mondo intero, ad Agrigento sono comparse scritte dal contenuto antisemita. La scoperta è avvenuta sulla parete di un palazzo di via Porta di Mare dove ignoti, questa notte, hanno scritto "Boycott Israel", messaggio accompagnato da una svastica e una stella di David. Sulla vicenda stanno indagando gli uomini della Digos della Questura di Agrigento, guidati da Patrizia Pagano.
In realtà, lo appureranno gli inquirenti, si potrebbe trattarsi di un riferimento a un movimento politico di rivendicazione dei diritti palestinesi che affonda le radici nel lontano 2005: una campagna contro "il colonialismo israeliano", che si pone come obiettivi di porre termine all'occupazione e alla colonizzazione di tutte le terre arabe e smantellare il Muro, riconoscere i diritti fondamentali dei cittadini Arabo-Palestinesi di Israele alla piena uguaglianza, rispettare i diritti dei profughi palestinesi al ritorno nelle loro case e nelle loro terre come stabilito nella risoluzione 194 dell'Onu.
Anche se la svastica affiancata alla scritta qualche dubbio lo fa sorgere.
(AgrigentoNotizie, 16 gennaio 2015)
Gli ebrei di Roma dopo i fatti di Charlie Hebdo: noi non torniamo in Israele
ROMA - Il fenomeno della 'alyà', termine che si traduce con 'salita' ma con cui si intende il ritorno degli ebrei in Israele dalle nazioni europee, interessa l'Italia ormai da un paio di anni in modo consistente. A differenza della Francia, però, gli ebrei italiani non decidono di tornare in Israele per paura di attentati o per antisemitismo, ma per motivi differenti, legati principlamente alla ricerca di lavoro". E' quanto afferma il portavoce della Comunità ebraica di Roma, Fabio Perugia, raggiunto telefonicamente dall'agenzia di stampa Dire.
Nei giorni successivi agli attentati di Parigi, che hanno coinvolto anche gli ebrei transalpini a causa dell'assalto al supermarket kosher 'Hyper Cacher', dalla Francia giungono notizie relative ad un cospicuo numero di ebrei intenzionati a lasciare il Paese per tornare in Israele. A Roma e in Italia può succedere la stessa cosa? "Nonostante i fenomeni di antisemitismo e gli ultimi fatti di Parigi gli ebrei italiani non fuggono dall'Italia" spiega Perugia.
"Viviamo questi momenti con apprensione - prosegue il portavoce della Comunità ebraica romana - Attorno a noi le Prefetture hanno alzato i livelli di sicurezza. Ma noi siamo legati al nostro Paese e sappiamo che gli italiani sono moderati. Gli ebrei romani vivono in città da 2.200 anni circa e difficilmente potranno stradicare le loro radici così profonde. Israele è nel nostro cuore ma l'Italia non si può cancellare".
"Il problema è il lavoro - conclude Perugia - gli ebrei romani che scelgono il trasferimento in Israele lo stanno facendo principalmente per due motivi: quelli più anziani a causa della crisi economica, soprattuto gli adulti che hanno perso un lavoro magari legato agli antichi mestieri che stanno morendo. E poi ci sono i giovani che vanno a studiare nelle università israeliane, tra le migliori al mondo".
(Agenzia Dire, www.dire.it, 15 gennaio 2015)
Je ne suis plus. Basta, da oggi tomo a non essere Charlie
La libertà d'espressione non si tocca. Ciò non toglie che quel giornale incarni il peggio del nichilismo di sinistra che disprezza l'Occidente. E' proprio dentro questa cultura anarchica, distruttiva e blasfema che si annida il motivo vero dell'indebolimento della nostra società.
di Mario Giordano
Scusate, ma devo dire una cosa un po' difficile, forse persino un po' dolorosa. Anche per me stesso. Però devo dirvela: è da stamattina che non mi sento più tanto Charlie. Anzi, proprio per nulla. Te ne suis pas Charlie. Te ne suis plus Charlie. Ne ho avuto la netta sensazione sfogliando il nuovo numero del settimanale satirico francese appena arrivato in edicola. Guardavo le pagine, diventate loro malgrado il simbolo della nostra civiltà offesa, e pensavo: ma possono essere davvero il simbolo della nostra civiltà offesa? Abbiate pazienza, ma io in quelle vignette non mi riconosco. Nemmeno un po'. Anzi, al contrario: penso che qui dentro, dentro questi fogli della sinistra sessantottarda, dentro questa cultura anarchica e distruttiva, dentro questi schizzi blasfemi che fanno a pezzi i nostri valori, dentro gli sberleffi che mettono alla berlina i nostri credi, ci sia il motivo vero della debolezza occidentale. Il motivo per cui siamo in balia di un nemico così terribile come quello islamico.
Sia chiaro: da questo nemico terribile Charlie Hebdo va difeso con ogni mezzo perché dobbiamo salvare la libertà di espressione. Ed è stato giusto, per una settimana, essere diventati tutti Charlìe, con quello slogan che ha riempito le piazze, Je suis Charlie, Nous sommes Charlie ... Ma un conto è difendere la libertà di esprimersi, un conto è difendere ciò che viene espresso: la differenza, ne converrete, non è nemmeno così sottile. Siamo pronti alla battaglia per garantire la libertà di Charlie Hebdo di disegnare e scrivere ciò che vuole. Ma allo stesso modo dobbiamo essere liberi di dire che quello che Charlie Hebdo disegna e scrive non ci piace. Nemmeno un po'.
Perché Charlie Hebdo incarna in sé il peggio del nichilismo post-Sessantotto, il peggio del gauchisme radicalnullìsta, il peggio della rivoluzione permanente ed effettiva. Si sono messi contro gli islamici perché amano da sempre mettersi contro tutto: contro gli ebrei, contro i cattolici, contro la Patria, contro l'esercito, contro le istituzioni, contro la famiglia, contro l'ordine, contro la sicurezza, contro la polizia, contro il commercio, contro le imprese, contro l'idea stessa di nazione e contro ogni Dio. Amano, cioè, mettersi contro tutto quello che costituisce il fondamento stesso di questa società occidentale, che pure oggi li difende a spada tratta. Ma da cui loro - ne siamo sicuri - continuano a sentirsi estranei. Anzi: avversari. Perché, diciamocela tutta, questa società occidentale che li difende a spada tratta a loro fa un po' schifo.
E allora Je suis Charlie, sicuro, fin che devo difendere il diritto di questi colleghi a dire la loro opinione. Ma Je ne suis plus Charlie se devono identificarmi con loro, che bestemmiano Dio, insultano le tradizioni, e usano il sacrosanto diritto di opinione per minare la società che glielo garantisce. Dunque, da oggi, visto che il settimanale è di nuovo uscito, scusate ma Je ne suis plus Charlie. Je ne suis plus Charlie perché non voglio e non posso accettare che i simboli della nostra società attaccata dal terrore islamica diventino proprio coloro che la nostra società la odiano. Coloro che la vorrebbero abbattere. E che la mettono in pericolo ogni giorno attaccandola nei suoi valori fondamentali. Se, in questa battaglia, dobbiamo metterei in fila dietro una bandiera, mi piacerebbe che essa fosse la bandiera della libertà dell'Occidente. Non un foglio che l'Occidente, al contrario, lo disprezza.
Invece si sta compiendo proprio questo. Un po' per interesse (operazione Hollande), un po' per soggezione culturale (la predominanza della sinistra), alla fine la difesa dell'Europa colpita al cuore si è trasformata nella difesa tout court dei contenuti (assai discutibili) di una rivista. Fateci caso: anche se nella carneficina di Parigi sono morti agenti, ebrei, custodi di palazzo, alla fine tutto si riduce al simbolo di Charlie Hebdo. Al suo messaggio irresponsabile e irriverente. Questo è l'errore fondamentale. Perché non dobbiamo dimenticare che nella guerra contro il fondamentalismo islamico la loro forza è la nostra debolezza. Se loro osano alzare le armi contro di noi è perché noi siamo in ginocchio, se credono di poterei sottomettere ai loro valori è perché noi abbiamo rinunciato ai nostri, se ritengono di poterei imporre le loro tradizioni è perché noi abbiamo rinunciato alle nostre. E di questa rinuncia il settimanale francese è la dimostrazione più lampante. Perciò, dopo essere stato per una settimana Cabu, Charb, Wolinski, Tignous, da oggi mi sento in dovere di dirvi: maintenenat non plus. Ora non più. Per difenderci davvero non possiamo essere Charlie.
(Libero, 15 gennaio 2015)
I contenuti di quella rivista satirica sono semplicemente disgustosi e deleteri per il vivere civile. Gli spazi di libertà personale devono esserci, ma non è indifferente il modo in cui vengono occupati. M.C.
Israele è il vero scudo dell'Occidente
Lettera al Giornale
Questo popolo, da sempre oppresso, vilipeso, straziato, umiliato, annichilito e dove possibile annientato, resta l'unico diaframma tra noi e i musulmani. Senza di loro, senza questo prezioso baluardo noi avremmo le ore contate, continuando col farci ammazzare opponendo al terrorismo islamico le nostre penose e inconsistenti sfilate di piazza con fiaccole e cartelli inneggianti al nulla assoluto e alla nostra incapacità di opporre una benché minima difesa. Israele non scende in piazza a fare processioni, risponde pane al pane. Per questo motivo i terroristi islamici odiano questo popolo che evitando di farsi sterminare impedisce loro di distruggere la nostra civiltà. Non è un caso che l'attentato alla redazione di Charlie Hebdo sia avvenuto in un Paese dove da sempre gli ebrei non vengono sufficientemente tutelati nel loro fondamentale diritto alla sopravvivenza. Purtroppo per noi ogni Paese ha i propri imbecilli che senza saperne e capirne di storia e di umanità continuano a prendersela con il popolo ebraico, non capendo che così facendo condannano a morte loro stessi e le loro famiglie.
Ester Livretti
(il Giornale, 15 gennaio 2015)
Naor Gilon, ambasciatore israeliano a Roma: "Italia non riconosca lo Stato di Palestina"
di Giulia Belardelli, Umberto De Giovannangeli
"Israele non ha alcuna intenzione di suicidarsi per far contento qualche leader europeo. Votare ora per il riconoscimento dello Stato di Palestina non potrebbe essere più sbagliato, per diverse ragioni. Spero che il Parlamento italiano non proceda con questo voto. Di Matteo Renzi ci fidiamo, è un amico di Israele. Ma bisogna tenere alta la guardia sulla tendenza dell'Europa a distinguere tra i terrorismi".
Naor Gilon, ambasciatore israeliano a Roma, non risparmia critiche ai paesi europei che si sono già pronunciati a favore del riconoscimento dello Stato palestinese, discussione che - a meno di slittamenti - dovrebbe iniziare a Montecitorio questo venerdì. A sentirlo parlare si capisce come la pace, in Terra Santa, sia ancora molto lontana. "Di Abu Mazen non possiamo fidarci", dice Gilon in diversi passaggi di questa intervista. "Inizio a pensare che non sia una figura all'altezza del raggiungimento della pace. E Hamas? Vogliamo parlare di Hamas? Per noi, dal punto di vista ideologico, non c'è differenza tra Hamas, Isis e al Qaeda: quello che vogliono è il califfato, l'imposizione della shari?ah. Oggi più che mai, il popolo ebraico deve difendersi da un nuovo e insidioso tipo di antisemitismo".
- Negli ultimi mesi diversi Parlamenti europei - Gran Bretagna, Francia, Spagna, Belgio, Danimarca, Irlanda, Portogallo - si sono pronunciati per il riconoscimento dello Stato palestinese, scelta compiuta ufficialmente dal governo svedese. Come valuta questi pronunciamenti?
Penso che passi di questo genere non siano costruttivi per il processo di pace, perché israeliani e palestinesi a Oslo hanno concordato sul fatto che i problemi sarebbero stati risolti tramite negoziati diretti. Ora i palestinesi stanno stravolgendo il concetto stesso di Oslo. Pensano sia possibile far arrivare qualcuno dall'esterno a imporre l'esito dei negoziati, senza pagare alcun prezzo. Inoltre, questi voti a favore del riconoscimento dello Stato palestinese sono delle affermazioni teoretiche, quasi delle promesse fatte ai palestinesi: "il mondo ci riconoscerà come Stato". Ma la praticabilità sul terreno è tutta un'altra storia. La verità è che i palestinesi devono venire a patti con Israele per avere uno Stato. Quindi, in un momento di massima tensione nel Medio Oriente, questi parlamenti non fanno altro che alzare le aspettative dei palestinesi, anche quando poi il risultato, probabilmente, sarà insoddisfacente - perché la vita quotidiana dei palestinesi, verosimilmente, non cambierà grazie ai pareri dei singoli parlamenti europei. Temo che la tensione che segna oggi il Medio Oriente e le relazioni israelo-palestinesi possa creare ulteriori problemi. Un altro aspetto riguarda il piano legale. La legge internazionale stabilisce che per creare uno Stato è necessario avere il controllo effettivo del territorio. Non so quale sia in Cisgiordania l'efficacia del controllo di Abu Mazen, ma penso che possiamo essere tutti d'accordo sul fatto che a Gaza non abbia alcun controllo effettivo. Penso che i voti europei non aiutino il processo di pace da nessun punto di vista, poiché non danno ad Abu Mazen alcuna motivazione per venire a parlare con noi.
- Il Parlamento italiano si appresta a discutere sul riconoscimento dello Stato di Palestina. Cosa si sente di dire ai parlamentari italiani alla vigilia di questa discussione storica? Una parte delle forze politiche, soprattutto sul versante del centrodestra, spinge per un rinvio della discussione perché considera il momento "inopportuno". Cosa ne pensa?
Penso che il tempismo con cui si vorrebbe avviare ora una discussione su questi passi unilaterali dell'Europa non possa essere più sbagliato. Dobbiamo guardare a ciò che è appena successo a Parigi. Per molti ebrei, il messaggio che esce da Parigi è che l'Europa non è più un posto sicuro per gli ebrei. Ora parliamo di questi attacchi perché sono stati terribili, ma non bisogna dimenticare che gli ebrei in Francia vengono perseguitati ogni giorno, anche se non fa notizia. Gli ebrei sono bersagli costanti di un nuovo tipo di antisemitismo. Giorgio Napolitano è stato uno dei primi presidenti a mettere in guardia su questa nuova forma di antisemitismo. Spesso il nuovo antisemitismo si coniuga con posizioni anti-israeliane che mirano alla delegittimazione totale di Israele e del suo diritto di esistere. Il motore che c'è dietro è musulmano, ma ci vediamo anche una combinazione di elementi antisemiti dell'estrema destra e dell'estrema sinistra - probabilmente l'unica componente che hanno in comune.
Per noi ebrei - e parlo da figlio di un sopravvissuto all'Olocausto - Israele è l'unico posto sicuro al mondo. Non faremo mai nulla che metta a repentaglio questo posto. Se qualcuno dall'esterno pensa di poterci imporre qualsiasi tipo di soluzione che percepiamo come un suicidio - dopo che un terzo della nostra nazione è stato distrutto in Europa - si sta sbagliando di grosso. Gli ebrei oggi hanno Israele, hanno il loro esercito, sono pronti a combattere e a difendere le loro vite. Non commetteremo un suicidio per soddisfare le volontà politiche di alcune persone. Inoltre, il tempismo è terribilmente sbagliato anche dal punto di vista del ragionamento politico. Ora in Israele siamo in piena campagna elettorale. Fino a maggio, non ci sarà un governo effettivo. È come avere un unico proiettile e spararlo nel momento peggiore. L'obiettivo verrà mancato di sicuro.
- Eppure diversi parlamenti - dalla Gran Bretagna alla Francia - hanno fatto valutazioni diverse... Perché l'Italia non dovrebbe seguire questo trend?
La maggior parte dei parlamenti europei non sta votando queste risoluzioni. Solo quattro o cinque nazioni si sono espresse in tal senso. La Germania, il paese oggi più potente in Europa, non lo ha fatto. Spero che il Parlamento italiano non si unisca a questa minoranza di parlamenti. Sarebbe un grande errore. Uno dei partiti che in Italia stanno spingendo molto questa mozione ha nel suo simbolo "Libertà" ed "Ecologia". Qual è l'unico paese in cui è possibile parlare di libertà nel Medio Oriente? Israele. Siamo l'unico paese aperto e liberale, dove le donne sono protagoniste attive della politica e dove può svolgersi un gay pride. E poi: "ecologia". Noi non sfruttiamo petrolio e gas naturali, siamo i produttori numero uno di tecnologie pulite. E chi è da biasimare? Noi, non Abu Mazen, che non è un leader democraticamente eletto. È un approccio sbilanciato di cui mi dispiaccio molto. Per fortuna, abbiamo tanti amici in Italia, tra cui la maggioranza del governo.
- Ecco, appunto, ci parli del premier Renzi. Le piace la sua leadership?
Non voglio dare voti ai politici italiani. Conosco Matteo Renzi da molto tempo, penso che stia facendo bene all'Italia. Credo stia lavorando per ridare all'Italia il ruolo che le spetta. L'Italia è stata un paese leader dal punto di vista economico, industriale, culturale, e lo è ancora. Il potenziale è ancora tutto qui, anche se spesso viene offuscato dallo sconforto e dalla sfiducia. Ci sono problemi come la disoccupazione giovanile che devono essere risolti subito. E penso che Renzi stia davvero cercando di fare qualcosa di buono per il paese.
- Quali sono, per Israele, i passi necessari al raggiungimento della pace?
Dovete capire che noi vogliamo la soluzione a due Stati. Da Oslo in poi, tutti i presidenti israeliani, incluso Benjamin Netanyahu, sperano nella soluzione dei due Stati. Noi vogliamo che si arrivi allo Stato palestinese, ma dobbiamo assicurarci che questo non diventi un'altra entità del terrore all'interno del Medio Oriente. Abbiamo già abbastanza entità del terrore attorno a noi. Dobbiamo essere sicuri che se creiamo uno Stato palestinese, esso sia forte, stabile e democratico. Sono almeno sei anni che non riusciamo ad avere dei negoziati seri con Abu Mazen; non è tornato al tavolo neanche durante i dieci mesi di congelamento degli insediamenti. Spesso ci sentiamo dire che questi pareri favorevoli non hanno un valore pratico, ma sono solo un modo di rafforzare Abu Mazen. Il punto è che ora Abu Mazen li sta utilizzando per andare alla Corte penale internazionale, ad esempio.
- Ottocento personalità israeliane, tra le quali premi Nobel e i più affermati scrittori, che certo non possono essere tacciate di essere filo-Hamas o peggio, hanno rivolto un appello all'Europa perché riconosca lo Stato di Palestina. C'è una ex ministra della Giustizia che non può essere considerata un'estremista di sinistra, la signora Livni, che ha abbandonato il governo dicendo: "questo governo è in mano ai coloni e ai loro rappresentanti nell'esecutivo", in particolare, come lei sa, il ministro dell'Economia Naftali Bennett. Questa parte di opinione pubblica israeliana è una nemica di Israele? E ancora: lei ha detto che Israele è ancora per una soluzione a due Stati. Ma dove dovrebbe nascere, secondo lei, uno Stato di Palestina, visto che una grande parte di Cisgiordania è ormai piena di insediamenti?
Come sapete, Israele è un paese democratico, una società molto liberale e aperta, dove è possibile ascoltare tutte le opinioni del mondo, tra cui quelle delle 800 persone in questione - anche se a me risulta siano meno. A breve ci saranno delle elezioni: saranno gli elettori a decidere, e allora vedremo cosa vuole davvero l'opinione pubblica di Israele. Sono certo che la maggior parte degli israeliani, da sinistra a destra, sia contraria a questo approccio unilaterale. Quanto a Tzipi Livni, so per certo che anche lei è contraria a questa risoluzione unilaterale. Solo una minoranza la pensa diversamente, e questo è legittimo. Per ciò che concerne gli insediamenti, la situazione è molto diversa: tutti gli insediamenti che abbiamo, compresa Gerusalemme, coprono tra l'1,5 e il 2% del territorio. Inoltre, la maggior parte delle costruzioni che stiamo facendo sono comprese in ciò che chiamiamo "area di insediamento"; difficilmente costruiamo altrove.
- Quando nel 2005 Sharon decise di evacuare alcuni insediamenti in cui vivevano circa 11mila persone, l'attuale primo ministro Netanyahu - dello stesso partito di Sharon - gridò al tradimento da parte di Sharon, tanto è vero che l'allora primo ministro scisse il Likud e creò Kadima. Se per Israele evacuare da Gaza 11mila persone equivaleva a essere sull'orlo di una guerra civile, e un primo ministro di destra come era Sharon veniva definito un traditore, può spiegare all'opinione pubblica italiana ed europea come sia possibile evacuare, sulla base di un eventuale accordo di pace, 400mila persone?
Innanzitutto a Gaza non c'è stata nessuna guerra civile; come in ogni paese democratico, abbiamo avuto delle divergenze d'opinione. Ci sono state delle elezioni, Kadima ha vinto e ha portato avanti la sua linea. Ora non si tratta di evacuare 400mila persone. Come ho detto prima, il numero di persone che non si trovano nell'area degli insediamenti è molto, molto minore. La maggior parte delle persone si trova a Gerusalemme e nell'area di insediamento. Non so dire il numero esatto, ma parliamo di non più di 100mila persone. La maggioranza vive in luoghi che da tempo si assume debbano rimanere di Israele. L'evacuazione dei coloni a Gaza non è stata facile, ma è stata fattibile. Lo avevamo già fatto anche nei Sinai.
- Non pensa che in futuro il problema per Israele, più che Mahmoud Abbas, possa diventare un signore di nome Abu Bakr al-Baghdadi? Lei sa che la società palestinese è comunque la società più pluralistica del mondo arabo, e presumibilmente uno Stato palestinese sarebbe uno Stato meno attratto dal fondamentalismo esasperato. Non crede che rinviando una negoziazione seria con l'attuale leadership palestinese il rischio sia che in Cisgiordania e a Gaza, invece di trovarvi di fronte ad al Fatah e Hamas, vi ritroviate i salafiti e l'Esercito islamico?
Abu Mazen non ha alcuna legittimazione e non sta facendo nulla per il bene del popolo palestinese. L'unico che ha provato a fare qualcosa è stato Salam Fayyad, che ora è stato relegato in un angolo. Sto iniziando a pensare che Abu Mazen non sia una figura all'altezza del raggiungimento della pace. Certo, ci può essere di peggio - puoi avere al Qaeda, l'Isis o qualcos'altro - ma è necessario capire che le aspettative di pace con Abu Mazen stanno svanendo. Prendiamo ad esempio la questione dei rifugiati: qualche settimana fa Abu Mazen ha detto che ci sono sei milioni di rifugiati palestinesi che devono tornare nelle loro città. Se qualcuno parla con Israele in questi termini, è chiaro che non vuole la pace. Non si può pensare di fare due Stati, uno senza ebrei e l'altro (dove c'è già un 20% di palestinesi) in cui dovrebbero arrivare qualcosa come sei milioni di palestinesi. E stiamo parlando di dividere una regione più piccola della Sicilia. Sempre più spesso sulla stampa palestinese si leggono incitamenti a uccidere tutti gli ebrei, anche sul sito di al Fatah si vedono cose incredibili. Abu Mazen può anche essere il leader migliore, ma sto iniziando a dubitare che possa bastare per la pace. Il problema è che i palestinesi continuano a essere evasivi sulle due questioni più critiche per Israele: i rifugiati e la sicurezza. Su questi due argomenti non c'è mai chiarezza. Con Arafat l'impressione era quella dell'approccio "a salame". Con la prima fetta di salame, cerchi di ottenere da Israele quanto più possibile (i confini del 1967). Con la seconda fetta di salame, sfrutti gli strumenti della democrazia e della demografia per creare nel tempo, con i rifugiati, un secondo stato palestinese all'interno di Israele. Questa è la paura di Israele.
- Dopo gli attacchi di Parigi, l'Europa è entrata in contatto con una paura nuova e profonda. Pensa che questo possa in qualche modo avvicinare i paesi europei a Israele?
Quando si parla di terrorismo, l'Europa fa differenziazioni del terrore. Il terrore contro Israele viene considerato un atto politico, e come tale un problema da giudicare in modo diverso. Quando il terrorismo è contro l'Europa, invece, si pensa che "oh, è terribile, questo è contro noi europei". In realtà, dal punto di vista ideologico, non c'è differenza tra Hamas, Isis e al Qaeda. Nel grande quadro, il califfato è nel loro orizzonte. Hanno metodi diversi, Hamas non decapita, lo stile è un altro, ma il modo di pensare è lo stesso. Dal nostro punto di vista, il terrore è sempre terrore. Sfortunatamente non tutti in Europa la pensano così. Hamas non vuole che Israele esista. È lo stesso concetto espresso da al Baghdadi quando dice che vuole conquistare Roma: "Qui avremo la shari'ah".
(L'Huffington Post, 15 gennaio 2015)
Non è un'Europa per noi
Il Vecchio continente rinuncia alla sua identità, abolisce le nazioni, entra nell'èra del post liberalismo multiculturale, lì dove tutto si equivale. Antisemiti e jihadisti ringraziano, la salvezza è a Gerusalemme.
di Natan Sharansky
Potenti correnti ideologiche sono al lavoro in Europa, e gli ebrei vivono una situazione sempre più precaria su questo Vecchio continente dove non si sentono più a casa loro. Si possono distinguere tre fenomeni, all'origine del loro sentimento di insicurezza: lo scacco dell'integrazione dei musulmani, il risorgere dell'antisemitismo di destra e le mutazioni del liberalismo politico europeo. Navigando nel relativismo culturale, i paesi europei rigettano oggi i particolarismi nazionali, non esigono più dai nuovi arrivati che
Avendo adottato una cultura "post identitaria", l'Europa diventa sempre più ostile all'idea di uno stato ebraico. Questa situazione mette gli ebrei di fronte a un dilemma profondo.
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essi adottino le norme e i valori culturali della maggioranza e creano così un clima favorevole al terrorismo islamista. Avendo adottato una cultura "post identitaria", l'Europa diventa sempre più ostile all'idea di uno stato ebraico. Questa situazione mette gli ebrei di fronte a un dilemma profondo: preservare il loro attaccamento a Israele o unirsi al coro della critica europea, a detrimento della loro stessa identità.
Sotto certi aspetti, questo dilemma non è certo nuovo. Già alla fine del XVIII secolo, nel momento dell'emancipazione civile del giudaismo dell'Europa occidentale, quando i ghetti scomparvero, gli ebrei affrontarono una scelta analoga: vivere tra di loro, coinvolgendosi meno nella vita della città, convertirsi al cristianesimo e fondersi nella maggioranza, o ancora rinunciare alla loro identità di popolo e relegare la loro pratica religiosa alla sfera privata, secondo il principio formulato da Clermont-Tonnerre: "Bisogna rifiutare tutto agli ebrei come nazione e accordare tutto come individui".
Molti ebrei hanno scelto quest'ultima opzione. Rispettando scrupolosamente le condizioni di questo patto, si sono ambientati nella nuova realtà. Quale che sia il loro grado di fede o di pratica religiosa, sono rimasti cittadini devoti alle rispettive nazioni, anche nei momenti di tensione.
Nel tempo, la maggior parte degli ebrei europei ha fermamente difeso l'ideale liberale che fissava un'Europa dove i diritti dell'uomo erano al cuore della sua visione del progresso. Fu solo con l'affermazione del fascismo e del totalitarismo che questo mondo liberale è venuto giù come un castello di carte.
La Seconda guerra mondiale e la Shoah hanno cambiato per sempre il destino della comunità ebraica mondiale. Il sionismo, all'inizio rifiutato da una gran parte dell'intellighenzia ebraica, è stato percepito come la sola risposta alle temibili sfide della storia. Numerosi sopravvissuti al genocidio sono emigrati verso lo stato ebraico nuovamente creato, e Israele è diventato una parte essenziale dell'identità degli ebrei che scelsero di rimanere nella diaspora.
Dopo un trauma come la perdita brutale di tutta la propria famiglia e del solo mondo che si è conosciuto, è normale cercare la prova che millenni di preghiere non sono stati fatica sprecata; che esiste ancora un filo che lega il passato alla speranza di un futuro; che non è né futile né folle continuare a sognare la possibilità di un mondo migliore. Israele è divenuto questa prova.
Così come il mondo ebraico, l'Europa liberale è stata profondamente sconvolta dall'orrore della Shoah.
Dopo secoli di conflitti religiosi e nazionali, sfociati in due terribili guerre mondiali, gli europei liberali hanno deciso di rigettare le loro identità nazionali per allontanare le fosche ombre del passato. Hanno quindi cominciato a sostituire l'ideale moderno di stato-nazione con un post nazionalismo che ha per orizzonte una società globalizzata, e con un post modernismo che considera tutte le culture e le tradizioni moralmente equivalenti.
Ora, ed è la cosa che più colpisce, l'Europa multiculturale che è il risultato di questa concezione post nazionale è anche, sotto molti aspetti, una Europa post liberale. In una democrazia liberale, si è chiamati a
Nell'Europa post liberale e multi- culturale, che considera tutte le culture sullo stesso piano e non incoraggia ad amare la propria identità, è proibito pensare che una cultura che rispetta i diritti individuali sia superiore alle identità illiberali.
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rispettare l'identità dei propri concittadini e quella delle minoranze del paese quanto la propria identità.
Nella democrazia post liberale, non si è incoraggiati ad amare la propria identità - forti identità conducono alle guerre, e la guerra è il male assoluto. In una società liberale, i diritti individuali sono un valore supremo, per il quale si è pronti a lottare, perfino a morire. Ma nell'Europa multiculturale, dovendo considerare tutte le culture sullo stesso piano, è proibito considerare che una cultura che rispetta i diritti individuali sia superiore alle identità illiberali. In breve, l'Europa post liberale potrebbe adottare come motto le parole di John Lennon: "Immagina che non ci siano nazioni
Nessuna ragione per cui uccidere o morire, e nessuna religione".
Dove si colloca Israele, lo stato ebraico e democratico, in rapporto a questa concezione del mondo? Israele ha visto la luce nel momento in cui l'idea di stato-nazione non era più di moda in Europa. Se, dopo la Shoah, nessun liberale al mondo poteva opporsi all'idea di uno stato ebraico, gli europei post liberali di oggi vedono sempre più Israele come le ultime vestigia dei loro errori passati, colonialisti e nazionalisti. Nel momento in cui l'Europa cominciava a rifiutare le aspirazioni identitarie, si è vista la creazione di uno stato ancorato senza vergogna a una identità etno-religiosa, dopo duemila anni di esilio. Nel momento in cui l'Europa decideva che la guerra era il più grande dei mali, Israele era - ed è tuttora - pronto a lottare, se serve con le armi, per garantire la propria esistenza come nazione.
Questo spiega almeno in parte perché, a dispetto di pericoli innumerevoli, l'Europa considera Israele come una delle più grandi minacce alla stabilità mondiale. L'integrazione degli ebrei era stata una delle colonne della concezione europea del progresso. Insistendo per ottenere il loro proprio stato nazionale, gli ebrei hanno scelto il lato sbagliato della storia. Anche se Israele arrivava a dimostrare di aver fatto tutto ciò che era in suo potere per arrivare alla pace e per minimizzare il numero di vittime civili palestinesi in combattimento, questo non bastava a coloro che considerano la sua stessa esistenza come un problema.
Tutto questo l'ho compreso dodici anni fa, durante la Seconda Intifada, discutendo con un gruppo di intellettuali francesi.
"L'esperienza sionista è fallita - mi dicevano con sollecitudine - l'oriente è l'oriente e l'occidente è l'occidente. Che cosa hanno a che fare gli ebrei con il medio oriente? Alla fine, Israele cesserà di esistere e gli ebrei dovranno tornare in Europa". Detto in altri termini, gli ebrei sono autorizzati a conservare la propria identità ebraica fin tanto che il suo mantenimento non semina disordine. Per gli europei post liberali di oggi, nessun ideale può giustificare il fatto di combattere. Che cosa hanno da fare i "colonialisti" ebrei in medio oriente? Quanti bambini palestinesi e israeliani saranno uccisi per mantenere in vita questo progetto nazionalista?
Ogni volta che Israele è costretto a difendersi, questo porta non solo a mettere in questione la sua legittimità, ma anche ad accrescere la pressione sui suoi sostenitori. E la pressione funziona. Consideriamo un esempio recente. Quello largamente raccontato dai media di Henk Zanoli, un olandese che aveva ricevuto una medaglia del governo israeliano per aver coraggiosamente salvato un ragazzo ebreo durante la Shoah. La scorsa estate, durante la guerra di legittima difesa di Israele nella Striscia di Gaza, Zanoli ha deciso di restituire la medaglia. La sua sconfessione colpisce. All'inizio, ha scritto, aveva sostenuto la creazione di un focolare nazionale ebraico, ma poi è arrivato alla conclusione che il sionismo contenga "un elemento razzista nell'aspirazione a costruire uno stato solo per gli ebrei". In effetti, ha aggiunto, "il solo modo di uscire dal pantano nel quale il popolo d'Israele si è ficcato sarebbe rinunciare totalmente al carattere ebraico di Israele". Solo se accadesse, egli potrebbe considerare l'idea di riprendersi la medaglia.
Se l'idea stessa di uno stato-nazione ebraico è in grado di provocare questa repulsione in un non ebreo compassionevole, può incitare anche gli ebrei a prendere pubblicamente le distanze dallo stato ebraico.
Finché i nostri nemici, nel loro culto confessato della morte, continue- ranno a cercare la nostra distru- zione, per il governo israeliano, quale che sia la sua composizione, non ci sarà altra scelta che difendere i suoi cittadini militarmente.
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Questi ebrei critici sottolineano spesso che il loro problema non è tanto l'esistenza di Israele in quanto tale, ma piuttosto la politica del governo israeliano: il modo di trattare i palestinesi, i suoi metodi di guerra e così via. A loro, risponderò che finché i nostri nemici continueranno a cercare la nostra distruzione, quale che sia la composizione del governo israeliano non ci sarà altra scelta che difendere i suoi cittadini militarmente. E finché i nostri nemici, nel loro culto confessato della morte, dispiegheranno le loro stesse popolazioni come scudi umani, si vedranno le foto delle vittime civili diffuse dai media internazionali. Quale che sia il partito israeliano al potere e quali che siano le sue politiche specifiche, gli ebrei saranno costretti a scegliere tra il loro impegno verso il sionismo e la loro fedeltà all'Europa post liberale.
Perché allora gli ebrei d'Europa, o chiunque altro, si aggrapperebbero fermamente alla loro identità di fronte alle pressioni che subiscono per abbandonarla? Perché l'identità, ebraica o d'altro tipo, dà un senso e uno scopo alla vita, per via del suo semplice aspetto materiale. Essa risponde a un bisogno umano basilare che consiste nel voler far parte di un insieme più grande di sé, di una comunità intergenerazionale che condivide un insieme di valori e di aspirazioni collettive.
Certo, esiste un altro bisogno umano fondamentale: quello di essere liberi, di pensare con la propria testa e di scegliersi la propria strada. Ma queste due aspirazioni - appartenenza e libertà - possono rafforzarsi vicendevolmente invece di opporsi l'una all'altra. La libertà offre la possibilità di coltivare pienamente la propria identità; ma la libertà deve essere difesa, ed è l'identità che dà la forza di realizzare questo compito. E' un errore pericoloso quello di sacrificare la libertà in nome dell'identità ma, viceversa, è un errore non meno disastroso desistere dall'identità in nome della libertà, come hanno fatto gli europei del nostro tempo.
Nell'Europa liberale del passato, si poteva essere cittadino per strada ed ebreo praticante a casa; nell'Europa post liberale di oggi, è estremamente difficile restare europeo convinto per strada ed ebreo fiero di esserlo e legato a Israele, a casa.
Tuttavia, la vera questione non è il futuro degli ebrei, ma quello dell'Europa. Nel tentativo di liberarsi della propria storia e delle sue istituzioni tradizionali, l'Europa è divenuta decadente e vulnerabile. Ora che il fondamentalismo islamico è penetrato nelle sue società tolleranti e multiculturali, la questione è di sapere se una società che è rifuggita alla propria identità per approfittare della sua libertà può ancora trovare la volontà di battersi, prima di perdere entrambe.
Avendo sempre attinto alla grande tradizione liberale europea la forza di lottare contro l'oppressione, non posso che sperare che le nazioni democratiche europee sappiano battersi per la loro libertà. Ma il mio compito in quanto cittadino israeliano è più semplice. Devo assicurarmi che tutti gli ebrei nel mondo che si sentono senza riparo siano in grado di trovare una casa qui, su questo piccolo isolotto di libertà nel cuore di un grande oceano di tirannia, in questa piccola oasi di identità in un deserto di anomia post identitaria. A questi ebrei dico: benvenuti nello stato ebraico e democratico.
Questo articolo è apparso sul numero di gennaio del mensile francese Causeur
(Il Foglio, 15 gennaio 2015)
In Israele cala del 90% il prezzo delle telefonate
Guerra commerciale con lo sbarco di nuovi operatori.
In Israele si intensifica la guerra dei prezzi nel settore della telefonia mobile. Con lo sbarco di nuovi operatori sul mercato, le tariffe sono state improvvisamente abbattute fino al 90%. Ad aprire le danze è stata la compagnia Hot Mobile, filiale del gruppo Hot che appartiene ad Altice e all'imprenditore franco-israeliano Patrick Drahi. Essa ha proposto un'offerta, valida per 15 giorni, che consiste in un forfait illimitato per due linee al prezzo di 40 shekel (8,40 euro) al mese.
Non si è fatta attendere la replica della rivale Golan Telecom, che per poco meno della stessa somma (37 shekel) offre ai nuovi abbonati un forfait senza limiti. Per altri 2 euro si potrà aprire un'ulteriore linea telefonica alle stesse condizioni. Dietro questa società si trova un altro uomo d'affari franco-israeliano, Michael Golan, ex direttore generale di Iliad, casa madre dell'operatore francese Free, che aveva sparigliato le carte del mercato d'Oltralpe due anni fa con l'introduzione di un canone illimitato da 19,99 euro mensili.
Le due new entry hanno provocato un terremoto nel settore tlc del paese mediorientale, fino a quel momento controllato da tre aziende che proponevano condizioni tutt'altro che favorevoli alla clientela. Così le famiglie hanno cominciato a cambiare operatore da un momento all'altro. Un po' quello che era accaduto in Francia con lo sbarco di Free. Ora, con oltre 600 mila abbonati ciascuno, Hot Mobile e Golan Telecom detengono insieme quasi il 15% del mercato.
Come se non bastasse, a fine dicembre Cellcom, uno dei tre operatori storici attivi in Israele, ha lanciato per la prima volta un'offerta televisiva, rompendo il duopolio storico che vedeva protagonisti Hot e Yes. Quest'ultima è una filiale del gruppo Bezeq, che a sua volta possiede la compagnia telefonica mobile Pelephone.
Come spiegano alcuni esperti, per aprire il mercato alla concorrenza, l'authority del settore ha permesso a tutti gli operatori mobili di ampliare i loro servizi alla telefonia fissa, a Internet e ai contenuti audiovisivi. Chi ha margini risicati sul mobile potrà sviluppare nuovi canali di ricavi, e questo porterà a un taglio dei prezzi, oggi ritenuti eccessivi per la tv e il web. Si tratta della seconda fase della rivoluzione dei media in Israele.
(Italia Oggi, 15 gennaio 2015)
Tornati in Italia dieci jihadisti. "Sono pronti a fare attentati"
Per il Copasir sono parte del gruppo dei 53 foreign fighters monitorati. In Bosnia gli jihadisti provenienti dall'Italia sarebbero in cerca di documenti falsi.
di Grazia Longo
ROMA - «Allah è grande, nel nome di Allah dobbiamo armare le nostre braccia». Erano pronti a prendere contatti per comprare kalashnikov e bombe, per combattere la loro guerra in nome della Jihad, gli estremisti islamici indagati dalla Procura di Roma. E ancora più preoccupante è la notizia che filtra dal Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza, sul rientro in Italia di una decina dei 53 foreign fighter monitorati dall'antiterrorismo.
- Rischio attentati
Si tratta di estremisti musulmani sospettati di essere tornati nel nostro Paese allo scopo di compiere attentati. L'allerta quindi è assai elevata. Per quanto concerne invece gli indagati, l'acquisto delle armi non era ancora avvenuto. Per nessuno dei 20 indagati per azione sovversiva finalizzata al terrorismo, è infatti finora scattata la misura di custodia cautelare in carcere. Serviranno ancora mesi di indagini.
- Viaggi all'estero
I carabinieri del Ros e i poliziotti della Digos stanno lavorando, coordinati dal pool anti terrorismo della procura romana guidato dall'aggiunto Giancarlo Capaldo, per ricostruire l'organizzazione e gli spostamenti dei presunti terroristi. Sotto la lente d'ingrandimento degli investigatori ci sono spostamenti sospetti in Siria,
- Pakistan, Afghanistan ed Iraq.
Da un lato, l'obiettivo è quello di verificare se gli indagati siano in contatto con esperti del terrore anche per un eventuale addestramento militare.
Dall'altro, si punta a capire dove avrebbero potuto comprare le armi per eventuali attentati. Siriani e ceceni sono ritenuti i loro potenziali fornitori di bombe e mitragliette, mentre diversa è la pista che porta a contatti per impadronirsi di documenti d'identità falsi. In questo caso emerge il ruolo di bosniaci musulmani pronti a vendere documenti perfettamente contraffatti.
Operazioni di intelligence e di monitoraggio - dai luoghi di culto ai siti web, chat comprese - lunghe e laboriose che richiedono tempo, pazienza, tenacia.
- Legami con altre inchieste
Siamo infatti di fronte ad un fenomeno fluido, magmatico, in continuo divenire, con possibili legami ad altri episodi oggetti di indagine. Per questo gli inquirenti spolverano vecchi fascicoli, alla ricerca di nomi, spunti, elementi che possano far luce sul pericolo di atti terroristici da parte di «organismi, strutturati in forma cellulare».
Anche se, a onor del vero, più che di situazione di «rischio» gli addetti ai lavori preferiscono parlare di livelli «attenzione». Nonostante ciò l'allarme rimane alto. Di qui l'interesse ad rileggere le carte di precedenti inchieste, come quelle delle procure di Milano, Torino e di Bari.
- Addestramento militare
Riemergono così drammaticamente attuali le pagine dei manuali recuperati in altre indagini per cui «il vero musulmano, per innalzare la parola di Dio, deve essere un credente che ha fede nel Jihad, perché durante l'addestramento militare, i fratelli corrono numerosi rischi, talvolta anche della propria vita. L'addestramento militare, dunque, «è un obbligo per tutti i musulmani che godono di salute e dell'età adulta».
- Proselitismo online
Il proselitismo «viene effettuato attraverso supporti audio, video, documenti propagandistici e sermoni incitanti al terrorismo ed al sacrificio personale in azioni suicide destinate a colpire il nemico infedele». E vengono utilizzati filmati «girati n Afghanistan ed altri Paesi dove registravano gli attentati e quindi poi la registrazione viene messa nelle cassette e queste cassette vendute regolarmente nelle moschee».
- Odio per gli ebrei
I nemici sono gli occidentali, gli americani, gli ebrei: «.. dall' infanzia.. dall' infanzia.. devi inculcare l'odio sugli ebrei.. perché è fondamentale nella .. nella nostra fede, odiare gli ebrei..». Senza alcun timore di perdere la vita, anzi diventare un kamikaze è un onore: «Se Dio vuole, spero che Dio lasci disperdere.... prega e di': «possa Dio sparpagliare i nostri corpi per la sua causa ...voglio che le mie carni vadano in pezzi!».
- Cellule in Francia
Sempre senza perdere di vista collaborazioni con gruppi militanti all'estero. «D'altronde, il carattere transnazionale delle cellule comporta che tutti gli aderenti abbiano solidi punti di riferimento sia in altri Paesi europei (si pensi alla Francia) sia nei Paesi di origine, sia nei Paesi dell'area medio-orientale».
(La Stampa, 15 gennaio 2015)
Le avventure grigie della Liberté
A processo Dieudonné. Così la Francia scopre che la sua Liberté ha anche un volto repressivo.
di Giulio Meotti
ROMA - "Apologia del terrorismo". Questa l'accusa con cui le autorità francesi hanno arrestato e rinviato a giudizio nel tribunale penale di prima istanza il comico più famoso di Francia, Dieudonné. Così, nella settimana in cui tutto il paese si è stretto attorno a Charlie Hebdo, alle sue nuove copie milionarie e alla sua libertà radicale, Parigi si è svegliata con l'arresto di un rappresentante dello showbiz. Per dirla con Nathalie Rothschild, direttrice del magazine libertario Spiked, "telling unfunny jokes should not be a crime": "Se consentiamo alle autorità francesi di mettere un prezzo alle parole di Dieudonné, non c'è modo di sapere quali opinioni saranno sanzionate in futuro".
Questo "trublion politique", come ama definirsi Dieudonné in un neologismo intraducibile, sta facendo emergere il carattere intollerante e repressivo della liberté francese. Domenica sera, dopo
la marcia di Parigi a cui aveva preso parte, Dieu- donné aveva scritto su Facebook di sentirsi "Charlie Coulibaly", unendo il nome del giornale satirico colpito a Parigi dagli attentatori e quello di uno dei terroristi, Amédy Coulibaly, che invece ha colpito il supermercato ebraico. "Mi si considera come Coulibaly mentre non sono diverso da Charlie", scriveva Dieudonné, celebre anche per le battute antiebraiche di pessimo gusto. Da parte sua, il ministro dell'Interno francese, Bernard Cazeneuve, ha definito "indegno" il messaggio di Dieudonné e si riserva il diritto di procedere contro di lui. C'è chi ha ironizzato che tanta solerzia Parigi non l'ha ancora mostrata neppure con i predicatori e gli imam dell'odio islamista. Paul-François Pauli, nel libro "Pour en finir avec l'ideologie antiraciste", sostiene che l'antirazzismo che mette sotto accusa Dieudonné, partendo da principi nobili come la lotta contro i pregiudizi etnici, è diventato una "ortodossia benpensante che sterilizza il pensiero e minaccia la libertà di espressione".
A denunciare il doppio peso di Parigi sull'ideatore della quenelle è anche l'editorialista del Financial Times Christopher Caldwell, che fa risalire il problema alla legge Gayssot del 1990 (prende il nome da un deputato comunista) sul negazionismo della Shoah. "Questa che poteva sembrare una misura ragionevole che riduce i diritti di pochi malevoli svitati, si è rivelata problematica".
Secondo Christopher Caldwell del Financial Times, questa norma liberticida francese rischia di trasformare Dieudonné in un martire della libertà di parola e farà aumentare il suo consenso. Il pubblico di Dieudonné, ha scritto un giornalista francese, "è giovane, trendy, intellettuale e di sinistra".
Il comico parigino Dieudonné rappresenta la Francia "islamo-progressista", come ha scritto Catherine Kintzler. Dieudonné salda i lati oscuri della Francia, l'antiamericanismo e il senso di colpa colonialista della sinistra, il risentimento delle periferie e il disprezzo per lo stato ebraico. Per questo contro la sua messa al bando si è schierato nei giorni scorsi l'editorialista del Figaro, Ivan Rioufol, lui stesso vittima della caccia alle streghe "islamofobe" nei tribunali: "Una opinione può essere falsa, sciocca, malsana, pericolosa, ma non può essere considerata un crimine, a meno che non credi nell'esorcismo", scrive Rioufol. "Il divieto di Dieudonné moltiplica il suo pubblico e accredita la sua posizione anti-sistema. Cercando di imporre un peso plumbeo - antico riflesso totalitario - il governo sottovaluta il pubblico. I francesi non sono dei bambini: tocca a loro giudicare Dieudonné".
Secondo Rioufol, il lavoro di Gayssot, con la sua legge infernale che mette al bando le idee e la storiografia libera sotto pretesto di lottare contro il razzismo, è stato il punto di congiunzione tra ideologia illiberale di tipo sovietico e nuovo fermento intollerante del politicamente e dell'ideologicamente corretto. Per questo già ai tempi della sua approvazione, la norma fu contestata da personalità note per la loro lotta contro il negazionismo, come Pierre Vidal-Naquet. Il primo ministro Manuel Valls, che ha voluto la disposizione contro Dieudonné, un anno fa aveva varato un'altra legislazione liberticida secondo cui il governo, tramite i prefetti, può tenere sotto osservazione i gruppi sospetti di "patologia religiosa", ovvero islamisti, ebrei, ortodossi e cattolici militanti. "In questo progetto di estremismo secolarista si compara in modo fraudolento una scelta di vita con atti terroristici e criminali", ha scritto la giornalista francese di Present, Jeanne Smits.
E di questo antirazzismo che adesso si scaglia contro Dieudonné sono stati oggetto, sempre in Francia, Michel Houellebecq e Oriana Fallaci, due scrittori che hanno prodotto fiction e saggi in contrasto con la legge francese. Se la sono cavata, ma non è la condanna il problema, il problema è il processo, il diritto dello stato di processare le idee e l'immaginazione.
(Il Foglio, 15 gennaio 2015)
Napoli - Mostra all'Archivio di Stato sui 150 anni della comunità ebraica
NAPOLI - Inaugurato, all'Archivio di Stato di Napoli, il nuovo allestimento della mostra "La Comunità Ebraica di Napoli, 1864/2014: 150 anni di storia".
Negli spazi del Chiostro del Platano, proprio nel cuore dei quartieri che videro il fiorire delle antiche giudecche dal VI secolo d.C. alla cacciata dal Viceregno Spagnolo, nelle aree di San Marcellino e Porta Nova, si ripropone l'allestimento della mostra inaugurata lo scorso novembre alla Biblioteca Nazionale, riveduta ed ampliata nei contenuti.
La narrazione della storia della Comunità napoletana prende le mosse proprio dalla nascita di questi quartieri, rimasti cuore della vita ebraica fino alla grande cacciata degli ebrei nel 1510.
Numerosi documenti mai esposti finora raccontano la riammissione degli ebrei nel Regno nel 1740, sotto il governo di Carlo di Borbone, e la successiva espulsione nel 1746. Ampio spazio è dedicato alla vicenda della famiglia di banchieri tedeschi Rothschild, artefici della rinascita della vita comunitaria, primi a prendere in affitto i locali dove tutt'oggi la Sinagoga ha sede, in seguito acquistati con il contributo di tutti gli iscritti.
In mostra troviamo la corrispondenza dei fratelli James e Carl Rothschild in merito al prestito accordato al Regno delle due Sicilie, così come le piante e i prospetti della sede della loro banca aperta a Chiaia, quelli della Villa, oggi Pignatelli, dove presero dimora, e il bellissimo ritratto della figlia di Carl, Charlotte, del pittore Moritz Oppenheim, e sullo sfondo un golfo di Napoli da cartolina.
Molti i personaggi illustri, rabbini ed imprenditori che presero parte attivamente alla vita comunitaria. Tra i tanti ricordiamo l'amatissimo Rabbino Kahn, tra i primi ad interessarsi a studi di archeologia che definissero il ruolo degli ebrei a Pompei e nell'impero romano.
Così come, di qualche anno precedente, l'imprenditore Giorgio Ascarelli, fondatore del Calcio Napoli; in mostra troviamo le inedite piante dello Stadio Partenopeo, da lui costruito e, tra le tante curiosità, un fascicolo, anch'esso inedito, della Questura, proprio su Ascarelli, scagionato dalle accuse di essere un sovversivo poiché iscritto al partito socialista.
Ancora molte testimonianze della vita imprenditoriale ebraica, attraverso fotografe, oggetti e documenti d'epoca.
(Pupia, 14 gennaio 2015)
New York - Anp a processo per terrorismo
di Daniel Reichel
Si è aperto ieri a New York il processo Sokolov vs Olp: il giudice George Daniels e i dodici membri della giuria decideranno se l'Autorità nazionale palestinese e l'Organizzazione per la liberazione della Palestina dovranno risarcire le vittime di attacchi terroristici compiuti in Israele tra il 2001 e il 2004. L'Anp e l'Olp hanno finanziato con denaro, armi e supporto logistico questi attentati, ha dichiarato nella sua arringa d'apertura l'avvocato Kent Yalowitz, rappresentante legale delle vittime americane degli attacchi che, nel corso della Seconda Intifada, uccisero 33 persone, ferendone oltre 450. "Le prove dimostreranno che l'uccisione di civili era una procedura standard seguita da Olp e Anp", ha dichiarato Yalowitz, sottolineando che "questo caso riguarda le conseguenze di aver ucciso e mutilato persone innocenti per obiettivi politici". Il fine delle stragi, sottolineano i famigliari delle vittime, era "terrorizzate, intimidire e costringere la popolazione civile di Israele ad avvallare le richieste e gli obiettivi politici dei convenuti (Onp e Anp)" e influenzare la politica degli Stati Uniti e del governo israeliano rispetto a questi obiettivi. Secondo la difesa, che ha contestato la giurisdizione del tribunale Usa (rivendicata in virtù del fatto che le vittime rappresentante al processo hanno cittadinanza americana), gli attacchi terroristici non sono riconducibili all'Onp e all'Anp. Ci vorranno almeno tre mesi, ha spiegato il giudice Daniels, per arrivare al verdetto, con la richiesta di risarcimento da parte delle vittime e dei loro famigliari che ammonta a un miliardo di dollari.
Secondo l'avvocato Yalowitz, l'Autorità nazionale palestinese - guidata dal presidente Mahmoud Abbas - ha di fatto appoggiato gli attacchi terroristici continuando a tenere a libro paga gli autori delle stragi, nonostante ci fossero i verdetti della giustizia israeliana a dimostrarne la responsabilità. "Questi atti accadono. Sono azioni orrende, da condannare, sbagliate" ha affermato ieri nel corso del processo Mark Rochon, avvocato che rappresenta Olp e Anp. Per Rochon però le responsabilità di questi fatti non sono riconducibili ai suoi assistiti ma sono azioni di singoli, che hanno agito da soli nelle fila di Hamas e altri gruppi islamisti di Gaza.
Nel corso del processo verranno ascoltate diverse vittime così come testimoni degli attacchi terroristi in questione. Tra loro, Mark Sokolow, ferito al volto e alla gamba nell'esplosione di una bomba a Gerusalemme nel gennaio del 2002. Sokolow, assieme alla moglie e alla figlia, rimaste ferite nell'attentato, erano ieri presenti all'apertura del processo, apertosi dopo undici anni di battaglie legali. E hanno ascoltato la prima testimonianza, quella di Meshulam Pearlman, come racconta Bloomberg in un resoconto sul caso, sull'attentato avvenuto il 29 gennaio 2004. Alle 9 del mattino un terrorista palestinese si fa saltare in aria mentre viaggia su un autobus di linea a Gerusalemme. Moriranno undici persone (tra loro Stuart Goldberg, i cui famigliari sono rappresentati dall'avvocato Yalowitz), cinquanta i feriti, tredici dei quali in modo grave. Una scena rimasta negli occhi di Pearlman, fiorista che al momento dell'esplosione stava allestendo il suo negozio su Gaza street. Il tetto dell'autobus divelto, i finestrini polverizzati, "peggio di una scena di guerra", la dichiarazione di Pearlman.
(moked, 15 gennaio 2015)
Venezia - Mostra su deportati ebrei "matti"
Presso gli spazi di San Servolo Servizi di Venezia saranno esposte per la prima volta, trascorso il settantennio previsto per legge, le cartelle cliniche dei pazienti ebrei deportati dagli ospedali psichiatrici di San Servolo e di San Clemente nell'ottobre 1944, corredate da fotografie, documenti amministrativi e annotazioni tratte dai diari clinici.
Attraverso i documenti archivistici si potranno comprendere i fatti accaduti in quel tempo: le visite preparatorie alla deportazione da parte di ufficiali fascisti, le descrizioni e i giudizi espressi dai medici, le vicissitudini personali di quelle persone. Un itinerario documentario per ricordare nomi, volti e frammenti di una tra le più tragiche vicende umane della shoah.
La mostra - che verrà inaugureta mercoledì 14 gennaio ore 11:30 e rimarrà aperta fino al 31 gennaio - si colloca nell'ambito del programma cittadino dedicato alla Giornata della Memoria 2015 e sarà preceduta dal posa a San Servolo di una "Pietra d'Inciampo" a ricordo di questo triste evento. «La nostra - spiega il curatore Luigi Armiato - è una mostra per non dimenticare sperando che non possa avvenire mai più, anche se i fatti recenti ci dicono che l'uomo non impara molto dalla storia».
(Vvox, 14 gennaio 2015)
"Sono morto perché sono ebreo"
di Deborah Fait
Yohan Cohen, Yoav Hattab, Philippe Braham, François-Michel Saada: uccisi perché ebrei.
Sono avvolti nel talled; vicino ad ognuno un braciere che verrà acceso da un componente delle famiglie che, dalla Francia, hanno accompagnato in Israele, per l'ultimo viaggio, i loro cari assassinati da un terrorista figlio di Allah. Ammazzati in un supermercato kasher mentre facevano la spesa per lo shabat, mentre erano in attesa di correre a casa, vestirsi per la festa, indossare una camicia bianca, la kippà sul capo per stare accanto alle mogli o alle sorelle o alle mamme mentre accendevano le candele per accogliere la festa "Baruch Atà Adonai eloheinu.....!"
Quel venerdì sera le candele dello Shabat sono rimaste dei pezzi di cera, senza luce, senza che nessuno potesse accendere le due fiammelle a causa di un boia entrato in quel supermercato per ammazzare degli ebrei. "Yoav, Yohan, Francois-Michel, Philippe, non avrei voluto vedervi arrivare così in Israele. Camminare per le strade d'Europa non dovrebbe significare morte per gli ebrei, salire in Israele dovrebbe essere una scelta non una fuga... non avrei voluto vedervi arrivare così " ha detto il Presidente di Israele, Reuven Rivlin, e lo ha ripetuto due volte, con voce desolata, profondamente commosso, davanti alle famiglie che piangevano silenziosamente strette in un unico abbraccio.
Il Monte degli Ulivi era gremito, migliaia di persone sono venute a dare l'ultimo saluto a questi nostri fratelli francesi ammazzati perché ebrei, un mare di persone in un abbraccio virtuale ai fratelli avvolti nel talled e alle loro famiglie, in tale profondo silenzio che si sentivano i singhiozzi soffocati di chi non ce la faceva a trattenere la commozione e il dolore. "Sono morto perché sono ebreo" diceva un foglio sollevato da una persona e ancora il Presidente: "Ci ammazzano a Parigi, a Tolosa, a Bruxelles, a Mumbai, a Gerusalemme, nei teatri, per la strada, se aspettiamo l'autobus. Questo è l'odio antisemita. L'Europa dovrebbe proteggere gli ebrei".
Yoav, Yohan, Philippe e Francois-Michel non sono gli unici ebrei francesi sepolti a Gerusalemme, accanto a loro vi sono tre bambini e il loro papà ammazzati a Tolosa nel 2012 da un altro terrorista islamico che era andato davanti alla scuola per ammazzarli a fucilate. Tutti loro sono morti sentendo la voce non umana dei loro assassini urlare Allahu Achbar ma io ho la speranza che, forse, nell'ultimo istante della loro vita, prima di chiudere gli occhi per sempre, avranno avuto il tempo di pensare "Shemà Israel", voglio crederlo quasi a consolare me stessa. Non posso pensare se non con orrore e disperazione che quei bambini di Tolosa, quelle persone di Parigi abbiano smesso di vivere al suono di una voce violenta, disumana e barbara che urlava Allah è grande.
Benjamin Netanyahu ha parlato della forza del Popolo ebraico, della forza di Israele che nessun terrorismo riuscirà a sconfiggere. "Israele è la vostra casa ma nessuno dovrebbe venire qui per paura", ha ripetuto ai presenti, non per paura, non si dovrebbe più scappare dall'Europa eppure, 70 anni dopo la Shoah, gli ebrei sono ancora costretti a farlo per aver salva la vita. Solo qui, solo in Israele, un ebreo può sentirsi sicuro, è strano a dirsi, circondati come siamo da nemici feroci, ma la sicurezza ce la dà lo Stato che fa di tutto per proteggerci e difenderci da chi vuole la nostra morte. Qui non siamo in balia di gente che se ne frega di noi finché non ci uccidono per poi piangere lacrime di coccodrillo, qui siamo a casa nostra.
Alla fine della cerimonia tutti in piedi a cantare la Hatikva, l'inno nazionale, quasi a liberarsi l'animo da tanto dolore con le parole della "Speranza" e poi Ségolène Royal, unica rappresentante della Francia, ha consegnato alle famiglie delle vittime la Legion d'onore, la più alta onorificenza della Repubblica che oggi si chiede come combattere il terrorismo senza perdere la libertà. Prenda allora l'esempio da Israele, il paese in assoluto più colpito dal terrorismo e da 5 guerre in soli 70 anni tenendo sempre alta l'idea di libertà e di democrazia, senza mai piegarsi, senza mai correre il pericolo di "diventare come loro", senza rinunciare alla gioia di vivere. Prendete esempio da Israele e dalla sua civiltà, europei, invece di odiarci e darci addosso per difendere i nostri e vostri nemici, imparate a rispettarci e ad amarci, strappate dalle vostre anime l'odio antisemita, guarite da quel virus velenoso e endemico, fate in modo che mai più qualcuno scriva "Sono morto perché sono ebreo".
Yoav, Yohan, Francois-Michel, Philippe, siete a casa, riposate in pace in terra di Israele.
(Inviato dall'autrice, 14 gennaio 2015)
Exodus 2015. Esiste un futuro per gli ebrei in Francia?
Perché la comunità ebraica francese è diventata la prima da cui si emigra verso Israele.
di Nicoletta Tiliacos
ROMA - C'è un futuro per gli ebrei in Francia? Se è vero che la più grande comunità ebraica europea si trova oggi stretta tra paura e speranza, come titolava ieri il quotidiano Libération, non è difficile constatare come, dopo l'assalto di venerdì scorso al supermercato kosher della Porte de Vincennes, la prima stia prendendo decisamente il sopravvento sulla seconda, a dispetto della grande "marche républicaine" e delle rassicurazioni delle massime autorità. E allora: ha ragione il vecchio Claude Lanzmann (l'autore di "Shoah", il più importante documentario sullo sterminio degli ebrei), quando dice che non bisogna dargliela vinta, a chi vuole una Francia senza ebrei? O ha ragione quel rabbino del Marais che a settembre diceva al giornalista americano James Kirchick - il quale lo racconta ora sul Daily Beast - che "in Francia non c'è futuro per gli ebrei"?
Che la patria dei Lumi stia diventando una delle patrie dell'antisemitismo europeo, è un fatto. Su Slate.fr, l'editorialista Eric Leser scrive che non si prende atto abbastanza del clima di odio verso gli ebrei. In Francia il quaranta per cento dei crimini e dei reati a sfondo razzista avvenuti nel 2013 ha avuto come obiettivo gli ebrei, che rappresentano meno dell'uno per cento della popolazione. Il 2014 è stato l'anno dell'impennata dell'emigrazione di ebrei francesi verso Israele: secondo l'Agenzia ebraica diretta da Natan Sharansky (autore dell'intervento pubblicato in questa pagina) in settemila hanno scelto l'Aliyà, cioè "il ritorno", garantito agli ebrei di ogni parte del mondo in Israele. Ma più di cinquantamila hanno chiesto informazioni a riguardo. L'anno precedente erano emigrati in 3.293, e nel 2012 erano partiti in 1.907. La Francia è ormai il primo paese da cui gli ebrei emigrano (26 per cento sul totale: segue con il 22 per cento l'Ucraina e con il 18 per cento la Russia). Abbastanza perché il grande rabbino di Francia, Haìm Korsia, possa dire che si sta assistendo alla "più importante ondata di emigrazione di ebrei francesi dopo la Seconda guerra mondiale".
Inoltre, se prima dell'assalto parigino la previsione di richieste di Aliyà dalla Francia per l'anno appena cominciato era di circa diecimila, è ovvio immaginare che quella cifra potrebbe crescere, e di molto.
"L'esodo è cominciato", ha scritto anche l'inglese Telegraph qualche giorno fa, riferendosi alla comunità israelita francese. Coloro che oggi prendono la via di Israele sono quasi sempre figli e nipoti di coloro che erano fuggiti dal Marocco, dall'Algeria, dalla Tunisia. Sophie Taìeb, una giovane blogger, spiega al corrispondente da Israele di Libé perché un anno fa ha deciso di andare a vivere a Tel Aviv. Racconta la delusione nello scoprirsi all'improvviso minacciata in Francia, dove è nata, nel paese dove ha studiato e che ha sempre considerato il suo paese. Quella Francia che aveva rappresentato un rifugio sicuro per i suoi nonni, come tanti "juifs" cacciati negli anni Sessanta dai paesi arabi, dove comunità ebraiche radicate da migliaia di anni furono disperse in pochissimo tempo, soprattutto dopo la guerra dei Sei giorni.
Anche Eric Leser si chiede su Slate se "esiste ancora un futuro per gli ebrei in Francia", senza nascondere che quella domanda solo "qualche anno fa sarebbe sembrata assurda". Ma è diventata legittima oggi, "quando l'assassinio e l'aggressione degli ebrei a caso, perché hanno la sola colpa di esistere, si succedono e suscitano sempre meno indignazione nella società francese. Come se si trattasse di un fenomeno diventato quasi banale, come se fosse scontato che l'odio contro gli ebrei è qualcosa di ineluttabile nella parte più radicalizzata e più violenta della comunità musulmana francese". Sempre Leser scrive che a lungo, nelle cronache televisive sui media francesi del pomeriggio di terrore all'Hyper Cacher, e per un po' anche dopo, nessuno o quasi diceva chiaramente che gli ostaggi e le vittime erano ebrei, che quell'obiettivo era stato scelto per colpire gli ebrei: "Un diniego della realtà, paradossalmente meglio descritta dalla stampa straniera rispetto a quella francese". La realtà degli ebrei francesi l'ha raccontata in cinque, impressionanti puntate sul sito di cultura ebraica Tablet il giornalista Marc Weitzmann. In quella che descrive la situazione nella città di Roubaix - ormai completamente islamizzata, ha visto la distruzione dell'ultima sinagoga nel 2000 - Weitzmann cita lo storico e sociologo Michel Wieviorka, autore del saggio "La tentazione antisemita. L'odio per gli ebrei nella Francia di oggi" (Robert Laffont). Scritto nel 2005 sulla base di una lunga inchiesta sul campo, registrò umori anti ebraici già assai diffusi e violenti, e dimostrò come l'antisemitismo delle banlieue fosse già un fenomeno largamente sottovalutato.
(Il Foglio, 14 gennaio 2015)
Può un ebreo assassinato riposare in Francia, oggi? No. I funerali in Israele
I terroristi hanno risparmiato le donne a Charlie Hebdo. Tranne Elsa Cayat, "assassinata proprio perché ebrea".
di Giulio Meotti
ROMA - "Perché vengono sepolti in Israele?", chiedeva ieri maligno il settimanale francese Nouvel Obs. "Il primo ministro Netanyahu non cerca forse, in campagna elettorale, di recuperare con i funerali in Israele?". Ieri Yoav Hattab, Yohan Cohen, François-Michel Saada e Phillipe Braham, i quattro ebrei assassinati nel supermercato Hyper Cacher di Parigi, sono stati sepolti nel cimitero Givat Shaul di Gerusalemme, dopo che i rabbini israeliani li hanno pianti nelle yeshiva dello stato ebraico. Il più duro è stato il rabbino Meir Mazuz, a capo della scuola Kisseh Rahamim: "I terroristi sono la feccia della terra, ma questi uomini santi non sono morti invano. Israele è il rifugio degli ebrei, mentre il terrore colpisce America, Inghilterra e ora la Francia". Il rabbino Tzemah Mazuz, un amico della famiglia Hattab, ha condannato non soltanto i terroristi: "Che Dio si vendichi di tutti i nostri nemici, non soltanto coloro che hanno ucciso, ma anche di chi si è compiaciuto".
La famiglia di Yoav Hattab non è la prima volta che viene colpita dal terrorismo islamico. La zia di Yoav, Yehudit Bucharis, venne uccisa dagli attentatori che l'8 ottobre 1985 attaccarono la sinagoga di Djerba, in Tunisia. Dunque la famiglia Hattab era stata colpita perché ebrea in Tunisia e aveva trovato riparo in Francia, dove è stata però nuovamente massacrata in quanto ebrea. Adesso troverà riparo in Israele. Il presidente israeliano, Reuven Rivlin, alla cerimonia ha detto che le vittime "sono state uccise solo perché erano ebrei". E ha aggiunto: "Il terrorismo non distingue fra sangue e sangue ma persegue in modo particolare gli ebrei. Non è ammissibile che settant'anni dopo la guerra mondiale gli ebrei in Europa abbiano timore di comparire con la kippah". Le vittime dell'attacco al supermercato kasher di Parigi riposeranno al fianco di tutte le altre vittime dell'antisemitismo in Francia. Al cimitero, una donna ieri ha alzato un cartello che diceva "Je suis Yohan Cohen", in onore del ragazzo ebreo che ha cercato di fermare il terrorista prima di essere ucciso. Un altro cartello diceva: "Io sono Charlie, io sono ebreo, io sono israeliano, io sono francese, io sono stufo".
Serge Cwajgenbaum, segretario generale del Congresso ebraico europeo, ieri nella sua eulogia a Gerusalemme ha detto che le quattro vittime sono state seppellite in Israele per evitare che le loro tombe potessero essere profanate. Il primo caso di profanazione avvenne al cimitero ebraico a Carpentras, in Provenza. Era il 1990 e il cadavere di un ebreo di ottant'anni fu trovato impalato e, sul ventre, l'emblema con la stella davidica. Il gesto venne rivendicato dal "Gruppo Mohammed el Bukina". Fu l'inizio di una serie di attacchi ai cimiteri ebraici da parte di gruppi dell'estrema destra e degli islamisti.
La prima che ha deciso di seppellire una vittima in Israele è stata la madre di Ilan Halimi, Ruth, otto anni fa: "E' mio dovere di madre offrire a mio figlio un riposo che giudico impossibile qui. Perché è qui, su questa terra di Francia, che Ilan è stato affamato, picchiato, ferito, bruciato. Come riposare in pace in una terra dove si è tanto sofferto? Questa domanda, alla quale né le mie figlie, né il mio ex marito hanno saputo rispondere, ci ha convinti che Gerusalemme doveva essere la sua ultima dimora". Il 13 febbraio 2006 era stato ritrovato il corpo senza vita di Halimi, un ragazzo ebreo sequestrato e torturato per tre settimane e poi lasciato agonizzante sui binari di una ferrovia nella banlieue parigina da un gruppo di arabi, capeggiato dal fondamentalista islamico Youssouf Fofana. Accanto a Halimi e alle quattro vittime dell'Hyper Cacher a Gerusalemme riposano anche le quattro vittime dell'attacco alla scuola ebraica di Tolosa nel 2012, il rabbino Jonathan Sandler, i suoi due figli Aryeh e Gabriel e la piccola Miriam Monsonego.
Ieri è uscita la notizia che i terroristi che hanno decimato la redazione di Charlie Hebdo avrebbero deciso di uccidere una delle giornaliste presenti, Elsa Cayat, proprio perché ebrea. Tanto che l'altra donna presente, Sigolène Vinson, sarebbe stata risparmiata dal commando che le aveva puntato la pistola alla testa. Parlando alla Cnn Sophie Bramly, la cugina della Cayat, psichiatra di professione, ha detto ieri che "Elsa è stata uccisa perché ebrea. Gli assassini hanno chiesto alle loro vittime di alzarsi e identificarsi". Il fratello della Cayat ha rivelato che la giornalista aveva ricevuto numerose minacce di morte al telefono, tipo "sporca ebrea". "Quindi se fai due più due, sembra che sia stata uccisa proprio perché ebrea", ha detto Bramly alla Cnn. "I terroristi hanno risparmiato tutte le donne, tranne lei. E lei era l'unica ebrea".
(Il Foglio, 14 gennaio 2015)
Gaza: Protesta dei dipendenti pubblici. Hamas minaccia di lasciare il Governo
di Mario Lucio Genghini
La questione degli stipendi dei 50mila dipendenti pubblici di Gaza, non pagati ormai da sette mesi, rischia di far saltare il governo di unità nazionale Hamas-Fatah.
La condizione economica e sociale nella Striscia rimane esplosiva, dopo l'operazione militare Margine Protettivo messa in atto dal governo israeliano. Ma a rendere ancora più complicata la situazione è l'estrema litigiosità tra la fazione islamista, che ha governato Gaza per sette anni, e il partito del Presidente Abu Mazen. Da quando sono al governo insieme le accuse reciproche sono all'ordine del giorno.
Forse l'epilogo dell'esecutivo di unità nazionale potrebbe arrivare proprio a causa della mancato pagamento dei salari: "l'Anp, infatti, ha versato 1.200 dollari a testa a 24mila impiegati, lasciandone però fuori altri 26mila, per lo più sono nel settore della sicurezza". (Nena News):
Per questo motivo, lunedì scorso è incominciato uno sciopero che raggruppa i dipendenti dei vari ministeri, seguito ieri dalla decisione degli ex impiegati di entrare in sciopero della fame. Ma non è tutto, la protesta si è ulteriormente radicalizzata nelle ultime ore.
Gli impiegati sono riusciti ad entrare nel quartier generale del governo e hanno annunciato un sit-in che terminerà soltanto quando Abu Mazen si deciderà a sbloccare la situazione. I lavoratori di Gaza sono convinti di essere stati discriminati, perché ritengono che sia in atto una differenza di trattamento rispetto a quelli di Ramallah.
Inoltre, il timore diffuso è quello che i lavoratori pubblici gazawi verranno sostituti tutti da personale legato a Fatah. Questa sarebbe una sorta di "vendetta" del 2007. In quell'occasione i 70 mila impiegati della fazione del Presidente Abu Mazen venero rimpiazzati dai circa 50 mila di Hamas.
Sempre Nena News, ci informa che ieri Mushir al-Masri, portavoce del gruppo islamista, ha minacciato l'abbandono del governo, se a breve non ci sarà un sblocco dei fondi. Ed ha aggiunto: "Il governo non si è preso le sue responsabilità nei confronti della Striscia di Gaza, in particolare dei dipendenti pubblici. Ogni giorno il governo dimostra di essere un esecutivo di divisione e non di consenso nazionale".
Intanto le due fazioni si accusano anche sulla questione dei valichi al confine con Israele e Egitto. Fatah sostiene che è Hamas che rifiuta di cedere il controllo dei corridoi. Per gli islamisti, invece, è l'Anp che si sta comportando in maniera iniqua, perché pretende l'assenza di impiegati pubblici di Hamas ai confini.
Ovviamente a fare le spese della discordia tra Hamas e Fatah è la popolazione di Gaza. Il disaccordo vigente all'interno del governo ritarda gli investimenti nella Striscia e ha, di fatto, bloccato l'ingresso dei materiali da ricostruzione.
(BLOGO News, 14 gennaio 2015)
Ebrei e musulmani insieme ai funerali del poliziotto arabo
PARIGI - Circa duemila persone si sono riunite nella periferia di Parigi per le esequie di Ahmed Merabet, uno dei poliziotti morti sotto i colpi dei terroristi. Il funerale si è svolto al cimitero musulmano di Bobigny. Qui tanti amici, di fede musulmana come la vittima, colleghi poliziotti e anche alcuni rappresentanti della comunità ebraica in segno di solidarietà.
"La nostra presenza qui si spiega semplicemente: gli ebrei hanno sofferto nel corso di tutta la loro storia. Penso che sia importante da parte nostra offrire sostegno a una comunità che soffre", ha spiegato Elie, rappresentante della comunità ebraica francese.
"Mi ha molto colpito la comunità ebraica - ha sottolineato Dail Boubakeur, rettore della moschea di Parigi - l'auspicio è di condividere non solo il momento del dolore ma anche dei momenti di distensione e di serenità".
Ahmed Merabet è il poliziotto di origini arabe freddato per strada, fuori dalla sede di Charlie Hebdo a Parigi. Le immagini dell'esecuzione, circolate su internet subito dopo l'attacco, hanno scioccato il mondo intero. Inerme sul marciapiede, con le mani alzate, Merabet è stato ucciso con un colpo di kalashnikov alla testa da uno dei fratelli Kouachi.
(askanews, 14 gennaio 2015)
Metà degli ebrei britannici teme di non avere futuro nel Regno Unito
LONDRA - Quasi la metà degli ebrei britannici teme di non aver più futuro nel Regno Unito o in Europa. E' quanto è emerso dai risultati di un sondaggio condotto dall'associazione Campain Against Anti-Semitism (Caa) su un campione di 2.230 britannici di origine ebraica.
Secondo la ricerca, il 45% delle persone interpellate ritiene di non avere futuro nel Regno Unito, il 58% in Europa. Un quarto delle persone ha poi ammesso di aver pensato negli ultimi due anni di lasciare il Regno Unito.
Il sondaggio è stato condotto dal 23 dicembre all'11 gennaio, nei giorni della strage al giornale satirico francese Charlie Hebdo e dell'attacco a un supermercato kosher di Parigi.
"I risultati della nostra ricerca sono una scioccante presa di coscienza dopo le atrocità di Parigi - ha detto il presidente del CAA, Gideon Falter - il Regno Unito è in un momento critico. Se non ci sarà tolleranza zero, l'antisemitismo crescerà e gli ebrei britannici si interrogheranno sempre più sul loro posto in questo Paese".
(askanews, 14 gennaio 2015)
Gli ebrei irlandesi: "La Gioconda ha il velo, tornate in Israele"
Un profilo twitter legato all'ambasciata israeliana in Irlanda "mette il velo" a Monna Lisa e avverte: "Ve l'avevamo detto". E anche gli ebrei inglesi non si sentono sicuri...
di Ivan Francese
Questa l'inquietante immagine pubblicata su Twitter - e poi ripresa dal quotidiano israeliano Jerusalem Post - da un profilo legato all'ambasciata israeliana in Irlanda, con una didascalia molto emblematica. "Israele è l'ultima frontiera del mondo libero". E: "Non dite che non vi avevamo avvertiti".
Già nei giorni scorsi si erano registrate aspre polemiche intorno alla partecipazione e alle parole del premier israeliano Benjamin Netanyahu alla manifestazione di domenica scorsa a Parigi in ricordo delle vittime degli attentati terroristici (tra cui quattro ebrei). Il quotidiano israeliano Haaretz aveva svelato come in un primo momento il presidente francese Hollande si fosse detto contrario ad invitare il primo ministro di Tel Aviv, cedendo solo dietro ripetute insistenze.
Inoltre avevano fatto discutere le dichiarazioni con cui Netanyahu aveva ricordato agli ebrei che "Israele è la loro vera patria", invitando implicitamente chi non si sentisse sicuro in Europa a trasferirsi in Israele. Posizioni non sempre gradite alle autorità francesi. Già nel 2004 si sfiorò la crisi diplomatica quando Ariel Sharon lanciò un appello agli ebrei di Francia perché tornassero in Israele "il prima possibile". Parole che fecero infuriare l'allora presidente Chirac, tanto da costringere l'israeliano a una tempestiva marcia indietro.
Tutto questo nello stesso giorno in cui in Gran Bretagna viene pubblicato uno studio, ripreso peraltro anche da The Independent, secondo cui la maggioranza degli ebrei britannici sentono di non avere futuro nel Regno Unito. Un dato che, spiega il quotidiano londinese, svela il nuovo, preoccupante, tasso di crescita di antisemitismo anche tra i sudditi di Sua Maestà. Il 45% degli intervistati sottoscriverebbe almeno un'affermazione antisemita su quattro tra quelle proposte, mentre un cittadino britannico su cinque pensa che la "lealtà" degli ebrei vada prima ad Israele che non a Buckingham Palace. Il 13%, infine, ritiene che molti ebrei "sfruttino" il tema dell'Olocausto per ottenere compassione.
Negli ultimi tempi gli episodi di violenza antisemita - dalla profanazione di cimiteri ebraici all'affissione di poster ingiurisiosi - è in crescita, mentre la protezione intorno a scuole e luoghi di culto viene costantemente elevata. E tutto questo ancora prima degli attentati di Parigi.
(il Giornale, 14 gennaio 2015)
Venezia si prepara ai 500 anni del primo ghetto degli ebrei
Per il 2016, la stilista Von Fürstenberg stanzia dodici milioni.
di Elena Loewenthal
Compirà cinquecento anni l'anno prossimo e per una ricorrenza così importante ci si sta preparando con largo anticipo. Anche perché il mezzo millennio del ghetto di Venezia non è soltanto l'anniversario di un luogo particolare di una città unica al mondo o di un monumento rilevante. E' il tracciato di una storia che è stata la rara, forse unica combinazione di un destino privato e universale. Che riguarda un gruppo ristretto di persone, con le loro storie, ma che è diventato ben presto il simbolo di una condizione comune, nella varietà di luoghi e momenti.
Perché «ghetto» è diventata una parola iconica, che con sei lettere descrive in modo straordinariamente esaustivo l'emarginazione, la segregazione, il rifiuto dell'altro. Ma nasce qui, fra queste calli, subito oltre la riva orientale del rio di Cannaregio, poco dopo l'inconfondibile ponte delle Guglie. Dalle fondamenta del canale ancora non si vede, non c'è nulla che indichi la particolarità del luogo. Bisogna cercarlo, il sottoportego che conduce all'interno, dopo un buio e angusto passaggio: lì un tempo c'era il cancello, che da sera a mattina restava chiuso e di giorno ed era sorvegliato da delle guardie che gli ebrei erano costretti a pagare. E a cercare bene, a guardare con attenzione, si riconoscono ancora i cardini del cancello.
Chissà se comincerà di lì, da quei cardini così carichi di significato e non solo per la comunità ebraica di Venezia, il restauro del ghetto per il quale la stilista Diane Von Fürstenberg ha stanziato qualche settimana fa ben dodici milioni di dollari. L'obiettivo non è quello di una conservazione puramente museale di questo posto unico al mondo, ma di trasformarlo in un centro culturale vivo.
A incominciare dal riallestimento del piccolo museo che si affaccia sul campo del Ghetto Nuovo, che in realtà è la zona più antica del ghetto: una grande e ariosa piazza - la seconda della città dopo San Marco - dove subito salta all'occhio l'altezza degli edifici. Perché gli ebrei non potevano espandersi in larghezza, sulla laguna, e dunque di fronte all'incremento della popolazione l'unica alternativa era quella di alzare un piano o due in più.
Di qui, da questo grande «campo» dove ora, oltre all'ingresso del museo, ci sono botteghe e un bar, c'è l'edificio della casa di riposo della comunità ebraica e c'è un monumento in memoria delle vittime dello sterminio, tutto è cominciato il 29 marzo del 1516, quando un decreto del doge ordina di concentrare tutti gli ebrei della città in questa zona periferica dove c'era una vecchia fonderia - gheto o geto, per l'appunto. L'obiettivo è duplice: esercitare un controllo serrato della comunità ed emarginare i «perfidi» ebrei. Erano necessari all'economia della città, con i loro commerci, ma andavano tenuti distanti e separati dai cristiani, perché la loro stessa presenza (magari radicata da secoli) li offendeva.
I lavori di restauro e di riqualificazione ad opera del «Venetian Heritage Council», un'organizzazione creata all'uopo, hanno un obiettivo che va al di là della storia ebraica: «Siamo tutti responsabili di fronte al dovere di assicurare che le generazioni future abbiano accesso a queste storie», spiega Von Fürstenberg. A maggior ragione quando ci si trova di fronte alla congenita fragilità di Venezia, e più che mai fra le mura del ghetto -luogo concepito per dare agli ebrei stessi e al resto del mondo la cifra della loro sgradita provvisorietà. Qui ci sono infatti cinque «schole», cioè sinagoghe, una più bella dell'altra. Ma tutte nascoste dietro facciate indistinguibili, perché agli ebrei era fatto divieto di marcare i loro luoghi di preghiera con segni esteriori, per non «offendere» la sensibilità cristiana. La schola tedesca e quella Canton sono di rito ashkenazita, la levantina e la spagnola sono sefardite, e poi c'è l'italiana: è lo specchio della natura multietnica di questo luogo dove convivevano - non sempre pacificamente ... - ebrei di origini e culture diverse.
I restauri saranno discreti e rispettosi, con l'obiettivo più di rivitalizzare che di preservare, «Abbiamo scelto questo progetto non perché sia ebraico, ma perché il ghetto è una parte cruciale del patrimonio culturale di Venezia, e noi vogliamo una Venezia migliore» spiega Toto Bergamo Rossi, l'International Relations Advisor del «Venetian Heritage», organizzazione no profit per la salvaguardia di Venezia. L'obiettivo più ampio è quello di trasformare il turismo globale nella città, restituendo Venezia alla propria storia, dentro e fuori dal ghetto: basta al viavai mordi e fuggi in laguna, che uccide la città e non lascia niente in chi ci passa.
Così come il ghetto, tutta Venezia ha bisogno di narrazione («Abbiamo bisogno di un intervento importante, per trasformare questo museo in un luogo capace di raccontare la nostra storia», spiega Shaul Bassi, direttore del Centro Veneziano di Studi Ebraici Internazionali), di uno sguardo che sappia cogliere quello che c'è oltre piazza San Marco: in fondo, come quella degli ebrei, anche la vita della città è una coraggiosa e improba sfida al tempo che passa.
(La Stampa, 14 gennaio 2015)
A Tel Aviv l'IMTM
The International Mediterranean Tourism Market
2015, Mostra del Turismo del Mediterraneo
ROMA - Ventunesimo appuntamento in Israele con il Mercato del Turismo Internazionale: a Tel Aviv è infatti in programma l'ormai tradizionale appuntamento fieristico con l'IMTM, la mostra internazionale del turismo del mediterraneo, nei giorni 10 e 11 febbraio prossimi.
La mostra aperta al mondo del turismo specializzato è considerata il luogo di incontro per l'industria turistica globale e locale. L'IMTM 2015 ospiterà i rappresentanti di oltre 40 paesi, più di 1.225 espositori e circa 21.900 visitatori, compresi i professionali del settore del turismo locale, gli agenti di viaggio e la stampa proveniente dall'estero.
L'evento israeliano si concentra sul turismo incoming, il turismo domestico e il turismo outgoing; significativo il numero di espositori provenienti da oltreoceano. La fiera presenta inoltre momenti di laboratori professionali, seminari e conferenze stampa. Presenti tutti i brand dei diversi settori, eco-turismo, turismo del benessere, cultura, vacanze al mare o soggiorni in città, offerte di pacchetti e viaggi su misura.
Il turismo israeliano registra oltre 4 milioni di viaggiatori all'estero ogni anno. Gli israeliani viaggiano con frequenza crescente, con un budget di spesa generoso e soggiorni medi di 4-10 notti.
(askanews, 13 gennaio 2015)
Ghetto ebraico a Roma, dove la paura si sconfigge con la sicurezza
di Rossana Miranda
Il Ghetto ebraico di Roma non dimentica. Non dimentica i deportati durante il neofascismo; i loro nomi sono incisi nei sampietrini dorati disegnati dall'artista Gunter Demnig e incastrati davanti ai portoni da dove sono usciti per non tornare più. Non dimentica Stefano Taché Gay, un bambino di due anni ucciso dai terroristi nel 1982 mentre usciva dalla sinagoga. A lui è dedicata una targa circondata da un'aiuola. Non dimentica Ron Arad, un pilota israeliano scomparso in Libano nel 1986, così come non dimentica Naftali Frenkel, Gilad Shaar ed Eyal Yifrach, i tre ragazzi israeliani sequestrati e uccisi la scorsa estate dall'organizzazione terroristica Hamas. Due striscioni con i loro volti sono appesi fuori dalla sinagoga di Roma.
ZONA PEDONALE
Ed è proprio per questo impegno a non dimenticare che gli attacchi alla redazione del settimanale francese Charlie Hebdo e al negozio kosher di Porte de Vincennes per mano di terroristi islamici hanno sconvolto la comunità ebraica a Roma. Nelle vicinanze della scuola la sicurezza è stata aumentata così come la presenza delle pattuglie dinamiche dei carabinieri. È stata anche anticipata dalla prefettura la decisione di pedonalizzare il ghetto. Un'idea del sindaco Ignazio Marino era nell'aria dallo scorso ottobre.
UOMINI IN BORGHESE
Soprattutto durante le lezioni e all'una, l'ora di uscita dalle scuole, il ghetto pullula di uomini della sicurezza in borghese. Ogni angolo è sorvegliato, qualsiasi presenza estranea è immediatamente intercettata. E non c'è biglietto di visita o tesserino che tenga.
"La tensione che viviamo c'è sempre stata, ma ora è un momento più delicato, troppo delicato per parlarne così", spiega una mamma che sta in piedi ad aspettare il figlio che esce da scuola. "La polizia fa già tanto, che altro devono fare? Più di così non ci possono proteggere", dice un'altra signora. "Forse è meglio parlare con qualcuno della comunità ebraica, che ci rappresenta tutti", invita cortesemente una mamma, seduta su una panchina, in piazza.
MINACCIA SU ROMA, NON IL GHETTO
I papà sono volontari nella sorveglianza. Sanno che più occhi sono attenti e più diminuisce il rischio. Un uomo si avvicina per parlarmi, aveva sentito le mie domande e voleva darmi la sua opinione, forse era uno dei genitori volontari nella sorveglianza, ma subito dopo è stato bloccato da un altro: "Quando sei di turno non puoi rilasciare interviste".
Pochi minuti dopo arriva il portavoce della Comunità ebraica di Roma, Fabio Perugia: "La prefettura ha deciso domenica di rafforzare la sicurezza e di pedonalizzare la zona. I genitori sono contenti perché c'è meno confusione e possono trovare parcheggio senza girare troppo quando devono venire a cercare i figli". Gli chiedo sulla paura di un possibile attentato e mi risponde serio: "Come tutti i cittadini europei ci sentiamo attenzionati dagli estremisti dell'Isis. Ma Roma è sotto minaccia per essere la culla del cristianesimo".
SINAGOGA APERTA
Secondo Perugia, la comunità ebraica è soddisfatta dell'operazione di sicurezza: "Mentre a Parigi le sinagoghe sono chiuse a Roma possono restare aperte e per questo dobbiamo ringraziare soltanto alle forze dell'ordine". Un gruppo di ragazzi, kippah in testa, esce da una visita guidata alla sinagoga. Uno di loro si ferma per fotografare lo striscione con le fotografie dei tre ragazzi israeliani uccisi a giugno; erano suoi coetanei.
LA SERENITÀ DEI BAMBINI
Per Milena Pavoncello, direttrice della Scuola primaria "Vittorio Polacco", questi giorni sono di grande tensione per i tragici fatti accaduti in Francia ma il livello di sicurezza è alto. "Dall'attentato del 1982 i genitori sono partecipi volontari della sorveglianza della scuola. Nonostante quello che si potrebbe aspettare, non ci sono assenze né cambiamenti negli orari e le attività ordinarie. La zona pedonale fra stare tutti molto più tranquilli. Dobbiamo curare la serenità dei bambini".
In alcune classi i bambini hanno chiesto cosa sia successo (e perché) a Parigi. Hanno ricevuto spiegazioni con delicatezza. Persino domenica c'è stata grande affluenza in un'attività extra-scolastica, i negozi sono rimasti aperti. La comunità ebraica non si è staccata dalle strade perché non dimentica le oppressioni vissute e i morti. Ma, come ha detto Perugia, nonostante la preoccupazione gli ebrei di Roma non hanno paura di chi li odia.
(formiche, 13 gennaio 2015)
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Roma - Ghetto ebraico pedonalizzato. Residenti-vigilantes: "Siamo esperti di krav maga"
ROMA - Dopo gli omicidi di Parigi nella sede del settimanale satirico Charlie Hebdo e nel market kosher nel quartiere ebraico, scatta l'allerta nel Ghetto ebraico di Roma, che da domenica 11 gennaio è stato pedonalizzato per motivi di sicurezza. E il Messaggero, con un articolo di Laura Bogliolo, mette in risalto una realtà nota da tempo a chi vive, frequenta e attraversa il quadrilatero delimitato da via delle Botteghe Oscure, il Lungotevere degli Anguillara, via Arenula e via Petroselli-del Teatro Marcello: quella dei "residenti vigilantes", ovvero delle strutture di autodifesa della comunità ebraica.
Al Ghetto non bastano le postazioni fisse dei carabinieri: ci sono i gruppi di vigilanza del quartiere, giovani e meno giovani addestrati al krav maga, l'arte marziale praticata dagli agenti del Mossad e raffinata negli anni, una sorta di manualino Bignami per chi vuole mettere ko qualcuno in strada usando soprattutto i "colpi bassi" e facendo il minimo dello sforzo.
Scrive Laura Bogliolo: «Individuo sospetto con cappello grigio e verde». La radiotrasmittente echeggia su via del Portico D'Ottavia confondendosi alle grida gioiose dei bimbi che escono da scuola. Le sentinelle, i più giovani, intanto controllano gli accessi su via Catalana e via del Tempio. Ogni volto nuovo, ogni movimento sospetto viene segnalato e in caso di pericolo il responsabile di turno avverte le forze dell'ordine usando una linea diretta. L'area è sospesa, le mamme corrono via sfuggendo veloci gli sguardi estranei. Addestrati con la tecnica krav maga, l'arte marziale usata dagli agenti del Mossad, blindano il ghetto in un estremo sforzo d'amore alimentato dal ricordo ancora insanguinato di Stefano Gaj Tachè, due anni, ucciso nell'attentato del 1982 alla sinagoga.
«I nostri vigilanti sono persone preparate, addestrate, fanno dei corsi specifici, usano la tecnica krav maga, la tecnica di auto-difesa usata in Israele - dice Fabio Di Castro, del Circolo Zi' Raimondo, i ragazzi del '48, mentre vigila all'uscita della scuola - la sicurezza ovviamente è stata rafforzata da giorni, con la vigilanza del quartiere, ma anche da parte delle forze dell'ordine». I gruppi della vigilanza di quartiere frequentano corsi appositi, sono preparati, nulla è lasciato al caso. [...] I vigilanti del quartiere non possono intervenire direttamente e in caso di pericolo, avvertono le forze dell'ordine.
In realtà in passato è successo spesso che alla delega alle forze dell'ordine le "strutture di difesa" abbiano preferito l'intervento diretto, come hanno denunciato i malcapitati di turno. D'altra parte è comprensibile la tensione della comunità ebraica più antica del mondo, visto il clima di crescente antisemitismo che la circonda.
(blitz quotidiano, 13 gennaio 2015)
Netanyahu sulla strage di Parigi: "Assassinati perché ebrei"
Il premier israeliano nel cimitero di Gerusalemme ha ricordato le vittime dell'attentato al minimarket kosher.
di Maria Virgili
Un giorno di dolore a Gerusalemme come Parigi dove si celebrano oggi i funerali delle vittime delle stragi francesi. Al cimitero di Har ha-Manuhot, centinaia di persone sono venute a portare il loro ultimo saluto agli ostaggi morti nel supermercato kosher per mano di Coulibaly.
Una giornata in ricordo di Yohan Cohen, 22 anni, dipendente del minimarket; Philippe Barnham, 45 anni, executive di una compagnia informatica, padre di quattro figli; Francois-Michel Saada, pensionato, padre anche lui di due figli e Yoav Hattab, 21 anni, figlio del rabbino capo di Tunisi. Le salme, arrivate questa mattina dalla Francia, sono state accolte da circa 2000 persone tra parenti, amici, conoscenti e autorità come il presidente Reuven Rivlin e il premier Benyamin Netanyahu.
Le vittime "sono state assassinate solamente per il fatto di essere ebrei in un attacco di odio compiuto da un disprezzabile assassino". A parlare è il primo ministro nel suo discorso di commemorazione durante il quale ha rinnovato l'appello alle autorità mondiali affinché vengano assunte misure più energiche contro l'islamismo radicale.
"Questi non sono solamente nemici degli ebrei - ha proseguito il premier - ma di tutta l'umanità. E' arrivato il momento che tutto il mondo civile si unisca per sradicare questi nemici dal nostro interno". Infine, a conclusione del suo intervento Netanyahu ha rivolto un ultimo pensiero: "Credo che nel profondo dei loro cuori gli ebrei sappiano che Israele è la loro patria storica che li accoglierà a braccia aperte".
Nella cerimonia è stato ricordato anche il giovane commesso musulmano del supermercato Kosher di Parigi che ha permesso con il suo coraggio di salvare la vita di numerosi ostaggi. Di lui il rabbino Meir Mazuz, leader della comunità tunisina di Israele, ha voluto celebrare il coraggio: "Lassana Bathily è un giusto tra le nazioni e i giusti tra le nazioni hanno un posto nel mondo che verrà".
(In Terris, 13 gennaio 2015)
Israele - Il momento più duro
di Rachel Silvera
"Cari Yoav, Yohan, Philippe e Francois-Michel non volevamo ricevervi in Israele in questa situazione. Non volevamo vedervi arrivare così in questa terra, la vostra casa. Vi volevamo vivi", è livido il presidente dello Stato d'Israele Reuven Rivlin mentre presenzia al Monte degli Ulivi di Gerusalemme ai funerali delle quattro vittime dell'attentato all'Hypercasher di Porte de Vincennes, nella periferia di Parigi.
Yoav Hattab, 21 anni, era da poco stato in Israele; sul suo profilo Facebook troneggia ancora lo sfondo della città dorata. Ha ricevuto oggi, per volere della sua famiglia e del padre (il rabbino della Grande Sinagoga di Tunisi e preside della scuola ebraica Benjamin Hattab), l'elegia funebre del leader spirituale tunisino rabbi Meir Mazuz fuori dalla yeshiva di Bnei Brak.
La foto di Yoann Cohen mentre prega stretto nel suo talled ha commosso tutto li mondo. Il ventenne sarà sempre ricordato per il disperato tentativo di sparare, con un'arma abbandonata, all'attentatore Amedy Coulibaly, senza però riuscire e venendo quindi freddato da quest'ultimo.
Philippe Braham aveva sempre sognato di fare l'aliyah, i figli di Francois Michel Saada si erano invece entrambi trasferiti in Israele.
A dare il proprio sostegno alle famiglie e agli amici, oltre alle migliaia di persone accorse, anche il premier Benjamin Netanyahu, il leader dell'opposizione Isaac Herzog e il ministro dell'Ambiente francese Ségolène Royal che ha conferito la Legione d'Onore postuma alle quattro vittime.
Tanti i messaggi che i cittadini israeliani hanno voluto lanciare, intrisi di solidarietà e preoccupazione; tanti i cartelloni con scritto Je suis Juif. Un uomo, riporta il Times of Israel, solleva un foglio con le foto dei quattro uomini e la frase lapidaria: "Sono morto perché sono ebreo".
Dopo aver recitato il Kaddish, la tradìzionale preghiera funebre, prende la parola Valerie, la vedova di Philippe Braham, che in Israele ha già sepolto il loro primo figlio: "Mio marito era un padre perfetto, l'amore della mia vita. Poneva sempre davanti a sé le esigenze altrui. Adesso sto piangendo, ma sento che tutti voi piangete con me", ad abbracciarla la first lady Sara Netanyahu. Philippe lascia orfani Raphael, Ella, Naor e Shirel, gli amici della coppia hanno lanciato un'iniziativa online per raccogliere i soldi e garantire il loro sostentamento.
Distrutta anche la vedova di Saada, un testimone racconta che la donna è stata dovuta essere trascinata per salire sull'aereo e dare l'ultimo saluto al compagno di una vita.
Il presidente Rivlin lancia poi un monito: "L'Europa ha il dovere di proteggere gli ebrei. Le vittime che seppelliamo oggi sono state uccise a sangue freddo perché ebree. Il terrorista voleva essere sicuro di attaccare un negozio ebraico. Questo è il simbolo di un odio antisemita oscuro e premeditato che vuole colpire la vita ebraica: a Tolosa, a Gerusalemme, a Bruxelles. Che sia per strada, in museo, nelle sinagoghe, alla stazione".
Addolorato, il premier Netanyahu ha ricordato: "Qui sono sepolte anche le vittime della strage nella scuola ebraica di Tolosa. Non mi stancherò mai di dire come i terroristi, non siano solo nemici del popolo ebraico, ma di tutta l'umanità. Non dobbiamo avere paura però, non ci sconfiggeranno. Siamo un popolo antico con uno spirito forte
Ed esiste lo Stato d'Israele, la terra che rappresenta la speranza per tutto il popolo ebraico".
Il leader dell'opposizione israeliana Isaac Herzog ha collegato il massacro delle quattro vittime alla sinagoga Har Nof di Gerusalemme con quello perpetrato a Parigi: "Non permetteremo al terrorismo di vincere".
Dopo l'invito di Benjamin Netanyahu agli ebrei francesi di trasferirsi in Israele e la risposta del primo ministro francese Manuel Valls ("La Francia non sarebbe più la Francia senza gli ebrei"), interviene il ministro Ségolène Royal: "Soffriamo con voi. Nel nostro paese non ci sarà posto per l'Antisemitismo, abbiamo il dovere di proteggere gli ebrei francesi".
Dopo la giornata di oggi, per la famiglia Cohen, Hattab, Saada e Braham inizierà il momento più duro: la sopravvivenza, ora dopo ora, agli uomini che amavano più di ogni altra cosa.
(moked, 13 gennaio 2015)
Arrivati a Gerusalemme i corpi dei quattro ebrei uccisi
Saranno sepolti al cimitero ebraico di Gerusalemme
ROMA - I corpi dei quattro ebrei francesi uccisi nell'attacco al supermercato Kasher alle porte di Vincennes, a Parigi, sono arrivati in Israele per essere sepolti a Gerusalemme, nel cimitero di Har Hamenouhot, lo stesso luogo dove riposano tre bambini e un insegnante, morti nel 2012 in Francia, in un attacco jihadista da parte di Mohamed Merah.
Yohav Hattab e Yohan Cohen, entrambi ventenni, Philippe Braham, sulla quarantina e Francois Michel Saada, di 60 anni, erano tra gli ostaggi uccisi da Amedy Coulibaly, in uno degli attentati che hanno creato terrone in Francia.
(askanews, 13 gennaio 2015)
Le radici dell'odio
di Giovanni Morandi
A parte il discutibile invito di Hollande al premier israeliano Netanyahu perché non partecipasse alla marcia, pretesa che non aveva a che fare con l'antisemismo ma con ragioni di sicurezza (coraggio da leoni), il problema che gli ebrei sono sotto tiro esiste. Le cifre fornite dall'Agenzia ebraica di Francia, organizzazione che aiuta a trasferirsi in Israele, sono chiare. Nel 2012 sono partiti 2mila ebrei, nel 2013 oltre 3100, nel 2014 sono stati 5mila e quest'anno dopo quello che è accaduto e quello ancora peggiore che poteva accadere vogliono andarsene in 10mila. Siamo alla fuga dal paese che ha la più grande comunità ebraica d'Europa: mezzo milione. Ma il problema non è che i francesi sono antisemiti, anche se qualche motivo per guadagnarsi il sospetto l'hanno dato (leggere i libri di storia). Il fatto è che l'antisemitismo sta dilagando in Francia perché ci sono sei milioni di musulmani, che sono diventati ingombranti anche per i francesi.
Gli studI legali di New York segnalano nel 2014 il trasferimento di alcune decine di grandi famiglie ebraiche francesi, che senza fare clamore e senza però scegliere Israele che non è il posto più tranquillo del mondo, hanno pensato di mettersi al riparo andando negli Usa dove si sono portati dietro 1,5 miliardi di dollari. Il fatto che il premier Netanyahu abbia detto in modo ruvido a Hollande di essere più energico contro il terrorismo arabo, e abbia detto agli ebrei: «La vostra casa è Israele» (e non la Francia) non è che il risultato di quanto si è detto. Tra quelli che se ne vanno c'è il proprietario del negozio kosher della strage. Inevitabile epilogo di un'immigrazione finita fuori controllo. La libertà della democrazia ha finito col facilitare i fanatici jihadisti, che tre anni fa assalirono una scuola ebraica (quattro morti) e regolarmente incediano i negozi ebrei. All'Agenzia ebraica si sono rivolti l'anno scorso in 50mila per sapere cosa fare per andarsene ed è facile trovare ebrei che ti dicono che hanno paura e che non è più vita. Liberté fraternité égalité ma non per tutti.
(Quotidiano.net - Blog, 13 gennaio 2015)
Proposta di soluzione al problema del terrorismo islamico in Francia
Andrea's Version: "Mi è arrivata, anonima, via mail e ve la ripropongo pari pari."
TITOLO: "Una soluzione alla crisi del terrore franco-islamista".
Questo attacco sottolinea l'urgenza a che la Francia sieda immediatamente al tavolo delle trattative con i francesi musulmani per creare due stati per due popoli, che vivano uno accanto all'altro in pace e sicurezza, con Parigi come capitale condivisa. Baci.
(Il Foglio, 13 gennaio 2015)
Appelfeld: "Il mondo intero ci deve proteggere"
Parla lentamente, Aharon Appelfeld, soppesando ogni frase tra lunghi sospiri. Dalla sua casa a Gerusalemme lo scrittore israeliano, che compirà 83 anni a febbraio, sta seguendo con una preoccupazione fortissima la difficile situazione in cui si trovano gli ebrei a Parigi e in Francia. «Provo orrore, solo orrore, per quanto è avvenuto a Parigi dice il romanziere di famiglia ebraica, che da bambino fu deportato in un campo di concentramento insieme al padre, dopo che i nazisti ne avevano ucciso la madre, per poi riuscire miracolosamente a fuggire e a salvarsi è terribile che siano stati uccisi dei giornalisti ma anche degli ebrei. Tutto questo mi fa male. L'agguato al kosher market è una cosa orribile. Mi ha ricordato le violenze che gli ebrei hanno subito durante la seconda guerra mondiale».
- Appelfeld, come si vincerà questo clima di paura?
«Non lo so. I giornalisti sono stati assassinati perché giornalisti e gli ebrei sono stati uccisi perché ebrei. Esattamente come succedeva durante il nazismo. La comunità internazionale non dovrebbe permettere questo, gli ebrei vanno protetti. Oggi ripiombiamo in un passato di terrore, nella barbarie che l'Europa si era lasciata alle spalle. Non doveva più tornare. E invece è qui, sotto i nostri occhi».
- Secondo lei le misure di sicurezza basteranno per impedire altri attentati?
«Ce lo auguriamo tutti. Da un lato è necessario che le forze dell'ordine proteggano con la massima attenzione le scuole ebraiche, le sinagoghe e i negozi delle nostre comunità a Parigi e nel resto del Paese, ma dall'altro è evidente che per fare ciò occorreranno risorse economiche e umane sicuramente elevate. Non ho idea se il governo francese disponga di questi mezzi».
- Dopo il corteo in cui hanno sfilato insieme Netanyahu e Abu Mazen, il premier israeliano ha fatto visita al negozio kosher. Sono segnali importanti?
L'intervistatore di Repubblica fa la domanda suggerendo già la risposta. In realtà, non cè niente di incoraggiante nella presenza di Abu Mazen in quella occasione.
«Sicuramente sì, vanno accolti positivamente. Però penso che tutti i capi di Stato debbano continuare a esprimere la loro solidarietà e a impegnarsi per la pace. La partecipazione deve essere la più ampia possibile in queste situazioni».
- La sua esperienza di vita la induce a rivolgere quali parole agli ebrei che in queste ore vivono il dramma del terrorismo?
«Si sentono vulnerabili, hanno paura. Li capisco. E gli sono vicino, davvero vicino. Gli mando tutta la mia solidarietà perché mi identifico in loro e in quello che stanno vivendo. Mi permetta però di farle notare che non è un problema solo per gli ebrei: quanto è accaduto a Parigi evidenzia rischi che vanno oltre l'antisemitismo. Riguardano l'Europa intera. Questo terrorismo barbarico, senza pietà, non è solo un problema per gli ebrei. È stata colpita l'Europa ».
- Cosa accadrà alla lunga tradizione di dialogo interculturale in Francia? Siamo a un punto di non ritorno?
«Dipende dalla reazione del governo francese. Certamente è fondamentale che vengano identificati e fermati tutti gli estremisti islamici. L'Europa dal canto suo dovrà aiutare la Francia in queste azioni. Ne va della libertà di tutti».
(la Repubblica, 13 gennaio 2015)
La Bibbia messa ai margini e la crisi del cristianesimo
La crisi dell'Occidente per l'ignoranza della Bibbia. L'Europa sconta un'incapacità nel comprendere lo Stato di Israele. A una certa politica miope gli ebrei piacciono solo in quanto morti da ricordare e non come soggetti con cui confrontarsi.
di Giuseppe Laras
Siamo in guerra e prendiamo coscienza che siamo solo agli inizi. È la prima volta dai giorni di Adof HItler che le sinagoghe in Francia sono state chiuse di sabato.
Tuttavia, è unicamente il tragico attentato al giornale Charlie Hebdo che ha scosso gli europei: i molti e continui attentati ai singoli ebrei e alle comunità ebraiche in tutta Europa in questi anni hanno turbato qualcuno, ma per quasi tutti si è trattato «solo» di ebrei.
Molti intellettuali e politici sostengono che il problema non è l'Islam, ma il terrorismo. È come dire che il cristianesimo non è l'antisemitismo o l'antigiudaismo. Certo! Tuttavia è innegabile che l'antisemitismo e l'antigiudaismo sono stati problemi profondi propri del cristianesimo (e non solo). La violenza e il fanatismo, la sottomissione religiosa e il terrore non esauriscono l'Islam, ma sono un problema religioso che in qualche modo riguarda l'Islam. L'autocritica dell'Islam (assieme alla critica laica esterna) su questo punto sembra difettare.
Cristiani ed ebrei, secondo il Corano, sono presenti nei Paesi islamici in quanto dhimmi, popolazioni sottomesse, tollerate purché subalterne e paganti apposite tasse. Cosa dobbiamo, sia a livello politico e giuridico sia a livello interreligioso, chiedere oggi ai più autorevoli teologi islamici nei Paesi europei e arabi, anche a fronte della massiccia presenza demografica di musulmani?
La prima domanda è la seguente: è possibile per l'Islam, in ossequio al Corano e per necessità religiosa intima propria dei musulmani osservanti, e non solo perché richiesto dai governi occidentali o da ebrei e cristiani, accettare teologicamente, apprezzandolo, il concetto di cittadinanza politica, anziché quello di cittadinanza religiosa, confliggente quest'ultimo con i valori occidentali e pericoloso per le comunità cristiane ed ebraiche che, in qualità di minoranze, sarebbero esposte a intolleranze e arbitrio? Questa domanda fondamentale, per ignoranza, ignavia e inettitudine, non è mai stata seriamente posta dai politici europei, che hanno responsabilità enormi, anche del sangue sinora versato.
C'è una seconda questione, che si intreccia alla prima. Per l'Islam, gli ebrei hanno alterato la Rivelazione divina e i cristiani hanno pratiche cultuali, oltre a condividere con i primi una Rivelazione alterata, dal sapore idolatrico. E possibile per l'Islam, in ossequio al Corano e per necessità religiosa interiore dei musulmani osservanti, e non solo perché sollecitato da ebrei e cristiani, apprezzare positivamente, in una prospettiva teologica, ebrei e cristiani in relazione alle problematiche sollevate da questo assunto coranico?
Premesso che ci sono migliaia di singoli musulmani che a queste domande hanno già risposto personalmente con il rispetto per li prossimo e per la sua fede, con un certo pluralismo e con l'integrazione ricercata e praticata, tuttavia manca una reale, inequivocabile, onesta, autorevole e vincolante riflessione teologica islamica al riguardo. È chiaro che se le risposte saranno per lo più negative, non sufficientemente autentiche o caratterizzate da silenzi e imbarazzi, ci si troverà tutti di fronte a un immenso problema.
C'è una tentazione che può profilarsi, a diversi livelli, sia nel cristianesimo sia nella politica europea: quella di lasciar soli gli ebrei e lo Stato di Israele per facilitare una pace politica, culturale e religiosa con l'Islam politico, specie nell'ottica delle future proiezioni demografiche religiose europee, e mediterranee. È
Dopo che quasi tutti i Paesi islamici si sono sbarazzati dei «loro» ebrei, si sono concentrati con violenze e massacri sulle ben nutrite minoran- ze cristiane. È una storia che si ripropone e che va dal genocidio armeno (cento anni fa), ai cristiani copti di Egitto, ai cristiani etiopi e nigeriani, sino a Mosul.
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una strategia fallimentare che i cristiani arabi provarono con il panarabismo e l'antisionismo. Gli esiti sono ben noti: dopo che quasi tutti i Paesi islamici si sono sbarazzati dei «loro» ebrei, si sono concentrati con violenze e massacri sulle ben nutrite minoranze cristiane. È una storia che si ripropone e che va dal genocidio armeno (cento anni fa), ai cristiani copti di Egitto, ai cristiani etiopi e nigeriani, sino a Mosul. E molti Paesi europei, un'intera «classe» di intellettuali e molti cristiani di Occidente hanno le mani grondanti del sangue dei cristiani di Oriente, dato che sono stati disposti a sacrificarli sugli altari del pacifismo, dell'opportunità politica, di un malinteso concetto di tolleranza, della cultura benpensante e radical chic, della «buona» coscienza.
La tentazione di abbandonare gli ebrei e Israele è già esistente nei ricorrenti episodi di boicottaggio europeo dello Stato di Israele. Esiste nel silenzio imbarazzato o infastidito sui morti ebrei in Europa oggi. Con buona pace della Giornata della Memoria.
La Giornata della Memoria è stata purtroppo addomesticata con liturgie pubbliche e anestetizzata dalle cerimonie in Parlamento e al Quirinale. Le più alte cariche dello Stato dovrebbero annualmente andare a celebrarla a Fossoli, a Bolzano, a San Sabba o nel ghetto di Roma, per far capire che è una realtà possibile, come tale ripetibile, e che si è verificata in Italia, con il plauso, la collaborazione, l'assenso e i silenzi di moltissimi - troppi - italiani. Essa così risulta azzoppata, fraintesa e priva di potenzialità dinamiche per comprendere il presente e incidervi positivamente.
E l'ignavia e il diniego europeo sulle questioni presenti e sull'incapacità di affrontare politicamente e culturalmente le insidie legate alle derive dell'Islam politico, consegnando così a razzisti e xenofobi le risoluzioni del problema, gettano ombre lunghe che rievocano i fantasmi del nazismo e, per gli ebrei, della persecuzione. L'incapacità di comprendere lo Stato di Israele in definitiva si risolve nel fatto che a una certa politica e a una certa cultura europea miope gli ebrei piacciono solo in quanto morti da piangere e ricordare e non come soggetti vivi con cui dialogare e confrontarsi, ovvero oggi, in primo luogo, Israele.
La nostra contemporaneità ricorda tristemente il periodo sinistro tra le due guerre mondiali: una sorta di collasso sistemico. La crisi che viviamo non è economica e demografica soltanto: è una crisi culturale e valoriale, legata alla crisi del cristianesimo e, in un certo senso, della conoscenza della Bibbia, il cardine dell'intera nostra cultura dal punto di vista urbanistico, artistico, musicale, letterario, filosofico, giuridico, politico e religioso. E proprio per questo la Bibbia non è presente nelle scuole. E questa la chiamano laicità!
È stato necessario un attore per far di nuovo parlare, interessando, di Bibbia e del Decalogo: Benigni! Che débacle che sia stato necessario lui dopo duemila anni di cristianesimo e duemila e duecento anni di
Riportare la Bibbia a fondamento della cultura e dell'etica è un impegno religioso possibile: un impegno di cui si avverte l'urgenza impellente e drammatica in questi anni di crisi, di confusione assor- dante, di efferata violenza e di grande mediocrità.
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ebraismo in Italia! L'erosione della conoscenza della Bibbia, non in quanto «tributo antiquario» ma piuttosto in quanto «forza creatrice e rigenerante», è uno dei fatti più inquietanti e drammatici per il nostro futuro sia religioso, sia culturale nelle sue varie declinazioni, sia in termini economici e politici.
Aveva ragione C. M. Martini a dire che la Bibbia è il libro del futuro dell'Europa e dell'Occidente, ma non è stato ascoltato, Aveva ragione Benedetto XVI nella ben nota conferenza di Ratisbona, ma fu vittima del
discredito mediatico e culturale. E la Bibbia è stata scritta da ebrei, per ebrei, in ebraico, e l'ebraismo ancora oggi sopravvive proprio grazie alla Bibbia. E, parimenti, credo, il cristianesimo.
Il riportare la Bibbia a fondamento della cultura e dell'etica è un impegno religioso possibile, dalla fecondità straordinaria, condivisibile tra ebrei e cristiani: un impegno di cui si avverte l'urgenza impellente e drammatica in questi anni di crisi, di confusione assordante, di efferata violenza e di grande mediocrità.
Tuttavia, senza il reale riferimento positivo e non ambiguo a Israele, non sarà né autentico né produttivo il dialogo tra ebrei e cristiani.
Infine, visti i tempi calamitosi in cui ci troviamo e troveremo ancora di più domani a vivere, invito tutte le persone coscienti e responsabili a raccogliersi in preghiera invocando dall'alto l'impulso in ciascuno di noi ad agire ai fini del rispetto del prossimo e della pace, concetto e realtà quest'ultima troppo spesso ideologicamente abusata.
(Corriere della Sera, 13 gennaio 2015)
L'imam di Londra: "Chi offende Maometto deve morire"
L'imam di Londra, intervistato da Piazzapulita, approva la strage di Parigi e vede Roma come il prossimo obiettivo dei terroristi.
di Francesco Curridori
"Su quello che è successo a Parigi il Corano è molto chiaro: chiunque insulti il profeta deve morire.
Io credo che andrebbe processato secondo la Sharia e, se condannato, giustiziato secondo la Sharia. Perché non imparate la lezione e basta? Questo è quello che dice l'Islam". È quanto ha dichiarato l'imam Sudari, cittadino inglese che vive a Londra, nel corso della puntata di ieri di Piazza pulita.
Per l'imam l'attacco terroristico nella sede di Charlie Hebdo non arriva inaspettato ma è conseguenza naturale della politica estera della Francia: "Il governo francese provoca i musulmani da tempo. Hanno bandito il burqa, hanno complottato contro i musulmani in Irak e Siria, hanno occupato le nostre terre, hanno sfruttato i musulmani in Africa e adesso hanno permesso alle persone di insultare il messaggio del Mohamed. C'è una lunga lista di persone che hanno insultato il profeta e molte di queste sono già state uccise. Che vi aspettavate?"
L'imam ha anche ammonito che l'Italia potrebbe essere il prossimo obiettivo dei terroristi perché "sta aiutando gli americani nella coalizione contro lo Stato islamico e i musulmani quindi vi sorprendete se vi saranno ripercussioni serie per quello che state facendo". L'obiettivo principale è la Capitale: "Quello che sappiamo dalle profezie del Messaggero - spiega l'imam londinese - è che il giudizio non arriverà finché un gruppo della nostra comunità non conquisterà Roma. Quindi un giorno Roma, statene certi, sarà sotto la Sharia ma guardate sarà una cosa bella. Non dovete avere paura".
Gli attacchi, secondo Sudari, non cesseranno "fino a che voi (occidentali ndr) non aprirete gli occhi e vi renderete conto delle vostre azioni la situazione non cambierà. Se altri insulteranno il profeta le ripercussioni saranno le stesse e ci saranno altri attacchi. I musulmani non sono come i cristiani che dicono di porgere l'altra guancia, i musulmani si difendono".
E alla domanda "ma da cosa? Dalle vignette?" la risposta è alquanto inquietante: "Per voi sono solo disegni ma quei disegni sono inaccettabili e non vi sorprendete se i giornalisti vengono presi di mira. Sono considerati quelli che fanno propaganda per i regimi che stanno mandando i loro uomini a uccidere i musulmani".
L'imam ribadisce, infatti, per ben due volte che per lui la libertà d'espressione non esiste: "È Allah che ci indica cosa possiamo dire e non dire. Io sto parlando perché Allah mi ha creato e mi ha dato il permesso di dare il punto di vista islamico al mondo e voi non potete usare eufemismi come libertà d'espressione e di parola per coprire azioni di provocazioni come quelle che stava facendo quel giornale da anni".
Sudari avverte che "i giornalisti ma anche i civili occidentali non sono al sicuro e sono visti come parte del nemico" e invita l'Occidente a ritirare le truppe dai Paesi islamici anche perché "La democrazia ha fallito così come il capitalismo. Le persone non credono più che la democrazia liberale abbia le soluzioni per problemi come la povertà, l'immigrazione, la mancanza di prospettive per i giovani. È l'Islam il futuro dell'umanità".
(il Giornale, 13 gennaio 2015)
Sono nazista. Però moderato
di Alessandro Isolani
Confesso: sono nazista, ma moderato. Difatti condanno alcuni eccessi del passato, critico atteggiamenti estremistici e mi dissocio dalle camere a gas. Ma non sono creduto. Dicono che non possono esistere nazisti moderati; dicono che il loro riferimento è il MeinKampf e che nel testo sacro non c' è posto per la temperanza. L'ideologia prevede la supremazia della razza ariana. Per raggiungere l'obiettivo è lecito usare qualunque mezzo; chi sacrifica la sua vita per conseguirlo è destinato a gloria eterna.
Non capisco. Tutti ammettono l'islam moderato, anche se non si è mai manifestato. Eppure il riferimento dei musulmani è il Corano, dove si predica lo sterminio degli infedeli e la sottomissione delle donne. Dove non c'è posto per libertà religiosa, dove i nemici di Allah devono essere uccisi. Dove gli apostati sono condannati senz'attenuante alcuna. Dove i miscredenti e gli omosessuali sono destinati alla tomba. Dove i martiri avranno in premio sette vergini e della sorte delle vergini non importa a nessuno. Non capisco. Dov'è la differenza?
(il Giornale, 13 gennaio 2015)
Parigi - Vittime ebree in Israele, comunità 'in fuga' dalla Francia
Tra le migliaia di bandiere francesi nella grande marcia di Parigi, spuntava anche la stella di David.
C'è paura e rabbia nella comunità ebraica francese, tra la voglia di reagire e la tentazione di andarsene.
Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, dice che Israele è "la loro casa" e ha accettato la richiesta delle famiglie di seppellire a Gerusalemme i corpi delle quattro vittime del supermarket kosher, dove si è recato prima di ripartire per Tel Aviv.
"È una reazione di solidarietà, è giusto che Netanyahu sia venuto, questo ci rassicura un po' - dice un abitante di Parigi -, sappiamo che siamo sostenuti e questo riscalda il cuore".
"La cosa più importante è che ora siamo al sicuro, anche se solo per il momento - aggiunge un altro parigino appartenente alla comunità ebraica -. Ora abbiamo bisogno che la polizia faccia il proprio lavoro al meglio, e intervenga in profondità, nelle banlieues. Questo è un cancro".
La Grande Sinagoga di Parigi sabato scorso è rimasta chiusa per la prima volta dalla seconda guerra mondiale. A Parigi ha paura anche chi è abituato a vivere con la paura.
"Questa visita è stata molto importante per noi. Prima di tutto per mostrare la nostra solidarietà al popolo francese e al suo governo - dice il portavoce di Netanyahu, Mark Regev, intervistato dal giornalista di euronews, Fabien Farge - Così come i francesi, anche la comunità ebraica francese sta attraversando un momento di grande difficoltà".
"Questo non è un fenomeno limitato a uno o due Paesi. Si tratta di una minaccia globale - conclude Regev parlando ai microfoni di euronews - È quindi fondamentale partire da quello che abbiamo visto ieri, la marcia di solidarietà con tutti i leader, e agire concretamente. Cioé, un'azione coordinata di tutti governi contro questi estremisti islamici che minacciano tutti".
Il fenomeno dell'emigrazione degli ebrei è già noto e i numeri, in Francia, salgono. Nel 2013 l'emigrazione ha toccato quota 4.000 persone, nel 2014 è arrivata a 7.000. La Francia ha avuto una enorme immigrazione di origine nordafricana e magrebina e ha la più grande comunità ebraica d'Europa. La convivenza è peggiorata e molti hanno deciso di lasciare.
(euronews, 12 gennaio 2015)
Netanyahu: ora tutti contro il terrorismo anche quando colpisce Israele
PARIGI - "Mi aspetto che ogni leader, dopo che abbiamo marciato insieme per le strade di Parigi, combatta il terrorismo, anche quando è diretto contro Israele e gli ebrei". E' quanto ha detto Benjamin Netanyahu durante la visita che oggi ha fatto nel minimarket kosher di Parigi dove venerdì quattro persone sono state uccise da Amedy Coulibaly. "Per quanto mi riguarda, io vorrò sempre vedere Israele che cammina in prima fila tra le nazioni quando si tratta di difendere la sua sicurezza e il suo futuro", ha poi detto ancora il premier israeliano.
Netanyahu ha anche postato un messaggio su Facebook in cui ha raccontato della sua visita a "Hyper Cacher" e del suo colloquio con uno degli ostaggi sopravvissuti. "Ho incontrato Celine che era uno degli ostaggi e mi ha raccontato quello che è successo durante l'attacco - ha scritto il premier israeliano su Facebook - c'e' un diretto legame tra gli attacchi degli estremisti islamici nel mondo e l'attacco che è avvenuto qui, in un supermercato kosher nel cuore di Parigi".
(Libero Reporter,12 gennaio 2015)
La comunità ebraica a Napoli.
Mercoledì 14 gennaio 2015 alle ore 11.00, nella sala Filangieri dell'Archivio di Stato di Napoli sarà inaugurato il nuovo allestimento della mostra La Comunità Ebraica di Napoli, 1864/2014: 150 anni di storia.
Negli spazi del Chiostro del Platano, proprio nel cuore dei quartieri che videro il fiorire delle antiche giudecche dal VI secolo d.C. alla cacciata dal Viceregno Spagnolo, nelle aree di San Marcellino e Porta Nova, si ripropone l'allestimento della mostra inaugurata lo scorso novembre alla Biblioteca Nazionale di Napoli, riveduta ed ampliata nei contenuti.
La narrazione della storia della Comunità napoletana prende le mosse proprio dalla nascita di questi quartieri, rimasti cuore della vita ebraica fino alla grande cacciata degli ebrei nel 1510.
Numerosi documenti mai esposti finora raccontano la riammissione degli ebrei nel Regno nel 1740, sotto il governo di Carlo di Borbone, e la successiva espulsione nel 1746.
Ampio spazio è dedicato alla vicenda della famiglia di banchieri tedeschi Rothschild, artefici della rinascita della vita comunitaria, primi a prendere in fitto i locali dove tutt'oggi la Sinagoga ha sede, in seguito acquistati con il contributo di tutti gli iscritti. In mostra si espone la corrispondenza dei fratelli James e Carl Rothschild in merito al prestito accordato al Regno delle due Sicilie, così come le piante ed i prospetti della sede della loro banca aperta a Chiaia, quelli della Villa, oggi Pignatelli, dove presero dimora, ed il bellissimo ritratto della figlia di Carl, Charlotte, realizzato dal pittore Moritz Oppenheim.
Molti i personaggi illustri, rabbini ed imprenditori che presero parte attivamente alla vita comunitaria. Tra i tanti ricordiamo l'amatissimo Rabbino Kahn, tra i primi ad interessarsi a studi di archeologia che definissero il ruolo degli ebrei a Pompei e nell'impero romano. Così come, di
qualche anno precedente, l'imprenditore Giorgio Ascarelli, fondatore del Calcio Napoli; in mostra sono esposte le inedite piante dello Stadio Partenopeo, da lui costruito e, tra le tante curiosità, un fascicolo, anch'esso inedito, della Questura, proprio su Ascarelli, scagionato dalle accuse di essere un sovversivo poiché iscritto al partito socialista. Ancora molte testimonianze della vita imprenditoriale ebraica, attraverso fotografie, oggetti e documenti d'epoca.
Il capitolo doloroso delle leggi razziali e della Shoah è trattato in un'ampia sezione dove si è scelto di narrare la vicenda dei Procaccia, un'intera famiglia fuggita da Napoli a Lucca e da lì deportata e sterminata ad Auschwitz.
La rinascita nel dopoguerra è infine documentata attraverso diverse testimonianze di vita e di incontri importanti, come la storica visita alla Sinagoga del Cardinale Ursi, primo uomo di Chiesa a mettere piede nel 1966 in un luogo di culto ebraico.
All'inaugurazione interverranno, Imma Ascione, Direttrice dell'Archivio di Stato di Napoli, Simonetta Buttò, Direttrice della Biblioteca Nazionale di Napoli, Elda Morlicchio, Rettore dell'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale", il Consigliere dell'Unione della Comunità Ebraiche Italiane Sandro Temin, il Presidente della Comunità Ebraica di Napoli, Pier Luigi Campagnano e Giancarlo Lacerenza, del Centro di studi ebraici dell'Università "L'Orientale", curatore della mostra.
La mostra sarà aperta dal 14 gennaio al 28 febbraio il lunedì e il giovedì alle 9.30 e alle 11.30 con ingresso gratuito.
Visite guidate alla mostra su prenotazione: tel. 0815638256 e-mail: as-na@beniculturali.it
Per le scuole 0817643480 - napoliebraica@gmail.com
La mostra è realizzata con l'adesione del Presidente della Repubblica, il patrocinio della Regione Campania, dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e della Fondazione Beni Culturali Ebraici.i, 1864/2014: 150 anni di storia.
(Positano News, 12 gennaio 2015)
«In tanti hanno già lasciato l'Europa»
Gattegna, Presidente dell'Unione delle comunità italiane: la convivenza peggiora. Spaventa I'idea che siano colpiti centri della vita quotidiana.
- Enzo Gattegna, molti ebrei francesi stanno progettando di lasciare il Paese, dopo la tragedia di questi giorni.
«ll fenomeno è già noto e i numeri, in Francia, salgono. Nel 2013 l'emigrazione ha toccato quota 4.000 persone, nel 2014 è arrivata a 7.000. La Francia ha avuto una enorme immigrazione di origine nordafricana e magrebina e ha la più grande comunità ebraica d'Europa, quasi 600 mila persone. La convivenza era già peggiorata da qualche anno. Molti hanno deciso di lasciare».
- E nella comunità italiana? C'è voglia di Iasciare?
«I numeri sono incomparabilmente diversi, gli ebrei italiani sono 25 mila. Qualche famiglia ha lasciato, ma per la crisi economica o per ricongiunzioni familiari in Israele. Comunque la situazione è molto grave e preoccupante, lo sappiamo. Soprattutto è impossibile capire se da ieri è tutto finito o se, invece, è solo l'inizio dell'improvviso sfogo di una furia distruttiva che covava da tempo. Riguarda l'Europa ma tutto il mondo occidentale. Gli ebrei italiani sono colpiti e allarmati, spaventa l'idea che qualcuno possa progettare di attaccare indiscriminatamente. com'è avvenuto a Parigi, i centri della vita quotidiana delle comunità ebraica. Gli ebrei ci sono di mezzo come sempre, e anche in questo caso sono obiettivi privilegiati».
- Gli ebrei italiani si sentono adeguatamente protetti?
«Le forze dell'ordine compiono un lavoro eccezionale per tutelare le istituzioni ebraiche. Abbiamo sinagoghe e uffici delle comunità protetti a tempo pieno. Siamo vicini alle istituzioni, in un continuo dialogo e scambio di informazioni. Raccomandiamo agli ebrei italiani di essere vigili e segnalare alle forze dell'ordine qualsiasi anomalia. Ma tra noi non c'è panico. Abbiamo cercato tutti di non cedere alla paura, di ragionare. L'opinione pubblica è schierata al nostro fianco. Cercheremo in ogni modo di convincere gli ebrei italiani a restare qui. Certo, servono norme forti per controllare attività potenzialmente eversive».
- A cosa si riferisce?
«Soprattutto al web. Tutta la propaganda folle di gruppi violenti e vicini ai terroristi passa su internet. Occorre riflettere. E poi credo ci sia da migliorare il coordinamento tra le diverse forze di sicurezza dei Paesi dell'Unione Europea C'è poi, davvero essenziale, la questione culturale. Vediamo in azione cittadini francesi di seconda o terza generazione. Evidentemente i valori sui quali si fonda la Francia e quindi l'Europa non sono stati assorbiti né apprezzati, vengono visti anzi come un disvalore. E anche su questo bisogna riflettere. Sono in gioco tutte le conquiste che la civiltà occidentale ha guadagnato a caro prezzo».
(Corriere della Sera, 12 gennaio 2015)
Oltremare - Fuori tempo
di Daniela Fubini, Tel Aviv
Sono tre giorni che ci provo, e non ci riesco. Allontano la memoria dell'11 Settembre, e lei si insinua sotto forma di sogno, sensazione, lapsus. I numeri non tornano, gli attentatori hanno altre provenienze, il luogo, il cuore d'Europa, ha tutta un'altra storia, altre stratificazioni di immigrazioni e forma nei sobborghi. Come paragonare. Eppure. Da venerdì sera, nessuno in Europa può più sentirsi al sicuro come prima degli attentati al Charlie Hebdo e all'HyperCacher. Una sensazione molto simile al 12 settembre 2001 a Manhattan e nel resto degli Stati Uniti.
Allora, l'America intera si riunì per piangere tutti i morti assassinati dai terroristi suicidi. Nello sbriciolarsi delle Torri Gemelle in diretta televisiva, sotto gli occhi di centinaia di milioni di spettatori impietriti, erano stati inceneriti uomini e donne di ogni religione, cultura e nazionalità. La reazione fu una unificazione a tutti i livelli, nel lutto e nella condanna. Cerimonie di ogni credo si tennero, i presenti ugualmente lividi davanti ad ogni prete, reverendo, rabbino, e quant'altro.
A Parigi, i terroristi hanno ammazzato a sangue freddo rappresentanti di tre categorie chiave nella società europea: disegnatori satirici, espressione della libertà d'opinione, poliziotti ovvero garanti dell'ordine pubblico, ed ebrei cioè i diversi per eccellenza, almeno nella storia contemporanea del continente. Oggi, la Francia, ma in realtà l'Europa intera, dovrebbe prima di tutto vivere il lutto come lutto collettivo che comprenda, rispettandone le differenze religiose, veramente tutte le vittime della strage in due tempi della settimana appena passata. Lo farà?
Qui in Israele il commento più comune al terrore francese è però che la Francia quanto al proteggere i suoi ebrei è fuori tempo massimo. Gli ebrei facciano in fretta l'alyiah e non se ne parli più. Cominciano a mancarmi gli argomenti per contraddire questo disfattismo che rende l'aliyah una fuga, e non una scelta libera e positiva. La Francia non opprime gli ebrei, l'Europa non ha promulgato leggi antiebraiche. Ma se nei fatti gli ebrei non si sentono (e evidentemente non sono) al sicuro, come biasimare chi dice "Via tutti, aliyah subito"?
(moked, 12 gennaio 2015)
Gaza: solidarietà israeliana per popolazione palestinese
di Daniele Rocchi
Ci sono anche molti israeliani tra coloro che, attraverso Caritas Jerusalem, inviano aiuti alla popolazione di Gaza dopo il conflitto del 2014. A rivelarlo all'agenzia Sir è il responsabile del fundraising dell'organismo caritativo cattolico, Harout Bedrossian. A margine di un incontro con i vescovi dell'Holy Land Coordination (Usa, Ue, Canada e Sud Africa) che ieri, da Gaza, hanno iniziato la loro tradizionale visita-pellegrinaggio, Bedrossian ha parlato di questo "fenomeno che non ha riscontro nelle passate guerre, 2008/2009 e 2012.
- Aiuti israeliani un segno di speranza
"Una corsa a portare aiuto che rappresenta una novità per la società israeliana - dice l'operatore - e anche se non coinvolge la maggioranza della popolazione israeliana è da considerarsi come un segno di speranza, piccolo ma di grande significato che ci fa credere che un futuro migliore è possibile". Tra i donatori israeliani si annoverano associazioni, scuole e singole persone.
- Gli aiuti tramite Caritas Jerusalem
Tra i più attivi il gruppo "Hand in Hand". "Sono studenti palestinesi e israeliani di istituti di Gerusalemme, Haifa e Tel Aviv, che credono nella convivenza e nella tolleranza - spiega Bedrossian - e che si stanno adoperando, con i loro insegnanti, per raccogliere aiuti da inviare a Gaza, soprattutto e acqua e latte per i bambini". Particolarmente significativa è l'opera di un altro gruppo, "Mother to Mother", composto da madri israeliane e palestinesi che hanno perso i loro figli nel conflitto". L'impegno di questi gruppi, unito a quello di "molti studenti universitari e di singole persone ha fruttato, fino ad oggi, ben 8 tir carichi di aiuti entrati a Gaza attraverso la Caritas Jerusalem". Quest'ultima è da sempre in prima linea nel portare aiuto alla popolazione, musulmana e cristiana.
(Radio Vaticana, 12 gennaio 2015)
Manifestazone per Charlie Hebdo: Hollande ha chiesto a Netanyahu di non partecipare
di Olivia B.
Un articolo di Haaretz racconta i retroscena della partecipazione del Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, alla marcia per la République che si è tenuta a Parigi lo scorso 11 gennaio, in seguito all'attentato che ha ucciso 12 persone alla redazione del giornale satirico francese Charlie Hebdo.
Il Presidente francese Francois Hollande avrebbe, nei giorni scorsi, inviato un messaggio al premier israeliano chiedendogli di non partecipare alla marcia contro il terrismo di domenica 11 gennaio, stando alle fonti di Haaretz e di Channel 2.
Jacques Audibert, il consigliere diplomatico di Hollande, avrebbe contatto il suo corrispettivo israeliano, Yossi Cohen, per comunicargli che Hollande avrebbe preferito che Netanyahu non partecipasse per evitare connessioni con il conflitto israelo-palestinese, in modo da mantenere l'attenzione sulla questione francese. La fonte citata da Haaretz dice che una delle preoccupazioni di Hollande fosse anche quella che Netanyahu si mettesse a fare discorsi sulla comunità ebraica francese.
Pare che inizialmente Netanyahu abbia dato il suo accordo per non parteciapare. Hollande avrebbe, nel frattempo, inviato lo stesso messaggio all'Autorità Palestinese e anche la risposta di Mahmoud Abbas è stata la stessa del Primo Ministro israeliano.
Cosa è cambiato? Sabato sera Avigdor Lieberman e Naftali Bennett, rispettivamente Ministro degli Esteri e Ministro dell'Economia e degli Affari Religiosi, hanno annunciato di voler partecipare alla manifestazione di Parigi. Sulle loro posizioni Netanyahu ha cambiato la sua e ha annunciato che avrebbe partecipato.
Dice Haaretz che la reazione di Audibert alla notizia sia stata abbastanza energica: il responsabile della sicurezza avrebbe risposto che la cosa avrebbe cambiato le relazioni tra i due paesi, almeno finché Hollande sarà Presidente. In ogni caso Audibert ha immediatamente invitato il Presidente dall'Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas. E infatti, l'ufficio di Abbas, che aveva già annunciato la non partecipazione dell'Autorità Nazionale Palestinese, ha poi fatto una comunicazione in senso opposto.
(AgoraVox Italia, 12 gennaio 2015)
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Il mancato invito di Parigi, le insistenze di Netanyahu: cos'è successo alla marcia di Parigi
di Leonardberberi
Nella foto - storica - ci è finito pure lui. Protetto, abbastanza visibilmente, da due guardie del corpo. Meglio: accompagnato dai due bodyguard che non hanno mai perso il contatto fisico con il loro capo. Lì, in prima fila. Il volto tipico dei grandi eventi.
E però, alla sera, ci hanno pensato le radio e le tv a rovinargli la giornata. Raccontando agl'israeliani che Benjamin Netanyahu, il loro primo ministro uscente, a Parigi non lo volevano. Che François Hollande, il padrone di casa e il presidente francese, aveva più volte detto agli organizzatori che il leader d'Israele avrebbe costituito un elemento di divisione. E di critiche.
«La Francia ha non ha ufficialmente spiegato perché non voleva Netanyahu», spiega una fonte del governo alla Radio militare israeliana. «L'Eliseo in realtà cercava di fare in modo che il conflitto israelo-palestinese
qui probabilmente manca un "non"
piombasse nella marcia organizzata contro il terrore e per ricordare le vittime degli attacchi nella capitale francese», aggiunge più tardi Canale 2.
Ma lui, Netanyahu, nonostante il mancato invito e le obiezioni a Parigi, fa capire che ci vuole andare a tutti i costi. E così sabato, verso l'ora di pranzo, Hollande viene quasi «costretto» dal protocollo a chiamare «Bibi» e dirgli di raggiungerlo nella capitale francese il giorno dopo. «Grazie, presidente, ma è meglio se sto a Gerusalemme, anche per ragioni di sicurezza», gli risponde a sorpresa Netanyahu. Sembra tutto risolto. Hollande può tirare un sospiro di sollievo.
Gli uffici stampa di Parigi e Gerusalemme dicono che il primo ministro israeliano non si muove. E così è per diverse ore. Poi sui social monta la critica. «Ma come, il nostro leader non va a mostrare la nostra vicinanza? Nemmeno con quattro ebrei uccisi?». I ministri degli Esteri e dell'Economia, Avigdor Lieberman e Naftali Bennett - leader di partiti in grado di togliergli voti alle elezioni di marzo prossimo - confermano che voleranno nella capitale francese.
È quasi all'ora di cena che Netanyahu decide di cambiare idea. Si va - si vola - a Parigi. L'ufficio di «Bibi» chiama l'Eliseo e comunica la novità. Che, per evitare imbarazzi, replica: «Ok, allora dobbiamo anche invitare il presidente dell'Autorità palestinese, Mahmoud Abbas». E così sarà.
Domenica, verso le tre e mezza di pomeriggio, Netanyahu è lì, in mondovisione. E in seconda fila. Poi si avvicina sempre di più alla prima. Infine si piazza in testa. Alla sua sinistra Ibrahim Boubakar Keita, il presidente del Mali. E ancora più in là il padrone di casa, il presidente François Hollande, la cancelliera Angela Merkel, il presidente del Consiglio Ue Donald Tusk. Subito dopo ecco lui, Mahmoud Abbas, il presidente dell'Autorità nazionale palestinese.
I due leader mediorientali non si guardano. Non si sfiorano. Non si stringono la mano. Dopo alcuni minuti sono già ognuno per fatti suoi, lontani da quel luogo che - domenica 11 gennaio 2015 - è stato il centro, il cuore del mondo.
Nel tardo pomeriggio Netanyahu si presenta alla sinagoga principale di Parigi. Accolto come un eroe. Dietro di lui i suoi due ministri. Per «Bibi» è un trionfo, almeno politico. «Israele è casa vostra», dice il primo ministro ai fedeli. Facendo arrabbiare Hollande. E bollando la Francia come un Paese in cui gli ebrei non possono vivere.
(Falafel Cafè, 12 gennaio 2015)
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Netanyahu nella Sinagoga di Parigi per le vittime dei terroristi
Ringrazia la Francia e il musulmano che ha aiutato gli ebrei
PARIGI - Un solenne omaggio alle vittime degli attentati nella Grande Sinagoga di Parigi. Il presidente francese Francois Hollande e i primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu si sono recati insieme alla Grande Sinagoga di Parigi per ricordare le 17 vittime dei terroristi di questi giorni e in particolare quelli di religione ebraica.
"Voi avete il diritto di vivere totale e completa pace, con gli stessi diritti civili ovunque decidiate di vivere e in particolare in Francia" ha detto Netanyahu ringraziando le autorità francesi per il fermo impegno contro l'anti-semitismo.
"Voglio esprimere la mia ammirazione e il mio ringraziamento all'uomo di religione musulmana proveniente dal Mali che ha aiutato a salvare una famiglia ebraica" ha concluso il premier israeliano all'interno della Grande Sinagoga che era rimasta chiusa sabato, sull'onda dell'attacco terroristico, per la prima volta da decenni.
(askanews, 12 gennaio 2015)
Chi è meglio, il Papa o Maometto?
C'è qualcuno che si attenta a rispondere? Di questi tempi, lo so, la cosa può essere rischiosa. Ma non venire a dirmi che la domanda è mal posta, o che per me sono interessanti tutti e due o, viceversa, che a me non interessa niente né dell'uno, né dell'altro. Tu svicoli, caro amico, se fai così, e qualcuno un giorno potrebbe fartelo notare con un coltello sotto la gola. Da parte mia allora rispondo: è meglio il Papa. Sono romano di nascita, e pur essendo tutt'altro che ben disposto teologicamente verso il Papa, devo riconoscere che a Roma, sede centrale della cattolicità, da diversi decenni i non cattolici possono vivere tranquillamente senza pericolo di essere sgozzati da un momento all'altro se mai dovesse scappare loro di bocca qualche frase irriverente verso il Capo della cattolicità. Credo che in questo anche gli ebrei romani siano d'accordo, perché pur essendo stati sfruttati, emarginati, dileggiati in mille modi dalle autorità pontificie nei secoli scorsi, non hanno mai dovuto subire pogrom spaventosi come quelli avvenuti in altre zone d'Europa. Dirò di più, nella Roma pontificia dell'Ottocento i sudditi del Papa potevano permettersi osservazioni irriverenti che oggi ben pochi oserebbero fare in pubblico.
E per essere un po' risollevato da quella lugubre, religiosissima seriosità islamica di questi giorni, in cui si sono visti devotissimi musulmani che ammazzano e sono pronti a farsi ammazzare pur non di far perdere la faccia al loro veneratissimo profeta, ho voluto riprendere in mano i sonetti di Giuseppe Gioachino Belli. Molti sono irriverenti, certo, ma non deprimono, come forse le vignette francesi. Tra gli altri, ne ho trovato uno che spiega, in romanesco teologico, che cosa succede ad un'anima papale quando passa da un Papa all'altro. Ne propongo la lettura, per rinfrancarsi e non perdere amore per la vita. Un po' di romanità, all'ombra di un cupolone molto meno minaccioso di qualche altro, può far bene. M.C.
A proposito, ieri Totti ha salvato la Roma dalla sconfitta con la Lazio. Questo mha ricordato, visto che prima ho parlato del Papa, le parole di mia sorella, romanista come me. M'ha detto: "A Roma de Francesco ce ne sta uno solo: Totti.
Er passa-mano
Er Papa, er Viceddio, Nostro Signore,
E' un Padre eterno com'er Padr'Eterno.
Ciovè nun more, o, pe dì mejo, more,
Ma more solamente in ne l'isterno.
Ché quanno er corpo suo lassa er governo,
L'anima, ferma in ne l'antico onore,
Nun va né in paradiso né a !'inferno,
Passa subbito in corpo ar zuccessore.
Accusì ppò variasse un po' er cervello,
Lo stommico, l'orecchie, er naso, er pelo;
Ma er Papa, in quant'a Ppapa, è ssempre quello.
E ppe questo oggni corpo distinato
A quella indiggnità, casca dar celo
Senz'anima, e nun porta antro ch'er fiato.
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